Alessandro Sistri
IMPRESE STORICHE
RACCONTI DI AZIENDE CENTENARIE DEL RIMINESE
BANCA POPOLARE VALCONCA
A Gea e Riccardo che mi hanno regalato ricordi belli e buoni
Alessandro Sistri
IMPRESE STORICHE RACCONTI DI AZIENDE CENTENARIE DEL RIMINESE con un contributo di Alberto Giorgi
Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata Deroga a quanto sopra potrà essere fatta secondo le seguenti modalità di legge: • Fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume dietro pagamento alla siae del compenso previsto dall’articolo 68, comma 4, della legge 22 aprile 1941 n. 633 ovvero dall’accordo stipulato tra SIAE, AIE, SNS e CNA, Confartigianato, Casa, CLAAI, Confcommercio, Confesercenti il 18 dicembre 2000 • Le riproduzioni per uso differente da quello personale potranno avvenire solo a seguito di specifica autorizzazione rilasciata dagli aventi diritto/dall’editore Direttore editoriale: Roberto Mugavero Editor: Elisa Azzimondi Grafica e impaginazione: Alessandro Battara In copertina: Particolare di un diploma di premio alla ditta Luigi Dionigi e Figli 1913. Archivio aziendale Ottaviani.
ISBN 978-88-7381-818-2
MINERVA EDIZIONI Via Due Ponti, 2 – 40050 Argelato (Bologna) Tel. 051.6630557 – Fax 051.897420 info@minervaedizioni.com – www.minervaedizioni.com Copyright © 2015 Banca Popolare Valconca, Morciano di Romagna
È interessante riflettere sul termine “impresa”: noi siamo abituati a considerare questa parola solo dal punto di vista economico. In realtà compie un’impresa anche chi scala l’Everest o vince il Tour de France. Si potrebbe dire che imprenditore, dal punto di vista etimologico, è colui che comincia qualcosa “prendendosi sulle spalle” i rischi connessi. Mi pare che il termine “impresa” presenti molte analogie con il termine “avventura”, come è ben evidenziato in questo bellissimo volume. Alessandro Sistri, acuto osservatore dei fenomeni culturali del passato (e del presente), spiega molto bene questo aspetto, calandolo nello specifico della nostra terra e del carattere della nostra gente. Alla nostra gente estro non manca, voglia di fare neppure. Quanto a capacità di lavoro non è seconda a nessuno. Da questa esplosiva miscela sono nate iniziative davvero ragguardevoli. Nel libro vengono raccontate le gesta di cinque ‘imprese storiche’ del nostro territorio: lo stabilimento pirotecnico Dionigi - Ottaviani di Saludecio, il pastificio Ghigi di Morciano, il Grand Hotel di Rimini, la Tenuta del Monsignore dei Bacchini di San Giovanni in Marignano e le fisarmoniche dei Galanti di Mondaino. Sono storie fantastiche che a volte, soprattutto nel loro inizio, sembrano sconfinare nel mito. Eppure queste imprese devono la loro longevità non solo all’inventiva dell’imprenditore capostipite. Incorporate, infatti, nella esistenza dell’impresa ci sono molte esistenze, persone che hanno faticato giorno dopo giorno, a volte anche di notte per ciò che stavano costruendo e in cui credevano ed operavano. Da sola la genialità dell’imprenditore non sarebbe stata sufficiente a creare un’iniziativa di successo. È stato necessario il lavoro oscuro, ma esaltante, di tante donne e tanti uomini che in silenzio hanno costruito la fortuna delle aziende nelle quali operavano. Senza il lavoro di questa umanità, tutto sarebbe finito in pochi anni, come tante altre iniziative di cui non ricordiamo più nemmeno il nome. È vero: il lavoro può essere percepito come una maledizione per la fatica che comporta (Genesi 3, 19) oppure come una alienazione (Marx). Io preferisco pensare al lavoro come amore alle cose e alla realtà, come relazione con gli altri, come un modo per arrivare al compimento di sé e continuare, seppure in modo sempre imperfetto, l’opera della creazione. È ciò che scrive Charles Peguy in un suo famoso brano: Un tempo gli operai non erano servi.[…] Coltivavano un onore, assoluto, come si addice a un onore. La gamba di una sedia doveva essere ben fatta. Era naturale. […].Non occorreva che fosse ben fatta per il salario, o in modo proporzionale al salario. Non doveva essere ben fatta per il padrone, né per gli intenditori, né per i clienti del padrone. Doveva essere ben fatta di per sé, in sé, nella sua stessa natura […].E ogni parte della sedia che non si vedeva era lavorata con la medesima perfezione delle parti che si vedevano. Secondo lo stesso principio delle cattedrali. Le cinque imprese descritte nel libro (della festa, del cibo, dell’ospitalità, della terra e della musica) possano additarci una via antica e per questo sempre nuova perché, come scrive Eliot: C’è un lavoro comune/[…] e un impiego per ciascuno./Ognuno al suo lavoro.
Avv. Massimo Lazzarini Presidente della Banca Popolare Valconca
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Indice Introduzione Avventure di lavoro e umanità
p. 9
L’impresa della festa CAPITOLO 1: Meraviglie di fuoco Stabilimento pirotecnico Dionigi - Ottaviani a Meleto di Saludecio
p. 15
L’impresa del cibo CAPITOLO 2: Le mani in pasta Il pastificio Ghigi a Morciano di Romagna
p. 43
L’impresa dell’ospitalità CAPITOLO 3: La reggia del mare Il Grand Hotel di Rimini
p. 69
L’impresa della terra CAPITOLO 4: Campi, vino e sentimenti La tenuta del Monsignore dei Bacchini a San Giovanni in Marignano
p. 107
L’impresa della musica CAPITOLO 5: Suoni galanti Le fisarmoniche dei Galanti a Mondaino
p. 123
Nella pagina a fianco, diploma di premio alla ditta Luigi Dionigi e Figli 1913. Archivio aziendale Ottaviani. Nella pagina successiva, pubblicità del Pastificio Ghigi, anni 50. Tratta, per gentile concessione, dal volume Si mangia a occhi chiusi di Emilio Cavalli, Edizioni La Piazza, 2014.
Introduzione Avventure di lavoro e umanità Quando si prova a definire due categorie fondanti della cultura e della civiltà come quelle espresse dai termini Economia e Lavoro la mente corre subito ai numeri. In effetti sembra che niente possa esprimere il significato reale di questi ambiti meglio delle cifre, di espressioni matematiche, più o meno sofisticate, che portano a sintesi i risultati e l’incidenza concreta della multiforme attività economica e lavorativa. Cifre che parlano la lingua schietta (ma non per questo sempre facile da comprendere) di successi e insuccessi, profitti e perdite, di costi e ricavi, che raccontano di investimenti, produzione, andamento del mercato. Numeri che danno sostanza a tutta l’infinita serie di concetti e termini propri delle discipline economiche, finanziarie, statistiche e a molti di quelli che compaiono negli studi sociologici e storici. Succede così che i numeri vengano considerati non solo l’espressione più fedele e realistica dell'attività produttiva, ma spesso (recuperando forse la loro formidabile essenza magica) vengano anche ritenuti garanzia unica, quasi mistica, inconfutabile e sublime delle verità dell’homo faber. E allora è subito bene chiarire che, pur trattando di lavoro ed economia, la lingua che parla questo libro non è quella dei numeri, o meglio non è la lingua fondamentale di cui si fa uso perché non servirebbe a raggiungere lo scopo che mi sono proposto. La lingua utilizzata è piuttosto quella delle idee, dei pensieri di vita, delle vicende personali e collettive che si esprimono in ciò che oggi noi chiamiamo – e non potrebbe essere meglio nominata – impresa. L’impresa non è solo una “attività economica professionalmente organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni”1, ma è anche cuore, intelligenza, passione, entusiasmo e stanchezza, soddisfazioni e amarezze, impegno e sentimento di chi l’ha creata e di tutti quelli che ci lavorano dedicandole buona parte della propria vita. Il lavoro, con le relazioni che stabilisce tra gli individui, con i tempi, gli spazi e gli strumenti che gli sono propri, è fattore fondante della vita individuale e sociale ma spesso per molti, specialmente in certe mansioni, finisce per legarsi solo ai ritmi rigorosi che impone, ad abitudini e obblighi ripetitivi che affaticano e pesano sull’esistenza quotidiana. Eppure, come tutti sappiamo, se c’è un’attività umana che risente in modo diretto e al tempo stesso è motore anche delle più piccole variazioni sociali, questa è proprio l’attività lavorativa. La storia delle attività produttive, da quelle familiari a quelle con centinaia di dipendenti, è dunque una storia in senso proprio, un susseguirsi di vicende variegate e mutevoli, una narrazione al tempo stesso continua e discontinua, avvincente e, non di rado, autenticamente romanzesca, per l’intreccio che si crea tra eventi individuali e collettivi. Una storia calda di umanità che si presenta ben diversa da quella fredda dei numeri: non è un caso che i termini impresa e avventura trovino così solidi legami di significato. Se poi la storia di un’azienda può vantare un secolo, o comunque molti decenni di attività, ecco che la sue vicissitudini diventano espressioni chiarissime di profondi cambiamenti epocali che intervengono non solo sul versante economico. Si può senza dubbio affermare che pochi ambiti entrino in relazione così diretta e veloce con la storia come quello del lavoro e della sua organizzazione, creino innovazioni così profonde e rispondano prontamente a stimoli che arrivano dalle trasformazioni tecnologiche, sociali, politiche, culturali, di costume e perfino psicologiche. 9
Imprese Storiche
Il rapporto tra ciò che veniva chiamato “macrostoria” – quella delle grandi e fondamentali vicende collettive – e “microstoria” – quella degli individui e dei comportamenti comuni, dei piccoli gruppi e piccoli territori – è stato chiarito ormai da tempo. Il confine tra i due ambiti si è assottigliato fino quasi a scomparire e oggi è usuale ritenere che vicende e pensieri di piccole e specifiche realtà possano, se ben trattate, rappresentare qualcosa di grande e profondamente importante per la memoria generale, per la comprensione del passato e della contemporaneità. Dal punto di vista storiografico è evidente come il concetto di piccolo si sia fortemente relativizzato. In questo libro si è cercato di mettere insieme storie di lavoro, economia e umanità capaci di mostrare proprio come dietro a realtà di dimensioni ridotte si muova sempre lo scenario di ampi mutamenti, e come questo scenario risulti più facile da mettere a fuoco e interpretare grazie alla traccia lasciata dall’impegno quotidiano di tutti quelli, dal padrone al più giovane dei garzoni, che hanno vissuto le avventure di imprese dalla memoria centenaria. Dunque non analisi di archeologia ne tantomeno di economia industriale, riferite ad aziende la cui presenza si è persa e spenta nel tempo, ma piuttosto la “semplice” ricostruzione di un passato di idee e fatiche che ancora oggi segna produzioni di qualità.
Tracce di storia e geografia produttiva Le imprese, grandi e piccole, oltre a procurare di che vivere alla gente, danno forma e sostanza ai luoghi: l’imponente fabbrica come la bottega artigiana, l’emporio come il piccolo negozio, l’albergo come la banca, arrivano a essere riferimenti primari dell’identità locale, luoghi di riconoscimento di una comunità e delle sue vicende nel tempo. Così la storia delle attività produttive può rappresentare uno dei quadri più realistici della vita locale, tracciando con precisione le linee di sviluppo e le metamorfosi dei centri in cui esse operano. Le imprese che trovano posto in questo studio sono senz’altro tra quelle storicamente più significative del territorio preso in considerazione, però la selezione è avvenuta non solo in base a un criterio puramente temporale, il secolo o i molti decenni di attività, ma anche seguendo un criterio che si può definire rappresentativo. Ognuna di esse rappresenta una tipologia produttiva e imprenditoriale nata in riferimento a un territorio (con le sue specifiche vocazioni che spesso trovano in qualche modo seguito e conferma nell’impresa stessa) ma testimonia anche la forza di idee originali, di intuizioni individuali che diventano potente fattore economico per un’intera popolazione. Sono dunque aziende con produzioni e dimensioni molto diverse fra loro, imprese che colgono aspetti disparati della società locale e nazionale: c’è la campagna antica che deve diventare moderna, c’è la produzione alimentare d’epoca industriale che contribuisce a dar forma alla “società dei consumi”, ci sono aziende che si cimentano in serissime produzioni “ludiche”, e un’impresa che rappresenta, come meglio forse non si può, l’economia fondamentale della terra riminese, quella dell’ospitalità turistica. È evidente che per avere un quadro non dico completo, ma anche semplicemente più indicativo dell’economia locale, accanto alle aziende di cui si parla in questo volume dovrebbero apparirne molte altre; quelle trattate forse bastano per segnare una prima traccia narrativa e analitica che andrebbe metodologicamente precisata e senza dubbio ampliata nel numero dei soggetti produttivi presi in considerazione. Grazie alle storie delle imprese trattate scaturisce comunque un quadro vivo, variegato, sotto certi aspetti inedito, di un mondo della produzione e del lavoro rappresentativo delle diverse facce di una società che in cent’anni vede formidabili trasformazioni. 10
introduzione
La vita e la dislocazione di queste imprese tracciano una storia e una geografia produttiva che vanno a confermare come il lavoro rappresenti un basilare patrimonio locale, non un semplice fattore di sostentamento e formazione professionale degli individui, ma un elemento culturale in senso proprio, che spesso agisce sulle caratteristiche più profonde di una comunità, addirittura sulla psicologia comunitaria. Prendiamo, per capirci meglio, l’esempio di alcune aziende che vengono trattate nel libro. Il Pastifico Ghigi è stato per Morciano di Romagna quello che la Fiat è stata per Torino; lo è stato (fatte le debite proporzioni) in senso economico ma anche, come andava di moda dire tempo addietro, dal punto di vista socio-culturale. L’antica propensione alla modernità di un centro geograficamente strategico per il commercio e i servizi come Morciano incrocia, nel 1870, un’iniziativa privata che cresce piuttosto velocemente per divenire vera e propria industria e si evolve nel corso di un secolo fino a costituirsi come una realtà produttiva di rilievo nazionale. Una realtà arrivata a impiegare circa 400 addetti e che (considerando famiglie e indotto) si può dire coinvolgesse praticamente tutta la cittadinanza. Il paese ruotava, non solo sotto il profilo urbanistico, intorno alle imponenti strutture della Ghigi: la sua gente aveva assorbito in vari modi i meccanismi di aggregazione, la gerarchia e i ritmi imposti dalla fabbrica, segnati anche simbolicamente dal suono delle sirene aziendali che scandivano la giornata di tutti i morcianesi come potenti campane della moderna liturgia del lavoro a catena. La Ghigi fu motore dello sviluppo del paese e tutta la comunità assunse ben presto caratteristiche industriali e commerciali ben diverse da quelle rurali e tradizionali che tanti paesi e cittadine della zona mostravano ancora oltre la metà del Novecento. Le stesse dinamiche sociali del paese, finirono tutte per interagire con l’azienda e al suo declino anche la comunità si trovò nella necessità di reinventarsi in qualche modo, di individuare nuovi punti di riferimento non così facili da ricostituire. Esempio assai diverso di profonda influenza di un’impresa su un ambito locale è quello del Grand Hotel di Rimini, inaugurato nel 1908. Al contrario del caso precedente quest’impresa, pur esercitando un peso significativo, non può ovviamente contare – considerando la sua stessa tipologia e l’ampia scala di riferimento – su risultati economici e volumi occupazionali tali da risultare “decisivi” nell’ambito cittadino. Con il Grand Hotel l’industria balnearia riminese di inizio Novecento si pone l’obiettivo di consolidare un’offerta d’alto livello rivolta a quella fascia di ospiti del bel mondo che all’epoca frequenta e qualifica le migliori stazioni balneari europee e italiane; presto, già tra gli anni Venti e Trenta, si capisce però che in città si sta delineando sempre più chiara l’intenzione di orientarsi verso un contesto finalizzato al turismo dei grandi numeri, un contesto non proprio in linea con i servizi fortemente esclusivi e la stessa “mission aziendale” del Grand Hotel. Senza dubbio si tratta della più grande e prestigiosa struttura alberghiera cittadina e romagnola ma a renderla davvero importante non sarà tanto l’impatto, pur rimarchevole, sull’economia, quanto piuttosto quello sull’immaginario locale. Rimini, il sontuoso albergo e la comunità mondana che lo frequenta si uniscono in un connubio simbolico che ebbe, e ancora ha, un considerevole peso nel pensiero della città. Federico Fellini farà il resto: le sequenze del Grand Hotel con il suo trasognato mondo che più volte tornano in ’Amarcord diventano a tutti gli effetti parte connotativa dell’immagine e dello stesso carattere riminese. Anche in questo caso un’impresa, con tutte le sue vicende e le sue caratteristiche, si delinea come elemento insostituibile dell’identità materiale e immateriale di un luogo, tassello di una storia che si sviluppa non esclusivamente sui numeri di un’attività economica, ma che si arricchisce di idee, di immagini e modelli di vita, addirittura della fantasia non solo degli imprenditori che le danno origine ma di intere comunità. Evidentemente le imprese, quando sedimentano nel tempo e nello spazio sociale, non sono solo Economia ma anche Cultura, motori di pensieri, rappresentazioni e comportamenti collettivi.
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Imprese Storiche
Coordinate La prima azienda trattata nel libro risale a pochi anni dopo l’Unità d’Italia: a nessuno sfugge che i 150 anni che seguono sono quelli che hanno visto, a livello locale e globale, un processo di mutazioni profonde, radicali e accelerate difficilmente riscontrabile in altre epoche. Se è certo che i semi della società industriale occidentale sono gettati e (in alcuni luoghi) cominciano a radicare già nel XVIII secolo, è altrettanto vero che molte strutture economiche, sociali e comportamentali pre e proto-industriali di lunga durata permangono fino alla metà del Novecento. Questa è anche la situazione del territorio preso in considerazione in questo studio, che per posizione, caratteristiche fisico-georafiche, quadro sociale e politico generale, sembra rientrare sostanzialmente in una compagine “media” dell’evoluzione economica e produttiva italiana. In altre parole si può dire che, considerando l’assai disomogeneo quadro nazionale, l’assetto economico dell’ambito riminese2 fino ai primi decenni del Novecento è in definitiva quello che si riscontra in quelle parti d’Italia che seguono uno sviluppo non segnato da fenomeni estremi di arretratezza ma neppure di particolare modernità industriale, fatta salva, per la zona di costa, la nascente, limitata, ma interessante, filiera dell’attività turistica. Vi è una netta prevalenza del settore agricolo (con tutte le attività commerciali e artigianali collegate) praticamente sulla totalità del territorio, prevalenza che si spinge fin nelle città e sulle coste, in larga parte ancora completamente prive di urbanizzazione e coltivate fino a pochi metri dal mare. I servizi collettivi e gli esercizi commerciali di maggior importanza si sviluppano negli ambiti cittadini e paesani più densamente popolati, le sporadiche attività manifatturiere, di variabili dimensioni ma comunque piuttosto piccole, sono distribuite sul territorio ruotando spesso, ma non esclusivamente, intorno ai centri maggiori, senza però dar luogo, a quanto risulta dai dati disponibili, a effettive concentrazioni di carattere industriale. Unica considerevole eccezione per le aree interne, che però rientra nell’ambito storico e geografico del Montefeltro, piuttosto che in quello del Riminese inteso in senso stretto, è quella, assai studiata in tutti i suoi vari aspetti, della miniera di zolfo di Perticara, una realtà estrattiva di rilievo nazionale e addirittura europeo, che vanta origini antiche e che, a partire dalla sua acquisizione da parte della Montecatini avvenuta nel 1917, vedrà un imponente sviluppo, giungendo, nel 1938, a impiegare direttamente più di 1600 unità3. Altra eccezione invece del tutto “ cittadina”, anche questa già oggetto di studi specifici, è quella delle Officine Ferroviarie di Rimini, nate nel 1912, che si presentano a tutti gli effetti come una realtà “industriale” di un certo peso nell’ambito riminese4. Alcuni approfonditi studi sulla storia economica dell’area riminese forniscono un quadro statistico significativo che, pur nell’inevitabile disomogeneità dei dati raccolti in diverse epoche, riassume comunque in modo credibile la situazione 5. Nei 50 anni a cavallo tra Ottocento e Novecento la popolazione attiva nel settore produttivo dell’agricoltura varia dal 64,9 % del 1871 al 60.4% del 1921, con andamenti che vedono qualche più o meno importante oscillazione, riportando per il 1901 il 66,6% e per il 1911 il 56,9%. Tutto ciò che viene indicato come industria (dalle attività estrattive al tessile, dalla lavorazione del legno al settore alimentare)6 si muove dal 15,4% del 1871 al 13,0% del 1921, con un’impennata al 17, 2% del 1911. Nel periodo che va dagli anni Trenta agli anni Sessanta del Novecento, tracce antiche e spinte moderne si fronteggiano e si intrecciano in una compagine sociale che da un lato vede la permanenza di un mondo tradizionale (economia agricola, insediamenti rurali, allevamento, pesca, cultura contadina e marinara ecc.) ancora significativo ma in progressiva disgregazione, e dall’altro del mondo delle moderne economie (turismo, industria, commercio, servizi) e moderne aggregazioni (spopolamento delle aree interne e incremento della popolazione sulla costa e in pianura, cultura di massa legata al boom economico, ecc...) che si vanno velocemente affermando. Per il periodo che va dal 1936 al 1971 il settore agricolo precipita dal 59,5% di impiego della popolazione attiva all’11,5%, mentre le “industrie” salgono dal 15,7% del 1951 al 24,1% del 1971, percentuale che co12
introduzione
munque indica una situazione di industrializzazione non certamente massiccia. Dato estremamente significativo è quello del commercio che nel 1936 occupa il 7,6 % degli attivi e nel 1971 arriva al 24%, raggiungendo addirittura il 31% nei comuni costieri7. Le imprese che trattiamo in qualche modo rendono conto di questa situazione. Nell’area della Romagna del Sud si riscontra un intreccio di attività di estremo interesse che insieme alle opposizioni classiche campagnacittà, agricoltura-industria comincia a mostrare piuttosto presto, addirittura sul finire dell’Ottocento e i primi anni del XX secolo, l’interazione con la componente innovativa dei servizi per l’ospitalità e la vacanza. Un settore, quello della vacanza balneare che, pur concentrato nell’area di costa, risulterà capace di “contagiare” in vari modi e con andamento crescente anche le aree interne, in termini di attrazione lavorativa, di opportunità legate alla filiera del turismo, di indotto generale, di adesione a modelli di vita moderni, extra-locali, extra-regionali. Data questa situazione in definitiva “frammentaria” che vede una solida monocultura economica legata al turismo presente sulla costa convivere con un’eterogenea serie di attività industriali di piccole–medie dimensioni sparse sul territorio, viene da chiedersi dove si possano trovare le tracce di attività economiche con un passato lungo un secolo. Non potendo contare – sempre fatto escluso il turismo – sulla presenza di forti poli settoriali (es. chimico, metallurgico, agricolo, meccanico, ecc...) la risposta che scaturisce è la più ovvia ma anche la più vera. Queste tracce, queste piccole storie della contemporaneità, si trovano dappertutto, al mare come in campagna, in città come nei paesi e nei borghi, nei comparti produttivi più moderni come in quelli più “arcaici”. Ne esce uno strano mosaico che spesso vede alcune tessere combinare a fatica con le altre, fino a formare un’immagine poliedrica, per certi tratti “schizofrenica” – così come schizofrenica è stata per molti decenni l’economia di questo territorio – che, soprattutto dopo la Seconda Guerra Mondiale, è da un lato evidentemente caratterizzata dalla dinamicità sociale oltre che economica della costa, e dall’altro dalla staticità, non di rado solo apparente altre volte reale, delle aree più interne. Forse il racconto delle vicende e del lavoro delle imprese che si trovano in questo libro può contribuire a disegnare alcune delle coordinate oggi meno in luce dell’economia riminese, ma soprattutto, ci si augura, può rendere onore a chi si è impegnato, lavorando in tutti i ruoli e nelle più varie mansioni, per farle vivere e prosperare.
Note 1) Articolo 2082 del Codice Civile Italiano. 2) Si intende per “ambito riminese” il territorio della Provincia di Rimini nella sua estensione storica precedente alla inclusione dei 7 comuni dell’Alta Valmarecchia che rientrando nella Regione Marche fino al 2009, appartenevano alla Provincia di Pesaro e alla regione storica del Montefeltro. 3) Tra i numerosi testi riferiti alla storia della Miniera di Perticara si possono segnalare Giorgio Pedrocco Zolfo e Minatori nella Provincia di Pesaro e Urbino (Urbania, 2002) e i libri fotografici di Ido Rinaldi Perticara, la miniera di zolfo, la sua gente (Verucchio 1988) e La miniera di zolfo di Perticara. Storia per immagini (Verucchio 1998 ). Una ampissima documentazione documentaria e materiale è raccolta nel Museo Storico minerario “Sulphur” di Perticara, che ha anche redatto un ricco Inventario dei fondi archivistici conservati a cura di Silvia Crociati presentato nel 2014. 4) Si veda Alessandro De Cecco, L’officina locomotive di Rimini, Un’isola nella città. Panozzo Editore, Rimini, 2013. 5) Fabio Silari, I bagni ed altro. L’evoluzione dell’industria e dei servizi nel riminese dalla metà dell’Ottocento alla fine del Novecento. In Economia e Società a Rimini tra Ottocento e Novecento, p. 191. Cassa di Risparmio di Rimini, 1992. 6) Ibid. 7) Ibid., pp. 194–195.
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I. MERAVIGLIE DI FUOCO
Stabilimento Pirotecnico Dionigi - Ottaviani a Meleto di Saludecio
L’impresa della festa
Un lavoro che ha un’evidente anima magica, che vive sulla meraviglia, non può che avere origini che si perdono nella leggenda. Così si racconta che a Luigi Dionigi, nato a Meleto il 25 febbraio 1848, l’idea di spendere la propria vita a stupire la gente venne grazie a un frate che gli regalò, mentre lo aiutava nelle funzioni religiose, un libro pieno di ricette per preparare pericolose miscele, non tanto diverse da quelle dei misteriosi testi alchemici1. Fatto sta, vera o no che sia questa storia, che quelle formule portarono davvero oro nelle tasche del giovane Luigi e dei suoi eredi. Si trattava, mettendo insieme carbone, zolfo, salnitro, verderame, sodio, bario, alluminio, potassio e decine d’altre sostanze, di evocare forze buone e festose capaci di colorare il cielo e riempire gli occhi. Al giovane, sveglio e intraprendente, si era presentata l’occasione, più unica che rara, di sperimentare uno straordinario gioco, quello di confezionare rudimentali fuochi d’artificio, di creare piccoli prodigi di luce indispensabili per fare bella la festa della parrocchia nell’anno 1862. Luigi, visti i primi incoraggianti risultati, si appassionò, com’è facile immaginare, a un lavoro che ha pochi eguali in termini di creatività e spettacolarità. Qualche anno
dopo, la data ufficiale riportata sulle carte aziendali è il 1866, o appena più tardi, nel 18682, nasce lo Stabilimento Pirotecnico Luigi Dionigi: un’ azienda che diverrà tra le più importanti della nazione, attiva, nella sua storia di un secolo e mezzo, in un vasto ambito italiano ed estero. Luigi è giovane, costruisce le basi dell’impresa che non ha nemmeno vent’anni, ha un vero talento per quell’arte tutta speciale, è un lavoratore creativo e instancabile cui non manca, sin dall’inizio, una concreta capacità imprenditoriale. Diventerà lo stimato e autorevole fondatore di un’azienda famosa, il capostipite di una famiglia che conquisterà prestigio sociale e rispetto in tutta la comunità locale. Anche il posto dove sono nati i “fuochi Dionigi” ha qualcosa di speciale. Meleto, il borgo che a un certo punto lavorerà tutto per la ditta Dionigi, è un piccolo e appartato castello, tutto cinto di mura, appoggiato sulle colline ancora romagnole che, da un lato guardano al mare e alla costa riminese, e dall’altro alle terre marchigiane di Pesaro e di Urbino. Un castello rurale, un villaggio antico a guardia di campagne produttive che rientrano sotto il controllo di Saludecio, paese di lunga e ricca storia della media valle del Conca. Meleto, come
Disegno schematico di “fuoco fisso” da un manoscritto di fine anni Venti. Archivio aziendale Ottaviani.
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Imprese Storiche Immagine di Luigi Dionigi negli anni Venti. Archivio aziendale Ottaviani.
succede a molti luoghi che incrociano il proprio destino con una buona idea imprenditoriale, diventerà un tutt’uno con “i fuochi”, anche se in pochissimi, rispetto all’enorme quantità di persone che, in più di un secolo, rimarranno abbagliate dalle meraviglie di fuoco che qui sono nate, conosceranno il suo nome. Le vicende Tutto comincia dunque con Luigi Dionigi, classe 1848, figlio di Giovanni e Marianna Del Bianco. Secondo la testimonianza di Angela Gallo, moglie di Anthos, nipote del fondatore, Luigi arriva da una famiglia di agricoltori e, qualunque siano i motivi e le circostanze che lo ispirarono, cominciò a dedicarsi alla pirotecnica giovanissimo, tanto che, a meno di vent’anni, aveva già fatto dei “fuochi” una vera e riconosciuta professione3. All’inizio i suoi spettacoli, più o meno articolati, sono 16
richiesti in cerimonie e avvenimenti non lontani da Meleto, ma Luigi evidentemente è bravo, l’intuizione imprenditoriale è giusta e al successo contribuiscono diversi fattori: il “mercato dei festeggiamenti” è in espansione, la nascente nazione, che prova in tutti i modi a darsi un’identità, ha bisogno di nuove ritualità collettive e, su un vasto territorio circostante, non risulta presente alcuna significativa concorrenza. Sempre secondo la testimonianza di Angela Gallo, sembra che Luigi, all’inizio dell’attività, per acquisire maggiore esperienza in un mestiere così particolare e pericoloso, si sia servito, come collaboratore, di un operaio specializzato proveniente dall’Italia meridionale. Fatto sta che la “fabbrica dei fuochi” di Meleto comincia così, tra il 1866 e il 1868, la sua storia di conquista di un mercato sempre più vasto, tanto da porsi già come una solida realtà imprenditoriale quando nel 1883, Luigi prende in moglie Nazzarena Dini, di tredici anni più giovane e da cui ebbe quattro figli. Giustino nasce nel 1889, Elisabetta nel 1895, Maria nel 1897 e Giovanni nel 1901, tutti parteciperanno in maniera diretta, seppur con ruoli differenti, al lavoro dell’azienda. Nel 1889, in concomitanza con la nascita del suo primo figlio, Luigi Dionigi acquista una rilevante porzione del palazzo priorale di Meleto, nel 1890 amplia la proprietà e costruisce un “capanno con uso pirotecnico”4. Appena fu possibile, l’attività coinvolse anche tutta la seconda generazione, e lo stabilimento, a sottolineare la volontà di un graduale passaggio di testimone, prese il nome di Stabilimento pirotecnico Luigi Dionigi e Figli5. Inizialmente l’attività è rivolta soprattutto verso le non poche ricorrenze religiose che si svolgono nei paesi e nelle numerose parrocchie e chiese sparse sul territorio al confine tra Romagna e Marche. Il mercato
meraviglie di fuoco
Il palazzo priorale di Meleto sede storica dello stabilimento Dionigi. Fotografia di Luciano Liuzzi, 2014.
dei festeggiamenti religiosi e patronali, che segnano buona parte dell’anno, è decisamente ampio e continuativo e risulta fondamentale per l’impresa di Luigi. Si tratta di occasioni più o meno ricche – si va dalla richiesta di semplici bombe scure per i percorsi processionali delle varie Madonne del giro a veri spettacoli pirotecnici –, ma tutte si svolgono secondo formule dove i fuochi hanno spesso un ruolo irrinunciabile nel rituale collettivo. Le occasioni civili e laiche, di per sé non così numerose all’epoca, si affacciano anch’esse sul mercato pirotecnico, ma nei primi decenni post-unitari non possono competere, almeno in quantità e continuità, con le occasioni legate alla ritualità del calendario cattolico ufficiale e locale. Qualcosa cambia nei decenni che chiudono il XIX secolo e, ancora di più, in quelli che aprono il XX. Le profonde mutazioni culturali, sociali, politiche che segnano quel periodo, si riflettono in modo diretto e assai evidente sull’attività dell’azienda. C’è da dire che, a livello locale, un elemento
innovativo, destinato poi a divenire molto importante, aveva già fatto i primi passi con la nascente “industria balnearia”, con quel mercato della vacanza che a Rimini prese avvio già a metà dell’Ottocento. La vacanza al mare, seguendo una moda consolidata nelle stazioni balneari del Nord Europa, si costituisce subito come dichiarata occasione ludico-mondana, dove i “magnifici artifici pirotecnici”, che contribuiscono a rendere gioiose le notti dei primi bagnanti, rientrano nei vari programmi di intrattenimento degli ospiti estivi, e quindi considerati come una componente spettacolare primaria sempre più richiesta e consueta. Una serie di importanti e pregevoli documenti (anche dal punto di vista estetico), come diplomi, premi e riconoscimenti ufficiali, testimoniano un’attività laica fortemente strutturata già agli inizi del Novecento, con un raggio di azione chiaramente extra locale e una notorietà aziendale ormai acquisita. Nel 1905, per esempio, lo stabilimento vince il primo premio 17
Imprese Storiche
Diploma, 1905. Archivio aziendale Ottaviani.
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con medaglia d’oro nella gara pirotecnica di Trieste e ancora il primo premio al concorso pirotecnico organizzato dal Risveglio cittadino di Bologna. Nel 1906, la Società Grandi Alberghi, che opera a Rimini, premia i Dionigi per i loro emozionanti spettacoli. Lo stabilimento all’epoca è dunque già affermato e può vantare quarant’anni di solida esperienza aziendale. Negli anni che precedono lo scoppio della Prima Guerra Mondiale, l’impresa dei Dionigi si consolida ulteriormente: lo testimoniano in qualche modo l’affermazione sociale ed economica della famiglia e i tanti e continui riconoscimenti in vari concorsi pirotecnici che si svolgono in un ambito non esclusivamente locale, grandi gare nazionali, a cui partecipavano diverse aziende, allora assai in voga e che raccolgono un vastissimo pubblico pagante. Nel 1910, i Dionigi si classificano primi nei concorsi di Urbino, Pesaro e Fano, nel 1913 e nel 1915 sono vincitori dell’importante gara pirotecnica di Bologna. Da quello che si può ricostruire, all’epoca lavoravano nel laboratorio circa una
quindicina di addetti, considerando tutte le mansioni, da quelle di fabbricazione a quelle di allestimento degli spettacoli. Con lo scoppio della guerra, tutte le fabbriche pirotecniche sospesero l’attività, per l’arruolamento degli addetti e per motivi direttamente legati alle necessità belliche, che richiesero al settore degli esplosivi tutto l’impegno possibile. Bisogna dunque aspettare la fine del conflitto per vedere riavviata una solida produzione. Gli anni Venti rappresentarono per l’azienda un periodo di vero splendore. Lo stabilimento Luigi Dionigi e Figli conquista fama nazionale e non passa anno in cui non venga insignito di prestigiosi riconoscimenti e premi. Si comincia con il primo premio e medaglia d’oro al concorso pirotecnico nazionale di Genova del 1920, nel ’22 il primo premio a Modena, così come a Bologna nel ’23. Nel ’24 e nel ’25 ad Ancona e ancora a Genova. Nel 1927, ben tre i primi premi: a Como, a Roma, in occasione della grande Esposizione Campionaria, e a Bologna. Nel 1928,
Fregio della carta intestata dello Stabilimento Pirotecnico Luigi Dionigi e Figli, anni Venti. Archivio aziendale Ottaviani.
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Diploma, 1927. Archivio aziendale Ottaviani.
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i Dionigi vincono ancora il primo premio a Bologna, nel ’29 a Udine e poi ancora a Bologna alla Fiera del Littoriale. Il 16 settembre 1929, all’età di 81 anni scompare Luigi, il fondatore, che come recita il necrologio, «nell’arte pirotecnica per ingegno e costanza ammirevoli si rese grande insuperato meritò premi onori fama». L’eredità imprenditoriale lasciata a Giustino e Giovanni è solida e gli affari continuano ad andare bene. Gli anni Trenta cominciano all’insegna di ulteriori successi e della conquista di un nuovo prestigioso mercato: le meraviglie di fuoco che nascono a Meleto attraversano il mare e si muovono al seguito dell’avventura coloniale italiana. Nel 1930, a Meleto si confezionano i fuochi della Fiera Campionaria Internazionale
di Tripoli e, nel ’31, l’arte pirotecnica dei Dionigi celebra, sempre a Tripoli, la Festa dei Principi di Savoia e la Fiera d’Aprile. Nel 1932, dal carteggio aziendale, risulta l’invito alla fiera commerciale internazionale di Bruxelles. La mole del carteggio testimonia anche un successo della ditta di ampie dimensioni, che porta le creazioni pirotecniche Dionigi in giro per tutta l’Italia. All’epoca lo stabilimento può contare su tre consistenti filoni di mercato: quello tradizionale religioso, quello turistico e quello politico. Nel complesso si può dire che il Ventennio fascista per i Dionigi fu periodo di abbondante e soddisfacente lavoro. In quel periodo aumentano notevolmente le occasioni laiche, si moltiplicano le ri-
Diploma, 1927. Archivio aziendale Ottaviani.
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correnze civili legate all’intensa opera di irreggimentazione sociale e di celebrazione politica del Regime. Il Fascismo festeggia tanto e continuamente: i fuochi d’artificio, con il loro maschio vigore e le loro spettacolari suggestioni guerriere, entrano efficacemente in tutte le piccole e grandi celebrazioni dell’articolato rituale politico. All’epoca risale l’episodio cui si riferisce Anthos Dionigi in un suo ricordo quando racconta che «noi della Dionigi a momenti ammazziamo Mussolini». Il fatto è questo: a Predappio, durante un’importante ricorrenza, il Comitato dei festeggiamenti ha deciso che, mentre si aspetta il Duce, si spari un potente botto ogni 15 minuti. Uno dei razzi parte proprio mentre un aereo sta sorvolando la cittadina: il razzo sfiora l’aereo e l’esplosione lo fa sbandare. Dopo pochi minuti i fuochini della Dionigi vengono circondati da uomini con le armi in pugno e accusati di aver compiuto un grave attentato alla vita di Mussolini. Giustino è portato via e interrogato ma, per fortuna, i responsabili dei festeggiamenti riescono a chiarire la cosa e a dimostrare la buona fede dei Dionigi6. Dopo il 10 giugno del 1940, quando l’Italia entra in guerra, qualche sparuto fuoco d’artificio forse si sparò ancora, ma ben presto nessuno ha più voglia di esplosioni e luci abbaglianti in cielo: quelle terrificanti delle bombe e dei bengala degli Alleati avrebbero spazzato via, di lì a non molto, tutta la voglia di far festa degli italiani. Con lo scoppio della guerra, ovviamente, per la ditta Dionigi tutto si ferma, chi ha una qualsiasi esperienza di esplosivi lavora per l’industria bellica nelle polveriere di Stato e neanche un grammo di polvere va sprecato. Concluso il conflitto Giustino e Giovanni cercano subito di riprendere l’attività. Non è facile ma, insieme a qualche operaio con buona esperienza e qualche nuovo addetto, riescono a riattivare completa22
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mente il laboratorio e presto, grazie anche alla fama della ditta, recuperano un buon circuito locale ed extra-locale di spettacoli pirotecnici. Le cose cominciano così a risistemarsi: nel 1949 la Ditta Dionigi è protagonista delle Feste Garibaldine di San Marino e nel 1950 i suoi fuochi illuminano i festeggiamenti della Fiera Campionaria Internazionale che si tiene a Padova. Appena possibile anche i giovani Anthos, classe 1926, e Arnaldo, classe 1934, figli
di Giustino, sono coinvolti nell’azienda con diverse mansioni, insieme a tutti gli altri membri della famiglia rimasti a Meleto e dintorni. Si riavvia con successo un intenso lavoro legato nuovamente ai tre ambiti festivi in cui si era espressa l’attività aziendale nei decenni che precedettero la guerra. Le feste religiose ripresero tutta la loro frequenza, anzi sembrarono addirittura rafforzare il loro valore identitario, che in quegli anni si arricchisce anche di chiari
Nella pagina a sinistra, attrezzo per provare la potenza delle miscele, seconda metà del XIX secolo. Diploma di partecipazione, 1931, Archivio aziendale Ottaviani.
Carteggio aziendale anni Trenta-Quaranta, Archivio aziendale Ottaviani. Fotografia di Luciano Liuzzi.
Maestranze della Dionigi e alcuni famigliari al lavoro su una girandola, anni Cinquanta, Archivio aziendale Ottaviani.
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In alto, maestranze al lavoro al banco di fabbricazione dei cilindri di cartone. In primo piano il giovanissimo Marcello Ottaviani. Metà anni Cinquanta. Archivio aziendale Ottaviani. Sotto, i “fuochini” della ditta Dionigi, con un camion carico di “prospetti” e girandole. Metà anni Trenta Archivio aziendale Ottaviani.
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significati politici. Il turismo sulla costa riminese stava diventando quello straordinario sistema economico locale che si preparava a vivere la sua trionfale stagione a partire dagli anni Cinquanta. Le celebrazioni politiche della nuova Repubblica Italiana, d’altra parte, erano tutte da inventare, offrendo numerose occasioni legate alle frequenti feste di partito, agli appuntamenti d’incontro popolare organizzati da tutte le formazioni che figura-
vano nella frastagliata compagine politica del Dopoguerra. Tutto marcia per il verso giusto. Tuttavia l’incubo di ogni azienda del settore dei Dionigi, il terrore di ogni fabbrica di fuochi artificiali, è dietro l’angolo. Nel giugno del 1962 scompare, a 73 anni, Giustino, anima commerciale e manageriale dell’impresa, ma l’azienda è prospera e si va avanti, in una stagione dove le commesse di spettacoli sono tante. Nell’agosto di quell’anno c’è grande attività. Sono in molti a lavorare per i Dionigi, diverse squadre di fuochini sono in giro contemporaneamente per far fronte alle numerose richieste di spettacoli, mentre nel laboratorio ci si impegna ad accontentare tutti e tenere alto il nome dell’azienda. Non si saprà mai né come né perché, le norme di sicurezza sono chiare e rispettate il più possibile, l’esperienza è certa, eppure... Il 20 agosto l’esplosione fa tremare il castello, sconquassa il silenzio delle campagne estive, terrorizza uomini e bestie, annienta in un baleno la tranquillità conquistata in cent’anni, uccide chi lavora. Vincenzo Benedetti di 55 anni, un operaio di sicura esperienza, è colpito in pieno dallo scoppio e perde la vita dopo un’agonia di poche ore. La moglie di Giustino, Quinta Ferrini, che ha continuato a lavorare nell’azienda anche dopo la recente scomparsa del marito, è ricoverata all’ospedale di Morciano di Romagna e muore dopo pochi giorni, all’età di 70 anni7. Giovanni, e i figli di Giustino, Arnaldo e Anthos, sono presenti all’incidente e per loro, al dolore per la perdita della madre e di un caro collaboratore, si aggiunge il calvario della verifica delle responsabilità legali. Solo una limitata porzione dello stabilimento è danneggiata ma l’azienda vive il suo momento peggiore. Riprendersi da una disgrazia cosi è difficile sotto tutti i punti di vista.
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I Dionigi non vogliono, e non possono, proseguire l’attività da soli, e così nel 1964 nasce una società fondata da alcuni operai dell’azienda che hanno intenzione di continuare a lavorare nella pirotecnica, un settore che comunque in quel periodo offre buone prospettive economiche. Anthos e Arnaldo (prematuramente scomparso nel 1969) continueranno a lavorare all’interno della nuova società che prende il nome di “Gruppo Fuochi Artificiali Snc” di Leoni Giuseppe e C. Nel 1971 scompare Giovanni protagonista, insieme a Giustino, della grande affermazione della ditta fondata dal padre più di un secolo prima. Il più giovane dei soci della Gruppo Fuochi Artificiali è Marcello Ottaviani, nato a Meleto nel 1945. Dopo aver cominciato a maneggiare i fuochi sin da bambino, a soli tredici anni era già lì, munito di regolare libretto di lavoro, che impastava le polveri, fabbricava i rotoli e i cartocci e cominciava a girare l’Italia, spesso dormendo nel cassone del camion, per allestire gli spettacoli pirotecnici. Marcello si appassiona al lavoro, e presto matura la convinzione che quello può essere il suo futuro. Quando, anche questa società tende a esaurirsi, e si rende necessaria un’ulteriore trasformazione dell’impresa, Marcello diventa il titolare dell’azienda, acquisisce tutti i materiali e le attrezzature e, con il tempo, anche tutti gli spazi in cui si svolgevano le attività, compreso l’antico palazzo dove risiedeva e lavorava la famiglia Dionigi, da sempre edificio centrale e di maggior prestigio del castello di Meleto. Nasce così ufficialmente nel 1985 la Pirotecnica di Ottaviani Marcello, che diventa Europirotecnica nel 1998, per passare poi definitivamente ad altra proprietà nel 2011, con il nome di Fonti Pirotecnica Srl che dà continuità, pur in situazioni e modalità di lavoro completamente mutate, alla tradizione dei “fuochi di Meleto”. 25
Imprese Storiche Nella pagina precedente, maestranze della Dionigi mentre fabbricano bombe cilindriche. Anni Trenta. Archivio aziendale Ottaviani. Anthos Dionigi mentre lavora alla fabbricazione di una bomba. Anni Cinquanta. Archivio aziendale Ottaviani. Antonia Dionigi e la madre Quinta Ferrini nel laboratorio. Anni Cinquanta. Archivio aziendale Ottaviani.
Nella pagina seguente, Telai di girandole. Fotografia di Toni Pecoraro, 2013. Prospettive ammassate nel deposito. Fotografia di Toni Pecoraro, 2013.
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Quando l’azienda viene rilevata da Ottaviani, ha un prestigioso curriculum alle spalle e una solida immagine, ma va comunque riposizionata nel nuovo mercato che vede ormai presenti diversi concorrenti. Marcello investe nuove energie, l’entusiasmo dei giovani e una particolare capacità di gestire i rapporti, che presto portano a buoni risultati nel florido mercato dell’epoca. Il settore turistico è in piena espansione su tutta la riviera romagnola, le feste civili e religiose sono frequenti e, quanto a disponibilità finanziarie, godono anch’esse in qualche maniera dei riflessi del boom economico. Qualche ditta locale comincia a fare concorrenza, ma c’è comunque lavoro per tutti. Sebbene le campagne dell’entroterra si vadano velocemente spopolando, i paesi perdano residenti e nelle parrocchie di campagna le feste si diradino, per un’azienda che da tempo è abituata a operare in un ambito diversificato e non ristretto, questo non rappresenta un problema. La “società dei consumi” e la “cultura di massa” che alla metà degli anni Cinquanta si vanno definitivamente affermando, sembrano rafforzare una dinamica e una filosofia della prosperità che merita di essere celebrata da continui “fuochi d’artificio”. Negli anni Sessanta, Settanta e Ottanta si assiste così a un periodo decisamente positivo per l'azienda, con un impegno della ditta intenso e proficuo. Certamente il lavoro è cambiato, non sono più di moda gli spettacolari ma arcaici fuochi bassi (vedi più avanti), e la produzione nel proprio laboratorio di sostanze esplosive è oramai divenuta praticamente impossibile, ma dove si fa festa pubblica, piccola o grande che sia, i fuochi d’artificio ci sono. Nelle notti d’estate, da una parte o dall’altra della Riviera, spesso anche in più luoghi contemporaneamente, le cascate di luce alte nel cielo crepitano e illuminano lo stile di vita ottimista di quegli anni, quando il benessere sembrava solido come mai era stato e acquisito per sempre. I rituali collettivi antichi e nuovi dell’Ita-
lia industriale e post-industriale, come, ad esempio, quelli riemersi potentemente con i festeggiamenti cittadini di fine anno, moltiplicano le occasioni di lavoro. Ottaviani è comunicativo e creativo, gli spettacoli allestiti con la sua azienda soddisfano le aspettative e l’organizzazione generale, sempre più esigente dal punto di vista della sicurezza e della relativa burocrazia, funziona come si deve. Sono innumerevoli le occasioni che in tutta la regione, e in diverse parti d’Italia, vedono protagonisti gli spettacoli della ditta Ottaviani e, nel gennaio del 2000, è tanto il prestigio aziendale che i fuochi di Marcello entrano a far parte dei sontuosi festeggiamenti di Stato che il governo algerino celebra sul porto di Algeri. Una prestazione questa che per impegno creativo, cura tecnica, complesse vicende del trasporto dei materiali, rimane nella memoria aziendale come qualcosa di mitico. Le meraviglie di fuoco che Luigi Dionigi con i suoi figli e i suoi nipoti, hanno creato da quando l’Italia era appena nata, con l’attività della Pirotecnica di Marcello Ottaviani hanno continuato a illuminare il cielo e a stupire ogni volta migliaia di persone fino a veder arrivare il XXI secolo. L’arte e la fama dei Dionigi hanno trovato in Marcello, e nei giovani a cui ha passato il testimone dell’antica ditta, appassionati continuatori che proseguono a volere fare del cielo il più magico dei teatri. Il lavoro Non c’è dubbio che quella pirotecnica sia una professione molto particolare, non solo per i molti e continui pericoli che in diverso modo comporta. I fuochi d’artificio hanno una doppia anima che mette insieme due fattori non così semplici da combinare. Da un lato, è richiesta una scrupolosa competenza e pratica tecnico-scientifica attinente alla
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fabbricazione dei vari tipi di dispositivi e alla combinazione sempre pericolosa delle sostanze utilizzate per ottenere le varie polveri e i diversi effetti, dall’altro, è indispensabile far emergere un’esplicita vena artistica e creativa, ricordando che il fine ultimo è comunque quello di realizzare uno stupefacente spettacolo. Entro queste due coordinate, quella inflessibilmente chimico-fisica del laboratorio e quella scenografica degli allestimenti, si muove un mestiere complesso che a pieno titolo viene considerato un’arte. Arte dai grandi numeri, per la sua esplicita natura pubblica e “popolare”, dai grandi effetti, sia luminosi che sonori, e dai grandi segreti professionali; una forma spettacolare che per il suo forte coinvolgimento emotivo e la natura effimera, nei secoli si è conquistata un ruolo centrale in tutti i rituali e festeggiamenti collettivi. La fortuna e la fama dello stabilimento Dionigi si deve proprio alla capacità di mettere insieme queste due fondamentali componenti del mestiere che, come vedremo, hanno saputo coniugare tradizione e innovazione, precisione tecnica e creatività spettacolare. L’arte pirotecnica arriva da lontano, le radici affondano in Cina, quando già intorno all’anno 1000, a seguito dell’invenzione e perfezionamento della polvere da sparo – che alcuni attestano addirittura più indietro nel tempo – si ha notizia di ordigni utilizzati a scopo ludico-spettacolare. Gli storici fanno invece risalire la conoscenza della polvere nera, e i primi utilizzi per scopi militari, in Europa negli anni intorno alla metà del 1200, quando ne parlano Marco Greco, Alberto Magno e Ruggero Bacone, che ne riporta la formula nel De secretis operibus artis et naturae, et de nullitate magiae, del 1245. Durante il XIV secolo si rintracciano testimonianze di ordigni ludici e apparati scenici che impiegano materiali pirici ed esplosivi utilizzati nelle sacre rappresentazioni, che non 27
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1 Marcello Ottaviani e Giuseppe Leoni con una girandola terminata, fine anni Novanta. Archivio aziendale Ottaviani. 2 Globo rotante. Fotografia di Luciano Liuzzi, 2015. 3-4 Telai di girandole. Fotografia di Toni Pecoraro, 2013.
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5-10 “Prospettive� con vari disegni e simboli. Fotografia di Toni Pecoraro, 2013.
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disdegnavano l’utilizzo di impressionanti “effetti speciali”, presenti anche in occasioni laiche di celebrazione collettiva. A quell’epoca Firenze e Bologna già utilizzavano i fuochi artificiali, realizzati nelle loro forme elementari, per animare feste di popolo e suggestive macchine teatrali. Difficile parlare dell’attività di veri e propri laboratori pirotecnici in Italia nei secoli XV e XVI, ma è documentato che in epoca rinascimentale i festeggiamenti di piazza e di corte, come pure diverse forme teatrali, utilizzavano spesso e volentieri un’attrezzeria e una scenografia pirotecnica piuttosto elaborata. Già nel Seicento è certa la presenza di una vera e propria scuola pirotecnica italiana che, rispetto alla grande scuola europea riconosciuta, quella di Norimberga, presta una maggiore attenzione alla raffinatezza estetica degli effetti e alla ricercatezza teatrale degli spettacoli. Rappresentanti riconosciuti come i più significativi della scuola italiana sono i Ruggieri di Bologna, che, nella prima parte del 1700, sono tanto famosi e accreditati da allestire sontuosi spettacoli pirotecnici non solo in numerose città italiane, ma addirittura a Versailles su invito di Luigi XV e a Londra, nel 1748, in occasione dei festeggiamenti per la pace di Aquisgrana. Nel frattempo anche in diversi centri dell’Italia del sud (Campania e Puglia soprattutto) comincia a prendere forma la grande Scuola meridionale, che avrà massima espressione nell’Ottocento e nel Novecento, con tutta la sua opulenza baroccheggiante e il suo rapporto diretto con una cultura popolare che si lega fortemente alla pirotecnica in tutte le sue forme, anche le più estreme. Se è vero, com’è detto, che «nel secolo XIX i fabbricanti di fuochi artificiali aumentarono notevolmente di numero e da allora in poi gli spettacoli pirotecnici furono un complemento necessario di ogni festa, tanto nelle città quanto nelle campagne»8, si può comunque affermare che i 30
Dionigi, sia per l’epoca in cui operarono, che per i risultati raggiunti, parteciparono a pieno titolo alla fondazione della pirotecnia italiana moderna. È fuor di dubbio che i materiali e i documenti della ditta vanno a costituirsi come un prezioso repertorio di “archeologia pirotecnica” e, per i diversi risvolti, non esclusivamente economici e produttivi, come patrimonio di storia sociale. Luigi Dionigi inizia la sua attività in un momento di sviluppo del settore e la fa poi crescere in un periodo di progressiva trasformazione tecnica, formale e di gusto, ma sa caratterizzare la sua azienda per una riconosciuta capacità di unire l’estetica pirotecnica più antica con la più moderna, quella che va affermandosi dopo i primi decenni del 1900, che porterà a prediligere gradualmente alcune forme spettacolari rispetto ad altre. Sulla carta intestata, utilizzata dalla ditta sul finire degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta del Novecento, compare un elenco dei vari prodotti e delle prestazioni disponibili. Insieme ai generici piccoli e grandi spettacoli pirotecnici, sono citati i globi aerostatici, i bengala tricolori, le torce romane, le torce a vento, i prospetti allegorici, le fotografie di santi e di persone a bengala, i giuochi diversi, il grande assortimento di spari diurni, bombette, batterie, ecc... Certo è che nello stabilimento si produceva direttamente tutto quanto necessario all’attività (dalle polveri ai vari contenitori e cartocci di cartone, dai dispositivi di lancio alle strutture scenografiche) e gli acquisti erano limitati alle componenti chimiche non disponibili in loco. Caratteristica aziendale dei Dionigi era l’utilizzo assiduo ed elaborato di una tipologia di fuochi che viene denominata in vario modo: fuochi fissi o bassi, fuochi a terra, fuochi a tableaux, oggi poco o nulla utilizzati, ma un tempo componente irrinunciabile di tutti gli spettacoli pirotecnici. Si
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A sinistra, Marcello Ottaviani sorregge un “bamboccio”. Fotografia di Toni Pecoraro, 2013. “Bamboccio” semovibile. Fotografia di Toni Pecoraro, 2013.
I bambocci che rappresentano “gli arrotini”. Fotografia di Toni Pecoraro, 2013.
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Imprese Storiche La prospettiva della Vespa. Fotografia di Luciano Liuzzi, 2015.
tratta, in pratica, di ordigni e dispositivi che non vengono sparati alti nel cielo, come i fuochi aerei, ma sono fissati su sagome ferme o semovibili, producendo effetti di luce e sonori decisamente spettacolari che in qualche modo riprendono la tradizione delle antiche “macchine da festa”. Si tratta di girandole di ogni tipo e dimensione, globi rotanti, fontane fisse e in movimento, di scritte realizzate con bengala, di sagome che si muovono grazie a piccoli ordigni da spinta, di grandi figure dipinte che compaiono all’improvviso grazie a marchingegni pirotecnici. Tra questi fuochi bassi un ruolo decisamente importante è quello dei cosiddetti prospetti allegorici, chiamati, nel laboratorio Dionigi, semplicemente prospettive. Fortuna ha voluto che, in mezzo a centinaia di girandole e globi rimasti nei magazzini dello stabilimento, si sia rinvenuto un discreto numero di questi prospetti utilizzati dai Dionigi per i loro spettacoli. Si tratta di reperti in qualche modo straordinari, dato il materiale estremamente 32
deperibile con cui sono realizzati e che spesso veniva danneggiato dai fuochi stessi. Sono sagome costruite assemblando listelli di faggio, castagno, ma anche abete o altri legni poveri, che rappresentano i più significativi e specifici segni della festa celebrata, oppure figure geometriche. Questi prospetti erano issati su alti pali e costituivano la struttura su cui disporre i piccoli ordigni che in sequenza si incendiavano, scoppiavano, emettevano suoni potenti. Il risultato era quello di vere e proprie “figure di fuoco”, fisse o in movimento, a volte anche piuttosto complesso, che si otteneva grazie alla forza di spinta dei piccoli razzi. Erano raffigurati i simboli religiosi ricorrenti, ma anche una iconografia laica come i simboli dei partiti politici (prima il fascio e l’aquila, poi la falce e il martello, lo scudo crociato, l’edera ecc...) o profili di personaggi-mito come Garibaldi. C’erano, sempre realizzate con la tecnica dei prospetti, anche le scritte e le più diverse figure geometriche ornamentali che andavano a formare le
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“’E bugat”, misterioso manichino per spettacoli pirotecnici. Fotografia di Luciano Liuzzi, 2015.
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Imprese Storiche Stendardi dipinti. Fotografia di Luciano Liuzzi, 2014.
Cartoni dipinti. Fotografia di Toni Pecoraro, 2013.
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varie installazioni di luminaria pirotecnica. All’interno dello stabilimento, lavorava un falegname specializzato nell’assemblaggio e nella piegatura dei materiali utilizzati per le prospettive, la cui elaborazione era seguita con particolare cura da Giovanni Dionigi e poi dal nipote Anthos, e che per la piena riuscita richiedevano una certa maestria grafica e propensione artistica. Prezioso documento di storia e cultura pirotecnica è un corposo manoscritto, un libro rintracciato nell’archivio aziendale, tramandatosi all’interno dello stabilimento fino ad arrivare a Ottaviani. Si tratta di un volumetto di 11x15,5 centimetri, rilegato manualmente in cartone ricoperto di robusta tela, di ben 560 pagine di carta a quadretti che riporta uno straordinario numero di figurazioni, giochi e meccanismi pirotecnici tutti disegnati e colorati a mano. Il risultato complessivo è davvero singolare e il ricco repertorio di figure, con le loro fantasiose varianti, costituisce una sorta di artigianale manuale d’estetica e tecnica pirotecnica, forse unico nel suo genere. Il volume, dovuto molto probabilmente, a un collaboratore dell’azienda, che bene conosceva la ricchezza e la varietà delle forme utilizzate dalla “Scuola meridionale”9, risale a un periodo compreso fra la metà degli anni Venti e gli inizi degli anni Trenta, e mostra come la parte spettacolare del mestiere abbisognasse, al pari di quella tecnica, di continui aggiornamenti per poter essere competitiva nelle occasioni festive e in quelle, all’epoca assai di moda, dei concorsi e gare pirotecniche. Fuochi a terra erano anche gli stupefacenti “teatrini di fuoco” realizzati con i “bambocci” a sagoma vuota (con sottili listelli come i prospetti) oppure piena, ottenuta da tavole di legno ritagliate secondo uno stile rispondente a una chiara ed elementare estetica popolare. Queste si muovevano per rappresentare figure come l’arrotino
e altri mestieri della tradizione, oppure la corsa di ciclisti o l’arrivo del treno. Uno di questi bambocci, il più ricco e singolare, chiamato in dialetto ‘e bugat, da sempre custodito nei depositi della ditta Dionigi, è costituito non da una sagoma ma da una sorta di manichino a grandezza naturale, che vede alcune parti risalenti alla metà dell’Ottocento e altre forse più antiche. Non è chiaro l’utilizzo di questo elemento scenografico “umano”, con tanto di braccia articolate, che sembra rimandare a uno stile da vera e propria rappresentazione teatrale. Ancora altri fuochi bassi di sicuro effetto spettacolare, erano quelli che, nella loro movimentata sequenza di accensione, prevedevano l’apparizione di figure dipinte su grandi tele e stendardi che si srotolavano all’improvviso grazie a elaborati “meccanismi” pirotecnici. I diversi stendardi, recuperati nei magazzini, mostrano diverse mani pittoriche, alcune di discreto livello scenografico. C’è poi tutta l’altra categoria, che col tempo diverrà predominante, dei fuochi aerei. Questi richiedono una conoscenza dei vari effetti di salita, esplosione e discesa degli ordigni che per le loro innumerevoli varietà tecniche, estetiche e d’intensità emotiva hanno fatto giustamente parlare di una vera e propria “arte in cielo”. Esiste una ricca manualistica che elenca le caratteristiche e tutti i differenti effetti dei vari razzi e delle varie bombe che raggiungono spesso difficoltà di realizzazione notevole, dove, sia in termini di risultato spettacolare, che di sicurezza, davvero nulla, anche il gesto e il particolare più piccolo, possono essere lasciati al caso. Sono talmente tanti i termini per denominare i vari effetti che è impossibile tentarne anche solo una sintesi (pupatelle, salici piangenti, cascate, ecc...) e, mentre tutta l’attrezzeria di fabbricazione e di lancio è piuttosto standardizzata e comune a ogni stabilimento pirotecnico, i veri segreti del
Nella pagina seguente, alcune pagine di un libretto manoscritto, risalente alla fine degli anni Venti, con disegni a mano delle varie “architetture” di fuochi fissi. Archivio aziendale Ottaviani.
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Nella pagina seguente dall'alto: Formulario pirotecnico di Luigi Dionigi del 1892. Archivio aziendale Ottaviani. Formulario pirotecnico di Luigi Dionigi fine anni Dieci. Archivio aziendale Ottaviani. Tubi di lancio. Fotografia di Toni Pecoraro, 2013.
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mestiere sono quelli che riguardano l’invenzione di effetti originali e la preparazione delle polveri. Ogni variazione delle componenti delle polveri produce colori e giochi molto diversificati e il buon “formulario” del pirotecnico costituisce spesso il suo vero patrimonio aziendale, la sintesi di esperienze dirette che caratterizzano uno stabilimento rispetto all’altro. Alcuni di questi formulari sono presenti nell'archivio aziendale Dionigi-Ottaviani. Modalità di lancio e di scoppio, tipo di luminosità e fumi, colore e rumore sono le coordinate che vanno a definire gli effetti di ogni fuoco, e questi si ottengono attraverso l’utilizzo di polveri, sequenze di accensione, complesse architetture interne del razzo che richiedono lunga e sicura pratica. Così ogni tipologia di fuoco ha una sua specificità di effetti ben definita, una sua forma e una sua potenza che sono storicamente regolamentate da severe disposizioni, il cui rispetto e l’adeguata comunicazione alle autorità competenti è parte fondamentale e impegnativa del lavoro. Il risultato di un buon spettacolo pirotecnico è quello che consuma tante ore di minuziosa occupazione in qualche decina di stupefacenti minuti. Tutto ovviamente varia, sia in termini di tempo che di effetti spettacolari, a seconda della cifra che si vuole spendere, ma si può dire che il minimo si aggira intorno ai 15 minuti di durata, lo standard prevede circa 20-25 minuti, per poi crescere a piacimento a fronte di commesse particolarmente ricche e articolate. Un tempo c’era il complicato lavoro di posizionamento dei fuochi fissi, con tutto l’armamentario e la paleria necessaria, poi l’allestimento, divenuto man mano prevalente, di tutti i tubi di lancio per i fuochi aerei, che a volte potevano essere diverse centinaia e richiedevano
tutta un’ampia serie di accorgimenti in termini di efficacia e sicurezza. Parti delicate del lavoro erano naturalmente quella della disposizione rigorosa degli inneschi e quella dell’accensione, che un tempo avveniva tutta a mano, mediante l’avvio delle micce. Sulla qualità dello spettacolo incide in modo determinante la regia pirotecnica, il programma, che definisce le varie sequenze di accensione e la loro durata, in modo da accentuare i vari effetti, creare una certa omogeneità “teatrale” che non lasci l’impressione di casualità e, al momento giusto, strappare l’applauso. Esistono schemi più o meno preordinati, ma l’aspetto creativo personale e aziendale influisce notevolmente anche in questa fase, rappresentando il fine ultimo di tutto il lungo lavoro di preparazione in laboratorio e dell’allestimento da parte dei fuochini. Un interessante documento è quello pubblicato sul Corriere Riminese Balneare del 3 agosto 1919, dove è riportato il dettagliato programma di una serata pirotecnica che rende perfettamente l’idea della composizione e della varietà di uno spettacolo in cui compaiono sia fuochi fissi che fuochi aerei. Di notevole interesse anche la terminologia utilizzata e l’obiettivo, in qualche modo poetico, della descrizione. Così si scrive sul giornale riminese: Fuochi d’artificio allo Stabilimento Bagni Il Comitato dei festeggiamenti ha incaricato il distinto Pirotecnico Luigi Dionigi di Meleto di organizzare per domani sera 4 corrente l’accensione sul mare di fuochi d’artificio. Ecco il programma: 1 Bomba tonante d’avviso. 2 Batteria colorata con detonazioni. 3 Bomba colorata. 4 Bomba da due colpi.
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Apertura dei fuochi giranti 1 Due girandole a sfera con finali splendenti. 2 Altre due girandole con brillante pioggia Vesuvio e con due corone volanti. 3 Contrasto duplicato di un intrecciamento di sette bocche di fuoco con finale di gran splendore. 4 Un vaso con mappamondo convertendosi in tre, gran nappamento di colori con gran finale a gelsomini splendenti. 5 Per ultimo la gran girandola di straordinari scherzi a duplicati finali di luce solare a splendori. Apertura dei scappamenti razzi a bomba 1 Gran scappata di razzi colorati. 2 Batteria di palle infuocate. 3 Razzi luminosi in batteria di colpi. 4 Contemporaneamente incendio di 12 bombe. 5 Numero 4 bombe a colori. 6 Bomba luminosa abbagliante. 7 Bomba a stura. 8 Bomba a diversi scherzi a detonazione. 9 Bomba a serpentelli 10 Bomba tremolante. 11 Bomba a serpentini a batteria. 12 Bomba elettrica a luce solare. 13 Bomba a paracadute. 14 Bomba di diversi scherzi con detonazione. 15 Bomba a fulgoroni a batteria di colpi. 16 Bomba magnesio con detonazione. 17 Bomba grandiosa a pioggia d’oro e due colpi tonanti. 18 Altra abbagliante a 2 colpi. 19 Altra giallastra a colpo di cannone. 20 Bomba da spaccata 2, 3, 4 e 5. 21 Grandiosa bomba per finale 22 Chiusura batteria infernale di 80 bombe. 23 Saluto alla città di Rimini, gran colpo di cannone. Quello dei fuochini era, fino agli anni Cinquanta, un mestiere che, nonostante i vari progressi tecnici ed estetici della pirotec39
Imprese Storiche
I “fuochini” della Dionigi in trasferta per uno spettacolo a Venezia, anni Cinquanta. A destra Anthos Dionigi, al centro Gino e Arnaldo Dionigi. Archivio aziendale Ottaviani.
Nella pagina seguente, fuochi d’artificio del Gruppo fuochi artificiali SNC, metà anni Settanta. Archivio aziendale Ottaviani.
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nica, aveva qualcosa di antico, che manteneva una stretta parentela con il multiforme mondo della festa e dello spettacolo popolare viaggiante. I fuochini pur svolgendo un lavoro rischioso, che non ammetteva distrazioni di nessun tipo, alla fin fine erano sempre in giro per feste, con tutto il contorno d’incontri, baldorie, allegria che queste hanno per definizione. I racconti di lavoro della Dionigi, poi divenuta Ottaviani, proprio per la costante e consistente presenza dell’elemento “pericolo”, assumono spesso tinte epiche, con viaggi “al limite” dove i fuochini ammassati su vecchi camion affrontavano strade impossibili, o surreali, come quando in una lunga trasferta ferroviaria verso il Nord Italia
sparisce nel nulla un intero vagone pieno di fuochi artificiali. Il tutto per creare quello stupore atavico ottenuto con la polvere pirica e i suoi giochi di luce e di scoppi che in qualche modo affascinano e intimoriscono da sempre l’uomo, che lo fanno guardare in aria, portandolo in una dimensione di piccola grande magia dove si mescolano ammirazione per la natura (il fuoco, il cielo, il frastuono) con la meraviglia per l’artificio (gli effetti, le forme, i colori, la velocità). Artificio parente stretto dell’Arte; quella che i Dionigi hanno fatto nascere e crescere a Meleto, e Marcello Ottaviani, con quelli che vengono dopo di lui, hanno continuato e continuano a far brillare.
meraviglie di fuoco
Note 1 Intervista ad Anthos Dionigi su “Il Quotidiano Sammarinese”, anno 1, numero del 25 aprile 1993, p. 3. Il misterioso libro d'istruzioni per la fabbricazione dei fuochi a cui si fa riferimento potrebbe essere, in considerazione del periodo, della sua ampia diffusione e ripetute ristampe, L’arte di fare fuochi d’artifizio con poca spesa per le feste di famiglia, sponsali ed altre simili occasioni di un dilettante, di autore anonimo che esce a Milano nel 1819 per la Tipografia Giambattista Sonzogno e ha una terza edizione a Milano sempre per la Sonzogno e a Napoli nel 1834, per i tipi della Libreria all’insegna di Tasso. In alternativa potrebbe trattarsi del lavoro di Cesare Sonzogno, che riprende il testo citato, Il pirotecnico moderno che insegna l’arte di fare i fuochi d’artifizio con poca spesa e secondo i più recenti trovati per variarli e colorarli. Aggiontavi l’arte di costruire palloni aerostatici che ha una seconda edizione a Milano nel 1858 per Lorenzo Sonzogno. 2 Nell’intervista ad Anthos del 1993, di cui sopra, è indicata come data di nascita dell’azienda quella del 1868, data di per sé piuttosto credibile vista l’età di Luigi, che nel 1866, anno indicato dalla tradizione aziendale, aveva appena 18 anni. 3 Intervista ad Angela Gallo, classe 1929 raccolta dall’autore a Saludecio nel novembre 2014. 4 La ricerca effettuata dall’architetto Miranda Arduini, in corso di pubblicazione ha fornito tutti i preziosi dati per analizzare le varie acquisizioni degli immobili di Meleto da parte della famiglia Dionigi. 5 Purtroppo i dati certi riferiti al cambio di denominazione dell’azienda non sono stati da me rintracciati presso le Camere di Commercio competenti per le varie vicende che riguardano il primo passaggio di dati tra ambito Riminese e Forlivese avvenuto nel 1924. 6 Intervista ad Anthos Dionigi su “Il Quotidiano Sammarinese”, anno 1, numero del 25 aprile 1993, p. 3. 7 La cronaca dell’incidente è riportata su “Il Resto del Carlino”, pagina di cronaca riminese dei giorni 21 e 22 Agosto, 1962. 8 Voce “Pirotecnia”, Enciclopedia Treccani, Roma, 1949, vol. XXVII, p. 381. 9 In fondo al volume si ritrova un timbro che riporta la scritta «Capurso Giovanni Pirotecnico, Andria».
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Imprese Storiche
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II. LE MANI IN PASTA
Il pastificio Ghigi a Morciano di Romagna
L’impresa del cibo
La definizione più giusta del Pastificio Ghigi, quella che meglio di ogni altra ha evocato l’imponenza delle sue strutture architettoniche e lo spessore dei suoi contenuti storici, la ritroviamo – può sembrare strano per una fabbrica del XX secolo – in un libro d’arte. Un profondo conoscitore delle arti antiche, Pier Giorgio Pasini, ha colto l’essenza di un’opera contemporanea, ha sintetizzato ciò che in molti hanno sempre pensato sotto quelle mura alte decine di metri, guardando da lontano e da vicino quelle torri, alcune anche merlate, che sovrastavano tutto un paese: il pastificio è stato senza dubbio il «castello di Morciano1». Una fortezza della contemporaneità, con solo cent’anni alle spalle, frutto dell’unione di diversi corpi di cemento armato e custode di macchine moderne, e tuttavia un castello vero, sotto tanti punti di vista. Dentro quelle mura centinaia di uomini e donne hanno lavorato e trascorso quasi tutta la loro vita, si sono difesi dalla povertà e lottato per il futuro, hanno faticato giorno e notte, si sono innamorati e hanno trovato moglie o marito. Come in ogni castello che si rispetti c’è stata una dinastia al comando, una famiglia che ha visto trionfi e declini, momenti di gloria
e di profonda amarezza, liti e separazioni. Grazie al castello della Ghigi il borgo ai suoi piedi è cresciuto ed è diventato il centro più importante di un’intera vallata e, al pari di castelli ben più antichi, non mancano leggende e verità trasfigurate in piccoli miti che lo riguardano. La Ghigi è stata senza dubbio parte fondamentale della vita e dell’anima di un intero paese, le sue vicende hanno segnato così profondamente la comunità locale da divenire, tra la prima e la seconda metà del Novecento, l’elemento storico e sociale più rilevante di Morciano. Per un lungo periodo, durato diversi decenni, Morciano era la Ghigi: così la pensavano gli abitanti e i forestieri, così era non solo per tutti quelli che da operai, facchini, autisti, tecnici, impiegati, dirigenti, avevano trovato un posto di lavoro nella fabbrica, ma anche per tutte quelle attività commerciali e artigiane dell’indotto che intorno al “mondo Ghigi” vivevano e proliferavano. In uno scritto, che risale al 1956, si parla con precisa consapevolezza «di questa Morciano che vuol dire Pastificio e dove Pastificio vuol dire Morciano»2. Grazie alla moderna pubblicità della Ghigi, il paese della Valconca era diventato
Spaghettata offerta dalla Ghigi nella festa paesana di Mondaino. 1964. Fotografia di Davide Minghini. Archivio Fotografico Gambalunga Rimini.
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fossero piume, dove i bambini, un po’intimoriti, uscivano dalle scuole in file militaresche per visitare gli spazi infiniti, severi, moderni, ma misteriosi, del pastificio. Un paese dove il passatempo della domenica pomeriggio era assistere alla partenza rumorosa e fumigante di un’interminabile colonna di mezzi di ogni specie e dimensione – dal camion fino all’Ape – tutti marchiati Ghigi e verniciati con un candido bianco farina, un invitante giallo pasta e un vivace rosso fuoco che da Morciano prendevano le strade di tutt’Italia. Le vicende
In alto, veduta del pastificio. Anni Settanta. Fotografia di Mario Polverelli. Archivio L’Ape del Conca. Veduta aerea del pastificio. Fotografia di Luciano Liuzzi, 2012.
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famoso in tutta la nazione, entrando negli schermi televisivi degli anni Sessanta, quelli che, catturando gli sguardi e i sogni del “boom economico” con un primitivo ma efficacissimo bianco e nero, avevano già messo a fuoco lo straordinario potere dei mezzi della comunicazione di massa. Morciano, all’epoca di massima espansione del pastificio, era un paese che rimaneva sveglio giorno e notte, percorso dalle centinaia di biciclette degli operai e delle operaie che finivano allineate all’ingresso della fabbrica, popolato da facchini smilzi che alzavano sacchi da 50 chili come
L’avvio dell’impresa appare piuttosto solido, conta su una matura esperienza commerciale e sul vantaggio di quella che si può definire un’effettiva coerenza storica e geografica. Gli edifici che vedono i primi passi dell’industria dei Ghigi sono proprio nel cuore del centro storico di Morciano di Romagna, quel cuore che, come in tutti i paesi, pulsava di vita grazie a una chiesa, una piccola piazza, qualche negozio, l’osteria, le bancarelle del mercato settimanale. Uno di questi edifici è arrivato fino a oggi e, con la sua insegna d’epoca, è in definitiva il migliore, anche se poco considerato e un po’ malinconico, monumento a un uomo e a una famiglia che hanno avuto un ruolo primario nel fare, di un modesto borgo, la piccola – ma vera – capitale economica della valle del Conca. Succede frequentemente che grandi imprese incidano in modo indelebile su intere comunità, ma è indubbio che la Ghigi creò, per una serie di fattori riconducibili alla capacità imprenditoriale familiare, ma anche per altre ragioni, un rapporto singolarmente stretto, quasi simbiotico, tra azienda e comunità paesana. Un rapporto iniziato ufficialmente nel 1870. Sui mattoni della facciata proporzionata, sobriamente benestante, dell’edi-
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La prima sede del pastificio in una fotografia degli anni Cinquanta. Archivio L’Ape del Conca.
ficio al centro della vecchia Morciano, si legge ancora una scritta in grandi caratteri metallici ottocenteschi: Fabbrica Pane e Paste – Salsamenteria Nicola Ghigi. Nicola Ghigi, lo spiega inequivocabilmente la bella insegna, nel suo negozio vende il pane e i generi di salsamenteria, fa dunque il fornaio e il commerciante di alimentari, ma il suo obiettivo, determinato dalla volontà personale, ma forse anche da una particolare spinta collettiva verso il progresso che segna Morciano negli ultimi decenni del XIX secolo, è quello di presentarsi come una vera e propria fabbrica alimentare. Il paese proprio in quel periodo vive gli anni di progressiva e potente affermazione della propria identità: è il momento in cui, affrancatosi definitivamente dalla giurisdizione dei Comuni di Montefiore Conca e di San Clemente, sul suo territorio e sul suo ricco mercato (l’autonomia comunale è ufficialmente riconosciuta solo nel 1858), va realizzando
la sua esplicita vocazione alla modernità. Una vocazione portatrice di un forte dinamismo economico e sociale che all’epoca, e per molti decenni successivi, lo distinguerà dagli altri paesi della vallata. Una caratterizzazione più cittadina, che paesana, riconducibile fondamentalmente alla sua posizione strategica, che da secoli lontani ne aveva fatto un centro rilevante dal punto di vista commerciale, proteso verso un continuo sviluppo e ammodernamento insediativo, così come all’incremento costante della popolazione3. Se il territorio comunale di Morciano è davvero piccolo, ritagliato com’è tra gli antichi castelli di Montefiore, San Clemente, Saludecio e San Giovanni in Marignano, la sua influenza socio-economica tra la metà e la fine dell’Ottocento è già consistente e consolidata. A rafforzarla provvederà in maniera rilevante – certamente insieme ad altre attività private, opere e istituzioni pubbliche che prendono vita in quel perio45
Imprese Storiche Nella pagina seguente in alto, la sede dello stabilimento dei fratelli Emilio e Angelo Ghigi dismessa a metà anni Trenta. Fotografia anni Cinquanta, Archivio L’Ape del Conca.
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do – proprio l’impresa che Nicola Ghigi avvia nel 18704. Perfetto quanto sintetico è il ritratto di Morciano che traccia Emilio Rosetti nella sua fondamentale opera dedicata alla Romagna del 1894: «esso è il centro di commercio della vallata del Conca, e dopo Rimini rappresenta lo scalo principale del commercio di quel circondario. In Romagna sono rinomati i suoi mercati e le sue fiere […]»5. Tra i generi che trattano i Ghigi il più “fabbricabile”, il più adatto a una produzione di tipo artigianale-industriale moderna, quella con le migliori possibilità di successo è, per Nicola, la pasta secca per minestre di vario tipo, ottenuta dalla semola di grano duro: un prodotto che si sposa perfettamente con le mutazioni sociali in atto. Piero Meldini, in un suo scritto, mette in evidenza alcune delle condizioni storiche, geografiche, economiche che favoriscono la nascita e il successo del pastificio Ghigi. Per Meldini l’origine del pastifico di Morciano «si collega da un lato alla produzione cerealicola della valle del Conca e in particolare di San Giovanni in Marignano; dall’altro all’antica e rilevante tradizione molitoria delle località attraversate dal fiume; infine alla non meno antica identità di mercato di Morciano»6. In sintesi «questa triplice eredità di Morciano e del territorio circostante – agricola, molitoria e mercantile – sarà in qualche modo raccolta dal pastificio Ghigi»7. È proprio ciò che accadde e l’unico ingrediente storico che si può aggiungere è forse quello della particolare “spinta modernista” che caratterizzò la nascente comunità morcianese che, tra il secondo decennio e la fine dell’Ottocento, ebbe un incremento della popolazione di circa il 120% (passando dai 1000 abitanti del 1816, ai 2202 del 1901)8 vedendo svilupparsi, come già accennato, numerose attività economiche e sociali di chiara impronta e portata cittadina9. Non stupisce dunque che proprio a Morciano – con le
campagne produttive e popolose che lo attorniano, il numero crescente di residenti, la sua sempre più netta configurazione come maggior centro commerciale e di servizi di tutta la valle del Conca – trovi la sua collocazione ideale una produzione industriale che a metà Ottocento risponde ad abitudini alimentari che si sono già sviluppate, e vanno divenendo “di massa”, anche nel Riminese. Da quello che si sa Nicola Ghigi, figlio di Stefano (nomi che tornano ciclicamente nelle varie generazioni) arriva da una famiglia che ha già una buona posizione economica ottenuta attraverso il commercio dei più vari generi, soprattutto di quelli alimentari. Secondo una testimonianza storica locale, i Ghigi hanno una casa di proprietà a Morciano già agli inizi del 170010 e si dice anche che un loro forno fosse già attivo intorno al 1828. È dato per certo che la bottega di pasta della famiglia Ghigi, nel 1870, impiega quattro operai e il panificio di Nicola due. Secondo tale ricostruzione è anche dato per documentato che Nicola abbia approntato una rinnovata produzione di pasta subito dopo il 1877, anno del grave incendio che distrusse la parte del centro storico di Morciano dove risiedeva e lavorava la famiglia Ghigi. Il prodotto riscosse consenso nel mercato locale e pur, con i limitati mezzi tecnici allora a disposizione, «la tenace famiglia continuava a sviluppare e ad affermare la sua modesta produzione», cui affiancava l’attività commerciale di altri generi11. Nel 1894 scompare Nicola e l’impresa passa alla moglie Margherita e al figlio maggiore Stefano. Nel 1911, tuttavia, scompare anche Stefano, che lascia la moglie e i figli ancora molto giovani: «questo fu il primo di dieci tristi anni. L’azienda subì un grave colpo d’arresto, perché i figli, ancora bambini, non potevano logicamente sopportare il grave onere che la lavorazione ed il commercio esigevano»12. Si prosegue comunque l’attività e appena
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possibile i figli subentrano in azienda: Nicola, classe 1894, il più grande (che porta il nome del nonno), Emilio, classe1899, e Angelo, classe 1902. Le cose tra i fratelli più piccoli e il primogenito non vanno affatto bene, e, seppure molto giovani (Angelo ha appena vent’anni), si arriva a una netta separazione attraverso la liquidazione della quota societaria di Nicola. Il racconto che ne fa Bruno Ghigi (figlio di Angelo) ha il pregio della testimonianza diretta: «inizialmente nella società c’era anche lo zio Nicola, il più grande dei fratelli che alla morte del padre Stefano si ritrovò a fare il capofamiglia». Il carattere “imprevedibile” di Nicola non è compatibile con quello dei due fratelli e così, racconta sempre Bruno Ghigi, «quando mio padre aveva 20 anni […] si ribellò e gli disse che uno dei due avrebbe dovuto andarsene. Andò quindi alla Banca Popolare Valconca e chiese un prestito per liquidarlo. Era il 1922 e si trattava di una somma enorme, mi pare di aver sentito dire in casa che la cifra fosse 50.000 lire. Il direttore della banca ebbe un sussulto alla richiesta di quella cifra, ingentissima per quei tempi, e gli chiese se era pazzo; ma alla fine dovette cedere alle argomentazioni di quel ragazzo così determinato e con un passato di gran lavoratore già all’età di 20 anni. Da quel momento, affrancati dal peso del difficile rapporto con il fratello più grande, Emilio e Angelo iniziarono la loro società»13. Nicola apre un suo pastificio a Cattolica, mentre Angelo e Emilio puntano tutto sullo sviluppo della fabbrica di Morciano. Scrive Benito Balzani su L’Ape del Conca (l’antico giornale locale) nel 1959: «verso il 1922 gli attuali titolari, (Emilio e Angelo, ndr) ormai grandi, presero la decisione di abbandonare il commercio per dedicarsi esclusivamente alla fabbricazione di pasta alimentare. Si acquistarono nuovi macchinari e la produzione aumentò. Dai cinque quintali giornalieri di pasta iniziali,
si riuscì in breve a fabbricarne e a vendere nelle zone limitrofe quattro volte di più. Le richieste provenivano non solo dalla Romagna, ma anche dal resto d’Italia; la produzione fu portata a circa 40 quintali
Emilio e Angelo Ghigi (3° e 4° da sinistra) in una fotografia scattata intorno alla metà anni Venti. Archivio L’Ape del Conca.
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Imprese Storiche Maestranze all’uscita del nuovo stabilimento in via Roma nel 1939. Archivio L’Ape del Conca.
Un gruppo di operaie della Ghigi nel 1933. Archivio L’Ape del Conca.
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al giorno». All’epoca il pastificio ha ancora sede in una modesta costruzione del centro storico di Morciano, che in vecchie foto mostra la scritta “Pastificio E. A. Fratelli Ghigi”. Un’ulteriore considerevole svolta imprenditoriale avviene tra il 1932 e il 1933 quando si mette mano alla prima costruzione situata in via Roma, quella che allora era la parte nuova del paese, dove era previsto uno sviluppo insediativo e industriale moderno. Si tratta del primo nucleo di quello che diventerà l’enorme stabilimento del pastificio, un “castello aziendale” di straordinarie dimensioni, che da via Roma dominerà Morciano e segnerà il suo profilo urbanistico e sociale in chiave industriale. I dati disponibili portano a una semplice considerazione sulla portata della produzione, che passa dai 5 ai 40 quintali di pasta giornalieri nel decennio successivo al 1922, configurando una strutturazione già
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Immagine dello stabilimento con i vari corpi presenti nel 1948. Archivio L’Ape del Conca.
ben sviluppata dal punto di vista artigianale-industriale sotto il profilo produttivo e commerciale, con tanto di adeguata struttura distributiva in un ambito non solo locale. Quando, dopo il 1936, nella nuova sede, si arriva a produrre 80 quintali giornalieri, con un costante incremento di tale quantità fino al suo raddoppio, è evidente che il pastificio di Morciano è una realtà industriale consolidata: sono anni in cui la pasta Ghigi «la pasta di Romagna, incontrava il favore dei consumatori di tutta la Penisola, riuscendo così a portarsi rapidamente all’altezza dei prodotti dei migliori pastifici italiani»14. La Ghigi comincia a profilarsi come industria di rilevanza nazionale e, perfino nel periodo bellico, riesce a mantenere alti i livelli produttivi: «la guerra, infatti, non solo non compromise, ma addirittura incentivò, l’attività del pastificio che era entrato a far parte dei fornitori dell’esercito. Anche il passaggio
del fronte, che infierì sui paesi vicini, recò danni marginali a Morciano e minimi alla fabbrica»15. È facilmente ipotizzabile che questa continuità produttiva rappresenti uno degli elementi portanti dello sviluppo successivo dell’azienda. Nei fratelli Ghigi, usciti relativamente indenni e sicuri dal Ventennio fascista16, dai drammi del conflitto e dalle complicate condizioni economiche, sociali e politiche dell’immediato dopoguerra, lo spirito imprenditoriale emerge potente. Si punta subito sullo sviluppo e sull’ammodernamento, nonostante il non semplice reperimento della materia prima (il grano all’epoca è ancora razionato) e l’utilizzo di impianti ormai datati, con strutture e macchinari che per stare al passo con i tempi, o meglio, per anticipare i tempi, vanno rinnovati o addirittura reinventati. Già nel 1948, quando l’Italia è ancora in piena fase di assestamento post-bellico, si hanno consi49
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stenti ampliamenti dello stabilimento. Nel 1950, si realizza il molino con capacità di lavorazione di 300 quintali giornalieri e un silos dalla portata di 18.000 quintali, nel 1953 si hanno altri lavori e modifiche strutturali con l’aggiunta di diversi corpi di fabbrica, altri silos con una portata di stoccaggio di 35.000 quintali e l’ampliamento del mulino. Acquisizioni di spazi adiacenti e ulteriori modifiche porteranno, anche negli anni a venire, progressivi ampliamenti e aggiunte allo stabilimento. I dodici anni tra il 1948 e il 1960, rappresentano il periodo d’oro dell’azienda, quello che vede il pastificio porsi tra i primi tre o quattro impianti industriali del settore a livello nazionale, con l’aspirazione, neppure tanto nascosta, a essere il primo. Un decennio, o poco più, che fa di Morciano un luogo per certi versi singolare, un paese-azienda che, oltre ai 400-500 addetti diretti dello stabilimento, vede praticamente tutta la popolazione muoversi sulla scia di un’industria assai avanzata in termini di produzione, di tecnologia, di cultura dell’immagine e pubblicitaria, di incisività sociale e politica, perfino di influenza “simbolica” sulla vita di un’ampia comunità, che finisce per regolare la propria quotidianità sul suono delle potentissime sirene aziendali, che arrivano a farsi sentire in tutto il territorio comunale, e anche oltre. Nel 1959 la fabbrica arriva dunque a produrre 700 quintali giornalieri di pasta17. La Ghigi ha tutto quello che si chiede a un’industria di quegli anni: successo sul mercato nazionale, ruolo indiscusso di generatore di benessere e modernità, immagine accattivante che arriva a essere veicolata dalla televisione, l’oggetto più potente e mitico di quegli anni. Non manca neppure un forte coinvolgimento nazional-popolare ottenuto attraverso riuscite operazioni di marketing come quella della sponsorizzazione, di un’importante squadra ciclistica nazionale18, oltre alla partecipazione a 50
grandi sagre gastronomiche locali. I Ghigi in quel periodo si posizionano agli alti livelli dell’imprenditoria italiana e Morciano, all’epoca, si configura a tutti gli effetti come una piccola città industriale: come tale vive le classificazioni sociali dove le parti padronali, dirigenziali e operaie sono comunque ben delineate, i ritmi collettivi sono scanditi dai turni di produzione, il confronto politico cittadino risente chiaramente dell’attività aziendale, i livelli di consumo del paese non hanno più le caratterizzazioni di tipo rurale, ancora presenti in altri centri collinari romagnoli. Il pastificio-paese ha, come già detto, un marchio conosciuto in tutta la nazione, una squadra ciclistica dalle notevoli prestazioni internazionali – che vede il coinvolgimento di campioni leggendari come Coppi e Baldini –, è presente in un “carosello” televisivo efficace (cosa inimmaginabile per qualsiasi realtà cittadina di quelle dimensioni), ha una flotta di mezzi aziendali con impresso il suo nome tra le più importanti d’Italia, svolge azioni di marketing per l’epoca assai avanzate, coinvolge in vario modo tutto il Riminese, sia per gli aspetti industriali e occupazionali, che per quelli legati alle forniture rivolte all’emergente filiera del turismo della costa. Tutto dunque sembra andare per il meglio, ma qualcosa si agita sotto le acque tranquille, felici e vivaci del boom economico che Morciano vive più intensamente di altre realtà proprio grazie alla Ghigi. Qualcosa che deflagra nella lite tra i fratelli Emilio e Angelo avvenuta nel 1961. Il litigio va oltre lo scontro verbale e la rottura amara tra i fratelli, qualunque siano i motivi che l’hanno generata, non si risana19. Una rottura molto impegnativa in termini economici e di conduzione aziendale: all’epoca si parla della liquidazione di Angelo per una cifra intorno a un miliardo e duecento milioni di lire20. La situazione preoccupa subito i dipendenti e viene distribuito a Morciano un
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volantino dove un Comitato promotore costituito da «anziani operai della Ditta Ghigi estraneo ad ogni interesse e simpatia di parte […] – scrive che – sente il dovere di agire nell’interesse comune facendo appello alla logica comprensione e senso di responsabilità di tutti, invitandoli ad unirsi a questo Comitato affinché si possa riavvicinare e riconciliare le due parti debellando così il grave pericolo che incombe su questa nostra locale industria, che è vita, orgoglio e benessere di tutti». Il Comitato, così esorta la popolazione: «Cittadini: unitevi a questo sforzo comune affinché la concordia ritorni fra i titolari di questa prosperosa industria e che il suono delle sue sirene chiami sempre e sempre più operai a nuovi posti di lavoro e sia faro di sicurezza, di vita oggi e domani, per le nostre famiglie e il nostro paese». Non ricomponendosi in alcun modo il rapporto tra i fratelli, nel 1964 Angelo Ghigi apre una propria azienda a Rimini. Nello stesso anno scompare Emilio, che lascia le redini dell’azienda al figlio Giorgio (classe 1928). Le cose sono cambiate, sia in termini direzionali che in termini economici, e lo stabilimento di Morciano comincia a soffrire di alcune difficoltà nell’intero assetto finanziario, produttivo, commerciale e manageriale. L’azienda morcianese, che ha saputo anche diversificarsi, impegnandosi su diversi fronti, compreso quello importante dei mangimi zootecnici, continua comunque a essere apprezzata sul mercato nazionale. Nel 1966, un controllo dei Nas riscontra irregolarità relative ai prodotti destinati alle forze armate, che, dal periodo bellico, sono rimaste cliente importante del pastificio. I controlli danno luogo a significative sanzioni, a un consistente impegno finanziario e a una pericolosa “scivolata” di immagine. Una nuova svolta drammatica nella vita della Ghigi, che a tutti gli effetti può
definirsi storica per l’azienda e per tutta la popolazione della vallata, comincia a profilarsi già chiara nel 1968, per poi esprimersi in tutta la sua forza dirompente nell’estate del 1969. In singolare concomitanza con quello che sta succedendo in giro per il mondo, anche la piccola e appartata Morciano vede in quel biennio un periodo di profonde mutazioni generali e di grande agitazione collettiva. I segnali di sofferenza si erano fatti evidenti: in fabbrica e in paese si discuteva da diversi mesi di una situazione aziendale molto complicata e, nel marzo del 1969, le
Volantino distribuito a Morciano con data manoscritta 1962. Archivio L’Ape del Conca.
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parti sociali e le istituzioni avevano sottolineato tutta la gravità del momento. È del 4 marzo una delibera comunale in cui il Consiglio, riunito in seduta straordinaria, prende in esame «la grave situazione in cui si dibatte, da tempo, il pastificio e mangimificio Ghigi, che è fonte di preoccupazione fra tutti i cittadini». Ma il primo consistente atto “di massa” è quello del 7 maggio, quando, in un volantino ciclostilato rivolto ai cittadini di Morciano e della vallata del Conca, si annuncia che il «Comitato cittadino riunito in seduta pubblica, di fronte alla gravità della situazione economica e sociale del paese, causata dalle difficoltà dello stabilimento Ghigi, fa propria la decisione assunta dalle organizzazioni sindacali e sostenuta dalle categorie economiche di indire per venerdì 9 maggio 1969, uno sciopero generale di tutte le categorie con una pubblica Manifestazione per esprimere la volontà popolare affinché si arrivi ad una rapida soluzione della situazione». Come commenta il giornale L'Ape del Conca «a Morciano il 9 maggio di quest’anno si è svolto il primo sciopero generale della sua storia». Data la vera e propria angoscia collettiva, che il paese vive in tutte le sue componenti, si tenne anche un Consiglio comunale straordinario all’interno dello stabilimento. Quell’estate del 1969 la tranquilla Morciano diventerà il cuore della protesta operaia riminese e romagnola. Sarà un’estate bollente dal punto di vista sociale e giorno per giorno Morciano sperimenterà sulla propria pelle le forti tensioni che, come sottolineano i giornali, nascono dall’incombente perdita di occupazione che finisce per coinvolgere direttamente la metà della popolazione (e indirettamente l’altra metà) di un paese che all’epoca conta circa 4.000 abitanti e che nella sua evoluzione non ha mai conosciuto battute d’arresto. Giovedì 26 giugno 1969 la direzione aziendale annuncia la sospensione immediata della produzione. 52
Nei magazzini mancano le materie prime, le banche da tempo – sembra da quasi un anno – non coprono più i debiti della Ghigi verso i fornitori e il programma di rientrare dei finanziamenti erogati le spinge a non sostenere più alcuna operazione. La caduta così repentina e rovinosa di quella che era considerata comunque un’impresa di primaria importanza lascia quasi increduli, e c'è chi, come Marco Coldoni Marchi sul Resto del Carlino del 28 giugno 1969, ne traccia un efficace ritratto da gigante dai piedi d’argilla, fotografando la sua produzione giornaliera: «Buona qualità e produzione rispettabile: millequattrocento quintali di pasta, millecinquecento quintali di mangimi bilanciati, venticinque di tortellini, ottanta di grissini al giorno. Inoltre la capacità di macinare milleseicento quintali di farina, fra quella di semola destinata al pastifico e quella per i forni e la pasticceria. A far la spola tra la fabbrica – un complesso di edifici enormi cresciuti nel cuore del paese poco per volta –, e centinaia di centri del Nord e del Sud, decine di autocarri gialli e rossi, e altre decine di macchine gialle e rosse, quelle dei rappresentanti. Ventimila clienti, un giro d’affari di sette miliardi. E poi sino a qualche anno fa, la squadra ciclistica, di cui fece parte a un certo momento anche Baldini, il campione del mondo». Della situazione della Ghigi, dei vari momenti e atti della protesta, si occuperanno i mezzi di informazione, i partiti politici e le istituzioni nazionali. La cronaca dei giorni che seguirono il fermo della produzione si fa sempre più animata: «Venerdì 27 giugno: occupazione della fabbrica. Il Prefetto convoca d’urgenza le organizzazioni sindacali e annuncia la decisione presa dagli Istituti di credito. L’azienda dichiara ufficialmente che sono esaurite tutte le disponibilità finanziarie ed è quindi nell’impossibilità di proseguire la produzione. Alle ore 17 si svolge l’Assemblea generale dei lavoratori nella fabbrica i
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Sciopero e manifestazioni a Morciano nel 1969, fotografie di Mario Polverelli. Archivio L’Ape del Conca.
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Nella pagina seguente, sciopero e manifestazioni a Morciano nel 1969, fotografie di Mario Polverelli. Archivio L’Ape del Conca.
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quali decidono dalle ore 21 l’occupazione della stessa […]. Sabato 28 giugno: urgente riunione del Comitato cittadino dove si prende atto della occupazione […]. Lunedì 30 giugno: corteo dei 400 dipendenti sulla riviera e a Rimini […]. Alle ore 9 del mattino 30 autocarri della Ditta Ghigi e 80 macchine partono in colonna da Morciano e attraversano tutti i comuni della Riviera. In ogni comune li attendono i sindacati, i membri delle giunte municipali con i Gonfaloni […] a Rimini si svolge un corteo che attraversa tutte le vie cittadine. Martedì 1 luglio: incontro con i parlamentari e con i sindaci del circondario. L’obiettivo è quello di ottenere immediatamente un incontro con il Ministro delle Partecipazioni Statali Forlani. Venerdì 4 luglio: sciopero generale a Morciano: […] ogni attività produttiva è bloccata. Sono chiuse tutte le fabbriche, i bar, gli spacci, i negozi, le banche, ecc... solo l’ospedale è attivo. Sin dalle prime ore del mattino, e per tutta la giornata, sono stati mantenuti i posti di blocco stradali che hanno isolato il paese21». La protesta assume dunque i toni più accesi con la grande manifestazione e i posti di blocco che il 4 luglio chiudono ogni accesso al paese e con lo sciopero generale di vallata che si tiene esattamente una settimana dopo. Per tenere sotto controllo la delicata situazione, arrivano numerosi rinforzi alle forze dell’ordine locali, che comunque non ebbero bisogno di intervenire in alcun modo. L’attività sindacale e del Comitato d’agitazione è intensa, decisa e largamente condivisa: si registrarono qualche scritta e qualche slogan più marcatamente antipadronale, anticapitalista e rivoluzionario, opera, a quanto si dice, di alcuni filo-cinesi che arrivavano da fuori paese, ma in definitiva tutto si svolse senza atteggiamenti e atti violenti. I blocchi stradali diedero luogo a qualche denuncia che non ebbe comunque seguito.
Anche il proprietario, il signor Giorgio, come tutti lo chiamano, alla fine viene più compreso che attaccato: sono in tanti a ritenere anche lui una vittima o comunque non certamente l’unico e principale artefice di una situazione degenerata per diversi motivi e responsabilità. Questo atteggiamento rimarrà costante nella popolazione morcianese, grazie anche alla riconosciuta bonomia e disponibilità dell’uomo, all’assenza di ogni ostentazione “di classe”, all’evidente sofferenza personale. Anche nei giorni più caldi della protesta c’è chi scrive: «A Morciano nessuno ce l’ha con Ghigi, è un uomo modesto, un lavoratore, di panfili a Santa Margherita, di Miura in Versilia non se ne parla. Lui è rimasto al suo posto, a dare risposte imbarazzate al telefono e a fumare nazionali. Il dramma che investe il paese […] è prima di tutto il suo, di questo biondo invecchiato che non può passare davanti al ritratto del nonno senza sentirsi un groppo alla gola22». E così, con queste caratteristiche umane, la famiglia e la figura di Giorgio Ghigi escono repentinamente e malinconicamente dalla storia dell’azienda morcianese. Giorgio rimarrà all’interno del pastificio con un contratto da dipendente, ed entrerà nella quasi storia della quotidianità di un paese. Una quotidianità che lo vede continuare a frequentare la gente che lavorava per lui, a ritrovarsi volentieri con alcuni dei suoi operai, magari proprio con quelli più “comunisti” che in qualche modo gli sono rimasti vicini fino a quando scompare nel 1982. In quel 1969, in tanti si interrogarono (e continueranno a farlo per anni) su come sia potuto accadere che un’azienda con una buona tenuta produttiva (in quegli anni aveva addirittura allargato il mercato) sia arrivata a un tale tracollo finanziario. A Morciano si fanno tante ipotesi, lo stesso Giorgio Ghigi, in una intervista, parla della «divisione della ditta con la liquidazione dello zio, la congiuntura sfa-
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vorevole [sono anni in cui il mercato della pasta vede sostanziali modifiche anche per l’entrata in vigore della legge 580 che regola definitivamente la purezza di produzione con grano duro, n.d.r] la multa del nucleo antisofisticazione per una irregolarità di immagazzinaggio, la concorrenza, il carico dei dipendenti23», fatto sta che ciò che preme davvero a tutti, in quella infelice estate, è trovare al più presto una soluzione che non lasci senza lavoro il “mondo Ghigi”. Le forze politiche di tutti gli schieramenti, i sindacati, le istituzioni locali si impegnano a cercare soluzioni di sostegno finanziario immediate. Sono coinvolti i politici di più alto livello, i parlamentari e i senatori dell’ambito regionale, i ministri competenti. Si richiedono interventi straordinari dello Stato e dei soggetti che all’epoca possono effettuare salvataggi industriali di ampie dimensioni: vengono coinvolti il Ministero dell’Industria, delle Partecipazioni Statali e del Tesoro attraverso i contributi della legge 1470, che prevede l’erogazione di finanziamenti per mutui a tasso agevolato destinati alle imprese dissestate, il Medio Credito Regionale, il Medio Credito della Banca Nazionale del Lavoro, l’Istituto Mobiliare Italiano. Si punta anche a un coinvolgimento di diversi soggetti economici imprenditoriali romagnoli, che possano compartecipare a una Ghigi Spa, dotata di un nuovo assetto finanziario, gestionale e dirigenziale. Il risultato non è facile da raggiungere ma, grazie a una mobilitazione davvero molto ampia di tutta la cittadinanza della Valconca, e dell’intero ambito Riminese in tutte le sue componenti, a metà luglio sembrano esserci alcune garanzie di intervento e si mettono in qualche modo insieme i capitali necessari per dare vita ad una Spa, totalmente controllata da soggetti esterni alla vecchia proprietà. I finanziamenti messi insieme consentono di riprendere, come si può, la produzione. La situazione, 55
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Consiglio Comunale in fabbrica, 1969. Fotografia di Mario Polverelli. Archivio L’Ape del Conca.
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pur tra riduzione di personale e di orari di lavoro, agitazioni interne, incertezze produttive e finanziarie, tende a normalizzarsi, anche se nulla sembra tornare davvero come prima. Già nel 1971 le organizzazioni sindacali CGIL, CISL e UIL hanno piena coscienza della pessima situazione che perdura e redigono un documento unitario ben definito e prezioso, per tutta una serie di dati strutturali e produttivi, che descrive, con precisione, la condizione aziendale. Nel documento, «essendo la situazione dell’azienda sull’orlo del collasso», si chiede «una rinnovata attenzione e un concreto impegno di tutti i soggetti politici e amministrativi locali e nazionali onde evitare ulteriore riduzione della forza lavoro24». Tutto è diventato più complesso, l’azienda fatica a risollevarsi e a rimettere in moto la filiera in modo efficiente: così difficile che la Ghigi Spa non sopravvive neppure tre anni dal suo avvio, nel marzo del 1972 dichiara fallimento e interviene prontamente la GEPI (Società per le Gestioni e Partecipazioni Industriali), Istituzione finanziaria nazionale che opera sulle aziende in dissesto attraverso la gestione diretta, con l’obiettivo di mantenere i livelli occupazio-
nali. L’intervento previsto è di ben 1.800 milioni di lire e il Ministro Piccoli arriva a Morciano per ufficializzare l’impegno del Governo25. La GEPI affida la conduzione dell’azienda alla GEAL, sua emanazione diretta, e nasce la Geal Ghigi. L’azienda è però ormai fuori dal giro dei grandi pastifici nazionali, le sue dimensioni produttive e occupazionali vanno progressivamente riducendosi e, nel 1979, la proprietà passa a CONSVAGRI, un consorzio di importanti cooperative che operano tra Romagna e Marche. Per due decenni l’azienda respira meglio, recupera produttività, redditività e immagine, fino a quando, nei primi anni del 2000, anche il Consorzio che detiene la proprietà entra in una crisi generale che porta a un nuovo fallimento nel 2007. I dipendenti rimasti, una settantina in tutto, sono messi in cassa integrazione. Nel mese di dicembre di quell’anno il grande castello della Ghigi è definitivamente abbandonato; a molti sembra impossibile che nessuno lavori più dentro gli enormi edifici che dominano Morciano. Quegli spazi infiniti diventano impressionanti e silenziosi custodi di macchine dismesse, residui di farina e di sentimenti, odori di fatiche, gioie, speranze e paure di un intero paese, avviandosi sulla strada spietata dell’inutilità. Nel 2008, la proprietà dell’azienda e del marchio passano al Consorzio Agrario di Forlì-Cesena e Rimini, che decide di spostare la produzione in un nuovo stabilimento. Nel 2010 nasce ufficialmente la Ghigi industria agroalimentare che avrà sede nello stabilimento completato due anni dopo. Il marchio Ghigi dunque non muore, vive nella nuova struttura aziendale situata nei pressi di Morciano, nella vicina San Clemente, che viene inaugurata l’8 maggio 201226. Nel frattempo lo stabile al centro di Morciano comincia a degradare e semplicemente tenerlo in sicurezza diventa davvero difficile.
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Il destino del vecchio stabilimento, sia per il complicato contesto urbano in cui è inserito, sia per le sue caratteristiche e le assai dubbie condizioni strutturali, è segnato: «l’ex pastificio, così verticale e possente, così anni Cinquanta nel suo disinteresse pragmatico – forse anche rozzo – nei confronti di ogni apparenza, è davvero un alieno, un fuori scala minaccioso rispetto al piccolo paese, placido, orizzontale e indifeso. Dopo gli anni felici della produzione e del successo di mercato, oggi per questo edificio sono arrivati quelli duri: sta diventando – è già diventato – da quando è rimasto vuoto di persone e di attività, una rovina27». Nel settembre del 2013 entrano in azione gli ammalianti e modernissimi mostri che abbattono e triturano pezzo per pezzo quella che da lontano appariva come una cattedrale industriale, forse la più potente, almeno dal punto di vista strutturale, del Riminese. Tutto un paese e molti abitanti della Valconca – dalle generazioni
che hanno vissuto il mondo Ghigi fino ai bimbi più piccoli attratti dagli incredibili dinosauri meccanici – si assiepano per quattro mesi nelle vie intorno al pastifico per assistere a una impresa che ha qualcosa di titanico. La demolizione diventa spettacolo, con l’odore polveroso dei muri imponenti che si sbriciolano sotto i morsi delle macchine, i sentori forti di farina e di mangimi intrappolati tra le pareti da molti decenni, il peso dei ricordi belli e brutti: un evento collettivo di quelli che segnano un’epoca e suscitano emozioni che non si dimenticano. Qualche morcianese non può fare a meno di passare tutti i giorni a vedere come muore il gigante. È l’ultimo regalo del Pastificio Ghigi al suo paese. La superficie edificata dello stabilimento – secondo un documento degli anni Settanta – ammontava, sviluppandosi sui diversi piani, complessivamente a 105.000 metri quadrati. Nei primi mesi del 2014 della famosa fabbrica Ghigi di Morciano non resta più nul-
Lavori di demolizione del pastifico nel 2013. Fotografia di Emilio Cavalli.
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la. Il grande spiazzo pavimentato di macerie sminuzzate dove sorgevano le colossali torri da cui cantavano le sirene del lavoro, è perfettamente pareggiato, più che dalle ruspe, dalla livella della Storia, in generale, e dalle vicende aziendali particolari, pronto per le nuove sfide di un paese che alla Ghigi ha legato un tratto lungo, intenso e speranzoso della propria vita. Il lavoro La produzione di pasta essiccata, prodotto dalle marcate caratteristiche industriali, non ha origini così moderne come verrebbe forse da pensare. Piero Meldini cita un riferimento prezioso ripreso dalla cronaca riminese di Filippo Giangi, dove si dice che nel 1760 Zenobio Tassi, proveniente da Firenze, apre una «fabbrica delle paste, cioè bigoli, maccheroni paste all’uso di Puglia» che riscuote buon successo in città28. Se è difficile capire quali fossero le reali dimensioni dell’impresa, è comunque certo che si tratta di una testimonianza diretta, tra le più interessanti in ambito locale, di quello che è un uso alimentare, e un procedimento produttivo, già presente a metà del 1700. La pasta fresca ha storia antichissima: qualcuno ipotizza che qualcosa di simile a ciò che oggi definiamo “pasta” fosse in definitiva già presente in epoca neolitica, ma testimonianze iconografiche e letterarie riferibili a questa preparazione alimentare risalgono con certezza alla civiltà etrusca e a quella della Magna Grecia. Sono numerosi anche i riferimenti a diverse tipologie di pasta che si ritrovano nella cultura e nella letteratura latina classica29. La produzione di pasta secca, secondo gli studi più accurati, è invece documentata in epoca medioevale, comunque certamente prima del ritorno di Marco Polo dal suo viaggio in Oriente (1295) a cui 58
una leggenda, tanto diffusa quanto priva di fondamento, attribuirebbe l’importazione di questo prodotto alimentare da quelle terre lontane. Ben più fondata, è l’opinione che vede l’origine, o comunque la diffusione di questa tecnica produttiva, nelle terre siciliane sottoposte al dominio mussulmano, quando la semplice procedura di essiccazione della pasta al sole e all’aria aperta si sarebbe perfezionata grazie all’esigenza di produrre e trasportare oltremare derrate a lunga conservazione per il fiorente commercio sui mercati saraceni e berberi. È un fatto che nel Medioevo esistono già botteghe specializzate nella produzione di pasta in diverse città italiane, conquistate da questo uso alimentare che, dal Sud Italia, si diffonde in tutto il territorio nazionale della penisola. Già nel XIII secolo sono attivi pastifici a Napoli e a Genova, non a caso città di grande vocazione commerciale e traffico marittimo. All’epoca si sviluppa la produzione anche in Puglia e in Toscana (da notare la coincidenza con la testimonianza riminese del Giangi) e si giunge, tra XIV e XV secolo, alla presenza in diversi centri italiani delle “Corporazioni di pastai” che fissano le prime norme produttive e commerciali del settore. Sempre Meldini, in riferimento alla nascita dell’attività di produzione di pasta secca dei Ghigi nel 1870, afferma, a ragione, che di essa «si faceva al tempo un uso ben maggiore di quanto oggi non si immagini30». Pur essendo l’Emilia Romagna una delle regioni che per cultura e tradizione gastronomica rimane nel tempo più legata di altre al consumo di pasta fresca, è evidente che la diffusione del prodotto pasta secca si lega a mutamenti economici e sociali che segnano anche quest’ambito regionale. La pasta secca si profila sempre più come un prodotto a buon mercato di cui è facile disporre, più semplice da conservare e consumare rispetto alla pasta fresca, fatta in casa. Questo vale cer-
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Il pastificio alla fine anni Quaranta, inizio anni Cinquanta. Archivio L’Ape del Conca.
Il pastificio fine anni Cinquanta inizio anni Sessanta. Archivio L’Ape del Conca.
tamente negli ambiti urbani ma anche in quelli rurali che, appena possono uscire dalla pura economia di scambio, riscontrano nel prodotto buone caratteristiche di praticità e convenienza, tanto che la pasta secca sembra caratterizzarsi non tanto come “cibo povero” ma piuttosto come “cibo di massa”, in modo perfettamente coerente allo sviluppo sociale che segnerà l’Ottocento e vedrà, appunto, le masse avvicinarsi sempre più alle produzioni e ai consumi di tipo industriale. A Napoli, sin dai primi dell’Ottocento, si produce pasta su larga scala, utilizzando
torchi a vite manuali che realizzano meccanicamente la “formatura” della pasta. Si va nel frattempo perfezionando tutta la dotazione tecnologica che trasformerà le botteghe artigianali fondamentalmente “manuali” in veri e propri opifici industriali. Nel 1827, apre il pastificio Buitoni di San Sepolcro, che raccoglie la lunga tradizione produttiva toscana e dispone, similmente a Morciano, di un vicino e ricco bacino di rifornimento della materia prima: questo è considerato da molti il primo vero e proprio impianto industriale moderno del settore. Proprio intorno al 1870, l’anno di 59
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Nella pagina seguente dall'alto, veduta del pastificio inizio anni Sessanta Fotografia di Mario Polverelli. Archivio L’Ape del Conca. Macchinari del pastificio fine anni Sessanta Fotografia di Mario Polverelli. Archivio L’Ape del Conca. Macchinari in un depliant pubblicitario fine anni Sessanta.
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fondazione ufficiale del pastificio Ghigi, la ditta Pattison di Napoli costruisce i primi torchi idraulici per pasta e, nello stesso periodo, si inventano anche le gramole meccaniche, le impastatrici automatiche e i primi congegni per l’essiccazione artificiale, vero snodo tecnologico, cruciale del settore, che vedrà il deposito di numerosi brevetti fra gli ultimi decenni dell’Ottocento e i primi del Novecento. L’impresa dei Ghigi si pone dunque a pieno diritto in questa fase di pionierismo industriale del settore, una fase che, come si è già sottolineato, trova perfetto riscontro nella situazione storico-sociale che in quegli anni vive Morciano. Un ampio bacino rurale gravita sulla cittadina e le sue attività commerciali, sia stabili che periodiche (i diversi commercianti all’ingrosso e al minuto presenti in paese, i mercati settimanali, le fiere), garantiscono un’immediata e naturale rete distributiva del prodotto. Non è possibile sapere con certezza quale fosse la prima dotazione dell’impresa Ghigi, ma è probabile che si trattasse di un semplice torchio di legno con le “trafile” per i principali formati di pasta, di qualche gramola manuale e di attrezzature da utilizzare secondo «rudimentali ed incerti metodi di essiccazione»31. In tutte le memorie aziendali, riferite all’epoca precedente, si parla di attrezzature assai approssimative, soprattutto per quello che riguardava la fase di essiccazione, vista come il procedimento forse più complesso e incisivo dell’intero ciclo di lavorazione. Un riscontro realistico delle tecniche e delle dimensioni produttive dell’azienda si coglie seguendo l’evoluzione delle sedi dello stabilimento. La bottega del centro storico si arricchisce di un prospiciente laboratorio in cui possono operare più macchine e più lavoranti, che sul finire degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta portarono, in quegli spazi sempre più stretti, con l’aumentare del fatturato, a un notevole
incremento della produzione giornaliera che passa da 5 a 40 quintali. Sembra che, fin dall’inizio, una delle specificità che determinarono il successo della pasta Ghigi fu quella della sottigliezza delle “cartelle”, cioè dello spessore ridotto della sfoglia, non facile da ottenere mantenendo le caratteristiche complessive del prodotto. Uno dei punti di forza dell’impresa, dovuto alla determinazione dei fratelli Angelo ed Emilio, fu proprio quello di seguire quanto più possibile il progresso tecnologico del settore. Questo li spinse nel 1932 – a dieci anni dall’inizio della loro gestione diretta – a mettere le mani al completo rinnovamento degli impianti industriali e della struttura stessa, edificando il primo nucleo del grande opificio che si svilupperà, con interventi successivi, in via Roma. Grandi operazioni sia sugli immobili, che sui macchinari, intervennero ancora nel 1948 e nel 1953, quando furono ampliati i vari spazi di lavorazione, compresi il molino e i diversi silos. Bruno Ghigi, che sin da ragazzino frequentava la fabbrica con il padre Angelo, a proposito degli anni dell’immediato Dopoguerra ricorda che «la tecnologia era primordiale se non addirittura inesistente» e che molte operazioni, dal taglio dei formati, alla disposizione della pasta negli essiccatoi, erano fatte a mano, mentre tutti i controlli delle varie fasi e procedure (compreso il calore e l’umidità delle celle di essiccazione) erano affidati all’occhio e all’esperienza empirica dei lavoranti. Sempre riferendosi al Dopoguerra Bruno Ghigi scrive: «Mio padre diceva che un buon pastaio era un artista perché, non essendoci alcun strumento di regolazione, la buona riuscita del prodotto era affidata alla sensibilità sia del macchinista che dell’essiccatore». Fotografando con obiettività la situazione lavorativa generale aggiunge che «la vita nel pastificio era molto dura: caldo, umidità, rumore, sforzo
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fisico, facevano del pastificio una sorta di girone dantesco, al quale si aggiungeva il disagio dei turni di notte. Per fortuna arrivò un po’ di meccanizzazione e il lavoro divenne meno pesante e più produttivo»32. I Ghigi puntarono dunque sul costante ammodernamento dei macchinari e non raramente intervennero sui modelli standard forniti dalle ditte specializzate con migliorie meccaniche e personalizzazioni che li resero più efficienti. Come già ricordato, nel 1959 la Ghigi arriva a produrre 700 quintali di pasta al giorno. I turni di lavoro all’interno dello stabilimento coprono le 24 ore e su quello notturno, ovviamente il più duro e per certi versi “misterioso” nel castello della Ghigi – con lavorazioni che vedono coinvolti al pari uomini e donne, non solo presenti, ma spesso in maggioranza nell’organico – nascono facilmente leggende metropolitane di ispirazione più farsesca che maligna. Un’operazione industriale di notevole peso riguarda anche la diversificazione dei prodotti: nel tempo alla fabbricazione di pasta secca si affiancarono altre produzioni che portarono la Ghigi a configurarsi come un complesso opificio a ciclo completo. Un ruolo importante verrà assunto dal mangimificio e dagli alimenti per la zootecnia, che rappresenteranno a un certo punto una parte decisamente significativa dell'intera produzione Ghigi. Nel 1966 il catalogo aziendale completo presenta ben 131 formati di pasta. La migliore analisi della produzione complessiva la ritroviamo nel già citato documento sindacale del 1971 (quindi in periodo di crisi aziendale) in cui sono trattati tutti i settori e le linee di produzione. Sono analizzate le strutture di base della produzione, come le quantità di lavorato dei molini (grano duro e grano tenero), le capacità dei silos, con relativi impianti di insacco, e il pastificio “classico”, con una 61
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sala macchine in grado di produrre 1100 quintali tra pasta di semola e pasta all’uovo nelle 24 ore. Si analizzano inoltre il tortellinificio, la macchina ravioli, la macchina gnocchi, il grissinificio, l’importante mangimificio – che ha una capacità produttiva di 1600 quintali al giorno – e il reparto confezioni, con una capacità di lavorazione giornaliera di 700 quintali. Nello stesso documento si fotografa anche la situazione occupazionale: «il complesso darebbe occupazione a 300 operai e 60 impiegati. Attualmente (marzo 1971) la forza è di 229 operai e 54 impiegati, di cui 18 tecnici». Da notare l’importante quantità di tecnici presente nello stabilimento diversi dei quali impegnati nelle varie fasi di controllo del prodotto, grazie alla presenza di un vero e attrezzato laboratorio di analisi interno. Interessante anche il dato sul personale esterno coinvolto direttamente nel funzionamento della ditta, quei lavoratori che andavano a pieno titolo a formare il variegato “mondo Ghigi”: si tratta di circa 150 persone tra facchini (organizzati in cooperativa) agenti di commercio, alcuni trasportatori indipendenti ecc...
Il laboratorio analisi negli anni Sessanta, in un depliant pubblicitario.
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La stima sindacale del 1971 parla di un totale di stipendi erogati per 800 milioni di lire all’anno, e si consideri che all’epoca oltre 100 dipendenti avevano già abbandonato l’azienda per dimissioni o per raggiunti limiti d’età. Tra tutti i settori quello dei trasporti era indubbiamente uno dei più “spettacolari”. Si parla di più di 100 mezzi delle più varie dimensioni che portavano in tutt’Italia i prodotti Ghigi: una flotta notevole e ben curata anche sotto il profilo dell’immagine, con tanto di “colori Ghigi” appositamente creati per personalizzare completamente la carrozzeria del grande camion furgonato come della Fiat 500 Giardinetta. I mezzi motorizzati erano all’epoca un formidabile strumento di diffusione del marchio aziendale: tra gli anni Cinquanta, e l’inizio degli anni Settanta, ciò che di brandizzato passava per strada suscitava ancora attenzione e stupore, le strade non servivano solo a muoversi, ma erano veri e propri ambiti di moderna ed efficace comunicazione. Così scrive Bruno Ghigi: «Erano gli anni in cui Barilla e Buitoni avevano cominciato a fare pubblicità
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alla radio e mio padre rispose con uno strumento pubblicitario [un camion rimorchio dipinto con il marchio e i colori aziendali, ndr] che percorreva centinaia di migliaia di chilometri all’anno passando fra la gente e attirando l’attenzione di milioni di persone […], ed era talmente convinto della validità di questo strumento che per ogni anno, finché le condizioni del traffico lo permisero, organizzò una carovana con tutti i mezzi aziendali che il giorno di Ferragosto percorrevano tutta la Riviera, da Cattolica a Cesenatico, trasmettendo una grande immagine di solidità e potenza»33. All’interno della Ghigi, il settore marketing e comunicazione è consistente e tanto po-
tente da produrre uno spot televisivo che nei primi anni Sessanta vide numerosi e continuativi passaggi all’interno della trasmissione di Carosello. Arrivare a essere presenti in questo mitico contenitore televisivo, che portava ogni sera nelle case “la vita felice” dei consumi di massa, significava aver raggiunto i vertici dell’industria italiana. Di buona qualità, e perfettamente in linea con la grafica pubblicitaria dell’epoca, era il personaggio chiave dello spot, “Gigi”, che alla fine si rivolgeva ai telespettatori con lo slogan: «da Gigi un consiglio nostrano, pasta Ghigi Morciano». La comunicazione della Ghigi di quegli anni risulta molto curata, in tutti gli strumenti e mezzi utilizzati, e un’analisi atten-
Immagine del parco mezzi della Ghigi in piazza Risorgimento a Morciano nel 1964. Fotografia di Mario Polverelli. Archivio L’Ape del Conca.
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Imprese Storiche Pubblicità metà anni Sessanta. Bozzetto pubblicitario inedito anni Sessanta.
Pubblicità fine anni Cinquanta tratta, per gentile concessione, dal volume Si mangia a occhi chiusi di Emilio Cavalli, Edizioni La Piazza, 2014.
Nella pagina seguente, Catalogo formati metà anni Sessanta. Etichetta anni Cinquanta/ Sessanta.
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ta rivela una notevole consapevolezza dei meccanismi pubblicitari. Nel 1964 un depliant aziendale illustra una vera e propria pianificazione mezzi di ampio respiro e decisamente avanzata che comprendeva interventi in televisione, al cinema, sui rotocalchi femminili, affissioni, pubblicità sui punti vendita, gadget. L’azienda s’impegnava in un packaging di qualità, gadget, locandine, manifesti con slogan che cambiavano in base alle modifiche del mercato e ai target, ricercati calendari, anch’essi all’avanguardia per l’epoca. Angelo Ghigi «commissionò ad un disegnatore due bozzetti di donne procaci, di cui si indovinassero le forme dietro ad abitini striminziti e incollati sulla pelle. Niente nudità esplicite. Non erano i tempi e non avrebbe mai osato tanto, ma solo una maliziosa esposizione di curve, più da indovinare che da vedere. Una delle ragazze era bionda, l’altra mora. Il successo fu strepitoso, ma non so a quale delle due fossero maggiormente dirette le simpatie dei clienti»34.
L’idea di dare quanto più possibile lavoro ai morcianesi trovava modo di applicarsi anche in questo settore: i grafici di molti
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Imprese Storiche La squadra ciclistica Coppi-Ghigi. Fotografia di Walter Breveglieri.
manifesti, dei calendari e delle “donnine” erano di Morciano, i titolati artisti della famiglia Selva35 e, leggenda vuole, che anche le bellezze femminili ritratte fossero di ispirazione locale. La Ghigi pensava anche a iniziative di forte fidelizzazione in un ampio ambito romagnolo e marchigiano: per decenni rimasero famose le “spaghettate” offerte dalla Ghigi in occasione delle sagre paesane più frequentate. Tutto il territorio era spinto, anche attraverso queste azioni “di piazza” ad avvicinarsi e affezionarsi al prodotto e all’industria Ghigi. Operazione di marketing di grande portata, nata da una passione familiare dei Ghigi, fu la sponsorizzazione di una squadra ciclistica nazionale, in un’epoca in cui questo sport era forse pari al calcio per coinvolgimento popolare, forza simbolica e di rappresentazione identitaria. Era il tempo in cui i campioni del pedale dividevano l’Italia, il tempo in cui tutti scendevano in strada per vedere, o almeno convincersi di aver visto, sfrecciare davanti a loro eroi e simboli che rispondevano al nome di Bartali e Coppi.
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Proprio quest’ultimo venne contattato dalla Ghigi per collaborare con la squadra e nacque così la Coppi-Ghigi «che però dovette in breve tempo cambiare nome con la sola denominazione Ghigi, in quanto Coppi aveva già in corso un abbinamento sportivo con la Carpano e la federazione ciclistica mise il suo veto a una doppia sponsorizzazione». Un’operazione indubbiamente costosa che però, in termini pubblicitari, venne considerata produttiva e di fortissimo impatto. Molti i nomi di campioni nazionali e internazionali che passarono nella squadra36. Ma, oltre ai campioni, passavano anche gli anni e le cose stavano cambiando nel mondo del ciclismo come nel mondo della Ghigi. Stavano finendo gli anni più belli e mitici di chi pedalava, per sport o per lavoro, sulle strade italiane, come stava per finire l’epoca più bella e mitica di chi – con qualsiasi ruolo, dal più alto al più umile – aveva “pedalato” e sudato tanto nella fabbrica che rese florida e per lungo tempo felice Morciano.
le mani in pasta
Note
24 Documento ciclostilato delle organizzazioni sindacali CGIL, CISL, UIL. Si conserva copia nell’archivio dell’Ape del Conca.
1 Pier Giorgio Pasini, Passeggiate incoerenti tra Romagna e Marche, p. 26. Minerva Edizioni, Argelato, 2006,.
25 Vedi Egidio Belisardi, Morciano di Romagna, pp. 234,235.Panozzo Editore – Banca Popolare Valconca, Rimini, 2015.
2 Duilio Cavalli in “L’Ape del Conca”, Marzo 1956, riportato anche su Emilio Cavalli, Si mangia a occhi chiusi, La storia della Ghigi, p. 58. La Piazza Editrice, 2014.
26 Il 18 maggio 2014 la fabbrica cambia di nuovo ragione sociale e diviene Ghigi 1870 Spa.
3 Oreste De Lucca, L’uomo e l’ambiente in Valconca, p. 89. Minerva Edizioni, Argelato, 2004. L’intero testo presenta numerosi riferimenti al rilevante ruolo economico sociale di Morciano nell’ambito riminese. 4 Vedi Giuseppe Mosconi, Valconca, cento anni con la Banca Popolare, pp. 21-27. Minerva Edizioni, Argelato, 2010. 5 Emilio Rosetti, La Romagna, p. 496.Ulrico Hoepli, Milano 1894.
27 Piero Orlandi, Un relitto moderno, in Lorenzo Amaduzzi, Daniele Lisi, Pasta di Romagna. Impronte di fabbrica, Banca Popolare Valconca, 2011, p. 9. 28 P. Meldini, op. cit, p. 79. 29 S. Serventi, F. Sabban. La Pasta. Storia e cultura di un cibo universale. Laterza, Bari, 2004 30 P. Meldini, op. cit., p. 80. 31 B. Balzani, op.cit. 32 B. Ghigi, op. cit. p. 16. 33 Ibid., p. 20.
6 Piero Meldini, La cultura del cibo tra Romagna e Marche, p. 77. Minerva Edizioni, Argelato 2005.
34 Ibid., p. 20.
7 Ibid., p. 79.
36 B. Ghigi, op. cit., p. 22 e tutto il paragrafo Il ciclismo pp. 22-25. Si vedano anche i materiali raccolti in E. Cavalli, op. cit., pp. 29-43.
8 Oreste De Lucca, op cit., p. 89. 9 Si veda Giuseppe Del Magno, Storia di Morciano, pp. 6-1. Rimini, s.d. ma 1991.
La squadra ciclistica Ghigi a Milano alla benedizione del cardinale Montini (divenuto Papa Paolo VI) in occasione dell'inaugurazione del Giro d'Italia. Fotografia di Walter Breveglieri.
35 E. Cavalli, op. cit., p. 44.
10 Si veda “L’Ape del Conca”, Marzo 2014: Angelo Chiaretti presenta una ricostruzione storica interessante ma piuttosto frammentaria compiuta con ricerche d’archivio da Orfeo Matteoni nel 1968. 11 Benito Balzani, Il pastificio dalle origini ai giorni nostri, in “L’Ape del Conca”, Marzo 1959. 12 Ibid. 13 Bruno Ghigi, La mia vita tutta di corsa, (per non dimenticare Angelo Ghigi), p. 42. Ramberti Arti Grafiche, Rimini, 2003. 14 B. Balzani, op.cit. 15 P. Meldini, op. cit., p.80. 16 Angelo non fece mai mistero della sua adesione al partito fascista. Vedi B. Ghigi, op. cit., p. 28. 17 B. Balzani, op. cit. 18 Si veda l’interessante materiale raccolto da Emilio Cavalli, in op. cit. p. 29-43. 19 Sulla vicenda cfr. B. Ghigi, op. cit., pp. 12, 43-44. 20 Si veda l’articolo di Silvano Cardellini sul periodico di Rimini “Il Corso”, anno IV n. 19 del 10 luglio 1969. 21 Cronaca di Piero Berardi sul bollettino sindacale a cura della C.C. d.l. di Rimini, “Il Sindacato Moderno”, Luglio 1969. 22 Marco Coldoni Marchi “Il Resto del Carlino”, 28 giugno 1969. 23 Ibid.
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FOTO APERTURA?
III. LA REGGIA DEL MARE
Il Grand Hotel di Rimini
l’impresa dell’ospitalità
Può essere ovvio dire che ci sono luoghi di cui è più difficile scrivere perché le storie e le suggestioni che vi trovano casa sono talmente tante, e così intense, che finiscono per confonderne i tratti reali; eppure è così e uno di questi luoghi è senza dubbio il Grand Hotel di Rimini. Quando nel 1994 è stato dichiarato Monumento Nazionale, si è sancito non solo il suo valore storico e architettonico, ma ancor più la sua unicità simbolica. Al Grand Hotel è stata riconosciuta ufficialmente ciò che forse ancor prima dell’inaugurazione, nel 1908, era – ed è ancora oggi – la sua più chiara caratteristica: quella della particolare energia immateriale che gli è propria, una forza rappresentativa che in più di cento anni di vita ha dimostrato di mantenersi e propagarsi al di là delle concrete vicende che lo riguardano. Del resto fin dal suo concepimento al Grand Hotel è chiesto di presentarsi come segno straordinario di un’identità cittadina che si apre al mondo, come icona di un’idea improntata alla distinzione sociale, economica, culturale; una strutturasimbolo, più o meno sfavillante a seconda dell’epoca, che ha continuato in più di cent’anni a suscitare attenzioni non solo imprenditoriali, configurandosi a pieno ti-
tolo come monumento dell’immaginario nazionale. A fare del grande albergo un vero e proprio mito hanno contribuito non solo le dimensioni, le pregevoli architetture e le caratteristiche del servizio offerto, ma tanti e differenti elementi: dal carattere delle varie proprietà e direzioni che si sono succedute, alle innumerevoli personalità di rilievo ospitate, dalle feste da favola nei suoi saloni e nel suo parco, alle avventure galanti consumate tra le sue mura, dal suo stile immancabilmente retrò – in alcuni periodi scivolato piuttosto evidentemente verso il délabré – allo sfarzo delle cinque stelle. È certo però che una svolta straordinaria nella storia e nell’immagine dell’hotel avviene nel 1973, quando Federico Fellini lo sceglie non tanto come scenografia, ma piuttosto come vero co-protagonista, forse addirittura il più onirico, del suo ’Amarcord. La personificazione di un luogo che Fellini e Tonino Guerra affidano alle parole della voce narrante del film, il colto avvocato che recita «Io chiamo il Grand Hotel la Vecchia Signora»: una personificazione addirittura al femminile, che per certi versi si addice meglio a un luogo di fascina-
Particolare da una cartolina edita in occasione della apertura del Grand Hotel, 1908. Collezione Alex Giacomini.
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zioni, a un palazzo da fiaba dove si respira la seduzione della ricchezza che tutto avvolge e consente, e dell’opulenza vissuta ed esibita. Per Fellini il Grand Hotel di Rimini « era la favola della ricchezza, del lusso, dello sfarzo orientale. Quando le descrizioni nei romanzi che leggevo non erano sufficientemente stimolanti da suscitare, nella mia immaginazione, scenari suggestivi, tiravo fuori il Grand Hotel, come certi scalcinati teatrini che adoperano lo stesso fondale per tutte le situazioni. Delitti, rapimenti, notti di folle amore, ricatti, suicidi, il giardino dei supplizi, la dea Kalì:tutto avveniva al Grand Hotel. […] Ci giravamo attorno come topi per darci un occhiata dentro; ma era impossibile. Dietro (allora curiosavamo nel grande cortilone dietro (sempre in ombra con le sue palme che raggiungevano il quinto piano) pieno di macchine dalle targhe affascinanti e indecifrabili. […] Le sere d’estate il Grand Hotel diventava Istanbul, Bagdad Hollywood»1. Il Grand Hotel e Rimini, illuminati dall’intensità immaginifica e sentimentale di Fellini, stringono, o meglio sanciscono in pubblico (e che pubblico!), un sodalizio unico e irripetibile: diventano una cosa sola, un mito dentro a un altro mito, due partner legati da uno strano e non facile rapporto e che, comunque sia, vanno pensati insieme. Sin dalla sua prima proiezione ’Amarcord racconta al mondo che il Grand Hotel, pur nella sua evidente e misteriosa separazione da tutto ciò che lo circonda, non sarebbe la stessa cosa senza Rimini, e Rimini certo non sarebbe quello che è senza il Grand Hotel. Privilegio, eleganza, sfoggio, piacere e sensualità sono le parole chiave che legano saldamente il Grand Hotel alla sua epoca, a quella Belle Époque e quell’estetica Art Noveau che, per chi poteva, volevano essere belle e nuove soprattutto nell’arte di vivere. 70
Fellini con le lunghe sequenze dedicate all'albergo dei suoi ricordi ha ancora una volta scavato nei significati più semplici e insieme più profondi, cogliendo l’essenza della multiforme vocazione e della complessa professione dell’ospitalità che da metà Ottocento segna l’economia e l’anima riminese: una vocazione, che ha bisogno di concretezza come di astrazione, necessarie entrambi per offrire non una merce qualsiasi, semplici servizi alla vacanza, ma piuttosto occasioni e luoghi in cui sognare. Le vicende Tutto sembra cominciare con una sfida, una di quelle sfide imprenditoriali che, come succedeva agli albori del XX secolo, si pongono grandi obiettivi di ammodernamento, guardano alla società nel suo complesso e finiscono per incidere profondamente sul contesto in cui si realizzano. La sfida è quella che diverse città italiane ed europee affacciate sul mare giocano all’epoca per salire sul podio del ricco, ed elitario, turismo balneare. Agli inizi del Novecento Rimini vanta più di mezzo secolo di significativa, e per alcuni aspetti già consolidata, industria balnearia. In quegli anni la scelta è definitivamente maturata: Rimini punta a divenire una città pensata per i “signori bagnanti”, una di quelle comunità che guardano a un futuro centrato sull’emergente e moderna economia della vacanza e del loisir. La prima struttura balneare riminese, risalente al 1843 – una piattaforma con camerini simile a diverse altre impiantate sulle coste europee –, lascia il posto, nel 1873, a un nuovo, grande e ben attrezzato stabilimento, che accoglie i sempre più numerosi ospiti delle ville che si vanno costruendo sul litorale2. Il complesso dello stabilimento è costituito da diversi importanti edifici sorti su un ampio spazio
la reggia del mare
prospiciente al mare destinato a diventare il cuore della città delle vacanze: oltre alla piattaforma, alla “pagoda cinese”, alla “capanna svizzera”, è stato realizzato il costoso Kursaal, affiancato dalle due palazzine Roma e Milano destinate alla funzione ricettiva, e di li a poco, nel 1876, viene inaugurato lo stabilimento idroterapico. Il risultato è quello di un insieme di notevole portata urbanistica, e cospicuo impegno finanziario, sostenuto in maniera rilevante dal Comune, a cui manca, per risultare completo e competitivo rispetto ad altre destinazioni balneari italiane ed europee, un vero “grande albergo”, un hotel capace di stupire e attrarre quell'elite vacanziera internazionale che determina il successo, l’affermazione, il prestigio di una stazione balneare à la page. Tutte le vere città balneari dell'epoca, per definirsi tali, hanno bisogno di un nucleo centrale costituito dalla piattaforma e dai camerini, un Kursaal (destinato allo svago e all’intrattenimento mondano), una promenade (la passeggiata nei pressi del mare) e, almeno, un albergo del più alto livello. Sulle spiagge europee dove la “moda dei bagni” ha mosso i primi passi (Dieppe, Brighton, Ostenda, Scarborough, Cabourg, Trouville, Cannes, Nizza ecc...) esistono da tempo considerevoli complessi alberghieri (il Grand Hotel di Cabourg è del 1862, quello di Cannes risale al 1864 e quello di Scarborough al 1867), con prestazioni adeguate alla facoltosa clientela3. In Italia, alcuni centri pionieri del
turismo balneare sono già impegnati nella realizzazione di strutture che provano a confrontarsi per sfarzo e qualità di servizi con quelle europee. L’arrivo del nuovo secolo sembra, per tanti e diversi motivi, dare ulteriore slancio all’economia dei bagni e alla cultura della balneazione che ha ormai conquistato, non solo il consenso, ma il netto favore della upper class del momento4. Le ville e i villini privati fanno la loro parte nell’ospitare la buona società che vuole godere del mare secondo le modalità che vanno definendosi in quegli anni, ma diventano comunque indispensabili alberghi in grado d’ accogliere e rappresentare al meglio tutto quel “bel mondo” che non vincola la propria vacanza alla proprietà di una residenza, più o meno lussuosa, in Riviera, e che, anzi, sceglie proprio i grandi alberghi come segno di elevazione sociale, modernità internazionale e distinzione culturale. Scrive Ferruccio Farina: «A quei tempi l’epoca d’oro dei Grand Hotel era già dilagata nelle principali città europee soprattutto grazie alle grandi compagnie ferroviarie che ne avevano promosso la co-
In alto, lo stabilimento Bagni di Rimini prima della edificazione del Grand Hotel in una Cartolina postale disegnata. Primi anni del Novecento. Collezione Luciano Liuzzi.
Il Kursaal e la Capanna Svizzera, prima della edificazione del Grand Hotel. Primi anni del Novecento. Collezione Alex Giacomini.
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Imprese Storiche
struzione al servizio dei viaggiatori in ogni città importante, ed era già ben definito lo standard internazionale cui dovevano allinearsi queste dimore principesche, anzi reali. Reali perché imitavano, nelle loro architetture e nella ricchezza degli arredi come dei servizi, le dimore delle grandi dinastie, talvolta superandole per sfarzo e grandiosità. Reali perché, grazie a loro, alla fine del secolo non v’era più regnante o principe che non fosse uscito dai suoi austeri palazzi per soggiornarvi in visita a una capitale, per intrattenersi con i colleghi coronati in cerca di mondanità o per incontrarsi segretamente con l’amante, attrice del varietà o gentildonna che fosse5». Negli anni a cavallo tra Ottocento e Novecento, se si vuole intercettare la ricca clientela che arriva da tutto il mondo per godere delle attraenti coste italiane, bisogna affrettarsi a realizzare strutture adeguate. A Viareggio il lussuoso, ma indubbiamente non faraonico hotel de Russie (così chiamato proprio per la frequentazione della ricca clientela russa) è del 1871. A Livorno, già nel 1884, apre il ricco Hotel Palazzo, rinnovato nel 1904, mentre nel 1905 si comincia progettare il Grand Hotel Corallo. Nel 1900, il Lido di Venezia inaugura il suo lussuoso Hotel de Bains che, già tra il 1905 e il 1906, viene sottoposto a ulteriori ampliamenti e abbellimenti. Sempre a Venezia corre per aprire, nell’estate 1908, l’Excelsior Palace Hotel, che promette (e manterrà) dimensioni e ambientazioni favolose. A Santa Margherita Ligure è già attivo da qualche anno il Grand Hotel Miramare e, da più di dieci, a Brindisi opera l’Hotel International. Nel 1908 apre L’Hotel Vittoria di Pesaro. A Rimini – dove in realtà si è già fatto molto in termini d’investimento pubblico e privato – è improrogabile uno scatto in avanti per non rimanere in una posizione secondaria rispetto ai centri balneari più importanti, è diventata indispensabile una struttura alberghiera diversa da quelle non 72
sufficientemente stupefacenti che stanno operando. Serve, per affacciarsi degnamente al nuovo secolo, un segno forte e tangibile di qualità, modernità e internazionalizzazione. Serve un vero Grand Hotel davvero degno di questo nome. La volontà di realizzare una grande e qualificata struttura alberghiera direttamente collegata allo stabilimento è già chiara e manifesta da anni, addirittura da decenni6. Tra il 1876 e il 1878, il Comune di Rimini tenta un accordo con una Società lombarda per la gestione, risultata sempre deficitaria per la municipalità, dello stabilimento bagni (Società Galvan e Soci di Milano), che però non arriva a buon fine anche per l’inserimento nel contratto dell’obbligo, ritenuto troppo gravoso dalla Società, di realizzare un albergo «Grandioso, elegante, da rivaleggiare coi grandi Hotel che trovansi sulle montagne della Svizzera o sui laghi di Como, o al Lago Maggiore e composto di 315 ambienti senza i bassi servizi7». Per arrivare a una soluzione devono passare vent’anni, è, infatti, sul finire del secolo che, a parere degli amministratori allora in carica, diventa non solo urgente, ma vitale, giungere a un accordo con investitori privati economicamente accettabile per la comunità riminese. Palese è la volontà del Comune di svincolarsi dalla gestione diretta delle strutture dello stabilimento bagni nel suo complesso che, seppur riconosciuto come motore fondamentale dello sviluppo cittadino, ha richiesto continui, difficilmente sostenibili e in qualche modo “impropri”, interventi delle casse comunali8. Il sindaco di Rimini in carica, cav. Camillo Duprè, diviene il regista di una complessa operazione che parte nel 1899 e si realizza solo sette anni dopo, nel 1906. Le motivazioni e le considerazioni generali alla base dell’operazione, esposte in alcuni preziosi documenti, conservati presso l’Archivio di Stato di Rimini, sono ben argomentate e
la reggia del mare
Disegni del progetto del Grand Hotel firmati dai fratelli Somazzi. 1906. Archivio di Stato di Rimini. Cartella disegni vari n째 10.
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Imprese Storiche
rappresentano una lucida sintesi della politica turistica ed economica dell’epoca9. Nel 1906, riprendendo quanto già detto in una comunicazione del Sindaco del 1899, «considerato che da molti anni il Municipio è costretto a concorrere al pareggio del bilancio speciale dei Bagni con una somma annua media superiore alle L. 10.000, considerato che è sentito da tutti il bisogno di una trasformazione radicale dello Stabilimento Bagni, che un’Amministrazione pubblica come il Municipio non potrebbe mai effettuare, considerato che per l’indole dell’azienda più facilmente una Società può provvedere alla trasformazione anzidetta con l’utile dell’Industria e del Paese» si ipotizza di cedere ad un soggetto privato «l’industria Balnearia Municipale anche per un trentennio10». In quell’ultimo anno dell’Ottocento non se ne fa nulla, evidentemente è necessario capire bene quali siano i partner giusti per l’impresa e quale possa essere la contropartita proporzionata per la città. È nei primissimi anni del Novecento che l’idea del grande albergo come “corrispettivo” adeguato per la gestione di tutti i beni e le attività dello stabilimento da parte di privati, si profila in termini concreti e fattibili, tanto chiari da portare al dettagliato documento del 1906, che presenta l’accordo da siglare con una società da tempo contattata. Le ragioni che rendono indispensabile la realizzazione dell’opera e l’accordo con una società ritenuta idonea in termini finanziari, progettuali e gestionali, sono ben esposte ed elencate. Sono evidenziati, non solo il continuo esborso del Comune per coprire i costi di gestione e manutenzione dello stabilimento (che nel decennio precedente hanno sottratto alle casse comunali l’ingente somma di più di 15.000 lire l’anno) e il grande investimento già sostenuto dalla collettività per la realizzazione del Kursaal e altre migliorie del complesso balneare, ma soprattutto i motivi strategici a sostegno di tutta l’operazio74
ne. Nel documento si afferma che la pur consistente fase espansionistica legata alla realizzazione di ville e villini di vacanza non è fattore che da solo può garantire il successo del prodotto balneare riminese, un prodotto che in quegli anni subisce la concorrenza agguerrita di altre destinazioni turistiche. Nonostante la linea continua di ville sorte «su tutta la fronte comunale che si svolge tra Bellaria e Riccione […] dopo i primi anni in cui la Città era appena sufficiente a contenere il grande numero de’ forestieri qui d’ogni parte convenuti, cominciò a determinarsi una costante diminuzione di bagnanti, che ben presto avrebbe fatto deserti questi luoghi ameni e resi inutili le cure ed il dispendio del Comune. E mentre quella di Rimini diminuiva, cresceva la fortuna di Venezia, di Livorno, di Viareggio, di San Remo, di San Benedetto e di altre stazioni balneari minuscole in confronto della nostra». Il Sindaco Duprè si chiede le ragioni di tale perdita di consenso con relativo calo degli ospiti ed espone le sue interpretazioni del fenomeno: «Per noi è evidente che la causa precipua deve imputarsi al bisogno che sentono i forestieri di vivere e quindi di alloggiare in prossimità del mare. Poiché chi viene da una grande città mal si adatta ad abitare in una piccola, ove troppo spesso fanno difetto le comodità della vita e mancano del tutto le attrattive de’ maggiori centri. Chi viene dalle città interne per fare la cura marina, vuole godersi il mare senza il disagio di un non breve tragitto per recarsi dal luogo di abitazione al luogo di cura. E la riprova di ciò si ha nel rapido sviluppo della fabbricazione sul Lido, che sola ha valso a trattenere quella clientela che pur ora frequenta i nostri Bagni. Ma se le ville servono per le famiglie che vogliano e possano fare lunga dimora, non corrispondono a quella clientela fluttuante, che pure è la più numerosa e la più utile, la quale per le esigenze della moda o per un capriccio di lusso, più che per motivi di
la reggia del mare
salute, vuole passare alcuni giorni in una stazione balneare, appagando i più raffinati bisogni della vita con la preventiva sicurezza della spesa». Dopo le ragioni il Sindaco indica anche la soluzione, una soluzione ampiamente motivata ed elaborata con profonda convinzione. «A questa necessità può rispondere soltanto un Albergo, costruito e condotto con criteri di modernità e che offra tutte le garanzie ed i conforti di un ottimo servizio. E l’Albergo nei pressi dello Stabilimento si rende necessario pure per quest’altro motivo, che cioè con il sorgere delle ville nuove, sempre più lontane dal centro, vanno edificandosi anche alberghi e quindi urge che un albergo, il più grande ed elegante, sorga eziandio nel centro in guisa da attirare il maggior numero di forestieri nella proprietà comunale che è quella la quale, come più vicina, fa maggiormente sentire alla città il forte vantaggio dei forestieri. Ora, giacché il nostro Comune, che tanti danari ha profuso nello Stabilimento ritraendone vantaggi non proporzionati alla spesa, non è in grado di sobbarcarsi all’ingente dispendio della costruzione di un albergo, né d’altra parte è consentanea all’indole di un’Amministrazione Municipale l’industria dell’albergatore, sembraci che solo alla privata iniziativa debba lasciarsi il compito di colmare questa lacuna, che noi tutti abbiamo avvertito e che non è in poter nostro di rimediare. […] Da queste brevissime considerazioni […] scaturisce evidente la necessità che a completare il nostro Stabilimento Balneare sorga nel più breve termine possibile e senza notevole sacrificio del Comune un grandioso albergo e che l’esercizio di tutta l’azienda sia concentrato in una potente organizzazione industriale, che dia affidamento e garanzia di un’ottima conduzione con sicuro vantaggio dell’interesse pubblico del Municipio e dell’interesse privato dei cittadini»11. Le parole del Sindaco Duprè tracciano dunque con chiarezza la strategia urba-
nistico-economica di una Rimini di inizio secolo che avverte già in qualche modo evidente la cesura tra la parte storica e la parte al mare della città. La soluzione individuata è quella di costruire una vera, articolata e qualificata cittadella balneare completata da un grande albergo, e capace, ampliando sempre più il mercato, di riversare i suoi benefici sul centro storico. Il percorso di congiunzione tra le due “anime” della città non sarà così semplice come si aspetta il sindaco, e quando Duprè indica con sicurezza la clientela fluttuante come la più numerosa e la più utile, apre certamente le porte all’impresa privata del Grand Hotel, ma sembra anche in qualche modo preconizzare un tipo di sviluppo turistico dell’ambito riminese in cui un albergo della più alta categoria, non avrà vita facile. In parallelo ai fasti del Grand Hotel e del turismo balneare esclusivo di ville e villini, Kursaal e piattaforma, Rimini sembra coltivare e far maturare, già nei primi decenni del Novecento, i semi di un modello turistico di massa fortemente inclusivo, di quel modello che determinerà la sua fortuna appena le condizioni storiche e sociali generali lo consentiranno12. Il sindaco indica anche con lucidità la necessità di una conduzione privatistica di tutte le strutture e i servizi della “cittadella balneare”, il solo tipo di conduzione che attraverso una potente organizzazione industriale può risultare davvero efficace e che, senza pesare sulle casse comunali, può dar luogo alla costruzione dell’Albergo più grande ed elegante, un struttura che per potersi definire tale deve soddisfare, oltre che specifiche caratteristiche estetiche, da approvare da parte della municipalità, la condizione di base di disporre di almeno 125 camere. Nonostante il numero ridotto delle camere (ben inferiore alle 315 richieste trent’anni prima), è già delineata con chiarezza l’idea di un hotel in grado di costituire un vero e proprio “palazzo di rappresentanza” della città turistica, una 75
Imprese Storiche
Nella pagina a fianco dall'alto: Cartolina del Grand Hotel. Circa 1908. Collezione Fausto Mauri. Cartolina del Grand Hotel circa 1908. Collezione Alex Giacomini. Cartolina del Grand Hotel circa 1908. Collezione Fausto Mauri.
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reggia delle vacanze che deve porsi alla pari, o meglio superare, il pregio del Kursaal e di tutti gli interventi di qualificazione dell’area già realizzati. Così come a Venezia per l’Excelsior si era costruito l’intervento finanziario della CIGA (Compagnia Italiana Grandi Alberghi), a Rimini si costruisce, attraverso un’articolata trattativa, l’intervento della SMARA (Società Milanese Alberghi Ristoranti e Affini), i cui soci sono ricchi imprenditori lombardi che puntano a conquistare spazio in tutt’Italia nel promettente settore della ricettività alberghiera e del turismo. Con la SMARA si discute per precisare i termini di contratto che rendano produttivo un investimento tanto oneroso: alla fine si arriva a un accordo che, attraverso la cessione del terreno su cui sorgerà l’edificio, un’ampia serie di concessioni d’utilizzo delle strutture dello stabilimento e di possibili prelazioni immobiliari, sembra garantire i dovuti vantaggi sia alla parte pubblica, che a quella dell’ardita e operosa gente lombarda, come la definisce il Sindaco Duprè. Si arriva così alla scrittura del 7 marzo 1906, siglata a Milano dal Sindaco e dal Signor Tommaso Merli Consigliere delegato della Società. Il Comune cede in locazione per vent’anni (prorogabili di cinque): l’intero fabbricato centrale dello Stabilimento Bagni (il Kursaal), le palazzine Roma e Milano, il materiale necessario per la costruzione e l’esercizio della Piattaforma e dei camerini sul mare, le baracche ed i casotti isolati di proprietà comunale, l’arenile dal Porto al torrente Ausa, lo Stabilimento Idroterapico, il fabbricato della Capanna Svizzera per l’anno 1906 (che dovrà essere abbattuta a fine stagione estiva), un terreno comunale di 4000 metri quadrati, per collocarvi il macchinario dell’illuminazione elettrica, il Teatro Al Lido, tutte le aree di proprietà comunale adiacenti
allo Stabilimento, comprendenti il parco, i giardini, il Law-Tennis. Come corrispettivo alla società si chiede un affitto di 5.000 lire annue per i primi dieci anni, che salgono a 10.000 nel decennio successivo, di abbellire il Kursaal e le palazzine, di ammodernare e allargare la piattaforma costruendovi sopra un teatrino per Caffè-Chantant, di provvedere alla illuminazione e ai lavori di manutenzione dell’area. Ma soprattutto, arrivando al nocciolo della questione, si esplicita che la Società ha l’obbligo «di costruire per suo conto, non oltre il 31 dicembre 1908 un grande Hotel […] che si componga non meno di centoventicinque camere di alloggio, sopra disegno da approvarsi dal Municipio»13. Nei “giornali balneari” riminesi del 1906, ad accordo siglato, la SMARA pubblicizza la Stazione Balneare di Rimini elencando tutti i servizi disponibili: «Bagni di mare e idroterapici, cura climatica, casino Kursaal, numerosi villini sul mare ed in collina, passeggiate ombrose, tramway, automobili, gare sportive, feste da ballo. Grandi saloni di divertimento come nelle primarie stazioni balneari estere. Vendita di arenili lungo il mare e costruzioni di villini. Facilitazioni nei pagamenti». In coda la pubblicità presenta le altre proprietà milanesi della Società come il Corso Hotel, il Corso Restaurant e il Caffè Biffi14. Nel 1909, a Grand Hotel realizzato, la SMARA, sul numero di luglio del Gazzettino Azzurro, oltre a continuare la sua promozione di Rimini come l’Ostenda d’Italia, presenta una lista completa delle strutture riminesi che gestisce; una lista che getta una luce sulla notevolissima operazione (ancora in buona parte da approfondire) intrapresa dalla società milanese. La lista, in elegante francese, comprende il Grand Hotel con 350 lits, l’Hotel de bains, con 120 lits, l’Hotel Idroterapique con 100 lits, l’Hotel Lido con 150 lits, e poi il Kursaal Casino, il Restaurant de
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la terasse, i Bains de mere, il Theatre, etc. L’inserzione disegna il ritratto di quel “capitalismo turistico” che agli albori del Novecento investe anche a Rimini, muovendosi su binari finanziari e immobiliari dalle veloci, e a volte avventurose, dinamiche, di cui è indubbiamente figlio – insieme a tutte le più grandi strutture ricettive che si vanno realizzando all’epoca nel mondo – anche il Grand Hotel. A progettare Il Grand Hotel, da cui ci si aspetta che figuri tra le più significative e lussuose strutture dell’ospitalità alberghiera europea, la SMARA chiama un architetto di poco più di 30 anni, Paolito Somazzi che, pur così giovane, vanta già anni di lavoro dedicati a complessi turistici di pregio nell’area elvetica e lombarda, con cui collabora l’ancor più giovane fratello Ezio. Paolito è nato nel 1873 a Montevideo da una famiglia emigrata in Uruguay dalla Svizzera Italiana, quando ha solo cinque anni la famiglia rientra in Svizzera, a Lugano, dove il padre Gaudenzio è titolare di un’importante impresa di costruzioni. Per rimanere nell’ambito lavorativo familiare, che vanta una solida tradizione, Paolito studia da architetto e si forma alla rinomata Scuola universitaria professionale del Technikum di Winterthur, la più grande e antica della Svizzera15. Comincia nel 1900 a firmare alcuni progetti, tra cui diversi hotel di pregio, mentre Ezio, di sei anni più giovane si diploma all’Accademia di Brera ed entra nello studio di architettura del fratello che si va velocemente affermando. Il progetto del Grand Hotel è firmato ufficialmente F.lli Somazzi a testimonianza di una già solida collaborazione che li vede impegnati in uno studio professionale che avrà sedi a Lugano e a Milano. I Somazzi sono individuati dalla SMARA (che, ricordiamolo, è costituita da imprenditori lombardi) come adeguati interpreti delle esigenze tecniche ed estetiche della miglio77
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re industria alberghiera, quell’industria che soddisfa le esigenze di servizio dell’epoca e nelle architetture fa proprie, con evidente eclettismo, le suggestioni che arrivano da più parti del mondo e, principalmente in area mediterranea, dai modelli francesi di successo come quelli della Costa Azzurra. Il progetto dell’albergo supera addirittura le caratteristiche strutturali richieste dalla municipalità riminese (che, considerando tutto, risultano singolarmente modeste) e quasi raddoppierà il numero di camere, arrivando a 200 stanze da letto. La struttura generale e le forme sono decisamente convincenti, promettono adeguato sfarzo, classe e modernità: il disegno viene così approvato e i lavori cominciano subito. Scrive Piervittorio Morri: «I progetti rispecchiano l’evoluzione della tipologia alberghiera dopo l’invenzione dell’impianto longitudinale, organizzato su ampi corridoi centrali sia al piano terreno, destinato alla ricezione e alle sale comuni, sia ai superiori. Dimensionamento delle stanze e rapporti tra numero dei letti e superfici delle parti comuni, ripresi dalla manualistica del tempo, assicuravano efficienza alle strutture. Gli apparati decorativi delle facciate disegnate da Somazzi, sontuosi ma mai stucchevoli, mostrano la capacità di mettere a punto un linguaggio architettonico personale caratterizzato dall’innesto di motivi moderni, ispirati al gusto della Secessione viennese, su una base storicistica eclettica. Ricchi anche gli interni, dove il gusto francese di fondo è rivisitato con spunti Liberty16». Il lavoro dei Somazzi piace in città, tanto che nel 1913 la Cassa di Risparmio di Rimini fa realizzare proprio a loro la nuova sede che, per esprimere tutta la sua solidità e autorevolezza, viene realizzata secondo un sobrio stile neorinascimentale fiorentino. Paolito Somazzi, figura di notevole spessore sia professionale che d’impegno civile, morirà nel 1914 in Canton Ticino, viaggiando sul monte Ceneri con la sua auto, in un tragico incidente stradale.
I festeggiamenti d’inaugurazione del Grand Hotel di Rimini si tengono, secondo diverse fonti, tra il 1 e il 3 di luglio17 del 1908, qualche manciata di giorni prima del faraonico Excelsior di Venezia, quasi a confermare lo spirito di competizione che regna quell’anno nel campo dell’industria alberghiera di alto livello. Partenza in grande stile per il Grand Hotel, dove abbondano feste, balli e serate mondane, ma solamente un anno dopo i conti già non tornano e succede comunque qualcosa che mette in discussione la gestione diretta della SMARA, aprendo, proprio nel momento in cui Rimini si propone al mercato europeo come l’Ostenda d’Italia, un periodo di complessi e veloci avvicendamenti societari la cui dinamica non è sempre chiara. In realtà, nel contratto del 1906 compare una clausola, nell’articolo 12, che getta qualche ombra sulle certezze gestionali della SMARA, là dove si dice che «la Società concessionaria potrà, salva l’approvazione del Municipio, quando lo giudichi di sua convenienza, creare una apposita società per l’esercizio della concessione […]. Dovranno però della nuova società far parte del Consiglio di amministrazione non meno di due consiglieri della Società Milanese Alberghi Ristoranti e Affini». È solo l’autunno del 1909 quando il contratto di conduzione complessiva dello stabilimento e la gestione del Grand Hotel passano alla Società Anonima Bagni di Rimini (SABR), costituitasi lo stesso anno, con a capo l’imprenditore Giuseppe Garavaglia (consigliere delegato) e Wan Perbrandt (presidente), mettendo insieme capitali esteri provenienti dall’Austria, dalla Germania e dall’Ungheria e capitali locali. Il passaggio di gestione non fa buona impressione in ambito cittadino, anche se la nuova società si impegna in ulteriori investimenti sullo stabilimento e nel 1910 si lavora addirittura all’ampliamento dell’hotel aggiungendo una sala da pranzo di 350 metri qua-
Nella pagina a fianco dall'alto: Cartolina del Grand Hotel. 1909. Collezione Fausto Mauri. Cartolina del Grand Hotel. 1910-1920. Collezione Fausto Mauri.
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Imprese Storiche Cartolina con il Grand Hotel e la passerella della piattaforma. Intorno al 1910. Collezione Fausto Mauri.
drati e l’ampia terrazza sul mare. Ma anche per la Società Anonima Bagni si profilano subito difficoltà economiche che portano ufficialmente al fallimento nella primavera del 1912. Il Comune cerca di rivalersi sulla SMARA, comunque rimasta intestataria del contratto stipulato nel 1906: così la società milanese opera di nuovo direttamente nella stagione estiva del 1912, ma nel 1913 entra in scena ancora una nuova società, la Balneare di Rimini Sas, tra i cui azionisti figurano facoltosi personaggi d’ambito regionale. Nonostante gli elogi per il comm. Luigi Favilla, a capo della gestione della Balneare, che conduce la stagione del 1913 in modo assai positivo, secondo il giudizio di tutta la comunità riminese18, ancora una volta i risultati economici non sono quelli attesi, nonostante, nel 1920, si parli ancora della mitica stagione del ’1319. Così le cose si complicano ulteriormente e nell’intreccio tra quote riconducibili alla SMARA, alla Balneare Sas e alla SABR (tornata attiva nel 1914, proprio con l’ingresso delle due precedenti società in sostituzione dei soci stranieri)20, risulta 80
davvero difficile districarsi, difficoltà che ovviamente si riflette anche sulla conduzione del Grand Hotel. In quegli anni, che vedono un significativo incremento di tutto il settore turistico a Rimini e sulla costa riminese, lo stabilimento e il Grand Hotel faticano a trovare una gestione produttiva e si assiste a ripetute trasformazioni societarie (con la nuova SABR rimasta in qualche modo presente addirittura fino al 1927) che bene rendono conto di un’estrema e continuativa impossibilità, o incapacità, di far quadrare i bilanci a fronte di spese e indebitamenti sempre troppo consistenti. Arriva la Prima Guerra Mondiale che, oltre a fermare le attività turistiche, mette di nuovo in discussione l’assetto societario. In quel periodo si distacca dalla compagine proprietaria la Balneare Sas e, come se non bastasse, nel 1916 il terremoto che colpisce Rimini lascia segni significativi sulla struttura. Per ricominciare a occuparsi del riassetto e del funzionamento della struttura bisogna aspettare il 1919, quando «il Kursaal e
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tutti i fabbricati dello Stabilimento, compreso il Grand Hotel, dovettero subire le necessarie riparazioni in conseguenza del terremoto e del quasi abbandono durante il triennio bellico.[…]21». In quell’anno, il Corriere Riminese Balneare scrive: «Quest’anno l’esercizio del Grand Hotel è stato assunto dal Signor Civinini di Bologna, il re degli Hotelier. Scelta maggiormente indovinata non poteva quindi fare la Società bagni. La Direzione è affidata al Signor Damesin che oltre ad essere un gran gentiluomo, viene da noi preceduto da fama di uno dei più reputati direttori d’albergo22». Sempre nel 1919 la SMARA esce definitivamente di scena per lasciare posto al potente gruppo finanziario del Banco Prati di Bologna, il quale fissa la sede della società di gestione di tutto il complesso balneare nel capoluogo emiliano. La rediviva Società Anonima Bagni Rimini con l’ingresso del capitale del Banco Prati cerca un rilancio che però, ancora una volta, non porta ai risultati attesi23. Tutta la conduzione Prati dell’insieme delle strutture balneari, non tanto dell’hotel, sarà oggetto di critiche da parte della cittadinanza per la sua approssimazione gestionale e soprattutto per quella che viene vista come una conduzione fondamentalmente “predatoria”, non orientata verso una qualificazione duratura dell’intero stabilimento. Il 14 luglio del 1920, in piena stagione estiva, un incendio si sviluppa nel Grand Hotel, le fiamme danneggiano i tetti, la parte più alta dell’edificio e distruggono le due cupole ornamentali, fatte di legno e catrame, che, proponendo un diffuso modello stilistico alberghiero, ingentilivano efficacemente la copertura e la facciata. Pur non compromettendo l’intera struttura e non arrivando a devastanti conseguenze, il fatto ha comunque risvolti drammatici. Sono le 14,30 quando, per cause ignote, l’incendio si sviluppa nel piano superio-
re. I pompieri di Rimini arrivano subito, aiutati da molti cittadini tra cui «non mancarono gli atti generosi di abnegazione e sacrificio24». Arrivano anche i pompieri di Ravenna, Cesena e Bologna: «gli ospiti alquanto numerosi del Grand hotel non ebbero a soffrire alcun danno. Tra quelli che generosamente sono accorsi per prestare l’opera loro di salvataggio e spegnimento si hanno a deplorare un morto e quattro feriti». La vittima è un piccolo eroe riminese, Anacleto Ricci, di soli 16 anni, che è più che doveroso ricordare. L’hotel viene riparato in tempi brevi ma le cupole non vengono più ricostruite, modificando così in maniera piuttosto evidente
In alto, cartolina con il Kursaal visto dalla terrazza del Grand Hotel. Intorno al 1910. Collezione Fausto Mauri.
Cartolina con il Grand Hotel visto dalla piattaforma. Intorno al 1910. Collezione Fausto Mauri.
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Imprese Storiche L’incendio delle cupole. Fotografia del 14 luglio 1920. Foto Argo. Archivio Fotografico Gambalunga Rimini.
le armonie complessive del progetto dei Somazzi. Gli anni che seguono vedono ancora accumularsi passività di esercizio che riguardano, è bene ricordarlo, la gestione dello stabilimento nel suo complesso. Nel 1923, si profila di nuovo una grave situazione di indebitamento verso diversi istituti di credito25, e, nel 1924, il Comune avvia la revisione dell’originario contratto del 1906, che vede ancora in capo la SABR. Nel 1925 si sigla, nonostante tutto, un prolungamento del contratto per altri cinque anni. Intanto, continuando il velocissimo e problematico gioco di variazioni societarie, al Banco Prati, in difficoltà, è subentrato il Banco di Puglia, assorbito solo un anno dopo dal Banco di Napoli. Il Comune a questo punto tenta il controllo azionario della SABR cercando di riportare ordine in una compagine societaria e gestionale ormai divenuta indecifrabile, e con la quale, evidentemente, risulta assai difficile interloquire. Non si arriva a nulla e, nel 1927, il Comune riesce a scindere il contratto e torna, 82
dopo un ventennio di gestione privata, alla responsabilità diretta nella conduzione dello stabilimento. Il compimento di questa svolta avviata del ’27 avviene nel 1931 quando, l’allora podestà Pietro Palloni, porta il Grand Hotel alla proprietà comunale investendo la somma di 1.200.000 lire, versate al Banco di Napoli grazie a un mutuo ottenuto dalla Cassa di Risparmio di Rimini26. La gestione del Grand Hotel fa capo all’Azienda di Cura, Soggiorno e Turismo che, con gli utili dell’esercizio, si impegna a restituire la somma al Comune. Il prezzo pagato è ritenuto vantaggioso e, secondo una stima a cui Palloni fa riferimento negli atti della Adunanza della Consulta Municipale del 30 Aprile 1931, il valore di mercato dell’immobile sarebbe stato addirittura di circa 3.000.000. Il Banco di Napoli, sempre secondo le parole di Palloni, avrebbe preferito però cederlo al Comune piuttosto che a privati disposti a sborsare di più: difficile capire bene il perché. Questa è l’opinione di Luigi Silvestrini: «L’acquisto del Grand Hotel da parte del
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Comune fu indubbiamente un atto coraggioso e saggio, l’unico cioè che potesse risolvere definitivamente la posizione del Comune di fronte ai residui delle Società gerenti lo Stabilimento, e valesse ad imprimere un energico impulso alla attrezzatura alberghiera di Rimini di fronte alla constatata insufficienza ed alla impotenza della iniziativa privata. Perciò si provvide alla sistemazione degli ambienti, alla modernizzazione dei servizi, all’ampliamento delle terrazze esterne, alla recinzione del giardino, alla costruzione di un campo da tennis e di uno chalet al mare, per dare
al nostro massimo albergo un’impronta di modernità, di signorilità, di distinzione27». Il Comune dunque non solo acquista l’hotel, ma si impegna addirittura in un rilancio che passa anche attraverso consistenti e immediati lavori di ristrutturazione che vengono stimati dal Podestà Palloni in circa 500.000 lire. Tutti gli anni Trenta, fino allo scoppio della guerra, sembrano vedere un periodo di relativa stabilità per il Grand Hotel: circa un decennio in cui si assiste al consolidamento dell’offerta e dell’immagine turistica riminese capace di conquistare sia
Interno dei piani alti del Grand Hotel danneggiati dall’incendio Fotografie del 14 -15 luglio 1920. Foto Argo. Archivio Fotografico Gambalunga Rimini.
L’incendio delle cupole. Fotografia del 14 luglio 1920. Foto Argo. Archivio Fotografico Gambalunga Rimini.
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Imprese Storiche Il Grand Hotel senza le cupole in una cartolina circa 1920-1929. Archivio Fotografico Gambalunga Rimini.
Ampliamento del Grand Hotel (prospettiva ing. arch. Legnani). Fotografia A. Villani, pubblicata nel 1938 in Rimini. Rassegna mensile di attività municipale. Archivio Fotografico Gambalunga Rimini.
il target di più alto livello, trainato anche dalla frequentazione di Mussolini – mentre soggiorna nella villa di Riccione, Claretta Petacci lo aspetta proprio al Grand Hotel28 – e di noti personaggi di diversi ambiti (politico, artistico, economico), sia i target in espansione di livello medio e “popolare”, incrementati dalle politiche “social-balneari” del Regime. 84
Il conflitto mondiale, oltre a devastare la città, segna tutto il complesso balneare riminese, e i danni sono notevoli anche per il Grand Hotel, che per un periodo ospita i comandi militari prima delle truppe tedesche, poi di quelle alleate. La stampa del Dopoguerra lo descrive come struttura fatiscente sia all’esterno che all’interno29.
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Si fa strada nella municipalità l’idea di un intervento totale su “marina centro”, il cui esisto più discusso e discutibile sarà la demolizione del Kursaal nel 1948. Il Grand Hotel, date le condizioni postbelliche non può essere ristrutturato con le risorse pubbliche (anche perché gli alberghi vengono esclusi dal contributo statale per i danni di guerra) per cui i vertici comunali «presero contatto con esperti di edilizia per venire in qualche modo a capo della complessa ed annosa questione. Esclusa per ovvie ragioni la possibilità di un restauro radicale e di un ripristino funzionale per opera ed a spese del Comune […] e dopo aver sperimentata la infruttuosità ed inanità dei vari piani di gestione privata, si riconobbe che non restava altra via che l’alienazione dello stabile e del terreno circostante. E così dopo aver preso contatto con ditte fra le più accreditate si convenne di scegliere come la più decisa ed offerente le migliori garanzie, la società rappresentata dal comm. dott. Manfredo Duranti di Roma». Nel novembre del 1952 Duranti acquisisce la proprietà per la cifra, ritenuta da tutti puramente simbolica, di 1.000.000 di lire, con la condizione di ripristinare completamente e rimettere in funzione l’albergo a proprie spese entro il 30 giugno 195430. L’albergo riapre addirittura un anno prima, nel luglio del 1953, data che l’attento storico della balneazione riminese Luigi Silvestrini, per altro testimone diretto dell’epoca, posticipa inspiegabilmente di un anno31. Sull’apertura nel 1953 non vi sono dubbi, fanno fede le cronache delle testate locali che, come si vedrà più avanti, descrivono con dovizia di particolari tutta l’operazione. L’Hotel, velocemente ripristinato, riscuote subito un certo successo di mercato e il consenso da parte dell’Amministrazione locale, ma, tra il 1962 e il 1963, si giunge a definire un nuovo passaggio di proprietà: dopo dieci anni il valore di un milione di lire è diventato quello fantastico per l’e-
poca di un milione di dollari, sborsati per il Grand Hotel dalla famiglia Arpesella, che per un lungo periodo manterrà la proprietà diretta (fino al 1981) e arriverà a gestire la struttura fino al 1996. L’epoca di Pietro Arpesella è decisamente fruttuosa per l’albergo in termini di immagine e rilancio generale, legato in gran parte alle capacità e allo stile dell’imprenditore che vanta una biografia non comune, perfetta per i migliori romanzi dell’epoca, di cui si parlerà più avanti. Il Commendatore, come tutti lo chiamavano, in ossequio non tanto al titolo ufficiale, ma ancor più al suo impeccabile stile e alla sua cordiale, quanto indiscussa, autorevolezza, guiderà “l’astronave bianca” – come amava definire il Grand Hotel – nel periodo in cui la costa romagnola vive il suo momento di splendore di massa, riuscendo in qualche modo a reinventare e a far convivere in perfetta sintonia la sua struttura extra-lusso con il mercato dei grandi numeri del turismo riminese dell’epoca. Sono gli anni in cui il Grand Hotel e la pensioncina familiare da 15 camere, l’esclusivo e “peccaminoso” dancing Lady Godiva (aperto proprio nel seminterrato del Grand Hotel) come la balera alla buona e poi le discoteche, riescono a scrivere insieme la convincente mitologia balneare riminese. Nel 1981 il Grand Hotel, diviene, come si è scritto, “oggetto delle attenzioni della finanza allegra” e, pur proseguendo la gestione Arpesella, comincia di nuovo per l’albergo un burrascoso periodo di avvicendamenti societari e di movimenti finanziari “particolari”. In quell’anno Vincenzo Cultrera, a capo dell’IFL (Istituto Fiduciario Lombardo), entra in possesso del Grand Hotel legandolo alle sorti del colosso – rivelatosi poi solo un disastroso castello di carte – che sarà protagonista du una delle più incredibili vicende finanziarie italiane dell’epoca, con il coinvolgimento di 7.500 investitori e un crack finanziario pari a ben 200 mi85
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Cartolina anni Cinquanta. Archivio Grand Hotel, Collezione Viner.
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liardi di lire. Solo per il Grand Hotel si parla di 2000 azionisti che parteciparono ignari a un’operazione definita ne più ne meno come una truffa colossale32. Nel 1994 arriva per il Grand Hotel il prezioso riconoscimento da parte del Ministero competente della qualifica di Monumento Nazionale, ma, alla fine del 1996, arriva anche la gestione fallimentare giudiziaria. Il commendator Arpesella lascia, non senza combattere, il suo regno: ma gli intrecci tra le società coinvolte, la Grand Hotel Spa, la Amarcord Srl e gli azionisti sopravvissuti all’operazione IFL, non sono facili da districare. La proprietà passa per alcuni anni all’imprenditore Andrea Facchi, e un nuovo punto d’arrivo sembra esserci nel 2002, quando entra in gioco la società Advance Hotel e l’albergo entra a far parte della catena Exclusive Hotels of Italy. Quattro anni più tardi, nel 2006, il passaggio veloce quanto pieno di ombre nelle mani dell’immobiliarista romano Danilo Coppola che finisce sulle cronache, non solo economiche, per le sue disavventure giudiziarie. Un solo anno e “l’astronave bianca” entra a far parte della flotta di un timoniere con l’esperienza e l’impronta imprenditoriale adeguata a una strut-
tura come il Grand Hotel di Rimini, un affermato professionista del settore, che desidera questo albergo da tanto: gli era sfuggito per un soffio nel 2006, nonostante accordi verbali già intrapresi, ma sul finire del 2007 il suo sogno si realizza, e il Grand Hotel diventa di Antonio Batani, patron della Select Hotels Collection che comprende numerose strutture di prestigio, sulla costa romagnola, e non solo. Per le sue caratteristiche imprenditoriali e biografiche Antonio Batani (classe 1936) e il Grand Hotel di Rimini sembrano fatti uno per l’altro: la “vecchia signora” felliniana per tornare giovane e splendente ha bisogno di un uomo e di una famiglia in cui capacità professionale si sposi con passione sincera, storicamente comprovata, per il mondo dell’hotellerie. Il lavoro Le prestazioni e l’immagine proprie di una struttura che si fregia della denominazione Grand Hotel richiedono, per non cadere nel ridicolo, standard strutturali, di servizio e di conduzione aziendale di altissimo livello. Il mestiere dell’ospitalità alberghiera di lusso proprio dei decenni a cavallo tra la fine del XIX, e l’inizio del XX secolo, mette a fuoco tutte quelle caratteristiche e quelle regole che distingueranno in modo netto la ricettività turistica di alto livello da quella destinata ad un pubblico “normale”, una distinzione che diventa il fulcro di tutta l’attività imprenditoriale e lavorativa. «L’albergo di lusso si differenzia dagli altri non solo per l’eleganza e la ricchezza del mobilio, dell’arredamento, dell’architettura e della decorazione, ma anche per la sua organizzazione superiore. È l’albergo il quale, oltre ad ospitare il viaggiatore facoltoso e le grandi famiglie, che vi si debbono trovare a loro agio quasi come
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nel loro palazzo, nel loro castello o nella loro villa, è in grado di alloggiare col dovuto onore altissimi personaggi col loro seguito. È l’albergo che si fa centro […] di convegni artistici e mondani del gran mondo cosmopolita33». Il Grand Hotel è dunque per definizione un luogo “di classe” sia in termini formali che in termini sociali. Esiste ovviamente un nesso diretto tra sviluppo della pratica turistica e organizzazione della ricettività esplicitamente destinata a tale pratica, un nesso che ha consentito di tracciare una dettagliata storia dell’industria alberghiera. Basterà qui accennare al fatto, ben noto, che anche prima del turismo, come oggi è inteso, si poteva contare su una rete di luoghi destinati ad accogliere forestieri spinti al viaggio da motivazioni diverse, polarizzate fondamentalmente intorno ai tre filoni della religione (vie di pellegrinaggio), del mercato (rotte e vie com-
merciali) e della cultura-istruzione (istituzioni e università storiche). Se qualcosa già cambia, come vuole l’ormai consolidata storia del turismo, con la pratica del Grand Tour, è proprio in connessione a una finalità turistica moderna e dai tratti specifici che l’albergo subisce un’evoluzione verso una visione della struttura ricettiva non tanto come appoggio logistico, ma come spazio di piacere. Se anche l’albergo di transito puntava, per quanto possibile, a un certo comfort (di cui comunque i viaggiatori stranieri in Italia spessissimo lamentavano la completa assenza) per l’ albergo di soggiorno e di stagione l’appropriata qualità della struttura e del servizio diventa discriminante per il successo dell’impresa. Quando l’iniziale ed elitaria pratica turistica termale, balneare e montana, affianca, in realtà da subito, agli aspetti medico terapeutici quelli esplicitamente mondani e di loisir, si rende necessaria la realizzazione e l’or-
Tariffario del Grand Hotel del 1928. Collezione Fausto Mauri.
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Pubblicità del Garage Grand Hotel e tariffario escursioni in auto. Anni Venti. Collezione Fausto Mauri.
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ganizzazione di una ricettività professionale, che pone al centro la soddisfazione più ampia possibile non del viaggiatore, come veniva precedentemente inteso, ma del vacanziero. L’albergo stesso diventa elemento centrale del piacere della vacanza. Le classi sociali più elevate chiedono per le loro vacanze luoghi in grado di accoglierle almeno al pari, se non addirittura meglio, dei contesti in cui vivono. Luoghi in grado non solo di soddisfarle, di confermare e affermare i loro privilegi, ma addirittura di farle sognare, di offrire
qualcosa in più rispetto alla normalità: strutture capaci di rendere distinguibile con chiarezza l’elite da tutto il resto. Così come avviene per tutti i beni e i servizi, anche l’impresa alberghiera imbocca, appena si intravvedono buone opportunità economiche, la strada di una fornitura di alto livello destinata a una fascia ben definita di fruitori, il cui prodotto più pregiato saranno proprio gli hotel di lusso, i Grand Hotel, che per questa loro implicita caratteristica, arrivano a ricoprire un forte ruolo simbolico. Come si è visto Il Grand Hotel di Rimini viene investito, con estrema determinazione e lucidità, di questo non semplice ruolo di rappresentanza concreta e rappresentazione simbolica, funzionale a posizionare la città tra le prime destinazioni balneari italiane ed europee. Non che non esistessero ai primi del Novecento strutture ricettive di un certo livello, come ad esempio il Grand Hotel Hungaria, inaugurato nel 1906 – definito, dalle pubblicità dell’epoca, “casa di prim’ordine” – che accoglieva degnamente gli ospiti austroungarici e mitteleuropei, e altri hotel stagionali di buona levatura34, ma evidentemente gli sforzi intrapresi con il Kursaal, la piattaforma con le sue varie strutture, le palazzine Roma e Milano, i giardini, non si ritenevano coronati da successo in mancanza di un albergo capace di esprimere tutto il fasto turistico a cui la Rimini di inizio Novecento aspirava. Un’opulenza e un elitarismo che già in quegli anni, ogni fine settimana d’estate, dovevano in realtà fare i conti con le spiagge invase da diverse migliaia di pendolari che arrivavano in treno fino a dare forma, come registrano le cronache proprio del 1908, a un «vero formicaio umano35». Al Grand Hotel si chiede, in definitiva, di rappresentare al meglio non solo il prodotto balneare, ma la qualità più alta di un’intera città e della sua costa; si chiede di presentarsi come una grande reggia del mare,
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bella e ricca, in grado non solo di soddisfare una facoltosa e illustre clientela, ma di suscitare in tutti il “sogno Rimini”. E così al Grand Hotel, rispettando un solido copione di rappresentazione sociale, alloggerà praticamente tutto il bel mondo nazionale e internazionale dell’epoca, con una infinità di nomi della upper class italiana ed europea, con figure mitiche di mondi vicini (tutta la nobiltà italiana di più alto livello, compresi la principessa d’Aosta, il Duca degli Abruzzi, ecc...) e lontani come il Gran Visir, con le maggiori personalità della cultura quali Guglielmo Marconi e dell’arte come Mascagni, Enrico Caruso, Eleonora Duse, Filippo Tommaso Marinetti e tantissimi altri. Sul Grand Hotel gravò il peso, prima condiviso con le eleganti ville e il Kursal, poi sostenuto tutto da solo, di divenire l’emblema, il vettore unico, di un’immagine di esclusività sempre più a confronto con
la potente, e per certi versi straordinaria, “massificazione riminese” del turismo balneare. Per molto tempo questo si trovò a essere l’unica struttura ricettiva extra lusso in un’ampia parte della costa romagnola: per avere qualcosa di paragonabile bisogna aspettare vent’anni, quando, nel 1928, è inaugurato il Grand Hotel di Cesenatico e l’anno dopo quello di Riccione. Si parla dunque di due decenni in cui, per il pubblico che frequenta questa categoria di alberghi, molte cose sono cambiate, sia in termini di pratica balneare, sia sotto il profilo di una mondanità che ha assunto tratti sempre più modernamente “borghesi”, e che in Italia si confronta con la struttura di potere e con la cultura del Ventennio fascista. Le varie proprietà e direzioni del Grand Hotel di Rimini si sono confrontate tutte, chi in un modo chi nell’altro, con questa sua unicità e responsabilità simbolica che solo dagli anni Trenta, e solo in parte, è
Evento di moda e automobili nei pressi del Grand Hotel. Primi anni Sessanta. Fotografia di Davide Minghini. Archivio Fotografico Gambalunga Rimini.
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condivisa con le poche strutture simili, ma non propriamente alla pari, presenti in Riviera. A rendere unico il Grand Hotel riminese saranno non solo le architetture liberty, le 200 stanze, le terrazze, i ristoranti e gli spazi comuni riccamente arredati, il servizio di alto livello, gli avvenimenti esclusivi, ma proprio quella particolare atmosfera che aleggia nel grande albergo. La struttura ha tutto quello che richiede la sua clientela: «è stato costruito secondo tutte le esigenze più moderne dell’igiene e del comfort con ampi e luminosi saloni, con severe sale di lettura e di scrittura, con tranquilli salottini da studio, con civettuoli boudoirs, verande tutte inghirlandate di gigli e di rose. Sotto l’albergo, a destra della sala principale, si trovano elegantissimi negozi di moda, di stoffe, di vestiari, di oggetti artistici, di cambio di moneta e di, di fotografie, d’informazioni ferroviarie, di farmacia e barbieria36» ma anche la parte più operativa, quella che riguarda la conduzione generale, la direzione e i vari professionisti che vi operano, dal direttore ai camerieri, dal maître al commis, dovrà sempre tener conto di uno “stile Grand Hotel” che non può essere tradito. Uno stile che trova espressione nella quotidianità degli ambienti e del servizio, e ancor più nei numerosi e continuativi rituali mondani. Le cronache dei giornali che commentano le estati riminesi, dalla sua inaugurazione fino a tutti gli anni Trenta, raccontano dei balli e delle serate di moda, dei meravigliosi rinfreschi, delle notti che non finiscono mai, dell’alba che sorprende esauste le eleganti signore e le maliziose fanciulle nei saloni e nei terrazzi che guardano al mare. Le frivole rubriche di cronaca balneare ce la mettono tutta per rendere al meglio l’idea di quel mondo. «Grand Hotel, centro della vita balneare, fulcro di mondanità che raduna il fiore dell’aristocrazia internazionale: principi di Case Reali, nobili di tutti i Paesi, i nomi 90
più noti dell’arte, della finanza, dell’ingegno. Ambiente di primissimo ordine […] sulle terrazze, si svolgono al pomeriggio thè danzanti brillantissimi, ed ogni sera le belle feste organizzate con vera signorilità dalla direzione del Grand Hotel. Le feste danzanti del Grand Hotel sono successi di mondanità, trionfi d’eleganza, sorrisi di giovinezza37». E ancora: «Sulle terrazze incantevoli adorne di verde e profuse di luci discrete di questo che è il massimo degli alberghi, le feste danzanti su susseguono con ritmo celere sempre più affascinanti e divertenti. Le più eleganti ed aristocratiche dame della Riviera si danno quivi convegno e così quando è preannunciato qualche ballo, è un grande movimento di abiti lunghi e a coda, delle più rinomate sartorie femminili, mentre impeccabili cavalieri in perfetto abito nero con sparato bianco, si affaccendano ad ossequiare ed offrire quanto la loro squisitezza sa e può38». Durante il Ventennio fascista l’Hotel conquista tutta l’élite del regime, sensibile alle costanti frequentazioni del Duce della costa riccionese e riminese, con tanto di famiglia e amante al seguito, e così «i saluti romani si mescolarono ai baciamani, e Mussolini, per dare l’esempio, sistemò in una suite Claretta Petacci39.» In quegli anni è tutto un susseguirsi di feste della “italianissima moda” come quella, sembrerebbe in vero piuttosto francese, della casa torinese La Merveilleuse40, di serate come il Gran Ballo del Tennis o il Gran Galà del Concorso ippico nazionale. Allestimenti spettacolari, buon mangiare, buon bere, bella gente, celebrazione senza remore di censo e di differenziazione sociale, clima disposto alla seduzione più o meno esplicita, il tutto sotto la regia di una figura centrale nella vita del Grand Hotel tra gli anni Venti e Trenta, il sig. Damesin, direttore generale dell’albergo per un buon periodo, che conquistò, gra-
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zie ai suoi costanti successi, il plauso della clientela e dei riminesi41. L’albergo consolida in quegli anni la sua identità mondana, che porta alla magnificenza malinconica e ironica dei ricordi felliniani e ai fasti che si rivivranno negli anni Sessanta e Settanta con la gestione di Pietro Arpesella. Negli anni della Seconda Guerra Mondiale la mondanità, il lusso, quello stile di gaudente eleganza internazionale che in qualche modo affondava ancora le radici nel secolo precedente, si perdono nelle nebbie e tra le macerie di un mondo che cambia radicalmente e di una Rimini che viene quasi azzerata dai bombardamenti. La mondanità tornerà, ma non sarà più la stessa, certi atteggiamenti, nascosti ammiccamenti libertini, rigorosi rituali di potere e di comportamento si trasformeranno definitivamente. Pur rimanendo in piedi, anche il Grand Hotel esce malconcio dal conflitto, è ridotto ad una architettura fatiscente, Luigi Silvestrini, forse calcando un po’ la penna, lo definisce «uno scheletro murario di cui non erano conservati intatti che i muri centrali e perimetrali42» e recuperarlo non è cosa facile. Il rischio corso sotto le bombe è molto, ma il pericolo più grande è forse quello di finire come il suo “parente” più stretto, quel Kursaal che dista solo pochi passi nel cuore della cittadella balneare. Sono, all’epoca, entrambi di proprietà comunale e sono ugualmente colpevoli della celebrazione di un turismo e di uno stile di vita inviso al governo cittadino post-bellico. È certo che nel 1948 anche il Grand Hotel trema quando le ruspe radono al suolo la sontuosa struttura di quel Kursaal che molte città balneari avevano invidiato e imitato sin dalla sua inaugurazione del 1873, costato non si sa quanto tra edificazione, manutenzioni e abbellimenti, sia per la parte pubblica che per i privati, che lo gestiscono per quasi settant’anni.
È probabile che anche il Kursaal, come il Grand Hotel, avrebbe potuto fregiarsi del titolo di monumento nazionale. Certo è che le casse comunali non possono provvedere al restauro del Grand Hotel, ma dalla vendita all’albergatore Duranti di Roma, nel novembre del 1952, per la cifra simbolica di 1.000.000 di lire, infinitesimale rispetto al valore reale dell’immobile43, traspare altrettanto certa l’intenzione di liberarsi al più presto di un ingombrante fardello, non solo urbanistico ma anche simbolico. Comunque nel 1953, dopo solo cinque mesi di intenso lavoro – il che potrebbe far pensare a condizioni complessive non poi così disastrose – il Grand Hotel riapre. Sul Giornale della Riviera del 5 Aprile 1953 esce un’intervista a Manfredo Duranti “il noto albergatore proprietario e direttore del Grand Hotel” che annuncia l’apertura per il mese di luglio. A maggio la stessa testata fa il punto ricordando la situazione determinata dal con-
Ritratto del giovane Pietro Arpesella. Tratto dal volume di Giuseppe Chicchi, Diario di Bordo. Intervista a Pietro Arpesella. Pietroneno Capitani Editore, Rimini, 2000.
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Interno 1963. Archivio Grand Hotel.
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flitto quando «ci fu l’intermezzo che tutti conosciamo, con i bunker al mare e le massicciate anticarro sulla spiaggia. Tedeschi, austriaci, greci, africani, canadesi, polacchi furono i clienti” del Grand Hotel […] Il Grand Hotel si ammalò cadendo in una profonda e lunga agonia. […] Ci fu addirittura qualche seguace dell’eutanasia che, a somiglianza di quanto era accaduto per il Kursaal voleva anche la sparizione del Grande che agonizzava. […] La cura cominciò il 7 gennaio 1953 allorché centinaia e centinaia di operai si affannarono sulle anemizzate forme del massiccio complesso sotto la direzioni del Comm. Duranti, l’attuale proprietario del grande edificio». Nel numero del 1 luglio si dà notizia della riapertura: «il Grand Hotel è risorto con-
servando la vecchia linea architettonica in stile floreale. All’avanguardia in quanto a modernità, i proprietari hanno voluto conservare nell’arredamento quella veste ricca e dignitosa dello stile barocco e del Settecento veneziano, in alcune sale la raffinata linea dei mobili stile Luigi XV». L’hotel può contare su 120 camere e 30 appartamenti, la spiaggia riservata è attrezzata con 60 cabine in muratura, piscina per bambini, salone bar, campi da tennis, pontile per gli approdi, motoscafi e imbarcazioni a disposizione. «Sulla grande terrazza, capace di mille ospiti si avvicenderanno grandi orchestre ed attrazioni internazionali». I dipendenti all’epoca sono 150. Subito si lavora al recupero della vocazione elitaria dell’hotel e, nel 1956 all’inter-
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no delle sontuose sale restaurate si tiene la selezione di Miss Europa e diverse serate di gala con sfilate di alta moda. Siamo agli albori del boom economico italiano e la Rimini balneare si fa interprete, tra i principali in ambito nazionale e internazionale, nel dare corpo a comportamenti, stili di vita e di consumo innovativi. Ma il salto di qualità, e di notorietà del Grand Hotel, quello che lo porterà a una posizione di prestigio indiscusso, arriva qualche anno dopo con Pietro Arpesella. Sarà Arpesella, con la sua eleganza senza timori e, come scrive Sergio Zavoli «con la grazia del danzatore, il coraggio del cospiratore, il genio di un visionario e il realismo dell’uomo d’affari», a mettersi alla guida del Grand Hotel, «alla prua di questa nave varata, così sembra, per portare in mare, in un lungo giro, la residua bellezza di un mondo al tramonto, continuando a soffiare aliti di vento sulle vele di un mito»44. È indispensabile, dunque, se si vuol davvero cogliere lo stile Grand Hotel, l’essenza stessa dell’impresa e il ruolo che l’albergo rivestirà in trent’anni di vita e di turismo riminese, ricostruire almeno in parte le vicende di Arpesella. Pietro Arpesella – di origini liguri, nato a Lerici – e il Grand Hotel di Rimini diventano di fatto sinonimi e, guarda caso, le loro vite cominciano proprio nello stesso anno, nel 1908. A soli 13 anni, dopo un’ infanzia segnata da momenti e sentimenti complicati, è già mozzo su un mercantile diretto in Messico. Al ritorno vede il padre condannato al confino per antifascismo e costretto all’espatrio in Argentina; decide di raggiungerlo al più presto. Dopo qualche mese di lavoro in Liguria, prima in un albergo come bell boy e poi in un ristorante, s’imbarca per l’America che non ha nemmeno 15 anni, trovando posto come garzone di cucina sulla Duilio, una grande nave passeggeri. Quando sbarca a New York scappa e, completamente solo e clandestino, rimane
in America dove si procura da vivere come inserviente in un’ospedale. Mentre comincia a familiarizzare con il nuovo ambiente, matura la passione – straordinariamente coerente a quegli anni e al personaggio – per il ballo, per l’allora in gran voga tango argentino. Diventa un apprezzato ballerino professionista e si esibisce in numerosi locali e nei teatri. Acquista una certa notorietà; al tempo furoreggia l’immagine di Rodolfo Valentino e del maschio latino, il giovane e aitante Pietro, grazie alle sue doti e al suo aspetto, arriva a essere definito dai giornali “the second Rudy”. Spinto dalle opportunità, e dalle soddisfazioni della sua professione artistica, lascia New York per esibirsi a Filadelfia, Chicago, Atlantic City e Miami. Alla professione di ballerino, affianca a un certo punto, quando si trova a Filadelfia, quella di secondo maître nel ristorante di una famiglia siciliana, che, quasi per seguire alla perfezione un copione dell’America degli “anni ruggenti”, ha una parte in storie di gangster. Pietro assiste a una sparatoria, dove ci scappa il morto, e rimane coinvolto come testimone. Nel 1929, dopo quasi sette anni di vita americana, spinto dai dubbi e dai pericoli a cui lo ha esposto il processo in cui ha testimoniato, dalla certezza di essere dichiarato renitente alla leva se non rientra in Italia e dalla storica crisi economica che sta investendo gli Stati Uniti, torna in patria, e presta servizio militare in marina. Conclusa la leva, riparte per Buenos Aires dove finalmente incontra il padre. Neanche quello è però il posto dove vuole vivere, raggiunge così Parigi, sempre come ballerino professionista, e, dopo un periodo di vita e amori in impeccabile stile bohémien, torna in Italia, nella sua Liguria, continuando a ballare nei migliori locali della costa. In un locale di Bordighera, frequentato da facoltosi stranieri, avviene l’incontro con Aeleen Stuart, una ricca signora inglese sessantenne che, nonostante la grande differenza d’età, diventa sua sincera ami93
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ca e si rivelerà una delle figure femminili fondamentali nella vita di Pietro. Questo singolare personaggio, eccentrica e un po’ misteriosa benefattrice, perfetta per un romanzo novecentesco, dimostrerà per Pietro un affetto e una predilezione davvero importante. Pietro gira l’Europa e frequenta il “bel mondo” con Aeleen, e con lei va a vivere a Villa Sorriso, una residenza di gran pregio nella zona di Zoagli, sul Golfo del Tigullio. La signora inglese ha così a cuore il destino di Pietro, da intestargli la proprietà, e accoglie anche Dia (Melodia Spaccarelli), una giovane di buona famiglia con mamma romagnola, che Pietro sposa a 25 anni. Quel mondo e quel luogo non soddisfano più Pietro e insieme a Aeleen e a Dia decidono di vendere la villa per acquistare la grande tenuta delle Grole (una proprietà terriera che in tutto coinvolge circa trecento dipendenti) non lontana dal Lago di Garda, dove si dedica con passione e buoni risultati alla conduzione dell’importante azienda agricola. Le Grole saranno sempre ricordate da Pietro come luogo e momento di grande serenità. Nel ’39 prende il brevetto aereonautico di pilota acrobatico e, sempre in quell’anno, è costretto con gran rimpianto a vendere la tenuta, «per evitare il sequestro della proprietà a causa del vincolo dell’usofrutto intestato ad una cittadina di nazione nemica45»: Aelleen, data la situazione italiana e l’imminente entrata in guerra a fianco della Germania, deve precipitosamente scappare in patria. Pietro e famiglia (è già nato Marco, il suo primo figlio) decidono di trasferirsi in Romagna, terra di origine della suocera, già visitata in occasione delle nozze, e che Pietro aveva trovato adatta al suo spirito d’iniziativa. Qui, con il denaro proveniente dalla vendita delle Grole, compra una villa a Riccione e comincia in qualche modo la sua attività di albergatore acquistando l’Hotel Lido, già molto importante per posizione e struttura, come dimostra il fatto che 94
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ospitasse Mussolini e famiglia prima della costruzione della residenza privata sul lungomare. Nel 1940, allo scoppio della guerra, è richiamato come pilota di caccia. Già nel 1941 è ipotizzabile un suo contatto con l’Intelligence Service inglese, nel quale i rapporti con Aeleen, la perfetta conoscenza della lingua inglese e le vicende politiche del padre, potrebbero avere avuto un certo peso46. L’8 settembre del 1943 si trova in licenza a Riccione e prende subito contatti con esponenti dell’antifascismo locale47. È quindi catturato e incarcerato per più di due mesi, aspettando da un giorno all’altro la fucilazione per aver organizzato la complicatissima fuga di tre generali inglesi. Uscito in qualche modo dal carcere, i fascisti vorrebbero comunque giustiziarlo e così Pietro fugge tra colline e montagne con i partigiani locali. Entra ufficialmente nelle file dell’Intelligence Service. Allo spostamento del fronte è chiamato a Roma per ricoprire la carica di Commissario per l’alimentazione della IX Regione. Alla fine della Guerra commercia con profitto prima in mezzi e residuati bellici, poi in macchinari industriali e risolleva velocemente la situazione finanziaria personale. Nel 1956 intraprende con determinazione e passione l’attività di albergatore attraverso la ristrutturazione completa dell’albergo Lido, rimasto di sua proprietà, per farlo diventare il notevole e innovativo complesso dell’Hotel Mediterraneo. Nel 1962, si definisce l’acquisto del Grand Hotel di Rimini, la più importante struttura ricettiva della Romagna, all’epoca potenzialmente una delle più prestigiose del turismo italiano. Si racconta, a testimonianza di un amore appassionato che durerà tutta la vita, che la prima notte passata tra le sue mura da proprietario Pietro Arpesella abbia ballato da solo nei grandi saloni. L’abilità e la dedizione di Arpesella saranno rivolte al miglior utilizzo di tutte le potenzialità dell’hotel in termini d’immagine e di marketing. Con lui l’hotel supera le li-
mitazioni dell’apertura stagionale, rimane aperto tutto l’anno e torna a essere il punto di riferimento di un’élite vacanziera che sceglie Rimini ormai non tanto per la sua esclusività, ma per la sua crescente fama di capitale europea delle vacanze, per tutto il variopinto e vivacissimo mondo che si muove sulla costa romagnola: sicuramente luogo di quelli che dettano la moda di quegli anni, un mondo frastornante e scapestrato che si può godere al meglio proprio rifugiandosi nei silenzi e negli spazi ampi e appartati del Grand Hotel. Arpesella non si lascia sfuggire le occasioni di un momento di forte sviluppo del settore turistico e riesce a fare del Grand Hotel un “monumento imprenditoriale” capace di agire sull’intero sistema del turismo riminese, attraverso l’invenzione di formule e strategie originali, con un’attenzione particolare a tutte quelle innovazioni capaci di interpretare i mutamenti del mercato turistico e della società in generale. Consapevole della doppia anima imprenditoriale e simbolica del suo albergo diceva che «Il Grand Hotel è un’invenzione, un’astronave atterrata per sbaglio. Bianco, immenso, con un che di sacro. Non centra nulla con la Riviera Luna Park, con le vacanze della fretta, eppure ne è il santuario. […] Il segreto era quello di un albergo che in apparenza non cambiava, manteneva la sua eleganza, il suo distacco. Le rughe facevano parte del fascino. Ma siccome un albergo è un’impresa che deve funzionare, che deve produrre reddito, deve dare lavoro, in realtà cambiava ogni giorno, nella struttura e nella gestione»48. Ricorda Arpesella nella sua autobiografia: «È stato con Marco, [ il figlio più grande, ndr] mio alleato e prezioso collaboratore, che ho curato la ristrutturazione degli interni cercando di rivitalizzare quel clima da Belle Époque che tanto amo: arredi in stile Liberty, stucchi nella grandiosità misurata dei saloni, suggestione di colori opalescenti, decori bianchi, linee ondulate,
Nella pagina precedente, sfilata di Moda. Fine anni Sessanta. Archivio Grand Hotel.
Nella pagina precedente, ballerina del night Lady Godiva del Grand Hotel. 1965. Fotografia di Davide Minghini. Archivio Fotografico Gambalunga Rimini.
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in cui corre un poco il brivido dei capelli sciolti delle donne di Klimt»49. Oltre a curare personalmente, insieme a qualificati direttori, tutti gli aspetti della gestione e del servizio di un hotel di lusso, Arpesella coglie tutte le occasioni che possono legare il Grand Hotel alle manifestazioni di più alta qualità che la città propone in campo culturale, artistico e politico (come le Giornate Internazionali del Centro Pio Manzù) e addirittura per diversi decenni si fa protagonista dell’evoluzione della strategia turistica della costa con avanzate operazioni che guardano al nascente turismo congressuale, a quello dei grandi eventi, all’immagine ospitale della città in tutti i suo aspetti urbanistici e sociali. Il Grand Hotel è la prima struttura ricettiva a Rimini a credere fortemente nella destagionalizzazione, nel superamento dei novanta giorni estivi di attività che per una impresa di tale portata producevano un reddito del tutto insufficiente. È il primo albergo a dotarsi di una piscina. Un’attenzione particolare è rivolta a operazioni di marketing mirato, come quello rivolto alla facoltosa clientela degli ebrei inglesi, che a un certo punto rappresenta il 40% del fatturato dell’hotel, dotatosi addirittura di una piccola sinagoga e che si attrezza per una rigorosa cucina kasher. Nel 1967, Arpesella prende in affitto dall’Azienda di soggiorno la Palazzina Milano, e ne fa un residence a 4 stelle aggregato al Grand Hotel, a metà anni Ottanta, acquista una piccola pensione adiacente al Grand Hotel e la trasforma in una attrezzata struttura congressi, risultato: «divenne operativa nel 1991 e in tre anni alzò il fatturato di almeno quattro miliardi»50. Molti ospiti stranieri e italiani s’innamorano del Grand Hotel grazie a lui e alle personalità di rilievo mondiale che lo frequentano trovando in lui un anfitrione tanto accogliente quanto “alla pari”, capace di affascinare con modi di stampo particolare. I nomi più noti dell’economia, del96
la politica, della cultura, dello spettacolo (davvero troppi per essere citati) passano per il Grand Hotel, luogo ineguagliabile di una Rimini dai tratti sorprendentemente nobili, seducenti e sognanti. È forse soprattutto grazie al Grand Hotel, e a Pietro Arpesella, che Federico Fellini si riavvicina a una Rimini che è nel suo cuore ma con cui sembra avere un rapporto scarno e insicuro, una frequentazione che si limita alle visite alla sorella Maddalena, al suo caro Titta Benzi e a qualche altro amico. Federico, al Grand Hotel e con la compagnia di Pietro, si sente in un posto suo, non più, e non solo, nella grande, affascinante e insidiosa scatola dei sogni di Amarcord, ma in un posto vero, dove sta bene e in qualche modo è protetto da tutto ciò che a Rimini si agita, forse troppo, al di là del grande parco dell’albergo. Non è facile imputare al caso il fatto che anche lo spegnersi di Fellini «si annunciò nella suite 315» del Grand Hotel51, la stanza a lui riservata nelle visite che erano divenute più frequenti, e proprio vicino al suo amico Pietro, a cui Federico, che aveva a cuore le sorti dell’hotel, continuava a ripetere «Pietro, quando ti decidi a ricostruire le cupole»52. Nel 1994, quando la gestione Arpesella sta vivendo i suoi ultimi anni, arriva il riconoscimento di Monumento Nazionale. Gli aneddoti che riguardano il particolarissimo lavoro del Grand Hotel possono riempire interi volumi. Le richieste e le necessità legate alla frequentazione di personaggi tra i più in vista a livello mondiale (si pensi che nel 1994 siedono allo stesso tavolo il presidente George Bush e Michail Gorbaciov, che nelle sue stanze alloggiano Presidenti della Repubblica Italiana, Capi di Stato di tutto il mondo, politici nazionali e leader internazionali, una serie infinita di divi dello spettacolo e di personalità della cultura) richiedono prestazioni professionali di altissimo livello.
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Ma è forse la clientela più tipica da Grand Hotel insieme allo “stile Arpesella” che vanno a tratteggiare in quegli anni episodi che sembrano uscire, non casualmente, proprio dall’universo felliniano, con Re Faruk che si riserva un intero piano, l’industriale che regala radioline a chi incontra, ospiti che lasciano al barman una mancia pari al suo stipendio, o gli aristocratici che amavano trascorrere le loro giornate al bar dove «nell’ennesima coppa di champagne si realizzavano e si volatizzavano i loro ideali […] e l’alcool li accomunava, dipingendo sui loro volti un’identica maschera impastata di cipria e cerone»53. Episodi come quello della “Festa Gitana” sulla spiaggia del Grand Hotel nel 1970, con tanto di pittoresche carovane allestite in riva al mare, dove si folleggiò fino all’alba tra i bagliori dei fuochi e con tante bottiglie di champagne che ancora giorni dopo se ne trovarono molte da stappare dimenticate tra la sabbia54. Come quando alcuni clienti, ricorda Ennio Stocco maître in quel periodo, chiesero di fare arrivare gli animali del circo Orfei nel parco del Grand Hotel: «vedere la giraffa, altissima, in giardino è stato surreale e destabilizzante come un quadro di De Chirico. Ma loro cosa vedevano? Osservavano, battevano le mani e bevevano champagne a fiumi, i visi aperti in larghi sorrisi, evidentemente appagati che tutti si fossero mobilitati per le loro fantasie»55. Come la festa di accoglienza che, nel 1991, Arpesella organizzò per i giovani immigrati africani che in quegli anni arrivavano numerosi sulle spiagge riminesi per vendere le loro piccole mercanzie. In una sera d’inverno le porte del Grand Hotel si aprono a due o trecento giovani di colore, alcuni nei colorati abiti tradizionali delle proprie etnie, altri in abiti europei acquistati appositamente. Dopo la cena offerta dall’hotel, concerto di musica africana.
Ricorda Arpesella: «La scena era alquanto insolita: con quella variopinta popolazione, con lo stile floreale dell’albergo, con i suoni della musica etnica avremmo potuto essere a Casablanca o a Dakar»56. Come quando per la Festa dei Fiori dell’hotel si coprì anche la piscina di petali e boccioli. Oppure momenti consueti di un’atmosfera da Grand Hotel scolpiti intensamente e interpretati con consapevolezza da chi al momento lo guidava: «dopo le grandi serate di gala, o quelle meno rumorose e coinvolgenti, ritrovavo spesso, verso l’alba in un angolo del bar, tristi e malinconici, gli anziani viveur che nutrivano ancora delle speranze, sebbene il tempo e le delusioni avessero cancellato i desideri. Guardavano trasognati l’orizzonte dove spunta l’alba, scorgendovi i segni del loro mesto tramonto»57. Un tramonto, quello dell’età che avanza, a cui Pietro Arpesella trovò il modo di non arrendersi mai, neppure superati i novant’anni.
Matrimonio ebraico al Grand Hotel. 1971. Fotografia di Davide Minghini. Archivio Fotografico Gambalunga Rimini.
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Imprese Storiche Federico Fellini e Giulietta Masina al Grand Hotel in occasione dei festeggiamenti per l’anteprima del film E la nave va. 25-26 settembre 1983. Fotografia di Davide Minghini. Archivio Fotografico Gambalunga Rimini.
Anche il distacco con quella che sentiva come la sua opera d’arte lo visse con l’energia di cui era sempre stato capace, pur confessando, ancora nel 2000, in una intervista a Giuseppe Chicchi, che «da innamorato posso dire che l’uscita dal Grand Hotel è stata per me un grande dolore, una perdita incolmabile. Ancora oggi, nelle mie passeggiate sul porto, vedendolo bianco e aggraziato, sento che una parte di me è rimasta dentro quelle mura». Il Grand Hotel tra gli anni Sessanta e Novanta va dunque a definire la sua struttura attuale, che si compone di 117 camere di cui 3 regal suite e 9 junior suite, arredate con antichi pezzi veneziani e francesi, e di altre 51 in Residenza (la palazzina Milano) che fa parte, dall’epoca Arpesella, del complesso dell’albergo, di cui 3 junior suite, arredate in stile neoclassico. Le sale ristorante sono cinque: “Veranda”, che guarda sulla piscina, capace di più di 98
200 persone; “Quattro Colonne”, l’antico salone delle feste; “Ambra”, uno spazio più raccolto, “Sole e Luna”, ristorante in spiaggia e “Sala Verde”. Ai ristoranti si affiancano due bar, uno con arredi d’epoca e l’altro sulla spiaggia privata di ben 11.000 metri quadrati, uno spazio questo che a pieno titolo si inserisce storicamente tra le principali componenti strutturali e immaginarie del Grand Hotel. Altra componente di pregio della struttura è costituita dalla grande terrazza panoramica, che domina la spiaggia e il parco privato. Il giardino del Grand Hotel misura 4.000 metri quadrati ed è certamente uno spazio prezioso (ceduto dal Comune con la vendita del 1952) che contribuisce significativamente a creare quella “misteriosa” separazione da tutto ciò che lo circonda, che attira immancabilmente gli sguardi di chi ci cammina intorno e sbircia dai varchi della
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Luminarie al Grand Hotel in occasione dei festeggiamenti per l’anteprima del film E la nave va. 30 settembre 1983. L’illuminazione voleva riprodurre il Rex del film ’Amarcord ma era anche un richiamo all'ultima fatica del regista. Fotografia di Davide Minghini. Archivio Fotografico Gambalunga Rimini.
recinzione per cogliere qualche immagine di un luogo e di un mondo esclusivo. A completare i servizi si aggiunge il centro congressi, voluto da Arpesella, che rappresenta una componente significativa dell’attività alberghiera. Il 14 novembre 1996, a seguito di una situazione economica e di assetto societario divenuta incompatibile con la conduzione Arpesella, subentra la Custodia Giudiziaria gestita dal geometra Ilario Gatti, il quale affida la direzione allo storico e collaudato direttore Sigfrido Stocklow che, con la sua indiscussa professionalità, porta l’albergo all’ambita ed esclusiva certificazione ISO 9002, di cui allora potevano fregiarsi pochissimi alberghi italiani. Durante la proprietà di Andrea Facchi, e quelle che si susseguono, l’hotel punta a mantenere i livelli di qualità che gli sono propri, la cui conferma arriva con l’inclusione nella catena degli Exclusive Hotels of Italy.
Ma un’autentica svolta gestionale, capace di ripensare nell’insieme l’impresa Grand Hotel, si ha dopo l’acquisizione da parte di Antonio Batani, che scrive con la sua personalità e la sua esperienza un nuovo capitolo della saga del grande albergo. Il 17 dicembre 2007 il Grand Hotel di Rimini corona i sogni di uno spasimante che vanta anch’esso, pur in anni e con toni assai diversi da quelli di Arpesella, una vita di straordinarie sfide personali e imprenditoriali. Non solo la visione aziendale, ma un vero e proprio atto d’amore per una struttura che resta tra le più rappresentative del turismo italiano, e un inestinguibile orgoglio professionale, spingono Batani all’acquisto, e a intraprendere una serie di significativi lavori sul Grand Hotel. Si tratta d’interventi necessari per cancellare le troppe rughe messe insieme con gli anni dalla Vecchia signora e per intraprendere un “rilancio in 99
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grande stile”, come il nuovo proprietario dichiara subito pubblicamente. Batani, romagnolo dell’Appennino forlivese, il Signore degli Alberghi, come in molti lo chiamano, possiede dodici hotel che danno lavoro a 850 persone, e ha una storia di vita e di lavoro di quelle che incarnano come meglio non si può il modello del self made man: dice che la sua è una storia come tante, ma i suoi occhi, la sua energia e una bonomia fatta di sicurezza d’animo e di solidi legami con la sua terra, raccontano di fatto un uomo particolare. La numerosa famiglia di Tonino, originaria di Bagno di Romagna, sull’Appennino forlivese, nel 1950 si sposta a Cervia, dove il padre lavora in una cooperativa di muratori. Tonino, il terzo di sei fratelli, non ha neanche 15 anni quando decide di tentare la fortuna in Svizzera; intraprendente com’è, già a quella età, trova lavoro a Saint Moritz come cameriere in un hotel, che gestisce anche il buffet della stazione, offrendo un servizio di alto livello per i facoltosi clienti che frequentano la rinomata località turistica elvetica. Alcuni anni d’esperienza nell’albergo, e nella gestione di questo servizio, dove Tonino prende confidenza con tutto il complesso mondo dell’hotellerie, e poi, nel 1957, il ritorno in Romagna, dove tutto ciò che riguarda l’industria turistica balneare si sta muovendo velocemente e con ottimi risultati. Il turismo romagnolo di quegli anni non è certo quello delle Alpi Svizzere: non si punta all’esclusività, ma piuttosto si costruiscono straordinarie opportunità per chi vuole cogliere il vento favorevole delle “vacanze di massa”. Il padre incoraggia saggiamente Tonino ad aprire un’attività tutta sua e così, a 21 anni, Batani comincia la sua carriera di albergatore prendendo in affitto la pensione Delia, a Cervia. La prima attività alberghiera di Batani sembra scrivere, per le caratteristiche della struttura, della gestione e della componente umana, un capitolo dell’epopea imprenditoriale della costa romagnola: 100
due oneste e dignitose stelle, 16 camere, ai servizi, e in cucina, la mamma, il babbo e le sorelle, una famiglia intera che crea quella miscela di qualità e confidenziale accoglienza che diverrà il principale punto di forza dell’offerta turistica di questa parte dell’Adriatico. Come unico aiuto esterno, quello di una ragazzina anche lei originaria dell’Appennino, Luciana Perugini, che di lì a poco entrerà nella famiglia Batani diventando moglie di Tonino; lui, da sempre fermo amante della solidità e dell’armonia domestica, non si stanca mai di sottolineare che «senza di lei non avrei mai raggiunto simili risultati. A lei devo non solo il successo, ma anche una meravigliosa famiglia». Tonino vuole perfezionare la sua formazione professionale e così si diploma alla scuola alberghiera dove affina soprattutto la sua predilezione per la cucina, in particolare di pesce: una passione, quella per i fornelli e i prodotti di qualità, che troverà il modo di esprimere e seguire tenacemente in tutta la sua attività. Con gli affari che danno subito ragione alla sua voglia e capacità di soddisfare gli ospiti che ogni anno arrivano puntuali, Tonino avverte presto che la Pensione Delia è diventata troppo piccola per i suoi sogni e così, acquistando un terreno a Pinarella di Cervia, viene costruita la Pensione Batani, sempre due stelle, ma il doppio delle camere e con spazi che cominciano a far pensare, in piccolo, a un hotel. La pensione con il nome di famiglia, però, è distante dal mare, e Tonino, lui che pure è nato vicino ai monti, il mare lo ama, lo vuole vedere e, soprattutto, lo vuol far vedere dalle finestre delle sue camere. Si arriva così all’acquisto del primo vero hotel, l’Universal, nella zona più centrale e panoramica di viale Deledda a Cervia: bello, vista mare, con 50 stanze, ma non così grande e qualificato da soddisfare Batani, che ha ormai consolidato l’esperienza alberghiera e la sua capacità imprenditoriale. Tonino acquista tutto
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quello che sta intorno all’hotel, il vicino Beau Rivage e le pensioncine Barbara e Niagara, che spariscono per fare spazio al nuovo Hotel Universal, una struttura finalmente moderna, elegante come si richiede ad un hotel di alto livello, che può contare su 120 camere. L’andatura imprenditoriale di Batani a questo punto diviene travolgente: alla conduzione dell’Universal si affianca quella del Diplomatic, sempre a Cervia, creando il primo nucleo di quella che diventerà una catena alberghiera di rilievo nazionale. Una catena che si arricchisce, nel 1983, del prestigioso Hotel Gallia (divenuto di sua proprietà nel 1999), un 4 stelle anch’esso da 120 camere, a Milano Marittima: località a cui da tanto Batani guardava con desiderio, rappresentando uno degli ambiti di eccellenza del turismo romagnolo per
la presenza di una clientela di alto profilo, che già in quegli anni la sceglie per le vacanze al mare e per la moderna mondanità che vi si vive. Non cresce solo il numero di hotel condotti da Tonino, ma, tra il 1968 e il 1978, cresce anche la famiglia con l’arrivo del figlio Gianni e delle figlie Cristina e Paola, che sin da piccoli si appassionano all’impegnativa attività creata dal padre e appena possono, per età e preparazione, entrano nell’impresa familiare. Sono anni d’intenso lavoro e oculati investimenti, che puntano a qualificare e diversificare l’offerta alberghiera complessiva nelle mani di Batani, costantemente convinto delle grandi opportunità che il settore presenta. Quando, nel 1989, la stagione balneare viene duramente segnata dalla presenza
La spiaggia del Grand Hotel. Anni Cinquanta. Fotografia di Josip Ciganovic. Archivio Fotografico Gambalunga Rimini.
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Imprese Storiche
Interno del Grand Hotel. Primi anni 2000. Fotografia di Venanzio Raggi. Archivio Fotografico Gambalunga Rimini.
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nell’Adriatico delle “mucillagini”, molti pensano che sia arrivata una crisi epocale difficilmente reversibile. In effetti, più che le condizioni ambientali, sembrano mutare in modo rilevante alcune tendenze che riguardano gli stili di vacanza e le dinamiche del mercato turistico internazionale. La fine degli anni Ottanta mette in discussione modelli di consumo turistico che in Romagna si davano per totalizzanti e acquisiti, ma Batani, al contrario di molti che vogliono frettolosamente sbarazzarsi di strutture alberghiere sulla costa, investe ancora con coraggio e determinazione: acquista l’Hotel Aurelia, uno degli alberghi di maggior pregio di Milano Marittima, e affitta due altri hotel di alto livello, il Doge e lo storico Mare Pineta,
sempre a Milano Marittima, con 160 stanze, spiaggia privata e strutture lussuose dedicate all’abituale clientela di “vip”. Batani guida direttamente il lavoro alberghiero e tutti i suoi investimenti con una solida filosofia da “tycoon romagnolo”, che sa pensare molto in avanti, ma non dimentica neppure per un momento le radici che lo legano alla sua terra e al suo personale stile: una conduzione di alta professionalità che pure mantiene qualcosa di “caldo” e familiare, la convinzione che le cose per essere fatte bene vanno controllate e vissute direttamente. Non solo il mare dunque ma anche la terra, quella della piana e delle colline a pochi passi dalle spiagge, ma anche quella
la reggia del mare
dell’Appennino di cui è originario e che non ha mai dimenticato. Per i suoi alberghi Tonino vuole il meglio, e il meglio in cucina significa il pesce che arriva dai pescatori di fiducia e i prodotti che arrivano direttamente dalle sue terre, organizzate nella moderna azienda agricola della Fattoria Batani: 15 ettari di campagne, non distanti dal mare, dove si producono, con criteri biologici, la frutta e la verdura per i suoi alberghi. Sui monti di Acquapartita, vicino al paese d’origine, Batani compra decine di ettari di boschi e pascoli a 800 metri di quota, dove fa sorgere il sorprendente Hotel Miramonti, un pregevole quattro stelle che diviene un punto di riferimento per il turismo sull’Appennino romagnolo. Poi ancora hotel di lusso sulla costa, come il Palace Hotel, interamente ricostruito al centro di Milano Marittima e inaugurato nel 2005, un moderno 5 stelle tra le migliori strutture dell’Adriatico. E poi ancora, in quegli anni, nel 2006, l’acquisto della ex Colonia Veronese nel cuore di Cesenatico, che diventerà nel 2013 l’elegante Da Vinci, 5 stelle extra lusso, realizzato con i più alti standard strutturali e di servizio disponibili. Nel 2007 la conquista del Grand Hotel di Rimini, che arriva quasi a coronare, anche simbolicamente, il successo dell’ormai affermata catena alberghiera di Antonio Batani e famiglia. Tonino, il ragazzo partito a 15 anni per fare il cameriere, con il Grand Hotel riminese è arrivato a far suo un pezzo di storia e di cultura italiana. Per rendere conforme alla sua fama, e produttivo, il grande albergo, servono tan-
ti interventi di ristrutturazione e lavori di adeguamento che si sono accumulati negli anni. Batani interviene subito negli ammodernamenti indispensabili e insieme mantiene al meglio quello stile fuori dal tempo che da sempre caratterizza il Grand Hotel di Rimini. Con lui il l’albergo entra a far parte della prestigiosa catena Select Hotels Collection che, come si legge in una sua sintetica biografia «occupa i vertici del mondo imprenditoriale alberghiero. Un punto d’arrivo? Per Batani, certamente no. Raggiunto un obiettivo, ecco nuove mete profilarsi all’orizzonte: questione di carattere. E soprattutto di passione»58. La passione, appunto, componente indispensabile per far vivere un’impresa come il Grand Hotel, non un semplice albergo, ma tempio vivo dell’ospitalità e dell’immaginario riminese e italiano, custode di tante memorie, di professionalità e leggerezza di vivere, vacuità e impegno, frivolezze e fatiche, illusioni e contraddizioni, forti emozioni e sentimenti. Un luogo capace di generare tanti sogni, individuali e collettivi, e almeno un rimpianto: quello legato alle due scintillanti cupole andate in fumo nel 1920, due ornamenti straordinariamente inutili e fragili, quanto indispensabili in un disegno d’armonia delle forme tipico di un’epoca. Un vezzo architettonico nato da un pensiero di bellezza che, se potesse tornare al proprio posto, piacerebbe a tutti quelli che guardano ancora con ammirazione e rispetto l’astronave bianca e farebbe felici Antonio Batani, Pietro Arpesella e Federico Fellini.
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Imprese Storiche Servizio fotografico di Davide Minghini, Gennaio 1967. Archivio Fotografico Gambalunga Rimini.
Note 1 Federico Fellini, La mia Rimini, p. 32, Cappelli Editore, Bologna 1967.
13 Archivio di Stato di Rimini. Municipio di Rimini, Schema di contratto tra il Comune di Rimini e la Società Milanese Alberghi Ristoranti e Affini, p. 6. Rimini, Tipografia Artigianelli, 1906.
2 Si può vedere Alessandro Sistri, Spiaggia. Antropologia balneare riminese, pp. 35-48.Minerva Edizioni, Argelato 2013.
14 Sul foglio balneare di Rimini “Il Gazzettino Verde” compaiono ininterrottamente pubblicità della SMARA già a partire dal 1906 e per tutto il 1907.
3 Vedi Ferruccio Farina, Architetture Balneari, Federico Motta editore, Milano, 2001.
15 Giovanni Rimondini, A pubblico e proprio decoro. Interventi urbanistici e committenza edilizia della Cassa di Risparmio di Rimini tra Ottocento e Novecento, Cassa di Risparmio di Rimini, Rimini 1990, pp.61-70.
4 A. Sistri, op. cit., pp. 40-45. 5 Ferruccio Farina, op cit., p. 27. 6 Fabio Silari, I bagni ed altro. L’evoluzione dell’industria e dei servizi nel riminese dalla metà dell’ Ottocento alla fine del Novecento. In Economia e Società a Rimini tra Ottocento e Novecento, Cassa di Risparmio di Rimini, Rimini 1992, p. 142. 7 Stefano Pivato, La cultura del tempo libero, In Economia e Società a Rimini tra Ottocento e Novecento, Cassa di Risparmio di Rimini, Rimini 1992, p. 477 e nota 229. 8 F.Silari, op. cit, pp. 142-143. 9 Archivio di Stato di Rimini. Atti del Consiglio comunale di Rimini 1906, oggetto 39, 49, 155, 180. 10 Archivio di Stato di Rimini. Municipio di Rimini, Contratto di affitto della Azienda Bagni, p. 4. Rimini, Tipografia Artigianelli, 1906. 11 Ibid., p. 8-9.
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12 Si veda A. Sistri, op. cit., p. 95-109.
16 Piervittorio Morri, Un secolo di Grand Hotel: storia di un progetto moderno, in “Magazine Premium”, n. 2, annata 2008, pp. 124-128. Utili considerazioni anche su Andrea Speziali, Romagna liberty. Maggioli Editore, Rimini, 2012, pp. 63-73. 17 Non c’è concordanza di indicazioni negli studi di storia locale. 18 Vedi “Il Gazzettino Azzurro”, anno 5, n. 5, 27 luglio 1913. Si veda anche F. Silari, op. cit., p. 145 e Luigi Silvestrini, Un secolo di vita balneare al lido di Rimini, pp. 112-113. Garattoni, Rimini 1965, 19 Rimini e l’Azienda Bagni, in “Cronache Azzurre”, anno III, n. 3, 31 luglio 1920. 20 Ferruccio Farina, Grand Hotel un secolo di ‘buchi’ in “Il Resto del Carlino”, 23 maggio 2007.
la reggia del mare
21 L. Silvestrini, op.cit., p. 124. 22 “Corriere Riminese Balneare”, anno 1, n. 1, 29 giugno 1919. 23 F. Silari, op. cit., p. 145. 24 “L’Ausa” del 17 luglio 1920. 25 F. Silari, op. cit., p. 181. 26 Archivio di Stato, di Rimini Atti Adunanza della Consulta Municipale seduta del 30 Aprile 1931, si veda anche Silari, op. cit., p. 146. 27 L. Silvestrini, op. cit., p. 164-165. 28 Ferruccio Farina, Una costa lunga due secoli, pp. 142-145. Panozzo Editore, Rimini, 2003. 29 Vedi “Giornale dell’Emilia” del 18 luglio 1949. 30 L. Silvestrini, op. cit., p. 287. 31 Ibid. 32 Ferruccio Farina, Grand Hotel un secolo di 'buchi' in "Il Resto del Carlino", 23 marzo 2007.
39 Giuseppe Chicchi, Diario di Bordo. Intervista a Pietro Arpesella, p. 23. Pietroneno Capitani Editore, Rimini, 2000. 40 “Corriere del Mare”, Rimini, 7 agosto 1933. 41 “Corriere Riminese Balneare”, anno 1, n. 1, 29 giugno 1919. 42 L. Silvestrini, op. cit., p. 286. 43 Ibid., p. 287. 44 Sergio Zavoli Introduzione in Pietro Arpesella, Da Lerici a Rimini … passando per l’East River, pp. 5-6. Maggioli Editore, Rimini, 1995. 45 Pietro Arpesella, Da Lerici a Rimini … passando per l’East River, p.170. Maggioli Editore, Rimini, 1995. 46 Ibid., p. 144. 47 Ibid., p. 145. 48 G. Chicchi, op. cit., pp. 21-22. 49 P. Arpesella, op. cit., p. 188.
33 Voce Albergo dell’ “Enciclopedia Treccani”, vol. II p. 145, Roma, 1949.
50 G. Chicchi, op. cit., p. 47.
34 Daniela Calanca, Cristina Ravara Montebelli, Ville al mare tra Romagna e Italia (1861-1918), p. 286. Bononia University Press, Bologna 2013.
52 Ibid., p. 56.
35 A. Sistri, op. cit., p. 96. 36 Da Rimini. L’Ostenda d’Italia, opuscolo pubblicitario edito dalla SMARA, Torino 1908, in Ferruccio Farina, Le Sirene dell’Adriatico, Federico Motta Editore, Milano, 1995. 37 “Corriere del Mare”, Rimini, 8 settembre 1935.
51 S. Zavoli in G. Chicchi op. cit., p. 13. 53 P. Arpesella, op. cit., p. 189. 54 Ibid., p. 190. 55 Ennio Stocco, Maitre al Grand Hotel, Raffelli Editore, Rimini, 2007, p 85. 56 G. Chicchi, op. cit., p. 52. 57 P. Arpesella, op. cit., p. 192. 58 Biografia pubblicata in rete.
38 “Corriere del Mare”, Rimini, 6 agosto 1936.
Miss sulla terrazza del Grand Hotel, 1960. Fotografia di Davide Minghini. Archivio Fotografico Gambalunga Rimini.
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IV. CAMPI, VINO E SENTIMENTI
La tenuta del Monsignore dei Bacchini a San Giovanni in Marignano
L’impresa della terra
Sette secoli di legami con la terra e con i suoi prodotti per una famiglia significano molte cose, alcune così profonde che non sono semplici da cogliere e da spiegare. Centinaia d’anni che segnano il modo di vivere e di pensare, l’esistenza di molte generazioni, che portano il carico di un impegno quotidiano che ha visto scorrere la storia antica, moderna e contemporanea, il peso, a volte lieto altre volte gravoso, dei cambiamenti del mondo. È un periodo di tempo talmente lungo da divenire testimone inconfutabile della forza e della bellezza di una passione, che entra nelle vene fino a diventare patrimonio naturale della discendenza familiare. Eredità non solo economica, ma piuttosto di sapere, di stile, di percezioni uniche che nascono dal rapporto diretto con la campagna e i suoi frutti. I Bacchini lavorano anche oggi, con la consapevolezza e l’orgoglio di questa grande eredità, nella loro azienda vinicola e agricola, la Tenuta del Monsignore, con le sue terre appoggiate sulle prime alture che si affacciano sulla piana fertile di San Giovanni in Marignano. Ripercorrere le vicende di questa famiglia e di questa azienda vuol dire attraversare epoche molto diverse fra loro che portano fino all’ultimo secolo, agli anni in cui un’antica tenuta ha
saputo trasformarsi in moderna attività vitivinicola. L’impresa agricola ha, rispetto agli altri tipi d’impresa, qualcosa di speciale. Come le altre, forse addirittura più delle altre, deve confrontarsi con l’innovazione tecnologica, con i cambiamenti del mercato e delle strategie commerciali, con le mutazioni culturali generali e con quelle specifiche che riguardano il consumo dei suoi prodotti, ma la sua particolarità rimane piuttosto evidente. Non si tratta di guardare indietro, ma di sapere intrattenere con il passato un rapporto dialettico, uno scambio non solo tecnico, di dati dell’esperienza, ma anche di suggestioni, di “sguardi sentimentali” rivolti verso la terra, le sue forme, le sue diversità e i suoi ritmi, le stagioni che si susseguono, le avventure del clima. È comunque un mestiere che, se fatto bene, ha, e avrà sempre, a che fare con la natura, con tutto quello che significa in termini di conoscenza, rispetto, imprevedibilità, creatività e condivisione. I Bacchini questo lo sanno, e i loro vini scrivono i capitoli di una narrazione appassionata che parla della terra e del lavoro, che annoda, con pazienza e determinazione, i fili di oggi con quelli di ieri e di domani.
Veduta delle vigne della tenuta. Fotografia di Luciano Liuzzi, 2015.
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Le vicende
Stampa tratta da Pratica Agraria distribuita in vari dialoghi. Opera dell’Abate Giovanni Antonio Battarra Professore di filosofia in Rimino. Cesena 1782.
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Nel tracciare un passato così lontano come quello che la famiglia Bacchini ha potuto ricostruire, è facile che la storia tocchi confini leggendari e trovi addirittura il modo di incrociare le strade del mito. Ma se la leggenda si addice alle epoche più remote, portando addirittura l’eco di una corrispondenza, piuttosto singolare per chi produce vino, tra la radice del cognome e la professione (Bacco-Bacchini), la documentazione archivistica è certamente più consona a una ricostruzione che colloca la famiglia già stabilmente in Romagna fin dal 13001. Le origini sono toscane, e di certo, tra il 1200 e il 1300, i Bacchini di Firenze esercitano un ruolo di rilievo vantando il diritto al Consolato e ricoprendo il ruolo di Priori all’interno della Signoria. Tra gli appartenenti alla famiglia è da ascrivere anche il Beato Dominici, al secolo Giovanni Bacchini, nato nel 1355 a Firenze e divenuto, oltre che arcivescovo di Ragusa, figura di primo piano della vita ecclesiale a cavallo tra XIV e XV secolo e nelle vicende riguardanti lo Scisma d’Occidente. Tonsino Bacchini e il figlio Giovanni arrivano dalla Toscana sulle colline della
Valconca sul finire del 1300, si stabiliscono a San Clemente, dove figurano come agricoltori e proprietari terrieri. Quella di Tonsino si può considerare la prima generazione romagnola dei nostri Bacchini. È la prima che, come dice Sandro Bacchini, “pianta i piedi in terra” mentre i predecessori fiorentini sembrano particolarmente legati all’ambito politico e comunque, in virtù del censo e del prestigio della famiglia, risultano costantemente presenti nelle sfere più alte del governo cittadino, come testimoniato da molti atti e cronache del tempo. Bacchini Albizus, il 4 gennaio del 1261, è chiamato a far parte del Consiglio dei Trecento, ma, nel 1269, Iacobo, Giambo, Albicco, Struffa, Ghino e Lambertuccio subiscono il confino da Firenze insieme ai ghibellini più in vista. Pur nelle alterne vicende che riguardano il continuo contrasto tra parte guelfa e ghibellina, rimangono tra i maggiorenti della città. Nel 1312 “tutta la casa de Bacchini” partecipa all’assedio di Firenze al fianco dell’imperatore Arrigo VII. Fallito l’assedio, vengono di nuovo confinati, ma, tra il 1353 e il 1393, la famiglia è di nuovo rappresentata fra i priori della Signoria con le figure di Piero e Agnolo. Intorno al 1384 è invece datato l’arrivo di Tonsino in Romagna, i cui discendenti nel XV secolo risultano residenti nel territorio di San Clemente, dove ancora oggi un antico agglomerato rurale che domina la piana di Morciano porta il nome di Ca’ Bachino. La terza generazione è quella di Francesco (nome che tornerà ciclicamente in famiglia), la quarta quella di Gaudenzio, la quinta di nuovo di un Francesco (1450-1488), seguono Antonio e, sul finire del secolo, ancora un Gaudenzio. La settima generazione, nei primi decenni del Cinquecento, è quella di Biagio, cui segue Antonio (1553-1648), che sposa Donna Fiore, acquista terre a San Giovanni in Marignano e qui trasferisce la resi-
campi vino e sentimenti
denza di famiglia, ponendo le fondamenta dell’attuale tenuta, che si svilupperà poi sulle prime e ben esposte colline del borgo di Santa Maria in Pietrafitta. La nona generazione, a cavallo tra Cinquecento e Seicento è quella di un altro Francesco. La famiglia si lega stabilmente a San Giovanni in Marignano e dunque, dal XVII secolo a seguire, si conoscono i dati anagrafici della discendenza dei Bacchini, debitamente registrati presso gli archivi parrocchiali del paese. Risultano come contadini – proprietari residenti nel territorio di San Giovanni in Marignano Antonio (1650-1690) Francesco (16761757), Bacchini Antonio Maria (17191798), Francesco (1752-1822), Domenico (1798-1876). Alla quindicesima generazione appartengono Antonio (1839-1910) e Monsignor Francesco Bacchini (1834-1908), personaggio chiave nelle vicende della famiglia, delle sue terre e, in qualche modo, anche dell’azienda, visto che a lui si riferisce l’attuale denominazione dell’impresa. Monsignor Francesco è dottore in filosofia e teologia, diviene prelato di alto rango, esercita il ruolo di Vicario Vescovile della diocesi di Rimini dal 1876 al 1897, diventa vescovo di Terni nel periodo che val dal 1898 al 1905, anno in cui, con una bolla papale, gli viene conferita la carica assai particolare di vescovo in partibus infidelium della grandissima diocesi di Tripoli del Libano, che non richiedeva presenza in loco2. Il Monsignore considera a pieno titolo come sua dimora privata la casa di famiglia di Santa Maria in Pietrafitta, risalente alla metà dell’Ottocento, dove ancora ha sede l’azienda, e qui vive tutto il tempo che gli lasciano gli impegni curiali. Il nucleo dell’azienda attuale ruota intorno al casale dell’epoca, e all’interno si trova ancora la cappella privata consacrata in cui sua Eccellenza Francesco Bacchini officiava la messa quando risiedeva nella tenuta.
Monsignor Francesco Bacchini in una fotografia di Fine Ottocento, primi Novecento. Archivio di famiglia.
Nicola (1876-1945), figlio di Antonio e nipote del Vescovo, continua a occuparsi delle terre di famiglia che, data l’estensione e la redditività, consentono un commercio
Cappella privata ricavata nella residenza di famiglia. Fotografia di Luciano Liuzzi, 2015.
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Imprese Storiche Libreria nello studio di Monsignor Bacchini nella residenza di famiglia. Fotografia di Luciano Liuzzi, 2015. A destra, indulto firmato da Monsignor Francesco Bacchini Vicario Capitolare della Chiesa di Rimini nel 1891.
Nomina di Monsignor Francesco Bacchini a Vescovo “in partibus infidelium� della Diocesi di Tripoli del Libano, 1905. Fotografia di Luciano Liuzzi, 2015.
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significativo dei prodotti, tra cui spiccano il vino e l’olio, la cui qualità si deve anche alle ottime caratteristiche dei terreni della zona. Il ritratto dei Bacchini all’epoca, è quello di un nucleo benestante di proprietari terrieri, indaffarato nel lavoro e nella gestione dei propri beni, impegnato nell’emancipazione culturale e sociale dei propri componenti, con le ragazze della famiglia che, cosa piuttosto rara in quegli anni, possono accedere agli studi superiori e addirittura all’Università3. Nel 1908 nasce Francesco, che rappresenta la diciasettesima generazione. L’azienda agricola nei primi decenni del Novecento ha una conduzione produttiva tradizionale dove, pur senza assumere vere e proprie dimensioni “industriali”, la quantità di prodotto messo in vendita è piuttosto significativa, nonostante le varie vicende che segnano il periodo. Francesco, per poter seguire in modo adeguato l’azienda, frequenta la Scuola Agraria di Montechiarugolo in provincia di Parma. Nel 1938, sposa Maria Luisa Sarti, che arriva dalla vicina Pesaro e il cui padre, Carlo Sarti, è un noto personaggio del mondo agricolo delle prime colline marchigiane: un proprietario e amministratore di terreni assai esperto, a cui in tanti si rivolgono per consigli relativi alla conduzione agricola in generale, alla coltivazione della vite e alla vinificazione. Con Francesco, negli anni Cinquanta, la tenuta compie una svolta decisiva verso la modernizzazione complessiva della produzione vinicola. Ristruttura profondamente l’azienda, giunge a una gestione diretta di tutti i terreni, allarga il coltivato a vite e amplia la cantina: Francesco si rende conto che i tempi, anche in agricoltura, sono davvero cambiati. Se si vuole mantenere alta la tradizione agricola familiare e raggiungere nuovi obiettivi imprenditoriali, è venuto il momento di adottare tutta la tecnologia e i nuovi mezzi a disposizione che consentono di arrivare a un
Francesco Bacchini in una fotografia degli anni Trenta. Archivio di famiglia.
Francesco Bacchini e la moglie Maria Luisa Sarti nel 1938. Archivio di famiglia.
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Imprese Storiche La famiglia Bacchini in occasione della cresima dei figli, Sandro a destra e Leo a sinistra, 1949. Archivio di famiglia.
prodotto superiore, in grado di superare i non pochi problemi di vinificazioni “arretrate”, conservazioni e invecchiamenti non sempre all’altezza di ciò che si chiede a un vino commerciabile con successo in un ambito allargato e in linea col gusto dei tempi. Francesco è uno dei primi produttori della zona a introdurre stabilmente la figura dell’enologo per seguire tutte le fasi della produzione, individuato nella figura del dott. Giovanni Marri, ritenuto uno dei maestri dell’enologia romagnola, che, in quegli anni, si svincola dall’aspetto puramente tecnico per acquisire uno statuto sempre più scientifico. Con Francesco la cantina dell’azienda agricola familiare diviene una vera e specifica attività, che punta a risultati imprenditoriali moderni, favoriti da un mercato locale ricco di opportunità legate al fiorente settore delle attività turistiche della vicinissima costa che, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, vede un periodo di straordinario incremento. L’azienda consolida la propria vocazione e identità industriale e punta a un aggiornamento costante di tutti gli 112
aspetti relativi dell’intero ciclo produttivo e commerciale. In quegli anni le terre dell’azienda coprono circa 100 ettari. I figli di Francesco, Sandro (1939) e Leo (1941), sin dalla nascita, respirano i profumi della terra e della cantina, aromi che entrano nel cuore tanto da tenerli per sempre legati alle sorti dell’azienda. Sandro favoleggia che, essendo nato prematuro a soli sette mesi, siano stati gli effluvi del vino che salivano dalla cantina sottostante alla camera dove dormiva a salvarlo e fortificarlo di giorno in giorno. Mentre i fratelli crescono sotto la guida del padre, dei tecnici e delle maestranze che lavorano per lui, si può dire che nella famiglia trova modo di applicarsi spontaneamente la teoria del lavoro tayloriana, con una divisione dei ruoli che rispecchia passioni e inclinazioni personali: una collaborazione familiare che nel tempo determinerà il successo dell’azienda. Con il lavoro costante di Leo, la tenuta diventa un perfetto “giardino” di vigne a perdita d’occhio e ordinati angoli d’uli-
campi vino e sentimenti
veto che guardano il mare e i monti, 140 ettari tutti distesi sulle belle alture che da Santa Maria Pietrafitta si allargano verso la zona panoramica di Montelupo e arrivano alle pendici del promontorio di Gradara. Leo provvede, in maniera scientifica, ad ampliare i vigneti introducendo nuove varietà e recuperando alcuni antichi vitigni locali. Insieme al fratello, curerà in maniera costante l’andamento di tutti gli aspetti di conduzione tecnica delle coltivazioni e dello sviluppo aziendale complessivo. La terra e la cantina sono al centro della vita dei due fratelli: Sandro segue la strada dell’evoluzione commerciale, tecnica e tecnologica dell’impresa, diplomandosi come perito agrario a Pesaro, laureandosi in Economia e Commercio a Bologna e conseguendo il titolo di enologo. Per un lungo periodo insegna presso Istituti superiori e ricopre persino il complicato ruolo di ispettore del Ministero della Pubblica Istruzione, che lo porta in giro per l’Italia ad affrontare situazioni non solo scolastiche, ma anche sociali, decisamente complesse. Le cantine di famiglia restano, tuttavia, al centro dei suoi pensieri e ogni momento libero lo dedica al mondo del vino, sotto l’aspetto dell’aggiornamento produttivo e commerciale, del rapporto con la tradizione familiare e dell’elaborazione di una specifica filosofia aziendale. A metà degli anni Sessanta, la cantina Bacchini è già una realtà consolidata in ambito locale e regionale, che partecipa con successo a diverse rassegne enologiche. È giunto però il momento in cui le condizioni produttive, e l’immagine stessa del vino, devono essere riviste rispetto allo sviluppo di una cultura dei consumi che guarda in modo nuovo a ogni prodotto, compresi tutti quelli dell’ambito alimentare: un settore che in Italia ha già imboccato la strada della soddisfazione più che quella del puro bisogno. Il vino non è più semplicemente un alimento, una bevanda,
sta diventando qualcosa di più. La cantina Bacchini, per sottolineare la propria storia, le proprie antiche origini e la propria rinnovata identità aziendale, diventa Tenuta del Monsignore, rendendo omaggio al personaggio più noto e incisivo nella vicenda familiare dell’ultimo secolo. Fino al 1979, anno in cui scompare, Francesco segue da vicino l’evoluzione della sua azienda insieme ai figli. Le strutture produttive, cantine, imbottigliamento e stoccaggio ruotano intorno all’ottocentesca casa padronale, ma è costante la preoccupazione di promuovere un continuo rinnovamento, capace di cogliere tutte le potenzialità espresse dall’azienda, condotta con impegno dai fratelli Bacchini. Negli anni successivi al 1986, dopo la crisi delle produzioni vinicole industriali su cui pesò, a livello nazionale, l’ombra dello storico “scandalo del metanolo”, è sempre più chiara la necessità di sottolineare non solo una procedura produttiva sana e corretta, ma di spostare l’attenzione, come sostengono alla Tenuta del Monsignore, dal vino senza difetti al vino con particolari pregi. Sono gli anni in cui l’enologia, da tecnica di lavorazione è già divenuta scienza, e, secondo una filosofia che esprimerà in ogni occasione Sandro Bacchini, sta divenendo un’arte. Un’arte, quella del vino, cui cominciano ad appassionarsi sin da bambini, seguendo il filo della tradizione, i figli di Sandro, Francesco e Nicoletta. Un’arte che va sostenuta con una tecnologia di altissimo livello, e su cui si impegnerà Francesco, ottenendo, pur nella sua breve vita, risultati di rilievo internazionale (vedi più avanti), e che va espressa in un luogo adatto, come gli spazi di cui la Tenuta si è dotata sul finire degli anni Novanta, per presentare al meglio il lavoro e i prodotti : la boutique e rivendita, i locali di degustazione, gli ambienti adatti a convegni e le cerimonie, il grande parco 113
Imprese Storiche
della campagna, al senso del lavoro su cui ci si impegna. Un coinvolgente intreccio di vini e sentimenti che arriva da lontano e ricorda, come racconta una loro bottiglia, “che il sole si leva tutti giorni, anche se non lo notiamo e domani è sempre un altro giorno”. Il lavoro
Calendario della azienda Bacchini, primi anni Sessanta. Archivio aziendale.
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attrezzato e le modernissime cantine, tutti seguiti da Nicoletta. In considerazione ai mutamenti intervenuti nel mondo del vino, l’azienda precisa strategie di marketing e comunicazione originali, che portano, nel 2000, all'inaugurazione della nuova sede nata dal recupero degli spazi preesistenti, sviluppandosi in circa 3600 metri quadrati di cantine e circa 1000 metri di locali di rappresentanza. Qui trova posto non solo la produzione della cantina e dell’azienda agricola dei Bacchini, ma un particolare mondo di pensieri rivolti ai campi coperti di vigne, alla storia della famiglia, alle cose buone
Il lavoro della vite e del vino, considerando i principali settori produttivi agricoli e alimentari, è quello che ha attratto, e continua ad attrarre, la maggiore attenzione dal punto di vista storico, tecnico-scientifico e culturale. Questo è dovuto all’evidente intreccio di molti fattori materiali e immateriali: la complessità del ciclo che riguarda tutte le fasi produttive, dalla coltivazione fino alla vinificazione e conservazione, la grandissima varietà dei vitigni e dei vini derivati, che assumono personalità diverse per ogni singolo produttore, la nitida traccia lasciata in epoche lontane. A questi fattori si aggiungono gli attributi simbolici (si pensi sia all’ambito pre-cristiano che cristiano), l’effetto psicotropo che per la sua natura alcolica caratterizza il vino, la continua mutazione della considerazione sociale e culturale del prodotto. Non ultima, di deve anche considerare la notevole portata economica, nel presente come nel passato, anche lontano, della produzione vinicola e del commercio legato a essa. Così, se la storia dei Bacchini viticoltori è straordinariamente lunga, c’è da sottolineare che testimonianze della vocazione, e dell’attività vinicola nell’area in cui essi operano sin dal 1300 (quella riminese, che comprende anche le colline della bassa Valconca), risale a molto più indietro nel tempo. Oreste Delucca, in un dettagliato studio4, traccia un percorso che parte dalle testimonianze fornite da reperti riferibili all’epoca villanoviana (fra VIII e VI secolo a. C.), presenti in diver-
campi vino e sentimenti
se parti del Riminese, per trattare poi la ben documentata epoca romana, di cui è noto addirittura il dato di una resa del territorio, ottima per l’epoca, di 210 ettolitri di vino per ettaro coltivato a vite (dieci cullei per iugero)5. Tutto sembra confermare, anche in epoche così lontane, l’identità riconosciuta di questo ambito geografico come polo vinicolo di sicura rilevanza, sia in termini produttivi che di traffico commerciale, legato ai due centri di Rimini e di Cattolica. I reperti archeologici riferiti al consumo e al commercio del vino (anfore vinarie, coppe, ecc...) rinvenuti localmente sono numerosissimi e trovano posto nei vari musei del territorio6. Delucca presenta poi ben 40 documenti che riguardano la viticultura nel Riminese riferiti al periodo alto medievale, tra IV e X secolo, che «presentano una realtà senz’altro interessante; il quadro d’assieme permette di verificare una indubbia crescita del vigneto man mano che si allontanano gli anni oscuri, ma non vanno sottovalutate le testimonianze più antiche, dalle quali è lecito trarre alcuni elementi di continuità col tardo periodo romano»7. Riguardo al periodo compreso tra il 1300 e il tardo Medioevo – l’epoca in cui i Bacchini arrivano sulle colline di San Clemente –, la documentazione su vigne e vino nel Riminese si fa sempre più consistente e precisa, giungendo a dare indicazioni piuttosto dettagliate riguardanti la coltivazione ed estensione dei vigneti, le regole di produzione e commercio, alcune tecniche di vinificazione, l'attrezzatura necessaria per il ciclo produttivo, e, perfino, qualche denominazione di vitigni e vini, come il tribiano, la malvasia, la ruibola e il greco. Anche tra XVI e XVII secolo, periodo in cui si registra una certa stagnazione sociale ed economica, il vino resta elemento importante nell’agricoltura riminese; lo testimoniano fonti dirette dell’epoca, come quella dell’Adimari che afferma, ri-
ferendosi a Rimini, che «circa alla fertilità del vino, lo sa ognuno che questa Città nostra manda fuori più vino che forsi alcun altra città della Chiesa, e che siano buoni e perfetti, oltre che ne fa testimonianza Venetia, Schiavonia, l’Istria, Pesaro, Fano e Senegalia (che non è poco dire), Ancona, Ferrara, Forlì, Faenza, Imola e altri luoghi di Romagna e tutti l’altri luoghi ove è portato»8. A ulteriore conferma di una forte attitudine vinicola territoriale, vengono in supporto gli studi effettuati da Maria Lucia De Nicolò sui luoghi destinati alla lavorazione e conservazione del vino, che vanno ad avvalorare una sicura rilevanza produttiva dell’ambito riminese, tracciando un documentato e acuto quadro che riguarda cantine, “volte profonde”, e grotte a partire dal secolo XIII fino al secolo XIX9. Durante il 1700 il dato produttivo e qualitativo rimane sostanzialmente buono e, fino alla metà secolo, Venezia continua a rappresentare una piazza estremamente interessata ai vini riminesi, che mantengono l’importante caratteristica di poter affrontare senza problemi il trasporto e la navigazione10. Interessante il dato della metà del XVIII secolo che testimonia
Stampa tratta da Pratica Agraria distribuita in vari dialoghi. Opera dell’Abate Giovanni Antonio Battarra Professore di filosofia in Rimino. Cesena 1782
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Imprese Storiche Bottiglie con marchio della Tenuta, anni Settanta.
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l’estensione della coltivazione della vite nella forma del vigneto specializzato e dei “pergolari”(cioè a coltivazione promiscua sulla stessa porzione di terreno)11 per il territorio di San Giovanni in Marignano, in cui operano all’epoca i Bacchini che, sommando le 421.07 tornature per la prima, con le 1.913.77 tornature per la seconda, si porrebbe come il maggior centro di coltivazione di tutto il contado Riminese12. Nel 1778 esce la prima edizione della Pratica agraria distribuita in varj dialoghi dell’abate riminese Giovanni Antonio Battarra, che offre uno quadro estremamente preciso e interessante, dal punto di vista tecnico e sociale, dell’economia e del mondo rurale locale. L’opera contiene una corposa parte dedicata alla coltivazione della vite e alla produzione del vino13, citando anche diversi vitigni coltivati nelle terre dell’Abate, nei pressi di Coriano, come Sangiovese, Albana, Lambrusca, Ermania, Narese e Moscatello. Non è citato il Vin Riminese, apprezzato bianco testimoniato dal 1500 fino agli anni Venti
del Novecento in area Toscana, in particolare quella dell’Argentario, che ancora oggi rappresenta per gli studiosi di enologia e storia del vino un piccolo mistero14. Nell’Ottocento si registrano una serie di innovazioni della cultura e della tecnica enologica complessiva che, nel Riminese, penetrano lentamente e in maniera non omogenea. È un secolo di grandi discussioni e riflessioni scientifiche sull’intero mondo enologico, sollecitate e influenzate, come più volte ama ricordare Sandro Bacchini, dalle scoperte di Pasteur e dagli orizzonti che queste aprono sulla microbiologia e sulla chimica, gettando una luce nuova sui fenomeni riguardanti la fermentazione e le alterazioni del vino, di cui il grande scienziato si occupa in maniera specifica, giungendo alla determinante tecnica di quella che, non a caso, viene chiamata “pastorizzazione”. Le terre riminesi non paiono particolarmente avanzate nell’adozione dei moderni sistemi produttivi: «il quadro delle campagne, all’inizio dell’Ottocento, è ancora segnato dalla ripetizione di vecchie tecniche; i pregiudizi hanno larghissimo spazio15» e qualcosa sembra cambiare, senza fretta, solo dopo l’Unità d’Italia. Una qualche accelerazione si avrà, negli ultimi due decenni del secolo, sia per il generale sviluppo tecnico-scientifico che segna il settore agricolo, sia per la rinnovata attenzione politico-sociale, che vede il diffondersi di istituzioni come i Circoli e i Comizi Agricoli, che mirano a diffondere tutti quegli elementi utili a migliorare la produzione agricola generale, compresa quella, ritenuta di primaria importanza, del vino. La situazione del Riminese appare comunque restia al cambiamento e alla modernizzazione del settore vitivinicolo, per vari motivi, non ultimo quello di un accentuato frazionamento delle proprietà che, generalmente, risultano di piccole dimensioni e con una conduzione familiare limitata nelle conoscenze e nelle tecniche.
campi vino e sentimenti
I Bacchini, sul finire dell’Ottocento, consolidano la loro attività – grazie anche all’apporto del Monsignore di famiglia – intorno al nucleo attuale, mantenendo una varietà della produzione agricola tipica delle aziende dell’epoca, con la presenza sicura del grano, per cui l’area di San Giovanni in Marignano vanta uno storico primato produttivo nell’ambito riminese, e una particolare attenzione ai settori della viticoltura e dell’olivicoltura. Nei primi decenni del Novecento non sembrano cambiare molto le cose, anche se l’arrivo del flagello causato dalla filossera, che nel Riminese giunge negli anni Venti, impone il rinnovamento delle vigne, la sostituzione dei vitigni e una particolare attenzione alle nuove tecniche colturali. Il passo verso la specializzazione sul versante enologico arriverà con Francesco, alla diaciasettesima generazione dei Bacchini. È riconducibile a lui il progetto di fare del vino l’esplicito elemento centrale dell’azienda. La sua specifica formazione tecnica, lo porta presto alla consapevolezza che una produzione vinicola che vuole uscire da una procedura sostanzialmente familiare e artigianale, deve imboccare con determinazione la strada imprenditoriale e cogliere tutte le innovazioni che il settore ha maturato nel lavoro sui campi, in cantina, nella commercializzazione e nella distribuzione del prodotto, dove diventa determinante il passaggio dalla vendita del vino “sfuso” all’imbottigliamento con proprio marchio. La cantina Bacchini è già un’apprezzabile realtà vinicola nella metà del Novecento, ma lo sforzo di Francesco è quello di farla crescere in termini quantitativi, qualitativi e di affermazione del marchio. In Emilia Romagna, a metà anni Sessanta, operano altre cantine omonime dei Bacchini: è venuto dunque il momento di dare unicità e autorevolezza alla produzione dell’azienda di San Giovanni in Marignano anche in
termini d’immagine, sottolineando quanto più possibile la specifica “nobiltà storica” e la lunga tradizione familiare. Il marchio Tenuta del Monsignore è individuato da Sandro, discusso e approvato dai Bacchini tra il 1966 e il 1967, nel periodo in cui si profilano nuove modalità di consumo del vino e che vede epocali mutamenti anche nel campo della comunicazione e della pubblicità commerciale e aziendale. Si rendono necessari, nel frattempo, opportuni lavori agli impianti e una revisione dei metodi colturali che viene affrontata dalla famiglia: il giovane Leo, grazie alla pratica diretta e alle sue competenze di pe-
Calendario della azienda Bacchini, primi anni Sessanta. Archivio aziendale.
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Imprese Storiche
Insegna della Tenuta verso il Parco. Fotografia di Luciano Liuzzi, 2015.
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rito agrario, matura la sensibilità e l’esperienza per recuperare antichi vitigni locali, seguendo per intero l’impianto e la cura dei nuovi vigneti e l’andamento dell’uliveto che, nell’azienda Bacchini, affianca da sempre la coltivazione della vite16. Sandro, insieme al fratello, segue con attenzione tutto il settore tecnologico e commerciale che in quegli anni arriva ad avere fino a 45 rappresentanti in Italia e, spinto anche dalle nuove regole e dalle nuove tendenze di consumo in ambito nazionale e internazionale, si fa interprete di un’innovativa filosofia di mercato. È sempre più netta la convinzione che il mondo del vino debba cambiare non solo stile commerciale, ma anche status culturale: il vino ha imboccato la strada del prodotto come “esperienza”, come elemento dai forti legami emotivi, storici, simbolici con il territorio e addirittura con la cantina in cui nasce. Sandro, sempre affiancato dalla famiglia, seguirà con grande tenacia questa filosofia aziendale che porterà alla caratterizzazione della produzione. Intanto, nel 1973, con Francesco, figlio di Sandro, si apre la diciannovesima generazione. Sin da giovanissimo, la nuova
leva si appassiona alle possibilità di modernizzazione del mondo del vino, segue da vicino l’azienda e, nel 1997, mentre è ancora studente alla facoltà di Agraria dell’Università di Bologna, elabora un progetto che avrà rilievo internazionale nel settore straordinariamente ampio e variegato della coltivazione della vite. A soli 24 anni, è da ritenersi a tutti gli effetti il primo al mondo che introduce il concetto e la tecnologia della robotica nella coltivazione della vite: sua è l’invenzione del primo robot per la potatura a secco della vite, mediante un appropriato “sistema di visione” che consente alla macchina, attraverso un computer, di agire in completa autonomia, conseguendo il risultato ottimale con notevoli economie. Si tratta per l’epoca di un’intuizione e di una tecnologia avanzatissima, che alcuni professori e tecnici seguono e supportano trascinati dall’entusiasmo e dall’acume di Francesco. Nel 1998 si arriva al riconoscimento a suo nome del brevetto; nel 2000 in un convegno internazionale a Tokio a cui viene invitato, presenta la sua invenzione tra l’interesse e il plauso generale, trasformando con il suo intervento addirittura il tema del convegno, che passa dalla considerazione della “automazione” a quella della “robotica” in agricoltura. Grande successo per il robot di Francesco, ma nel contempo anche un silenzio pressoché totale e assordante da parte delle Istituzioni e dei principali soggetti italiani del settore. Solo nel 2007 una multinazionale francese arriva a un macchinario del tutto simile a quello di Francesco, che vince il primo premio nazionale per la macchina più innovativa in agricoltura, tenta anche di ottenere il brevetto, che non gli è riconosciuto perché il macchinario è praticamente uguale a quello depositato quasi dieci anni prima da Francesco Bacchini. A soli 30 anni Francesco scomparirà, la-
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Vigne della Tenuta. Fotografia di Luciano Liuzzi, 2015.
sciando la prodigiosa macchina e l’idea di applicare la robotica all’agricoltura a testimoniare la sua intelligenza e i sogni maturati, purtroppo per così poche stagioni, insieme all’uva sulle vigne della sua terra. Nel 2000 si inaugura la nuova sede della Tenuta del Monsignore, completamente ristrutturata e funzionale all’impronta commerciale individuata. Ci si rende conto che la rete distributiva affidata ai rappresentanti non consegue risultati adeguati, mal si adatta alla funzionalità complessiva dell’azienda, non supporta adeguatamente le nuove condizioni tecniche (burocrazia, costi e modalità di trasporto, ecc...) e le nuove connotazioni culturali del mercato del vino, e, soprattutto, non corrisponde all’identità che i prodotti della Tenuta del Monsignore vogliono esprimere. La famiglia lavora a una nuova strategia, il cui cuore è rappresentato proprio dalla qualità e dalle innovative caratteristiche delle strutture
che formano il complesso aziendale, privilegiando l’acquisto in loco: chi vuole il vino (e gli altri prodotti) della Tenuta lo deve, tendenzialmente, comprare in cantina, respirando il contesto lavorativo, ambientale, storico che la caratterizza. Sandro, per raccontare al meglio i suoi vini, cerca qualcosa di speciale, si rende conto che è opportuno esplorare e percorrere una strada diversa, parallela a quella consueta degli abbinamenti sensoriali e “materiali” con i cibi e i piatti. Così scrivono i Bacchini per presentare la loro produzione: «Il vino è diventato un bene che soddisfa essenzialmente bisogni immateriali, è diventato un bene che incide nella sfera spirituale attraverso le emozioni che provoca. […] Negli ultimi anni l’attenzione si è rivolta all’accostamento dei nostri vini ai sentimenti, così abbiamo scoperto una relazione tra un particolare vino e un sentimento. Per questo consigliamo un nostro specifico vino per ogni stato d’animo, con la certezza 119
Imprese Storiche
di suscitare emozioni per piccoli, ma importanti, godimenti dell’animo». Ne esce un originale catalogo emotivo, che attraverso poche parole mette in relazione ogni vino a un suggerimento sentimentale: il Trebbiano esalta i momenti positivi della quotidianità, il Pagadebit suscita fiducia nel futuro, il Cupido, ottenuto con uve Chardonnay, Pignoletto e Riesling, suggerisce che l’amore si può sognare ma l’ideale è viverlo, il Rebola Passito aiuta a volersi bene per sempre. La Papalina, un rosso da pesce, induce a superare i luoghi comuni, il Clericale fa meditare perché pensare è vivere, il Dioniso invita alla concretezza e il Novizio, un novello di Sangiovese, testimonia che i giovani di buone speranze manifestano le loro qualità sin dall’alba della vita. E così via per tutti gli altri vini della Tenuta del Monsignore. Tutte le uve seguono specifiche tecniche di vinificazione e di coltivazione, incentrate fondamentalmente sulla scelta di limitare la quantità prodotta e di lasciare i tralci a cordone libero, non legati sui fili, in modo da favorire una maturazione ottimale di tutti i grappoli. Nella tenuta si coltivano Trebbiano, Sangiovese, Bombino Bianco, Pignoletto, Chardonnay, Riesling, Merlot e Cabernet Sauvignon. Tutte le fasi, dalla conduzione delle vigne, fino all’imbottigliamento sono condotte direttamente dall’azienda, dotata di tutti i macchinari necessari. La Tenuta, inoltre, rispettando le sue radici di vera e antica fattoria, non produce solo vino. Accanto all’olio, risorsa “storica” della casata dei Bacchini, che conta su una produzione limitata, ma di pregio, grazie alle caratteristiche dei terreni e al rigore della lavorazione, compaiono altri prodotti che hanno arricchito l’elenco di quelli marchiati Tenuta del Monsignore, come grappe di pregio, miele, aceto e alcuni “prodotti 120
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di bellezza”, omaggio della casa, a base di uva. Il prodotto fondamentale che i Bacchini propongono è però la loro stessa azienda, con la sua storia, con i suoi spazi e le sue atmosfere, che trovano in Nicoletta una giovane e appassionata conduttrice: legata saldamente a ciò che diciotto generazioni di Bacchini, lo zio Leo, il padre Sandro e il fratello Francesco, le affidano perché, come c’è scritto sulla bottiglia che abbina il Sangiovese La Levata a un sentimento, «il passato può rivivere nel presente, non solo nel ricordo».
Note 1 Tutti i dati e i documenti tratti da diversi archivi locali (Archivi parrocchiali, Archivio di Stato di Rimini, ecc...) e toscani sono frutto di una lunga ricerca, cui si è dedicato Sandro Bacchini con la preziosa e professionale collaborazione del prof. Francesco Raimondi. 2 La Bolla è conservata nell’archivio di famiglia; non è chiaro se a seguito dell’incarico don Francesco abbia effettivamente esercitato la funzione. 3 Giovanna Bacchini diviene maestra e Maria frequenta l’Università di Bologna. 4
Oreste Delucca, La vite e il vino nel Riminese, Regione Emilia Romagna, Circondario di Rimini, Rimini, 1994.
5 Ibid., p. 16 6 Reperti di questo genere sono presenti nel Museo della Città di Rimini e presso l’Antiquarium di Cattolica.
9 Maria Lucia De Nicolò, Le tane del vino, Pieve Poligrafica Editore, Verucchio, 2010.
14 O. Delucca, op. cit., p. 116-117. M. L. De Nicolò, op. cit., p. 98. Stefano Romani, Antichi vitigni del Riminese, in Meditteraneo, archeologia e civiltà del vino, p. 231. La Pieve Poligrafica Editore, Verucchio 2012.
10 O. Delucca, op. cit., p. 91.
15 O. Delucca, op. cit., p. 138.
11 Ibid., p. 94.
16 Attualmente la Tenuta comprende 125 ettari di terreno, di cui 80 ha di vigneto, 15 ha di oliveto e il resto a seminativo.
7 O. Delucca, op. cit., p. 35. 8 Ibid., p. 80.
12 Ibid,. p. 87. Archivio di Stato Rimini, Archivio storico comunale busta AP 641 Vendemmia. 13 Alla coltivazione della vite e alla produzione di diversi vini sono dedicate 83 pagine e 2 tavole illustrate del secondo tomo della seconda edizione della Pratica agraria distribuita in varj dialoghi, uscita a Cesena nel 1782, disponibile in ristampa anastatica dall’Editore Bruno Ghigi, Rimini, 1975.
Nella pagina a fianco, veduta della cantina con vasche di deposito in acciaio. Fotografia di Luciano Liuzzi, 2015. La cantina delle barrique. Fotografia di Luciano Liuzzi, 2015. Sopra, gli spazi di ricevimento. Fotografia di Luciano Liuzzi, 2015.
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V. SUONI GALANTI
Le fisarmoniche dei Galanti a Mondaino
L’impresa della musica
La fabbrica dei suoni di Alessandro Sistri Quello di costruire strumenti musicali è un mestiere impareggiabile: si tratta di realizzare sofisticate creazioni materiali che permettono di produrre nel migliore dei modi qualcosa di immateriale. Un oggetto che suona bene quando si distingue per la sua qualità non è esclusivamente frutto di procedimenti concreti, porta in sé qualcosa che non si deve esclusivamente a materie e tecniche di realizzazione. Come le dimensioni dell’impresa che si dedica a questo lavoro passano da quelle del piccolo laboratorio familiare a quelle della fabbrica, le mansioni e i ritmi mutano e inevitabilmente si industrializzano, tuttavia il risultato finale, quello di produrre oggetti che per raggiungere l’eccellenza, devono in qualche modo anche essere dotati di una propria anima, di una personalità sonora riconoscibile, richiede comunque una cura e un orgoglio “artistico” particolare. La Galanti di Mondaino è una vera e affermata fabbrica dei suoni già negli anni Trenta del Novecento, le sue fisarmoniche sono tra le più apprezzate in ambito internazionale e soprattutto, grazie a un’ avven-
tura familiare coronata dal successo, sullo straordinario mercato degli Stati Uniti. Risale a quegli anni il grande edificio industriale, dotato di una sua sobria eleganza architettonica, che ancora oggi a Mondaino ospita l’attività di produzione di alcuni discendenti. Ma circa trent’anni prima, si dice intorno al 1898, il capostipite Antonio Galanti già costruisce curati strumenti musicali in un piccolo laboratorio dove fa valere la sua bravura di falegname ed ebanista, una maestria che si apprezza pienamente nei modelli allora in uso, dove la componente della “falegnameria” ha un peso rilevante. La vita di Antonio è una di quelle che esprimono bene l’epocale necessità e l’individuale capacità di mettersi in gioco che segna gli anni a cavallo tra Ottocento e Novecento. Il secolo che va finendo si scioglie nelle novità novecentesche che richiedono coraggio, prontezza di spirito, capacità di adattamento e intelligenza nel cogliere le opportunità di un mondo che va cambiando a passo spedito. Antonio sa lavorare bene con le mani e con l’ingegno; ha fatto il giostraio con una bella giostra con tanto di cavalli di legno che, si racconta, si è costruito tutto da solo. Conosce dunque bene il mondo delle fiere dove la musica, con il
Manifesto pubblicitario con fisarmonica modello Super Dominator, anno 1949, disegno W. Aquenza. Collezione Alberto Giorgi.
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Imprese Storiche
suo fondamentale valore festivo, si produce girando la manovella degli organi meccanici e con i primi organetti a mantice (i progenitori della fisarmonica) che richiedono abilità delle dita e un discreto senso musicale dei suonatori. Quando Antonio decide di dedicarsi alla fabbricazione di organetti non è molto che in Italia si costruiscono strumenti di quel genere e la fisarmonica vera e propria, quella moderna nei modelli che oggi prendono questo nome, si può dire sia ancora solo in gestazione. La storia degli strumenti della “famiglia della fisarmonica”, rispetto a quella di altri strumenti, è piuttosto sfaccettata, ricca di ramificazioni, e muove i primi passi non Italia, ma in altre nazioni: l’Inghilterra, la Francia e l’Austria. Essendo a pieno titolo uno strumento d’epoca industriale sono tante le varianti, i brevetti, i modelli più o meno riusciti di oggetti sonori la cui evoluzione può considerarsi appunto sintetizzata nella fisarmonica. In Italia lo strumento vede un primo centro di produzione storicamente ed economicamente rilevante nell’impresa di Paolo Soprani, che nelle Marche, a Castefidardo, comincia a fabbricare organetti diatonici a partire dal 1864, un anno dopo che, come vuole la leggenda industriale, è venuto in possesso di uno strumento portato da un pellegrino austriaco in visita a Loreto. Alcuni tentativi da parte di qualche ingegnoso artigiano si registrano anche precedentemente ma è con Paolo Soprani che questo strumento, grazie anche a una serie di particolari condizioni di mercato, dovute proprio alla vicinanza del frequentatissimo Santuario della Madonna di Loreto, e a indubbie capacità imprenditoriali, comincia a imboccare la strada di una larga commercializzazione. Gli strumenti ad ancia libera alimentata a mantice, nelle loro più o meno ricche versioni prodotte a Castelfidardo e in qualche altra località italiana conquistano, per le loro caratteristiche strutturali e musicali, piuttosto ve124
locemente il variegato mercato della musica tradizionale-popolare, dall’estremo Nord all’estremo Sud Italia, e addirittura all’estero, andando a sostituire in pochi decenni molti degli strumenti popolari più antichi, come il violino, i vari tipi di cornamusa, ecc... Visto il successo, nei decenni successivi nasceranno tante piccole e grandi fabbriche di “strumenti a mantice” in tutt’Italia, tra cui quella dei Galanti. La “musica colta” dal canto suo guarda con sospetto questo nuovo e versatile strumento popolare. Sul Nuovo Vocabolario Italiano di Arti e Mestieri, edito a Milano nel 1885, c’è ancora chi scrive con convinzione che «l’armonica a manticino è una cassettina maneggevole, quadrilunga a coperchio e fondo di legno e fianchi di pelle a uso di mantice. Questa cassetta, alternatamente compressa fra le mani, ora assorbe l’aria esterna, ora la spinge in parecchie ancie (sic) metalliche che producono non ingrato suono, modulato per mezzo di bottoncini che si van toccando con le dita a modo di tasti. Questo è più un trastullo, di cui presto si è ristucchi che non un vero strumento musicale di durevole dilettazione». L’autore evidentemente non ha proprio il dono della lungimiranza: sul finire dell’Ottocento e gli inizi del nuovo secolo organetti e fisarmoniche vedranno la loro stagione più proficua ed eroica, avviandosi a vivere diversi decenni di grande successo commerciale e culturale. Queste efficienti scatole dei suoni si evolvono per qualità e prestazioni di anno in anno, sono sempre più complete espressivamente, ricche di suoni e versatili, pronte ad adattarsi ai diversi stili e repertori regionali e nazionali, da quelli più tradizionali a quelli più moderni. Diventeranno, come produttori di musica e quindi di sentimenti, tra gli oggetti più fortemente identitari del nascente Novecento. Qualcuno ha addirittura potuto tracciare una sorta di storia sociale della fisarmonica che arriva a de-
suoni galanti
finire con estrema efficacia i meccanismi di importanti fenomeni come l’imponente emigrazione italiana a cavallo tra XIX e XX secolo, il riconoscimento delle identità regionali all’estero e in patria, le dinamiche di integrazione culturale e musicale internazionale e nazionale.
I Galanti con la loro fabbrica e la loro capacità imprenditoriale, insieme ai tanti che insieme a loro hanno lavorato con impegno e creatività alle fisarmoniche di Mondaino, sono stati protagonisti certi e riconosciuti di questa storia.
L’attrice cinematografica Paulette Goddard che suona una fisarmonica Galanti, anno 1935 circa. Stella hollywoodiana, la Goddard, ha interpretato assieme al marito Charlie Chaplin, film rimasti nella storia del cinema come Tempi Moderni e Il grande dittatore. L’immagine è stata successivamente utilizzata, dai Galanti, per reclamizzare le fisarmoniche sulla copertina della rivista Musical Merchandise, nel settembre 1940. Collezione Daniela Massaro.
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L'avventura di un successo internazionale
di Alberto Giorgi Le fisarmoniche Galanti sono celebri in tutto il mondo per la loro armoniosa voce, perfettamente abbinata alla potenza del suono e per l’inconfondibile linea estetica, apprezzamenti ottenuti grazie all’ottima qualità dei materiali utilizzati e alle valenti professionalità delle maestranze che vi lavoravano. La loro fama, riconosciuta soprattutto a livello internazionale, è dovuta al fatto che la commercializzazione degli strumenti prodotti, almeno fino alla fine degli anni Trenta, era rivolta esclusivamente al mercato estero e, in particolare, a quello statunitense. Anche nell’immediato Dopoguerra, quando la vendita si sviluppa sul territorio italiano, rimangono sempre i Paesi esteri il mercato di riferimento. A molti sfugge l’enorme popolarità raggiunta Oltreoceano dagli eccellenti strumenti nati nella fabbrica mondainese e dove il Super Dominator, per anni model-
Antonio Galanti. Fondatore della fabbrica e ideatore della prima fisarmonica Galanti. Fotografia di A. Bernardi di Pesaro. Collezione Luciana Galanti.
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lo di punta della produzione, è ancor’oggi tra le fisarmoniche più ricercate e stimate da suonatori e collezionisti. Ma è anche il corso degli eventi, che portano all’affermazione delle Galanti, a sorprendere, fino ad assumere quasi le sembianze di un coinvolgente film, in cui le difficoltà economiche e il successo, legato alla caparbietà e genialità dei suoi attori protagonisti, s’intrecciano al susseguirsi delle vicende umane, creando un alternarsi continuo di trame ed emozioni. Una storia tipicamente italiana, che parte dalla piccola Mondaino, ma che nasce e si sviluppa lontano, nella New York di inizi Novecento, e che porterà il nome dei Galanti e delle loro fisarmoniche in tutto il mondo. Antonio e la prima fisarmonica Galanti Il pioniere di tutto questo è Antonio Galanti, un ebanista falegname che nasce a Campocavallo di Osimo, il 15 gennaio 1855. Figlio di Domenico e Maddalena Fanfulla, resta in tenerissima età orfano del padre. La triste circostanza spinge la madre a unirsi in seconde nozze a Francesco Gramaccioni e a trasferirsi a Urbino. La nuova relazione porterà ad Antonio due fratellastri: Maria, che nasce nel 1858 a Rancitella, località delle campagne di Urbino, e Pasquale, venuto al mondo nel 1865, sempre a Campocavallo di Osimo1. Quest’ultimo dato è piuttosto importante, perché ci dimostra che i rapporti della famiglia di Antonio con l’ambiente anconetano rimangono forti e probabilmente connessi a stretti legami di parentela mantenuti in loco. L’adolescenza e la giovinezza di Antonio trascorrono tra i vicoli nell’antico centro storico di Urbino, dove la famiglia risiede tra via dell’Orso, via Voltaccia della Vecchia, via del Carmine, dove entra in
suoni galanti
Gruppo di falegnami di Mondaino, anno Novecento circa. In alto, al centro, si riconosce Antonio Galanti assieme ai fratelli Rossi Marco, Rinaldo e Adamo Primo, il giovane Dino Amadei e il maniscalco Giovanni Carpioni. Collezione Paola Masini.
bottega per apprendere il mestiere di falegname. Le qualità di certo non gli mancano e la sua lunga carriera professionale lo porterà a diventare un ottimo ebanista, passando quindi da semplice artigiano del legno a mobiliere d’arte. Il destino vuole che l’incontro con la futura moglie, Teresa Guidi, che segnerà anche il suo legame con Mondaino, avvenga a suon di musica, durante una serata danzante in località Rio Salso di Tavullia2. Teresa abita poco lontano da Rio Salso, a Pontevecchio di Montecalvo in Foglia, proprio ai confini con il territorio di Mondaino. Nella primavera del 1880, Antonio lascia Urbino e si trasferisce con Teresa a Mondaino. Non sappiamo bene i motivi di questa scelta, ma si può ipotizzare siano legati a interessi lavorativi. In quegli anni l’economia di Mondaino era basata prevalentemente sull’agricoltura e l’allevamento, ma non mancavano le piccole attività artigianali legate in particolare alla lavorazio-
ne dei tessuti, del legno e dei metalli. Tra queste si segnalano anche alcune falegnamerie a conduzione familiare, come quella di Angelo Rossi, che esercita il mestiere assieme ai figli Marco, Rinaldo ed Adamo Primo3. Una bottega di una certa rilevanza, memore di un’antica tradizione locale e di maestranze dedite alla lavorazione del legno. È plausibile quindi che la scelta di Antonio sia dovuta ad una possibilità di impiego o di lavoro collegata, in qualche modo, alla sua professione. Arrivato in paese, prende dimora lungo via Maggiore, poco prima della chiesa parrocchiale e non lontano proprio dalla falegnameria dei Rossi. Oltre al lavoro, Antonio pensa bene anche di mettere su famiglia e, dal legame sentimentale con Teresa, in linea con le usanze del tempo, arrivano numerosi figli. Nel 1882 nasce il primogenito Domenico, cui fanno velocemente seguito Evangelina, Rinaldo, Clotilde, Adolfo, Roberto, Robusto, Giuseppe e, infine, nel 1897, Egidio4. Nove bocche da 127
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sfamare sono tante e il lavoro da falegname non basta più per riempire le pance vuote. Tale è la miseria che si racconta che Antonio e Teresa utilizzassero i cassetti dei comò come provvisori letti per i loro tanti figli. La necessità “aguzza l’ingegno” e così, per aumentare i suoi miseri guadagni, matura in Antonio l’idea di costruirsi una giostra a cavalli, da portare in giro nelle numerose fiere e mercati presenti tra Marche e Romagna. Per dar vita al suo progetto si trasferisce in una vicina bottega di falegnami5, proprio dinnanzi alla chiesa del convento delle Clarisse e dà sfogo a tutta la sua inventiva e creatività nel realizzare quel carosello in legno per bambini. L’originale idea coglie di sorpresa anche i mondainesi che, quando vedono tutti quei cavallini appesi lungo la via con lo scopo di far asciugare colla e vernici, non realizzano il singolare intento, ma pensano piuttosto a una stravagante follia. Antonio, tuttavia, non è tipo da farsi intimorire dai commenti di paese, acquista una somara per azionare la giostra e inizia il suo peregrinare per feste e mercati di città e paesi. La leggenda narra che proprio durante uno di questi viaggi in cerca di fortuna Antonio venga attratto dal suono limpido e forte di un piccolo organetto; da qui sarebbe nata in lui l’idea di costruirne uno per allietare e divertire i bambini e richiamare l’attenzione sulla sua giostra. Le testimonianze raccolte su questo fatto, tuttavia, sono difformi e spesso parlano anche di un viaggio all’estero, forse in Romania6. Alla base di questi racconti, sicuramente ci sarà qualcosa di vero, però alla luce della recente scoperta delle origini anconetane di Antonio, non si può fare a meno di ipotizzare che l’idea di costruire l’organetto in realtà possa essergli venuta durante una visita ai suoi luoghi d’origine, in quella Campocavallo che dista solo pochi chilometri da Castelfidardo, dove alcuni laboratori per la produzione di organetti erano in attività già da qualche anno. 128
Comunque siano andate le cose, è innegabile che questo fatto segni la svolta economica e lavorativa della sua vita e di quella di tutta la sua famiglia. L’episodio citato è sovente raccontato dalla stampa dell’epoca in termini entusiastici e spesso anche poetici. Di particolare interesse è lo stralcio di un articolo riportato in occasione di un’esposizione campionaria organizzata a Forlì nel 1932, in cui la Fratelli Galanti ottiene un importante riconoscimento: «su tre banchi, simili a tre troni luccicanti d’oro, d’argento e di madreperla, se ne stanno le belle fisarmoniche di Mondaino. Nome che deriva dal diminutivo-vezzeggiativo di… mondo. Difatti, mi hanno detto che, a vederla la patria della fisarmonica, posta su un cucuzzolo di 400 metri, al confine della Romagna, sembra un piccolo mondo, dove si raccolgono i soffi delle sirene adriatiche per tramutarsi in dolcissime… onde sonore. Quasi mezzo secolo fa, i soffi delle sirene si sperdevano senza risultato; ma una notte, Antonio Galanti, analfabeta, squattrinato e senza mèta, ebbe la fortuna di sentire, a stomaco vuoto per solidarietà coi suoi dieci figli piccini e famelici, un armonioso soffio di sirena… Lo stomaco leggero rende vivido il cervello e la tasca… in armonia col sacco della digestione sprona l’uomo ai più audaci tentativi. Antonio Galanti catturò le armonie delle sirene adriatiche e le rinchiuse nel primo organetto semi-tonato che costruì da solo. Il destino volle, che il primo organetto trovasse subito un prodigo acquirente. Fu questa la “parva favilla” del fortunato avvenire per la prolifica famiglia Galanti e del minuscolo paese preso di mira dalle sirene»7. La tradizione industriale e alcuni documenti8 datano alla fine del diciannovesimo secolo, e più precisamente al 1898, l’episodio chiave che dà lo spunto per l’inizio dell’attività di fabbricazione di fisarmoniche. Una data sulla quale però non ci
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sono riscontri oggettivi, ma che potrebbe essere plausibile anche in considerazione dei festeggiamenti, per la ricorrenza dei cinquant’anni d’attività della ditta, organizzati negli States of America dalla R. Galanti & Bros.Inc. attorno a 1948-50. All’inizio la produzione di strumenti musicali è piuttosto contenuta, e va a integrarsi con il mestiere da falegname di Antonio: le armoniche prodotte sono comunque di una certa bellezza e qualità e trovano mercato nelle vicine fiere di paese dove Antonio si reca come giostraio. Nel frattempo, a dare una mano in bottega arriva il figlio Domenico, che, oltre ad apprendere i segreti dell’arte dell’ebanisteria, subito si distingue per una particolare predilezione per la musica. Suona egregiamente l’organetto, tanto da essere soprannominato mani d’oro. Antonio pensa bene di approfittare delle particolari doti del ragazzetto portandolo con lui, assieme alla piccola Clotilde, nei suoi viaggi di lavoro. Così mentre Domenico diletta il pubblico con le melodie della sua armonica, Antonio muove la giostra e Clotilde passa tra il pubblico a raccogliere le mance a cappello9. È facile pensare che Domenico abbia appreso l’arte musicale a Mondaino, dove già da tempo era radicata una forte cultura musicale che aveva portato anche alla nascita di un Corpo Bandistico, diretto da valenti maestri, come il maceratese Pietro Rinaldelli, pianista e compositore10, e dove spesso giungevano musicisti importanti, tra i quali anche Pietro Mascagni11, ospiti del prof. Augusto Guidi Carnevali, a quei tempi presidente del Conservatorio di Pesaro. Domenico mette a frutto il suo talento e scende nella vicina Cattolica, dove, suonando in tutte le osterie, sul molo, sulle aie coloniche riesce a guadagnarsi quel tanto che gli basta per trasferirsi in Svizzera e portare oltre le Alpi, le melodie e le canzoni d’Italia. Ma questo non lo soddisfa. La
sua aspirazione è quella di cercare fortuna al di là dell’oceano, in quegli Stati Uniti d’America che tanto offrono come opportunità e dove i suoi sogni possono anche diventare realtà. Ben presto i proventi derivanti dal successo ottenuto in Svizzera gli permettono di acquistare i biglietti per il piroscafo diretto a New York. Le vicende americane dei fratelli Domenico, Robusto ed Egidio Nell’autunno del 1910, Domenico saluta le figlie Eleonora e Malvina, la moglie Maria Muzzini e s’imbarca sulla motonave Chicago, dal porto francese di Le Havre. Il 22 novembre sbarca a Ellis Island, un isolotto alla foce del fiume Hudson, nella baia di New York, dove gli immigranti venivano sottoposti a visita medica e poi registrati per nome, paese di nascita, professione, luogo di destinazione e disponibilità di denaro12. Domenico è registrato come falegname, ha con sé solo 50 dollari e poche altre cose, tra queste c’è anche il piccolo organetto costruito dal padre e nel quale ripone tante delle sue aspettative e speranze.
Organetto diatonico semitonato prodotto da Antonio Galanti, anni 1915-1920. Collezione Guerrino Carigi. Fotografia Luciano Liuzzi 2015.
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Robusto Galanti, anni 1917-1920. Fotografia di Malnati’s Studio di New York. Collezione Alberto Giorgi.
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Arrivato sull’isola di Manhattan, Domenico va subito in cerca di un’occupazione che gli permetta una decorosa esistenza, ma i suoi desideri sono altri. Vuole andare per locali notturni e teatri a suonare l’organetto, far conoscere le sue amabili melodie e cercare fortuna. Ed effettivamente la fortuna arriva e, come vedremo in seguito, non solo quella. Durante le sue esibizioni in tanti apprezzano le sue armonie, ma sono in parecchi anche quelli che notano e ammirano le doti del suo bel organetto. Alla fine di ogni concerto c’è sempre qualcuno che lo ferma, gli chiede se lo strumento è in vendita o come fare per acquistarlo. Domenico scrive al padre chiedendo di costruire nuovi organetti e di
spedirglieli in America. Giorno dopo giorno, le richieste aumentano, sino a dare vita a un piccolo ma, allo stesso tempo, significativo commercio. Sulla scia dell’entusiasmo dei primi ordinativi, nel 1914 parte per New York anche Robusto Galanti. È di dieci anni più giovane di Domenico, ha meno doti musicali, ma più spiccato senso per gli affari. Si imbarca da Genova sulla motonave Caserta l’8 giugno 1914 e il 25 dello stesso mese arriva a Ellis Island. Dai registri degli immigranti compilati dagli ispettori ricaviamo una notizia importante: la professione con cui viene registrato è quella di musicista. Robusto raggiunge il fratello al 230 di West 38th Street, modifica il suo nome in Robert, più semplice da pronunciare e decisamente più vicino alla cultura americana, e di lì a poco inizia a lavorare come operaio in una fabbrica di caramelle. La svolta avviene in una notte di primavera del 1915, quando Robert, in preda alla solitudine, si ferma a suonare la fisarmonica su alcuni gradini nel Lower East Side di Manhattan. Un passante lo nota, si ferma e gli chiede cosa fosse quello strumento: «una fisarmonica a piano», risponde prontamente Robert. L’uomo gli chiede come poteva averne una simile e da quel momento ha inizio la storia di successo dei Galanti13. Robert intuisce subito che quella è la giusta via da seguire e passa intere giornate a suonare la fisarmonica lungo le grandi strade newyorkesi. Quando qualcuno si ferma ad ascoltarlo Robert non chiede soldi, ma propone di insegnargli gratuitamente a suonare lo strumento in caso di acquisto. Da quell’episodio le richieste di fisarmoniche aumentano, e i due fratelli seguitano a scrivere al padre chiedendo nuovi e sempre più numerosi strumenti. Non sappiamo bene quale sia stato il susseguirsi degli avvenimenti da allora fino alla nascita ufficiale della fabbrica di fi-
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sarmoniche in Italia. Il proseguo dello sviluppo commerciale e produttivo delle fisarmoniche Galanti negli States è tuttora avvolto nel mistero. Mancano anche testimonianze certe da parte dei familiari e la ricostruzione dei fatti è stata possibile mettendo insieme alcune indizi emersi durante la ricerca storica, come piccole tessere sparse di un vasto mosaico che hanno permesso di conoscere solo parzialmente la trama degli avvenimenti, che spesso restano nell’ambito delle mere ipotesi. Uno di questi indizi è rappresentato da una bella immagine di un giovanissimo Robusto Galanti proveniente da Oltreoceano14. La foto lo ritrae intento a suonare una fisarmonica a piano, ma diversamente da quello che si può pensare, la fisarmonica non è marchiata Galanti. Da quanto riportato sulla griglia dello strumento si può notare, infatti, come sia stata prodotta dalla ditta Augusto Iorio & Sons di New York. Augusto Iorio fa parte di una famiglia di accordatori di organi, e proviene da Villa Santo Stefano in provincia di Frosinone. Arriva a New York nei primissimi anni del Novecento assieme al fratello Amedeo e inizia a lavorare presso un laboratorio di costruzione di fisarmoniche. Nel 1907, inizia a produrre fisarmoniche di ottima qualità con il proprio marchio, al 229 di Grand Street15, all’interno di quella Little Italy di Manhattan, dove anche i due fratelli Galanti risiedono al 225 di Sullivan Street. Facile ipotizzare che, prima Domenico, poi successivamente Robusto, abbiano avuto rapporti di lavoro o trovato impiego presso la ditta Iorio, mettendo a frutto quanto imparato in Italia dal padre Antonio. Anche Alieto Galanti racconta come suo padre Domenico, nei suoi primi anni di permanenza in America, «intraprese con mezzi rudimentali a fabbricare organetti» e quando un tedesco gli si avvicinò «per carpirgli i dettagli della sua genialità di costruttore […] se ne liberò» chiedendo
aiuto ai fratelli, che successivamente lo raggiunsero negli States16. L’acquisizione di queste professionalità spiegherebbe l’alto livello di qualità, e di riconosciuta eccellenza, raggiunto sul mercato americano dalle fisarmoniche Galanti, già dai primordi della loro attività. Non bisogna poi trascurare l’enorme impegno legato allo sviluppo del settore commerciale dell’attività che stava nascendo. Questo aspetto viene curato in particolar modo da Robusto, che, oltre a vendere le fisarmoniche prodotte in Italia, inizia la commercializzazione anche di altri marchi presenti sul mercato, tra i quali probabilmente anche quello dell’Augusto Iorio & Sons. Risalgono agli inizi degli anni Venti anche le prime fisarmoniche, rintracciate sul mercato americano, marchiate Galanti Bros e Galanti & Bros, in cui il brand Galanti è a volte associato a quello di altre aziende come la Ideal Manufacturers Company di New York. Non conosciamo quali fossero i rapporti di collaborazione tra le due ditte, ma la modalità di riprodurre i diversi marchi sullo strumento fa ritenere che la fisarmonica rientrasse tra quelle commercializzate dai fratelli Galanti negli States.
Fisarmonica a piano Galanti Bros – Ideal Manufacturers Co. N.Y., anno 1920 circa. Fotografia Luciano Liuzzi 2015.
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Imprese Storiche Fisarmonica R.Galanti & Fratelli – Mondaino (Forlì), anni 1920-1925, una delle fisarmoniche a piano realizzate prima della costituzione della fabbrica armoniche Fratelli Galanti. Fotografia Luciano Liuzzi 2015.
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La vita a New York non è fatta, però, solo di duro lavoro. Domenico durante le sue frequenti esibizioni musicali per locali notturni incontra una ballerina italiana, arrivata a Manhattan nel 1911, e tra loro nasce un sincero amore. È Barbara Penazzi, e proviene da Ostiano di Cremona. Dalla loro relazione l’11 luglio 1919 nascerà Angelo che, come vedremo, avrà un ruolo importante nella futura storia della ditta. Sempre in quegli anni, arrivano a New York, a dar man forte, anche altri due fratelli, Roberto ed Egidio, registrati a Ellis Island il 25 dicembre 1919 e il 5 settembre 1920, anch’essi come musicisti, probabilmente chiamati in America con la buona prospettiva di un lavoro sicuro determinato dall’aumento degli ordinativi di fisarmoniche. Risale, infatti, all’ottobre del 1921 la prima notizia dell’apertura ufficiale di un’attività commerciale da parte dei fratelli Galanti, con un annuncio sulla rivista The Billboard, in cui la R. Galanti & Bros, con sede al 259 di Third Avenue, viene citata tra gli annunci economici come accordion maker, quindi fabbricante di fisarmoniche17. Questo dato fa ritenere che i Galanti affiancassero alla normale attività di vendita anche quella di riparazio-
ne e forse di assemblaggio di alcune parti degli strumenti. Sicuramente, in quegli anni, prosegue una piccola attività di fabbricazione di strumenti musicali anche a Mondaino, ma la produzione si trasforma e passa dagli organetti diatonici, richiesti sul mercato locale, alle moderne fisarmoniche a piano, preferite e molto ricercate dal mercato americano. La differenza tra i due strumenti è sostanziale: mentre nella fisarmonica diatonica, detta anche organetto, la pressione sullo stesso bottone produce due suoni differenti a seconda che il tasto venga premuto aprendo o chiudendo il mantice (sistema bitonico), nella fisarmonica a piano, così denominata per la tastiera simile a quella di un normale pianoforte, il suono prodotto è unitonico, cioè sempre lo stesso indipendentemente dal verso del mantice, che spinge l’aria necessaria a far vibrare le ance. La prova di questa fondamentale modifica della tipologia produttiva degli strumenti della Galanti ci viene da una fisarmonica recuperata nella vicina Tavullia di Pesaro, e che rappresenta, in un certo qual modo, il punto di passaggio, dalle fisarmoniche diatoniche firmate Antonio Galanti a quelle a piano realizzate dai Fratelli Galanti. La suddetta fisarmonica è di quelle tipo a pianoforte ma esteticamente si rifà ancora ai modelli costruttivi degli organetti, con angolari in alpacca e con fronte decorato a piccole losanghe in madreperla intagliate lungo una cornice che delimita la parte esterna della cassa armonica, sia nella parte cantabile, che in quella dei bassi. È databile presumibilmente attorno al 1920-25, ma la cosa più interessante è che riporta la dicitura R. Galanti & Fratelli – Mondaino (Forlì), come l’azienda di produzione registrata in America, in quanto non si era ancora costituita l’italiana Fratelli Galanti, che nascerà da lì a poco.
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La nascita della Fratelli Galanti e il nuovo stabilimento
Nel 1924, grazie ai capitali accumulati negli States, Domenico torna definitivamente a Mondaino e, assieme ai fratelli Robusto ed Egidio, fonda la società di fatto Fratelli Galanti – Fabbrica di armoniche, con sede in via Maggiore 8. L’attività parte ufficialmente il 1 gennaio 1924, ma l’iscrizione viene fatta solamente un anno e mezzo dopo, nel giugno del 1925. Al momento della registrazione alla Camera di Commercio e Industria di Forlì viene dichiarato che il numero medio degli operai impiegati è pari a 20, la forza motrice utilizzata è quantificabile in 3 cavalli elettrici e che la persona delegata alla firma è Domenico Galanti. È inoltre notificato che la società possiede un negozio, per la vendita di fisarmoniche, a New York al 71 di Thrid Avenue18. Quello di emigranti che fanno fortuna in America e poi utilizzano i loro capitali per
aprire stabilimenti industriali nei loro paesi d’origine, approfittando della rete commerciale della casa madre americana, è un modus operandi che ritroveremo in seguito usato anche da altri produttori di fisarmoniche marchigiani, come i fratelli Egisto e Roberto Pancotti, nel caso della Excelsior, e di Julio Giulietti, per la Zerosette19.
Via Maggiore di Mondaino, cartolina datata 23 ottobre 1930. Sul secondo edificio a sinistra si riconosce l’insegna della fabbrica Galanti, a contrassegnare l’ufficio del primo stabilimento di fisarmoniche. Collezione Alberto Giorgi.
Maestranze della fabbrica di armoniche Fratelli Galanti, anni 1924-1925. Al centro si riconosce l’anziano Antonio Galanti con i figli Domenico, Robusto, Roberto e Giuseppe. Collezione Cesare Galanti.
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Ci sfuggono i motivi per i quali non vennero coinvolti, tra i soci fondatori della società, anche gli altri due fratelli Roberto e Giuseppe, che poi ritroveremo stabilmente occupati nel reparto tastiere e nella meccanica dei bassi all’interno dell’azienda. Probabilmente alla base di ciò ci sono ragioni economiche. L’avvio della ditta certamente aveva comportato un esborso finanziario non indifferente per l’acquisto delle attrezzature, dei macchinari e, in particolar modo, dell’edificio in via Maggiore, dove era stata avviata la produzione e dove si era trasferito, dopo il suo rientro dall’America, Domenico con la nuova compagna Barbara, insieme agli anziani genitori Antonio e Teresa. Sfruttando la rete commerciale sviluppata nella città americana, gli affari vanno subito a gonfie vele, e grazie alle professionalità acquisite negli States vengono prodotte fisarmoniche a piano all’avanguardia, dal punto di vista tecnico ed estetico, che trovano favorevoli riscontri da parte dell’esigente clientela americana. Tutto questo anche grazie a un’abile campagna pubblicitaria e di marketing, incentrata sulla grande visibilità che avevano i grandi maestri di fisarmonica, protagonisti dell’attività concertistica di inizi Novecento. In quegli anni, tutte le grandi ditte fabbricanti fisarmoniche costruiscono pezzi unici e personalizzati per i più famosi musicisti, e i Galanti non sono da meno. Robusto, già nel 1925, punta su Mario Perry, apprezzato fisarmonicista e violinista della Paul Whiteman Orchestra, la band musicale americana più famosa di quegli anni. Un’orchestra che fonde la musica sinfonica al jazz e che rivoluzionerà la musica leggera e da ballo affiancando, al classico uso degli strumenti ad arco, le sezioni degli ottoni, dei sassofoni e di altri strumenti, tra cui, appunto, la fisarmonica, stabilendo così la formazione standard per le orchestre da ballo. 134
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La band passa alla storia anche per aver lanciato famosi artisti: come il giovane Bing Crosby e per aver commissionato il brano Rapsodia in blu a George Gershwin20. Purtroppo un terribile incidente stradale spezzò i sogni e la carriera di Mario Perry, non ancora trentenne, nel 1929. Il tragico avvenimento ci permette però di capire l’eccellente livello già raggiunto dalle Galanti. Il suo strumento è infatti acquistato dal fisarmonicista Ted Dickinson, che, in un articolo comparso sul Syracuse Journal, ne esalta le doti e le qualità, definendolo, anche a detta dei critici musicali: “il più perfetto, del suo genere, che sia mai stato realizzato21. Tra il 1926 e il 1927, viene stampato il primo catalogo ufficiale della R. Galanti & Bros. che raccoglie l’intera gamma dei modelli, comprendente fisarmoniche a piano e cromatiche. Nelle pagine introduttive troviamo le immagini dei soci fondatori, con i rispettivi incarichi in azienda: Domenico Galanti figura come factory manager, Robusto Galanti nel ruolo di production manager ed Egidio Galanti in quello di business manager. Al tutto è associato un’esaustiva descrizione delle tecniche costruttive e dei materiali utilizzati: «La conoscenza approfondita nella produzione di armoniche ci è stato insegnata dai nostri antenati. Questa competenza è ora applicata nella realizzazione di tutti i nostri strumenti. La nostra fabbrica utilizza tutti i macchinari di ultima generazione, impiegando solo manodopera qualificata e materiali di primissima qualità. Le voci utilizzate nelle nostre armoniche sono prodotte in Svezia, le pelli piatte per le voci importate dall’Australia e i legni pregiati dal Sud Africa. Tutte le casse sono realizzate in legno stagionato e vengono ricoperte di celluloide doppia. Le tastiere sono inclinate, così da permettere il movimento della mano con molta facilità. Tutti i tasti della tastiera e dei bassi, sono agevolissimi e rispondono im-
Fisarmonica Galanti modello De Luxe, anni 1927-1932, modello di punta della produzione di fine anni Venti. Collezione Alberto Giorgi. Fotografia Luciano Liuzzi 2015.
Particolare del traforo di fisarmonica Galanti personalizzata con aquila e bandiere americane a stelle e strisce, datata 4 giugno 1930.
mediatamente appena azionati. Ogni mantice contiene 16 pieghe foderate con pelle resistente ed è rinforzato con angoli in metallo. Tutte le voci sono fatte a mano, di acciaio finissimo ed intonate perfettamente con robustezza e dolcezza di suono. Ogni armonica viene incisa con splendidi disegni con fiori a colori e brillanti. Il risultato dei nostri sforzi per produrre le migliori armoniche è stato riconosciuto a livello nazionale. Fisarmonicisti famosi, che hanno sperimentato altre marche di armoniche, hanno acquistato i nostri strumenti, riconoscendo le loro superiori qualità timbriche e di lavorazione».
Nella pagina a fianco, Peavey and her Orchestra, catalogo Galanti, anni 19261927. Browne Sisters, catalogo Galanti, anni 1926-1927. Collezione Alberto Giorgi.
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Particolare di interno di fisarmoniche con data e firma delle maestranze che hanno operato sullo strumento.
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La produzione non si limita esclusivamente ai modelli riportati in catalogo, ma occasionalmente sono realizzate anche fisarmoniche personalizzate, o su commissione, in base alle richieste e ai gusti della clientela. Sono pezzi unici che si distinguono, in particolare, per ricchezza di decorazioni e bellezza estetica, dove l’artigianalità è di altissimo livello e diventa quasi una forma d’arte. Ne è un esempio una fisarmonica che riporta sul traforo un motivo ornamentale con aquila e bandiera americana a stelle e strisce. Al suo interno troviamo anche la data di fabbricazione: il 4 giugno 1930. Questo fatto è piuttosto consueto nelle fisarmoniche prodotte tra le due guerre dove, oltre alle date, ai numeri di serie, alle sigle e agli appunti, spesso compaiono anche le firme delle maestranze che hanno operato sullo strumento. Solitamente i nomi che si trovano sono relativi agli operai impegnati nell’esecuzione, o nella verifica, delle parti meccaniche: non sappiamo però se la presenza delle firme sia legata alla volontà di lasciare il proprio segno sulle fisarmoniche realizzate (per una sorta di amor proprio) o se invece sia riconducibile a una forma di controllo di qualità dello strumento.
Negli ultimi mesi del 1929 sono da registrare due episodi importanti per la storia della ditta: uno triste, la morte all’età di 74 anni di Antonio, ideatore e artefice della prima fisarmonica Galanti e uno lieto, la posa della prima pietra del nuovo stabilimento industriale. I continui aumenti di ordinativi di fisarmoniche dall’America già da tempo avevano reso insufficienti gli spazi lavorativi all’interno del fabbricato di proprietà, e avevano obbligato i Galanti a utilizzare anche diversi locali in abitazioni attigue, tanto da occupare diversi caseggiati all’inizio di via Maggiore. Su questo avvenimento il Popolo di Romagna scrive che: «Ai Galanti sorse l’idea di costruire un apposito fabbricato nelle immediate adiacenze del paese, ma si presentarono varie difficoltà per la penuria del terreno a ciò adatto. L’unico a prestarsi era quello di proprietà della locale Congregazione di Carità la quale, dietro richiesta degli interessati, fece la cessione dell’intero poderetto Tavollo. Domenica 14 dicembre, sotto un sorriso di sole che rese ancor più sentita l’interna letizia del popolo mondainese, si svolse la cerimonia della posa della prima pietra del nuovo, ampio fabbricato che potrà accogliere, ben sistemati, oltre cento operai. Nelle ore pomeridiane, attirato dalle note allegre della banda del Dopolavoro Comunale, il popolo si raccolse sul luogo ove già sono iniziati i lavori di sterro. Erano presenti le Autorità Politiche, Amministrative e Religiose. Il Molto Rev. Arciprete Don Giuseppe Pedretti, vestiti i sacri paramenti, impartì la benedizione al blocco che poi fu fatto discendere nella fondazione già preparata. Un caloroso battimani e grida di evviva accompagnarono la rapida discesa. Appena compiuta la cerimonia religiosa, il Molto Rev.do Arciprete Don Cagnoli rivolse al popolo calde parole vibranti di patriottismo […] ed esaltando inoltre lo spirito intraprendente dei F.lli Galanti, il
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loro attaccamento al paese natio al quale hanno dato e danno prosperità, il loro amore verso la Patria di cui rendono onorato il nome nelle lontane Americhe, ove esportano totalmente le loro armoniche. A rendere più completa la festa, che riempì di esultanza la popolazione locale, è stato offerto dai fratelli Galanti un sontuoso rinfresco e, calata la notte, sono stati incendiati i fuochi artificiali22». L’edificio industriale ha corpo rettangolare, con dimensioni in pianta di metri 30x25 (750 metri quadrati), e il suo progetto iniziale prevedeva uno sviluppo su due livelli fuori terra nella parte frontale e uno in quella retrostante. Terminato nel 1932, è realizzato mediante una struttura portante costituita da travi e pilastri in cemento armato con tamponamenti in mattone: è di estrema importanza storico-architettonica perché rappresenta uno dei primi edifici industriali costruiti, con questa tecnica, in Italia. Allo stato attuale, non è stato possibile rintracciare i disegni progettuali, che probabilmente si possono ricondurre
all’ingegner Valentino Galanti23, mentre i lavori di costruzione vennero appaltati all’Impresa Edile Ricci dei fratelli Adolfo, Giuseppe e Quinto di Cattolica. Con la costruzione del nuovo stabilimento, forse nasce nei Galanti anche l’aspirazione di allargare le vendite dei propri prodotti al mercato italiano. Non si spiegherebbe diversamente l’idea di partecipare, nel novembre del 1932, a un’Esposizione Campionaria organizzata a Forlì dall’Ente Nazionale per l’Artigianato e le Piccole Imprese. Ma il target e i prezzi del prodotto sono troppo elevati per il mercato nazionale e i risultati non sono quelli sperati. Grazie però a quell’esposizione, i Galanti si aggiudicano un importante premio, un Diploma di Medaglia d’Oro come miglior prodotto tra i 153 esposti in mostra. Questo gli permetterà di qualificare l’immagine della propria ditta e di fregiarsi di quel titolo diventando, dal marzo del 1933 in poi: Premiata Fabbrica Fisarmoniche Fratelli Galanti. L’eccellente qualità e la continua ricerca di miglioramenti tecnici ed estetici sono sempre
Fabbrica di fisarmoniche Fratelli Galanti, nuovo stabilimento. L’edificio industriale iniziato nel 1929 e terminato nel 1932 rappresenta un importante esempio di archeologia industriale in quanto tra i primi realizzati, in Italia, in cemento armato. Collezione Alberto Giorgi.
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stati alla base della crescita e dello sviluppo delle fisarmoniche Galanti, insieme all’indubbia capacità nella scelta delle maestranze da impiegare nelle varie fasi del processo produttivo. Tra le figure più rilevanti di quegli anni potremmo ricordare Aldo Nicolini, capo reparto della falegnameria, proveniente da una valente famiglia di falegnami mondainesi, il saludecese Francesco Maioli, che ottenuto la qualifica di ebanista presso un istituto professionale di Bologna si distinse per le particolari capacità nella lavorazione del legno diventando capotecnico e designer di modelli e l’urbinate Giuseppe Marcucci, addetto ai trattamenti galvanici e nichelatura. Quando queste professionalità non erano rintracciabili in zona venivano fatte giungere da fuori. Proprio in quest’ottica, già nei primissimi anni della loro attività i fratelli Domenico e Robusto si recano personalmente presso il polo produttivo di Castelfidardo alla ricerca di quei profili da loro ritenuti fondamentali, per accrescere e qualificare ulteriormente la loro produzione. In questo modo, di lì a poco, si trasferiscono a Mondaino, Eugenio Baldoni come responsabile del reparto accordatori e collaudatori, Alfio Sereno Bonè per il reparto mantici, assieme ad altri operai specializzati nella lavorazione delle tastiere e della meccanica24. In seguito, l’importante ruolo di capo accordatori sarà ricoperto da Nazzareno Gigli, sempre di Castelfidardo e da Giovanni Bellinzona, giunto a Mondaino con Antonio Selicorni da Stradella, di Pavia nel 1937. Nel 1934 viene installato il nuovo reparto dell’officina meccanica, in modo da poter produrre autonomamente anche le ance o “voci”. Le voci sono sottili lamelle di acciaio armonico, fissate su piastrine di alluminio forato, che vibrano ed emettono il suono al passaggio dell’aria mossa dalla compressione del mantice. Così la fabbrica arriva a coprire l’intera filiera del ciclo produttivo, e ogni singola parte dello strumento è realizzata in proprio: fino a quel138
la data le voci venivano importate dalla Germania, dalla ditta Johs Koch di Trossingen, nel comparto della Hohner25. Per avviare il nuovo reparto, è chiamato un responsabile direttamente dall’America: l’ingegnere Bartolomeo Balestrieri, che i Galanti avevano conosciuto a Boston. Di origine bolognese, anche se natio della provincia di Siracusa, Balestrieri si era trasferito in America da diversi anni, dove lavorava nel settore meccanico. Il laboratorio è organizzato con vari macchinari, tra cui tre presse in scala di potenza, un tornio lineare e uno semiautomatico, una limatrice e una rettificatrice, fatte giungere direttamente dagli States26. Nonostante la grande richiesta di fisarmoniche sul mercato statunitense, e i capitali accumulati in oltre un decennio di attività, la Fratelli Galanti ha però dei seri problemi di liquidità che ne limitano l’espansione e, conseguentemente, l’aumento di produzione. La costruzione del nuovo stabilimento ha coinciso proprio con la grande crisi economica del 1929, e i debiti accumulati con gli istituti di credito ne hanno rallentato la crescita. Proprio per questi motivi, nel 1935, viene richiesto un finanziamento di 800.000 lire, della durata di 15 anni, al neonato Istituto di Ricostruzione Industriale, sorto per volere dell’allora Capo del governo Benito Mussolini. La relazione fatta in seguito all’istruttoria, ordinata agli ispettori dal consiglio dell’Istituto27, è una testimonianza di fondamentale importanza per risalire ai dati sull’attività e alla produzione della ditta e ci permette di fare una fotografia precisa sulla Fratelli Galanti in quegli anni. Dalla documentazione emerge che la fabbrica, nel 1935, «dà lavoro a circa 120 operai, produce intorno a 100 armoniche al mese e i suoi impianti sono efficienti per una lavorazione massima di 1800-2000 armoniche all’anno. L’armonica prodotta, per la sua l’accurata lavorazione e per la bontà del materiale impiegato, è assai ricercata
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– specie sul mercato americano – e riesce a vincere la concorrenza sia straniera (soprattutto tedesca)», che quella delle principali ditte italiane: Mario Soprani, Paolo Soprani e Crucianelli di Castelfidardo, Scandalli di Camerano, Frontalini di Numana, Pancotti di Macerata, Dallapè di Stradella e Antonio Ranco di Vercelli. In base ai dati indicativi desunti dalla contabilità, la produzione della ditta passa dalle circa 400 armoniche fabbricate annualmente, tra il 1927 e il 1931, alle oltre 1000 unità del 1934, attestandosi tra il 3 e il 4% della produzione nazionale. A livello commerciale, fino al 1933, la distribuzione delle armoniche prodotte avviene quasi esclusivamente tramite il punto vendita di New York e, solamente dal 1934, si effettuano esportazioni anche verso il mercato inglese e francese. Come si deduce dalla tabella n.1 in appendice, minime risultano le vendite sul mercato nazionale. Altro dato importante, che risalta dall’istruttoria dei funzionari dell’IRI, è il fatto che la sede di New York riesce a commercializzare annualmente tra le 1500 e le 1800 armoniche, contro le sole 800-1000 fabbricate nella sede produttiva di Mondaino. Per questo la ditta statunitense R. Galanti & Bros si vede costretta a rifornirsi sul mercato americano, mentre la ditta italiana non può crescere di produttività per la mancanza di liquidità necessaria all’acquisto delle materie prime. A conferma di questo è utile e interessante il raffronto tra l’esportazione totale italiana e quella della Galanti, limitatamente agli anni 1933 e 1934, per meglio valutare le concrete possibilità di sviluppo dell’azienda, anche se riferita ai soli mercati americani, inglesi e francesi (vedi tabella n. 2 in appendice). Nonostante i dati economici della ditta siano positivi, alla fine dell’istruttoria, il consiglio di amministrazione dell’IRI considererà sproporzionata la richiesta
fatta dalla Galanti e delibererà l’erogazione di un finanziamento molto inferiore a quello inizialmente richiesto, non sufficiente a generare le risorse necessarie per l’incremento della produzione. Intanto, nell’ottobre del 1935, un altro ostacolo blocca le politiche commerciali
Copertina catalogo fisarmoniche Galanti, anni 1938-1939, disegno G.Telo. Collezione Alberto Giorgi.
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Imprese Storiche
disegnate dai Galanti: l’invasione dell’Etiopia da parte del regime fascista, in quel progetto di espansione coloniale che puntava alla costituzione di un Impero, è duramente condannata dalla Società delle Nazioni, che decide di applicare all’Italia pesanti sanzioni economiche approvate da 50 Paesi membri e caldeggiate in particolar modo da Inghilterra e Francia. Le penalità applicate vietano le esportazioni dei prodotti italiani e rischiano, quindi, di far saltare l’importante accordo di fornitura da poco ratificato con un rivenditore inglese. Fortunatamente le sanzioni sono revocate già nel luglio del 1936, ma questo episodio fa considerare ai Galanti l’opportunità aprire una sede distaccata della ditta nella vicina Repubblica di San Marino, in modo da eludere il blocco alle esportazioni28 e di allargare le vendite anche ad altri Paesi del Vecchio Continente. In quest’ottica, è programmata la partecipazione a mostre ed esposizioni su diversi mercati europei, come riportato sui giornali dell’epoca che scrivono: «è di questi giorni il successo che la ditta Galanti ha ottenuto alle Fiere Internazionali di Lipsia, Belgrado, Zagabria, dove ha esposto per la prima volta e dove autorità straniere, artisti, commercianti, industriali si sono mostrati entusiasti ammiratori delle fisarmoniche Galanti. Fra gli altri il titolare della più potente fabbrica di fisarmoniche del mondo, importantissima ditta germanica, non ha esitato a giudicare la produzione Galanti indiscutibilmente superiore e a definire i suoi modelli dei prodigi di tecnica costruttiva»29. In quegli anni, da un’idea di Domenico, viene anche battuta la strada che porta alla realizzazione di fisarmoniche elettro-pneumatiche, innestate da rulli sonori in carta perforata, dove il suono è accompagnato dal movimento di alcuni manichini automatizzati. Per lo sviluppo del nuovo progetto è chiamato un 140
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Scuola di fisarmonica a New York che utilizza esclusivamente strumenti di produzione Galanti, anni 1930-1932 circa. Al centro, tra i musicisti, si riconosce Egidio Galanti. Collezione Mauro Galanti.
ingegnere francese e gli strumenti musicali meccanici sono costituiti da due manichini: un uomo vestito in elegante frac, affiancato da una donna con una fisarmonica modello Piuma, che, azionati dai rulli traforati su appositi lettori pneumatici suonano e muovono testa, braccia, dita e piedi. Ma i costi di progettazione e sviluppo si rilevano subito troppo elevati e la produzione viene limitata a pochi esemplari, poi venduti sul mercato americano30. Il 21 giugno del 1938 la fabbrica viene omaggiata dalla visita del capo del governo Benito Mussolini, che, durante un tour in venti comuni rurali della provincia di Forlì, arriva a Mondaino e si ferma a visitare il nuovo stabilimento. Il suo arrivo è accolto festosamente da tutte le maestranze al gran completo. Il Duce, dopo aver ascoltato attentamente la relazione sulla fabbrica e sui futuri progetti di miglioramento e incremento della produzione, si complimenta stringendo la mano, uno ad uno, ai rappresentanti della famiglia e a tutti gli operai31. Proprio in quei giorni, i tecnici, i disegnatori e gli operai qualificati della ditta stavano ulti-
mando lo sviluppo di un nuovo modello di fisarmonica, con soluzioni tecniche rivoluzionarie per quei tempi, tanto da essere considerata la migliore per quegli anni, e dotata di 15 registri al canto e 7 registri ai bassi. I registri, detti anche cambiavoce, sono dispositivi che danno la possibilità di ottenere timbriche diverse del suono, a seconda del brano musicale da eseguire. L’innovativo strumento verrà chiamato Dominator in onore di Mussolini, e rappresenterà il modello di punta della Galanti per gli anni a venire, raccogliendo le migliorie tecniche e estetiche apportate alle fisarmoniche in tanti anni di ricerca e sperimentazioni, come documentato dai brevetti industriali depositati sia in Italia32 che negli States. A quegli anni risale anche l’invenzione del modello Piuma, pensata in particolare per le signore e signorine. Una fisarmonica realizzata in misure ridotte, con legni e leghe di metalli più leggeri, che mantiene integre tutte le qualità di uno strumento completo e permette “di suonare per delle ore intere senza risentirne la minima stanchezza fisica”.
Nella pagina a fianco, fisarmonica Galanti modello Dominator, anni 1938-1939. Fisarmonica dotata di 15 registri al canto e 7 registri ai bassi e realizzata con innovative soluzioni tecniche, tanto da essere considerata la migliore per quei tempi. Collezione Alberto Giorgi. Fotografia di Luciano Liuzzi, 2015. Locandina pubblicitaria di fisarmonica Galanti modello Piuma, anno 1939 circa, disegno G. Raverta. Collezione Alberto Giorgi.
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Imprese Storiche Catalogo del rivenditore inglese Samuels Music Stores, anno 1936. Le fisarmoniche Galanti sono reclamizzate come le più popolari negli Stati Uniti d’America: i musicisti americani privilegiano questo modello per la sua costante ed estrema affidabilità. La perfezione del suo suono non ha eguali fra le fisarmoniche della medesima gamma. Collezione Alberto Giorgi.
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Il successo americano Nel frattempo in America continua incessantemente la commercializzazione e la promozione degli strumenti, portata avanti anche da Egidio, che si alterna al fratello Robusto nella gestione del punto vendita di New York. Egidio punta in particolare sulla propaganda presso le numerose scuole di fisarmonica, sorte sull’onda delle mode musicali del momento. E così ai diversi musicisti della scuola del professor Leo Piersanti di Chicago, che utilizzano le
Galanti già alla fine degli anni Venti, si affiancano intere scuole di musica newyorkesi che impiegano esclusivamente prodotti made in Mondaino. Egidio, il più giovane dei tre fratelli fondatori della fabbrica, aveva sposato la mondainese Maria Pia Berti e dalla loro unione erano nati: Pierino, nel 1928 a New York, che si fermerà negli States per continuare il lavoro iniziato dal padre, Marcello nel 1932, che parteciperà alla gestione della fabbrica di produzione e, infine, Matteo nel 1933, laureatosi in Ingegneria in America, prima di rientrare definitivamente in Italia. Attorno alla metà degli anni Trenta, le fisarmoniche Galanti sono tra le più richieste negli Stati Uniti e vengono reclamizzate tramite inserzioni sui principali quotidiani e riviste del settore, spesso coinvolgendo anche personaggi di fama internazionale, come Paulette Goddard, famosa attrice cinematografica e moglie di Charlie Chaplin. Memorabile la sua interpretazione della fanciulla orfana che accompagna il vagabondo Charlot, in Tempi moderni o della ragazza ebrea perseguitata ne Il grande dittatore. In seguito a questa collaborazione di lavoro, si svilupperà una buona amicizia tra l’attrice e Robusto, che proseguirà nel tempo33. È probabilmente in seguito alla realizzazione del modello Dominator, però, che prende forma un progetto che i Galanti cullavano già da tempo: creare una vera e propria Scuola di musica per fisarmonica a New York, per adulti e ragazzi, con il nome: Conservatorio Galanti. La sede della scuola è fissata al 783 di Broadway, dove da poco i Galanti avevano opportunamente trasferito il punto vendita, proprio di fronte al Wanamaker, un departement store di lusso molto frequentato e rinomato. Come direttore del conservatorio è scelto l’italo-americano Anthony Galla-Rini, compositore e solista in molte musiche
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da film, che, nel 1931, pubblica un nuovo metodo per l’apprendimento della fisarmonica, poi applicato in numerose scuole34. Oggi viene unanimemente considerato uno dei più grandi fisarmonicisti di tutti i tempi, anche a detta di vari esperti del settore tra i quali il concertista Gervasio Marcosignori35. La scuola è inaugurata nell’autunno del 1938 e subito promossa con un’energica campagna pubblicitaria sulle pagine dedicate alle Pictorial Highlights del New York Post. L’idea è di pubblicizzare la scuola di musica invitando famosi personaggi dello spettacolo al conservatorio, per fargli suonare o per insegnargli a suonare la Dominator, sotto l’egida del professor Galla-Rini. Così, in poco tempo, vengono coinvolti in questa sorta di gioco-studio sulla fisarmonica: il musicista e intrattenitore Ted Lewis, il sassofonista e direttore d’orchesta Gray Gordon, il jazzista e compositore Hal Kemp, il direttore d’orchestra e arrangiatore Russ Morgan e il pianista e intrattenitore radiofonico Vincent Lopez36. Purtroppo, però, dopo poco il progetto del conservatorio, e tutti i buoni propositi dei Galanti, si interromperanno bruscamente. In seguito alla dichiarazione di guerra, pronunciata il 10 giugno del 1940, con cui l’Italia si schiera a fianco della Germania contro Francia e Inghilterra e, successivamente, nel dicembre del 1941, contro gli Stati Uniti d’America, sono bloccati i due principali mercati di esportazione degli strumenti musicali. I Galanti, memori di quanto successo solo qualche anno prima con l’occupazione dell’Etiopia da parte del regime fascista, avevano opportunamente deciso di allargare la politica commerciale della ditta ad altri paesi tra cui il Canada, l’Australia, il Sud Africa e la Svizzera, creando anche una rete di rappresentanti nelle principali città italiane, tra cui Bologna, Firenze, Genova, Milano, Napoli e Roma, come riportato dall’Annuario delle industrie,
pubblicato nel 1940, dalla confederazione nazionale fascista37. Di quel periodo ci è giunto un dettagliato documento, allegato alla polizza assicurativa stilata per danni da incendio, che descrive nei minimi particolari lo stabilimento, permettendoci di ricostruire la distribuzione dei vari reparti e conoscere i macchinari utilizzati per le varie lavorazioni: «il fabbricato costruito in cemento armato e mattoni […] è adibito a fabbrica di armoniche e precisamente il piano terra a sale di lavorazione e officina meccanica, nonché ufficio di amministrazione, ed il piano superiore adibito pure alla lavorazione, oltre a servire come deposito di materie prime, deposito di armoniche ultimate e cabina di
Il fisarmonicista italo-americano Antony Galla-Rini con il modello Dominator, anno 1940. Compositore, ideatore di un nuovo metodo per l’apprendimento della fisarmonica e solista in numerose musiche da film, Galla-Rini ha diretto la scuola di musica creata dai Galanti a New York dalla fine del 1938 al 1940. Collezione Alberto Giorgi.
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accordatura. In detto stabilimento si fa uso di celluloide per la guarnizione in quantità superiore al 25% della materia prima lavorata […]. Le materie prime adoperate nell’industria quali legname, cuoio, pellami, metalli, viti, voci, tela cerata, carta, acetone, celluloide in fogli per guarnizione delle armoniche, sono poste al piano superiore dello stabilimento ad eccezione di parte del legname e di tutti i liquidi quali vernici, acetone ed altri affini […] che trovasi al primo piano e quant’altro è inerente alla fabbricazione delle armoniche, nonché casse e trucioli da imballaggio». Si passa quindi a un elenco dettagliato dei macchinari utilizzati nel reparto falegnameria e nelle sale di lavorazione a mano e meccanica, poste al piano terra. «Al piano terra trovansi pure una macchina per saldatura autogena, una macchina per spruzzare, un gasogeno per saldare. L’impianto completo per nichelatura e crematura a legno elettrolitico è posto in un locale nell’angolo nord dello stabilimento, al piano terreno, chiuso da un uscio in legno che mette in comunicazione detto locale con gli altri. Le armoniche confezionate sono poste al piano superiore, riposte in apposite vetrine della sala di esposizione pronte per la vendita, nonché armoniche in lavorazione al piano terra e nella cabina di accordo e collaudo, poste al piano superiore. Nei locali adibiti ad ufficio di amministrazione trovansi mobili d’ufficio, due macchine per scrivere, una calcolatrice e una pressa»38. Nonostante la guerra che imperversa, e le difficili condizioni in cui si è costretti ad operare, continua lo sviluppo e il continuo perfezionamento degli strumenti. Lo dimostra un catalogo di inizi anni Quaranta, in cui viene lanciata una nuova linea di fisarmoniche, con innovative soluzioni estetiche che saranno poi alla base dello sviluppo stilistico di quelle prodotte nel Dopoguerra. Nell’opuscolo, realizzato per la promozione sul mercato nazionale, si 144
percepisce perfettamente il clima che si respira in quegli anni e anche la premessa che introduce la descrizione dei singoli modelli prodotti, ricorda la terminologia utilizzata nei classici spot di regime: «Ricordate che la fisarmonica che state per comperarvi deve durare tutta la vita: un’economia di poche lire può farvi pentire dell’acquisto. Le fisarmoniche sono tutte esteticamente belle, ma quello che maggiormente conta è il materiale col quale sono fabbricate e la perfezione della costruzione. Basta considerare che una serie di voci (linguette) può costare da 100 a 2000 lire, e che adoperare un legno non perfettamente stagionato vuol dire far incantare i tasti e scordare lo strumento ad ogni variazione di temperatura. Vi consigliamo quindi di acquistare una fisarmonica Galanti la marca di fama mondiale ed in vendita presso tutti i principali negozi musicali e radio del Regno». Ma di lì a poco, in seguito all’occupazione tedesca e alla realizzazione della linea Gotica, voluta dal feldmaresciallo Albert Kesserling per cercare di rallentare l’avanzata dell’esercito alleato, la fabbrica è costretta a frenare la produzione, tanto che nel maggio del 1944 gli operai ancora occupati si contano ormai sulle dita di una mano. Sono giorni frenetici per i Galanti, che assieme ai dipendenti più fidati si preoccupano di mettere al sicuro il maggior numero di fisarmoniche, materie prime e macchinari dal saccheggio delle truppe tedesche che stavano requisendo tutto quanto potesse tornare utile al proseguimento della guerra. Le fisarmoniche sono suddivise in gruppi di piccole quantità e assieme ai macchinari nascoste in vari casolari, fienili e pagliai delle campagne mondainesi e dei comuni limitrofi. Poco dopo, il 16 giugno del 194439, lo stabilimento viene requisito dalle forze tedesche che lo utilizzeranno come base per la fabbricazione di cassette per mine esplosive antiu-
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omo e anticarro40. Il passaggio del fronte di guerra e lo sfondamento della linea Gotica da parte delle truppe alleate nella vicina Montegridolfo, tra il 31 agosto e il 1 settembre, arreca notevoli danni all’attività, come testimoniato da una richiesta di finanziamento, per danni di guerra, inoltrata al Ministero dell’Industria e del Commercio, in cui i Galanti affermano che: «col sopravvenire della guerra l’industria subì danni ingentissimi, regolarmente denunciati in oltre 15 milioni di lire, e che consistettero nell’esportazione di numerose macchine, di materiali grezzi e semilavorati, nella distruzione totale degli impianti e nella menomazione, con parziali crolli dovuti ai bombardamenti aerei e terrestri, del fabbricato adibito a Stabilimento»41. Il difficile Dopoguerra e il boom delle vendite
Dal settembre del 1945 inizia l’opera di ricostruzione e riorganizzazione della ditta, che riaprirà nel gennaio del 1946. Inizialmente si procede alla vendita delle fisarmoniche salvate dal passaggio del fronte42 e poi si ricomincia lentamente la produzione prima con un nucleo di 15 operai, poi saliti a 25 e infine a 50 unità già nel marzo del 1946. Ma le difficoltà cui si deve sopperire sono tante. Praticamente manca di tutto, dai materiali edili, come il cemento, ai vetri per le finestre, alle cinghie di trasmissione per i macchinari. Le carenze più importanti sono quelle energetiche e di materie prime, in particolare dell’acciaio per la realizzazione delle voci. La fabbricazione delle fisarmoniche non può ripartire con regolarità perché allo stabilimento non arriva corrente elettrica, costringendo la ditta alla ripetuta richiesta alla Camera di Commercio di grosse quantità di benzina e olio per attivare i generatori azionati da due motori a scoppio.
La situazione si fa drammatica nell’estate del 1946: il 3 settembre, di fronte all’ormai prossima sospensione dell’attività produttiva, gli operai scendono in massa a Riccione per protestare contro la Società Elettrica, rea di non essersi adoperata nella risoluzione del problema43. Le difficoltà legate alla fornitura di energia elettrica si risolveranno solo qualche mese dopo, agli inizi del 1947, così da permettere allo stabilimento di tornare alla capacità produttiva prebellica, con 120 operai occupati e una fabbricazione di 110 fisarmoniche al mese. Come già detto, nel Dopoguerra l’altro grosso problema da risolvere è legato alla disponibilità di acciaio svedese per la produzione delle voci. Vista la difficile reperibilità sul mercato, i Galanti chiedono appoggio e consiglio alle altre ditte del settore. Così, mentre Domenico scrive alla Farfisa di Ancona per chiedere di acquistare una parte dell’acciaio che la ditta era riuscita a importare dalla Svezia, in America Robusto sente Egisto Pancotti della Excelsior per avere informazioni su altre ditte rivenditrici del metallo, riuscendo ad arrivare ai nominativi delle ditte svedesi Hagfors e Sandviken Steel Co.Limited44. Di quegli anni, è necessario ricordare alcuni importanti cambiamenti a livello societario. In seguito alla prematura morte di Egidio, nel luglio del 1945, subentra in ditta la moglie Maria Pia Berti, come tutrice dei tre figli minori e, l’anno successivo, recede dalla società anche Robusto, che resta titolare della ditta commerciale americana. Lasciate ormai alle spalle le difficoltà incontrate nel periodo postbellico e sull’onda del successo mondiale della fisarmonica, si riscontra una forte crescita della domanda di strumenti musicali. Già nel 1949, la manodopera occupata arriva al numero di 170 unità e, oltre al mercato americano, servito dalla R. Galanti & Bros.Inc, si punta decisamente anche su quello europeo e nazionale. In Italia viene intensificata la rete 145
Imprese Storiche
Anno 1926.
Anno 1928 - modello n. 1
Anni 1927-1930 - modello n. 11 cromatica
Anni 1927-1932 - modello De Luxe.
Anno 1929 - modello personalizzato
Anno 1934 - modello Aristocrat
Anno 1933-1935 - modello Diana.
Anno 1934 - modello Special
Anni 1933-1935 - modello Norma
Anni 1936-1938
Anni 1936-1938
Anni 1936-1938
Anni 1938-1939 - modello Gioconda
Anni 1938-1939 - modello Soliste
Anni 1938-1940 - modello personalizzato
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Anni 1939-1941 - modello Everest J.D.
Anni 1939-1941 - modello Everest
Anni 1939-1941 - modello Galletto
Anni 1942-1944 - modello Delizia I
Anni 1946-1953 - modello Delizia
Anni 1946-1949 - modello Super Dominator
Anni 1954-1958 - modello Roma I
Anni 1950-1953 - modello personalizzato
Anni 1954-1967 - modello Rondine
Anni 1958-1962 - modello Super Classic
Anni 1955-1960
Anni 1960-1965 - modello piano bassotuba
Anni 1960-1967 - modello Super Classic
Anni 1958-1962
Anni 1965-1967 - modello Duovox
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Imprese Storiche
Nelle due pagine precedenti fisarmoniche della collezione di Alberto Giorgi. Fotografie di Luciano Liuzzi, 2015.
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commerciale di agenti e rivenditori, fino a coprire l’intera penisola. Tra i principali si possono ricordare: La Casa Musicale A. De Santis a Roma, La Casa Musicale R. Maurri a Firenze, Borsari & Sarti e Pizzi Umberto a Bologna, Pietro Biso a La Spezia, Quaglia Giuseppe Antica Fabbrica di Strumenti a Napoli, Radio Morgese a Bari, Ragona Paolo Casa Musicale a Palermo, l’agente Quagliardi Orlando e figli di Castelfidardo45. Spesso i rivenditori, oltre che commercianti, sono anche valenti musicisti, come nel caso dell’italo-americano Michele Corino e dei maestri Umberto Grossato di Venezia e Pasquale Carlo Stajano di Milano. Proprio su iniziativa di quest’ultimo nasce, nel 1949, l’Orchestrarmonica Galanti, un’orchestra composta esclusivamente di fisarmoniche che si esibisce in numerosi concerti in vari teatri italiani. L’idea è di contrapporsi all’orchestra costituita, sul modello di quelle americane46, dalla ditta Frontalini di Numana, che stava riscuotendo un notevole successo. Differentemente dalla Frontalini, che utilizza fisarmoniche speciali create appositamente per gli strumentisti, però, quelle dirette dal maestro Stajano rientrano nella produzione di serie della Galanti. Nel maggio del 1950, l’orchestra partirà per una tournée europea in Svezia e Germania, riscuotendo un buon successo e portando il marchio Galanti verso nuovi e appetibili mercati47. Con la prospettiva di espandere le vendite anche sui mercati nordeuropei, i Galanti ampliano la gamma dei modelli in produzione, realizzando anche fisarmoniche cromatiche particolarmente richieste nei Paesi Bassi e in Scandinavia. Le fisarmoniche cromatiche adottano il sistema unitonico, come quelle a pianoforte, ma la differenza sostanziale è rappresentata dalle note che sono azionate da bottoni, fissati su dei piccoli coni in legno, collegati alle valvole dei fori corrispondenti alle ance.
Così, nell’arco di tempo compreso tra il 1947 e il 1956, la rete commerciale estera si accresce notevolmente, fino ad arrivare a coprire numerosi paesi europei e anche in Sudamerica Africa e Australia (vedi tabella n.3 in appendice). Della produzione di quel periodo, possediamo solo i dati riferiti alle fisarmoniche esportate negli anni 1953 e 1954 e quantificabili rispettivamente in 4025 e 3854 unità (ricavati dalle richieste inoltrate all’Intendenza di Finanza ai fini del rimborso dell’IGE – Imposta Generale sull’Entrata), mentre mancano informazioni relative alle vendite sul mercato nazionale e sul fatturato48. È necessario sottolineare che attorno al successo della Galanti non si crea un vero e proprio comparto industriale – come invece succede in altre realtà del settore come a Castelfidardo e Stradella –, ma si sviluppano comunque piccole attività, che effettuano lavorazioni conto terzi per la ditta e che in alcuni casi arrivano a fabbricare direttamente fisarmoniche con marchio proprio. È il caso della Bartolucci Ernesto di Belvedere Fogliense di Tavullia, che, assieme ai fratelli Leopoldo, Silvio e Matteo, e a una diecina di operai, dalla fine degli anni Trenta fino alla metà gli anni Cinquanta, produce fisarmoniche a piano, vendute prevalentemente sul mercato interno, e in alcuni casi smerciate anche in America, tramite la R. Galanti & Bros.Inc.49 e dell’ALAS (Azienda Lavorazione Armoniche Saludecese) che insieme all’Industria Armoniche Saludecese, negli anni Cinquanta, realizza fisarmoniche sotto il marchio L.A.R.A.50. Sempre nel Dopoguerra, a Pesaro, la ditta di Aldo Nicolini (già caporeparto falegnameria nella fabbrica Galanti), dal 1948 prima produce fisarmoniche a suo nome, e poi sotto il marchio dell’americana Atlas Accordion Inc. Successivamente l’azienda Nicolini, a partire dal 1952, convertirà radicalmente la sua attività in quella di produzione di
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mobili laccati per cucina e poi in cucine componibili, segnalandosi come una delle ditte pioniere nello sviluppo del settore mobiliero pesarese 51. Discorso a parte è necessario fare per l’italo-americano di origini mondainesi Aldo Mencaccini che, dopo aver appreso il mestiere presso la Fabbrica Galanti, nel 1937 si trasferisce a New York. Di lì a poco trova impiego presso la Excelsior dei fratelli Pancotti, distinguendosi per le sue eccelse qualità di accordatore, che lo porteranno a diventare il preferito di molti grandi musicisti come Pietro Deiro, Pietro Frosini, Charles Magnante e Anthony Galla-Rini. Il proseguo della sua carriera lo condurrà fino alla fondazione e alla presidenza dell’americana Bell Accordion Company52. Tra il 1946-47 e la fine degli anni Cinquanta, il modello di punta della produzione è il Super Dominator: evoluzione tecnica e stilistica di quello prodotto prima della guerra53. Lo strumento è uno dei migliori sul mercato ed è apprezzato in particolare dai suonatori professionisti. Talmente numerose sono le richieste di acquisto che, scorrendo i testi di svariati ordinativi ricevuti dai rivenditori del tempo, spesso si riscontrano ritardi e proroghe nelle consegne dello strumento. Ma è nel 1952 che i tecnici della Galanti arrivano a un’importante innovazione sul funzionamento della meccanica dei bassi, semplificando radicalmente l’utilizzo dei cosiddetti bassi sciolti, così da renderli facilmente applicabili alla produzione di serie54. La valenza di tale invenzione appare evidente nella descrizione della fisarmonica, battezzata con il nome di Super Classico Galanti, comparsa in un articolo della rivista milanese Musica e Dischi: «trattasi di uno strumento di normale volume, 41 tasti, 120 bassi, 15 registri alla tastiera e 5 ai bassi. Attraverso l’azionamento di un determinato registro, tre file di bassi, cioè 60 note, si disinnestano dall’usuale sistema delle armonie meccanicamente
precomposte ed acquistano la loro indipendenza come nel sistema cromatico a note sciolte. L’importanza di questo geniale meccanismo, brevettato in Italia e negli U.S.A., è di una evidenza chiara e precisa. L’avere a disposizione in ogni momento voluto 60 note sciolte sulla scacchiera dei bassi, significa, per il suonatore, poter interpretare sui testi integrali di musica, qualsiasi pezzo od opera classica, comporre cioè le armonie precise delle note sulla bottoniera, cosa impossibile nelle attuali correnti fisarmoniche che hanno le armonie già composte e meccanicamente obbligate. Quando si pensa che appunto per il fatto di avere le armonie precomposte, la fisarmonica è esclusa, come strumento musicale, dall’insegnamento nei Conservatori di musica italiani, si ha anche maggiormente l’elevata misura dell’importante innovazione raggiunta […]»55.
Catalogo fisarmoniche Galanti, anno 19471948, con descrizione del nuovo modello Super Dominator: la fisarmonica che ha sorpreso il mondo della musica. Completamente nuova! Senza dubbio la Fisarmonica Perfetta. Uno strumento musicale estremamente sensibile con prestazioni superiori a qualsiasi altra fisarmonica della stessa gamma e con un design innovativo che le conferisce maggiore leggerezza. Collezione Alberto Giorgi.
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cromatiche utilizza il loro stesso disegno del traforo e della borchia dei registri57. È comunque un periodo di grande boom delle vendite e le fisarmoniche continuano a essere reclamizzate tramite importanti fisarmonicisti. Così, mentre in America si contattano l’artista radio-televisivo Alfred Mayer e il jazzista Mat Mathews58, in Europa il testimonial principale è il gruppo olandese de The Three Jacksons. La crisi e la diversificazione della produzione
Presentazione dell’innovazione meccanica sul funzionamento dei bassi sciolti al Conservatorio Rossini di Pesaro, anno 1954. Da sinistra si riconoscono: Domenico Galanti, Angelo Galanti, il direttore Lino Liviabella e il fisarmonicista Mario Montanari. Collezione Maurizio Galanti.
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In seguito Domenico e Angelo Galanti presenteranno le potenzialità espressive del Super Classico Galanti a Lino Liviabella, direttore del Conservatorio Rossini di Pesaro, aprendo le porte al futuro insegnamento dello strumento nei licei musicali. Nonostante le migliorie apportate, dalla corrispondenza tra la ditta e i vari agenti e negozianti emergono anche complicanze e piccoli difetti legati agli strumenti. Partendo dal presupposto che è sempre riconosciuta la superiorità del prodotto rispetto alle fisarmoniche delle ditte concorrenti, è spesso lamentato che i prezzi non sono concorrenziali, in modo particolare se raffrontati con gli strumenti dell’indotto anconetano. Arrivano poi anche precise richieste di modifiche e miglioramenti come quella dell’agente Quagliardi, che chiede voci di sonorità più brillante per il difficile mercato belga, sul tipo di quelle utilizzata dalle ditte Crosio e Cooperativa l’Armonica di Stradella56, mentre dagli States Robusto spesso suggerisce di ridurre l’eccessiva rumorosità delle tastiere. Nel marzo del 1952, i Galanti devono anche contrastare un tentativo di plagio da parte della ditta F.lli Ballone Burini di Castefidardo, che su alcune fisarmoniche
Ma ormai la grande crisi del settore è alle porte. I Galanti avevano dovuto affrontarne una rilevante già alla fine del 1951, dovuta ad avventate scelte commerciali e alla forte concorrenza delle ditte di Castelfidardo, che riuscivano a vendere i loro prodotti a prezzi più bassi59. In quell’occasione, i Galanti, si erano visti costretti a licenziare 46 operai, effettuando una riorganizzazione generale della ditta tramite lo sdoppiamento delle figure professionali, un intervento che aveva avuto echi anche a livello nazionale60 e aveva comportato grandi cambiamenti a livello sociale. Alcuni operai erano stati costretti a spostarsi in Svizzera, o nel comparto anconetano61, altri a intraprendere la strada dell’attività in proprio. Anche Gastone Galanti, figlio di Roberto, emigra a Londra come tecnico riparatore presso la ditta Bell Accordions Ltd., decisione poi seguita dal fratello Frank e, qualche anno dopo, dai cugini Antonio, Benito e Arnaldo. Con il medesimo incarico, nel 1958, parte alla volta della Danimaca, Vittorio Amadei, nipote di Domenico, dove seguirà anche il reparto vendite dell’Esbjerg Harmonika Service. Ma è in seguito, tra il 1957 e il 1958, che la crisi colpisce fortemente l’intero settore a causa dei cambiamenti dei gusti musicali immediatamente successivi all’esplosione del rock and roll, genere della popular
suoni galanti
Fabbrica Galanti, reparto casse, anni 1950-1951, da sinistra si riconoscono: Valter Filippetti, Edmondo Saioni, Amato Mosconi, Francesco Tenti e Corrado Polidori. Fotografia di Mauro Arceci di Urbino. Collezione Francesco Tenti.
music nato negli Stati Uniti nei primi anni Cinquanta e basato prevalentemente su sonorità legate all’utilizzo della chitarra elettrica. Da quel momento in poi i nuovi miti giovanili s’identificano in Elvis Presley,
Little Richard e Jerry Lee Lewis e successivamente nelle giovani bands della British Invasion (letteralmente invasione britannica), con i gruppi rock, beat e pop dei Beatles, dei Rolling Stones e dei Kinks62.
Fabbrica Galanti, reparto mantici, anni 1950-1951, da sinistra si riconoscono: Elvina Biagiotti, Rossana Mazzini, Maria Polidori ed Agnese Sanchini. Fotografia di Mauro Arceci di Urbino. Collezione Rossana Mazzini.
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Imprese Storiche
Il gruppo olandese The Three Jacksons, anno 1955 circa, custodia LP 33 giri. Collezione Alberto Giorgi.
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I propositi sono buoni, ma le difficoltà restano. Si continua a fabbricare nuovi modelli di fisarmoniche, sostituendo il Super Dominator con il Super Classic, dotato di un doppio cassotto e si migliora la produzione di cromatiche per i Paesi Nordeuropei. Un ulteriore tentativo di riconvertire la produzione, avviene nel 1962, quando, la Fratelli Galanti cerca di adeguarsi alle nuove richieste della clientela e inizia a realizzare chitarre elettriche. Su disegno di Francesco Maioli, in circa cinque anni verranno fabbricati circa 11.000 esemplari di solid body, bassi e semiacustiche, commercializzate con i modelli Grand Prix, Jetstar e Special63. Sono prodotti di ottima qualità e arrivano commissioni anche dall’americana Goya, per il suo modello Panther. Dopo poco, però, un altro dramma segnerà fortemente il proseguo della produzione degli strumenti musicali. Nell’ottobre del 1963 viene a mancare Angelo Galanti, In seguito a questo radicale cambiamen- che scompare prematuramente a soli 44 to socio-culturale, la vendita mondiale anni, in seguito ad una malattia polmodelle fisarmoniche subisce un fortissimo nare contratta durante un periodo di pricalo e, nel giro di pochi anni, le esporta- gionia in Africa, mentre, come pilota di zioni sono quasi dimezzate. Per cercare aerei, prendeva parte all’ultimo conflitto di superare il difficile periodo, i Galan- mondiale. Come direttore generale dello ti provano a diversificare la produzione stabilimento si era distinto per le sue quaprogettando soluzioni alternative, un po’ lità manageriali e umane, tanto da essere come stavano facendo anche altre fab- stimato e apprezzato da tutti i dipendenti. briche del settore. Così, attorno al 1958, Da quel momento si perde la figura di rinascono due nuovi strumenti azionati da ferimento dell’azienda dalla quale erano correnti d’aria mosse da ventole elettri- già usciti, nel settembre 1959, Marcello e che: il Mello Chord, una piccola pianola Matteo che, con il fratello Piero, avevano con ance simili a quelle delle fisarmoni- dato vita alla Galanti Egidio srl. La nuova che e il Vibraphonette, un vibrafono por- società dei figli di Egidio si dedica esclusitatile completo di gambe, in cui una serie vamente allo sviluppo degli strumenti eletdi tubi metallici funzionano come casse tronici e arriva in poco tempo alla realizdi risonanza per le lamine metalliche ge- zazione del Polisonic, primo organo elettronico italiano con generatori di suono a neratrici del suono. Quest’ultimo strumento nasce da un’in- lampade al neon (sistema con 11 valvole)64 tuizione di Angelo Galanti, che da poco e poi al lancio di quelli a transistor sotto il aveva sostituito il padre Domenico alla di- marchio GEM65, che la porterà al successo rezione della fabbrica, in seguito alla sua internazionale con il piccolo Mini Gem, capostipite degli organi portatili amplificati. scomparsa nel maggio del 1957.
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A sinistra, catalogo fisarmoniche Galanti, anno 1960 circa, con descrizione del modello Super Classic dotata di doppio cassotto. Collezione Alberto Giorgi.
Chitarre elettriche Galanti modello Grand Prix, anno 1965, pagina pubblicitaria rivista The Music Trades. Collezione Alberto Giorgi.
In quegli anni anche la Fratelli Galanti tenta la strada dell’elettronica, progettando alcuni prototipi di organi che sono presentati alla fiera di Milano, e lancia la fisarmonica elettronica Duovox, così denominata per la sua doppia voce, in grado di generare sia suoni acustici tradizionali sia quelli prodotti elettronicamente. Ma ormai il destino della ditta sembra segnato e questa sarà l’ultima fisarmonica della Premiata Fabbrica di Fisarmoniche Fratelli Galanti. Il Duovox sarà successivamente realizzato dalla ditta Paolo Brandoni di Castelfidardo e commercializzato dalla Galanti Egidio srl e dall’inglese Bell Accordion Ltd fino ai primi anni Settanta. Con il passaggio delle maestranze alle dipendenze della GEM, la Fratelli Galanti cessa definitivamente l’attività nel marzo del 1968, ufficialmente “per mancanza di lavoro e mezzi finanziari”66. I tanti anni dedicati alla produzione, ricerca e sviluppo delle fisarmoniche non andranno tuttavia persi, e grazie alle indubbie professionalità e alle tante esperienze
acquisite, la chiusura della Fratelli Galanti porterà alla crescita di un nuovo settore industriale, quello degli strumenti musicali elettronici. Già negli anni Sessanta, grazie ai suoi innovativi organi elettronici e alla fitta rete commerciale, lasciata in eredità dalla Fratelli Galanti, la GEM riesce a emergere a livello internazionale e punta su un programma di sviluppo legato alla diversificazione della produzione. Il progetto però non trova di comune d’accordo i tre fratelli fondatori che, nel 1969, decidono di prendere strade diverse. Mentre Piero Galanti si trasferisce negli Stati Uniti per curare il reparto commerciale, Marcello e Matteo restano a Mondaino per dedicarsi alla produzione di strumenti elettronici. Matteo Galanti rimane titolare della GEM e punta anche sulla produzione di sistemi audio di amplificazione e diffusione acustica con la nascita del nuovo marchio LEM, per poi arrivare all’acquisizione dei marchi Ahlborn (organi classici) e Schulze Pollman (pianoforti acustici)67. Marcello 153
Imprese Storiche
Galanti fonda la Viscount International e si specializza nella realizzazione di organi classici elettronici e liturgici, oggi presenti in numerose chiese in Italia e nel mondo. Attualmente la Viscount è presente sul mercato anche con impianti audio e pianoforti elettronici digitali, come l’innovativo Physis Piano, che basa le sue potenzialità tecnologiche sulla creazione di algoritmi matematici capaci di simulare con assoluta fedeltà le dinamiche del fenomeno fisico-acustico che genera il suono68. È passato oltre un secolo dalla geniale intuizione che ha portato alla nascita della prima fisarmonica Galanti, a opera del capostipite Antonio, e se i benevoli effetti di quella primordiale scintilla continuano ancora oggi, lo si deve all’entusiasmo e all’impegno profuso, dai fratelli Galanti e dalle loro maestranze, nella crescita e nell’affermazione della loro azienda. Una fabbrica che nei suoi quasi cinquant’anni di vita ha contribuito a scrivere un pagina importante di storia della fisarmonica e le «eterne melodie» dei suoi pregevoli strumenti, ancora oggi, echeggiano gioiose nei cieli azzurri di tantissimi paesi del mondo. Note 1 I dati sono stati forniti dall’Ufficio Anagrafe del comune di Urbino, che ringrazio nella persona di Carla Ferri. Purtroppo la consultazione dell’archivio dell’Ufficio Servizi Demografici del comune di Osimo non ha permesso di recuperare informazioni precise sui genitori di Antonio Galanti e sulla professione del padre naturale. Su Francesco Gramaccioni sappiamo che esercitava il mestiere di agricoltore. 2 Forse il luogo è da identificare con l’osteria Bernardi, aperta nel 1875 lungo la strada di fondovalle del fiume Foglia, proprio alla confluenza con il rio Salso, cfr. C.Ortolani (a cura di), Un paese e cento storie. Cronache e ricordi tra Montelevecchie e Belvedere Fogliense, Sant’Angelo in Vado 2007, p. 86. 3 La bottega dei Rossi produceva mobilio da arredo, carri da trasporto e botti ed era specializzata nella
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produzione di vernici con erbe e vegetali. I Rossi erano molto gelosi dei loro segreti e restii a divulgare le loro conoscenze tanto da non aver tramandato le formule, delle loro ricette, nemmeno agli eredi (testimonianze di Benito Galanti del 21 dicembre 2014 e di Paola Masini del 9 maggio 2015). 4 Domenico nasce il 4 giugno 1882, Evangelina detta Lina il 28 luglio 1883, Rinaldo l’8 maggio 1885, Clotilde il 23 agosto 1886, Adolfo il 3 luglio 1888, Roberto il 14 dicembre 1890, Robusto il 18 settembre 1892, Giuseppe il 28 novembre 1893 ed Egidio l’11 novembre 1897. I dati provengono dall’Archivio dell’Ufficio Anagrafe del comune di Mondaino, che ringrazio nella persona di Silvia Maggiolini. 5 Testimonianza di Benito Galanti, 21 dicembre 2014. La bottega di falegnameria è poi appartenuta ai Nicolini, altra famiglia mondainese dedita alla lavorazione del legno. L’attività dei Nicolini inizia nei primi anni del Novecento con Augusto, cui successivamente si affianca il figlio Aldo. Non conosciamo di chi fosse la proprietà di quei locali al momento della realizzazione della giostra, ma non è da escludere che potessero appartenere allo stesso Antonio. 6 M. Masini, Mondaino tra due guerre 1918-1945, Rimini 1999, p. 135. 7 Biblioteca Comunale A. Saffi di Forlì, Raccolte Piancastelli, sezione Carte di Romagna, sotto Mondaino: Mondaino. Mostra d’arte e artigianato, Un paese che vive e dorme nella musica arcana, n.1 ritaglio di giornale, 1932, B. 700/139. Le importanti informazioni che ritroviamo nell’articolo provengono da un’intervista fatta ad Alieto Galanti, nipote di Antonio. L’articolo mi è stato cortesemente segnalato da Giovanni Rimondini, che ringrazio. 8 B. Bugiolacchi, Cronologia della produzione della fisarmonica in Italia, 2010: http://www.accordions.com/articles/ chrolonogy.aspx; M. Mariani, Del tempo nuovo. Generalmusic - profilo di un’azienda, Sant’Angelo in Lizzola, 1994, p. 5; http:// www.viscountinstruments.it/la-storia/ 9 Le informazioni sono riportate su un manoscritto autobiografico di Angelo Casadei dal titolo Racconti di una vita vissuta e scritta da un operaio metalmeccanico, p. 26. 10 Pietro Rinaldelli era nato a Potenza Picena il 18 giugno 1871 e si era trasferito a Mondaino in seguito al matrimonio con Giuseppina Scattolari figlia di Davide, sindaco di Mondaino di fine Ottocento. Per quasi quarant’anni direttore del Corpo Bandistico di Mondaino è autore di vari compo-
suoni galanti
sizioni originali per banda, alcune delle quali ancor’oggi suonate dal corpo musicale mondainese. Muore a Mondaino il 23 giugno 1957. 11 A. Chiaretti, Mondaino paese della musica!, in “L’Ape del Conca” periodico di informazione della Valle del Conca, n.1, marzo 2015, p. 30; G. Chiocci, L’avventura di Mascagni a Pesaro, 2007: http://www.lionspesarohost.it/pdf/avventuradimascagniapesaro.pdf 12 La ricerca della documentazione relativa alla registrazione di Domenico e degli altri fratelli presso Ellis Island è stata effettuata da Maurizio Galanti, che ringrazio. 13 North Tonawanda NY Evening News, Thursday, April 7, 1949: http://www.fultonhistory.com 14 La foto proviene dalla casa di Domenico Galanti in via Roma 3 e mi stata gentilmente donata da Gabriella “Lella” Bernardi. 15 R. Flynn, E. Davison, E. Chavez, The golden age of the accordion, Schertz Texas 1990, pp. 304307; http://www.villasantostefano.com/villass/ marco_felici/augusto_iorio/index.htm 16 Biblioteca Comunale A. Saffi di Forlì, Raccolte Piancastelli, sezione Carte di Romagna, sotto Mondaino: Mondaino. Mostra d’arte e artigianato, Un paese che vive e dorme nella musica arcana, cit. 17 The Billboard, October 29, 1921, p.60: http:// www.fultonhistory.com. Gentilmente segnalatomi da Daniela Massaro. 18 Archivio Camera di Commercio di Forlì-Cesena, Registro Imprese, fasc. Galanti Fratelli, n.12140. 19 M. Moroni, Emigrazione, identità etnica e consumi: gli italiani d’America e la fisarmonica, in Storia e problemi contemporanei, quadrimestrale dell’Istituto Storia delle Marche, n. 34, 2003, pp. 50-51 20 The Music Trade Review, August 8, 1925, p. 34; http://mtr.arcade-museum.com 21 Syracuse NY Journal, April 6, 1930, p. 36; http:// www.fultonhistory.com 22 Il Popolo di Romagna, settimanale della Federazione Provinciale Fascista Forlivese, 30 dicembre 1929, p. 4. 23 Testimonianza di Maria Grazia Galanti, figlia di Valentino, raccolta il 12 aprile 2007. L’ingegner Valentino Galanti, figlio di Evangelina alias Lina, era nato a Firenze il 4 novembre 1904 e, al momen-
to della nascita, gli venne conferito il cognome della madre, poiché non riconosciuto dal padre naturale. Riguardo a Lina sappiamo che aveva lasciato giovanissima Mondaino, per trovare lavoro presso nobili famiglie prima a Firenze e poi a Genova e risulta, tra l’altro, essere stata anche dama di compagnia di Eleonora Duse. È proprio su proposta di Lina, che alla primogenita di Domenico verrà assegnato il nome di battesimo di Eleonora, in onore appunto dell’attrice. Valentino parteciperà allo sviluppo degli strumenti musicali apportando innovazioni e migliorie tecniche testimoniate dal deposito di alcuni brevetti industriali. Come ingegnere ha diretto la UITE (Unione Italiana Tranvie Elettriche oggi AMT) di Genova dal 1949 al 1954 e progettato la costruzione di alcuni edifici ad uso officine e depositi, contribuendo anche all’ammodernamento della funicolare del Righi e ai primi studi sulla linea metropolitana di Genova. A lui si deve il disegno di villa “Montebello”, di proprietà di Robusto Galanti, dalla quale prende il nome l’attuale area residenziale mondainese (le notizie sull’attività lavorativa di Valentino Galanti mi sono state fornite dal figlio Cesare in data 30 giugno 2015, mentre quelle su Eleonora Galanti dalla figlia Gabriella). 24 Testimonianza di Elio Baldoni, figlio di Eugenio, del 13 agosto 2015, che ringrazio unitamente a Nazzareno Carini. I Galanti per riuscire a strappare queste professionalità alle ditte fidardensi arrivarono ad offrire stipendi molto appetibili, fino al doppio di quelli normalmente percepiti. Solo per fare un esempio ad Eugenio Baldoni, che guadagnava 27 lire giornaliere presso la ditta Settimio Soprani, ne vennero offerte oltre 50. Assieme a Baldoni e a Bonè, già dal 1926, si spostano a Mondaino anche il tastieraio Celeste Cesaroni e il meccanicaro Pancotti. 25 Come documentato da un ordinativo di voci, inviato tramite cartolina postale, in data 23 giugno 1927. Per ulteriori approfondimenti sulla ditta Johs Koch di Trossingen cfr. H. Berghoff, Zwischen Kleinstadt und Weltmarkt: Hohner und die Harmonika 1857-1961, Paderborn Germania 2006, p.183. 26 Dal manoscritto di Angelo Casadei, cit., pp. 27-28. 27 Archivio Storico IRI, Archivio pratiche degli uffici (Numerazione Nera), 1933-2002, alla voce: ditta Fratelli Galanti 28 La sede distaccata di San Marino si trovava nella località di Serravalle e oltre al fare da ponte per le esportazioni verso l’Inghilterra e la Francia era organizzata come laboratorio di falegnameria dedito alla realizzazione delle casse armoniche per le fisarmoniche. Attiva dal 1936 al 1939 circa, la ditta occupava sei operai trasferiti da Mondaino: Francesco e Terzo
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Imprese Storiche Benedetti, Raffaello Brunaccioni, Giuseppe Mazzini, Biagio Saioni e Dino Villani. Testimonianze di Gino Serafini, Concetta e Pasqualina Benedetti. 29 M. Masini, Mondaino tra due guerre 1918-1945, cit., pp. 134-135. 30 Testimonianze di Eros Morganti e Angelo Casadei. Nella memoria dei mondainesi è rimasto particolarmente vivo il ricordo dei manichini automatizzati, chiamati famigliarmente “i bugàt”. 31 M. Masini, Mondaino tra due guerre 1918-1945, cit. pp. 128 e 137. 32 I brevetti industriali depositati in Italia per il modello Dominator sono: n. 363.513, n. 2.065.574, n. 346.842. 33 A conferma di tale amicizia rimane la velina di una lettera datata 9 giugno 1953, in cui Robusto Galanti informa la Goddard di aver provato a contattare Roberto Rossellini, per portarlo a conoscenza del desiderio dell’attrice di realizzare un film in Italia sotto la sua direzione, ma di non essere riuscito a parlare direttamente con il regista in quanto impegnato nelle riprese di un film con George Sanders e Ingrid Bergam. Robusto le comunica inoltre di aver preso contatti con il produttore italiano Sonio Coletti, in modo da soddisfare la sua aspirazione di girare un film con un importante regista italiano. Altra curiosità su Robusto Galanti è quella riguardante la sua amicizia con Mike Bongiorno. I due si erano conosciuti sui transatlantici che facevano la spola tra l’Italia e New York e dove Mike era impegnato come animatore. Mike Bongiorno, durante le sue esibizioni, spesso chiedeva la collaborazione di Robusto, che prendeva parte allo spettacolo con la sua fisarmonica e con piccoli giochi di prestigio. A testimonianza di questa stima reciproca resta una lettera scritta, di proprio pugno, da Mike Bongiorno a Robusto in data 19 novembre 1957 e conservata assieme a quella indirizzata a Paulette Goddard, da Cesare Galanti. 34 O. Hahn, Anthony Galla-Rini on his life and the Accordion, Stoccolma 1986, pp. 48 e 80. 35 S. Strologo, C’era una volta la fisarmonica – Camerano e la fisarmonica Scandalli nei documenti e nella stampa (1900-1980), Jesi 2002, p. 159. 36 New York Evening Post, December 7, 1938; January 19, 1939; February 2, 1939; February 16, 1939; March 2, 1939; March 16, 1939; May 11,1939: http://www.fultonhistory.com 37 Confederazione Fascista degli Industriali, Annuario delle Industrie – 1940 – XVIII, Roma 1940, pp. 394-395.
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38 La Fondiaria Incendio – Compagnia italiana di assicurazioni Spa, agenzia di Rimini, polizza n.18065 con copertura dal 1 agosto 1942 al 1 agosto 1943. La polizza assicurativa proviene da un archivio storico documentario della Fabbrica di Fisarmoniche Galanti databile prevalentemente agli anni compresi tra il 1946 e il 1954, di cui lo scrivente è entrato in possesso oltre dieci anni fa, grazie ad una donazione. L’archivio è suddiviso in varie buste e fascicoli di materiale contabile come bollette di carico e scarico ordinativi, registri per calcolo costi di produzione dei singoli reparti, libri presenze operai, documentazione bancaria e corrispondenza in entrata e uscita verso clienti, agenti e fornitori. D’ora in poi, tutti le informazioni provenienti da questo archivio verranno indicate in forma abbreviata come AFG = Archivio Fabbrica Galanti. 39 AFG, fascicolo Assicurazioni – IGE – fatture varie, lettera inviata a La Fondiara agenzia di Pesaro il 22 febbraio 1946, lettera inviata a La Fondiara Incendio agenzia di Rimini il 22 febbraio 1946. 40 Testimonianza di Edmondo Saioni del 20 giugno 2015. 41 AFG, fascicolo Associazione Industriali di Rimini e Circondario, lettera inviata al Ministero dell’Industria e Commercio di Roma il 31 dicembre 1947. 42 Ibidem, fascicolo lettere varie, lettera inviata a G. D. Gardella di Genova il 30 agosto 1945. 43 Ibidem, fascicolo Camera di Commercio di Forlì, lettere inviate alla Camera di Commercio di Forlì il 28 luglio 1945 e il 4 settembre 1946, lettera ricevuta dalla Camera di Commercio di Forlì datata 18 settembre 1945 e dal Ministero dell’Industria e del Commercio datata 4 settembre 1946. 44 Ibidem, fascicolo lettere varie, lettera inviata alla Farfisa il 30 settembre 1947, lettera ricevuta dalla Farfisa datata 3 ottobre 1947; fascicolo R. Galanti & Bros, lettera ricevuta dalla sede di New York datata 23 maggio 1947. 45 Ibidem, busta Agenti e Rappresentanti, vari fascicoli. 46 S. Strologo, C’era una volta la fisarmonica, cit., pp. 138-139; M. Moroni, Emigrazione, identità etnica e consumi: gli italiani d’America e la fisarmonica, cit., p. 54. 47 AFG, fascicolo Stajani, varie lettere datate tra il 27 febbraio 1949 e il 10 luglio 1950. 48 Ibidem, fascicolo Assicurazioni – IGE – fatture varie, varie lettere e documenti.
suoni galanti
49 C. Ortolani (a cura di), Un paese e cento storie, cit., p. 137. 50 AFG, fascicolo Associazione Industriali di Rimini e Circondario, lettera ricevuta dalla Camera di Commercio di Forlì del 16 luglio 1954 e testimonianza di Vittorio Amadei del 20 giugno 2015. Il laboratorio si trovava a Saludecio, nella zona di porta Nuova, all’inizio di via Sebastiano Serico. 51 Testimonianza del nipote Luca Nicolini del 4 aprile 2015. Per quanto riguarda l’attività di produzione dei mobili componibili per cucina della Nicolini cfr. G. Morpurgo (a cura di), Moderno Italiano-Nascita ed evoluzione dell’industria mobiliera pesarese, Modena 1990, pp. 162-167, 217, 220, 227, 248; G. Calegari, P. Giannotti (a cura di) Il mobile pesarese-dai maestri artigiani alla produzione industriale, Urbania 2000, pp. 175-176, 183, 188, 200, 210. 52 http://www.zoominfo.com/p/Aldo-Mencaccini/514950456. 53 Il progetto di sviluppo del nuovo design del modello Super Dominator, ad opera del capotecnico Maioli, era già iniziato nel 1944, nei giorni immediatamente prima l’occupazione della fabbrica da parte delle truppe tedesche (testimonianza di Edmondo Saioni del 20 giugno 2015). 54 Il brevetto: fisarmonica con tasti dei bassi atti a dare anche note sciolte alla scala cromatica, viene depositato dai Galanti il 24 luglio 1952 e rilasciato il 12 maggio 1954 con il n. 493.931. 55 AFG, fascicolo Associazione Industriali di Rimini e Circondario, lettera ricevuta dalla rivista Musica e Dischi il 29 ottobre 1953. 56 Ibidem, fascicolo Quagliardi, lettera ricevuta dall’agente Quagliardi il 28 ottobre 1951 57 Ibidem, fascicolo Quagliardi, varie lettere inviate e ricevute dal 16 marzo al 6 novembre 1952. 58 Accordion World, Student-Tutor Edition, New York, vol.XVIII – n.2, December 1952, pp. 1 e 4; catalogo Galanti Accordions, 1956-1960 circa. 59 AFG, fascicolo R. Galanti & Bros, lettera di risposta di Robusto Galanti, al ragioniere della ditta Umberto Tentoni, dell'1 novembre 1952. 60 https://sites.google.com/site/storiadelmovimentooperaio/cronologia/1951; AFG, fascicolo Associazione Industriali di Rimini e Circondario, lettera ricevuta dalla CGIL e UIL di Rimini datata 4 dicembre 1951 e risposta del 19 dicembre 1951.
61 Nell’anconetano si spostano in particolare gli operai addetti all’accordatura delle fisarmoniche, trovando occupazione presso la ditta Frontalini di Numana. Prima della crisi del 1951 il reparto accordatori era composto dal responsabile Giovanni Bellinzona e dagli operai Gianfranco Galanti, Italo Guidi, Eros e Walter Morganti, Aldo e Edoardo Polidori, Gaetano Villani. 62 Tra le varie fisarmoniche acquistate nell’auspicabile prospettiva di realizzare un museo che possa raccogliere le testimonianze della storia e della produzione della Fratelli Galanti, vorrei segnalarne una appartenuta a The Kinks, band inglese passata alla storia del rock per il brano You Really Got Me (1964). Si tratta di un modello Delizia, donata alla band durante una tournée e utilizzata dal batterista Mick Avory durante le feste private della band (lo strumento proviene dalla collezione di Colin Johnson, road manager del gruppo). 63 http://www.fetishguitars.com/galanti/; T. Bacon, P. Day, The ultimate guitar book, London 1991, pp. 105 e 152. 64 Testimonianza di Renato Giorgi del 22 maggio 2015 e di Vittorio Amadei del 20 giugno 2015. 65 GEM: acronimo di Galanti Egidio Mondaino o anche di Generale Elettromusica Mondaino. 66 Archivio Camera di Commercio di Forlì-Cesena, Registro Imprese, cit. A dire il vero l’idea di far ripartire la produzione mondainese di fisarmoniche viene successivamente tentata da parte di Benito Galanti, figlio di Giuseppe, con la costituzione della B. Galanti Elettromusical Srl. La ditta, nella seconda metà degli anni Settanta, mette in produzione qualche centinaio di fisarmoniche cromatiche, che sotto il marchio B. Galanti, vengono poi smerciate sui mercati del nord Europa. Attualmente Benito Galanti, nel suo piccolo laboratorio in via Secondaria Levante a Mondaino, si dedica con l’artigianalità di un tempo, alla realizzazione di originali fisarmoniche a piano e di chitarre elettriche semiacustiche. 67 LEM: acronimo di Laboratorio Elettro Musicale; M. Mariani, Del tempo nuovo. Generalmusic profilo di un’azienda, cit., pp. 7-9. 68 A. Giorgi, Fisarmoniche Galanti – Una Storia Italiana, in T. Mosconi, Mondaino dell’Arte e del Gusto di Vivere in Collina, Verucchio 2013, pp.3437; http://www.viscountinstruments.it/digital-pianos/physis-piano.html.
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Tabella n.1
f.lli galanti
vendite negozio
New York
vendite inghilterra e francia
vendite italia
anno
numero armoniche
Lire migl.
numero armoniche
Lire migl.
numero armoniche
Lire migl.
1931
416
358
-
-
7
10
1932
505
350
-
-
2
2
1933
741
484
-
-
6
5
1934
869
603
114
66
34
15
I° sem.1935
438
266
241
134
15
7
Tabella n.2 anno
1933
esportazione totale italia
paese
esportazione galanti
% nazionale esportaz. galanti
n.armoniche
Lire migl.
n.armoniche
Lire migl.
n.armoniche
Lire migl.
Stati Uniti
4783
2.384
741
484
15.5 %
20.6 %
Inghilterra
4998
2.337
-
-
0.0 %
0.0 %
Francia
4897
1.953
-
-
0.0 %
Totale anno
1934
paese
19.265
9.843
747
489
0.0 %
3.9 %
4.9 %
esportazione totale italia
esportazione galanti
% nazionale esportaz. galanti
n.armoniche
n.armoniche
n.armoniche
Lire migl.
Lire migl.
Lire migl.
Stati Uniti
9642
4.512
869
603
9.0 %
13.9 %
Inghilterra
11308
4.649
114
66
0.8 %
1.0 %
Francia Totale
3522
29.234
Tabella n.3 rivenditore
1.934
13.908
-
-
1017
684
/ agente
0.0 %
città
4.9 %
nazione
Gaudini Accordion Specialist Ltd.
Londra
Inghilterra
Bell Accordions Ltd.
Surbiton-Surrey
Inghilterra
Vanderhoeft & Cie
Parigi
Francia
Beuscher Paul
Francia
Hans Ullmann
Amburgo-Niendorf
Germania
Lode Ruys
Anversa
Belgio
Verschelde
Courtrai
Belgio
Canossa Fortunè
Namur
Belgio
Hamerlyck
Bruxelles
Belgio
A.J.M.Schackmann
Voorburg
Olanda
Baldoni Raffaele
Den Haag
Olanda
Steichen
Lussemburgo
Waidele Aktiebolaget
Goteborg
Svezia
Daniel Ruvina
Porto
Portogallo
J.B. Greene Music Co.Ltd - Whaley, Roice & Co.
Toronto-Ontario
Canada
Heintzman & co. Ltd.
Calgari-Alberta
Canada
Casa Manon S.A.
San Paolo
Brasile
Sociedad Radiotecnica Ecuatoriana
Quito
Ecuador
J.Stanley Johnston PTY.Ltd – V.Cohen PTY.Ltd.
Sidney
Australia
Beverley, Bruce & Goldie Ltd.
Auckland
Nuova Zelanda
Jemil Beshir & Sons
Baghdad
Iraq
Epiboli Ruggero
Asmara
Eritrea
Anton prof. Schein
Alessandria
Egitto
158
0.0 %
3.5 %
RINGRAZIAMENTI Ad Alberto Giorgi non solo un ringraziamento ma il giusto riconoscimento per aver offerto il suo prezioso contributo all’interno di questo volume. Un ringraziamento del tutto particolare lo devo Luciano Liuzzi, non solo per le belle foto che ha realizzato per questo libro ma anche per la collaborazione e disponibilità totale dimostrata in tutte le fasi del lavoro. Grazie alla sua esperienza ho risolto diversi problemi e in sua compagnia ho passato belle giornate. Pier Giogio Pasini mi ha aiutato, come sempre, a scegliere il meglio nei testi e nelle immagini. Toni Pecoraro, mi è sempre vicino con la sua esperienza artistica, tecnica e i suoi consigli. Per il capitolo dedicato alla Dionigi Ottaviani devo ringraziare innanzi tutto Marcello Ottaviani che ha messo a disposizione con grande generosità, pazienza e simpatia tutto l’archivio, le attrezzature in suo possesso e la sua straordinaria competenza. Grazie anche a Luciano Cecchini di lunga esperienza pirotecnica e di grande precisione in tutto quello che fa e che ricorda. Giuliano Chelotti mi ha fornito ottimi materiali e Miranda Arduini ha messo a disposizione alcuni dati della sua ricerca dedicata al castello di Meleto. Per il secondo capitolo dedicato alla Ghigi un ringraziamento va a Atos Berardi non solo patron e direttore dell’Ape del Conca ma vera e appassionata memoria storica della sua Morciano. Mi ha messo a disposizione il prezioso materiale d’archivio del giornale e tutta la sua conoscenza dettagliata della situazione aziendale e cittadina, frutto della sua esperienza umana e politica. Ettore Tommasoli con la sua competenza tecnica, maturata all’interno dell’azienda, mi ha fornito materiali inediti da me non rintracciabili, e mi ha chiarito tanti aspetti della produzione e della storia aziendale. E infine, ma certo non ultimo, un ringraziamento doveroso e affettuoso a Emilio Cavalli che con il suo libro dedicato alla Ghigi, Si mangia a occhi chiusi, mi ha preceduto nel mettere insieme tanti bellissimi materiali, di cui mi ha concesso l’utilizzo con la sua generosità e simpatia; con lui mi sono divertito come al solito e il ringraziamento va esteso a Giovanni Cioria, suo editore, che dimostra come sempre amicizia nei miei confronti. Per il terzo capitolo dedicato al Grand Hotel devo ringraziare innanzi tutto Cristina Bernagozzi dello staff del Grand Hotel di Rimini e della catena alberghiera della famiglia Batani, che mi ha messo a disposizione interessanti materiali fotografici e d’archivio. Devo poi un ringraziamento per il reperimento delle immagini e la loro contestualizzazione all’insostituibile Nadia Bizzocchi responsabile dell’Archivio Fotografico della Biblioteca Gambalunga di Rimini. Grazie anche al personale dell'Archivio di Stato di Rimini per la gentile collaborazione. Di straordinaria gentilezza sono stati anche Fausto Mauri e Alex Giacomini che mi hanno concesso l’utilizzo di alcune immagini delle loro collezioni.Un ringraziamento anche a Giuseppe Chicchi che ha concesso l’utilizzo di una rarissima immagine pubblicata nel suo volume Diario di bordo. Intervista a Pietro Arpesella, Pietroneno Capitani editore, 2000. Per il quarto capitolo dedicato all’azienda dei Bacchini devo ringraziare tutta la famiglia e Sandro in particolare, che mi ha regalato ore e ore della sua piacevolissima ed emozionante compagnia e della sua competenza. Una delle soddisfazioni di questo libro è stata quello di averlo conosciuto e ascoltato. Per il quinto capitolo dedicato alla Galanti Alberto Giorgi fa questi ringraziamenti. Ai propri genitori Giorgio ed Emilia “Mina” per il fondamentale sostegno dato nella conservazione della raccolta di fisarmoniche e del materiale storico-documentario; a tutta famiglia Galanti e in particolar modo a Vittorio Amadei e Maurizio Galanti per le precise e fondamentali testimonianze sulle vicende famigliari e aziendali della ditta; a Eros Morganti e Celeste “Tina” Villani per il loro significativo apporto nella ricostruzione della storia dei primi anni della fabbrica e nel recupero delle memorie fotografiche di inizi Novecento; a tutti coloro che a diverso titolo (testimonianze, collaborazioni e donazioni) hanno contribuito alla realizzazione del presente contributo: Susan Amadei, Benedetti: Concetta, Pasqualina e Stefano, Gabriella Bernardi, Oscar Biagioli, Guerrino Carigi (Pesaro), Nazzareno Carini (Castelfidardo), Angelo Casadei, Nunzio Di Legge (Solingen-Germania), Galanti: Arnaldo, Benito, Cesare, Claudia, Eugenio, Gary (New York), Gaudiano, Maria Grazia, Matteo, Mauro e Silvana, Gabriele Generali (Urbino), Vito e Rino Geri, Renato Giorgi, Richard Marzec (Lincroft-N.J.), Daniela Massaro (New York), Rossana Mazzini, Antonio Merli, Luca Nicolini (Pesaro), Susanna Pagnini, Claudia Placuzzi (Cesena), Eugenio Roselli, Gianfranco Rughi (Santarcangelo di R.), Edmondo Saioni, Gino Serafini, Silvia Serafini Moberg (Svezia), Gabriele Tenti, Mara Tumminello (Morciano di R.), Giuliana Zanoli. Tutte le fisarmoniche e i documenti, quando non diversamente specificato, appartengono alla raccolta dell’autore e sono state acquistate, anche grazie ad un contributo finanziario iniziale della Pro Loco di Mondaino, dell’Istituto Oncologico Romagnolo sezione di Mondaino, delle Contrade Borgo, Montebello, Contado e l’associazione culturale Tredici Torrioni-Li Zanzeri, nell’auspicabile prospettiva di realizzare un museo sulla storia e sulla produzione delle fisarmoniche Galanti.
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Finito di stampare nel mese di novembre 2015 per conto della Minerva Edizioni - Bologna