PARTE PRIMA
La Stirpe Bastarda
Il destino del mondo si decide tra un giro di valzer e un consommé. I confini vengono tracciati fra una barzelletta e una galanteria, le guerre decise nella noia postprandiale, sui trattati occhieggiano macchie di borgogna e di grand cru.
All’alba del 6 settembre 1812, vigilia della battaglia di Borodinò, il prefetto di corte de Beausset ricevette un messaggio: il nano Orestino gli dava disposizioni in un bel corsivo panciuto e inclinato a destra. Subito de Beausset (quel de se l’era dato lui stesso) partì in carrozza da Valuevo, quartier generale di Napoleone, e tornò un’ora più tardi con un bagaglio recuperato in una stazione di posta a tre miglia dal campo. Indossata l’uniforme di corte, il prefetto fece introdurre la cassa nel primo scomparto della tenda di Sua Maestà. «Fate piano», la voce del nano, ovattata, proveniva da dentro il bagaglio. «Prestate attenzione, che diavolo.» De Beausset, con l’aiuto di qualche servitore, s’affrettò ad adagiare la cassa su due seggiole di fronte al gabinetto dell’Imperatore, alle prese con la toeletta mattutina. Quindi, aprì il coperchio: le spalle coperte da un manto viola fissato con una civetta d’argento, Orestino si stiracchiò. «Non mi dispiacerebbe consumare un pasto», disse. «Poi, richiudetemi.» De Beausset gli fece portare un vassoio cesellato con una 13
scena di putti danzanti sul bordo, su cui stava una testa bionda divelta dal colpo di un moschetto nemico. Orestino, il vassoio sulle gambe incrociate, con mani muscolose prese a portare alle labbra pezzi di materia rosacea. Ah, il cervello dell’essere umano: rugosissimo, e capace di pensieri dignitosi quali l’imbarazzo. Napoleone comparve prima del previsto, già agghindato di tutto punto e con la feluca «in battaglia», parallela alla linea delle spalle. Per fortuna, si trattenne sull’uscio a parlare col suo medico personale, così il prefetto, consigliato da Orestino, riuscì a stendere un panno in broccato su seggiole e nano. Congedato il medico, Sua Maestà s’accorse che gli stavano preparando una sorpresa, e non volle rovinarla. Finse di non vedere la tozza figura di de Beausset, impegnato a lisciare il broccato, e si fece chiamare il capitano Fabvier, collo lungo, gambe da corazziere. Con un severo corrugamento degli occhi Napoleone ascoltava quanto Fabvier gli diceva del valore e della fedeltà delle sue truppe. «Uh, e questo cos’è?» esclamò d’un tratto, vinto dalla curiosità, avvedutosi che tutti continuavano a sogguardare verso quella cosa, coperta da un panno. De Beausset lo trasse via con scarto da torero e annunziò, reprimendo il proprio accento da parvenu basco: «Ed ecco, a Vostra Maestà, Orestino». Napoleone sussultò e tutti applaudirono. Andò incontro al nano, gli porse la mano impreziosita dal sigillo imperiale e avvicinò le labbra al suo orecchio: «Non mi abituerò mai alle tue sorprese, che bravo che sei. Ma ora aiutami a inscenare la solita recita davanti a questi lacchè». Orestino annuì con la testa massiccia, quindi l’Imperatore assunse un’espressione marziale, con tanto di sopracciglio sollevato. Era visibilmente consapevole che quanto avrebbe detto ora sarebbe appartenuto alla Storia: «Come ogni volta, 14
nei momenti decisivi, avrò con me un gran burlone, nonché un servitore fidato». «Sì, son qui per sollazzarvi di nuovo coi miei servigi, Vostra Maestà.» Il nano, che si era congedato dalla corte dei francesi dopo la presa di Smolensk del 17 agosto, si esibì in un inchino. L’Imperatore inspirò a pieni polmoni, e replicò: «Siamo alla vigilia di una battaglia contro un’orda di contadini impreparati, su cui il mio fidato esercito prevarrà senza sforzo, così come a Lodi, a Marengo, ad Arcole, a Jena, ad Austerlitz, a Wagram, a Smolensk. Ma ora che ci penso, Orestino», si parò la bocca, «stavolta che facciamo con le truppe?» concluse sottovoce. «Ti ho mai deluso? Stai tranquillo, mio caro Bonaparte.» Orestino saltò fuori dalla cassa con un fruscio di mantello mentre Napoleone arrossiva: non era mai accaduto che quel nano gli parlasse così in presenza di altre persone. «Sono qui perché tu non ti accontenti. Non sarebbe da te. Né da me. “Sempre avanti” è il nostro motto, ricordi? Perché davanti hai gli occhi, dietro il sedere. E gli occhi sono senza dubbio più nobili del sedere, concordi? Quindi vengono prima, così che il sedere lo utilizzerai al massimo dopo che avrai vinto.» «Ovviamente, senza dubbio…» lo esortava a proseguire l’Imperatore, col suo caratteristico viso corrucciato che vagava tra gli astanti. «E sempre di più, caro amico Bonaparte, sempre di più. O non ne vuoi più, di più? È vero, i più sono spigolosi e ti graffiano le cosce nelle tasche. Mentre i meno son piatti e li puoi affastellare nella divisa da parata. Stanno addirittura all’occhiello. Ma non sei mai stato uomo da amare le comodità, mio caro Bonaparte, tu che dormi nei bivacchi coi soldati.» «Giusto, è capitato!» confermò Napoleone. «Sono qui perché tutto proceda e nulla ceda, perché il rosso rimanga rosso, magari un po’ più rosso, e gli odori volino là 15
dove ci sono più narici. Tutti i Grandi Uomini hanno quella dote a cui è difficile trovare un nome e anche un senso e anche un perché. Ma tu sei Napoleone, di questo non devi curarti. E, più di ogni altra cosa, giocherei volentieri a nascondino.» Si coprì il capo con un lembo del mantello, incurvando appena le spalle. Sua Maestà, immerso in profonde elucubrazioni, tardava a parlare a sua volta e dimenava graziosamente l’indice dentro all’orecchio. Per favorirne la concentrazione, de Beausset scacciò tutti dalla tenda. Solitamente si limitava ad aiutare Orestino ad apparire al cospetto di Sua Maestà per venire anch’egli subito congedato, ma ora, titubando qualche istante sulla soglia, ebbe il tacito privilegio di trattenersi. Da fuori provenivano i colpi del plotone d’esecuzione, il canto degli usignoli, i nitriti, gli schiamazzi dei soldati. Orestino indicò la soglia della tenda: «Senti senti, Napoleone, il tuo esercito ti acclama e ti attende. Esci e fatti osannare!» «Che piacere averti ritrovato, mio buon Orestino!» proclamò infine l’Imperatore e si avviò fremente verso l’uscita. Quando si mostrò alle truppe risuonarono, piene d’entusiasmo, le grida degli ufficiali e dei soldati della Vecchia Guardia. «Vive l’Empereur! Vive l’Empereur!» A de Beausset venne la pelle d’oca. Napoleone fece un inchino verso destra, uno verso sinistra e uno al centro. Rientrò, ma le grida continuavano. Quindi si sistemò eccezionalmente la feluca «in colonna», perpendicolare alle spalle come la portavano tutti i soldati. Uscì di nuovo, s’inchinò con una mano sul cuore, chiamò accanto a sé de Beausset e lo indicò alle truppe. I soldati esplosero in un altro urlo e il prefetto, non riuscendo a trattenere le lacrime, nascose il viso tra i guanti di capretto. Sua Maestà tornò definitivamente nella tenda, impettito e fischiettante. A de Beausset, che lo seguiva, parve che i suoi 16
passi avessero assunto l’allegra elasticità dei saltelli e, per sfogare la propria riconoscenza, ordinò, battendo le mani, che all’Imperatore venisse servita una ricca colazione sulla tovaglia delle cene ufficiali, quella che raffigurava la battaglia di Isso. Napoleone consumò pasticcini alla mandorla, spremuta di pompelmo maturo, uova strapazzate e caffè nero in compagnia del suo piccolo ospite, al quale era stato procurato altro cibo. Disquisirono amabilmente: di matrioske, di beccacce e di storni, dei parassiti degli olmi e di gemme di larice, di qualità di caviale e dei coltelli più adatti per spalmarlo sul pane. Finito il pasto, Orestino si fece serio e dettò all’Imperatore il testo della proclamation, prima che Napoleone lo dettasse alle truppe alla presenza di de Beausset: un passaparola che esemplifica l’edificante spirito di collaborazione di quella vigilia. «Soldati! Ecco la battaglia che avete tanto attesa. La vittoria dipende da voi. Essa ci è indispensabile. Che cosa vi importa di un giaciglio di piume, dei baci, di polli arrosto fumanti, di tacche sugli stipiti per misurare la statura dei vostri bambini? Che valore ha tutto ciò rispetto alla consapevolezza di aver reso grande la vostra Patria liberale? Che valore ha tutto ciò al confronto della speranza che, tra duecento anni, uno sconosciuto dall’altra parte degli oceani possa dedicarvi un pensiero perché il vostro supplizio gli avrà consentito di scegliere un tribuno in una lista circoscrizionale? Comportatevi come vi comportaste ad Austerlitz, a Friedland, a Vitebsk, a Smolensk. Possa la più lontana posterità, anche qualora voi siate sventrati da una baionetta, collezionare con orgoglio le medaglie da voi meritate in questa giornata. E di ciascuno di voi si possa dire: è morto reggendosi le budella come un sacco di patate, ma ha preso parte alla grande battaglia della Moscova!» Quell’intera giornata del 6 settembre l’Imperatore la passò col suo nano a giocare a nascondino. Napoleone aveva preso 17
da qualche anno l’abitudine di tenere lo sguardo alto, dritto verso un punto indefinito davanti a lui, e di ascoltare la voce di Orestino senza fissarlo. Tanto s’era abituato che, giunto alla campagna di Russia, se mirava per terra lo pigliava addirittura la vertigine. Orestino allora si distendeva sotto al mantello in qualche zona d’ombra, tratteneva la pancia e, sentendo avvicinarsi i passi dell’Imperatore, si scostava appena, per poi correre verso la tana rimasta sguarnita: «Salvo!» diceva, toccando la betulla presso cui Napoleone aveva poco prima contato fino cinquantuno. E c’erano armadi intarsiati in cui il nano poteva sparire, bauli colmi di gioie in cui immergersi, capannelli di guardie che s’azzuffavano per spartirsi i bottini tra le cui gambe confondersi, vittime del plotone accatastate in attesa della fossa tra le quali fingersi morto seminascosto da un corpo. Ogni volta che il nano, con tutto un violeggiar di mantello, sgusciava verso la tana, Sua Maestà accennava due passi d’inseguimento, si bloccava con le mani sui fianchi e scuoteva la testa. L’Imperatore, sessantotto centimetri più alto, non aveva lo stesso talento di Orestino, anche se era un buon mestierante del nascondarello: in altre occasioni aveva vinto più di una manche. Il suo cavallo di battaglia consisteva nell’ordinare a un soldato di cedergli i vestiti e nel fingere di picchettare la tenda, così da approfittare del momento giusto per correre verso la vicina betulla. De Beausset andava in visibilio per questa manovra del proprio Signore. Tuttavia, per quanto le guardie indossassero capi accorciati ma abbondanti in larghezza a imitazione del condottiero, per quest’ultimo rimanevano comunque lunghi e attillati. E il nano, quel 6 settembre, riconobbe ogni volta senza troppo sforzo, nel pingue soldato che incespicava sugli orli dei pantaloni, l’Empereur. «Tana per Bonaparte», diceva, il palmo sul tronco. Con levità giullaresca, rincuorò l’Imperatore per le scon18
fitte: col nascondino era stato sfortunato ma, all’indomani, sarebbe certamente stato consolato dalla vittoria sui russi. Napoleone allora si ringalluzziva, montava a cavallo, ispezionava la zona – Orestino stava in groppa dietro di lui – vagliando i piani strategici propostigli dai suoi marescialli, impartiva personalmente disposizioni ai suoi generali e, mangiando infine un paio di bonbon alla mandorla, sorrideva come nelle giornate più felici. Di ritorno dal secondo giro d’ispezione lungo le prime linee, con un bel mazzo di margherite in mano, Napoleone disse: «Mi sembra un campo di battaglia carinissimo!» Sul calar della sera, l’aiutante di giornata di nome Rapp entrò nella tenda e ascoltò le disposizioni dell’Imperatore che, più di ogni altra cosa, si preoccupava che non venissero sospesi i rifornimenti di ponce. Poi Napoleone, cogliendo la venerazione con cui l’aiutante di campo lo osservava, come attendendosi una manifestazione della sua grandezza, gli domandò: «Voi sapete, Rapp, che cos’è l’arte militare?» Formulò il quesito con gli occhi stretti e un sorriso malizioso, poi si confuse, e affondò il viso fra le mani. «Neanche io», mormorò tra le dita dopo qualche secondo. Il nano, montato su uno sgabello, bisbigliò nell’orecchio dell’Imperatore. Napoleone allora scrollò il capo, rinvenne, e dichiarò a piena voce: «È l’arte di mettersi in salvo prima del nemico. Voilà tout». L’azione principale della battaglia si svolse in uno spazio di un migliaio di ettari, fra il villaggio di Borodinò e i terrapieni su cui era schierata l’artiglieria del generale russo Bagration. Dopo alcune ore di combattimento, al contrario di quanto invariabilmente era avvenuto in tutte le precedenti battaglie, invece dell’attesa notizia che l’avversario era in fuga, le ben ordinate masse d’armati francesi tornavano indietro, in frotte disordinate e spaurite. Gli alti comandi le riordinavano, ma 19
il numero degli uomini, intanto, veniva sempre diminuendo. De Beausset non riusciva a spiegarselo e divorava nervosamente bonbon su bonbon. Verso la metà della giornata un aiutante del generale Murat entrò nella tenda dell’Imperatore e vi trovò il solo de Beausset che contava, in un angolo, di spalle, con la fronte appoggiata al dorso della mano: «Ventisei, ventisette…» «Signor de Beausset?» l’aiutante gli sfiorò una spalla. Il prefetto, eccezionalmente coinvolto in una partita, lo scacciò con un gesto: «Ventotto, ventinove…» L’aiutante notò allora che l’arazzo fiammingo al di là dello scrittoio formava un paio di protuberanze e non faticò a riconoscervi la barocca silhouette dell’Imperatore. Con un filo di voce, sussurrò: «Sua… Sua Maestà…» La testa di Sua Maestà fece capolino da dietro all’arazzo accompagnata da un indice guantato che, premuto sulle labbra, intimava all’aiutante di tacere: «Shhh!» Questi, pervaso da un moto di coraggio, riprese, ma sempre sussurrando: «Vostra Maestà, c’è bisogno dei Vostri ordini!» De Beausset si voltò: aveva finito di contare. Napoleone sbucò dal proprio nascondiglio e, scrollandosi la polvere dalla divisa turchina della Guardia, chiese spiegazioni. «Tana per Sua Maestà!» fece il prefetto con un inchino di scuse. L’aiutante inviato dal generale Murat, guardando alternativamente l’Imperatore e il prefetto, scusandosi più volte, riferì la rassicurazione che i russi sarebbero stati sbaragliati, se solo Sua Maestà avesse concesso un’altra divisione e… «Cucù!» escalmò il nano saltando fuori da una madia. L’aiutante stramazzò. «Rinforzi?» domandò Napoleone con stupore, come se non capisse le parole dell’aiutante, che si stava faticosamente rialzando. 20
«Rinforzi?» gli fece eco Orestino. «Che ragione hanno mai di chiedere rinforzi, se in mano a loro c’è metà dell’armata che preme sulla debole scoperta ala russa?» «Dites au roi de Naples», si decise allora Napoleone, severo, «qu’il n’est pas midi, et que je ne vois pas encore clair sur mon échiquier. Allez…» L’aiutante emise un profondo sospiro e uscì per montare in sella. E di nuovo al galoppo laggiù, dove si moriva. Scene simili si ripeterono con altri aiutanti, mandati da altri generali. Quando arrivò al galoppo l’ennesimo aiutante dal campo di battaglia trovò Napoleone – seduto ai piedi del ridotto a sorseggiare un ponce mesciuto da Orestino – impegnato a discorrere con de Beausset della pesca alla trota nell’alta Savoia. Prima che l’aiutante potesse finire di pronunciare «Sire, le prince…» Napoleone proruppe con un gesto di stizza: «Chiede rinforzi!» Sfinito da cotanta insistenza, Napoleone si risolse infine a dare ascolto a de Beausset: «Maestà, si potrebbe mandare la divisione di Claparède», disse il prefetto, conoscendo a memoria tutte le divisioni, i reggimenti, i battaglioni. Napoleone fece un cenno affermativo col capo. Subito l’aiutante galoppò verso la divisione di Claparède. E, pochi minuti dopo, la Giovane Guardia, che stava schierata alle spalle del ridotto, si mise in movimento. Napoleone, in silenzio, teneva lo sguardo in quella direzione. Orestino, dal basso, mormorava: «Claparède, la divisione di Claparède… come suona male! Claparède è il suono prodotto da qualcuno che cade da un albero e poi rotola un poco sul fogliame seccato… Claparède… un applauso venuto male: Claparède! Invece… Friant, come suona bene Friant! Dà l’idea del fragore, del ruggito. Di una frittura bollente e croccante… Friant…» 21
Napoleone gridò: «No!» rivolgendosi di nuovo a de Beausset. «Io non posso mandare là Claparède! Mandate Friant…» Sebbene non ci fosse alcun vantaggio – agli occhi dei comuni esseri umani – nell’inviare, al posto di quella di Claparède, la divisione di Friant, e anzi fosse evidente la confusione e il ritardo che avrebbe causato, a questo punto, arrestare Claparède e far muovere Friant, l’ordine fu eseguito a puntino, subodorando ognuno degli esecutori l’imperscrutabilità dei pensieri dei Grandi Uomini destinati a decidere la Storia. Tuttavia, nonostante si sforzasse di impartire gli ordini più astuti, Napoleone iniziava a provare una sensazione angosciosa. «Un’impressione simile a quella che prova un giocatore di nascondino sempre fortunato», confessò a de Beausset mentre andava di corpo su un pouf cavo rivestito di vitella. «Un giocatore che rischia pazzamente la sua gloria, giacché poi vince sempre: tutt’a un tratto, proprio la volta che ha ben calcolato tutte le eventualità della partita, sente che più verosimile si fa la prospettiva di una sconfitta.» Contemplato da un tumulo, il tremendo spettacolo del campo di battaglia, là giù in basso, in cui le margherite erano spampanate o coperte di sangue, sommato all’acidità di stomaco per i troppi ponce, aveva originato in Napoleone una sensazione di nausea. Per di più, Orestino pareva scomparso senza alcun preavviso. «Quando l’avete notato l’ultima volta?» domandò a de Beausset, che non seppe cosa rispondere. «Se di gioco si tratta», diede un’occhiata alla pendola, «si sta protraendo ben oltre il record di Austerlitz. Giusto ieri notte ho rivissuto un episodio di tanti anni fa: bevevamo in una bettola di Ajaccio e Orestino mi accennò di come un tal Marculo avesse giocato per l’ultima volta a dadi con Cesare sulle rive del Rubicone. È buffo, no, de Beausset, che mi torni in mente soltanto ora?» 22
Quel giorno, l’assenza del consigliere che l’aveva spalleggiato fin dai tempi della Guardia stava sopraffacendo la sua proverbiale fiducia nel destino. Le vertigini, la gravezza di stomaco e la consistenza liquida dei propri escrementi gli facevano sentire che era soggetto anche lui alla sofferenza e alla morte. «Provo solo un gran desiderio di dormire», rifiatò. «Ma dove diavolo s’è cacciato quel nano maledetto?»
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