Viaggiatori stranieri fra romagna e marche

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Attilio Brilli

Attilio Brilli

viaggiatori stranieri fra romagna e marche

La COLLANA EDITORIALE della Banca Popolare Valconca

viaggiatori stranieri fra romagna e marche

1) P.G. Pasini, Piero e i Malatesti. L’attività di Piero della Francesca per le corti romagnole (1992) 2) E. Grassi, Giustiniano Villa poeta dialettale, 1842-1919 (1993) 3) P.G. Pasini, Il crocifisso dell’Agina e la pittura riminese del Trecento in Valconca (1994) 4) A. Bernucci - P.G. Pasini, Francesco Rosaspina “incisor celebre” (1995) 5) P.G. Pasini, Arte in Valconca dal Medioevo al Rinascimento (1996) 6) P.G. Pasini, Arte in Valconca dal Barocco al Novecento (1997) 7) A. Fontemaggi - O. Piolanti, Archeologia in Valconca. Tracce del popolamento tra l’Età del Ferro e la Romanità (1998) 8) P.G. Pasini, Emilio Filippini pittore solitario 1870-1938 (1999) 9) E. Brigliadori - A. Pasquini, Religiosità in Valconca. Vicende e figure (2000) 10) P.G. Pasini (a cura), Arte ritrovata. Un anno di restauri in territorio riminese (2001) 11) L. Bagli, Natura e paesaggio nella Valle del Conca (2002) 12) A. Sistri, Cultura tradizionale nella Valle del Conca. Materiale e appunti etnografici tra Romagna e Montefeltro (2003) 13) O. Delucca, L’uomo e l’ambiente in Valconca (2004) 14) P. Meldini, La cultura del cibo tra Romagna e Marche (2005) 15) P.G. Pasini, Passeggiate incoerenti tra Romagna e Marche (2006) 16) C. Fanti, Pietre e terre malatestiane (2007) 17) P.G. Pasini, Atanasio da Coriano frate pittore (2008) 18) P.G. Pasini, Il tesoro di Sigismondo e le medaglie di Matteo de’ Pasti (2009) 19) G. Mosconi, Valconca cento anni con la banca popolare (2010) 20) A. M. Guccini, Viaggio nella Valle del Conca (2011) 21) L. Liuzzi, Volando fra Romagna e Marche (2012) 22) A. Sistri Spiaggia, antropologia balneare riminese (2014)

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XIX-XX secolo

Minerva Edizioni

Attilio Brilli è considerato fra i massimi esperti di letteratura di viaggio, autore fra l’altro di Il viaggio in Italia. Storia di una grande tradizione culturale (2006), opera tradotta in varie lingue. Fra i suoi volumi più recenti: Mercanti avventurieri. Storie di viaggi e di commerci (2013) e Gerusalemme, la Mecca, Roma. Storie di pellegrinaggi e di pellegrini (2014).

Il volume raccoglie testimonianze significative di viaggiatori stranieri i quali, fra Ottocento e Novecento, hanno percorso nei vari sensi le strade fra la Romagna e le Marche. Ne risulta un mosaico narrativo in cui le descrizioni dei luoghi, dei paesaggi e delle opere d’arte si alternano all’evocazione di fatti storici e di figure leggendarie di cui è ricca questa impareggiabile terra, arricchendosi per di più di una divertente aneddotica sulle locande e sui mezzi di trasporto. Un racconto che ha costantemente sullo sfondo le idee e gli eventi che determinarono il passaggio cruciale allo Stato unitario.


viaggiatori stranieri fra romagna e marche XIX-XX secolo



Attilio Brilli

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A Bianca, Dario e Ruan perchÊ sappiano che scrivere è tutto. A.



è una vera soddisfazione poter proseguire la Collana Editoriale della Banca Popolare Valconca. Da ventitré anni in occasione delle festività natalizie, la Banca offre ai soci, ai clienti, agli studiosi, a tutti, un libro. L’idea vincente è quella di approfondire temi di argomenti locali con rigore scientifico, con una bella veste grafica, sempre coerente, seriale e ripetitiva. Agli autori viene chiesto di scrivere, con un lessico comprensibile a tutti, un contributo originale, un testo che non sia stato pubblicato precedentemente. Quest’anno viene proposto il tema del viaggio. Il viaggio ha certamente una meta precisa, ma percorrere la strada che conduce alla destinazione è già in sé un valore. Viene in mente la poesia Itaca del grande scrittore greco Costantino Kavafis, nella quale si sottolinea come il viaggio sia importante quanto l’approdo: “Quando ti metterai in viaggio per Itaca/devi augurarti che la strada sia lunga, /fertile in avventure e in esperienze./Sempre devi avere in mente Itaca-/raggiungerla sia il pensiero costante./ [Ma]… non affrettare il viaggio; /fa’ che duri a lungo, per anni, e che da vecchio/metta piede sull’isola, tu, ricco/dei tesori accumulati per strada. (…) /Itaca ti ha dato il bel viaggio, /senza di lei mai ti saresti messo/sulla strada: che cos’altro ti aspetti?” È la bellezza della strada, passo dopo passo, senza fretta per gustarne ogni metro. Giorgio Gaber, qualche anno fa, affermava in una sua canzone: “C’è solo la strada su cui puoi contare, /la strada è l’unica salvezza/(…) perché il giudizio universale non passa per le case/le case dove noi ci nascondiamo/bisogna ritornare nella strada/nella strada per conoscere chi siamo.” In questo bel volume si racconta di viandanti. La nostra terra fra Romagna e Marche viene descritta attraverso lo sguardo di stranieri (scrittori, giornalisti, storici) che, effettuando il Grand Tour in Italia, si sono fermati e soffermati anche in questo nostro territorio. Si tratta di un periodo preciso (fra 1800 e 1900) e i viaggiatori osservano incuriositi sia i monumentali edifici del passato sia la gente. A volte come osservatori neutrali, a volte prendendo parte attivamente a ciò che sta avvenendo in quel periodo storico che vede i moti rivoluzionari, la nascita dell’Unitá d’Italia, la fine dello Stato Pontificio. Si tratta, quindi, di “istantanee” scattate da persone di altre culture che rimangono, spesso, stupite per la bellezza incontrata o intravista. Viene in mente una celebre annotazione di J. Wolfgang Goethe. Egli arrivato per la prima volta in Italia si ferma a Torbole sul Garda nel settembre del 1786 e affascinato dalla bellezza che si spalanca davanti ai suoi occhi scrive “Con che ardente desiderio vorrei che i miei amici si trovassero qui con me, per poter gioire della vista che mi sta innanzi!” E a proposito di viaggio non posso non ricordare, in chiusura, un figlio della nostra terra, Amato Ronconi di Saludecio che, molti secoli fa, fece del pellegrinaggio a Santiago di Compostela la cifra della sua vita e che è stato proclamato Santo pochi giorni fa. Egli cercò nel viaggio, nella strada, il modo adeguato per incontrare il Mistero che fa tutte le cose. Molto tempo dopo quei pellegrinaggi, il cantautore forlivese Claudio Chieffo scriverà in una canzone un inconsapevole commento alla vita del nostro Santo: “Fammi camminare ancora, ho perso tanto tempo/e non credevo che fosse così questo viaggio./(…) Il sole del mattino mi trovò sulla strada /a rincorrere il tempo che avevo perduto/ho attraversato i monti, ho attraversato il mare/ e ora voglio con Te continuare il mio viaggio(…)/e quel mondo lontano lontano ora è sempre più vero!” è, in fondo, quello che cerca ognuno di noi nel suo viaggio “spirituale e terrestre”.

Avv. Massimo Lazzarini Presidente Banca Popolare Valconca



Indice IL CONTESTO

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STRADE E PIAZZE DELLA ROMAGNA E DELLE MARCHE

LUNGO LA COSTA

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TESTIMONIANZE Johann G. Seume, Qui Cesare e io abbiamo varcato il Rubicone Lady Morgan, Uno scenario di crescente bellezza M. Valéry, Vita artistica a culturale delle città rivierasche James Fenimore Cooper, Un castello alla Radcliffe Thomas Roscoe, Rimini e la storia di Paolo e Francesca Valentin Fréville, Dal Savio al Metauro: una terra di storie Thomas Graham Jackson, Pesaro e la Villa Imperiale André Maurel, Rimini, il Tempio e la Rocca Jean-Louis Vaudoyer, Un incontro inquietante André Maurel, Pesaro e i suoi fantasmi Dan Fellows Platt, Questa è forse la regione più bella d’Italia Gabrel Faure, “Vegno di loco ove tornar desio…” Gabriel Faure, Ricordo dell’Adriatico

NELL’ ENTROTERRA

p. 105

TESTIMONIANZE John Addington Symonds, Nel cuore del Montefeltro A.J.C. Hare, Il passo del Furlo Katharine Hooker, Suggestioni di una stampa d’epoca Valéry Larbaud, Fra San Marino e Rimini, 1913 P.G. Konody, La Flaminia in automobile Dominique Durandy, Una duplice visione, dal monte alla costa Oliver Knox, Pic-nic nella valle del Conca

Girolamo Marchesi (c. 1472-1534), L’Immacolata con il Padre Eterno, tre santi e Anna e Costanzo II Sforza, 1513. Milano, Pinacoteca di Brera, dalla chiesa di Santa Maria delle Grazie di Pesaro.



I. IL CONTESTO

STRADE E PIAZZE DELLA ROMAGNA E DELLE MARCHE

Il territorio e le strade L’ampio settore dell’Italia centrale che, proiettandosi dall’Appennino, s’affaccia sull’Adriatico fra la Romagna e le Marche, avendo per baricentro la valle e la foce del fiume Conca, ha il privilegio di essere stato attraversato da una lunga, composita e ininterrotta folla di viaggiatori. Questo avviene in un lasso di tempo che, pur esulando dall’antichità classica, si protrae dall’alto Medioevo fino alle soglie del turismo di fine Ottocento. Proprio l’ampiezza eccezionale del fenomeno spinge a concentrarsi su un segmento temporale relativamente limitato per poterne documentare adeguatamente gli esiti e l’influenza sui luoghi. Nel lunghissimo periodo medievale questo territorio è battuto da viandanti e pellegrini i quali ricorrono alle varianti e ai diverticoli dell’arteria principale di pellegrinaggio - la via Romea - che da Forlì e Cesena risale verso Bagno di Romagna per poi scendere nel Casentino o, in alternativa, nell’alta valle del Tevere. Ma come è noto, ai pellegrini o romei che dir si voglia, sembra che la lingua si sciolga soltanto in prossimità della meta, mentre si mostra assai reticente per la gran parte

dei tratti viari. Più interessanti, anche se non sempre adeguatamente documentabili, sono gli spostamenti che avvengono fra i confini tosco-umbri del nostro territorio e le signorie e i principati della Romagna e delle Marche in epoca rinascimentale. Basterebbe ricordare qui i diplomatici fiorentini impegnati strenuamente nel superamento degli Appennini, intrappolati dal fango e presi dalle vertigini di botri, a loro dire, spaventosi; oppure pittori come Piero della Francesca o Raffaellino del Colle, che hanno operato a lungo presso i Montefeltro e i Malatesta e che hanno guardato, forse con un sottile sprezzo per l’etnocentrismo fiorentino, ai bagliori e alle lusinghe d’Oriente che giungevano loro dalla costa adriatica e dagli straordinari taccuini di Ciriaco di Ancona. Il nostro viaggio in compagnia dei viandanti stranieri inizia con la tarda fase del grand tour, il grande giro dell’Europa che si protende sino dalla Restaurazione, e quindi con il viaggio in Italia di cui seguiremo protagonisti ed esiti sino all’Unità della penisola e oltre. Una volta stabilito l’arco temporale che va dal XIX secolo agli inizi del XX, resta da indagare le ragioni che fanno di questo ambito interregionale un territorio battuto dalla maggior

Viaggio da Bologna a Ancona, da Guide du voyageur en Italie, Milano, 1821.

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viaGGiaTori STranieri fra roMaGna e MarcHe

Itinerario da Bologna a Ancona. Da Guida per chi viaggia per le Poste, inizi XiX sec.

parte di coloro che viaggiano in italia per prevalenti motivi di studio, di formazione culturale e di diletto. il fatto che, nella fascia costiera, questo territorio sia percorso longitudinalmente da due grandi vie consolari - la flaminia e l’emilia – la prima delle quali confluisce a rimini provenendo da roma, mentre la seconda prende il via da rimini per proiettarsi verso la valle padana, costituisce ad un tempo il motivo preminente e la condizione materiale di fondo. le due gloriose vie consolari vengono considerate infatti grandi arterie del viaggio in italia in età moderna, arterie relativamente curate e attrezzate di locande e di cambi di posta. vedremo peraltro che, a seconda delle epoche, il percorso viario fra marche e romagna riserva specifici motivi di richiamo e di sosta. la FlamInIa e le sue varIantI al tempo del grand tour molti sono gli aspetti che colpiscono nel percorso della flaminia in età moderna. il primo è dato dalla densità delle memorie dell’antichità classica che ne scandiscono il percorso, dall’imponente ponte di augusto a narni, all’ingresso in Umbria, al

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tempietto del clitunno con il suo sogno d’arcadia, quasi all’uscita da questa regione. il fatto caratterizzante di questa grande arteria nel tratto umbro è che essa evoca, per così dire, la storia più immemore. Questa ci viene suggerita dagli stessi nomi dei luoghi, dal lago di Piediluco a monteluco di spoleto, toponimi che recano in sé un’eco arcaica, la risonanza del mito. lo aveva notato Bernard de montfaucon nel 1698: “ho trascorso due giorni a monteluco o Montem Luci così chiamato da quanto mi hanno detto, perché una volta c’era un bosco consacrato alle false divinità”. nel 1802 il classicista John chetwode eustace scriveva: “attraversammo il lago per raggiungere il villaggio che oggi si chiama Piediluco, ad Pedes Luci, appellativo che deriva probabilmente da un boschetto che un tempo copriva la collina e che era dedicato a velinia, la divinità che presiedeva sul lacus Velinus”. si direbbe che la flaminia abbia il privilegio di lambire una terra che miracolosamente ospita ancora il genius loci, l’immemore spirito del luogo. ma poiché una strada è fatta soprattutto per essere percorsa, è interessante notare le varie osservazioni che ci hanno lasciato i viaggiatori. innanzi tutto la via flaminia si presenta assai varia nell’alternarsi di non


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facili tratti montuosi e collinari a più agevoli percorsi di pianura. Nei pressi di Narni e delle sue gole, Jérôme Richard annota nel 1762: “Si cammina a lungo su una strada tagliata fra rocce molto elevate che a tratti costeggia precipizi scoscesi e profondi”, e quindi aggiunge che percorsi panoramici del genere si ritrovano spesso “sulla strada fra Roma e Loreto”. Le testimonianze iconografiche coeve raffigurano un genere di strada che si confà a tale descrizione, come si può vedere nel dipinto di Giovan Battista Busiri intitolato alla via lauretana. Ciò non toglie che di tanto in tanto la strada s’apra su splendidi panorami, come scrive Volkmann: “La valle fra Narni e Terni è lo spettacolo più bello che si possa immaginare. La Nera vi serpeggia con i suoi meandri e i boschetti qua e là la fanno assomigliare ad un grande giardino racchiuso tutto attorno dalle montagne”. L’itinerario della Flaminia porta quindi il viaggiatore ad affrontare la salita della Somma, concordemente definita quasi proibitiva nella stagione invernale. La piana di Spoleto, luminosa e virente, rincuora il viaggiatore che trae ulteriore diletto dalla sosta lustrale alle fonti del Clitunno. Dopo la città di Foligno, la Flaminia vera e propria punta verso Nocera, Gualdo e il passo della Scheggia, mentre la strada dei grandi viaggiatori sei-settecenteschi ascende l’Appennino e tira il fiato sulla spianata di Colfiorito, al confine fra l’Umbria e le Marche. Agli inizi dell’età moderna, la variante di Colfiorito non solo ha da tempo soppiantato il tracciato tradizionale della Flaminia ma, orientandosi su un più agevole superamento degli Appennini, manda in disuso la via di Nocera e del passo della Scheggia e scende quindi sul versante marchigiano per Serravalle, Valcimara, Tolentino e Loreto, fino a raggiungere il mare ad Ancona. La scelta del nuovo tracciato è imposta dalle difficoltà del superamento dell’Appennino. Essa viene espressamente dichiarata da una relazione del 12 maggio

1586, nella quale Antonio Scaramuccia, generale maestro di poste, afferma che in inverno, in prossimità del passo appenninico della Scheggia, la Flaminia si rivela “cattiva strada e poco cavalcabile per stare la valle verso tramontana che le nevi e li ghiacci vi restano assai che occupano il buon cammino”, per cui “in tal caso bisogna passare un fiume quaranta o cinquanta volte, con grandissimo pericolo” . A partire dal secondo Cinquecento, i vademecum itinerari più diffusi riportano entrambi i tracciati transappenninici. Una guida succinta stampata nel 1575, Avvertimenti per ricevere con frutto il Giubileo … con

Dall'alto: P. Stephens, Veduta della Somma, 1768. P. Stephens, Veduta di Pesaro dalla via di Ancona. 1768.

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molte cose meravigliose pertinenti al viaggio e chiese e antichità di Roma, registra sia il percorso da Roma a Venezia lungo la vecchia Flaminia che valica gli Appennini al passo della Scheggia e si protende sul Furlo e su Fano, sia il percorso da Roma ad Ancona il quale, privilegiando il passo di Colfiorito e la via Lauretana, coincide con la variante moderna della via consolare. Lo “Itinerario da Roma a Venezia per la via di Loreto” illustrato in Il burattinaio veridico o’ vero istruzione generale per chi viaggia, di Giuseppe Miselli, diffusissima guida itineraria apparsa a Roma nel 1684 e significativamente dedicata “ai signori Oltramontani”, non prende più in considerazione il percorso della Scheggia. Nel 1715 la Notificazione per la tariffa o tassa generale di tutte le poste dello Stato Ecclesiastico e de’ pagamenti dovuti alle poste da chi viaggia… annovera sia il “Viaggio da Roma a Bologna per la strada di Loreto”, sia il “Viaggio da Roma a Bologna per la via del Furlo”. Analogamente i due tracciati ricorrono nel diffusissimo vademecum di Giovanni Maria Vidari, Il viaggio in pratica, Venezia, 1718, catalogati, l’uno, come “Strada da Venezia a Roma per [….] Fano, Fossombrone, Foligno, e Spoleti”, e l’altro come “Comunicazione della detta strada romana da Foligno a Loreto e Ancona”. Colpi d’occhio sulla via Emilia La più convincente descrizione dell’agevole percorribilità della via Emilia ci viene fornita da Stendhal, nel 1817, allorché scrive all’altezza di Imola: “Viaggio in sediola al chiar di luna. Amo l’aspetto degli Appennini illuminati dall’astro delle notti. Come dice il nome, la sediola è una piccola sedia fissata in mezzo a due altissime ruote. Si guida da se stessi un cavallo che va di gran trotto e copre tre leghe all’ora. Viaggio possibile soltanto su un fondo perfetto, come quello da Arona 14

ad Ancona: su un’altra strada si ribalterebbe. E’ quello che mi è capitato ieri tre volte; ma era colpa mia, non della strada. Il mio cavallo faceva circa quattro leghe all’ora. Poiché l’attenzione è necessariamente fissata al paesaggio, è impossibile dimenticare i paesi che si sono attraversati in sediola”. Sull’incanto delle vedute paesaggistiche offerte dalla via Emilia nel tratto romagnolo, si rivelano suggestive le annotazioni di René de Chateaubriand del 1828 che si dimostra non immemore dell’eredità classica dell’intero territorio: “Nella Romagna, regione che non conoscevo, una moltitudine di città, con le loro case intonacate di calce di marmo, si posa sulle cime delle colline, come uno stormo di bianchi colombi. Ognuna presenta qualche capolavoro dell’arte moderna o dell’antica. Questo cantuccio d’Italia racchiude tutta la storia romana; bisognerebbe percorrerlo con in mano le opere di Tito Livio, di Tacito, di Svetonio”. Quasi un secolo dopo, nel 1910, le parole di Chateaubriand vengono riprese in chiave più estemporanea da Gabriel Faure: “Questa parte della via Emilia è la più interessante dal punto di vista paesaggistico. A destra si vedono sempre gli ultimi contrafforti degli Appennini. Procedendo, si hanno una serie di colpi d’occhio su ognuno dei torrenti che si gettano nel Reno, quando non direttamente nel mare. Benché meno fertile di quanto lo fosse prima di Bologna, la campagna è ancora ricca e ben coltivata. Ed ecco che riconosco un albergo, una rustica osteria: in una sala bassa e senz’aria mangio delle verdure, bevo una bottiglia di lambrusco fresco. Dagli archi del pergolato osservo l’opulenta campagna addormentata nella calura del mezzogiorno”. Ma Faure merita di essere ricordato perché individua nell’arco di Augusto, sulla cui facciata interna alla città termina la via Emilia, un punto nodale della storia. Infatti sulla fac-


il contesto

L’Arco di Augusto a Rimini, dis. e inc. anonimi.

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Viaggiatori stranieri fra Romagna e Marche

ciata esterna del medesimo, fatidico arco si specchia l’altra grande arteria che viene da Roma, la via Flaminia. Forse anche per questo, al momento di lasciare la penisola, saluta Rimini e le sue strade con il celebre commiato: “Vegno di loco ove tornar desio”, elevando questo luogo a metafora dell’Italia intera. Fra Marche e Romagna: oltre le antiche strade

Rimini, veduta prospettica, da J. Blaeu, Theatrum civitatum et admirandorum Italiae, I, Amstelaedami 1663. Rimini, Biblioteca Gambalunghiana.

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Una volta giunti ad Ancona o a Fano, a seconda dell’esito della via prescelta, la Lauretana o la Flaminia, i viaggiatori stranieri in terra marchigiana seguono un itinerario fisso comprendente il tratto conclusivo della

via consolare. Si tratta di un percorso privo di quelle varianti e di quelle deviazioni che portano a scoprire nuovi orizzonti e paesi. Dopo Ancona l’itinerario canonico si sviluppa lungo la costa fino a Fano e a Pesaro dove si dà l’addio ad una terra che, seppure fugacemente, ha incuriosito il viaggiatore pur senza avere la forza di trattenerlo. Ciò non toglie che nelle tappe principali di Loreto e di Ancona, ma anche in altre intermedie dove si sosta per riposare, l’occhio del forestiero si riveli sempre prezioso, capace di trasmetterci testimonianze e inquadrature inconsuete di cittadine, campagne e paesi. Naturalmente la maggiore attrattiva del viaggiatore settecentesco è costituita dalla memoria storica, dall’arco di Traiano ad Ancona a quello di Augusto a Fano e a Rimini.


il contesto

“Ad Ancona s’affitta un domestico per un giorno, si visita San Ciriaco, antico tempio di Venere, l’arco di trionfo e molti bei quadri di scuola bolognese”, scrive Stendhal nelle istruzioni per gli amici che intendono fare il viaggio in Italia. In effetti la prima età romantica non altera la stereotipia del percorso marchigiano e di quello romagnolo. Oltre che dai viaggiatori, il percorso di attraversamento nord-sud di questo contesto territoriale viene descritto da opere narrative che aprono e chiudono una stagione, da Corinne ou l’Italie (1807) di Madame de Staël con le memorabili pagine lauretane, alla novella di Camillo Boito, Baciale ‘l piede e la man bella e bianca (1876) che ricostruisce un intero percorso viario con tanto di locande e di poste.

Con l’Unità d’Italia tuttavia i segni delle curiosità e l’ansia di nuovi orizzonti si traducono nella prima, dettagliata esplorazione di questa regione che trasmette il gusto di una vera e propria scoperta. Nel 1862, Thomas Adolphus Trollope, scrittore inglese residente a Firenze, sostiene che il nuovo viaggiatore non può che ribellarsi ad una standardizzazione itineraria decrepita che sta trasformando la penisola in un paradosso: “Non c’è terra che sia stata visitata da un così alto numero di forestieri come l’Italia”, egli scrive, “eppure nessun altro paese europeo … è rimasto profondamente sconosciuto e negletto in tante sue parti. Il flusso dei viaggiatori che si snoda senza soluzione di continuità dalle Alpi, a Roma e a Napoli, battendo sempre il me-

J. Hakewill, L’arco di Augusto a Fano, Roma, The British School at Rome Library.

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Viaggiatori stranieri fra Romagna e Marche

Viaggio da Bologna a Ancona, da Guida delle rotte d’Italia, Torino, 1823.

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desimo percorso, trova corrispondenza soltanto nelle carovane di fedeli che vanno alla Mecca”. Trollope non manca di illustrare le ragioni materiali e concrete che costringono il viaggiatore a percorrere le medesime strade: “Quanto più le ruote passano su una strada, tanto più profonde si fanno le carrarecce e più ardito lo sforzo per farne uscire la carrozza e immetterla su nuove vie. Queste ben tracciate carrarecce del viaggio in Italia consistono in ogni genere di facilitazioni offerte al viaggiatore. Ma quando questi abbandona le vie consuete, ogni genere di agevolazioni si vanifica ed è difficile immaginare le resistenze che ostacolano quanti tentano di deviare dagli itinerari tradizionali”. Trollope sceglie appunto le Marche e una piccola parte della Romagna come terra da visitare con uno spirito nuovo, attraverso inconsueti itinerari e dedica a questa terra gran parte del suo A Lenten Journey through Umbria and the Marches (1862). Da terre per tante loro parti dimenticate dai viaggiatori, le Marche e la Romagna diventano uno stimolo ed un esempio territoriale per un nuovo modo di viaggiare in Italia. Proprio per questo Trollope si limita a citare le città marchigiane e romagnole lungo la direttrice viaria – e ferroviaria - della costa,

città tradizionalmente visitate dai viaggiatori, mentre riserva il suo interesse più vivo alla rupe del Titano. Nel passaggio della catena appenninica attraverso inusitati valichi e bocche, Trollope era stato preceduto da storici, storici dell’arte e collezionisti. Si possono ricordare in proposito i viaggi di Sir James Dennistoun nel Montefeltro per la redazione dei Memoirs of the Dukes of Urbino (1851), o quelli dell’archeologo Austen Henry Layard a cavallo della dorsale appenninica umbro marchigiana nel 1855 per documentarsi sugli affreschi di Piero della Francesca, di Ottaviano Nelli e di Giovanni Santi per conto della Arundel Society. Né andrebbero dimenticati coloro che percorrono le zone interne delle Marche alla ricerca di opere d’arte da acquistare per i musei britannici e per quelli americani dato che, come si sussurrava nel Foreign Office, si comprava molto bene in quei paesi che, come l’Italia, erano in via di profonde trasformazioni. Ancora nel 1916, presentando il suo volume A Holiday in Umbria (ma in gran parte dedicato alle Marche), l’architetto Sir Thomas Graham Jackson del Wadham College di Oxford, lo definiva “il risultato di due visite effettuate nel 1881 e nel 1888 in quella parte d’Italia poco nota ai viaggiatori britannici, eppure


il contesto

non inferiore alle altre parti per le memorie storiche, l’arte e la bellezza della natura”. Nelle piazze della romagna I viaggiatori che transitano fra Marche e Romagna nel corso del XIX secolo sono testimoni dei notevoli cambiamenti che si verificano in questo contesto ambientale. Si tratta di cambiamenti di ordine politico innanzi tutto, poiché il secolo è percorso dai fremiti risorgimentali che culminano nell’annessione di entrambe le regioni all’Italia unita. Ma anche cambiamenti di prospettiva culturale, di sensibilità estetica e di gusto che vanno dalle inquietudini della stagione romantica all’estetismo vitalistico del primo Novecento. Quando, per fare un esempio, il collezionista ame-

ricano D.F.Platt nel 1906 avvicina la Flagellazione urbinate di Piero della Francesca all’arte cinese, dà una lettura “esotica” della tavola che è tipica di un periodo in cui l’impassibilità delle Madonne pierfrancescane veniva paragonata a quella del Budda. La descrizione che un amante dell’Italia come Gabriel Faure ci presenta della costa adriatica è, per fare un altro esempio, apertamente ispirata a Gabriele D’Annunzio, l’autore più amato dalla cultura francese del periodo. Scorrendo le pagine selezionate, il lettore avrà così modo di inquadrare luoghi ben noti attraverso l’inedita sensibilità culturale di viaggiatori forestieri, vale a dire estranei al suo modo di vedere e di percepire il mondo. Ma c’è un aspetto che s’impone su tutti gli altri, ed è la lettura politica che, sollecitati dall’inedia inquietante delle piazze della

Cesena, la Porta Fiume e la Rocca, acquerello monocromo di W. Jacquetz, 1846. Cesena, raccolta privata.

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Viaggiatori stranieri fra Romagna e Marche

Rimini, Il fianco del Tempio Malatestiano, 1834-36, incisione di Bernardino Rosaspina (1797-1882) su disegno di R. Trebbi. Rimini, Biblioteca Gambalunghiana.

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Romagna e delle Marche, i viaggiatori stranieri danno della stagione risorgimentale. È un aspetto che sfata il luogo comune secondo il quale i viaggiatori stranieri sarebbero dei testimoni disinteressati ai mutamenti anche drammatici che si verificano nel paese che stanno percorrendo. Transitando fra Marche e Romagna, una volta tanto essi mettono da parte le memorie classiche, le vicende corrusche di signorie e principati, la storia struggente di Francesca da Rimini, per interrogarsi sul destino dell’Italia, il “giardino d’Europa”. Tutto inizia nell’aprile del 1842, allorché il teologo francese Jean Joseph Gaume, che qualche anno dopo Pio IX avrebbe nominato protonotario apostolico, lascia affiorare nelle pagine della sua opera dedicata a Les Trois Romes. Journal d’un voyage en Italie, un’inedita, singolare tirata

contro i viaggiatori “di tutte le nazioni”, colpevoli di avere alterato il clima di quiete del “più paterno dei reggimenti politici” avendovi inoculato i germi del malcontento e della sedizione. Pronunciate alle porte di Lugo, queste parole si riferiscono alla situazione politica delle legazioni pontificie della Romagna e delle Marche. Gaume riconosce che anche lo Stato ecclesiastico necessita di riforme, ma deve trattarsi di riforme amministrative che non alterano in alcun modo lo spirito e la struttura del Patrimonio di San Pietro. Sotto la forma del diario di viaggio, il teologo ha composto un volume per dimostrare al mondo intero che “l’Italia cristiana è ancora un paese tutto da scoprire”, frutto esemplare di un disegno divino da sempre determinato e come tale immutabile. I pericoli che corre l’Italia cristiana vengono da fuori e non


il contesto

c’è peggior nemico per la vita tranquilla di questa terra dei troppi libri introdotti di soppiatto e dei forestieri che diffondono idee rivoluzionarie. “Tali sono l’impudenza e il malanimo di certi turisti”, conclude il protonotario, “che anche i più moderati s’affrettano a mettere in risalto, a inasprire, a esagerare – quando addirittura non l’inventino – i limiti che sono propri di tutte le umane istituzioni e che, a conti fatti, sono mille volte preferibili alle più belle utopie dei creatori delle così dette costituzioni”. Sorprende leggere di accuse simili, così aspre e circostanziate, rivolte ai viaggiatori che percorrono le strade della Romagna e delle Marche, viaggiatori che, viceversa, sembrano correr via con una certa fretta nella totale indifferenza, secondo un consolidato modo di fare, nei confronti del-

le situazioni politiche contingenti in cui versano le popolazioni. Il turista, usiamo il medesimo termine di Gaume, mostra un’assoluta riluttanza a farsi coinvolgere nelle situazioni politiche e sociali dei luoghi che si trova ad attraversare, luoghi che osserva, quando li osserva, con la comoda, impassibile ignavia di forestiero. Inquadrata nel tentativo estremo di difendere l’anomalia della Stato della Chiesa, l’inconsueta invettiva di Gaume assume un rilievo ancora più anomalo – e per questo particolarmente interessante - in un tratto viario dove non sempre la sosta alla locanda postale implica la visita alla cittadina che l’ospita, specie quando non vi sia traccia delle fatidiche rovine, e tanto meno il contatto con la gente. Andando indietro nel tempo, nel 1802 un curioso personaggio percorre a piedi la

Rimini, la piazza, 1834-36, incisione di Bernardino Rosaspina (1797-1882) su disegno di R. Trebbi. Rimini, Biblioteca Gambalunghiana.

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via Emilia, da Bologna a Rimini, per proseguire poi sulla Flaminia. Si tratta dello scrittore tedesco, Johann Gottfried Seume, che ovunque prende nota dei segni eloquenti dell’occupazione francese: una parata militare a Faenza, dove alloggia all'Hotel de Naples; l’albero della libertà a Cesena, piantato in mezzo alla piazza del mercato dove fa “una meschina figura”; un altro albero simile a Rimini con in cima il berretto frigio e la scritta che esalta “l’union des François et des Cisalpins” e ovunque un fiorire di coccarde, di insegne e di orpelli del genere. Malgrado le involuzioni dell’epoca napoleonica, Seume ha sempre riconosciuto alla rivoluzione francese “il merito di aver gettato le fondamenta della ragione e del diritto”. La sua stessa avventurosa esistenza di studente fuggiasco, di soldato arruolato a forza e venduto agli inglesi d’America e infine accusato di diserzione in Europa, è segnata da un amore insopprimibile per la libertà e la giustizia. Un certo fastidio per gli emblemi della tradizione giacobina è quindi rivolto non ai segni in sé, ma al degrado di un’originaria missione di libertà e di progresso civile, nata come affermazione dei diritti degli individui e dei popoli. Non c’è quindi in lui ombra di rimpianto per il governo papale il quale, come quello borbonico, ha suscitato tutto il suo sdegno. Seume sa bene comunque che, per quanto avvezzo a vivere a contatto con la gente, come ogni altro viaggiatore non può che interporre una distanza di sicurezza fra sé e il mondo in cui si trova. Nel tumulto del carnevale di Imola, per esempio, egli elude le domande insidiose di un giovane del posto, “ una vera testa calda”, che avrebbe voluto coinvolgerlo in una disputa sulla repressione austriaca in corso a Vienna, “dove sono stati costretti a mettersi quieti sotto i colpi di baionetta”. A queste battute Seume replica con diplomazia che non si possono liquidare questioni del genere in due parole. 22

Lungo la via Emilia e quindi la Flaminia incontriamo una decina di anni dopo, siamo nel 1812, il francese Philippe PetitRadel, già chirurgo reale e membro di prestigiose accademie. L’orgoglio di figlio della Francia rivoluzionaria e napoleonica traspare dalle pagine di apertura della sua relazione di viaggio: “Mi sono proposto come meta l’Italia di oggi, un’Italia rigenerata, libera dalle catene che la tenevano avvinta a troppi potentati, sgombra di pregiudizi che impedivano al pensiero di spiccare un nobile volo”. Per distinguersi poi dalla gran parte dei viaggiatori, tiene ad aggiungere: “La mia narrazione non è affatto il prodotto di sensazioni estemporanee, nate correndo da una posta all’altra. L’esiguità dei mezzi mi ha costretto a viaggiare in maniera molto lenta, ma più idonea a far sì che i miei giudizi si siano potuti avvalere della riflessione”. I suoi ritratti delle città romagnole sono caratterizzati da una spiccata sensibilità vedutistica. Così l’inquadratura della piazza principale di Faenza dove “si vedono, da un lato, il palazzo pubblico, sede del Comune, e il nuovo teatro; dall’altro l’orologio, la cattedrale e la fontana con i getti d’acqua che sembrano scaturire da un bocciolo”. Lo stesso potrebbe dirsi per le piazze di Imola e di Cesena. Di maggiore interesse è comunque la cura documentaria che, con ottica professionale, Petit-Radel riserva alle istituzioni sociali e culturali, a cominciare dalla descrizione degli ospedali. Lo studio del sistema educativo annovera fra l’altro l’elogio del liceo faentino che si dimostra non immemore della tradizione scientifica della città. Una cura particolare riserva poi alle biblioteche e in particolare alla Malatestiana di Cesena e alla Gambalunghiana di Rimini. “Qui si vedono palazzi degni di nota,” osserva il nostro viaggiatore a passeggio per le strade di quest’ultima città, “in particolare quello del signor Gambalunga, molto elegante, che ospita una ricchissima biblioteca”. Nella città


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dove terminano le grandi vie consolari, sono le testimonianze della tradizione classica – l’arco e il ponte di Augusto – e il rinascimentale Tempio Malatestiano ad attrarre l’interesse di un viaggiatore di solida cultura come Petit-Radel. In questo egli non si discosta dalla maggior parte dei viaggiatori che percorrono la “terra della classicità”, per dirla con Goethe, e che hanno come riferimento le annotazioni di Joseph Addison e gli insegnamenti di Edward Gibbon. Ma c’è un aspetto ulteriore di questo viandante che percorre in diligenza postale le strade della Romagna e delle Marche ed è il desiderio di scambiare quattro chiacchiere con i compagni di viaggio, di saggiare gli umori della gente, di informarsi sui luoghi e sulle istituzioni. Ne nascono vivaci quadretti di vita di viaggio – come la ballerina travestita da uomo che siede in carrozza con in grembo un

paio di candide colombe – ai quali si contrappongono abbozzi di vita culturale delle cittadine attraversate, delle accademie, dei teatri, dei personaggi insigni del passato e del presente. Non mancano in questo senso ambigui riferimenti all’enfasi delle statue delle piazze principali delle città, da quella di Paolo V, “con le chiavi in mano e in atto declamatorio”, nella piazza della prefettura a Rimini; a quella seduta di Urbano VIII, a Pesaro, che celebra l’inclusione della città e del Ducato di Urbino nello Stato ecclesiastico. Specie fra Rimini e Pesaro, la strada offre una serie ininterrotta di vedute collinari e, sulla sinistra il fondersi dell’azzurro del mare con quello del cielo. Ma non è tanto la visione estetica che interessa PetitRadel, quanto la cura dei suoli sottratti ovunque alla stagnazione delle acque e la laboriosità dei contadini che li lavorano “come se fossero di loro proprietà”.

F. Mazzuoli, Veduta della spiaggia di Cattolica, Firenze Biblioteca Nazionale.

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Intanto altri viaggiatori descrivono le difficoltà del percorso, specie per quanto concerne il guado dei fiumi, o esprimono le consuete lamentele sulle condizioni delle strade e sulle locande. Viaggiare dopo la restaurazione

Santarcangelo di Romagna, L’arco onorario di Clemente XIV sulla via Emilia, 1834-36, incisione di Bernardino Rosaspina (1797-1882) su disegno di L. Venturi. Rimini, Biblioteca Gambalunghiana.

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Nel 1817, subito dopo la Restaurazione, il ginevrino James Auguste Galiffe deplora, per un verso, la sistematica asportazione per mano francese delle opere d’arte dalle chiese, dall’altro se la prende con i modi di rapina di molti locandieri. Una decina di anni più tardi, il francese Alphonse Dupré avverte che, nei pressi di Cattolica, il superamento del fiume Conca richiede molta attenzione per l’ampiezza

del letto fluviale nel quale, in certe condizioni, tende a rifluire l’acqua del mare: “Cercai di approfittare di un guado dove c’erano appena due piedi d’acqua e delle indicazioni di un contadino il quale, procedendo davanti a noi, ci mostrava dove passare, e lo stesso facemmo con altri due bracci meno ampi di questo fiumiciattolo che si dilata per circa una lega”. Difficoltà che sono ben poca cosa nei confronti di quelle affrontate, vent’anni prima, dal plenipotenziario napoleonico Gaspard Monge il quale, fra Rimini e San Marino, aveva dovuto abbandonare il calesse perché il fango aveva raggiunto la pancia dei cavalli. Nel complesso tuttavia, malgrado le rimostranze di Galiffe, le locande di molte città della Romagna, dalla Spada d’oro di Ravenna, alla Corona di Faen-


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za, all'Hotel della Posta di Forlì, ai Tre Re e all’Aquila d’oro di Rimini, ricevono la blanda approvazione dei viaggiatori e vengono classificate come “tolerable Italian inns”, più o meno come le condizioni delle strade. Se il teologo Gaume avesse voluto fare i nomi dei viaggiatori sediziosi, avrebbe sicuramente citato Lady Sideny Owenson Morgan, spirito liberale di spiccate simpatie giacobine che attraversa le Legazioni nel 1820. Il quadro di questo territorio che ci viene offerto da Lady Morgan s’apre, non a caso, mettendo in luce l’atteggiamento ostile nei confronti del forestiero da parte della polizia e dei doganieri papalini i quali, nel tratto di strada fra Pesaro e Rimini, frappongono mille beghe, scandagliano i bagagli, mettono le mani addosso per frugare e procedono ad “impertinentissime visite”, come a breve avrebbe detto Leopardi sul medesimo tratto di strada. Entrata nel cuore del territorio, ovunque Lady Morgan mette in risalto i segni della restaurazione dell’ordine e del sistematico ricomporsi dello stato confessionale. Con sarcasmo la nostra viaggiatrice riferisce dei tentativi della Chiesa di riappropriarsi dei beni immobili che il governo napoleonico aveva sottratto al clero e rivenduto a signorotti locali, promettendo qualche metaforica spanna di terra “al di là dello Stige”,

in cambio di palazzi e terreni, questi concreti e reali, restituiti ai preti al di qua del medesimo fiume. Tutto quello che si vede di bello e di ordinato nel paesaggio agrario circostante: le strade lisce come tavoli da biliardo, l’ottima pulitura delle scoline e dei fossi, la manutenzione dei giardini - le spiega un contadino dalla proda del campo - è opera della Comunità, vale a dire dell’eredità dell’amministrazione francese fatta propria dalla popolazione, così che al governo pontificio non resta che imporre e riscuotere tasse e balzelli. Raggelato dal restaurato potere politico, l’intero territorio è percorso da una sotterranea inquietudine. Quasi inesistente è la circolazione della stampa. In una libreria di Cesena la nostra viaggiatrice incontra un prete che esalta l’interdizione, nelle Legazioni, di qualsiasi genere di gazzetta che non sia il “Diario di Roma”. Eppure anche “in una provincia così remota”, annota Lady Morgan, risuona l’eco entusiasta della rivoluzione spagnola – siamo appunto nel 1820 – e dei moti napoletani. Pubblicato a tamburo battente, nel 1821, il volume di Lady Morgan, Italy, richiama l’attenzione dei più aperti spiriti europei, ma nel contempo viene messo al bando in Austria, nel regno di Sardegna e nello Stato Pontificio. Nel frattempo, il più noto fra gli estimatori di Lady Morgan, George

Norberto Pazzini (1856-1937), San Giovanni in Galilea, tramonto. Rimini, coll. privata.

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Gordon Byron contribuisce in vario modo a sostenere la carboneria romagnola. Siamo al tempo del soggiorno ravennate durante il quale il poeta si lascia coinvolgere nell’attività dei carbonari che fanno capo al fratello della sua amante, Teresa Guiccioli, l’irruento Pietro Gamba. Con loro mette su a Palazzo Guiccioli, connivente il marito di Teresa del quale è affittuario, un vero e proprio arsenale: “Addì 18 febbraio 1821, non ho avuto alcun contatto con i miei amici carbonari, ma intanto le stanze al piano di sopra sono stracolme di baionette, di fucili, di cartucce e così via. Credo che mi abbiano preso per un deposito da sacrificare in caso di necessità. Ma se si pensa che l’Italia potrebbe essere liberata, non conta granché il mezzo”. A Ravenna il “pellegrino” innamorato dell’Italia percepisce per la prima volta il risveglio degli italiani e la loro ansia di darsi, per quanto indefinito, un disegno politico. Mentre la maggior parte dei suoi connazionali in viaggio in Italia continuano a descriverne gli abitanti secondo i più logori e i più abusati luoghi comuni, ignorando la situazione politica contingente e parlando della carboneria come di un fenomeno esoterico e pittoresco, Byron scriveva il 24 aprile 1820: “Questi stolti mi costringeranno a scrivere un libro sull’Italia per rinfacciare loro le tante menzogne date alle stampe”. D’altronde i suoi stessi giudizi avevano conosciuto non poche oscillazioni ed erano rimasti condizionati dalla spontanea generosità, ma anche dall’inconcludenza, dei carbonari romagnoli. Una lettera a John Moore dell’8 settembre 1821 lascia trasparire i più vieti luoghi comuni sugli italiani: “Seduta al pianoforte, una graziosa fanciulla mi ha detto sere fa, le lacrime agli occhi, che agli italiani non resta che cantare le opere. Temo proprio che le opere e i maccheroni siano il loro forte e quello d’arlecchino il loro vestito. Eppure ci sono ancora spiriti eccelsi fra loro”. Fra i nobili spiriti c’erano i rampolli 26

della borghesia locale e dell’aristocrazia più illuminata, giovani che avevano messo il naso fuori di casa, avevano studiato all’università e avevano avuto contatti con i fuoriusciti degli altri stati. S’era imbattuto in loro varie volte e loro tramite aveva cercato di contribuire al finanziamento della carboneria napoletana. Scrive in data 29 gennaio 1821: “Mi sono imbattuto nella pineta in un gruppo della setta detta degli Americani (una specie di club di liberali), armati fino ai denti, intenti a cantare con quanto fiato avevano in corpo: «Sem tutt soldat per la libertà»”. Qualche mese dopo, il 22 luglio, scrive all’editore Murray: “La tirannia del governo locale si manifesta in tutto il suo potere. Hanno mandato in esilio un migliaio di membri delle migliori famiglie degli stati romani. Poiché fra loro ci sono anche i miei amici [i Guiccioli e i Gamba], penso di andarmene anch’io”. Un modo nuovo di guardare alle genti di questa terra è quello di Antoine Claude Pasquin, responsabile della biblioteca di Versailles e del Trianon sotto Carlo X e Luigi Filippo, che nei libri di viaggio si firma con lo pseudonimo di Valéry. Nella terza edizione del Voyage en Italie, apparsa nel 1842, introducendo il capitolo sulle Legazioni attraverso le quali era passato anni prima, nel 1828, aggiunge un paragrafo significativo che, nel recepire eventi del momento, riflette un’inedita sensibilità politica nei confronti degli italiani: “L’entusiasmo per le idee nuove provocato dall’immobilismo e dalle profonde disuguaglianze generate dai privilegi e dalla dominazione ecclesiastica, hanno infiammato la gioventù di questa città, una gioventù che, come quella delle altre città dell’Italia centrale, è la più istruita della penisola. Gli eventi del 1831 e del 1832 non mi hanno affatto sorpreso. Le nuove idee sono ormai penetrate in seno al popolo e al clero”. La conclusione della nota riesuma tuttavia uno dei più consunti


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luoghi comuni sul sangue caldo di questa terra a riprova della diversa appartenenza temporale delle annotazioni: “Il carattere passionale degli abitanti rende più violento un temperamento che sembra sempre sul punto di esplodere. I romagnoli sono capaci di eccessi nel bene e nel male e, secondo gli impulsi che ricevono, possono diventare eroi o briganti”. Uno stereotipo, quest’ultimo, sul quale sembra aver lasciato la propria impronta Stendhal che non solo ha sempre visto nel brigante italiano il residuo romantico di una vitalità primordiale, ma che aveva scritto testualmente: “Ognuna di queste cittadine a pochi chilometri l’una dall’altra, Ravenna, Imola, Faenza, Forlì, Rimini, hanno costumi diversi: pronti, impetuosi, vendicativi, libertini, gli uni; assestati, tranquilli, tedeschi, gli altri”. Dopo queste osservazioni, appare meno sorprendente il risentimento acre di Gaume nei confronti dei viaggiatori, tanto più che le descrizioni dei paesi lungo le vie consolari si fanno sempre

più diffuse e più dettagliate. Lo dimostra l’invito di Valéry ad esplorare una terra al di là delle sue direttrici canoniche: “Questo angolo dell’Italia non è molto visitato. Mi è parso invece uno dei più interessanti e vivaci. Il viaggiatore che sosta all’Albergo Reale di Milano, all’hotel Schneiderff di Firenze, per correre poi da Cerni a Roma e all’hotel della Vittoria a Napoli, non conosce la parte più intima e vera di questo paese, il suo aspetto desolato, le sue sponde belle e malinconiche, e non ha avuto modo di apprezzare la vera ospitalità italiana, così piena di gentilezza e di bonomia”. Sono questi gli anni in cui vedono la luce opere pionieristiche nel campo dell’arte, come Italian Painters e The Sacred Art di Anna Jameson, mentre i viaggi che le hanno promosse portano all’esplorazione di centri minori delle Legazioni, alla rassegna delle opere d’arte che vi sono contenute e ad una più capillare conoscenza della regione. Ad alcune di queste opere e di questi viaggiatori si sarebbero rifatti i

Romolo Liverani (1809-1872), Il ponte sul Rubicone, 1851. Forlì, Raccolte Piancastelli, presso la Biblioteca comunale.

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Viaggiatori stranieri fra Romagna e Marche J. Hakewill, Arco di Augusto a Rimini. Roma, The British School at Rome Library.

redattori di guide turistiche della metà e del secondo Ottocento. Basta scorrere le descrizioni delle chiese e delle antichità nel testo di Augustus John Cutbert Hare, Cities of Northern and Central Italy del 1873 per avere un regesto puntuale delle opere d’arte che vi sono contenute, dei giudizi espressi da illustri viaggiatori e per scoprire paesi che ben pochi avrebbero ritenuto degni di visita. Al viaggiatore non sfugge il monito incombente della rupe di San Marino, questo “scampolo di repubblica”, come l’aveva definita Napoleone, che per i più costituisce un richiamo curioso e pittoresco, ma che agli occhi dei viandanti più attenti diventa un significativo termine di paragone per la situazione politica del territorio circostante. Immaginiamoci un viaggiatore cosmopolita che visita stato per stato l’Italia della Restaurazione. Ai suoi occhi la Repubblica di San Marino – alla quale si accede nel corso dello standard tour italiano con una breve deviazione da Rimini – non poteva non apparire come una felice eccezione, un’oasi di libertà, di rigore morale, di patriarcale semplicità nel cuore di uno stato ecclesiastico 28

sempre più occhiuto e intollerante. A San Marino avevano reso omaggio personaggi eminenti del Sei e del Settecento, da John Ray, al padre del giornalismo Joseph Addison, a Karl Philipp von Moritz, a Pierre-Jean Grosley per il quale salire a San Marino era come giungere ad Itaca. Ai suoi statuti s’era ispirato John Adams, prima di diventare secondo presidente degli Stati Uniti. A studiarne leggi e costumi e a incontrarvi spiriti eminenti come il “padre della patria” Antonio Onofri e Bartolomeo Borghesi, celebre epigrafista e numismatico esule da Savignano, salgono diversi americani nel corso del secolo, come dimostrano le sottili annotazioni di Henry Theodore Tuckerman al momento dell’addio nel 1836: “Meditai sulla straordinaria conservazione di quella rupe isolata in mezzo ai destini infelici della terra che ha ai suoi piedi. Mi sforzai di imprimere nella memoria quella località pittoresca e mi compiacqui di cuore che vi fosse ancora una fogliolina verde nella corona avvizzita d’Italia”. Molti anni prima, nel 1812, il suo connazionale George Washington Erving aveva asceso il Titano e aveva annoverato San Marino fra le mete


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privilegiate del viaggio in Italia, come e ancor più di Venezia, delle antichità di Roma, del pennacchio del Vesuvio e dei templi di Paestum. In contrappunto con la rupe libertaria di San Marino, Tuckerman ci ha lasciato uno dei più impressionanti ed eloquenti ritratti delle piazze delle cittadine romagnole e marchigiane. Nelle sue parole non risuonano luoghi comuni, ma le spontanee osservazioni del cittadino “innocente” e fattivo del Nuovo Mondo, dello spirito puritano che si è forgiato al di là dell’Atlantico. Innanzi tutto Tuckerman descrive il modo perentorio e screanzato con cui una guardia austriaca chiede al viaggiatore di mostrare il lasciapassare alle porte di una città delle Legazioni e quindi coglie l’incongruenza di quei “baffi biondi” e di quel “freddo viso nordico in un paese così assolato”. Prose-

gue dicendo che “quando alla fine si riceve il permesso di inoltrarsi nelle strade buie e fangose, non si scorge il minimo segno di attività, ma solo la bacinella del barbiere che ciondola dal vano della porta, una piccola folla attorno all’erbivendolo e, se c’è una festa, una compagnia di cavallerizzi ambulanti del circo”. A questo punto Tuckerman focalizza lo sguardo sull’emblema che caratterizza la città intera: “Collocata al centro di una piazza s’innalza la statua, in bronzo o in marmo, di qualche papa o arcivescovo con un’alta mitria, a braccia aperte. È come a dimostrare l’inanità del più inetto e oppressivo dei governi italiani, intorno a basamento s’affollano tanti di quegli oziosi da corrompere una comunità intera. C’è qualcosa di particolarmente provocatorio nell’aspetto di queste statue, brutte e sgraziate, che si levano ostentatamente nelle

Giuseppe Vaccai (1836-1912), Il Monte Titano, 1888. San Marino, Cassa di Risparmo della Repubblica di San Marino.

Stabilimento balneare......................

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Rimini, la piazza, 1834-36, particolare, incisione di Bernardino Rosaspina (1797-1882) su disegno di R. Trebbi. Rimini, Biblioteca Gambalunghiana.

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città dello Stato Pontificio, emblemi di un sistema rovinoso che dissangua e che ha ridotto queste località naturalmente fertili al loro attuale squallore, torreggiando per così dire sulla miseria che hanno causato. La testa inclinata e il braccio teso nell’atto di benedire ostentano una postura umile e benevola, in ridicolo contrasto con la sgarbata soldataglia e i mendicanti che sembrano essere i legittimi beneficiari del favore papale”. Altri viaggiatori avevano notato la presenza di questi simulacri nei centri delle Legazioni, ma nessuno come il cittadino del Nuovo Mondo Tuckerman aveva colto, in consonanza con il momento storico,

l’ipocrisia della loro paternalistica e retorica postura. È giunto il momento di riprendere contatto con il teologo Gaume che abbiamo incontrato alla porta di Lugo di Romagna. Buon ultimo fra i viaggiatori in una terra sospesa fra restaurazione e moti insurrezionali, impegnato nella difesa dello status quo delle Legazioni pontificie, Gaume imbalsama le città in un’atmosfera immobile nella quale i monumenti sembrano soffocare sotto i drappi di una ritualità e di una letteratura omiletica pervasiva e opprimente. Il suo atteggiamento è omologo a quello, altrettanto monovalente, di tanti viaggiatori britannici i quali, prolungando la tradizione antiquaria del “grande giro” settecentesco, non mostrano il minimo interesse per la situazione politica e sociale delle Legazioni. Ne è un esempio John Chetewode Eustace dal quale – siamo nel 1802, ma il testo viene pubblicato nel 1813 – le città della costa, dalla Romagna alle Marche, vengono sbrigativamente definite “piccole e pulite” e le campagne immancabilmente feraci e ben coltivate. Ben altro spazio viene riservato invece alle memorie classiche. L’identificazione ipotetica del Rubicone – topos indiscusso per tutti i viaggiatori – viene svolta da Eustace attraverso una trattazione di ben quattro pagine e l’adozione di toni di intenso lirismo antiquario. Eustace indossa per l’occasione i panni dell’archeologo dilettante e imbastisce una narrazione dai toni salvifici: “A circa due miglia da Cesena corre un fiume, detto Pisciatello, che si crede sia l’antico Rubicone. Sulla sponda settentrionale del rivo sorgeva un obelisco con inscritto, sul piedistallo, il decreto del senato e del popolo romano, oltre ad altre due iscrizioni sui lati. I francesi l’hanno distrutto, tanto è vero che, quando vi passai, le lastre che costituivano il piedistallo giacevano semisepolte nell’aia di un contadino, ad un centinaio di passi dalla strada. È stata mia cura disseppellirle e appoggiarle contro il tronco di un albero”. Non sorprende se nel 1835 un altro classicista, George


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William Davis Evans, riporta nel suo testo, in tutta la loro enfasi, le parole dello Eustace sulle rive del fatale fiumicello: “Qui apparve il fantasma guerresco, incaricato dalle Furie a infonder forza nel petto dell’incerto condottiero e a spingerlo all’opera di distruzione. Qui sorse anche il Genio di Roma a trattenere la foga del suo figlio ribelle e a fermare il colpo inferto alla libertà e alla giustizia”. L’annosa disputa sul passaggio del Rubicone era ben più importante, per i nostri classicisti, di quanto stava realmente avvenendo nelle Legazioni, più importante delle sempre più frequenti repressioni poliziesche, delle retate dei carbonari, delle sentenze d’esilio coatto e dell’atmosfera inquieta che s’era impossessata delle piazze dominate dalle statue di papi e di cardinali benedicenti una folla che avrebbero voluta ossequiente e silenziosa. Alla lunga tradizione degli amanti di un’Italia bella e affascinante nel sua immobilità - palcoscenico nella antichità e delle arti sottratto al fluire degli eventi sembrano appartenere personaggi di nazionalità diverse come Alfred Bassermann e Jean-Jacques Ampère che inaugurano una nuova, originale idea di viaggio. Il loro voyage dantesque, ovverosia il viaggio sulle orme di Dante, rientra nella sempre più diffusa tendenza, a partire dagli anni Quaranta dell’Ottocento, a selezionare inedite mete di carattere culturale lungo la penisola. In questa inedita esplorazione dell’Italia, il viaggio dantesco riveste tuttavia un interesse specifico proprio perché fa delle città e dei paesaggi della Romagna e delle Marche le tappe attraverso le quali ripercorrere i passi del poeta, di colui che ha unificato linguisticamente il paese. Per cui solo in apparenza gli autori di questo genere di viaggio rimangono indifferenti alle condizioni politiche dei territori e delle città che visitano. In realtà con le loro opere essi contribuiscono ad accreditare, negli anni cruciali che precedono l’unità della penisola, la figura di Dante come

simbolico fautore del suo riscatto. E quale regione, più della Romagna, può dirsi dantesca? Proprio le menti più illuminate dell’Inghilterra, da Matthew Arnold a Thomas Carlyle, ne avrebbero immediatamente raccolto il messaggio facendo di Dante l’araldo dell’Italia unita e proponendola come tale all’Europa intera. Per quanto lontane, le voci dei viaggiatori non si perdono mai completamente. Nel momento di chiudere questa introduzione dedicata ad un’epoca inquieta del territorio fra Romagna e Marche, ci imbattiamo in un tardo viandante, Jean-Louis Vaudoyer, il quale, nel Novecento inoltrato, si ferma

Castelbolognese, La piazza sulla via Emilia, 1834-36, incisione di Bernardino Rosaspina (1797-1882) su disegno di L. Ricciardelli. Rimini, Biblioteca Gambalunghiana.

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J. Pennell, L’Arco di Augusto a Rimini, ill. per H. James, Italian Hours, 1909.

a Rimini, ne riassume le caratteristiche e quindi si dirige verso il mare fornendoci un ultimo, riassuntivo quadro d’insieme ed un ammonimento: “Per le strade della città il vento d’autunno trascinava polvere e foglie. Passando, scorsi la rocca diruta, il ponte e l’arco di trionfo romani. Questi emblemi del passato stimolavano la malinconia; sulla riva del mare trovai di che alimentarla ulteriormente. Da qualche anno ormai Rimini è diventata una ricercata stazione balneare. Nei mesi estivi la spiaggia è affollata ed elegante. Vi hanno costruito alberghi e cabine di legno. Vi si vedono ville, empori e chioschi […] Così è, almeno nei mesi della canicola. Ma io

mi trovavo a Rimini agli inizi d’autunno. La spiaggia era deserta, gli alberghi chiusi, sprangate le cabine, smontati i padiglioni. Le rovine romane e malatestiane impartiscono al cuore lezioni salutari, malgrado le ferite. In questa ‘stazione balneare’ già sconvolta dopo tre settimane d’intemperie, fui colto da una tristezza sterile e senza bellezza, vergognandomi della mia epoca. Cesare e il Malatesta vivono ancora a Rimini, l’uno grazie al suo arco, l’altro al tempio, mentre i viventi lavorano con affanno soltanto per la morte. Sotto le arcate del tempio, il tempo è stato vinto; ma fra questi resti fragili e volgari s’installa un oblio senza grandezza”.

Nella pagina a fianco dall'alto: Norberto Pazzini, Alba adriatica, 1912. Roma, raccolta privata. Rimini, lo Stabilimento balneare (Kursaal) costruito nel 1873, incisione litografica dello stabilimento lit. Giulio Wenk di Bologna. Rimini, raccolta privata.

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II. LUNGO LA COSTA TESTIMONIANZE

Johann G. Seume Poeta e scrittore tedesco, Seume (17631810) ebbe una burrascosa vita militare che lo portò in America e quindi in Russia dove diventò segretario del generale Igelström. Divenuto insegnate a Lipsia, fece vari viaggi, fra i quali uno fino alla Sicilia da cui trasse il vivace volume Spaziergang nach Syrakus, 1802.1803. La traduzione di A. Romagnoli e G. Garbin è tratta da L’Italia a piedi, 1973. Da Bologna, l’antica via Emilia attraversa una regione piana e sempre assai ricca d’acqua fino a Rimini. Soltanto da Bologna a Imola si attraversano cinque o sei fiumi. A destra sono gli Appennini, ancora coperti di neve; il terreno è dovunque grasso e fertile. Chiamerò barocco il mio ingresso a Imola. Arrivai al momento delle arlecchinate del carnevale, di cui già avevo avuto una prima idea a Pordenone. Tutta la città era in maschera, e la popolazione si aggirava per la città in gruppi variopinti. Qua e là se ne stavano seduti signori seri, senza maschera, e gravi matrone a osservare la pazzia scatenata. La mia apparizione do-

vette sembrare a quella gente qualche cosa d’iperboreo: indossavo il mio solito pesante giubbone polacco, portavo sulla schiena uno zaino di foca con sopra una testa di tasso, e avevo in mano un grosso randello. Mascherarsi vuol dire convertire in forme grottesche i caratteristici aspetti della vita. A un tratto, mi trovai preso in mezzo ad un gruppo che mi faceva ogni sorta di salti e di capriole. Le persone serie, non mascherate, ridevano e io ridevo con loro; uno spettacolo così divertente non credo che si possa vedere neanche alla fiera di Lipsia. Improvvisamente, con i più comici contorcimenti mi si mise davanti un bizzarro mascherotto che mi collocò sotto il mento una bacinella da barbiere, che don Chisciotte avrebbe potuto usare come elmo, mentre un altro con la testa di caprone m’assaliva di dietro per fare uso del suo strumento, la siringa da clistere. Immagina la tonante risata di mezza Imola, quando con una giravolta feci rotolare il cerusico armato di clistere, scherzando gli agitai sul muso il mio bastone e mi feci un poco di largo fra la ressa. Debbo aggiungere che per mia disgrazia avevo veramente la barba lunga di tre giorni, e che, a cagione del vino rosso locale a cui non ero abituato, effettivamente mi sentivo costipato. La folla si disperse

L’Arco d’Augusto di Rimini, litografia di Keller Hoven su disegno di Verschaffeld, Mannheim 1800, particolare. Forlì, Raccolte Piancastelli presso la Biblioteca Comunale.

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Viaggiatori stranieri fra Romagna e Marche

B. Rosaspina (17971882), Piazza d'Imola, particolare, incisione su disegno di G. Conti. Rimini, Biblioteca Gambalunghiana.

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ridendo, e un uomo in abiti decenti e senza maschera, a cui chiesi d’una locanda, mi condusse per alcune strade allo “inferno”, numero cinque. Non era davvero un nome consolante, ma ero troppo stanco e non intendevo uscire nuovamente nei miei abiti pontificali in mezzo alla gazzarra allo scopo di trovarmi una locanda migliore, così rimasi al numero cinque dell’Inferno. Dopo aver posato lo zaino, uscii di nuovo fra la folla, e sento l’obbligo di riconoscere che tutte quelle maschere si comportavano, per quanto consentiva la loro qualità, in modo onesto e decente. Non riuscii a liberarmi da un cicerone implacabile che mi aveva interpellato in tre lingue diverse, in tedesco, in francese, in italiano, finché non fui salvato da alcuni

ufficiali francesi con i quali mi recai in un caffè delle vicinanze. Davanti a questo caffè stava una piazza in cui si svolgeva la maggior gazzarra delle maschere che, con o senza musica, correvano in su e in giù in gruppi o in cortei. Mi si avvicinò un imolese, testa ardente di politico fuoco, il quale, dopo aver condotto il discorso su diversi argomenti, presto arrivò al dunque e mi domandò in francese come andassero le cose a Vienna. Naturalmente gli risposi in francese secondo verità: “in perfetta tranquillità”. “On les a bien forcés à coups de bayonnettes à être en repos”, disse egli. “Apparemment,” dissi io. “C’est toujours la meilleure manière de disposer les gens à se conformer à la raison”. “Mais oui”, ribattei, “après en avoir essayé des autres pourvu tute fois, qu’il y ait de la raison e de la justice au fond de l’affaire”, “estce que vous en doutez?” “On ne peut pas répondre à cela en deux mots”. Adesso colui intedeva aprire una discussione e diventava aggressivo. Mi scusai con la mia vecchia formula: “Quando si comincia occorre sempre cominciare dal principio”, e allora ne sarebbe uscito il vecchio: “Iliacos intra muros peccatur et extra”. Era arrivata l’ora della cena e del riposo e ci separammo da buoni amici mentre quello diceva: “Se fosse dipeso da noi due, non ci sarebbe stata la guerra”.Per quanto mi riguarda, io la pensavo proprio allo stesso modo, e con animo tranquillo andai all’Inferno numero cinque, dove feci una bella dormita fino all’alba. Imola non è forse un luogo dove un vescovo può sognare di diventare papa? A Faenza vidi la prima parata militare francese, e a Forlì non ho veduto niente. Non voglio dire che proprio non vi fosse niente da vedere, antiquari e artisti vi trovano molto lavoro. Ma io non avevo voglia né di vecchie, né di nuove guerre, e me ne sono andato diritto all’albergo, l’Hôtel de Naples. Il mio italiano non mi procurò un’accoglienza molto gentile,


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forse perché non particolarmente buono. “Ne porrai-je parler ai maitre de la maison?” domandai burbero, mentre mi toglievo lo zaino. Tutt’a un tratto la gente diventò gentile e fu possibile ottenere qualsiasi cosa. È strano come alcune parole agiscano diversamente secondo che siano pronunciate qua o là. A Ferrara, col mio sacco da viaggio devo essere sembrato molto buffo ad alcuni signori, e m’ero accorto che si divertivano alle mie spalle e ridevano. “Qu’est-ce qu’il y a là, Messieurs?” avevo domandato con voce aspra. “Niente, signore”, era stata la risposta, e avevano ripreso a tenersi a una certa distanza. A Spoleto, una domanda simile avrebbe potuto procurarmi una stilettata. All’Hôtel de Naples trovai due commercianti e due barcaioli: l’oste era un giovialone e fui salutato in un minuto dieci volte con l’appellativo di cittadino, mi dette il

posto d’onore, fece del suo meglio e mi trattò con le vivande più scelte. Le cose non cambiarono quando si apprese che ero tedesco; com’è vero che il primo momento decide del resto! Essendo la serata fredda e tempestosa, ci sedemmo intorno al camino in un circolo di famiglia confidente e cordiale, e ci baloccammo con un bimbetto graziosissimo che, come una mascotte della compagnia, passava dalle ginocchia dell’uno a quelle dell’altro. Fra Forlì e Cesena si trovano i resti dell’antica Forum Pompili e le rovine d’un ponte dall’apparenza antica, ma vidi assai poco per via del tempo orribile. Il ponte sul Savio, subito prima di Cesena, è ritenuto dagli italiani un’opera bellissima; è un’asserzione che però si ode soltanto qui. L’imperversare del tempo m’obbligò a trattenermi a Cesena, pur essendo partito da Forlì e non avendo dunque fatto più di quattro ore di strada.

Veduta di Cesena, incisione di Bernardino Rosaspina (1797-1882) su disegno di F. Pezzini. Rimini, Biblioteca Gambalunghiana.

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Viaggiatori stranieri fra Romagna e Marche

L’albero della Libertà a Cesena nel 1797, disegno di Mauro Guidi nel suo Giornale ms. Cesena, Biblioteca Comunale.

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Qui l’oste mi riservò un’accoglienza dura e fredda, che mi valse una cameretta modestissima nel retro della casa. Del resto nulla da obiettare, ma dopo che abbiamo chiacchierato per un’ora e che io, in un intermezzo della pioggia, me n’ero uscito per vedere la città e entrare in un caffè, trovai al ritorno che le cose mie erano state portate in una bella camera sul davanti della casa. L’ostessa mi dette la spiegazione: tutt’a prima ero stato preso per un francese che venisse alloggiato per conto della municipalità; ora questa da molto tempo aveva preso l’abitudine di non pagare nemmeno un centesimo per gli ospiti che inviava. Mi pregò di non prenderme-

la a male se aveva cercato di cavarsela a buon mercato, e aggiunse che un galantuomo come me era giusto fosse trattato con tutti i riguardi. E così fu davvero. Le ragazze dell’albergo erano graziose e gentili, e sollecite per tutto quel che si può pretendere nei limiti dell’onesto. Arrivò anche un capitano di mare, che mi tenne compagnia raccontandomi le avventure capitategli nelle sue navigazioni mediterranee. Si rammaricava della pace che aveva posto fine ai guadagni del commercio di contrabbando, e queste cose le diceva chiare e tonde. Il conto per un trattamento ottimo fu straordinariamente modesto. Cesena è del resto una città vecchia, assai decaduta, e faceva una meschina figura l’albero della Libertà piantato in mezzo alla semivuota piazza del mercato fra case diroccate. Pio VI deve aver fatto ben poco per la sua città natale; gliene sarebbe venuta maggior gloria che dal palazzo sinistrato, eretto per i suoi immeritevoli nipoti. Prima di Savignano non varcai il Rubicone come Cesare. Probabilmente il calvo padrone del mondo, di ritorno dalle Gallie appena conquistate, fece qui, o poco più vicino al mare, il primo passo per andare a distruggere la singolare libertà della patria. Che strano tipo, questo Giulio Cesare! È di quegli uomini di cui non si riesce a stabilire se meritino più amore o più odio. Ricordo che una volta, trovandomi di fronte a un dubbio morale di tal genere, mi lasciai sfuggire che era stato il più affascinante briccone della storia. Per questa sortita fui li per lì per tirarmi addosso l’accusa di lesa maestà di tutti i monachi. Proprio di recente, qualcuno aveva preteso di mostrarmi il contrario, che cioè Bruto era stato il briccone e Cesare l’uomo più venerabile della terra. Ah, così? Bien vous fasse! Voi si che siete degni d’aver per sovrano Cesare con tutta la sua razza e discendenza, per quanto io non me la sentirei d’assumere la difesa di Giunio Bruto.


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Qui dunque Cesare ed io abbiamo varcato il Rubicone 1802 Qui dunque Cesare ed io abbiamo varcato il Rubicone, ma per il resto non abbiamo niente in comune, se si eccettua che ambedue andavamo a Rimini. A Savignano era giorno di mercato; la piazza brulicava

di gente che mi parve trincasse gagliardamente in onore della nuova coccarda. Domandai a un tale ben vestito d’indicarmi una locanda. Costui mi guardò con sospetto, osservò il mio cappello, e poiché non vide coccarda né davanti né di dietro né di lato, fece una brutta smorfia e si sbrigò di me con la cortese formula: “Andate al diavolo!” Questo fu dunque

La Biblioteca Malatestiana di Cesena, da Ch. Yriarte, Rimini, études sur les lettres et les arts a la cour des Malatesta, Paris 1882.

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Viaggiatori stranieri fra Romagna e Marche Veduta di Cattolica, 1834-36, particolare, incisione di Bernardino Rosaspina (1797-1882) su disegno di R. Trebbi. Rimini, Biblioteca Gambalunghiana.

il rovescio della pagina di Cesena. Così vanno le cose in questi tempi di rivoluzione; per le medesime colpe qui vieni accarezzato e là ingiuriato; fortunato se non accade di peggio. A Rimini ho dormito di certo un sonno più tranquillo del potentissimo Cesare dopo che ebbe passato il Rubicone ed ebbe gettato il dado. Prima della città, il panorama è molto bello. Sulla piazza della Fontana si erge un San Gaudenzio di bronzo, che vi fa una magnifica figura. Anche un papa Paolo, non so quale, ha qui il suo monumento grazie a un acquedotto da lui fatto costruire per i cittadini di Rimini. Io sono dell’avviso che un acquedotto sia dovunque un’opera importante e benefica, e qui, in Italia, poi doppiamente. Quando un papa costruisce un bell’acquedotto fluente, gli si può quasi perdonare d’esser papa. Sull’altra piazza stava l’albero della Libertà col berretto frigio in cima e la scritta “L’union des François et des Cisalpins”. Ma quale unione! Può dirlo il San Bartolomeo del duomo di Milano! 40

Se fossi un viaggiatore ordinato e sistematico, avrei dovuto prendere a destra verso i monti per visitare la felice Repubblica di San Marino, tanto più che ho un debole per le repubbliche, anche per quelle che non sono molto savie. Continuai invece verso Cattolica e Pesaro. A quanto si racconta, gli ariani del concilio di Rimini avevano preso il sopravvento; perciò i vescovi ortodossi si ritirarono per protesta a Cattolica, ed eternarono la loro coraggiosa fuga dando il nome al luogo. Tutta questa storia sta ancora, e ho potuto leggerla, incisa in una grande lapide collocata sopra il portale della chiesa di Cattolica, ma io non mi prendo quasi mai la pena di copiare iscrizioni, specialmente poi quando si tratta di simili ortodossie. A Pesaro, dove m’imbattei nel primo manipolo di soldati papalini, essendo stanchissimo mi rivolsi al primo cittadino che incontrai per chiedergli dove avrei potuto alloggiare. “Da me”, mi rispose. “Benissimo” dissi io, e gli andai dietro. L’uomo portava un grembiule di cuoio e, per dirla con Shakespeare, sembrava un chirurgo di scarpe vecchie. Adesso si rivolse a me


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chiedendomi che cosa volessi mangiare. M’abbandonai completamente alla sua saggezza, ed egli ce la mise tutta per accontentarmi; uscì a far la spesa, cucinò egli stesso e andò a prendere due qualità di vino. Da quella volta m’accadde spesso che l’oste mi si presentasse e mi preparasse una cena patriarcale mentre io davo una mano. A bassa voce egli deplorò che quegli eretici dei francesi si fossero portati via da Pesaro quattro dei quadri più belli. Il mattino seguente, mentre facevo colazione seduto al caffè, fui assediato da un nugolo di vetturini che non mi dettero pace finché non accettai i servizi di uno di loro fino a Fano. Questo vetturino era un perfetto cattolico ortodosso che si segnava davanti a ogni croce, mormorava giaculatorie, recitava la messa, e per il resto bestemmiava come un lanzichenecco. Soprattutto era caratteristico il suo canto. Non ho udito mai espressioni di più totale abbrutimento innestate su una fede asso-

lutamente priva di luce. Se fossi dannato a udir spesso simili melodie, mi convertirei al materialismo, perché non è possibile pensare che per questi esseri esista una sopravvivenza dell’anima. Da Pesaro, ma soprattutto incominciando da Fano, la regione si fa via via più montuosa, piena di burroni e di valli e vallette, sicché è agevole capire come i cartaginesi, stranieri a questi luoghi, vi si smarrissero, e che batterli diventasse per i romani un gioco da bambini. Il Metauro, come quasi tutti i fiumi che scendono dall’Appennino, è fangoso e, come il Rubicone, non ha per niente un aspetto classico. Fra Fano e Senigallia mi fu indicata la montagna sulla quale sarebbe stato sconfitto Asdrubale. Non posso decidere al riguardo perché non avevo presente la storia della battaglia quale viene narrata dagli autori antichi. Di certo so questo, che fu combattuta da queste parti e sul fiume Metauro, e che con Polibio e Livio alla mano si dovreb-

F. Mazzuoli, Veduta di Fano, Firenze, Biblioteca Nazionale.

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be scoprire senza gravi difficoltà il luogo esatto. Ma poiché con ogni probabilità non comanderò eserciti in Italia, non mi preoccupai di tale ricerca; il cielo si abbia in pace Asdrubale e i consoli romani. Lady Morgan Uno scenario di crescente bellezza 1820 Lady Sidney Owenson Morgan (17831821), scrittrice di origine irlandese, autrice di un volume su Salvator Rosa e la sua arte. Negli anni 1819-1820 compì un viaggio in Italia dal quale nacque il celebre volume Italy, apparso a Londra nel 1821 e contemporaneamente in francese a Bruxelles.

Palazzi e chiese di Pesaro, da G. Stefani, Pianta di Pesaro.

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Superata Senigallia, la strada prosegue lungo la costa. La campagna appare a tratti selvaggia, ma in generale è alquanto godibile grazie alla bellezza del litorale, alla lontana barriera degli Appennini e all’amenità dello scenario. Sebbene parzialmente in rovina e mal tenuta, vista in una bella giornata di sole di contro all’azzurro del mare, Fano si presenta come la tipica città italiana grazie alla sua posizione non lontana dal Metauro, fiume legato alle memorie classiche, alle sue dirute fontane, alla sua statua tutelare e al ruinoso arco di trionfo, e così ripaga ampiamente il viaggiatore che fa quello che pochi viaggiatori fanno: scende cioè di carrozza, passeggia lungo le strade e visita la sua biblioteca. Un tempo Fano era nota per il superbo teatro che si diceva fosse il più bello d’Italia. Ad una posta di distanza da Fano, fra il mare e le floride colline che accompagnano la costa, sorge Pesaro, una delle più antiche città dell’Urbinate. Sebbene abbia strade abbastanza spaziose ed una di esse dominata esclusivamente dagli imponenti, torvi palazzi della nobiltà, Pesaro mantiene un’aria provinciale.


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Essendo giorno di fiera, la piazza del mercato era piena di contadini vestiti a festa i quali conferivano al luogo un aspetto gaio e movimentato che non gli era comune. Infatti le strade erano silenziose e deserte e molte delle case ci sembrarono disabitate se non, visto il loro stato, inabitabili. Nel quarto anno della Repubblica francese, Pesaro ha ospitato il quartier generale dell’armata d’Italia e per un certo periodo è stata residenza del Generale Bonaparte e del suo stato maggiore. La città annovera naturalmente le sue chiese, i palazzi, il teatro e poi dipinti, raccolte di antichità, l’aristocrazia e il “popolaccio”. Non avemmo l’opportunità di esprimere un giudizio sulla buona società pesarese. La famiglia Perticari che avrebbe dovuto ospitarci era a Roma, per cui ci trattenemmo soltanto una giornata. Pesaro ha dato il proprio contributo al buon nome dell’Italia con il Passeri, filologo e naturalista, il Perticari e il “maestro” Rossini! Da Pesaro la strada procede per Bologna attraverso uno scenario di crescente bellezza e civiltà: l’antica impronta delle

sempre comparativamente libere legazioni e la moderna presenza del progresso francese sono ovunque visibili. Gli immediati dintorni di Pesaro sono incantevoli. Ad ogni passo compariva la prospera visione rurale dell’Inghilterra sotto la luce smagliante del cielo italiano e per noi l’illusione venne resa totale dalla presenza di una graziosa ferme orné che ci colpì a destra della strada, fra Pesaro e Cattolica, detta La Pantalona. Questa elegante fattoria si trova a sommo di un dolce declivio di fianco alla strada. Sul prato di un verde smagliante, fiancheggiato da filari di piante, si sviluppano le candide mura, le verande verdognole e i padiglioni drappeggi di una residenza di campagna con cespi di fiori e una sistemazione ornamentale del giardino che è raro vedere in Italia. Mentre procedevamo sulla destra della strada, intenti ad osservare questa elegante dimora rurale, fummo sorpassati velocemente da una carrozza inglese e da alcuni accompagnatori. La carrozza superò il cancello e una signora scese alla porta di casa: era la Regina d’Inghilterra e questa era la sua residenza a Pesaro che viene spesso mentovata.

L’Arco d’Augusto di Rimini, incisione di Giovan Battista Piranesi (1720-1778), da Antichità romane, Roma 1748. Rimini, raccolta privata.

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viaGGiaTori STranieri fra roMaGna e MarcHe

Il ponte di Augusto e di Tiberio a Rimini, incisione di giovan Battista Piranesi (17201778), da Antichità romane, roma 1748. rimini, raccolta privata.

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la cittadina di cattolica deriva il nome dall’essere stata il luogo di rifugio di prelati ortodossi i quali, al tempo del concilio di rimini, si divisero dagli ariani, o vescovi eterodossi. è oggi poco più che un villaggio e, nel punto in cui vi si entra provenendo da Pesaro, finisce il Ducato di Urbino e comincia la romagna con le sponde dell’adriatico che accompagnano di nuovo la strada per rimini. rimini può vantare un’ottima fama storica e letteraria, da Dante a Pellico. sede del dominio feudale di coraggiosi condottieri, i malatesta, porta tutti i segni dell’antichità e dell’importanza militare e strategica che aveva al tempo dei romani e nel medioevo. le due vie consolari, l’emilia e la flaminia, hanno termine alle sue porte. l’arco trionfale di augusto che adorna la Porta romana e il ponte di marmo, portato a termine da tiberio, sono entrambi dei monumenti di grande interesse classico. ad essi si aggiungono i segni del potere e della ricchezza dei grandi feudatari i quali, in italia, succedettero ai dittatori e agli imperatori. i malatesta, signori di rimini, erano dei principi irrequieti. Quando non erano presi dalla guerra e dai saccheggi si dedica-

vano a costruire e ad apportare migliorie in patria. le numerose chiese e gli edifici in marmo d’istria, in rovina o ben conservati, che accompagnano le lunghe e diritte strade di rimini, sono stati in gran parte costruiti da loro. la vecchia chiesa sepolcrale di san francesco, dove ci sono i cenotafi dei malatesta, risale al quindicesimo secolo ed è uno degli edifici più antichi e più interessanti di rimini. si trova vicino alla rocca e alla cittadella costruite nel 1446 da sigismondo malatesta. a questo personaggio, un famoso storico e architetto di rimini, valturio, attribuisce l’invenzione delle bombe e dei cannoni e l’aspetto corrusco della sua grande e formidabile fortezza gotica attesta ampiamente la sua abilità in fatto di architettura militare. Questo “gran capitano” era famoso anche per altre ragioni: era una specie di filosofo, uno di quelli che la natura talvolta scodella e la sua eresia, riguardo i dogmi prevalenti, ebbe l’onore della scomunica da parte di Pio ii. Dopo aver rivolto le sue argomentazioni contro la chiesa, il malatesta le rivolse contro le sue armi e, per vendicarsi dei fulmini che gli aveva scagliato contro il Papa, rivolse contro le truppe pontificie i suoi cannoni


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e le sue bombe. L’impresa fu comunque senza successo. Messosi al servizio di Venezia, costrinse Sparta e altri luoghi della Morea a prostrarsi agli orgogliosi mercanti dell’Adriatico. Questa razza forte e coraggiosa di “teste calde” col tempo cominciò a degenerare, diventando meno ardita e più corrotta. L’ultimo discendente fu un monaco dell’ordine dei Minoriti che, a Palermo, pubblicò nel 1665 un dizionario siciliano. La bella, antica Rocca di Rimini, dall’aspetto romantico (sebbene sia oggi una caserma papalina), non fu la dimora dove la Francesca di Dante trascorse il “tempo de’ dolci sospiri”. Non fu la sede di quella raffinata fragilità che si lascia dietro, a grande distanza, le pagine di Goethe e di Rousseau con tutta i loro trucchi sentimentali. La voluttuosa delicatezza con cui Dante ha trattato l’amore di Paolo

Malatesta e di Francesca da Rimini è stata spesso imitata, ma mai eguagliata e tanto meno sorpassata. È il capolavoro di uno di quei geni che non appartengono ad un’età precisa. Il passo, nel quinto canto dell’Inferno, è compreso in sei brevi versi, eppure essi servono come stimolo ai passi impazienti del viaggiatore che giunge a Rimini e conferiscono alla città un interesse molto maggiore di quello dell’arco di Augusto o del ponte di Tiberio. L’amante dello sfortunato, gagliardo Paolo sembra meno nota, o in ogni caso la sua memoria è meno popolare a Rimini, di quella della colta amante di Sigismondo Pandolfo Malatesta, Donna Isotta, la cui immagine si trova nella Biblioteca di Bologna e il cui busto, con quello del suo fiero amante, riempie un medaglione ornamentale della Rocca. Ma sia qui che a Bologna, ella appare brutta, anche

San Francesco. Rimini (Tempio Malatestiano), incisione lit. di G. Moore su disegno di D. Quaglio, da The ecclesiatical architecture of Italy, Londra, Day and Haghe, 1856.

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Ad una decina di miglia dalla “cortese città di Rimini”, a destra della strada, si leva una rupe imponente, nuda, perpendicolare. Un tempo veniva detta Monte Titano. Oggi è il luogo dove si trova l’unica repubblica che rimane in Italia, la Repubblica di San Marino! M. Valéry Vita culturale delle città della costa 1828 M. Valéry è lo pseudonimo con cui Antoine-Claude Pasquin (1789-1847) pubblica nel 1835 il suo Voyage historique, littéraire et artistique en Italie, dopo aver effettuato ben tre viaggi nel nostro paese nel 1826, nel 1827 e nel 1828. Bibliotecario reale a Versailles e al Trianon, Pasquin è personaggio pieno di interessi e le sue rassegne dell’eredità culturale delle città italiane sono fra le più esaustive e puntuali.

Composizione fantastica con la raffigurazione di medaglie per Isotta e per Sigismondo, incisione tratta da C. G. Fossati, Le Temple de Malateste de Rimini architecture de Leon Baptiste Alberti de Florence, Foligno 1794

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se tutti la ricordano, anche i popolani, per aver fatto del bene e aver costruito degli splendidi edifici. Del Palazzo signorile dei Malatesta in cui Pellico colloca la scena della tragedia non rimane traccia: al suo posto c’è il Collegio delle Celibate! A Pesaro e a Rimini notammo che la polizia s’era fatta più sospettosa e impertinente. Non fummo soltanto trattenuti più del necessario dai doganieri papali in entrambe le città, ma in questa seconda dovemmo pagare per la registrazione dei nostri dati personali. Questo avviene in tutte le città italiane, ma solo negli Stati pontifici s’impone una tassa.

Si entra a Rimini passando sopra un ponte di marmo costruito al tempo di Augusto e di Tiberio. Dopo più di diciotto secoli, splende ancora in tutto il suo fulgore. Si scorge su questo ponte il lituus, o scettro augurale, uno degli attributi del potere degli imperatori, tutti grandi pontefici come lo era stato Cesare. I papi hanno ereditato questo duplice potere: il pontificato e la sovranità sembrano inseparabili a Roma e si direbbe che la città eterna necessiti di un potere che risale al cielo. Alla porta orientale, l’arco di Augusto, altra magnifica testimonianza della grandiosità romana, consacra la riconoscenza degli abitanti per il restauro delle più famose strade italiane. La chiesa di San Francesco è il capolavoro del grande Leon Battista Alberti, creatore e legislatore dell’architettura moderna. Poeta, pittore, scultore, geometra, erudito, esperto di leggi, buon scrittore, musicista, è uno degli uomini con i quali la natura è


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stata maggiormente prodiga. Alberti incontrò un principe degno di impiegare il suo genio: Sigismondo Pandolfo Malatesta, signore di Rimini, guerriero e avventuriero del XV secolo, e tuttavia amico dei poeti, dei filosofi e dei saggi con i quali soleva intrattenersi con diletto. Stabilì che dopo la morte i loro sarcofagi, con quelli dei suoi capitani, sarebbero diventati il nobile ornamento del tempio che stava creando, idea grande e generosa che sarebbe stata imitata a Westminster, volta in parodia nel nostro Panthéon e di cui l’Italia è la prima a potersi vantare. L’effetto di questi sarcofagi ispirati al gusto antico, posti all’esterno della chiesa sotto gli archi separati da corone, è

meravigliosamente semplice. Mentre quasi ovunque gli antichi trionfano sui moderni, a Rimini hanno la peggio e l’arco di Augusto e anche il ponte devono cedere la palma al tempio dei Malatesta. L’interno mantiene l’aspetto e la struttura gotica ed è pieno delle memorie dei Malatesta, di questa razza di eroi e di bastardi in cui l’eredità passava quasi sempre in mano ai figli illegittimi. Pandolfo vi fece costruire diversi mausolei, uno dei quali consacrato al fratello morto in odore di santità, con questa iscrizione: “Olim principi, nunc protectori”; un altro alle donne illustri della famiglia: “Malatestorum domus heroïdum sepulchrum”; infine uno

J.B. Theil, Piazza di S. Antonio Abate e il gioco del pallone a Fano, Fano, Biblioteca Federiciana.

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La piazza di Pesaro con il Palazzo Ducale, acquerello di Romolo Liverani (1809-1872). Pesaro, raccolta privata.

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per Isotta, la donna che aveva amata più di tutte, principessa piena di grazia, intrepida e colta. Le opere in bronzo della cappella del Sacramento sono attribuite a Ghiberti; tre bassorilievi sono ritenuti greci dall’abate Barthélemy; la vecchia sibilla e il sarcofago dei Malatesta nella cappella dell’Acqua sono opere superbe. Le insegne dei Malatesta sono costituite da una rosa e da un elefante. La moltiplicazione di questo emblema e delle lettere unite assieme di Sigismondo e di Isotta conferiscono alla chiesa di San Francesco un’aria vagamente orientale e poetica. Sulla piazza del mercato c’è un piedistallo il quale, secondo un’iscrizione quasi illeggibile, nonché di una tradizione popolare assai improbabile, servì a Cesare per

arringare le truppe dopo il passaggio del Rubicone. A qualche passo di distanza è stato costruito un tabernacolo al posto di una colonna nel luogo in cui, come dice l’iscrizione, Sant’Antonio aveva predicato. Strana abbinata fra il grande condottiero di Roma e il nome del suo maestro di cavalleria! Nei pressi del canale c’è un’altra cappella dedicata a Sant’Antonio nel posto in cui, non riuscendo a farsi ascoltare dagli abitanti di Rimini, aveva predicato ai pesci. La rocca, bella costruzione militare dei Malatesta di cui porta il nome, domina la città e scopre la vista del mare. La rosa e l’elefante che vi si scorgono ancora non valgono più come emblemi per una fortezza che è diventata una prigione.


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Ho cercato le tracce della casa di Francesca da Rimini, ma sembra che fosse dove oggi sorge il palazzo Ruffo. Non manca chi situa la scena commovente di Francesca e del suo amante a Pesaro, per cui fui costretto ad un’emozione condizionale. Fondata nel 1617 da un lascito del giureconsulto Gambalunga, la biblioteca di Rimini conta trentamila volumi. Con l’eccezione di un papiro commentato da Marini e di alcuni manoscritti classici, tutti gli altri manoscritti sono relativi alla storia della città. I sessantatre volumi delle Allegationes, lasciati dal saggio cardinale Garampi, che comprendono gli anni dal 1756 al 1775, invece di fornire informazioni sulle sue missioni presso le corti europee, sono una raccolta di docu-

menti teologici e giuridici, inutili e privi d’interesse. A poche miglia da Rimini si trova la rocca di San Leo dove venne racchiuso e dove morì Cagliostro. Pesaro mi ha lasciato piacevoli ricordi. Il mio gentile cicerone fu l’anziano e degno gonfaloniere, il conte Cassai, traduttore dei primi libri della Farsalia, lavoro lodato dal Monti che assicura all’Italia un abile successore di Annibal Caro e il cui salotto, abbellito dai busti di Perticari e di Rossini, nativo di Pesaro, è una graziosa sala da spettacolo. La cittadina di Pesaro, che si è sempre distinta per i talenti che ha generato, si onora così, come si vede, di nomi giustamente e diversamente celebri ai quali si deve aggiungere quelli del conte

Il ‘salone metaurense’ nel Palazzo Ducale di Pesaro, acquerello di Romolo Liverani (1809-1872). Pesaro, raccolta privata.

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Giovanni Bellini (1430/35-1516), L’incoronazione della Vergine, c. 1475. Pesaro, Pinacoteca Civica, dalla chiesa di San Francesco di Pesaro.

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Paoli, uno dei primi chimici d’Italia, del marchese Petrucci, competente naturalista, del marchese Antaldo degli Antaldi, che sta preparando un commentario di Catullo, del compositore Vaccai e del conte Mamiani della Rovere, autore di eleganti poesie e di approfondite ricerche sull’antica filosofia italiana. Il grande salone del palazzo degli antichi duchi di Urbino, occupato dal legato, attesta ancora la magnificenza quasi regale dei Della Rovere. Dirimpetto, una vasta costruzione occupata da botteghe era un tempo la casa dei paggi. La corte dei duchi Della Rovere divenne nel XVI secolo uno di quei ritrovi letterari e poetici che brillavano in Italia. Castiglione l’aveva proposta come modello facendone lo scenario del suo Cortegiano. L’Ariosto l’aveva celebrata come il rifugio delle Muse; il Tasso poco tempo dopo le prime rappresentazioni dell’Aminta a Ferrara, l’aveva letta a Pesaro quando era stato chiamato dalla principessa di Urbino, Lucrezia d’Este. Per lei Tasso compose un bel sonetto, l’elogio più delicato della bellezza muliebre a trentanove anni, l’età di Lucrezia. In mezzo all’orto del conte Odoardo Machirelli, uomo colto e brillante, ho visitato la celebre casetta, divenuta abitazione del giardiniere, dove avevano abitato Bernardo Tasso e suo figlio. Qui, il primo compose il suo Amadigi che trascrisse in bella copia Torquato bambino, poema ampio e bello che sarebbe più conosciuto se non ci fosse stata la Gerusalemme. Il fasto e i piaceri di queste piccole corti, molto graditi senza dubbio alle dame, ai poeti, ai musicisti, agli artisti e alle belle menti del tempo, sembrano tuttavia essere piaciuti meno ai sudditi. Si è visto infatti che alla morte di Guidobaldo, uno dei tre duchi Della Rovere, Castiglione era stato inviato in missione per prevenire una sollevazione popolare che ci si aspettava. Diversi quadri dei grandi maestri, una volta a Pesaro, non ci sono più, tuttavia que-

sta città sembra aver ottenuto in compenso alcuni vantaggi materiali grazie all’amministrazione liberale del conte Cassi, e allo spirito municipalistico italiano: basti pensare alla piacevole passeggiata del belvedere San Benedetto che riunisce il giardino botanico e il museo lapideo. Nella chiesa dei Serviti si può ammirare la Vergine in trono, con ai lati un vescovo, San Girolamo e Santa Caterina. Alle ginocchia ci sono la marchesa Ginevra Sforza, vedova di Giovanni, e suo figlio bambino Costante II, signore di Pesaro. Il quadro, datato 1513, è di Giovanni da Cotignola ed è considerato, malgrado una certa freddezza, una delle opere migliori nello stile antico. Il colore è gradevole, la prospettiva superba, i volti nobili e i drappeggi impeccabili. San Francesco conserva uno dei più celebri dipinti di Giovanni Bellini e l’oggetto più prezioso delle chiese di Pesaro, il Cristo seduto fra i santi che incorona la Vergine. La cattedrale non ha nulla di notevole. San Cassiano possiede una bella Santa Barbara, opera giovanile di Simone da Pesaro. La chiesa di San Giovanni dei Riformati di Bartolomeo Genga, il celebre architetto e ingegnere del duca di Urbino, ha sull’altare principale un quadro del Guercino della prima e migliore maniera, anche se è stato deteriorato dal tempo e dai restauratori. Nel chiesa del Santo Sacramento c’è una Cena, capolavoro di Nicola da Pesaro, prima che rovinasse la sua arte. La biblioteca, il museo e il medagliere del competente antiquario Olivieri sono il dono che ha fatto alla sua città natale. Sembra che egli abbia temuto l’eccessivo accrescimento della biblioteca, composta di quindicimila volumi, perché ha vietato di superare la somma di quaranta scudi che le ha destinato annualmente. Questa biblioteca è famosa soprattutto per alcuni preziosi manoscritti: le varianti sulle Stanze del Poliziano; le correzioni e le


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Pietro Perugino (c. 1450–1523), Pietà, lunetta della pala riprodotta alla pagina seguente. Fano, Santa Maria Nuova.

Nella pagina a fianco: Pietro Perugino (c. 1450–1523), Madonna con il Bambino e sei santi, 1497. Fano, Santa Maria Nuova.

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varianti scritte dalla mano del Tasso stesso su un esemplare delle Rime; le sue note sul Convivio di Dante; molte delle sue lettere inedite; alcune poesie di Serafino dell’Aquila improvvisatore rinomato del XV secolo, ora dimenticato; la storia in parte inedita dei giureconsulti di Tommaso Diplovatazio, giureconsulto greco morto nel 1541, gonfaloniere di Pesaro; alcuni scritti inediti del suo contemporaneo e amico, il celebre Pandolfo Collenuccio di Pesaro, letterato, storico, poeta drammatico, strangolato in prigione per ordine di Giovanni Sforza come agente di Cesare Borgia. L’edizione di Dante, annotata dal Tasso durante il suo soggiorno a Pesaro e citata nella biblioteca Olivieri, non c’è più e sembra perduta. Nelle vicinanze di Pesaro c’è il monte San Bartolo, l’antico Accius, che deriva il nome dal poeta tragico L. Accius, o Attius, amico di Cicerone, nato a Pesaro, morto vecchissimo e sepolto, secondo la leggenda, in questo monte. Ho visitato a due miglia da Pesaro, sul pendio del monte San Bartolo, l’Imperiale, già villa dei duchi di Urbino e diventata oggi grande podere del cardinale

Albani. Il degrado di questa splendida villa, un tempo decorata dalle pitture del Dossi e di Raffaellino del Colle, che il padre del Tasso indicava come uno dei più bei soggiorni che un principe potesse avere in Italia, è cominciato nel secolo scorso, quando servì da ritiro dei Gesuiti portoghesi cacciati dal marchese di Pombal. La scalinata di marmo, il ricco parquet, l’eleganza delle colonne e dei caminetti, la galleria, le insegne dei Della Rovere attestano ancora la sua antica magnificenza. Dalla terrazza l’occhio spazia sulla deliziosa valle in mezzo alla quale serpeggia il Foglia e scopre il mare. Il giardino riservato ai principi è ora incolto, vi si legge un’iscrizione grossolana, poco degna della corte cavalleresca dei duchi di Urbino: “A donne, a oche, a capre / Questo giardin non s’apre”. Fano, l’antica Fanum Fortunae, è oggi solo una cittadina deserta. Al centro di una fontana si trova una statua moderna della Fortuna rappresentata da una giovane donna nuda e in piedi, con un velo troppo grande per la sua taglia. L’arco di trionfo di Augusto è stato sapientemente illustrato dall’ingegner Mancini.


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In città ci sono alcune pitture notevoli. Nella chiesa di Santa Maria Nuova, una Pietà che si trova al di sopra una tavola del Perugino è stata attribuita, anche se con poche probabilità, a Raffaello. La Visitazione di Santa Elisabetta è di suo padre, l’oscuro e razionale Giovanni Santi. La chiesa di San Pietro dei Filippini, molto graziosa, ha un’Annunciazione in pessimo stato del Guido; un Miracolo del santo, capolavoro del suo abile e vanitoso emulo Simone da Pesaro. La chiesa di San Patergnano offre un bellissimo Sposalizio del Guercino. Il rinomato David del Domenichino si trova ora al collegio Nolfi, nella cattedrale gli affreschi della cappella dei Santi sono del Domenichino e un ritratto su ardesia passa per essere di Van Dyck. Il famoso teatro, costruito dall’architetto Torelli, fanese, è forse il più antico dei grandi teatri moderni.

Il pensiero scientifico che viene stampato in Italia è talmente diffuso che, perfino in questa cittadina di Fano, circola un giornale di medicina, chirurgia e di Scienze affini intitolato “Il Raccoglitore”, redatto dai dottori Luigi Malagodi e Giulio Govoni, allievi dell’Università di Bologna. Fano sarebbe da noi una semplice sottoprefettura e non penso che la nostra stampa dipartimentale possa farsi onore di una simile pubblicazione. Ad alcune miglia sulla montagna si sono trovate ossa d’elefante, residui probabilmente degli sconvolgimenti del pianeta, ma che la gente considera resti dell’armata di Asdrubale, disfatta e passata per le armi nei pressi del Metauro, in una di quelle battaglie che decidono le sorti degli imperi.

Pietro Santi (14351494), La Visitazione, Fano, Santa Maria Nuova.

R. Liverani (18091872), Veduta di Gradara, 1859, Forlì, raccolte Piancastelli presso la Biblioteca Comunale.

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Viaggiatori stranieri fra Romagna e Marche R. Liverani, Veduta interna di Gradara. Forlì, Biblioteca Comunale.

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James Fenimore Cooper Un castello alla Radcliffe 1830

Italia dal 1828 al 1830, paese al quale dedicò una lunga relazione, Gleanings of Europe. Italy, 1838.

Il padre del romanzo d’avventure e della tradizione pionieristica americana, J. Fenimore Cooper (1779-1851) venne nominato console a Lione nel 1826 e in seguito viaggiò a lungo con la famiglia in Europa dove i suoi scritti erano popolari. Fu in

Trascorremmo la notte a Fano, una cittadina di diverse migliaia di anime, nella quale si trovano alcune importanti testimonianze romane, anche se dell’ultimo periodo dell’impero. Il mattino successivo ci siamo recati a Cattolica, una località piccola e in-


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significante, dove abbiamo fatto colazione. Siamo passati per Pesaro, località di maggiore importanza, senza fermarci. Nei pressi di Cattolica abbiamo scorto le rovine di un castello di notevole imponenza che un tempo era appartenuto ai duchi di Urbino e che tuttora, sono convinto, viene adibito a fortezza dal papa. Era una costruzione stupefacente per l’Italia, dove è difficile trovarne di questo genere. Si legge di castelli con il fossato nel cuore degli Appennini nei romanzi della Radcliffe, ma non ho mai visto costruzioni che corrispondano a codeste descrizioni. Può darsi che ce ne siano, ma non mi ci sono mai imbattuto. Con l’eccezione di Castel Guelfo, vicino a Modena, e dei fortini e delle cittadelle, non ricordo di aver visto un edificio con fossato in questo paese. Alcuni castelli che si trovano sulle alture hanno un carattere tipicamente pittoresco, è vero, come ad esempio quello di Ischia, ma nel complesso

posso dire che pochi paesi in Europa hanno così pochi castelli come l’Italia. I romani non erano usi costruire dei castelli, un genere di costruzioni in auge nel medioevo, e nei periodi successivi ci si è ispirati alla tradizione classica. In ogni caso, dopo aver trascorso quasi due anni in Italia e averla percorsa da Nizza a Napoli e da Napoli sino qui, castelli come quelli dei romanzi non ne ho visti […] Questa mattina, camminando dopo essere scesi dalla carrozza, ci siamo divertiti per diverse ore sulla spiaggia. Mi sono accorto di qual genere di giramondo eravamo diventati, allorché ho visto che i bambini, i quali avevano raccolto conchiglie sulle coste americane, sulle spiagge del Mare del Nord, su quelle del Mediterraneo, si divertivano ora a farlo sulle sponde dell’Adriatico. Abbiamo lasciato il ducato di Urbino e siamo entrati in Romagna nei pressi di Cattolica.

Richard Wilson (17131782), Il ponte romano di Rimini, olio su tela, c. 1757, Rimini, Museo della città.

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Viaggiatori stranieri fra Romagna e Marche G. Dorè, Paolo e Francesca, ill. per la Divina Commedia, Milano, Sonzogno, s.d.

Henri Decaisne (17991852), Paolo e Francesca, incisione di Alophe, 1841. Rimini, raccolta privata.

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Lo scenario è andato migliorando mentre procedevamo, con le montagne che si avvicinavano sempre più alla costa e il primo piano che si faceva verde e ondulato. Avevamo il mare costantemente sulla destra e non perdevamo occasione per girovagare sulla spiaggia. Le occupazioni della giornata erano agevoli, dato che le città erano a breve distanza l’una dall’altra e ciò che rendeva più gradevole questa parte del viaggio era l’assenza di altri veicoli. La seconda notte dopo Ancona abbiamo dormito a Rimini. In questa città la via Emilia e la Flaminia si uniscono. Noi stessi avevamo percorso gran parte della distanza che ci separava da Roma sulla strada che collegava la capitale del mondo con la Gallia Cisalpina. Qui c’è un arco in onore di Cesare ed un ponte altrettanto antico. C’è anche una tribuna dalla quale si dice che Cesare avesse arringato la folla dopo aver superato il Rubicone. A Rimini ci capitò di assistere ad una cerimonia alla quale non avevamo mai assistito durante la nostra permanenza biennale in Italia. C’era stata una lunga siccità e

avevano organizzato una processione alla quale partecipavano i contadini dei luoghi vicini per implorare l’avvento della pioggia. La processione era preceduta da una Madonna famosa e coloro che la seguivano davano segni di grande fede e devozione. Probabilmente non c’è una gran differenza fra queste preghiere e quelle che si dicono nelle nostre chiese per ottenere favori analoghi, sebbene le formalità osservate in questa occasione fossero rivolte in modo particolare ai sensi. Mi divertivo ad osservare come sopra gli Appennini le nubi si fossero fatte scure e minacciose e come la processione fosse cominciata sotto i migliori auspici: eppure non piovve! Non lontano da Rimini c’è un monte molto alto che si presenta isolato rispetto alla catena appenninica. È di forma irregolare e in vetta ha una piccola città, mentre sui declivi appare molto più popoloso e coltivato di quanto in genere accade sulle montagne. Si tratta di San Marino, la più antica repubblica del mondo cristiano […] Il fiume che passa comunemente per il Rubicone è un fiumiciattolo che non oppose a Cesare alcun ostacolo, che non fosse l’interdizione politica, visto che lo si poteva guadare a piedi. Il giorno in cui lasciammo Rimini, facemmo colazione a Cesena. Questa è terra dei Malatesta e il luogo presenta alcune testimonianze medievali che sono in buone condizioni. Ci eravamo ormai allontanati dal mare e, sebbene fossimo ancora in Romagna, ci eravamo addentrati nella grande pianura lombarda. Thomas Roscoe Rimini e la storia di Paolo e Francesca 1831 Thomas Roscoe (1791-18719 scrittore, giornalista, redattore di guide e traduttore britannico. Ottimo conoscitore della cultura italiana, tradusse in inglese opere di Cellini, Pellico e i sei volume della storia


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pittorica di Luigi Lanzi. Particolare fortuna arrise ai cinque volumi della serie The Tourist in Italy apparsi fra il 1830 e il 1833. Rimini, o Arimino, l’Ariminum dei romani, è un luogo di grande antichità. Vuole la tradizione che le sue origini risalgano ai tempi di Ercole. Qui termina la via Flaminia che si congiunge alla via Emilia. L’opera di Augusto, il grande costruttore di strade in Italia, è visibile nel magnifico ponte attraverso il quale il viaggiatore fa il suo ingresso in città. Con le sue tre grandi arcate, il ponte, costruito completamente con possenti blocchi di candido marmo, è uno dei monumenti perfetti dell’età augustea. La proporzione degli archi è quella raccomandata da Palladio. Dall’iscrizione ancora leggibile, si apprende che l’opera venne completata al tempo di Tiberio. Rimini offre anche altre antiche testimonianze che attraggono il viaggiatore: l’arco trionfale ad un fornice eretto in onore di Augusto e le rovine di un anfiteatro nel giardino dei Cappuccini. Ma Rimini è ancor più interessante per gli amanti della letteratura italiana poiché è strettamente legata alla tragica morte di Francesca da Polenta e di Paolo Malatesta che costituisce il tema di uno degli episodi più affascinanti dell’Inferno di Dante. Sarà qui sufficiente ricordare al lettore che Gianciotto Malatesta, coniugato con Francesca da Polenta, uccise lei e suo fratello Paolo sospettando che tra i due ci fosse un legame illecito. Poche parole dedicate al passo dantesco non dispiaceranno al lettore. I Malatesta erano signori di Verucchio, un piccolo castello vicino a Rimini che era stato donato loro dalla città come ringraziamento per l’impegno profuso da codesta famiglia in difesa di Rimini. L’evento fece sì che i Malatesta fossero tenuti in grande considerazione. Il capostipite della famiglia, Malatesta il Vecchio, aveva sempre dimostrato grande talento ed era considerato il capo dei guelfi in quella parte d’Italia. 60

Egli comandava la lega guelfa quando venne sconfitta da Guido da Montefeltro, condottiero ghibellino. Ma alla fine, dopo vari tentativi, riuscì a diventare signore di Rimini prendendo a tradimento e assassinando Montagna de’ Parcità, capo dei ghibellini. Malatesta il Vecchio si sposò tre volte. Dalla prima moglie ebbe Malatesta dall’Occhio, così detto perché aveva un occhio solo; dalla seconda nacquero Giovanni e Paolo; dalla terza Ramberto che non rientra nella nostra storia. Giovanni era zoppo, e questo gli procurò il soprannome di Ciotto, parola che, unita al nome di battesimo che in dialetto suonava Zan o Gian, forma il nome Zanciotto o Gianciotto, talvolta cambiato in Lanciotto. Paolo, al contrario, doveva essere di bell’aspetto, tanto è vero che era detto Paolo il Bello. Giovanni aveva tre figli, avuti probabilmente dalla moglie Francesca; anche Paolo era ammogliato, poiché da lui discesero i conti di Ghiazzolo. Guido da Polenta, padre di Francesca, era signore di Ravenna ed era guelfo. Aveva fatto di tutto per diventare padrone della città cacciandone le due potenti famiglie ghibelline, i Traversari e gli Atanagi. C’era riuscito con l’aiuto dei Malatesta con i quali aveva stretto una solida alleanza. Dopo la morte di Francesca, i due casati continuarono ad aiutarsi a vicenda, anche se le persone più strettamente coinvolte nella vicenda sembra che non avessero più rapporti. La storia di queste due famiglie è una sequela ininterrotta di assassini e di tradimenti. Il conte di Ghiazzolo attentò alla vita di Malatesta dall’Occhio che era diventato signore di Rimini dopo Malatesta il Vecchio. I Malatesta aiutarono i due parenti Guido e Rinaldo da Polenta a impadronirsi di Ravenna ma poi uccisero Rinaldo che ne era diventato arcivescovo. Per questo Dante, sebbene fosse ghibellino, venne accolto da Guido da Polenta, il cui odio per i Malatesta trovò un alleato nei sentimenti del poeta che non perde occasione per accusarli di infamia. Così, per prima


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A pittoresque Tour of Italy, Bridge of Augustus…et distant town of San Marino, incisione di J. Landseer da un disegno di J Hackewill, in A pittoresque Tour of Italy…, Londra 1817.

cosa parla dei due Malatesta, il Vecchio e il dall’Occhio, come “E ‘l mastin vecchio e ‘l nuovo da Verucchio” (Inferno, XXVII, 46), e poi rammenta il tradimento del fellone con un occhio solo che uccise i “due miglior da Fano” (Inferno, XXVIII, 81). I commentatori di Dante hanno confuso in modo maldestro e volto in materia romanzesca la storia dei da Polenta e dei Malatesta, così come quella dell’amore di Francesca e di Paolo. C’è soltanto una vecchia cronaca che menziona in modo incidentale la tragica morte dei due parenti. Vi si afferma che, avendo “Zanne Sciancato” trovato sua moglie con suo fratello Paolo, li uccise entrambi. Non si fa alcun cenno alla colpa che sembra essere negata dallo stesso Dante, il quale dice che Zanciotto è destinato a sprofondare nel fondo dell’inferno come assassino dei suoi parenti. Boccaccio, che non aveva l’aria di volere attenuare colpe, ammette che Francesca e Paolo provassero una reciproca attrazione, ma aggiunge di non aver mai sentito dire che fossero accusati di un comportamento illecito. Aggiunge anzi che la storia è basata sulla

supposizione di quello che sarebbe potuto accadere, piuttosto che su quello che realmente accadde. Anche l’attrazione di Francesca per Paolo potrebbe essere scusata se fosse vero che era stata ingannata nel matrimonio. Forse era stata indotta al consenso convinta di impalmare Paolo; o forse era stata effettivamente sposata a Paolo, al quale era stata poi sottratta con la forza da Gianciotto. Entrambe queste versioni sono riportate da vecchi scrittori, seppure non contemporanei agli eventi, e non si basano su fonti autorevoli. Dante suppone che Paolo e Francesca s’innamorassero leggendo di come l’amore di Lancillotto era ricambiato da Ginevra. Circostanza del tutto immaginaria, naturalmente, ma che è stata accolta come un dato di fatto da alcuni commentatori. Lancillotto era stato creato cavaliere da Re Artù su richiesta della Signora del Lago e quindi era partito in cerca di avventure. Allorché venne indetto un solenne torneo alla corte di Re Artù, Lancillotto vi si inscrisse in incognito e compì tali mirabili gesta da suscitare la curiosità generale sulla sua identità. Sir Galehaut – o Galeotto – che, come 61


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“la royne voyt que le chevalier n’en ose plus faire si le prent par le menton e le baise assez longuement” [la regina, vedendo che il cavaliere non osa far nulla, lo prende per il mento e lo bacia a lungo]. Questo passo del romanzo cavalleresco provoca, secondo il poeta, l’interruzione della lettura che Paolo e Francesca stanno facendo: Noi leggevamo un giorno per diletto di Lancialotto come amor lo strinse; soli eravam e senza alcun sospetto. Per più fiate li occhi ci sospinse quella lettura, e scolorocci il viso; ma solo un punto fu quel che ci vinse.

F.H. Jackson, La fontana di Piazza Cavour a Rimini, 1902. Da The Shores of the Adriatic, London 1906. Nella pagina a fianco dall'alto, Da The Shores of the Adriatic, London 1906: F.H. Jackson, Facciata di S. Francesco a Rimini, ill. per Wayfarers in Italy, 1902. F.H. Jackson, Interno di S. Francesco a Rimini, 1902. F.H. Jackson, Il Ponte di Augusto a Rimini, 1902.

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suo intimo amico, la conosceva, così come sapeva che questo coraggioso cavaliere era innamorato di Ginevra, moglie di Re Artù, prese l’iniziativa di farlo sapere alla regina. Per cui Galeotto la informò che le avrebbe presentato il campione e fissò l’appuntamento nel giardino. Galeotto si trova ora con la regina e con Lancillotto che appare assai vergognoso: “Et Gallehault qui le voyt si honteux, pense qu’il veult dire à royne son pense seul à seul” [E Galeotto che lo vede così vergognoso, pensa che voglia esprimere il suo pensiero alla regina restando solo con lei], per cui si ritira e li lascia soli]. Segue un lungo dialogo (che dovette sembrare breve ai due interlocutori) nel corso del quale Lancillotto svela la sua identità. E quindi, poiché

La circostanza - il bacio di Ginevra a Lancillotto - che si rivelò così fatale ai due amanti, sembra sia stata la più ricordata di tutta la storia molto dopo il tempo di Dante. In un’occasione come questa sarebbe fuori luogo indugiare criticamente sulla bellezza del passo e sulla delicatezza con cui Dante rievoca l’interruzione. Volendo quindi attenerci ai fatti, ricordiamo soltanto che il verso Soli eravam e senza alcun sospetto,sembra che sia stato suggerito al poeta da un altro romanzo cavalleresco, quello di Sir Tristram [Tristano], che era molto popolare e di cui un commentatore del tempo dice: “Tutti parlano della morte di Tristano e Isotta”. Allorché venne scoperta la loro relazione, nel romanzo si dice: “Ils sont tous seul a seul, qu’ilz n’ont nul destourbier, ne paour ni d’ung ni d’autre” [Essi sono soli e non hanno alcun sospetto, né paura dell’uno o dell’altro]. Valentin Fréville Dal Savio al Metauro: una terra di storie 1853 c. Non si hanno notizie biografiche di questo personaggio che ci ha lasciato un viva-


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ce ritratto dell’Italia centrale nel volume mes voyages sul les côtes de l’adriatique, à travers l’apennin et les maremmes, 1872, con il quale suggerisce itinerari inediti di viaggio. Quindi attraversammo il servio, esiguo corso d’acqua di scarso valore e, lasciandoci alla spalle cervia, un borgo che sembrava languire in mezzo agli acquitrini come un fiore appassito, raggiungemmo cesenatico, villaggio molto grazioso che si trova a metà strada fra ravenna e rimini. finalmente arrivammo sulle rive di un ruscello che aveva tutta l’aria di un assetato, tanto lenta scorreva l’acqua sul letto di ciottoli. tutto ad un tratto emilio tira le redini e ferma il nostro bucefalo e grida: “maledizione! ecco il rubicone… siamo dunque dei cesari per saltare così a piè pari questo sacro confine della gallia cisalpina ed entrare nell’italia vera e propria, senza alcuna autorizzazione di roma, la sovrana del mondo?” “ahimè! la sovrana del mondo non è più tale da tanto tempo e il rubicone oggi non è altro che l’Uso, rivo formato dai tre corsi d’acqua che vedi scintillare laggiù nella piana come dei nastri d’argento i cui nomi sono Pisciatello, ragosta e fiumino”. Un’ora più tardi scorgiamo rimini, l’antica Ariminum, che si staglia malinconica nella pianura contro le rive palustri del mare e, superato un ponte ed un arco romano, facciamo il nostro ingresso nella città resa immortale da francesca da rimini. Questa capitale dell’Umbria [sic] aveva un tempo un ottimo porto, ma noi ne abbiamo scorto appena i resti. giulio cesare spese delle somme considerevoli per abbellirla e augusto, divenuto primo imperatore di roma, portò a termine le opere iniziate dal suo benefattore, molte delle quali sussistono ancora. sono a loro che tributiamo doverosamente la nostra prima visita. Per 63


Viaggiatori stranieri fra Romagna e Marche Pietro Santi (17371812), Panorama di Rimini e del suo territorio, incisione, da G. Vannucci, Discorso istorico-filosofico sopra il tremuoto, Cesena 1787.

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primo viene il ponte romano, altrimenti detto di Augusto, tramite il quale abbiamo superato il fiume Marecchia entrando in città. Il ponte segna la conclusione della via Emilia che finisce a Rimini. Ha una lunghezza approssimativa di cento piedi ed è composto di cinque archi. Sulle pietre del parapetto provenienti dall’Istria si legge l’iscrizione relativa alla sua costruzione. Augusto morì prima che il ponte fosse finito, ma Tiberio lo portò a termine. È quindi la volta dell’Arco di trionfo, o Porta Romana, che gli abitanti di Rimini vollero costruire dedicandolo alla gloria di Augusto, riconoscenti per le riparazioni apportate alle grandi strade che arrivavano nella loro città. L’arco di trionfo è costruito con stupende pietre bianche che imitano il marmo nel tono di colore e nella durata. Come quelle del ponte, vengono dall’Istria. L’architettura del monumento è semplice ma imponente, costituita da un

frontale con due semicolonne addossate di stile corinzio. L’intradosso dell’arco è decorato da dei medaglioni che raffigurano, all’interno, Nettuno e Venere, e all’esterno Giove e Giunone. Nella Piazza del Mercato, nel cuore della città, si scorge una pietra enorme, tagliata come se fosse una tribuna, dall’alto della quale si dice che Giulio Cesare avesse rivolto un veemente discorso ai suoi soldati, subito dopo aver superato il Rubicone e prima di avere intrapreso la marcia contro Roma, Pompeo e il senato. Questa pietra ha un suo grande interesse e a Rimini la chiamano il Piedistallo di Cesare. Da queste magnifiche memorie della potenza romana si svolgono a raggiera, in tutte le direzioni, delle ampie strade affiancate da edifici decorosi. Qui si incontra il Mercato del pesce contornato da un portico, là s’apre la Piazza Maggiore con una fontana e la statua bronzea di papa Paolo V; è poi


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la volta della vecchia cattedrale costruita sulle rovine di un tempio di Castore e Polluce e di una caserma dei carabinieri pontifici e quindi del duomo nuovo dedicato a San Francesco. Si gira attorno ad una collinetta romantica, posta fra la città e il mare, con una Rocca molto bella e alla fine si può dire di avere un’idea di Rimini. C’è da aggiungere solamente che non ci si devono aspettare strade affollate e luoghi gremiti di folla. Rimini è una città grande e bella, ma solitaria, triste e deserta. Nei tempi antichi il suo ruolo è sempre stato modesto. Ella ha avuto una vitalità effettiva soltanto sotto Augusto che le era legato per le due strade: l’Emilia che era diretta a Bologna, Modena, Piacenza, e la Flaminia che, prendendo avvio dalla sua cinta muraria, portava a Roma attraverso il paese dei Senoni, l’Umbria e la Sabina. Cesare s’impadronì a forza di Rimini nel 49 a.C. dopo aver superato il Rubicone.

Vitige, re degli Ostrogoti, la pose sotto assedio nel 438, ma venne liberata da Belisario. Dopo essere appartenuta agli esarchi greci di Costantinopoli, divenne preda dei longobardi. Ma questi furono sterminati da Carlomagno che la riunì alla Pentapoli e ne fece dono ai papi. Ella cadde successivamente sotto la dominazione degli imperatori tedeschi. Nel 1200 Ottone III ne fece dono, come vicario dell’impero, a un Malatesta che era a capo di una famiglia originaria, come i Montefeltro, della Carpegna. In realtà si chiamava Verucchio, ma adottò il soprannome di Malatesta. Era, come dice il nome, una testa calda, malvagia. Scelto dai guelfi di Bologna per combattere i ghibellini della Romagna, Malatesta cambiò casacca, si fece ghibellino, s’impadronì di Rimini alle spese di Bologna e si mise alle dipendenze di Ottone che lo promosse suo luogotenente. Malatesta rese il suo potere ereditario. I

T.G. Jackson, Il Palazzo Ducale di Pesaro, ill. per T.G. Jackson, ill. per A Holiday in Umbria, 1916.

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F. Mingucci, Veduta della Villa Imperiale, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

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suoi discendenti conquistarono le città di Cesena, Pesaro, Fano, Fossombrone e parte della costa adriatica. Uno dei Malatesta, Galeotto, ebbe l’idea geniale di farsi riconoscere signore di Rimini dal papa, che intanto era diventato padrone della Romagna. Ma più tardi, un altro Malatesta vendette Rimini ai veneziani i quali, in seguito alla Lega di Cambrai contro il santo padre, la perdettero nella battaglia di Gera d’Adda, nel 1528. Da allora Rimini rimase definitivamente nelle mani del papa, nonostante i ripetuti intrighi dei Malatesta. I Malatesta richiamano alla mente la storia di Francesca da Rimini, per cui cercammo di rintracciare il palazzo dove si svolse. Trovammo alla fine un certo palazzo Ruffo, dall’architettura massiccia ma ele-

gante, il quale racchiude fra le sue mura quello che resta dell’antica dimora dei Malatesta. È in questo luogo che si compì il dramma, ma mentre sono tante le pietre di palazzo Ruffo, quelle del palazzo Malatesta sono troppo poche per soddisfare la curiosità del visitatore. Ci consoliamo rendendo visita, al ritorno, alla chiesa di San Francesco. Si tratta di un monumento del XV secolo, opera di Leon Battista Alberti. Vi si scorgono una serie di mausolei nei quali Malatesta avrebbe voluto racchiudere i personaggi celebri che frequentavano la sua corte. Temistios, commentatore dell’Ariosto, è il primo personaggio di questo pantheon. Vi troviamo, a sinistra dell’ingresso, la tomba di Isotta la saggia consorte di Sigismondo, le cui


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iniziali, con l’emblema dei Malatesta, la rosa e l’elefante, ricorrono in mille luoghi di questo edificio di origine gotica. Una giornata è sufficiente per dire di conoscere Rimini a menadito. Per cui, non avendo altro da vedere, dopo un pranzo a base di ottimo pesce, come se ne trova qui a Rimini, e una bottiglia di eccellente vino bianco, come solo la Repubblica di San Marino sa offrire ai suoi vicini, decidiamo di procedere in direzione di Ancona. È là che proseguirò questa lettera che ho iniziato qui, all’Albergo della Fontana. Da Rimini a Cattolica, la strada s’allontana dalla rive dell’Adriatico, ma da Cattolica a Pesaro le onde del mare giungono a lambire le ruote della vettura. Per fare

questo tragitto sono necessari il bel tempo e il mare calmo, altrimenti si può ricorrere ad una strada che si svolge a mezza costa detta Pantalona. Favoriti da un cielo splendido che ci accompagna da quando abbiamo iniziato questo viaggio in Italia, preferiamo percorrere la via costiera. Sarebbe impossibile narrarvi delle bellezze delle spiagge, della pianura che s’innalza man mano ad anfiteatro, della poesia delle barche: golette, bilancine e speronare che solcano le onde. Impressioni di questo genere mettono l’animo in subbuglio, ma rendono impotente la penna. Ecco Pesaro, l’antica Pisaurum, cittadina di quindicimila abitanti che occupa una collinetta graziosa dominante la terra ed il mare, a destra della foce del

Francesco Menzocchi (1502-1574), Scena di parata. Pesaro, Villa Imperiale, sala detta delle Cariatidi.

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Raffaellino del Colle e Francesco Menzocchi, Allegoria della Calunnia. Pesaro, Villa Imperiale, sala della Calunnia.

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piccolo fiume Foglia. Distrutta da Totila, re degli Ostrogoti nel 542, venne ricostruita più bella da Belisario. Sui lussureggianti uliveti che occupano i declivi della collina sulla quale sorge e sulla pianura che la circonda, spuntano i campanili delle sue numerose chiese, di San Francesco, San Domenico, Sant’Antonio e San Cassiano. Ella è la patria del papa Innocenzo XI, del pittore Cantarini e del celebre maestro Rossini il quale, dopo esservi nato, si trasferì a Bologna. Pesaro offre la piacevole Passeggiata del Belvedere San Benedetto da cui si gode una avvincente veduta. Lungo la costa, di fronte all’Adriatico, si susseguono in maniera pittoresca numerose ville che mettono in mostra i loro bianchi profili all’ombra dei platani. Ma ce n’è una che attrae più delle altre lo sguardo del viaggiatore. Si tratta della dimora della principessa del Galles, divenuta regina d’Inghilterra, e che oggi appartiene alla famiglia Bergami. Nel bosco si scorgono quelle che sembrano due ombre avvolte in lenzuola. Sembra che siano due monumenti fatti fare dalla regina, l’uno alla figlia che fu la prima moglie di Leopoldo I, re del Belgio, l’altro al fratello, il principe di Brunswick, rimasto ucciso nella battaglia di Waterloo. Ecco il Metauro, fiume umbro che nel 207 a.C. fu testimone della famosa battaglia che segnò, per mano di Nerone e di Livio Salinatore, la sconfitta e l’uccisione di Asdrubale, fratello di Annibale, con i sessantamila cartaginesi che portava al vincitore di Canne. Disceso dagli Appennini dove si trova la sua sorgente, il Metauro lambisce il ducato di Urbino e si getta nell’Adriatico nei pressi di Fano. Fano, dove ci sorprese il tramonto del sole e dove cenammo e prendemmo alloggio all’Albergo dei Tre Re, non esisteva quando le sponde del Metauro si tinsero di rosso del sangue dei cartaginesi. Ma dopo la vittoria dei romani, il console Salinatore, avendo

eretto sul campo di battaglia un tempietto alla Fortuna in segno di ringraziamento, questo stesso Fanum Fortunae richiamò una folta popolazione che si raccolse attorno al suo recinto. Fu così che si formò Fano. La città che doveva la propria origine ad una lotta sanguinosa divenne in breve tempo celebre per un’altra battaglia, quella in cui, nel 545 d.C., Totila, re degli Ostrogoti, sconfisse i romani. Fano venne rasa al suolo, ma sopravvenne Belisario il quale la ricostruì come aveva fatto con Pesaro. Un’ultima vittoria consacrò questa città rinata sulle sue rovine: quella che Narsete riportò su Teia, re dei Goti nel 552. Thomas Graham Jackson Pesaro e la Villa Imperiale 1888 “Fellow” del Wadham College di Oxford, Sir Thomas Graham Jackson (1835-1924) dedica il volume A Holiday in Umbria, 1916, a “quella parte dell’Italia poco nota ai viaggiatori inglesi”. Nonostante il titolo, il volume descrive città e itinerari marchigiani e rielabora appunti presi in due viaggi nel 1881 e nel 1888. Studioso di Eugène Villet-le Duc, Jackson è autore di numerosi rifacimenti in stile neogotico a Cambridge e a Oxford. Fine narratore, lascia piacevoli descrizioni di paesaggi e bozzetti dedicati alle locande. La ferrovia da Rimini a Pesaro segue la costa e corre parallela alla vecchia via Flaminia che portava da Ariminum a Pisaurum e proseguiva poi per Ancona e per Roma. La stazione di Pesaro si trova un po’ fuori della città e quindi facemmo risuonare l’acciottolato di vie buie e tetre finché ci fecero scendere davanti ad un portone che sembrava immettere in una caverna: la nostra locanda, ci dissero. Alla luce di un’unica lampada nascosta dietro l’angolo, entrammo in una grande stam-


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Viaggiatori stranieri fra Romagna e Marche Il porto di Pesaro dal terrazzo degli orti giulii.

berga a pianterreno, coperta a volte, che odorava di vino e che era piena di botti. Stando attenti a dove mettere i piedi, poiché l’impiantito era cosparso di paglia e di letame, giungemmo alla base di un grande scalone, degno del castello di un gigante, la cui ascesa compimmo con qualche difficoltà poiché ci imbattemmo in due contadine che trasportavano a braccia il locandiere. Poi seguì un alterco vivace con un brigante il quale, senza che nessuno glielo avesse detto, aveva scaricato il nostro bagaglio e si rifiutava di andarsene se non gli avessimo pagato tre lire e mezzo. Chiesi l’intervento del locandiere, un buon uomo piuttosto intimorito da quell’energumeno, il quale avrebbe declinato volentieri l’invito. Alla fine le sue pretese vennero ridimensionate e quando l’energumeno se ne fu andato, il padrone sbottò: “Che potevo fare? Quanto gli avete dato è più che sufficiente. Sono tutti birbanti, birbanti, birbanti. Assassini, ecco cosa sono. L’altro giorno uno di loro ha tirato fuori il coltello sotto il naso di uno svizzero, ma questi glielo ha fatto cadere con il bastone e poi gli ha fatto assaggiare una gragnuola di colpi”. Ripresi che ci fummo dall’alterco e una volta liberatici dal vetturino che insiste70

va per portarci a Urbino, facemmo una ricognizione delle nostre camere. Anche queste erano, come la scala, di dimensioni spropositate. La camera dove alloggiavo con mia moglie era quadrata, quarantacinque piedi per lato, e l’unico moccolo che l’illuminava proiettava le nostre ombre gigantesche sull’altissima volta. Era come dormire sotto la cupola della cattedrale di San Paolo. L’amico che viaggiava con noi venne sistemato in una stamberga di analoghe dimensioni. Dopo una conoscenza più approfondita, comunque, diventammo così affezionati all’hotel Zongo da ritornarci dopo la gita a Urbino. Lo stesso locandiere volpino si rivelò molto affettuoso nei nostri confronti e ci fu utile per i successivi spostamenti. Pesaro apparteneva ad un ramo dei Malatesta i quali sembra che avessero l’abitudine di dividere le varie signorie fra i membri della famiglia. Nel 1444 era governata da Galeazzo Malatesta. Suo cugino Sigismondo Pandolfo tentò di sottrargliela, ma venne fermato da Federico da Montefeltro, duca di Urbino. Nel 1445 Federico propose a Francesco Sforza, futuro duca di Milano, di togliere di mezzo Galeazzo: Federico avrebbe preso Fossombrone e lo Sforza Pesaro. Così avvenne e Francesco


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Il Castello di Rimini, incisione di A. Barberis su disegno di Dosso, da “L’illustrazione popolare”, 1890. Rimini, raccolta privata.

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inviò il fratello Alessandro a Pesaro dove gli Sforza governarono finché, nel 1512, la città venne inclusa nel ducato di Urbino. Su un lato della piazza principale c’è il vecchio Palazzo Ducale, sede ora della Prefettura, con un’imponente facciata caratterizzata, pur nella sobrietà delle linee, da sofisticati accorgimenti. Il piano terra ha un loggiato con sei archi uguali, eccetto quello opposto all’entrata del cortile che ha modanature decorate. La parte mediana del loggiato è scandita da un pilastro. Riproporre la divisione in sei scomparti sulla parte superiore della facciata, con un pilastro al centro, sarebbe stato impossibile. Di conseguenza ci sono solo cinque finestre sopra i sei archi, il che colloca una finestra con un balconcino a ringhiera esattamente nel mezzo, ristabilendo gli equilibri. La facciata è conclusa da una cornice sottotetto fortemente aggettante che proietta una bella linea d’ombra. Gli elementi architettonici sono di pietra, probabilmente d’Istria, e nella parte superiore la facciata è intonacata. Il cortile interno è semplice, ma ha un bel

portale dalla parte opposta. Le finestre recano le iniziali di Guidobaldo II, quarto duca d’Urbino dal 1538 al 1574. Esse ricorrono anche in altre parti dell’edificio. Il primo piano che s’affaccia sulla piazza ospita la sala consiliare che ha un magnifico soffitto a lacunari, dipinto e dorato. Sebbene sia stato ritoccato dalla mano di un artista non inferiore al nostro meritevole oste dell’Hotel Zongo, come mi disse con onesto orgoglio, conserva il suo stato originale se non fosse per qualche screpolatura e una certa sporcizia. Fra gli emblemi del soffitto c’è l’albero di rovere, stemma della famiglia Della Rovere a cui appartenevano gli ultimi duchi di Urbino. Di scarso interesse si rivelano le chiese pesaresi che tuttavia hanno dei bei portali. Quello di San Domenico, chiesa sconsacrata che si trova nella stessa piazza, reca la data del 1395. Al tempo della nostra visita, stavano istituendo in città un conservatorio musicale con i denari lasciati da Rossini, nativo del luogo e qui ricordato da un monumento. A Pesaro sopravvivono anche i ricordi di Bernardo e di Torquato Tasso. Bernardo vi


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giunse fra il 1556 e il 1560 con il figlio, fra i dodici e i tredici anni, per cercarvi una qualche sistemazione e l’aiuto per il suo protettore caduto in rovina, il principe di Salerno. Dopo la morte del padre, vi tornò Torquato presso la patronessa Lucrezia d’Este, prima moglie di Francesco Maria II, figlio ed erede di Guidobaldo II, e la seguì alla corte di suo fratello, a Ferrara, quando si separò dal marito. Quattro anni dopo, nel 1576, manifestò i primi segni di follia. La città custodisce una bella collezione di maioliche di Pesaro, Gubbio, Urbino e Castel Durante che può essere studiata qui con agio e vantaggio come in nessun altro luogo. Pesaro produce ancor oggi delle belle maioliche, ma sono soltanto copie di quelle antiche e sono prive di originalità. Alcuni pezzi vengono riprodotti con intenti truffaldini e gli inesperti possono rimanerne ingannati. Le maioliche pesaresi hanno comunque un bel lustro. Visitammo una bottega che aveva una produzione assai ridotta, potendo contare solo in due o tre pittori che al momento trovammo intenti al lavoro. Al mercato si possono comprare per quattro soldi degli

incantevoli oggetti di terracotta fatti per i cascinali dei contadini. Sebbene gli Appennini siano distanti alcune miglia, i dintorni di Pesaro sono collinari e il territorio piuttosto accidentato. Su un poggio poco fuori della città si trova la Villa Imperiale, appartenuta agli Sforza e poi ai duchi di Urbino. Vasari ne parla a lungo nella vita di Girolamo Genga, pittore e architetto di Urbino, amico di Raffaello […] Genga seguì il duca Francesco Maria I in esilio durante l’usurpazione medicea e dipinse a Cesena e a Forlì. Alla restaurazione del duca nel 1521, Genga venne chiamato a risistemare il vecchio palazzo degli Sforza sulla collina dell’Imperiale, palazzo che, come dice Vasari, “per ordine e disegno del Genga fu ornato di pittura d’istorie e di fatti del duca […] Vedendo dunque il duca di avere un così raro ingegno, deliberò di fare al detto luogo dell’Imperiale vicino al palazzo vecchio un altro palazzo nuovo, e così fece quello che oggi si vede, che per esser fabbrica bellissima e bene intesa, piena di camere, di colonnati e di cortili, di logge, di fontane e di ame-

Il Castello di Rimini, disegno di F. Hamilton Jackson, da The Shores of the Adriatic, London 1906.

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La tomba di Isotta nel Tempio Malatestiano, Rimini, da Ch. Yriarte, Rimini, ètudes sur les lettres et les arts a la cour des Malatesta, Paris 1882.

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nissimi giardini, da quella banda non passano principi che non la vadano a vedere; onde meritò che papa Paolo III, andando a Bologna con tutta la sua corte, l’andasse a vedere e ne restasse pienamente soddisfatto”. Accesi d’entusiasmo per questa descrizione, partimmo un pomeriggio per vedere le meraviglie dell’Imperiale. Lasciammo la città attraverso un’imponente porta della cinta muraria con la quale Genga aveva contornato la città e superammo il fiumicello che diventa il porto canale di Pesaro. Alla porta, un daziere ci fece sbagliare strada e, invece di girare subito a destra, seguimmo la via di Rimini e dovemmo effettuare una lunga deviazione per sentieri scoscesi e fangosi attorno a Villa Vittoria, dove aveva risieduto l’infelice regina Carolina d’Inghilterra. Da codeste alture si avevano gradevoli vedute verso l’interno dove si levavano, l’una appresso l’altra, oltre la pianura, le quinte degli Appennini color porpora e violetto. Come la maggior parte delle costruzioni italiane di questo genere, l’Imperiale non presenta all’esterno particolari attrattive. L’aspetto esteriore di una villa italiana non sembra essere stato degno di considerazione. Mentre in Francia e in Inghilterra ci saremmo aspettati frontoni, torrette, balconcini, soprelevazioni di tutti i generi, in Italia ci si trova al cospetto di una massa squadrata che sembra quella d’una caserma, con qua e là, ma non sempre, una torretta e semplici mura di mattoni imbiancate e piene di buche che servivano alle impalcature. Eppure questi edifici sembrano accordarsi perfettamente al circondario e nessun’altra costruzione si armonizzerebbe altrettanto bene con il paesaggio. Il palazzo vecchio si distingue facilmente da quello nuovo. Il vecchio è una costruzione quadrata sull’orlo di un ripido poggio, mentre il nuovo si trova sul soprastante declivio ed è tangente con l’altro sola-

mente in un angolo dove sono congiunti da un ponte. La grande torre del Genga è unita al palazzo vecchio nel quale entrammo attraverso un arco con lo stemma sforzesco e l’iscrizione “Alexander Fortia mcccclxvii”. Dentro c’è un piccolo cortile circondato da un grazioso loggiato e, ammassati attorno ad un pozzo di marmo, in un angolo, c’erano dei contadini che si lavavano gambe e piedi dopo aver pigiato l’uva. L’Imperiale è infatti oggi una fattoria nella quale solo poche stanze ammobiliate vengono riservate per quando il proprietario, il principe Albani di Milano, viene in visita alle proprie terre. Gli unici che ci vivevano erano il contadino e sua moglie, una graziosa contadinella che seppe fare con grazia gli onori di casa. Il piano terreno del palazzo vecchio è completamente spoglio e adibito soltanto a scopi agricoli, ma ci sono ancora alcuni bei camini. Una semplice scala porta al primo piano dove, nelle stanze attorno al cortile, si trovano gli affreschi di Raffaellino del Colle. Di questi affreschi ci saremmo aspettati di trovare soltanto alcuni resti, poiché le guide parlano della loro decadenza. In realtà non trovammo nemmeno quella, poiché erano stati ridipinti di recente dal Gennari di Pesaro, artista morto poco prima del nostro arrivo. Poche stanze hanno i soffitti decorati. Ne ho disegnato uno che aveva pannelli alternativamente rossi e azzurri divisi da cornici con foglie di quercia scolpite e dipinte di bianco e dorate. Sul fondo azzurro si stagliavano le iniziali F.M. e LE che stavano per Francesco Maria I e per sua moglie Leonora. Sui pannelli rossi c’erano diversi elementi fra i quali il trabiccolo che s’usa ancora oggi in Italia per tener ferme le bestie da ferrare. Un ponte conduce al palazzo nuovo costruito dal Genga per la duchessa Leonora quale sorpresa per il marito di ritorno dalla guerra. Ecco la sua dedica: “Fr. Mariae duci Metaurensium a bellis redeunti / Leo-


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Le cappelle di sinistra del Tempio Malatestiano. Rimini, da Ch. Yriarte, Rimini, ètudes sur les lettres et les arts a la cour des Malatesta, Paris 1882.

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nora uxor animi eius causa villam exaedificavit”. La data si colloca dopo il ritorno del duca dall’esilio, alla morte del vecchio nemico Leone X, nel 1521. Nell’intervallo di cinquantaquattro anni che intercorre fra la costruzione del palazzo vecchio e quello nuovo, il primitivo rinascimento italiano s’era sviluppato con una più intensa imitazione dell’architettura classica. Per quanto si fossero ormai perduti la poesia e l’incanto dell’eredità medievale, c’è molto da ammirare nell’opera del Genga. Le stanze sono progettate in maniera pittoresca e la cappella, quando aveva ancora i propri mobili, doveva apparire straordinariamente graziosa, poiché la pianta è unica. I pavimenti sono costituiti da mattoncini non smaltati che hanno impressi disegni geometrici. Essi sono inseriti fra fasce di marmo bianco. In alcuni casi le fasce di marmo formano una spirale, in altri un labirinto. I soffitti del piano nobile erano voltati in pietra o in mattoni e l’estradosso della volta sporgeva in maniera curiosa dai pavimenti delle stanze sovrastanti nelle quali la servitù doveva cavarsela in maniera alquanto scomoda. Il palazzo nuovo è completamente smantellato e, sebbene abbia il tetto, non è abitabile poiché sono state tolte anche le porte. Essendo costruito sul declivio del colle, il piano superiore s’apre al livello di un incantevole giardino pensile che costituisce il quarto lato della struttura quadrangolare. Era pieno di fiori di campo che crescevano rigogliosi e senz’ordine. La nostra guida ne offrì un mazzo “alla Signora”. Una bella passeggiata per un sentiero ombroso e pieno di fango ci riportò, con un tragitto più corto, alla porta della città. Al momento di partire da Pesaro, il nostro locandiere ci dette delle lettere di raccomandazione per gli alberghi di Fossombrone e di Urbino, definendoci una “molto rispettabile famiglia”. Lettere del genere tramite le quali gli osti italiani, se avete stabilito un buon rapporto con loro, so-

gliono raccomandarvi, sono di grande aiuto e servono a moderare i prezzi. Recarsi da Pesaro a Fano è una gita piacevole di circa un’ora lungo la costa. Sulla sinistra ci sono alte colline argillose, molto friabili, che non hanno mai raggiunto lo stato roccioso. In lontananza, sul filo del mare, si scorgono i campanili di Fano e, dietro ad essi, la grande montagna che si trova alle spalle di Ancona. Fano, l’antica Fanum Fortunae, che Vitruvio chiama Colonia Julia Fanensis, oggi una tranquilla cittadina con pochi motivi di richiamo per il viaggiatore, era molto più importante al tempo dei romani. Essa vanta ancora un arco romano eretto in onore di Augusto, ma annovera anche una basilica costruita da Vitruvio, della quale ci fornisce lui stesso la descrizione nel quinto libro. Si trattava di un ambiente coperto di centoventi piedi per sessanta, con colonne tutte intorno alte cinquanta piedi, quattro alle estremità e otto sui lati, comprendendo in ogni caso quelle d’angolo […] In questa città ci sono diverse chiese anche se non di grande interesse, ma con ottimi dipinti di tarda epoca. Il Palazzo della Ragione, ora volto in teatro, è un edificio che desta un certo interesse. Oltre questo non c’è altro da mentovare in questa città. Urbino, l’antica Urbinum Metaurense, può essere raggiunta oggi, ne sono convinto, con il treno, ma al tempo dei nostri viaggi ci si doveva arrivare con la diligenza da Pesaro, un viaggio di ventitré miglia, o in calesse da Fano. Il viaggio da Pesaro richiede dalle cinque alle sei ore perché l’ultima parte del percorso è molto ripida. Urbino si trova infatti molto in alto e al tempo della nostra visita era addirittura fra le nuvole. Nella piana il paesaggio è incantevole. La strada segue il Foglia, costeggiata da un lato e dall’altro da alte colline incoronate da romantici castelli e maliosi villaggi che adescano il viaggiatore. La scena aveva qualcosa che rammen-


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Particolare dell’arco della cappella delle Sibille nel Tempio Malatestiano, Rimini, da Ch. Yriarte, Rimini, ètudes sur les lettres et les arts a la cour des Malatesta, Paris 1882.

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tava i canoni della tradizione classica del paesaggio. I sinuosi meandri fluviali, le chiome rotonde degli alberi – quasi sempre roveri, poco comuni in Italia – le rive scoscese e i villaggi, i cascinali, i mulini posti là dove li avrebbe inseriti il pittore seguace delle regole dell’accademia, ricordavano Claude Lorrain e Richard Wilson. L’ultima ora e mezzo venne impiegata in una ripida salita prima di giungere a Urbino, la cui posizione è romanticamente splendida.

André Maurel Rimini, il Tempio e la Rocca 1906 Saggista francese, Maurel (1863-1943) ottenne un notevole successo per i suoi numerosi volumi di impressioni artistiche sull’Italia, fra i quali Petites villes d’Italie, 1906-1911, da cui sono tratti i brani riminesi, nonché Paysages d’Italie, 1912-1932. Interessante anche il vademecum L’art de voyager en Italie, 1920


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che intende distinguere il viaggiatore dal turista. Fra tutte le città del mio itinerario, Rimini si pone fra le prime. Non per il dramma di famiglia che ci ha trasmesso Dante. Il delitto dello Sciancato che sgozzò la moglie Francesca da Polenta e il fratello Paolo, dopo averli sorpresi l’uno fra le braccia dell’altro, ha solo un valore poetico, come il Rubicone. Il genio dell’uomo è l’unico che può perpetuarlo, salvandolo da una legittima indifferenza. Rimini mi chiama con una voce possente, il grido di una razza sanguinaria, di volta in volta infiammata dall’amore e dall’arte, il grido dei Malatesta, di Pandolfo, di Sigismondo, di Pandolfaccio, un grido accanto al quale si distingue la voce fresca di Isotta. La Rocca e il Tempio che ho appena visitato sono le testimonianze, l’una selvaggia, l’altra sontuosa, di una famiglia che spinse ai limiti estremi la scelleratezza e la magnificenza, una famiglia nella quale Sigismondo, fra tradimenti, scannamenti, ratti e violenze carnali, era capace di scrivere versi in omaggio di Isotta, di convocare l’Alberti e Agostino di Duccio e di riportare dalla Grecia, per seppellirle al suo fianco, le ceneri di Gemisto Pletho. Sigismondo dedicò ai due monumenti le medesime cure. Li accarezzò entrambi, poiché l’uno doveva assicurare la fortuna temporale della famiglia, l’altro la fortuna spirituale, la gloria e l’immortalità. La posterità ha seguito il corso delle sue fortune. Crollata la prima, la Rocca è andata incontro allo smantellamento. La seconda gli sopravvive e pertanto il Tempio è tuttora in piedi, intatto. Povera Rocca! Ho sotto gli occhi una vecchia incisione che la raffigura com’era, nobile, superba, minacciosa e inespugnabile. In mezzo ad un largo fossato, una muraglia interrotta da numerosi bastioni delimita una prima cinta collegata alla terraferma per mezzo di un ponte di legno. La muraglia sostiene i terrapieni che

formano la cittadella con la seconda cinta muraria. Questa è composta di cinque torri collegate fra loro da muri merlati in mezzo ai quali si leva un torrione quadrato. Volta verso la terra, con atteggiamento di sprezzo nei confronti del mare, la posizione della Rocca, stupefacente in un luogo costiero, ci dice molto sulla famiglia di condottieri, quali furono i Malatesta. Allorché Sigismondo la costruì, credette di fare un’opera eterna. Passo con lo sguardo dall’immagine alla realtà. Che desolazione! Il fossato è scomparso, così come sono scomparsi il ponte e la prima cinta muraria. Là dove si trovava la porta di quest’ultima,

Raffigurazione della Luna nel pilastro di sinistra della cappella dei Pianeti nel Tempio Malatestiano, Rimini, da Ch. Yriarte, Rimini, ètudes sur les lettres et les arts a la cour des Malatesta, Paris 1882.

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Viaggiatori stranieri fra Romagna e Marche Girotondo di putti alati attorno ad una fontana in una formella marmorea di Agostino di Duccio (1418-1481) nel Tempio Malatestiano, Rimini, da Ch. Yriarte, Rimini, ètudes sur les lettres et les arts a la cour des Malatesta, Paris 1882.

sormontata dai merli, c’è ora un teatro. Ho davanti a me la seconda cinta muraria. La riconosco dalla porta sormontata dallo stemma dei Malatesta. Quanto alle torri che la fiancheggiano, ecco che le riconosco, l’una dietro l’altra, ma private dei merli e coperte da un tetto di coppi. Anche i camminamenti sono stati coperti, come tutto il resto. Nelle mura sono stati ricavati dei vani e il torrione è stato abbassato. Oggi la Rocca è una prigione. La sua posizione è più o meno quella del passato, una posizione che si coniuga con il bel paesaggio che s’apre su una valle alberata che ha per confine lontano gli Appennini. La rovina della Rocca non è venuta dal mare che non amava, non dalle terre vicine che temeva, ma da lei stessa, dalla sua potenza mostruosa ed iniqua fatta di esazioni, di violenze e di oppressione. Il Tempio è rimasto incompiuto come l’ha lasciato Sigismondo. Dietro una grande piazza, l’antico foro, dove un tempietto ricorda il passaggio di Sant’Antonio da Padova, il pantheon dei Malatesta si presenta massiccio, così come si conviene ai Malatesta nel cui stemma c’è un elefante. Si tratta di un monumento capitale, il primo dell’epoca rinascimentale e un modello 80

per l’arte italiana. Sigismondo non conosceva il dubbio. Volendo edificare un sepolcro che perpetuasse la grandiosità della sua stirpe, dette l’incarico a Leon Battista Alberti. Questi, secondo i suoi principi, si limitò a stendere il progetto dell’opera di cui affidò l’esecuzione architettonica a Matteo dei Pasti, famoso per il conio delle medaglie, e la decorazione scultorea ad Agostino di Duccio, l’artista di San Bernardino di Perugia. Vediamo cosa nacque da questa collaborazione. L’opera ha una grande importanza da un punto di vista sociale, storico e artistico grazie ai Malatesta, briganti arricchiti, all’Alberti, teorico del modo nuovo d’intendere l’architettura e a Matteo e ad Agostino, i primi decoratori del loro tempo. Il Tempio non è del tutto originale. L’Alberti non ne fu il progettista assoluto, poiché dovette utilizzare una chiesa gotica che rivestì completamente del nuovo stile che aveva appena inventato. Per cui, all’esterno, non si scorge alcuna traccia dell’antica chiesa, escluso il piano superiore della facciata, incompiuto, dove avrebbe dovuto esserci un frontone circolare e dove invece un grande vuoto lascia a nudo la carcassa. Sotto questo piano, la facciata sviluppa un triportico, di cui due archi sono ciechi e rialzati grazie ad un muro basso lungo il quale corre una ghirlanda. Quattro colonne scanalate e dei capitelli corinzi dividono le arcate e sorreggono un fregio in forma di ghirlanda, come quello del basamento. Ciascun arco è accompagnato da due aperture rotonde; gli archi del portico centrale posano su mezze colonne, quelli degli altri portici sugli stessi muri. Ecco nella sua semplicità l’esempio armonioso che il rinascimento avrebbe seguito, un’ispirazione antica rinata a nuova fioritura. Per chi non ha potuto fare dei paragoni con Roma, può trovarne uno inestimabile a Rimini con il quale confrontare il Tempio: l’Arco di Augusto, una delle porte della città che s’apriva sulla via Flaminia. Vi


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Le raffigurazioni dei pianeti Venere e Marte, di Agostino di Duccio, nel Tempio Malatestiano, Rimini, da Ch. Yriarte, Rimini, ètudes sur les lettres et les arts a la cour des Malatesta, Paris 1882.

si vedono le medesime mezze colonne su un muro basso che fiancheggiano un arco il quale ha, nel punto d’impostazione, il medesimo listello ed è accompagnato dalle medesime aperture rotonde. La somiglianza è stupefacente. Nell’opera dell’Alberti c’è semmai una maggior leggerezza, una maggiore finezza artistica, se con quest’ultimo termine si vuole intendere una ricerca che non lascia campo libero al gusto istintivo, per quanto impeccabile possa essere. In

ogni caso i due monumenti, visti da vicino, sono due vere e proprie feconde lezioni. Chi si dedicherà al loro studio, scoprirà in che cosa consiste il movimento che chiamiamo rinascimento: la sua cura nel rinnovare le antiche e pure tradizioni, senza per questo rinunciare ad aggiungere le proprie idee, restando comunque originali. Le facciate laterali del Tempio avevano una destinazione particolare: quella di ospitare, in una serie di nicchie, i resti di illustri sag81


Viaggiatori stranieri fra Romagna e Marche La raffigurazione del pianeta Mercurio, di Agostino di Duccio, nel Tempio Malatestiano, Rimini, da Ch. Yriarte, Rimini, ètudes sur les lettres et les arts a la cour des Malatesta, Paris 1882.

gi e scrittori ai quali Sigismondo conferiva l’onore di esser ospitati nel suo pantheon, gloriandosi della loro compagnia. Pletho, Valturio, Conti ed altri ancora riposano sotto questi archi, all’aperto, a portata di mano. Questa familiarità dei morti con i vivi è sorprendente, dal momento che Sigismondo, per le tombe delle cappelle, adottò il sistema, che avrebbe prevalso fino al XVIII secolo, di elevare i sarcofagi ad una decina di metri dal suolo. Ad esclusione della tomba di Canova, Venezia non ha molti monumenti funebri posti a terra. Anche Sigismondo ha appeso in alto i suoi antenati e Isotta deve interrompere di tanto in tanto il dolce sonno per guardare dalla finestra accanto alla quale riposa. Non c’è un’unità perfetta fra l’esterno e l’interno del Tempio. Mentre le membrature esterne della chiesa gotica sono state completamente ricoperte e nascoste, quando s’entra nella navata si coglie immediatamente il disegno primitivo che non è affatto dis82

simulato. Su entrambi i lati s’aprono quattro cappelle i cui archi ogivali non mentono. Ma di quale rivestimento sono coperte! Una ricchezza decorativa saporita, elegante, piena d’allegria e d’orgoglio. Non si tratta che di semicolonne, pilastrini che incorniciano dei quadretti di marmo, sarcofagi decorati, cornici, capitelli, occhi e statue. Una balaustra di marmo formata da colonnine come statuette corre lungo le cappelle e le separano dalla navata. L’insieme è abbagliante e il gusto sontuoso di Sigismondo ne rimase soddisfatto. Sarebbe noioso fare l’inventario di ogni cappella e distinguere l’opera del singolo artista. La mano raffinata e gioiosa di Agostino è ovunque. Ciuffagni, il fiorentino contemporaneo di Ghiberti, talora ha tradito il disegno originario. La statua di San Sigismondo seduto sul trono sorretto dagli elefanti dei Malatesta, le virtù, i profeti, le sibille sui pilastri della prima cappella di destra, la statua di San Michele, il ritratto di Isotta e il suo sarcofago hanno un andamento gotico che contrasta con l’arte matura di Agostino, ma si perdono nell’armonia dell’insieme. Di cappella in cappella, l’incontro con Agostino provoca un generale entusiasmo. La tomba di Sigismondo, le virtù sui pilastri della terza cappella di sinistra, i pilastri mitologici della terza a destra e i rilievi con i bambini, così raffinati, così gai e modellati con tenerezza cancellano le imperfezioni di Ciuffagni. Anche qui, all’interno, la morte di Sigismondo interruppe i lavori e la cupola centrale non venne mai costruita. Non importa, il Tempio malatestiano merita, per la sua concezione generale, l’esecuzione parziale e i meravigliosi particolari, il posto che occupa nel pensiero artistico dei posteri. Ha una freschezza che ha sfidato i secoli. Ha una profusione che rispetta il senso della misura. Ha una ricchezza che non teme paragoni. A Venezia avrete visto nella corte dei Santi Giovanni e Paolo le tombe di Morosini e di Vendramin. Siete rimasti sbalorditi dal loro impatto. Ma se


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portate il loro effetto gotico nel rinascimento del Tempio, vi sentirete trasportati dal medesimo rapimento. Qui il rinascimento è stato prodigo di quegli ornamenti che un giorno verranno diffusi dal barocco. Basta guardare l’uno e rammentare l’altro per comprendere la distanza che li separa. Anche l’Alberti ha voluto creare un grande spazio in un unico ambiente, ma l’ha fatto con un gusto supremo, senza esagerare, fermandosi al momento giusto, prima di cadere nella magniloquenza. Il barocco ha involgarito il linguaggio del rinascimento. Allorché quest’ultimo ha rivestito i marmi gotici, si è guardato bene dal trasformarli, si è limitato a decorarli senza sfigurarli. Il Tempio è una cappella palatina, eppure resta cappella senza diventare sala da ballo. Assecondato da Matteo e da Agostino, l’Alberti ha creato un monumento nel quale verranno per sempre ad istruirsi le generazioni amanti dello splendore e del gusto.

Jean-Louis Vaudoyer (1883-1963) A Rimini, un incontro inquietante 1909 Scrittore francese, autore di romanzi di gusto estetizzante, di saggi e di libri di viaggio, alcuni dei quali dedicati all’Italia. Fra questi Les délices de l’Italie (1924) che raccoglie contributi vari fra i quali quello che segue. Fu un apprezzato critico d’arte e direttore del museo Carnavalet. Nel 1950 venne eletto membro della Académie française. Allorché il treno ebbe lasciato Ravenna, tirai fuori dalla valigia la riproduzione senza valore di una antica medaglia, opera straordinaria dello scultore Matteo de Pasti di cui avevo avuto in mano l’originale posseduto da una collezione parigina. La medaglia ha l’immagine di una donna che non può essere definita di grande bellezza:

Agostino di Duccio (1418-1481), Ritratto di Sigismondo Pandolfo Malatesta. Rimini, Tempio Malatestiano.

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Matteo de’ Pasti (+ 1468), Medaglia di Isotta, bronzo. Washington, National Gallery of Art, Samuel H. Kress Collection.

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il volto magro, le orbite incavate, i tratti marcati. Né le dona la capigliatura, con i capelli tirati che lasciano scoperta la fronte bombata, mentre delle lunghe ciocche sulla nuca ricadono senza grazia in forma di coda che forma, sul capo, una piccola criniera. Osservando questo profilo femminile, privo di qualsiasi attrazione sensuale e già avvizzito, ripetevo fra di me il nome incantevole del modello: “Isotta da Rimini” e subito scoprivo una particolare finezza all’angolo della bocca stretta, e coglievo la tenera malizia dello sguardo, la nobiltà del collo slanciato…Isotta da Rimini! Avevo letto un libro nel quale si narrava la sua storia, drammatica e sentimentale

come una leggenda; sapevo che in Romagna esisteva un tempio prezioso nel quale questa principessa è stata elevata al rango di una divinità. Ecco che mi stavo dirigendo verso questo tempio. Come ero contento ed emozionato! Mi raffiguravo l’ultima dimora della principessa, le pareti abbellite di figure, di motti e di simboli, la facciata colorata dall’aria marina; e cercavo di ripescare nella memoria le peripezie amorose di cui questa Isotta dal lungo naso, appuntito e delicato fu oggetto costante. Si dice che i Malatesta discendessero da Scipione l’Africano. Sigismondo, figlio di Pandolfo, è degno di questo antenato.


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nato nel 1417, a quindici anni aveva già indossato l’armatura e vinto la battaglia di lungarino. sin da questa tenera età egli si presenta per quello che sarebbe stato in futuro: un militare e un uomo di lettere. la medaglia di Pisanello ne presenta il profilo volitivo, elegante. i capelli formano un casco che tuttavia è cinto d’alloro. Questo principe seduce come un felino. ancora quasi fanciullo, si fidanza con la figlia del carmagnola, condottiero veneziano. il matrimonio tuttavia non ha luogo, infatti il padre di lei viene condannato a morte dalla serenissima per alto tradimento e malatesta rifiuta la figlia di un giustiziato. tuttavia trattiene la dote. successivamente il marchese d’este gli dà in sposa la fi-

glia ginevra: matrimonio politico. ginevra muore a venti anni. Ben presto il vedovo adolescente sposa Polissena sforza, unione priva d’amore. Poco dopo questo matrimonio, sigismondo incontra isotta. ecco come avvenne. Per difendere rimini dai continui attacchi del duca di Urbino, sigismondo intende creare una fortezza monumentale, la rocca malatestiana. oggi in rovina e usata come prigione, questa rocca fu un tempo la più bella d’italia. Poiché si costruisce nel luogo del suo palazzo, per un certo periodo il signore deve alloggiare altrove. egli sceglie come dimora casa roëlli, in via santa croce. la casa è vicina a quella di francesco degli atti, ricco mercante, che ha una

matteo de’ Pasti (+ 1468), Medaglia di Sigismondo, bronzo. Washington, national gallery of art, samuel h. Kress collection.

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J. Hakewill, Ponte di Augusto a Rimini, Roma, The British School at Rome Library.

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figlia di nome Isotta. La fanciulla coltiva la musica, la poesia e le arti ed è dotata di una buona conoscenza della storia. Il principe amante delle lettere non può che essere sensibile a queste doti. È bello come un dio e nell’angusta via Santa Croce gli incontri sono frequenti. All’inizio Isotta resiste al principe sposato. Ma l’umanista compone dei versi per la disumana. Le prime poesie per Isotta sono d’ispirazione del tutto ideale. Poi il tono si scalda. Per poter vincere un cuore timido, Sigismondo chiede aiuto a coloro che, in passato, seppero amare ardentemente: Ercole, Giacobbe, Sansone, Paride, Leandro, Tristano e Petrarca ed altri ancora formano un corteo amabile e disparato. L’ambasciata è persuasiva. Passa qualche anno e Isotta è madre. Il legame da principio scontenta la famiglia che tuttavia non tarda ad acconsentire. Nel 1448 Antonio, il fratello di lei, viene fatto cavaliere. Si danno delle feste nella Rocca alle quali assiste Polissena. Questo Antonio riceve dal Malatesta il borgo di Rasano, tre vestiti di stoffa dorata, tre pezze di seta e tre di velluto, oltre a dei gioielli d’oro. Per concludere la cerimonia, Isotta dona al fratello trecento ducati d’oro in una coppa d’argento. Il legame è ormai di pubblico dominio. Malgrado sua moglie fosse viva e vegeta, Sigismondo porta con sé l’emblema di

Isotta, le loro iniziali sono intrecciate e vengono uniti i loro stemmi: l’elefante e la rosa. Ma non dobbiamo pensare con questa ad una coppia unita e tranquilla. Malatesta non è fedele all’amante, più di quanto lo sia alla moglie. Il principe appartiene alla razza dei violenti raffinati. Nervoso come una donna, rude come un soldato, non c’è vizio in cui non indulga, non c’è desiderio che non soddisfi. Figure come queste non sono affatto rare nel Rinascimento italiano. Questi fanciulli barbari, esaltati dalla leggende dell’antichità, sono ingenuamente perversi, ingenuamente mostruosi. Gli eccessi che compirono nacquero spesso da letture mal interpretate e vissute in maniera troppo servile. Poiché non è dato rinvenire nella figura di Isotta quella “belleze singolari del corpo” che venivano celebrate dai poeti di corte, dobbiamo riconoscere alle sole attrazioni dello spirito e del cuore il potere continuo che ella esercitò sul difficile Sigismondo. Ella ne fu il consigliere politico e il tenero ministro femmina. Ella era sottomessa, ma la sua sottomissione non era priva di dignità e di rigore. Lo dimostrano le lettere che invia a Sigismondo. Esse sembrano quelle di una sposa, piuttosto che quelle di un’amante e sono un presagio. Ancora una volta, Malatesta fa mostra del suo carattere deciso: Polissena viene strangolata


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con un asciugamano, “con un asciugatoio alvoltole strettamente al collo”. Nessun contemporaneo accusò Isotta di complicità. Il matrimonio venne celebrato nel 1456. La compagnia di Isotta era più che mai preziosa per Sigismondo. Egli si trova in una situazione particolarmente compromessa. Le lotte con Urbino non hanno tregua; poi brama la Lombardia; tradisce Aragona e tradisce Siena; chiama in Italia Renato D’Angiò. Nel 1461 il suo nemico Enea Silvio Piccolomini viene eletto papa. Pio II lancia la scomunica contro Malatesta, una scomunica nella quale lo si accusa di “rapine, incendio, carneficina, rapimento violenza carnale, adulterio, incesto, parricidio, sacrilegio, fellonia ed eresia”. Viene celebrato il processo. Dichiarato decaduto per sempre, lo si brucia in effigie. Le forze pontificie lo minacciano. Viene sconfitto a Piano detto Marotta. Non gli resta che Rimini. Nel giro di un paio d’anni, crede di ritrovare il potere. Una spedizione in Morea contro gli infedeli, spedizione condotta in maniera brillante, gli permette al ritorno di essere ricevuto da Paolo II, successore del Piccolomini. Ma Sigismondo non è altro che una persona malata. La febbre non l’abbandona, la sua instabilità nervosa assomiglia alla demenza. Poiché considera un oltraggio il trattato che gli viene proposto dal papa, trama per assassinarlo. Per farlo, nasconde un pugnale sotto il giustacuore che indossa all’udienza del mattino. Ma il pontefice lo riceve con tutta la sua corte. Impotente, stremato per il digiuno che dura da sei giorni, lo sciagurato stramazza ai piedi di Paolo II, piange, mostra tutta la sua solitudine e gli offre i suoi servigi. Il papa lo assolda come capitano, ma non lo impiega in alcuna azione e di fatto lo relega a Rimini. È come una tigre in gabbia. Quando si deve rinnovare il trattato, Sigismondo può portare soltanto sessantaquattro lance: è tutto quello che è riuscito a mettere assieme… le febbri lo

perseguitano, lo spossano. Ma pensa sempre al suo bel tempio: pochi giorni prima della morte, si disfa di alcuni suoi beni per arricchirlo ancora. Quando muore, il 7 ottobre 1468, ha cinquantuno anni: in tutta la sua vita, ha scritto Yriarte, ha avuto soltanto due alleati, il marchese d’Este e la Repubblica di Venezia. La fine di Isotta non è meno miserabile. Tale Roberto, figlio naturale che Sigismondo ha avuto da Vanetta Toschi, la minaccia. Isotta accetta di dividere il potere con lui. Il suo figlio legittimo, Sallustio, l’assiste. Ma degna allieva dello sposo defunto, Isotta trama con Venezia contro Roberto che viene a saperlo. Qualche giorno dopo, il corpo di Sallustio viene ritrovato nel pozzo di casa Marcheselli, vittima di un’abile macchinazione che si è servita di una donna della casa, amata da Sallustio. Dopo questo colpo, Isotta perde ogni speranza. Alla fine del 1470, muore di un male rapido e strano e tutti sanno a Rimini da dove è venuto il veleno. Ella venne sepolta senza particolari cerimonie nel tempio verso il quale mi sto dirigendo. Architetto del tempio malatestiano fu il celebre Leon Battista Alberti. Era questo un sapiente senza essere uno specialista. Si occupava di diritto, di fisica e studiò perfino l’arte di costruire le navi. Era anche medico e scrittore. Sono rimaste anche alcune sue poesie che non conosco. Sembra che abbia introdotto il metro del verso latino nella prosodia italiana. Era un uomo d’ingegno, curioso e di gusto. Dimenticavo di dire che è l’inventore della camera ottica e di un bolide che porta ancora il suo nome; ci si serviva di questo bolide per misurare la profondità del mare. A Roma, dove papa Niccolò V raccoglieva i marmi greci che allora venivano ricercati con una vera e propria passione, l’Alberti ebbe la fortuna di poter contemplare le statue e i monumenti antichi. La Grecia lo 87


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C. Pennacchietti, Marina con barche, Porto S. Giorgio, Società Operaia di mutuo soccorso.

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incantava e con Brunelleschi ebbe l’idea di unire l’arte del suo tempo con quella degli antichi. Non fu semplice come potrebbe sembrare, ma fu l’esordio del Rinascimento. Sarebbe piacevole starsene a parlare di questo spirito così ricco. L.B. Alberti era un grande signore e Machiavelli soleva dire che la sua era la casa di un principe, più che di una famiglia privata. Questa famiglia ebbe spesso degli scontri sanguinosi con altre famiglie toscane. Soffrì talora l’esilio. Ci sono degli Alberti sepolti a Parigi, altri sono morti a Londra, a Bruges, a Padova, a Venezia, a Cipro. Lui, il precursore, aveva una bella testa pettinata alla romana, franca, sana, precisa, e nelle medaglie che lo raffigurano, il suo emblema è un occhio aperto che ha, come il caduceo di Mercurio, una piccola ala rastremata. L.B. Alberti era ricerca-

to dai Gonzaga, gli Este, i Montefeltro, i Medici. Lo chiamavano tutti, e lo chiamò anche Malatesta. A Rimini, Sigismondo gli chiede di abbellire, secondo il nuovo gusto, una cappella molto antica e venerata, di stile tipicamente gotico. Sarebbe diventato il famoso tempio. Alberti creò una duplice foderatura: all’interno e all’esterno dell’edificio, senza toccare la muratura originale. Di fuori l’opera è assai semplice. La foderatura marmorea è fatta in modo da formare tre archi a tutto sesto divisi da pilastri che reggono una trabeazione. Al di sopra della trabeazione, la facciata è incompiuta. Si scorge ancora, fra i pilastri rinascimentali, il tetto della chiesa primitiva. Su questa facciata austera c’è una decorazione inattesa: una striscia di marmo rosso porta, nella parte inferiore, un doppio motivo in “stiacciato”. Il motivo rappresenta la rosa


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di Isotta e l’elefante malatestiano. Ovunque si vede il fiore e l’animale, sono i simboli pagani di questo tempio dedicato alla gloria dell’Amore. Le facciate laterali sono ancora più semplici. Sette arconi sovrastano altrettanti sarcofagi. Sigismondo vi aveva fatto seppellire dei poeti illustri e dei saggi. Alcuni di costoro sono oggi dimenticati. Ma una di queste tombe è ancora degna di venerazione. Vi riposa il famoso studioso di Platone, Gemisto Bizantino, detto anche Gemisto Pletone. Questo filoso era venuto dalla Grecia per mettere in discussione, a Firenze, le teorie di Aristotele che detestava. Vi riuscì alla perfezione. Grazie a lui, Platone ebbe il massimo del successo. Fu durante il soggiorno fiorentino di Gemisto che Marsilio Ficino fondò nel giardino di Cosimo la famosa accademia platonica. Poi Gemisto tornò in Grecia dove morì. Più di dieci anni dopo la sua morte, Sigismondo ebbe occasione di sbarcare in Morea per combattere al fianco di Venezia. Uno degli atti più gloriosi di questo guerriero dilettante fu quello di portare a Rimini le ceneri del filosofo. Non fu un atto privo di coraggio sottrarre queste ceneri ai musulmani per seppellirle all’ombra del suo tempio, fra i cortigiani di cui amava circondarsi. Per costruire il tempio, Sigismondo portò via da Sant’Apollinare di Ravenna grandi lastre di porfido e di serpentino. A Classe mutilò la basilica. Nella stessa Rimini distrusse il porto romano. Altri venerabili marmi vennero da più lontano ancora. Il guerriero li caricò nella sue galere allorché, lasciata Nisistra, l’antica Sparta, sbarcò come vincitore nelle isole del Peloponneso. Non sarebbe possibile prendersela troppo a lungo con Malatesta per aver devastato costruzioni così preziose, poiché le sculture più affascinanti nacquero proprio da queste spoliazioni. Le pareti del tempio presenta-

no un popolo strano, misterioso, che seduce l’immaginazione e la conduce in un mondo nuovo. È qui, più che in qualsiasi altra parte d’Italia, che si avverte meglio il profumo denso del primo Rinascimento: dei fanciulli maldestri e commossi hanno appena scoperto l’antichità; essi accolgono gli dei e le sirene; la storia di Venere li inebria di piacere; le gesta di Ercole li fanno fremere d’invidia. La mitologia propone loro mille soggetti da dipingere e da scolpire. Essi intrecciano alle ghirlande tradizionali dei cortei di satiri e di fauni. E a loro volta inventano degli esseri favolosi con i quali arricchiscono le schiere di centauri e di pegasi. Il ramo d’alloro si piega sotto le loro dita, l’acanto novello rifiorisce. Ma essi non dimenticano le rose e riempiono i loro cesti di semi e di frutti. Fra i rami di pietra lasciano passare ed assidere le dee che hanno il loro cuore. A Rimini, sui pilastri della cappella dedicata oggi al Santo Sacramento ci sono dei bassorilievi che rappresentano Marte, Saturno, Mercurio, Diana e tutto l’Olimpo. In queste sculture i dettagli realistici si confondo con i motivi leggendari. Mercurio è particolarmente bizzarro e incomprensibile: cammina sulle onde con in testa un cappello a punta da mago, i serpenti del suo caduceo formano una lira e lui regge anche una piccola cetra. Ai suoi piedi, calzati di sandali meravigliosi, si vede un gallo e una sottile barchetta in forma di mezzaluna dove un qualche infelice sembra implorare il dio. Altri pilastri hanno i segni dello Zodiaco. Il Cancro, un granchio enorme, minaccia in cielo una città scolpita in maniera minuziosa, mentre l’Ariete coglie un ramo in una radura con un movimento di divertente naturalezza. Un’altra cappella è completamente ornata di fanciulli che giocano. Questi giuochi sono di un’inventiva e di una capricciosità tali che al loro confronto i giuochi delle statuine di Versailles, così graziose, appaiono freddi e noiosi. Nelle varie parti del tempio malatestiano s’avverte questo sapore confuso che è tipi89


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co dei periodi di transizione. Agostino di Duccio, loro principale autore, ha ancora l’ingenuità dei primitivi, ma anche, talora, l’eleganza e la sicurezza di Donatello e del Verrocchio. La fantasia di questi artisti è sempre lieve e non appare mai impacciata. Da qui deriva il valore delle loro opere. Essi sanno trovare ad ogni oggetto una destinazione poetica e decorativa. Dovevano decorare dei pilastri. Due di questi pilastri sono sostenuti da degli enormi elefanti di basalto il cui color nero lucente, in questo insieme biondo e dorato, produce un effetto bizzarro. Altri pilastri poggiano su dei cesti ampi ed alti in cui lo scalpello ha imitato la treccia del vincaio. Attorno a questi cesti dei putto con le fossette reggono sulle spalle, per mezzo di bretelle formate da nastri, delle pesanti ghirlande che formano dei grandi festoni fioriti. Da questi cesti di marmo escono dei frutti di bronzo che sembrano schiacciati dal peso dei pilastri. Ma l’immagine mostrerebbe meglio di qualsiasi descrizione queste meraviglie piene di grazia. Infine, come esprimere l’attrazione quasi sensuale che si prova nell’ultima delle cappelle? Qui, diciotto figure allegoriche nobilitano il marmo. Sono delle donne un po’ magre, dai volti fanciulleschi, vacillanti ed elastiche. Camminano su dei globi ornati in maniera diversa. La Botanica calpesta dei fiori gentili; la Medicina tiene con indifferenza due serpenti che si fronteggiano; nelle vele dell’Agricoltura il vento disegna delle onde capricciose; la Filosofia ha un aspetto timidamente solenne. Occorre ripetere che quest’arte seduce perché, in ogni istante, la spontaneità del cuore addolcisce l’opera dello spirito. Questi scultori del quindicesimo secolo volevano già fare quello che riuscì più tardi a Raffaello. Avevano costoro il presentimento di quello che chiamiamo “il bello ideale”, ma erano ancora impediti da mille lacci della natura che i loro predecessori copiavano 90

nella loro dolce schiavitù, e non si decidevano a scartare un apparato voluttuoso o pittoresco per lasciare al gesto sicuro della nuda figura tutta la sua grandezza. Ora bisogna aggiungere che tutti questi bassorilievi, tutti questi emblemi e tutti questi simboli sono posti qui in lode della sola Isotta. Prima di Charles Yriarte non si sapeva bene cosa significava questa decorazione sorprendente, così fuori luogo in una chiesa cattolica. Oggi sappiamo che sono le illustrazioni delle poesie che Sigismondo scriveva per la sua amante. Abbiamo visto in quale disordine questo signore invocava gli eroi. La maggior parte di questi eroi ornano le pareti sulle quali non si trova alcuna pia immagine. La dea è Isotta, le iscrizioni la nominano ovunque: divae Isottae Sacrum; ovunque la simbolica rosa si schiude accanto all’elefante. E a parte l’elefante, nulla ricorda che Isotta fu la compagna di un amante delle guerre. Accanto a colei che amava con ostinata costanza, Sigismondo si riposa dopo le sue vittorie e le dimentica. Non è altro che il principe e l’amante letterato. Attorno a questa delicata coppia, riposano sotto antiche pietre un filosofo, dei poeti e dei saggi, protetti dagli dei che resuscitarono. E in questo tempio che non ha uguale, Isotta è immortale non per ciò che fece la sua pena, ma per ciò che fece il suo piacere. Verso sera, lasciato il tempio, raggiunsi il mare che si trova vicino. Il vento autunnale spazzava le foglie secche e la polvere nelle strade della cittadina. Passando, vidi la Rocca devastata, il ponte e l’arco di trionfo romani. Già tutti questi monumenti del passato ingeneravano in me un senso di malinconia e in riva al mare trovai il modo di alimentarla ulteriormente. Da qualche anno, Rimini è una stazione balneare amata dagli italiani. In agosto la spiaggia è affollata ed elegante. Vi hanno costruito degli


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alberghi decorati di stucchi e dei casinò e vi si vedono ville, bazar e chioschi. In una piazza rotonda dove tremano al vento degli alberelli sparuti, giunge una vettura tranviaria. Questo almeno nei mesi estivi. Ma mi trovavo a Rimini in autunno, per cui la spiaggia era deserta, gli alberghi e i casinò chiusi, le cabine rovesciate sulla sabbia, le tende ripiegate. Malgrado le ferite, le rovine romane e malatestiane donano al cuore delle lezioni salutari. In questa stazione balneare, già stravolta da tre settimane di intemperie, avvertivo, vergognandomi della mia stessa epoca, una tristezza sterile e priva di bellezza. Giulio Cesare con il suo arco, Malatesta con il tempio vivono ancora a Rimini, dove i viventi frettolosi lavorano niente altro che per la morte. Sotto gli archi del tempio, il tempo era stato vinto, ma fra queste ve-

stigia fragili e volgari s’era già insediato un oblio privo di grandezza. Oltrepassai questa solitudine e raggiunsi il mare. Nel tramonto d’oro intenso passavano delle vele color del miele. Sulla destra, gli Appennini sembravano immergere le loro oscure pendici nelle onde. Talora il vento faceva cadere sulla sabbia molle delle tavole e nel silenzio, questo rumore aveva un che di lugubre. Volgendo lo sguardo verso la terra, vedevo nei loro angusti giardini le ville pretenziose dissolversi nel buio incipiente della notte. Con il peso nel cuore, provavo per i miei simili una collera insensata, compreso un tale che veniva passeggiando verso di me. Quando si avvicinò, mi chiamò con mia grande sorpresa. Lo riconobbi anch’io e gli detti la mano. Era F… che solevo incontrare con piacere a Parigi, poiché nella con-

D. Ricci, Farfalle, Ascoli Piceno, Pinacoteca Civica.

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versazione si dimostrava colto e pieno di fantasia, ma qui, l’avrei mandato al diavolo. Non avevo scappatoie. Ci mettemmo a camminare fianco a fianco. Parlammo del tempio, di Sigismondo e della divina Isotta. Il mio compagno protestò allorché mi azzardai a dire che, per sedurre il destino, questa principessa non possedeva una grande bellezza. Dopo che ne ebbe tessuto le lodi, aggiunse: “Mi trovo a Rimini perché ho dichiarato un grande amore ad Isotta. Non ridete. Voglio farvi una confidenza…perché mi comprendiate, devo dirvi che ho avuto, un tempo, una grande passione, ma sfortunata. Ho sofferto le pene dell’inferno. Non volevo essere consolato. Poi un amico mi ha portato in Italia e questo paese ha cominciato a guarirmi. Vi riassumo la mia storia in due parole. Da principio la bellezza del cielo e i paesaggi nobili e profumati raddoppiarono la mia pena. Che supplizio visitare luoghi del genere senza la persona cara e crudele della quale mi sembrava di vedere ovunque l’immagine. Tuttavia un giorno a Bergamo, in una chiesa meno bella del tempio di Isotta, incontrai un primo fantasma. Era la principessa Medea, figlia del Colleoni, quello di cui avete visto a Venezia la famosa statua. Medea morì senza aver conosciuto l’amore. Venne sepolta con il suo uccello preferito di cui si ritrovò l’esile scheletro quando venne riaperta la bara. Sollecitato dal soave mausoleo e dal prestigio del nome eroico, avvertii per Medea un immaginario trasporto sentimentale che non si placò allorché lasciai Bergamo. A Mantova, sotto un soffitto azzurro e dorato, dinanzi ai pannelli che abbellivano un tempo i due Mantegna del Louvre, venni accolto dall’ombra di Isabella d’Este. Non resistetti alla sua grazia, al suo spirito. Da allora, sono poche le città italiane nelle quali non mi sono lasciato conquistare da qualche principessa, da qualche cortigiana, 92

da qualche beata che il mio fervore faceva uscire dalla tomba, o dal paradiso. A Verona, fu Giulietta, come per tutti, ed anche la nera principessa di Trebisonda che Pisanello ha dipinto sulle pareti di una chiesa, vestita d’oro e della notte. A Vicenza, in una villa che domina due vallate, entrai nella corte della regina Armida. Ella si trova in mezzo ad un paesaggio dolce e gessoso dipinto dal Tiepolo. La regina ha il naso per aria, gli occhi brillanti e al collo porta con ostentazione gentile una collana di perle enormi. Da Venezia seguii fino ad Asolo la grassa Cornaro che regnò su Cipro. Nella deserta Murano evocai il ricordo dell’ardente religiosa che la notte accoglieva il cardinale de Bernis e Casanova. A Parma, nel giardino umido, ho sognato con Stendhal di rintracciare i passi della Sanseverina, maliziosa e malinconica, meno impaziente di incontrare Clelia Conti che piangeva di felicità. Santa Barbara dalle pallide guance color giada mi ha sorriso in una povera chiesetta di Siena e a Firenze ho rubato con il pensiero un gioiello di pietre color sangue dal collo lungo di Lucrezia Panciatichi. A Roma, trascurate le muscolose sibille, ho baciato sulla bocca la maschera fredda della poetessa greca che sogna in un angolo del museo delle Terme e, a Bologna, nella fuga degli archi ho chiesto della sapiente Novella che si nascondeva dietro una tenda purpurea ai suoi allievi appassionati nel collegio dove insegnava. E così aumenterò presto e per sempre questo corteo immaginario. Mi attendono ancora delle sorprese commoventi. Andrò a Napoli, andrò in Sicilia. E presto sarò in Umbria, sotto l’azzurro francescano. Senza dubbio sto diventando un po’ maniaco. Ma accanto ai miei fantasmi provo una vile sicurezza. Non voglio più soffrire, voglio ancora amare. A Rimini, Isotta mi ha accolto senza ingannare il mio amore. Non le chiedo nulla che non mi possa donare. Per il resto, se vuole accompagnarmi all’albergo, capirete perché posso conoscere, vicino ad


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Dosso e Battista Dossi, Particolare della decorazione della Sala delle Cariatidi, c. 1530. Pesaro, Villa Imperiale.

una principessa defunta, i meno chimerici trasporti”. Seguii senza farmi pregare questo amante delle ombre. Ero inquieto e curioso. Mi immaginavo delle circostanze particolari. Cosa avrei mai potuto vedere all’albergo? Arrivammo. F… mi precedette nel corridoio. Aprì la porta e mi pregò di aspettare qualche istante. Poi mi fece entrare. Una giovane fanciulla era seduta su una poltrona, vestita di una lunga tunica sciolta, pettinata come Isotta. Era intenta a ricamare. Sulla tavola fiammeggiava un mazzo di vitalba color cremisi. Andai verso il centro della stanza senza che la fanciulla si movesse. F… la toccò dolcemente sulla spalla indicando verso di me. Ella sollevò

il capo e potei vedere in un volto bianco uno sguardo triste e appassionato che non dimenticherò mai. Mi chinai e mi sedetti, allorché F… disse: “Ho avuto la fortuna di incontrarla ad Avignone, nei giardini dei domenicani, a primavera. Le faceva da guida un ragazzetto macilento. Si protese su di lei, l’abbracciò e disse ancora: “È sordomuta e incapace di intendere. Posso quindi cambiare come voglio la sua anima indefinita. Questa sera è Isotta”. Il giorno successivo lasciai Rimini per Faenza senza aver rivisto F… il quale, senza dubbio, s’era preso giuoco di me. 93


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André Maurel Pesaro e i suoi fantasmi Qui a Pesaro mi trovo nell’albergo più straordinario in cui potessi capitare. È un edificio notevole. Qualsiasi “palace” d’una capitale non potrebbe che invidiare la sua volta d’ingresso e il suo scalone. L’anticamera è occupata, nel mezzo, da una tavola per venti coperti. Quanto alle camere… La mia ha il soffitto ogivale. Questo albergo è l’antico palazzo di un cardinale. Il mio letto, anzi i miei letti, dato che me ne hanno dati due, si trovano nella cappella. Di notte i miei occhi si perdono in un soffitto ogivale di sei metri. Se tossisco, mi rispondono trentadue voci canterine. Chiedo dov’è il salone dove posso andare a scrivere. Un dito me l’indica con gesto di sufficienza. Procedo dritto davanti a me e finisco in una sala da ballo, una ventina di metri quadrati dove il portiere dell’hotel, con tanto di redingote gallonata e l’emblema delle chiavi sul colletto, fa il giro in bicicletta. Ed ecco che anch’io stabilisco il record del giro del salone, in bicicletta. Quale compensazione! Ho un po’ esagerato parlando della gioia del soffitto ogivale – non c’è nulla di più glaciale, ve l’assicuro – e del mio salone-velodromo. In ogni caso sono stati motivo di distrazione e mi hanno aiutato a trascorrere due notti nella patria di Rossini. Urbino, dove sono diretto, vale queste fantasticherie, Urbino e in parte anche la stessa Pesaro. Il palazzo dei duchi non dice nulla che già non si sappia. Cinque enormi finestroni, al di sopra di sei archi a piano terra, ne fanno un nobilissimo monumento, e se il suo disegno non fosse familiare agli amanti dell’Italia, che vengono qui soltanto dopo una lunga frequentazione del paese, meriterebbe tutto il nostro entusiasmo. San Domenico, San Giovanni Battista, un piccolo museo, San Francesco, Sant’Agostino non fanno rimpiangere le ore della diligenza di Urbino e del suo viaggio. 94

Tra queste ore ce n’è una che da sola farebbe scomparire ogni delusione. Si tratta di un’iniziativa che m’ero ripromesso di fare sin dal primo giorno in cui avevo programmato il viaggio. Nei miei sogni, la villa Imperiale che domina Pesaro era simile alle ville medicee attorno a Firenze, o a villa Maser, o a villa Valmarana. Non c’è nulla di più affascinante, per coloro che nel paesaggio cercano l’umanità e la vita, di queste residenze di campagna. Vi si sorprendono il passato e i suoi segni con molta maggiore facilità di quanto avvenga a Pitti, a palazzo Barbaro o Riccardi. Loro tramite si penetra in un’intimità profonda. I sentimenti che ho provato a Ferrara, a casa Romei, l’ho avvertiti a Poggio a Caiano, a Careggi, a monte Berico, a Bassano, ovunque ho potuto sfiorare per un istante quegli esseri di cui le ville risvegliavano imperiosamente in me il ricordo. Nel palazzo ducale di Pesaro incontro Alessandro Sforza, Lucrezia Borgia, Leonardo Gonzaga; li incontro, sì, ma in abiti e gesti da cerimonia. Mi sorridono, poiché non mi hanno confuso con la folla dei cortigiani, ma non fanno nulla per trattenermi. Questa mattina, al contrario, mi hanno invitato a rendere loro visita nella dimora di campagna. Vivrò con costoro per qualche ora e si lasceranno tanto più sorprendere, quanto più faranno in modo che lodi la loro accoglienza. Una mulattiera tracciata sul fianco del monte Accio conduce alla villa Imperiale. Il vetturino che mi sottopone le reni ad un vero martirio se la prende comoda, e la robusta cavalla che ci trasporta non sottopone muscoli e garretti a troppi sforzi. Poco a poco la valle del Foglia s’abbassa e scopre il suo tenero orizzonte. Alle mie spalle il mare è color azzurro cobalto, davanti a me gli Appennini sono completamente bianchi. Fra questi due scenari immutabili, la pianura dispensa la diversità dei propri grigi olivi, dei mandorli dal verde tenero, dei neri cipressi e dei fiori dei peschi, dei meli e di tutti gli alberi dai toni differenti che esaltano la primavera.


lungo la costa

T.G. Jackson, Camino del Palazzo Ducale di Urbino da A Holiday in Umbria, 1916.

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Viaggiatori stranieri fra Romagna e Marche Veduta del Pazzo Ducale di Urbino, xilografia dal frontespizio di Bernardino Baldi, Encomio della Patria, Urbino per A. A, Monticelli, 1706.

Dopo avere superato questa specie di montagne russe, si presenta una strada meno ardua, diritta, che annuncia la presenza di un cancello. Ella sale in mezzo a delle vigne che cavalcano il poggio. Il paesaggio ha un’aria di prosperità dovuta al lavoro dell’uomo. S’indovina la cura con cui viene coltivato. Persone accorte e amanti del vivere respirano fra le essenze in mezzo alle quali Lucrezia Borgia ricevette baci appassionati. Almeno questo è quanto comunica il paesaggio. La villa Imperiale ora si presenta a sinistra della strada, a ridosso di castagni ancora spogli, fra la verzura di un parco folto. Sebbene priva dei suoi fantasmi, da lontano ha un’aria grandiosa. Da una terrazza le sue mura scendono sulla destra a ridosso dei vigneti, al di sopra del monte Accio. Essa s’affaccia sulla vallata con le sue piccole finestre dalle imposte verdi distribuite in maniera irregolare sulla facciata. Ma questa è solo una prima, assai stretta co96

struzione. Un’alta torre, una sorta di torre campanaria, la domina dal retro e separa questa ala che si indovina essere vecchia, malgrado i restauri recenti, da un’altra ala, più vasta e dall’aria sontuosa. Il terreno a gradoni ha permesso di costruire la villa su più piani e la seconda costruzione sovrasta la prima e l’umilia con il suo lusso sfacciato. Terrazze a balaustra sulle quali s’aprono due logge cadono a strapiombo sui tetti della prima costruzione, vaste terrazze che sostengono l’insieme al di sopra degli alberi e al di sopra della montagna verso il mare. Superato il cancello, un viale coperto conduce al terrapieno dove si sviluppa la villa. Ora vedo chiaramente le due costruzioni giustapposte, l’una modesta, l’altra magnifica; ma la prima viva, accogliente, la seconda scontrosa, quasi fosse stata devastata da un incendio. Una corte immensa, delimitata da muri incompiuti, ha delle finestre prive di vetri che illuminano solo il vuoto,


lungo la costa

mentre dalle piccole imposte semiaperte della costruzione più piccola s’intravedono dei mobili e dei soffitti dipinti. Mi fa da guida il custode. Appena Alessandro Sforza ebbe ottenuto Pesaro da Galeotto Malatesta, s’affrettò a costruire questa villa. Attorno ad un cortile porticato, triste ed oscuro, si sviluppa une serie di ambienti che una mano delicata e guidata dal buon gusto si sforza di mantenere originali, pur rendendoli abitabili. Di quel primo periodo, degli anni in cui Giovanni Sforza, nipote di Alessandro, condusse qui la sua sposa Lucrezia, non restano che i muri. Ma non è commovente poter accarezzare le colonne che la mano dolce ed esperta della molle Lucrezia Borgia accarezzò quattrocento anni fa? O affacciarsi alle finestre dalle quali Cesare Borgia dovette interrogare la sua stella? Le decorazioni che sussistono non hanno più nulla che possa ricordare il breve, ma decisivo passaggio dei Borgia da Pesaro. Risalgono tutte ai Della Rovere, al XVI secolo, allorché Giulio II costrinse gli Sforza a cedere Pesaro al duca di Urbino. Piccole decorazioni, stucchi e affreschi pieni di dettagli gradevoli e toccanti: di questi il minore non è il trionfo di Francesco Maria della Rovere, scortato da Alfonso da Ferrara e da altri signori; né il più insignificante è il pergolato dipinto da Dosso Dossi, né il più bello la Calunnia che potrebbe assomigliare ad un Apelle. È su questo primo livello che s’impone il piano terra della seconda costruzione, della costruzione grandiosa e solenne che Francesco Maria di Urbino e la sua sposa Leonora Gonzaga cominciarono a edificare. Questa parte, rimasta incompiuta, è stata di recente restaurata. Ella è, rovina messa a nuovo, di una solennità e di una nobiltà incomparabili. Un giardino pensile, all’altezza del primo piano come nella corte reale di Mantova, ne costituisce il centro. Dei fiori

in cesti formano la decorazione tutto attorno ad un pavimento sgombro. Ci sono delle stanze perfettamente ripulite e tramite delle torrette angolari si sale al loggiato dal quale si scoprono il mare, la valle del Foglia e le nevi rosate di San Marino. L’insieme è solenne. Queste due dimore, l’una così toccante con le sue vecchie cose amorosamente preservate dalle ingiurie dei secoli, l’altra così altera nella sua posizione retrostante e nel suo stato primitivo e incompiuto, formano il più sorprendente degli insiemi. Sorprendente per il modo in cui restituisce il senso della vita e della sua interruzione improvvisa. Se per un verso sono riconoscente a Francesco Maria per la sua iniziativa che ci informa così bene sui gusti solidi e fastosi dei signori del suo tempo, per l’altro gliene voglio per non essere soddisfatto nella dimora più piccola nella quale venne concepito e preparato uno degli atti più meritevoli della politica italiana, dove Cesare Borgia dette avvio alla sua grande impresa di monarchia civile e unitaria. Dan Fellows Platt Questa è forse la regione più bella d’Italia 1906 Collezionista americano, Platt (18751938) compì vari viaggi in Italia alla ricerca di opere d’arte. Il viaggio del 1906, compiuto con una Fiat, viene descritto in Through Italy with Car and Camera, 1908 (Viaggio di un collezionista in Italia, 2003). La sua collezione di opere italiane costituisce il vanto del museo dell’Università di Princeton. A circa dieci miglia da San Giustino raggiungemmo la vetta del passo di Bocca Trabaria. Le stratificazioni geologiche rendono la zona interessante da un punto di vista scientifico. Le curve della discesa, 97


Viaggiatori stranieri fra Romagna e Marche Veduta di Rimini da oriente, incisione su disegno di F. Chamant in T. Temanza, Delle antichità di Rimino, Venezia 1741.

dalla vetta a Mercatello, ci innervosirono non poco, ma filò tutto liscio. A Mercatello trascorremmo un’ora gradevole con il parroco al quale ci avevano indirizzato. Fu con vero piacere che questi ci mostrò la vecchia chiesa con il coro affrescato da un qualche allievo di Melozzo da Forlì. Una costante discesa ci condusse ben presto a Sant’Angelo in Vado e un tratto analogo ci portò in vista di Urbino, a sommo del colle. Eravamo ormai nelle Marche. Allungandosi sulla costa orientale della penisola, fra la Romagna a settentrione e gli Abruzzi a mezzogiorno, questa regione montagnosa che guarda verso il mare è forse la più bella d’Italia. Urbino ha molti motivi d’interesse, oltre alla fama di aver dato i natali a Raffaello. La sua casa e quella di Timoteo Viti, suo maestro, si trovano nella medesima strada che porta al punto più alto della città. Da qui si gode una vista che include lo sperone roccioso di San Marino il quale si leva oltre una serie di colline intercalate da valli affogate nella foschia. In lontananza, oltre Pesaro, si scorge l’Adriatico. Sebbene lo spirito dell’epoca l’ignorasse, il giovane Raffaello dovette incantarsi dinanzi a questa vista. La colazione all’albergo Italia fu resa sgradevole da un gruppo di individui le cui chiacchiere sul tempo, in dialetto, erano talmente rumorose da istigare al delitto. Anche noi ci mettemmo ad urlare a più non posso, per catturare l’attenzione. 98

Non ci fu niente da fare, per cui lasciammo perdere […] Nella sacrestia della cattedrale ci sono opere del Barocci, di Timoteo Viti e di Piero della Francesca. A questo punto del viaggio abbiamo assorbito abbastanza lo spirito arcaico per goderci appieno la Flagellazione di Piero. Il Baedeker ricorre all’aggettivo “elaborato”, che è quanto di più inadatto per un’opera così schematica. Piero offre qui lo stesso tipo quasi cinese che abbiamo visto nel Battesimo di Londra. Il mattino appresso abbiamo lasciato Urbino. Ventitré miglia di discesa ci condussero a Pesaro e all’Adriatico nel tempo di un’ora, malgrado la sosta per una foratura. Con le sue maioliche e le pitture dello Zoppo, il museo di Pesaro non ci trattenne poiché avevamo deciso di dedicare il breve tempo a disposizione all’Incoronazione di Giovanni Bellini in Sant’Ubaldo, capolavoro che comunica un senso straordinario di serenità. Seduti al centro, il Cristo e la Vergine sono la chiave di volta della calma che promana dall’opera. Il Palazzo ducale di Pesaro che s’affaccia sulla piazza ospita la Prefettura. Costruito da Laurana nel 1450, ha proporzioni così belle da costituire un esempio per gli architetti d’oggi. Otto miglia più a sud si trova la cittadina costiera di Fano che va orgogliosa del proprio arco romano. La chiesa di Santa Croce ha una Madonna di Giovanni Santi con una Sant’Elena che è quanto di me-


lungo la costa

Il ponte d’Augusto e di Tiberio a Rimini, incisione su disegno di F. Chamant in T. Temanza, Delle antichità di Rimino, Venezia 1741.

glio il pittore abbia dipinto. La sua Visitazione in Santa Maria Nuova è sincera, ma non regge il confronto con i Perugino vicini. Di questi, l’Annunciazione, lontano dallo stupire, appartiene ad un livello artistico assai alto. Dipinte nel 1497, la Madonna e la Pietà sono di analogo tenore e la predella è semplicemente magnifica. Il pannello centrale con il Matrimonio della Vergine è una delle rappresentazioni più affascinanti del tema. Il dipinto di Raffaello, che si trova a Brera, eseguito sette anni dopo, deve molto a quest’opera del maestro, sebbene gli storici dell’arte abbiano sempre sostenuto che il dipinto ispiratore sarebbe stato lo Sposalizio di Caen. Berenson è il primo a dimostrare che quello di Caen è un dipinto posteriore e più povero, non attribuibile al Perugino, ma allo Spagna. Gabriel Faure “Vegno di loco ove tornar desio…” 1911 Scrittore e romanziere francese, Faure (1877-1963) deve la notorietà alla vasta produzione di libri di viaggio dedicati all’Italia, da Heures d’Italie, 1910-1913, Sur la via Emilia, 1911, da cui sono tratte le pagine sottostanti, ai volumi Au pays de Saint-François d’Assise, 1916 e Au pays de Sainte Catherine de Sienne, 1918.

Il giorno sta per tramontare. E poiché domani devo partire, voglio concludere il mio viaggio e percorrere l’ultimo tratto della via Emilia attraverso Rimini. Essa entra in città dopo aver superato il Marecchia, l’antico Ariminus, con un bel ponte di travertino cominciato da Augusto e portato a termine da Tiberio. I suoi cinque archi massicci i cui piloni sono leggermente obliqui per offrire minor resistenza alla corrente, reggono da venti secoli agli assalti del fiume. Il Marecchia, che oggi potremmo superare facilmente saltando a piedi giunti, spesso diventa un fiume enorme che rompe gli argini, sradica gli alberi delle rive e li scaglia contro i piloni del ponte che talora sommerge. Sino ad ora il cemento romano ha retto ai suoi assalti furibondi. La via Emilia attraversa Rimini con il nome di Corso d’Augusto. Ella fiancheggia Piazza Cavour dove zampilla una vecchia fontana che risale, dicono, ad Antonino Pio, quindi la Piazza Giulio Cesare, l’antico foro della città, e arriva all’arco di trionfo che il Senato e il popolo, nel 27 a.C., eressero in onore di Augusto. Fra i monumenti imperiali è uno dei meglio conservati dalle ingiurie del tempo e degli uomini. Costruito completamente in travertino, ha un aspetto semplice, elegante e maestoso ad un tempo. Due pilastri nei quali sono incastrate delle belle colonne corinzie sostengono un arco ardito con un’apertura di quasi nove metri. Ha come decorazione due teste bovine, emblemi delle colonie 99


Viaggiatori stranieri fra Romagna e Marche Rimini, Arco d’Augusto e ingresso a Rimini, 1834-36, incisione di Bernardino Rosaspina (1797-1882) su disegno di L. Ricciardelli. Rimini, Biblioteca Gambalunghiana.

romane, e quattro medaglioni nei quali sono raffigurati Giove, Venere, Nettuno e Marte, protettori della città. Un tempo era sormontato da una quadriga sulla quale era Augusto, ma venne distrutta all’epoca delle invasioni dei Goti e successivamente sostituita dall’attuale merlatura che lo sfigura e l’imbruttisce. Contro ciascuno dei pilastri poggiano le mura della città della quale costituì a lungo la porta principale. Viene detta anche Porta Aurea a causa della scritta in lettere di bronzo dorato. Dall’altra parte dell’arco ha inizio la via Flaminia che porta a Roma attraversando il paese dei Senoni, l’Umbria e la Sabina e che entra nella città eterna dopo aver superato il Tevere a Ponte Milvio. Eccomi quindi alla fine della strada. Domani risalirò verso Venezia, fedele all’appuntamento annuale dello sposalizio dell’autunno e dell’Adriatico. Quando ci si trova al momento della partenza, in mezzo al tumulto di una stazione, quando si stringono le mani degli amici che ti augurano buon viaggio e ti invidiano, non sembra che il viaggio sia poi così corto. Ci sono tante cose da vedere, tante città da visitare, tante gioie da assaporare! 100

Ed ecco che tutto è passato alla svelta, così alla svelta che sembra di aver assistito ad una proiezione cinematografica. Fra qualche giorno passerò di nuovo le Alpi, il cuore stretto da quel genere di rimpianto che provava anche Madame de Staël al momento di lasciare l’Italia, ripetendo con lei i versi che aveva sulle labbra mentre saliva i tornanti del Cenisio: “Vegno di loco ove tornar desio”. M’ero fermato una sola volta a Rimini, anni or sono, fra un treno e l’altro, poiché intendevo avere un’idea del tempio dell’Alberti che volevo da tempo conoscere. Ero diretto in Umbria e rammento, quello stesso giorno, uno splendido tramonto sull’Adriatico e un arrivo notturno ad Ancona. Mi è facile risalire alla data, era l’agosto del 1905, il giorno dell’eclissi del sole. Mi rivedo ancora nella piccola piazza di San Francesco, mentre cerco di tranquillizzare come posso un gruppo di vecchiette che si lamentano e si stringono in gruppo man mano che la luce svanisce… Oh! Su codesta strada, davanti a codesto arco che ha visto scorrere più di venti secoli, cosa sono pochi miserabili anni? Ma per noi hanno un diverso significato, tanto più che siamo ancora, secondo


lungo la costa

Ponte di Rimino, 183436, incisione di Bernardino Rosaspina (17971882) su disegno di L. Ricciardelli. Rimini, Biblioteca Gambalunghiana.

la bella immagine dantesca, tra i viventi di questa strada che non è altro che una corsa verso la morte: “vivi / Del viver ch’è un correre alla morte”. Su questa terra italiana tutto è gioia e voluttà, le ore scorrono come belle fontane delle quali vorremmo fermare il corso, i giorni passano celeri, specie quando la vera giovinezza è finita, quando non desideriamo più guardare avanti, ma si comincia a volgere indietro lo sguardo! Ho riletto sulla tomba d’Isotta il monito saggio: Tempus loquendi, tempus tacendi. Verrà un giorno, forse tra non molto, chissà, in cui non ci sarà più bisogno di tacere. Prima che scendesse la notte, ho voluto rivedere l’Adriatico che con il suo mormorio ha tante volte cullato i miei sogni e le mie speranze. Tartane e bilancelle tornano due a due, come coppie d’innamorati, ammainando le belle vele piene di luce. Scompaiono dietro il molo dove s’accende un fuoco. Al venir meno del giorno, si leva una brezza tiepida che sfiora la pelle come una carezza. Serata di settembre sul mare, triste dolcezza… Non so cosa di grave ci circondi. Tale è la calma che si sente il battito del cuore. Appena, a momenti, il rumo-

re impercettibile della risacca che si frange contro la sabbia molle. Ed eccola, la notte, senza averla vista venire. Uno dopo l’altro s’accendono la luna, i pianeti, le stelle, tutti quegli astri che ci sono ignoti nelle città dagli alti casamenti, dalle luci accecanti, e che, in viaggio, sembrano vivere con noi e seguirci come vecchi amici. Sulla riva lampeggiano delle luci. Il suono esile di un pianoforte giunge dal grand hôtel già semideserto. Entra in porto un’ultima imbarcazione scivolando sull’acqua, silenziosa come un gatto che nasconde gli artigli. Ah! Serata di settembre, triste dolcezza…. Gabriel Faure Ricordo dell’Adriatico 1924 Il brano che segue è tratto da Paesaggi e poeti d’Italia, Roma, 1930. “A cominciare da Pesaro la strada ferrata corre lungo il mare, tra le cabine e i bagnanti distesi sulle spiagge dalle lucenti arene. L’acqua è così azzurra, di un azzur101


Viaggiatori stranieri fra Romagna e Marche

Norberto Pazzini (1856-1937), La spiaggia di Rimini, 1918. Coll. Privata.

Nella pagina a fianco: F. Crisp, Barche sull’Adriatico della Romagna, ill. per E. Hutton, Cities of Romagna and the Marches, 1910. P. Nardini, Marina, Ascoli Piceno Pinacoteca Civica.

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ro così intenso che ha riflessi di metallo e sembra un bagno chimico nel quale le mani si tingerebbero immergendovele. Il mare è già orientale. Quando il vento soffia da Sud Est viene direttamente dalla Grecia, tutto carico di profumi di quell’antica terra. Nelle gonfie vele delle tartane palpita il Levante: gialle o rosse, spesso rigate di larghe strisce brune, i loro colori si ravvivano e divampano su questa lastra di lapislazzuli; e qualcuna ancora inalbera la mezzaluna o il sole, emblemi dei pirati barbareschi. L’aria è così pura che talvolta, sul finire del giorno, le montagne dalmate si disegnano nettamente all’orizzonte, a più di quaranta leghe. Le rivedo ancora in questo crepuscolo di settembre elevarsi come terre di sogno dall’acqua scintillante. Verso Ancona il cielo era di un violetto cupo e tragico, limitato da una fascia scarlatta. I suoi colori si urtavano violentemente senza transizioni, senza gradazioni, come i vestiti mezzi

rossi e mezzi azzurri dei paggi del Pinturicchio…” Mi sembra che siano d’ieri queste righe scritte dodici anni fa, quando vidi per la prima volta l’Adriatico. Ma ho così spesso rievocato quel tramonto che mi basta di chiuder gli occhi per rivedere tutto: il cielo, il mare, le barche luminose e le nuvole smaglianti. È come quando si porta all’orecchio una conchiglia marina per sentire il murmure delle onde. Ed ora respiro la brezza di quella serata trascorsa sul molo deserto di Ancona, illuminato dalla luce fremente delle costellazioni che ogni notte, o quasi, Leopardi contemplava “sul paterno giardino scintillanti”.


lungo la costa

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Viaggiatori stranieri fra Romagna e Marche

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III. NELL'ENTROTERRA TESTIMONIANZE

John Addington Symonds Nel cuore del Montefeltro 1872 Saggista inglese e storico della letteratura e dell’arte, John Addington Symonds (1840-1893) effettuò lunghi soggiorni in Italia per motivi di salute. Ne trasse ispirazione per i volumi di The Renaissance in Italy, 1875-1886. Descrisse i suoi viaggi in Sketches in Italy and Greece, 1874 (dal quale è tratto il brano sottostante) e Italian Byways. Essi vennero riuniti sotto il titolo Sketches and Studies in Italy and Greece, 1898. Da San Marino la strada precipita a rotta di collo. Adesso ci troviamo nell’autentica regione montefeltresca, da dove discesero i conti di Montefeltro nel dodicesimo secolo. Il lontano nido d’aquila è San Leo che costituiva la chiave d’accesso al ducato di Urbino nelle campagne combattute centinaia di anni fa. Situata sulla cima di una roccia scoscesa, questa fortezza sembra poter sfidare qualsiasi nemico, tranne la carestia. E tuttavia San Leo venne conquistata e riconquistata con l’inganno, quando Montefeltro, Borgia, Malatesta, Della Rovere si contendevano il dominio

di queste valli. Quella laggiù è Sant’Agata, il paese verso il quale Guidobaldo fuggì di notte, allorché il Valentino lo cacciò dal suo ducato. Un po’ più lontano s’erge Carpegna, dove un ramo dei Montefeltro conservò una contea per sette secoli e vendette il suo feudo soltanto nel 1815. Monte Copiolo si trova dietro, Pietrarubbia di fronte: sono due altri nidi d’aquila della stessa covata. Che strada! Supera in peggio i sentieri dell’Exmoor. Il saliscendi del Devonshire sdegna ogni compromesso e non ricorre a deviazioni o a zigzag. Ma qui la geografia è in scala di gran lunga più vasta e la ferrovia è peggio inghiaiata che in Inghilterra – masse nodose di talco e sporgenze di pietre arenarie affiorano nelle curve pericolose – e solo le parole di Dante possono descrivere il viaggio: “Vassi in San Leo e discendesi in Noli / Montasi su Bismantova in cacume /Con esso i piè; ma qui convien ch’uom voli”. A dire il vero, i nostri cavalli sembravano volare piuttosto che arrampicarsi su e giù per quei precipizi; Visconti li incitava allegramente con il suo animo vivace e prestava loro, quando c’era bisogno, l’aiuto di mano e di voce dei suoi attenti cocchieri. Ci trovammo ben presto su una stradacornice posta fra le montagne e l’Adria-

Edoardo Pazzini (1897-1967), Paesaggio della valle del Conca, 1938 particolare. Rimini, coll. privata.

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viaGGiaTori STranieri fra roMaGna e MarcHe

nuda roccia. se non fosse per le luci azzurre in lontananza e per la costante presenza del mare, questi appennini terrosi sarebbero troppo sinistri. l’aria infinita e il sottile velo di fogliame primaverile nei campi e nel bosco ne mitigano la severità. Dovemmo guadare due fiumi ingrossati dalle ultime piogge. attraverso uno di questi, il foglia, ci fecero strada dei contadini a gambe nude. i cavalli passarono, il ventre nell’acqua color bruno fulvo. Poi ancora colline e vallicelle; angoli verdi con le ondeggianti messi dei cereali; querce secolari ornate da fogliame dorato. l’aria limpida del pomeriggio risuonò delle voci di un migliaio di allodole in cielo. tutti sembravano fremere con la luce e il delicato suono etereo. ma la mia mente andava in maniera irresistibile a pensieri di guerra, di violenza e di saccheggio. Quante volte questa terra di passaggio era stata contesa da cima a fondo da montefeltro e Brancaleoni, da Borgia e malatesta e Della rovere! con il calar della sera, appennini più solenni si levarono a sud. il monte d’asdrubale, il monte nerone e il monte catria comparvero all’orizzonte. finalmente, quando la luce si fece fioca, una torre si levò al di sopra della vicina catena di montagne. la sagoma spezzata di una città sbarrava l’orizzonte. Urbino stava di fronte a noi. la nostra lunga marcia giornaliera giungeva al termine. a.J.C. hare Il passo del Furlo 1876

Il passo del Furlo, ill. per a.J.c. hare, Cities of Northern and Central Italy, londra, 1876.

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tico, una strada che seguiva le svolte dei burroni e delle gole scoscese e che serpeggiava intorno ai castelli in rovina situati sulle alture. la linea del mare era ora in alto, sopra i loro terrapieni coperti d’erba, e ora la pianura screziata dalle ombre cingeva i loro bastioni uniti alla

Il brano è tratto dalla guida di Augustus John Cutberth Hare cities of northern and central italy, del 1876, la quale, aprendo la strada delle Marche attraverso il passo del Furlo, ne esalta l’orrido e il pittoresco e allo stesso tempo cita le dense memorie dell’antichità classica.


nell'entroterra

Lasciata Urbino, un’ottima strada conduce alla sottostante valle del Metauro e all’imbocco del famoso passo del Furlo. È questo il luogo che colpisce maggiormente il viaggiatore nel passaggio degli Appennini. Precipizi tremendi di roccia grigia costeggiano il fiume consentendo alla strada, che è la via Flaminia, di arrampicarsi sui dirupi, escluso il punto in cui passa attraverso una galleria costruita da Vespasiano, lunga trentasette metri, larga cinque e mezzo e alta quattro e mezzo. Dalla perforazione della roccia, o forulus, deriva appunto la parola Furlo. Procopio descrive il luogo come Petra Pertusa, e Claudiano canta: “Qua mons arte patens vivo se perforat arcu, / Admittitque viam sectae per viscera rupis” (VI, Cons. Hon., 500). La roccia che sovrasta la strada è talmente scoscesa che, nella stagione invernale, è pericoloso attraversare il passo, infatti di lato alla via ci sono molte croci che ricordano il crudele destino di viaggiatori che

sono rimasti schiacciati dai massi. Qui c’è il monte di Asdrubale dove venne combattuta la sanguinosa battaglia, nel 207 a.C., fra romani cartaginesi, nella quale morì Asdrubale, fratello di Annibale. La strada attraversa ora un curioso ponte romano, detto Ponte Manlio, appena prima di entrare nella piccola e ricca cittadina di Cagli che ha una bella piazza, la fontana e il palazzo comunale. Katharine Hooker Suggestioni di una stampa d’epoca 1900 Americana, figlia di un cercatore d’oro, la Hooker (1845-1935) adottò l’Italia come sua seconda patria dedicandole vivaci libri di viaggio, fra i quali Wayfarers in Italy, 1902, da cui sono tratte le pagine sottostanti, e Byways in Southern Tuscany, 1918.

P. Stephens, Veduta dell’Adriatico, 1768, la serie delle vedute illustra le stazioni della via Flaminia e della via Lauretana.

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Viaggiatori stranieri fra Romagna e Marche

Vedute di San Marino, da J. Blaeu, Theatrum civitatum et admirandorum Italiae, I, Amstelaedami 1663. Rimini, Biblioteca Gambalunghiana.

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Nel vecchio volume del Dennistoun dedicato ai duchi di Urbino c’è un’incisione dal gusto antico che raffigura San Leo. Il luogo è rappresentato con la libertà tipica delle stampe dell’epoca. In cima ad un incredibile picco si trovano tanti edifici quanti ce ne possono stare con agio ed effetto pittoresco, mentre un sentiero zigzagante scende verso la piana con un’inclinazione di circa quarantacinque gradi. Giunto in fondo, esso incontra un’ampia fiumara dalle rive scoscese e dal lussureggiante fogliame, mentre sulla riva opposta si erge un picco meno sorprendente per l’elevazione, ma abbastanza simile al primo, se si esclude l’impossibilità di raggiungere le dimore che vi si trovano in cima.

Su un’immaginazione giovanile quella figura esercitava una vivida impressione. Era possibile che nel vecchio mondo potesse esserci, meraviglioso e lontano come le stelle, un castello simile sospeso nel vuoto? […] Fino ai piedi delle montagne alle spalle di Rimini s’apre un’ampia valle densamente coltivata. Non sempre l’occhio forestiero riconosce il verde dolce ed intenso, sempre bello comunque. Sulla sinistra, verso il cielo, appare sospesa ma ben piantata la piccola San Marino, la minuscola repubblica la cui sopravvivenza attraverso epoche di drammatici mutamenti è sempre motivo di sorpresa e di meraviglia, e su entrambi i lati si levano, dal verde sottostante, dei picchi rocciosi. Dopo un po’ i


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cavalli smettono di trottare, ma procedono arrancando su pendii sempre più ripidi e mentre il verde si fa meno intenso e incombono le ossute montagne e spuntano qua e là, rozze escrescenze della strada, gruppi di casolari di pietra. Se dall’esterno appaiono dimore ruvide e austere, all’interno ostentano l’amore per la bellezza, poiché alle finestre hanno vasi di gerani che allungano i loro esili steli spigolosi coi fiori in boccio in cerca del sole. Alla fine, superata la gobba di una collina, apparve all’improvviso San Leo, strano paese spazzato dal vento, posto in alto nell’occhio del cielo, come un eremita sulla colonna. Potemmo osservarlo per un certo tempo, fra un’altura e l’altra, e paragonarlo all’incisione.

Non mancavano le differenze. Il fiume maestoso era scomparso quasi del tutto, l’avvicinamento simmetrico per mezzo di una zigzagante strada a trespolo era stato sostituito da un percorso scavato nella roccia che girava attorno alla rupe. Mutamenti si scorgono anche nella disposizione degli edifici sulla cima, mentre l’altro picco sembrava retrocesso di qualche miglio. Si trattava comunque di differenze secondarie e non avevamo alcuna intenzione di lamentarci, poiché San Leo non ci deludeva affatto. Posto in una zona dalla curiosa formazione geologica, è il punto più ardito ed elevato del circondario, dove onde di verde si tramutano in creste di pietra, in picchi e in obelischi di roccia scaturiti

Veduta di San Leo, da J. Blaeu, Theatrum civitatum et admirandorum Italiae, I, Amstelaedami 1663. Rimini, Biblioteca Gambalunghiana.

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A. Nini, San Leo e Maiolo, inc.di A. Marchetti.

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all’improvviso dal rollio di valli montane coperte d’erba vellutata. È il tipico fortilizio che può esser espugnato solo col tradimento. Più in alto di tutto, occupando l’intero spazio disponibile, si trova la rocca ridotta oggi a prigione. Il vetturino ci additò il posto dove un povero sciagurato che era riuscito a procurarsi una fune s’era lanciato nel vuoto, nell’estremo tentativo di fuga, per andare a sfracellarsi di sotto, avendo calcolato male la distanza. Sul pianoro sotto la fortezza c’è l’aerea città grigia e battuta dalle intemperie, una manciata di casupole con la piccola cattedrale e una bella fontana traboccante d’acqua purissima al centro della piazza. La presenza di una fontana quasi in cima a uno scoglio come questo costituisce uno dei tratti più sorprendenti. A San Leo non s’avverte l’influenza nefasta dei turisti, infatti non ci sono né guide, né accattoni. Ma non mancano i ragazzini che sono sempre pronti ad accettare i resti della colazione dei viaggiatori. Conviene consumarla seduti sulla cinta esterna dove s’estende un terrazzamento erboso e da dove l’occhio può vagare per leghe sul volto di questo paese bello e solitario. Merita visitare la piccola cattedrale, più che starsene seduti accanto alla fontana, per osservare gli sparuti abitanti di San Leo che si fermano nei pressi, avendo imparato a prendersela con comodo in questa loro nicchia affacciata sul mondo. Poi c’è il trambusto dei cavalli che vengono riattaccati alla vettura già pronta per riportare i fugaci visitatori nella terra sottostante, ma anche questo non altera granché la serenità di San Leo. E così scendiamo ancora una volta verso il mare, mentre nuove luci ed ombre provocano lievi mutamenti sul dolce paesaggio e sul cuore colmo di pace e di ricordi.

Valéry Larbaud Fra San Marino e Rimini 1913 Scrittore francese appassionato di viaggi, Valéry Larbaud (1881-1957) dedicò all’Italia parte del suo libro più noto, A.O. Barnabooth (1913), diario di un personaggio immaginario animato da spirito cosmopolita che viaggia con lunghi soggiorni in Toscana e in Romagna. Le sue pagine di viaggio sono caratterizzate da un vivace senso dell’ironia e dalla capacità di cogliere il carattere di un luogo dai dettagli più insignificanti. Larbaud tradusse in francese l’Ulisse di James Joyce in collaborazione con l’autore e i romanzi di Italo Svevo. San Marino, Albergo Repubblicano, 6 giugno 190… Mi piacciono le stanze scolorite e muffite di questi piccoli alberghi: la vecchia carta dal fondo bruno a fiorellini minuti, i mobili impiallacciati di mogano, che da tempo hanno perduto il lustro, e che affondano, per stanchezza e per bruttezza, negli impiantiti. Questo ci dice chiaramente che l’albergo è qualcosa di essenziale come il Municipio, che ha sempre lo stesso significato, sia il Rathaus di Brema o la più piccola casa che serve da municipio e da scuola nel più piccolo villaggio francese. Ed è in virtù di questa qualità essenziale che oggi l’Albergo Repubblicano di San Marino contiene, con Putouarey e me, due dei più famosi clienti dei più grandi alberghi del mondo. Contiene anche una sala di caffè concerto, ed è là che hanno messo Vorace [l’automobile], troppo grande per la maggior parte delle strade e che non abbiamo osato lasciare sul Pianello, la sola piazza della città dove avrebbe potuto stare comodamente. Con ogni probabilità è la prima limosina che sia stata veduta sul Titano, e tutta San Marino è venuta a guardarla. Non si parla che di Vorace sulla Piazzetta,


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J. Hakewill, Veduta a distanza della rupe di San Marino, Roma, The British School at Rome Library.

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stasera, davanti all’albergo e nella bottega del farmacista. Intimidiamo perfino il padrone dell’Albergo Repubblicano, un salernitano rossiccio che ci serve con tutte le sue buone maniere meridionali, col viso gonfio di rispetto in nostra presenza. Si ostina a rispondere in cattivo francese alle domande che gli facciamo in italiano corretto, e stasera ci ha preceduti nel nostro appartamento, tenendo alta una candela accesa in entrambe le mani. Infastidisce P. che lo chiama “quel camorrista prepotente”, finge di non capirlo quando parla francese, e mi grida a squarciagola nel corridoio: «Detesto quelli del mezzogiorno che non sono bruni. Non dovete credere che siano biondi, mio caro, sono soltanto scoloriti!» Al primo piano abbiamo due stanze che dànno su una stradina che sale a picco e svolta bruscamente, e una cameretta, vuo-

ta e fresca, col soffitto dipinto. Ci abbiamo pranzato da soli, perché P. ha rifiutato di mangiare una seconda volta nella gran sala che serve di rimessa a Vorace: «Troppi mazzi di carte bisunte, là dentro, e gli odori… Povera gente, non hanno distrazioni, e il caffè concerto funziona di rado». Ci ha serviti il padrone in persona, con un cerimoniale di corte, inchinandosi profondamente a ogni ordine che riceveva. Il piatto principale consisteva in una sostanza indefinibile, chiamata “merluzzo”. Vecchio albergo, tutto lunghi corridoi coi soffitti troppo alti. I muri bianchi, seguiti a malincuore da fili di pittura azzurri e verdi, si sgretolano. Al mio passaggio, grigi insetti sono andati a nascondersi dietro un ritratto di Garibaldi. Tutto è talmente nudo e cupo che il caldo pare un intruso. Eppure un fondo di gioia inespressa, l’animo fiducioso dell’Italia, accompagna anche qui i


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nostri passi; un non so che ci dice: «Tanti secoli di civiltà ininterrotta… E sempre questo muoversi di uomini, e il focherello di brace rosa che non si è mai spento in fondo al vaso di bronzo… Altrove il tempo ha rifatto le terre, completamente; ma tutto è così recente. Sii contento del poco che offro: è cosa certa. Altrove, non si è sicuri». Avrei voluto visitare Rimini. Iersera ne ho veduto le lunghe strade lastricate, senza marciapiedi, sotto le luci bianche degli archi voltaici, grandi piazze circondate da bassi portici e , lontano, facciate di palazzi romani ( autentici, o del Rinascimento). Ma P. aveva troppa fretta di partire. S’era alzato alle sei e s’era messo a studiare la strada sulla carta; alle sette la sapeva a memoria, e alle otto prendevamo posto su Vorace, nei sedili anteriori, mentre l’autista si metteva a dormire sui cuscini, all’interno. Il marchese lanciò le cinque note

del testofono a tutta forza, nel gruppo di ragazzi che circondava la vettura, e ce ne andammo dolcemente. Usciti dalla crudezza del sobborgo nuovo, dopo una svolta, ci trovammo in aperta campagna. «Popolata e ben coltivata come il cantone di Ginevra», disse il marchese, «e per nulla come la Toscana. Parlo dell’aspetto. Vedete quello che manca? I cipressi; come limite e confine hanno degli olmi. E’ un paese ricco quasi quanto la Toscana, coi campi di grano e di fieno inghirlandati di vigne. E, malgrado tutto questo, ha un aspetto un po’ asciutto. Il limite estremo di un prolungamento della pianura lombarda, ma già sul fianco delle rocce, e senza dubbio fatta per continuare così fino ad Ancona. Mi piacerebbe vedere cosa diventa dopo. Del resto, non mi piace granché questo paesaggio: un po’ scompigliato; non c’è traccia dell’ordine dei paesi tosca-

Edoardo Pazzini (18971967), Paesaggio della valle del Conca, 1938. Rimini, coll. privata.

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Romolo Liverani (1809-1872), Montegridolfo, nella Valle del Conca, 1851. Forlì, Raccolte Piancastelli, presso la Biblioteca comunale.

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ni. Eh, la collina di Fiesole con tutte le sue medaglie, i suoi quadri, le sue terrazze; e la Certosa in Val d’Ema, in mezzo alla guardia imperiale di grandi cipressi neri! E la gente: guardate queste grosse facce rosa e arancione, nei loro fazzoletti colorati; e tutte le donne a piedi nudi per amore del risparmio. Le ragazze sono graziose, tonde, ma non hanno la finezza delle ragazze toscane. Mi ricordano la Sibilla di quel tale, sapete, agli Uffizi, nella sala del Baroccio, non la grande: quella di destra, quella testina di vitello avvolta nella sua

sciarpa azzurro cielo. Oh! Attenzione! Diamine!» Con un colpo di pollice fa urlare la tromba, e poi riprende: «E hanno una lingua curiosa, piuttosto rozza per chi viene dalla Toscana. Stanotte, mentre scrivevate, sono andato a fare un giro per Rimini e, vicino al canale, mi sono messo a discorrere con una specie di gran vagabondo, commissionario o giornalaio. Gli ho detto che dovevo andare a San Marino, e subito s’è ricordato di avere un cugino cocchiere che mi ci avrebbe


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potuto condurre a buon prezzo, in una comoda vettura, e che sarei stato ben servito. Sapete come me lo ha detto? “Sciarà ben scervito, scignore”. Mi pareva di essere a Volvic o al Tour d’Auvergne». [….] 10 giugno. Nel pomeriggio P. è riuscito a portarmi alla fortezza della Rocca, la prima delle tre cime. La città appare veramente ben aggrappata alla cima di un’onda di pietra. Sulla cresta del monte, tra le cave nelle quali risuona senza posa, con suono pieno e dolce, il martello sulla pietra, una

strada stretta sale dritta all’austera porta della fortezza. Pare che sia una prigione, e P. aveva domandato il permesso di visitarla. Ci hanno condotti al cammino di ronda. Ottocento metri sul livello del mare, ecco. Bevetevi quest’aria vergine, spumeggiante come l’acqua di un torrente. E guardate quello che si può vedere: la costa, dove l’Adriatico fa un piccolo gesto bianco e dice un parola che non si sente, e la terra spaventosamente calma sotto il cielo, come la bocca di un cannone carico. Laggiù la Marecchia, asciutta, che spinge fino al mare la

Romolo Liverani (1809-1872), Saludecio, nella Valle del Conca, 1840. Forlì, Raccolte Piancastelli, presso la Biblioteca comunale.

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sua grande strada di sabbia grigia. E queste strade, come paiono inutili; eppure salgono fino a noi, con tutte le loro giravolte. Siamo ridiscesi con tutti i monti ai nostri piedi. E, voltandoci, vedevamo le tre torri, dritte sull’orlo dell’abisso, piccole, grigie, quadrate, col tetto quasi piatto, di mattoni, ognuna sormontata da una piccola penna di ferro per ricordare il giuoco di parole su Penna, che vuol dire sia penna e sia cima.

S. Prout, Rimini, ill. Per T. Roscoe, The Tourist in Italy, 1831.

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Paul G. Konody, La Flaminia in automobile 1911 Paul G. Konody (1872-1933) Giornalista e critico d’arte inglese, descrisse il suo viaggio in Italia in Through the Alps and the Appennines, 1911, sperimentando percorsi relativamente inediti.

Le cose cominciarono a migliorare quando ci immettemmo sulla grande strada di comunicazione fra Roma e Rimini, costruita ventuno secoli or sono da Caio Flaminio. Si tratta di una strada progettata in maniera geniale, ampia ventitré piedi, meno polverosa di quanto in genere lo sono le strade italiane. Fra due catene di monti, essa sale in modo molto graduale fino a Scheggia dove si unisce alla via che viene direttamente da Gubbio. Ad un miglio dopo Scheggia c’è il passo vero e proprio, da dove la strada discende con due curve a gomito fino ad un ponte di pietra ben costruito. Le vedute che si godono dal passo e, a dire il vero, da Sigillo fino a Cagli, sono magnifiche, anche se non proprio del genere italiano. Non più olivi e cipressi, ma querce, castagni, cerri ed altri alberi che crescono nei climi più aspri a nord delle Alpi. Con la flora


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muta anche il carattere dell’architettura. Manca quel senso delle proporzioni che contraddistingue anche le più umili case di campagna ad occidente degli Appennini: tutto sembra qui ispirato dal senso dell’utile che esclude qualsiasi forma di decorazione. Il fatto è che avevamo ormai lasciato l’Umbria ed eravamo entrati nelle Marche e ci stavamo dirigendo verso le aspre rocce che, in lontananza, contrassegnano il selvaggio Passo del Furlo […] Lasciammo Cagli il più in fretta possibile attraverso la medesima strada per la quale eravamo arrivati, superammo la ferro-

via prima di Acqualagna e girammo verso le terribili rocce a strapiombo del Passo del Furlo. Mi tornò in mente la bella descrizione di Hutton e della sua ascesa “sul tetto dell’Italia mistica” che vedeva distendersi ai suoi piedi, restando non poco sorpreso nel verificare che, ben lontano dall’essere un’arrampicata, quello del Furlo non è un “passo”, ma un imponente, grandioso, magnifico dirupo. Esso ha speroni di roccia fra il verde e il rosa grigiastro che si levano da entrambi i lati, sin quasi ad escludere la luce del cielo, rimandando l’eco delle acque fragorose del Candigliano che spumeggia nella gola

F. Mingucci, Veduta di Gabicce, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

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Viaggiatori stranieri fra Romagna e Marche F. Mingucci, Veduta di Fermignano Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

sottostante. Il punto più impressionante e pittoresco si trova all’ingresso del tunnel costruito al tempo di Vespasiano, come è inciso nella roccia all’ingresso settentrionale . Dopo essere usciti dal tunnel, scorgemmo innanzi a noi la florida pianura di Calmazzo e, prima di Calmazzo, superammo il campo di battaglia dove i cartaginesi di Asdrubale vennero annientati dai romani il 207 a.C. Dominique Durandy Una duplice visione, dal monte alla costa 1914 Avvocato, scrittore, uomo politico nizzardo, Dominique Durandy (1868-1922)

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dedicò all’Italia il suo originale volume Poussières d’Italie. Carnet d’un automobiliste, 1914, nel quale ci imbattiamo in questo duplice sguardo sull’entroterra riminese e sulla costa. Quale splendido osservatorio! La strada dalla quale siamo venuti svolge il proprio interminabile nastro di polvere bianca attraverso il verde della campagna e raggiunge Rimini, oziosamente distesa laggiù, tutta rosa, in riva all’Adriatico, le cui acque color turchese segnano l’orizzonte. Lungo la costa altre cittadine sorridono nelle luce tenera, simili a fiori portati a riva dall’onda carezzevole. Alle nostre spalle ribolle il massiccio dell’Appennino le cui rocce, i picchi, le cime si mescolano in un


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tumulto pittoresco. Le valli s’infossano profonde con i loro torrenti che corrono su letti di ghiaia grigia. Qua e là spuntano dei villaggi. Alcuni sfidano il cielo e sono appollaiati su alti spuntoni di roccia, come Pietrarubbia, quasi sempre avvolta da un serto di nubi; San Leo, dove il famoso Cagliostro conobbe le delizie della prigione; Verucchio, culla dei Malatesta, e poi il territorio di San Marino, così limitato, così sparuto in questa immensità di terre e di montagne che sembra di poterlo tenere sul palmo della mano […] Il vento e la pioggia hanno costretto le barche a rifugiarsi in questo angusto estuario, addossate le une alle altre come uccelli marini cacciati dalla tempesta. Hanno le vele spiegate e danzano alla brezza trattenute dai pennoni e dagli ormeggi come grandi tele messe ad asciugare. Ma quali splendidi colori caldi e diversi! Alcune hanno le tonalità del cuoio, altre sono arancioni o grigie, altre ancora hanno riflessi dorati. Dei rozzi rattoppi sovrappongono alle tinte uniformi chiazze verdi e bianche simili

a verdura e ai petali di un fiore. Le barche impennacchiate hanno un’aria spavalda e le loro vele frementi sembrano avere assorbito le voluttà dell’azzurro Adriatico e delle coste dell’Illiria e della Dalmazia. Le flotte di un tempo, reduci da crociere lontane, dovevano avere un’aria di conquista. Le barche ormeggiate in questo placido canale hanno mantenuto forme singolari, arcaiche, che le fanno assomigliare ora a leggere caravelle, ora ad antiche galere dalle prore panciute, messe in risalto da polene simboliche e dalle poppe a terrazza dove si stagliano giganteschi timoni. La fantasia di uno Ziem sarebbe felice di imbattersi in una di queste barche fatte per paesaggi di ieri o per cerimonie scomparse. Talvolta qualcuno di questi uccelli si stacca dai compagni, si scuote per un istante e, la vela ben tesa, vola verso il mare. Scivola via senza rumore, senza fremiti, lungo le sponde sulle quali pescatori assorti a manovrare le reti a bilancia fanno pensare a certe tele di Puvis de Chavannes. Seducente e grazioso, l’Adriatico si è coperto

F. B. Werner, Fano in Italia, Fano, Biblioteca Federiciana.

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di giallo e di cenere e solo all’orizzonte spuntano pallori azzurrognoli. Lungo la riva le onde s’infrangono sulla spiaggia così bassa e piatta che si confonde con il mare al cui grigiore e alla cui tristezza sembra dar seguito. Oliver Knox Pic-nic nella valle del Conca 1980 L’ultima escursione ci porta nell’alta Valconca in cui, non molti anni fa, sostavano due viandanti, Oliver Knox ed il figlio, i quali, appassionati cultori della figura di Garibaldi e muniti delle relazioni di Hoffstetter, Belluzzi, Trevelyan, ne seguivano passo dopo passo la drammatica ritirata verso San Marino. Tratto da From Rome to San Marino. A Walk in the Steps of Garibaldi, Londra, 1982, il brano coglie con vivace senso naturalistico la fisionomia del luogo. Le voci che interloquiscono nel brano sono quelle del padre e del figlio. Anche noi abbiamo esplorato il luogo alla ricerca del convento di Pietrarubbia a cui alludono Ruggeri, Belluzzi e Trevelyan, ma non abbiamo trovato alcuna corrispondenza. “Non è un’altissima rupe”. “Se ci fosse un convento, chiederemmo di vedere la coperta bianca di lana dove riposò brevemente Garibaldi, coperta che i frati solevano mostrare ai visitatori”. “Altissima rupe deve riferirsi ad un versante della Carpegna”. Alla fine partimmo da Mercato Vecchio, svoltando a destra all’incrocio beneaugurante dei Cappuccini, continuando a cercare e a fare congetture. Da queste parti Belluzzi colloca un incidente particolarmente crudele, tipico degli orrori secondari della guerra. Sei garibaldini che s’erano acquattati a terra, vennero tirati fuori dai 120

loro covili da una pattuglia di soldati austriaci, portati in mezzo alla strada e fucilati. Uno di loro, crivellato di pallottole, si trascinò fino ad una stalla per le bestie dove cercò di fermare l’emorragia con manciate di paglia. Sopravvisse contorcendosi e urlando fino all’alba, senza che nessuno avesse osato andare in suo aiuto. I cadaveri di tutte e sei vennero bruciati con la calce viva e il prete rifiutò di farli seppellire nel locale cimitero. “Gettiamoci alle spalle questa storia nauseante, prima di mangiare”. “Davvero caritatevole da parte tua”. Quattro chilometri più oltre, giungemmo ad un ponte sopra una gola profonda che, pure a breve distanza dalla sorgente, il fiume Conca aveva scavato. La lunga ricerca del convento perduto ci aveva messo addosso un appetito che, sarebbe stato falso dire il contrario, nessuna storia di atrocità commesse dagli austriaci avrebbe potuto acquietare. Al di sopra e a occidente di dove eravamo, le acque scorrevano fra ripide rocce formando una serie di cascatelle. Portando con noi la roba da mangiare, ci allontanammo dalla strada e seguimmo un sentiero reso morbido da un tappeto d’aghi di pino che saliva e scendeva per collinette d’erica dove affioravano i sassi, finché giungemmo ai piedi di una cascata le cui acque spumeggianti, bianche e verdognole, avevano eroso a cucchiaio la roccia. Era come se avessero voluto echeggiare e rendere ragione del nome del fiume: Conca o conchiglia. “Mi piacerebbe mangiare più in alto, dove c’è meno frastuono e si possono udire gli usignoli”. “No. Voglio vedere se ci sono i pesci nel fiume”. Non era facile sciogliere il dilemma fra il richiamo dei pesci e quello degli uccelli. Per diversi minuti portammo le provviste ora vicine e ora lontane dall’acqua, men-


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tre il luogo del ristoro diventava oggetto di contesa più di quanto lo fosse quello del convento. Mentre sedevamo sulla riva, accanto alle radici di un pino, e stavamo tagliando fette di pane e di salame, un’invasione di formiche ci costrinse ad un difficile compromesso. “Guardale! Animali sciocchi, perché trascinano avanti e indietro una mollica di pane, invece di mangiarsela? “Una formica gigante potrebbe dire la stessa cosa di noi”. Mentre il sole splendeva fra i rami dei pini e il vino riportava l’armonia, per citare Belluzzi che s’era fermato da queste parti nel suo viaggio a dorso di mulo, assaporammo un’ora di riposo dolcissimo. Fu proprio in questi paraggi che la notte fra il 30 e il 31 luglio, dopo essersi ritirati dal convento nei pressi di Carpegna, quel che rimaneva dell’esercito non poté gode-

re più di un’ora di riposo. Se infatti erano entrati nel bosco alle undici e avevano istituito i picchetti di guardia attorno alla radura dove s’erano distesi per riposare, avevano fatto una sosta di nemmeno due ore, avendo ripreso la marcia all’una del mattino. Hoffstetter descrive l’avvistamento di San Marino e della costa con lirici accenti. La veduta lontana che scorgevamo dalla sella fra Monte Copiolo e Monte San Marco non è molto diversa da come la descrisse Hoffstetter. Le onde azzurre lambiscono oggi una serie di grattacieli adibiti ad alberghi, costruzioni per bambini visti da queste alture. All’orizzonte il sole indora una o due petroliere e uno stabilimento balneare. Le città sono di certo più vaste, le strade, s’intuisce, molto più belle. Ma l’ampia coppa che s’apre ai nostri piedi è qua e là abitata e selvaggia quasi come un tempo.

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Isotta degli Atti, incisione lit. di Filippini su disegno di F. Penuti, c. 1835. Rimini, raccolta privata.

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Norberto Pazzini (1856-1937), Alba sull’Adratico, Rimini, coll. privata.

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Referenze fotografiche Archivio dell’Autore: 10, 13, 18, 28, 33, 58, 62, 63, 65, 70, 73, 95, 102, 106, 107, 111, 116. Archivio dell’Editore: 8, 16, 19, 29, 48, 49, 51-54, 57, 66-68, 71, 83-85, 93, 108, 109, 121. Forlì, Giorgio Liverani: 27, 34, 55, 56, 114, 115. Rimini, Biblioteca Gambalunghiana: 20, 21, 24, 30, 31, 36, 37, 40, 100, 101. Rimini, Luciano Liuzzi: 12, 15, 25, 32, 36, 38a, 43-46, 59, 61, 64, 72, 75-82, 96, 98. 99, 102, 104, 113, 122, 124. Ascoli Piceno, Pinacoteca civica: pag. 91, 103. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica: 66, 117, 118. Fano, Biblioteca Federiciana: 47, 119. Firenze, Biblioteca Nazionale: pag. 23, 41. Porto San Giorgio, Società operaia di Mutuo Soccorso: 88. Roma, The British School at Rome Library: pag.17, 86, 112.


Finito di stampare nel mese di novembre 2014 per conto della Minerva Edizioni - Bologna


Attilio Brilli

Attilio Brilli

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La COLLANA EDITORIALE della Banca Popolare Valconca

viaggiatori stranieri fra romagna e marche

1) P.G. Pasini, Piero e i Malatesti. L’attività di Piero della Francesca per le corti romagnole (1992) 2) E. Grassi, Giustiniano Villa poeta dialettale, 1842-1919 (1993) 3) P.G. Pasini, Il crocifisso dell’Agina e la pittura riminese del Trecento in Valconca (1994) 4) A. Bernucci - P.G. Pasini, Francesco Rosaspina “incisor celebre” (1995) 5) P.G. Pasini, Arte in Valconca dal Medioevo al Rinascimento (1996) 6) P.G. Pasini, Arte in Valconca dal Barocco al Novecento (1997) 7) A. Fontemaggi - O. Piolanti, Archeologia in Valconca. Tracce del popolamento tra l’Età del Ferro e la Romanità (1998) 8) P.G. Pasini, Emilio Filippini pittore solitario 1870-1938 (1999) 9) E. Brigliadori - A. Pasquini, Religiosità in Valconca. Vicende e figure (2000) 10) P.G. Pasini (a cura), Arte ritrovata. Un anno di restauri in territorio riminese (2001) 11) L. Bagli, Natura e paesaggio nella Valle del Conca (2002) 12) A. Sistri, Cultura tradizionale nella Valle del Conca. Materiale e appunti etnografici tra Romagna e Montefeltro (2003) 13) O. Delucca, L’uomo e l’ambiente in Valconca (2004) 14) P. Meldini, La cultura del cibo tra Romagna e Marche (2005) 15) P.G. Pasini, Passeggiate incoerenti tra Romagna e Marche (2006) 16) C. Fanti, Pietre e terre malatestiane (2007) 17) P.G. Pasini, Atanasio da Coriano frate pittore (2008) 18) P.G. Pasini, Il tesoro di Sigismondo e le medaglie di Matteo de’ Pasti (2009) 19) G. Mosconi, Valconca cento anni con la banca popolare (2010) 20) A. M. Guccini, Viaggio nella Valle del Conca (2011) 21) L. Liuzzi, Volando fra Romagna e Marche (2012) 22) A. Sistri Spiaggia, antropologia balneare riminese (2014)

Sono in vendita nelle migliori librerie. Alcuni titoli sono esauriti.

Euro 25,00 i.i

XIX-XX secolo

Minerva Edizioni

Attilio Brilli è considerato fra i massimi esperti di letteratura di viaggio, autore fra l’altro di Il viaggio in Italia. Storia di una grande tradizione culturale (2006), opera tradotta in varie lingue. Fra i suoi volumi più recenti: Mercanti avventurieri. Storie di viaggi e di commerci (2013) e Gerusalemme, la Mecca, Roma. Storie di pellegrinaggi e di pellegrini (2014).

Il volume raccoglie testimonianze significative di viaggiatori stranieri i quali, fra Ottocento e Novecento, hanno percorso nei vari sensi le strade fra la Romagna e le Marche. Ne risulta un mosaico narrativo in cui le descrizioni dei luoghi, dei paesaggi e delle opere d’arte si alternano all’evocazione di fatti storici e di figure leggendarie di cui è ricca questa impareggiabile terra, arricchendosi per di più di una divertente aneddotica sulle locande e sui mezzi di trasporto. Un racconto che ha costantemente sullo sfondo le idee e gli eventi che determinarono il passaggio cruciale allo Stato unitario.


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