MOSAICI
DI RIMINI ROMANA
Angela Fontemaggi - Orietta Piolanti
MOSAICI
DI RIMINI ROMANA con un contributo di Renata Curina
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Un quarto di secolo. Proprio così. Venticinque sono gli anni che ci separano dal primo libro della Collana editoriale della Banca Popolare Valconca. Nel novembre 1992 venne stampato Piero e i Malatesti, scritto dal professor Pier Giorgio Pasini. Fu l’inizio di una lunga carrellata di volumi, tutti originali, pensati e scritti appositamente per i soci e i clienti della Banca Popolare Valconca e per tutti coloro che hanno voglia di leggere e conoscere. Una vera miniera di studi, informazioni, immagini per indagare i più diversi aspetti della vita del nostro territorio fra Romagna e Marche. Una lunga serie di libri d’identico formato ma assolutamente eterogenei. Un solo, unico, fil rouge: l’amore per questa terra e per le persone che la abitano. Anche questo volume sui Mosaici di Rimini romana si inserisce perfettamente nella Collana editoriale della nostra Banca. Leggendolo mi è tornata alla mente l’estate del 1989, quando a Rimini erano in corso i lavori di sistemazione dell’arredo di piazza Ferrari: doveva essere rimossa una pianta, ma l’escavatore andò a lavorare troppo in profondità. Venne alla luce un mosaico. La maggior parte dei riminesi durante l’estate è in “tutt’altre faccende affaccendata” per cui, inizialmente, la cosa non fece tanto scalpore. Pochi si resero conto che un’apparente casualità aveva fatto venire alla luce quella che oggi è conosciuta in tutto il mondo come la Domus del Chirurgo. Fu un clamoroso colpo di scena che servì, tuttavia, a rammentare a tutti noi l’incredibile ricchezza del nostro passato. A Rimini, infatti, escludendo Ravenna, spetta il primato in Emilia Romagna per quantità di ritrovamenti di mosaici e originalità di soluzioni decorative. Non solo, quindi, la domus del Chirurgo, ma, come questo volume ci testimonia, esistono tantissimi mosaici di incantevole fattura, come il bellissimo mosaico “delle barche”, simbolo ed emblema del porto, il misterioso mosaico “di Anubi”, quello della “processione dei doni”, il mosaico “delle Vittorie”, quello della “Venere allo specchio”. Il bel libro di Angela Fontemaggi e Orietta Piolanti ci ripresenta, con cura e puntualità, lo splendore di queste tracce del passato che qua e là continuano a riaffiorare, fino agli ultimi ritrovamenti durante gli scavi del teatro Galli. Il mosaico fu definito dal Vasari «la più durabile pittura che ci sia» e dal Ghirlandaio «la vera pittura dell’eternità». I mosaici continuano a riaffiorare per ricordarci che, in fondo, tutti noi siamo piccole tessere di un grande e misterioso mosaico.
Massimo Lazzarini Presidente della Banca Popolare Valconca
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IndIce
Introduzione
p. 9
Prefazione
p. 11
Il patrImonIo rImInese
p. 15
I pavImentI raccontano le antIche stanze
p. 21
la romanIzzazIone del terrItorIo:
p. 27
ariminum neI secolI d’oro dell’Impero
p. 47
la crIsI dell’Impero e la fIne della romanItà
p. 89
dalla nascIta dI ariminum all’età augustea
ultIme notIzIe da un angolo della cIttà antIca
(di Renata Curina)
p. 115
conclusIonI
p. 119
BIBlIografIa
p. 123
Marinai all'opera nel mosaico “delle barche”, part. della scena con ingresso nel porto, dalla domus di palazzo Diotallevi
IntroduzIone
Un libro sui mosaici di Rimini romana. Qualcosa di mai realizzato seppure il patrimonio riminese sia stato oggetto di importanti studi e mostre e, in gran parte, sia esposto nella Sezione archeologica del Museo della Città “Luigi Tonini”. Chi non conosce il mosaico “delle barche”? La sua immagine è, in tutto il mondo, un biglietto da visita di Rimini e dell’Adriatico. Alla proposta di riunire in una pubblicazione questo tesoro della Rimini romana per valorizzare un’eredità preziosa, abbiamo aderito con l’entusiasmo e il piacere di contribuire a far conoscere tale ricchezza custodita dal Museo e dalla Città. E insieme con la consapevolezza di chi, da archeologo ma non specialista delle antiche pavimentazioni, avrebbe potuto mettere a frutto l’esperienza lavorativa maturata nel campo della divulgazione. Da qui l’idea di tessere un racconto in brani che abbia protagonisti proprio i singoli mosaici e i più rappresentativi fra i pavimenti delle domus di Ariminum. Affidando a ciascuno di loro una storia per evocare il contesto d’origine, il significato, l’iconografia, il gusto e i materiali, come anche per narrare curiosità e vicende legate al ritrovamento o, per i più enigmatici, la messa a confronto di diverse interpretazioni. Il racconto attinge dalla ricca bibliografia riminese e dai più recenti cataloghi promossi dall’Università di Padova per una ricognizione e una documentazione sistematica delle decorazioni pavimentali romane, che ha avviato la creazione di una banca dati di Veneto, Toscana ed Emilia Romagna. Fondamentale per il nostro lavoro proprio la tesi di Giovanna Paolucci per il dottorato di ricerca presso il dipartimento di Archeologia, pubblicata on line nel 2012, che analizza il patrimonio regionale delle città lungo la via Emilia. Un sincero ringraziamento va a chi ha favorito questo volume a iniziare dalla direzione dei Musei e dalla Soprintendenza Archeologia.
Le Autrici
Mosaico geometrico policromo (vani B ed E), dalla domus di palazzo Palloni Nella pagina seguente: Ambiente con pavimento in tessellato geometrico, dalla domus del teatro
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i mosaici di
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Rimini
PrefazIone
Se è vero che Rimini ha un cuore antico, come afferma una felice espressione coniata alcuni anni fa e divenuta ormai il “biglietto da visita” della città romana, si può aggiungere che questo cuore è ammantato da una sontuosa e variegata veste di tappeti musivi, adagiati sui pavimenti delle antiche domus, in cui non mancano di affiorare come imprescindibile elemento dell’abitare in area urbana. Il centro storico di Rimini custodisce a poca profondità dal suolo attuale i resti del suo passato romano; decine di ritrovamenti effettuati dal Dopoguerra a oggi punteggiano la città, restituendoci brandelli di strutture abitative, civili e sacre, di volta in volta provvisti di rivestimenti più o meno pregiati, che è compito dell’archeologo ricomporre per approdare alla visione complessiva del tessuto urbano: proprio come si farebbe con le tessere di un mosaico giunto a noi con diverse lacune, da integrare cogliendo i legami che raccordano tra loro i vari brani, fino a ricostruire un disegno unitario. È questo l’intento e anche il risultato del lavoro che oggi vede la luce, il quale non si pone come uno studio stilistico volto alla descrizione delle decorazioni, ma come una ricerca storica sui mosaici riminesi in cui l’attenta analisi di ogni dettaglio concorre alla ricostruzione della funzione degli ambienti, del gusto della committenza, dell’abilità degli artigiani, della temperie culturale cittadina. Il frammentato panorama dei mosaici di Ariminum viene quindi ricompreso in un racconto unitario, in cui le diverse sfaccettature sono illuminate in modo da coglierne le particolarità legate allo spazio e al tempo, ma appaiono tutte riconducibili all’esigenza di soddisfare una committenza che all’iconografia dei mosaici pavimentali (come doveva essere anche per gli affreschi murari, i cicli statuari e altri programmi decorativi di cui poco è rimasto) affidava l’esibizione e, allo stesso tempo, la legittimazione del proprio status sociale. Ne emerge il quadro di una Rimini vivace e prospera, che celebra il benessere diffuso legato alle risorse del territorio e del mare, al centro di traffici e commerci che significano, oggi come allora, anche scambi culturali; una città che aderisce con entusiasmo alla cultura romana cui deve il proprio sviluppo, dalla quale adotta tendenze e schemi decorativi, accogliendoli però con uno spirito originale e creativo che porta a soluzioni inedite e combinazioni tutte particolari. Questo percorso è cominciato quando la Soprintendenza Archeologia, con sede a Bologna, aveva competenza su tutta la regione, e si conclude in un momento in cui sono state riunite le funzioni relative alla tutela dei beni culturali ramificando, invece, i presidi sul territorio, che per l’area romagnola fa capo a Ravenna: un duplice saluto accompagna quindi l’edizione di questo volume, un racconto tanto atteso quanto accattivante che parte da Rimini e da qui si rivolge a tutta la cittadinanza, di Rimini e non solo.
Dott. Luigi Malnati Soprintendente Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la città metropolitana di Bologna e le province di Modena, Reggio Emilia e Ferrara
Arch. Giorgio Cozzolino Soprintendente Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Ravenna, Forlì-Cesena e Rimini
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Nella pagina a fianco: particolare del mosaico "di Anubi" dallo scavo di via F.lli Bandiera
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I. IL PATRIMONIO RIMINESE
Fra i tanti tesori ereditati dal suo passato, Rimini può vantare un patrimonio di mosaici, e più in generale di pavimenti di epoca romana, che le consegna il primato in Emilia Romagna per quantità di ritrovamenti e per originalità di soluzioni decorative. Naturalmente escludendo Ravenna, capitale del mosaico. A oggi sono oltre 160 i rivestimenti documentati nel centro storico, di cui più di 100 mosaici, circa 25 laterizi, una decina sia di cementizi (termine oggi adottato a indicare il cocciopesto) che di opus sectile (in lastre di pietra e marmo) e alcuni esemplari in tecnica mista. Una ricchezza che riflette l’importanza di Ariminum, la più antica colonia fondata dai Romani a nord degli Appennini, e che aumenta ogni qualvolta si compiano sterri, disegnando in maniera sempre più definita il tessuto urbano. Fino alla metà del Novecento si registrano perlopiù recuperi isolati o semplici segnalazioni, riportati da Guido Achille Mansuelli nella Carta Archeologica (1949), mentre dal Dopoguerra iniziano le scoperte di grandi complessi quali palazzo Gioia (1956), l’area a monte (1959-1961) e l’area a mare (1951, 1959-1961) dell’Arco di Augu-
sto, palazzo Palloni (1960-1961), l’exVescovado (1962-1963), Mercato Coperto (1964-1966). È questa un’epoca “eroica” per l’archeologia che fatica ad affermare le ragioni della conservazione in una città tesa a sanare le ferite della guerra con una frenetica attività edilizia. In tale situazione, difficile e nel contempo feconda di ritrovamenti, operano in qualità di direttori di scavo, dal 1956 al 1961, Mario Zuffa, a capo degli Istituti culturali del Comune, e, dal 1962 al 1965, Giuliana Riccioni, ispettore della Soprin-
La scoperta della soglia con le Vittorie nello scavo di palazzo Gioia (1956)
Nella pagina a fianco: particolare del mosaico "delle barche", dalla domus di palazzo Diotallevi
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i mosaici di
Rimini
Ampie superfici musive a fondo nero nello scavo della domus a monte dell'Arco di Augusto (1959-1961)
tendenza alle antichità. Con interventi d’urgenza cercano di recuperare, insieme a tanti reperti, i pavimenti più significativi che vengono “strappati” e ricoverati nei magazzini del Museo. Negli anni Settanta si aprono nel centro storico altri importanti cantieri di scavo seguiti, per la Soprintendenza, da Giovanni Vinicio Gentili e Maria Grazia Maioli in collaborazione con il museo civico, nelle persone della direttrice, Andreina Tripponi, e del restauratore-assistente di scavo Stefano Sabattini: palazzo Arpesella (1975), palazzo Diotallevi (1975-1981) e l’area dell’ex Convento di San Francesco (1979-1981) i contesti principali che hanno portato al recupero, fra gli altri, del mosaico con la scena di ingresso delle navi in porto, emblema del mare di Ariminum. Con gli anni Ottanta nel campo dell’archeologia si attua una rivoluzione per l’introduzione del metodo di scavo stratigrafico e per il prevalere, sugli interventi “d’urgenza”, di quelli di “archeologia 16
preventiva” che consentono, in accordo con la proprietà, di condurre accertamenti preliminari laddove si prevede di incidere i livelli antichi. La documentazione raccolta, più ampia e dettagliata, fornisce spesso elementi certi per la datazione delle pavimentazioni; inoltre consente di allargare l’interesse alle dinamiche dell’abitare e alla definizione dei processi evolutivi dell’assetto urbano che non ha conosciuto soluzione di continuità almeno dal IV sec. a.C. Jacopo Ortalli, Maria Grazia Maioli, Renata Curina e Anna Bondini sono gli archeologi della Soprintendenza che hanno diretto gli scavi riminesi dal 1980 a oggi. Al primo, coadiuvato da Maria Luisa Stoppioni, si devono alcune scoperte eclatanti: l’ex Collegio dei Gesuiti (1984-85), l’ex cinema Capitol in via Cairoli (1992-1993), il complesso di piazza Ferrari (1989-2007), la Camera di commercio in via Sigismondo (1995-1996) e palazzo Massani (19982000), oggi sede della prefettura
il patrimonio riminese
Mosaico geometrico disegnato da rettangoli e quadrati in bianco e nero, dallo scavo dell'ex Convento di San Francesco (19791981)
Una fase dello scavo della domus del Chirurgo: il mosaico di Orfeo ancora in parte coperto dalle macerie del crollo
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i mosaici di
Rimini
Il restauro dei mosaici del sito archeologico di piazza Ferrari
Nella pagina a fianco: La taberna medica della domus del Chirurgo nelle ultimi fasi di restauro
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L’area di palazzo Massani, quella della Camera di commercio e di piazza Ferrari con la domus del Chirurgo sono state musealizzate in loco, primi esempi a Rimini di una prassi attuata anche in scavi più recenti, come quello del teatro Galli, per preservare l’unità del contesto e arricchire l’offerta rivolta al turismo culturale, nell’ottica di un museo “diffuso”. Contemporaneamente all’attività di scavo, dal 1980 il museo, dapprima con Andreina Tripponi quindi, dal 1985, con Pier Luigi Foschi, guida un progetto di ricerca per l’ordinamento nella nuova sede dell’ex Collegio dei Gesuiti delle raccolte che comprendono le collezioni civiche formatesi dal XVI secolo e i materiali di proprietà statale acquisiti nel Novecento. Progetto giunto a compimento con l’inaugurazione della sezione archeologica in due tranches: la prima nel 2003, la seconda nel 2010. È questa l’occasione per avviare una campagna di restauro su buona parte dei mosaici riminesi che, dopo il distacco dal terreno – con la tecnica dello “strap-
po”, mutuata da quella applicata agli affreschi – erano stati allettati su lastre in cemento armato. Il calcestruzzo, causa di degrado, è stato rimosso e le sezioni riposizionate su Aerolam, all’interno di strutture in acciaio inox. L’esecuzione dei restauri è stata affidata alla ditta Prp Restauro e Mosaici di Ravenna e al Gruppo Mosaicisti Ravenna. Indiscussi protagonisti del percorso espositivo, che dedica ampio spazio proprio alle domus e alla vita quotidiana, i mosaici “raccontano” i modi dell’abitare lungo la romanità, dalla fondazione della colonia nel III secolo a.C. al VI secolo d.C. Un arco cronologico all’interno del quale si possono distinguere tre macrofasi segnate da vicende storiche, mutamenti sociali e culturali che determinano cesure evidenti: dalla romanizzazione del territorio, conclusa con il principato di Augusto (III a.C.-I a.C.), alla città imperiale (I d.C.- prima metà III d.C.), all’età tardoantica che segna la fine della romanità (seconda metà III d.C.-VI d.C.).
il patrimonio riminese
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II. I pavImentI raccontano le antIche stanze
La maggior parte delle testimonianze archeologiche di Ariminum riguarda abitazioni private la cui vita attraversa i secoli della romanità, scandita da fasi costruttive e da più frequenti rifacimenti dei piani pavimentali. Le case accompagnano la società e il gusto nel loro divenire come organismi dinamici: edifici semplici e funzionali nella prima età repubblicana, domus monofamiliari su uno o due piani dalla media età repubblicana alla fine dell’impero, sontuosi palatia in epoca tardoantica. Nella Rimini romana, come in tutta la Cispadana, mancano tracce di edilizia popolare, a conferma di una cittadinanza non troppo numerosa e di un benessere diffuso. Accade piuttosto che ceti sociali diversi convivano: accanto alle stanze eleganti riservate alla famiglia del dominus troviamo ambienti spogli, destinati ai servi. Entrando in una domus della città imperiale saremmo colpiti dall’esuberanza decorativa e cromatica dell’apparato che avvolge le stanze padronali, dal pavimento al soffitto, assumendo un ruolo preponderante rispetto all’architettura e agli arredi. Un sistema comunicativo composto da un’unità narrativa indipendente per ogni ambiente, cui il dominus affida l’esi-
bizione del proprio status sociale e della sua cultura, ma anche la percezione della gerarchia e della funzione dei vani, così come dell’articolazione interna degli spazi. Indicazioni tanto più utili se la planimetria, come si verifica in numerose case della regione, si discosta dal canonico allineamento atrium-tablinum delle abitazioni dell’area vesuviana. Il passare del tempo e gli interventi dell’uomo hanno spesso abbattuto gli alzati con le pitture parietali, ma preservato i piani di calpestio, resistenti per il coeso sottofondo in tre strati: un vespaio, in ciottoli o fram-
Nella pagina a fianco: il prezioso opus sectile dalla domus dell'ex Vescovado Sotto: la ricostruzione del cubiculum, la stanza per il day hospital, della domus del Chirurgo
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i mosaici di
Rimini
menti laterizi, un resistente conglomerato, infine una gettata di malta per l’allettamento delle stesure in superficie. Le tecnIche e L’artIcoLazIone degLI sPazI
L’immagine delle antiche stanze è dunque restituita soprattutto dai rivestimenti a pavimento, realizzati nelle quattro tecniche diffuse in epoca romana: i commessi in laterizio; i cementizi o cocciopesti ottenuti con un impasto di malta mescolata a inerti, spesso fittili, che conferiscono il colore caldo del cotto; i mosaici o tessellati in tessere perlopiù di pietra e di marmi; i preziosi sectilia pavimenta in lastre di pietre e marmi. Composti da moduli-base in forma di cubetti – dapprima ritagliati da grandi laterizi e poi ottenuti a stampo, op-
A sinistra: Un esempio di opus spicatum in un contesto artigianale, la vasca dello scavo dell'ex Consorzio agrario A destra: Pavimento in cementizio punteggiato da un motivo a crocette, dalla domus III dell'ex Vescovado
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pure di mattoncini, spesso disposti a spina di pesce (opus spicatum), o ancora di esagonette, squame o mattonelle – i piani in laterizio presentano, nella maggior parte dei casi, stesure omogenee. Resistenti ed economici, si adattano prevalentemente a spazi produttivi, di servizio e scoperti. Caratteristiche in comune con i cementizi, che per la loro impermeabilità vengono spesso impiegati nel rivestimento di vasche, ma che sono idonei anche ad arredare ambienti residenziali. Soprattutto quando decorati da inserti in pietra, marmo o tessere di mosaico. La superficie pavimentale allora si presenta articolata: il tappeto centrale e, in alcuni casi, anche la soglia, vengono distinti dal bordo, disegnato con un motivo lineare. Finora a Rimini il cementizio è la stesura pavimentale meno rappresentata, in percentuale, rispetto alle altre città dell’Emilia Romagna.
i pavimenti raccontano le antiche stanze
Varietà e versatilità degli schemi decorativi, resi nell’austera bicromia bianco/nero o in una vivace policromia, contraddistinguono la produzione musiva che incontra grande fortuna in ambito regionale dalla metà del I sec.a.C. Per la vasta gamma di soluzioni ornamentali, il tessellato si presta a interpretare il codice di lettura dello spazio domestico: evidenzia la gerarchia degli ambienti e il loro rapporto, ne suggerisce la funzione, sottolinea con soglie l’ingresso alle stanze, distingue con campiture monocrome le zone destinate agli arredi, veicola nelle composizioni figurate l’immagine che il dominus vuole offrire di sé. La tecnica meno documentata è l’opus sectile, limitata a un numero contenuto di stesure sia per i costi dei materiali, sia perché soggetta al fenomeno del reimpiego in età romana e dello spolio in epoca
postclassica. Ancora rari in età repubblicana e augustea, dagli inizi del I sec. d.C. i sectilia pavimenta sono presenti nelle abitazioni di maggior pregio. La distribuzione dei ritrovamenti copre l’intera area regionale con massimo tre esemplari a città; una media da cui si discostano, forse per la maggiore facilità di reperire marmi via mare, Ravenna e anche Rimini che conta finora ben nove pavimenti. In alcuni casi vengono associate più tecniche all’interno di un unico pavimento o, più frequentemente, di un medesimo contesto abitativo: rivestimenti “poveri”, quali i laterizi o i cementizi non decorati, contraddistinguono spesso vani di servizio, mentre i mosaici policromi e ornati con figure e l’opus sectile sono riservati alle stanze di ricevimento. Accade anche di scoprire la compresenza di pavimenti realizzati in epoche distanti, testimoni
Un'articolata geometria nel mosaico in bianco e nero dalla domus di palazzo Diotallevi (vano B)
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i mosaici di
Rimini
Il pavimento in tecnica mista (mosaico e opus sectile) dalla domus dell'ex Scuola industriale (part.)
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i pavimenti raccontano le antiche stanze
dell’antichità dell’abitazione, una sorta di “domus diacronica” che esibisce con orgoglio la propria lunga storia. I PuntI dI vIsta La vasta documentazione e la possibilità di datare i pavimenti in base alla stratigrafia hanno portato gli studiosi, fino agli anni Ottanta concentrati sul mosaico decorato, a dedicare maggiore attenzione alle altre tecniche e agli ornati geometrici fino a ottenere una codificazione dei repertori utile a definire lo sviluppo cronologico, seguire la circolazione dei modelli, individuare le tendenze locali. L’analisi dei singoli elementi compositivi, distinti fra soglie, bordi e campi, e delle decorazioni (geometriche, figurate o vegetali), non può prescindere da un’interpretazione unitaria della superficie pavimentale che tenga conto di molteplici fattori: i materiali impiegati e l’uso del colore, l’associazione degli ornati e la loro impaginazione, cioè il modo in cui il disegno si
inserisce nel pavimento. L’impaginazione può essere a campo omogeneo, quando la stesura è uniforme, o iterativa, se ottenuta dalla ripetizione regolare di un modulo di base. Entrambe sono adatte ad ambienti sia di passaggio che di soggiorno, mentre si prestano a rivestire sale di rappresentanza o vani privati, quali i cubicula (le stanze da letto), le impaginazioni che attirano l’occhio su un punto focale del piano di calpestio. Fra queste le soluzioni centralizzate: con emblema, un “quadretto” creato a parte su un proprio supporto, o quelle più comuni che lo imitano con pseudo-emblema, accogliendo un motivo decorativo integrato nella stesura. Prevedono l’accostamento di pannelli distinti le impaginazioni giustapposte, tipiche di corridoi e di ambienti ripartiti in due o più zone, come i triclinia, le sale per i banchetti. Tutti i dati concorrono a individuare la “cultura musiva” di un territorio, frutto degli aspetti “artigianali” di formazione e sviluppo del repertorio, dell’apporto culturale della committenza e del confronto con il gusto maturato nella Capitale. Tessellato in tessere bianche, dalla domus dell'ex Collegio dei Gesuiti
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III. la romanIzzazIone del terrItorIo: dalla nascIta dI arImInum all’età AUGUSTEA III secolo a.c. – I secolo a.c.
La coLonIa Nel compiere la missione decisa dal Senato romano nel 268 a.C., i 6.000 coloni che fondano Ariminum danno avvio ufficialmente alla romanizzazione del territorio a nord degli Appennini. Un processo portato a compimento quasi tre secoli dopo da Ottaviano Augusto, con l’istituzione della Regio VIII. La colonia viene dedotta nel piano fra la foce dell’Ariminus – il fiume da cui prende il nome – e quella del torrente Aprusa; una zona già frequentata dall’VIII secolo a.C. per l’approdo marittimo e oggetto, dalla metà del IV secolo, di un insediamento di probabile matrice umbra, in cui si inseriscono le altre componenti etniche del territorio, a iniziare da quella celtica. Qui i Romani avevano già creato un avamposto nei primi decenni del III secolo, dopo la definitiva sconfitta dei Galli Senoni. I fondatori recano un bagaglio di saperi maturato nell’ambito della cultura centroitalica. Ne fanno parte collaudate strategie di occupazione del territorio che trasformano il paesaggio “naturale” in un ambiente antropizzato disegnato con tratti che ancor oggi lo connotano: l’ordinata geometria della campagna coltivata, se-
gnata dalle maglie della centuriazione e da piccoli abitati; il centro urbano, racchiuso entro i corsi d’acqua, l’Adriatico – allora arretrato a lambire l’abitato – e la linea delle mura; il sistema di strade che, in poco più di un secolo, fa di Ariminum un caput viarum, uno snodo su cui convergono importanti vie consolari, quali la via Flaminia (220 a.C.), la via Aemilia (187 a.C.), la via Popilia (132 a.C.) e una rete di collegamenti transappenninici, a iniziare dalla via Aretina lungo la valle del Marecchia. Strategie vincenti, capaci di adattare i modelli alla morfologia del luogo e di ottimizzare le scelte attuate dalle popolazioni precedenti. Come appare nel tessuto urbano che organizza la trama dello stanziamento preesistente, acquisendo la fisionomia che tuttora caratterizza il centro storico. All’interno del pomerium, un reticolo di vie ortogonali, i cardines e i decumani, disegnano la maglia di insulae: gli isolati rettangolari destinati ad accogliere gli edifici pubblici e privati. Assi generatori dell’impianto sono il cardo maximus (via Garibaldi-via IV Novembre), che collega la via Aretina all’area portuale (nei pressi di piazzale Clementini), e il decumanus maximus (corso d’Augusto), che raccorda la via Flaminia alla via Aemilia; il loro
Nella pagina a fianco: il motivo “a stuoia” nel più antico mosaico di Ariminum, da via Castelfidardo
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i mosaici di
Rimini
2 3
1
1.
vIa
2.
ex
guerrIerI
3.
domus del
4.
ex
5.
palazzo
pallonI
6.
palazzo
gIoIa
7.
ex
8.
palazzo
9.
scavo dI vIa
10.
palazzo
11.
ex
collegIo deI gesuItI
23
5
chIrurgo e palatIum dI pIazza ferrarI
vescovado
6
scuola IndustrIale dIotallevI dante
massanI
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21
convento dI san francesco
12. mercato coperto
28
13.
scavo dI vIa
14.
scavo delle ex
15.
scavo a mare dell’arco
16.
domus a monte dell’arco
17.
scavI dI vIa
18.
palazzo arpesella
19.
scavo dI vIa
20.
vIa
caIrolI
21.
vIa
sIgIsmondo
22.
teatro
23.
palazzo
castelfIdardo scuole “tonInI”
20
18
fratellI BandIera BonsI
gallI BattaglInI
19
la romanizzazione del territorio
9 4
7 8 10
11 13 12 14
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Pianta di Ariminum con i siti che hanno restituito mosaici e altre pavimentazioni romane (elaborazione da: A. Fontemaggi, O. Piolanti (a cura di), Da Rimini ad Ariminum. Alla scoperta della cittĂ romana. Guida per ragazzi, Rimini, 2005. p. 105)
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i mosaici di
Rimini
orientamento si discosta da quello canonico, ad assecondare l’andamento del suolo e dei corsi d’acqua. All’incrocio fra le vie principali, in corrispondenza di piazza Tre Martiri, si apre il foro, cuore della vita pubblica ed economica. Le insulae, mediamente di metri 85x120, sono disposte per strigas, con il lato maggiore allineato ai cardines, forse in relazione alla priorità, nell’insediamento coloniale, del collegamento della via transappenninica allo scalo marittimo e alla foce dell’Ariminus, priorità poi attribuita alla direttrice di raccordo tra le vie consolari. Le PIù antIche case dI Ariminum La pianificazione urbanistica della colonia lascia spazio per lo sviluppo delle strutture e la crescita demografica: la bassa densità insediativa riserva ampi margini ad aree coltivate o a piccole attività produttive. Le prime abitazioni, di cui Rimini offre una documentazione archeologica unica a livello regionale, appaiono simili a semplici capanne, improntate all’autosufficienza familiare e a uno stile di vita frugale. I resti disegnano costruzioni prevalentemente in materiali deperibili, quali legno e terra, con fondazioni in ciottoli, pezzame laterizio o scaglie di pietra, tetti coperti da strame o tegole in cotto, e pavimenti in terra battuta, pianciti di legno e cubetti fittili. Dalla metà del II sec. a.C, il tessuto abitativo si fa meno rarefatto, mentre gli spazi domestici si distribuiscono in una planimetria ispirata ai modelli italici. Un’edilizia mista in cui la funzione residenziale si integra con quella produttiva – attestata dal ritrovamento di pozzi, vasche, piccole fornaci – che fornisce tessuti, alimenti e ceramiche per il consumo familiare o la commercializzazione a breve raggio. L’immagine del più antico edificio romano dell’Italia settentrionale è restituita dallo scavo di palazzo Massani, mentre la 30
presenza di altre case nell’Ariminum dei primi secoli è segnalata dal rinvenimento di pavimenti a cubetti irregolari di cotto all'interno di contesti la cui vita attraversa tutta l'epoca romana: due gli esemplari dallo scavo del Mercato Coperto, uno da quello di palazzo Gioia, uno da palazzo Diotallevi e ancora uno da palazzo Arpesella. Considerati, fino all’introduzione delle tecniche di indagine stratigrafica, “fossili guida” per l’individuazione delle strutture abitative delle fasi coloniali, i pavimenti in cotto nascono nel segno della praticità e dell’economia piuttosto che della ricerca estetica, in sintonia con un modus vivendi che non tollera sprechi. I cubetti, irregolari nelle dimensioni (da 2 a 10 centimetri per lato) e nella forma, sono ritagliati da laterizi di scarto o di recupero, disponibili in quantità e a basso costo per il precoce sviluppo della produzione fittile. Materiali di reimpiego dunque, che ispirano la sperimentazione di stesure pavimentali – documentate a Rimini e a Bologna – in cui si riconosce una delle espressioni più originali del gusto locale. La cIttà deL I secoLo a.c. Un diverso orizzonte si apre nel I sec. a.C. a seguito dei cambiamenti politici e amministrativi che integrano Ariminum nello Stato Romano: intorno al 90 a.C. diviene municipium ottenendo la piena cittadinanza per i suoi abitanti, quindi, con lo spostamento del confine dall’Esino al Rubicone (78 a.C.), entra nel territorio dell’Italia romana. Interventi importanti interessano l’architettura pubblica, sia civica, con la risistemazione del sistema delle mura dopo le ritorsioni sillane, sia religiosa, per l’edificazione di templi in pietra cui sono destinate grandi statue di divinità. E infine con le iniziative urbanistiche e architettoniche intraprese da Ottaviano Augusto. Fra la vittoria di
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Pavimenti a cubetti fittili dalle prime abitazioni di Ariminum nell'area di palazzo Massani e del Mercato Coperto
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Pianta delle domus di palazzo Massani agli inizi del I secolo a.C. Al centro l'edificio con atrio a forma di T (da J. Ortalli, C. Ravara Montebelli, Rimini: lo scavo archeologico di palazzo Massani, Rimini, 2003, p. 8)
Azio (31 a.C.) e la sua morte (14 d.C.), il princeps conferisce al centro urbano le forme monumentali che possiamo tuttora ammirare nell’Arco di Augusto, eretto al termine della via Flaminia, e nel ponte in pietra sull’Ariminus, punto di inizio della via Aemilia. Monumenti-simbolo della città romana, l’Arco e il Ponte segnano le estremità del decumanus maximus e nel contempo i limiti cronologici (27 a.C.-14 d.C.) entro i quali Augusto pianifica il suo progetto urbanistico. Se nel foro si concentra la munificenza dell’imperatore che vi costruisce il teatro e la basilica, altri interventi – quali strade, acquedotti, fogne, ponti, la bonifica di un quartiere – oltre a celebrare Ottaviano, migliorano la qualità della vita e danno impulso a un ammodernamento dell’edilizia privata. Fervore costruttivo e desiderio di rinnovamento raggiungono l’apice nella seconda metà del I sec. a.C. e negli anni del principato augusteo: è il primo “boom edilizio” della storia di Rimini! 32
Le PrIme domus Abbandonata l’essenzialità delle antiche abitazioni, i nuovi edifici diventano status symbol dei ricchi proprietari che riversano il desiderio di affermazione nella costruzione di eleganti domus come di imponenti architetture funerarie. È il principato a porre freno alla luxuria, rinsaldando il potere dello stato anche con l’introduzione di modelli edilizi per la classe dirigente. Cambia allora il modo dell’abitare e la casa diviene sempre più luogo dell’otium, il godimento del corpo e dello spirito; maggiore importanza assumono gli ambienti per lo studio, la conversazione e i piaceri della tavola, e insieme la ricerca estetica. Uno stile di vita che si riflette nella domus ad atrio di tradizione italica, propria dei ceti medio alti. Fulcro è appunto l’atrium, uno spazio di accoglienza cui si accede attraverso le fauces e il vestibulum; qui i clientes omaggiano il pa-
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Pavimento in cementizio decorato da una trama a rombi, nel sito della domus del Chirurgo
tronus in attesa di gratificazioni. Nella parte posteriore, in asse con l’atrio, si apre il tablinum, la sala di ricevimento in cui il dominus intrattiene i rapporti con i clientes, attende agli affari, conserva gli archivi. È ancora una volta palazzo Massani a documentare in modo esemplare questa tipologia abitativa, che ha diverse attestazioni in regione. Altri siti (via Sigismondo, ex Vescovado, palazzo Diotallevi e palazzo Palloni) hanno restituito domus non allineate al modello canonico, mentre in alcuni casi è il ritrovamento di un solo pavimento a segnalare un edificio: stesure comuni, come il cementizio decorato da un reticolo di rombi, unica traccia della fase tardorepubblicana dell’impianto in cui verrà a inserirsi la domus del Chirurgo; oppure rivestimenti originali quali il mosaico da via Castelfidardo e l’opus sectile da via Dante. Oltre a un cementizio con inserti lapidei policromi dallo scavo, tuttora inedito, delle ex scuole “L.Tonini” in via Brighenti.
Di alcuni pavimenti in cementizio decorato, tanto deteriorati al momento della scoperta da non poter essere recuperati, rimane traccia nella documentazione fotografica di scavo che consegna un repertorio di motivi consueti (il reticolo di rombi e le crocette nel campo, il meandro di svastiche e quadrati nel bordo), a fianco di ornati originali: fra questi lo schema centralizzato con un rosone composto da file concentriche di losanghe, inserito in un ottagono (domus di palazzo Diotallevi). L’attività edilizia sembra concentrarsi intorno alle aree in cui più forte è l’intervento di riqualificazione attuato dal princeps, come la zona del foro, ma il quartiere dove più evidente appare la monumentalizzazione Augustea è quello ai lati dell’Arco. Elemento comune alla maggior parte degli impianti anche nell’ultimo secolo della repubblica è la vicinanza di spazi residenziali e produttivi. Ad attività artigianali rimandano le numerose vasche pavimentate in laterizio, perlopiù in opus spicatum o esa33
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gonette, o in cementizio, rinvenute negli scavi di palazzo Gioia, Mercato Coperto, palazzo Diotallevi ed ex San Francesco. Ma dall’età augustea le attività manifatturiere vengono relegate fuori dall’ambito urbano e le abitazioni, cresciute nel numero di ambienti e nelle dimensioni, vanno a occupare interamente le insulae. daLLe domus dI PaLazzo massanI Un’umile capanna si trasforma in una splendida domus
Veduta zenitale dello scavo di palazzo Massani: a sinistra si riconosce il pavimento in opus sectile del tablinum
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Il più dettagliato racconto dei modi dell’abitare ad Ariminum dal III sec. a.C. al I d.C. emerge dallo scavo di palazzo Massani, nel cuore della città antica, all’incrocio fra il cardo maximus e il primo decumanus a est del foro. Già i fondatori della colonia urbanizzano l’area, frequentata stabilmente almeno dal IV sec. a.C., e la suddividono in tre lotti di cui solo due vengono edificati. Di queste costruzioni “povere”, con funzione residenziale e produttiva, rimangono le fondazioni e alcuni pavimenti in cubetti fittili, destinati a segnare le soglie di vani coperti da tavole di legno, a rivestire piani di calpestio sottoposti a particolare usura
o a impermeabilizzare il fondo di vasche. Scandita da ristrutturazioni dal ritmo sempre più veloce, dal II sec. a.C. la storia del sito ha per protagonista l’edificio del lotto centrale. La grande domus (metri 17,5x33) si uniforma, all’inizio del I sec. a.C., al modello dell’abitazione centro-italica: l’atrium, con l’impluvium per la raccolta dell’acqua piovana, si allarga nella caratteristica forma a T e sul fondo si aprono tre vani. Uno di questi, con funzioni di rappresentanza, si distingue per il pavimento in cementizio decorato, per secoli lustro della casa. La raffinata stesura focalizza l’attenzione sul centro del tappeto, da cui si irradiano losanghe, con un effetto a “esplosione” contenuto nei limiti di un cerchio: ne sortisce un rosone inscritto in un quadrato, con elementi vegetali stilizzati agli angoli, enfatizzato da un’ampia cornice con tre file di meandri di svastiche alternate a quadrati. Se quest’ultimo è un motivo tra i più comuni nel repertorio del cementizio, lo schema centrale, pur essendo abbastanza diffuso in area centro-italica e in Cisalpina, non ha altri esempi in regione. Il risultato è una decorazione ricercata nella composizione e nell’uso della bicromia, che riserva il nero soltanto ai motivi inseriti negli spazi di risulta del rosone. Una parziale ristrutturazione, fra l’età augustea e quella tiberiana, comporta l’apertura di due pareti del tablinum. Si offre così, a chi entra nella domus, una visione prospettica che si fa più suggestiva allorché la zona posteriore, dilatata per l’acquisizione del lotto sulla parte opposta dell’insula, viene adibita a peristylium, il giardino porticato: ambiente ideale per colte conversazioni, il peristilio compare nelle domus romane fin dal II sec. a.C. come ostentazione di lusso e dell’adesione allo stile di vita greco-ellenistico. Ornato da una vasca con pavimento a mosaico in tessere nere, da fontane, statue, piante e fiori, il giardino risponde ai canoni estetici e culturali dell’habitare nei primi tempi
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dell’impero. Ma lo sguardo degli ospiti corre anche sui nuovi tappeti musivi: quello dell’atrium, a fondo nero con crocette in tessere bianche, e quello del corridoio, che dal tablinum guida al peristylium, sul cui fondo bianco si distribuiscono crocette formate da quattro tessere nere, disposte attorno a una tessera centrale. Ad attrarre l’attenzione è anche la rinnovata pavimentazione del tablinum con tappeto in opus sectile decorato da cornici concentriche che si avvicendano impiegando formelle in moduli medi e piccoli. Elegante il cromatismo conferito da file a scacchiera in calcare bianco e nero, alternate ad altre in bianco e Rosso di Verona. Racchiusa dalle bordure, la più interna delle quali impiega anche marmi pregiati, è una piccola vasca in cocciopesto rivestita da marmi e un tempo ornata da una scultura. Dal centro del tappeto l’occhio si allontana ad abbracciare ciò che resta del pavimento, delimitato da una fascia su cui corre un meandro di svastiche a giro semplice. daLLe domus dI vIa sIgIsmondo Le prime delicate trame geometriche Affacciata da un lato su un decumano minore (via Sigismondo), dall’altro su un ambitus, un vicolo all’interno dell’insula, che la separa da un altro edificio, la domus I, nella fase più antica della prima metà del I sec. a.C., è caratterizzata da una stanza con pavimento in cementizio decorato da un motivo a meandro: la trama iterativa è disegnata da file di tessere bianche che compongono svastiche a doppio giro e doppie T. Un ornato piuttosto complesso e non molto frequente, che nasce in ambito campano nel repertorio in cementizio per essere poi assunto in quello musivo, soprattutto in area centro-italica; il suo
utilizzo riguarda perlopiù composizioni a tutto campo, come questa, un unicum nella regione. Il raffinato pavimento del vano di rappresentanza ben si addice a un edificio dotato anche di un’area scoperta porticata, con colonne in arenaria: uno spazio di prestigio che adotta il linguaggio architettonico proprio dell’edilizia pubblica nella volontà di autocelebrazione del dominus. daLLa domus a monte deLL’arco Ai piedi di Augusto Non appena varcato l’Arco, dalla cui sommità l’imperatore Augusto dà il benvenuto a chi giunge ad Ariminum, la città si presenta in una veste monumentale, specchio dell’ideale augusteo di magnificentia. Gli edifici affacciati sul tratto iniziale del decumanus maximus creano una quinta armoniosa con la costruzione dell’Arco, un insieme concepito per volontà forse di Augusto o forse di notabili locali vicini alla corte. I resti scoperti a più riprese nelle insulae a monte e a mare dell’Arco, a iniziare dagli anni Cinquanta del Novecento, restituiscono parte delle strutture rispettivamente di
Il complesso motivo a meandro del pavimento in cementizio nella domus I di via Sigismondo
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una domus signorile (se non di un edificio pubblico) e di un impianto termale, con ogni probabilità pubblico. La domus a monte si sviluppa su una vasta area, avvicinandosi alle mura con ambienti di servizio pavimentati in opus spicatum, poi trasformati in quartiere termale. Il lungo corridoio rettilineo, che conduce al cuore della casa, rivela l’elevato tenore della domus cresciuta negli anni in cui viene eretto l’Arco. Nell’ala di ricevimento il percorso si frammenta in un sistema di disimpegni lungo i quali si aprono gli ingressi alle stanze, sottolineati da soglie con decorazioni geometriche di raffinata esecuzione. I vani di soggiorno, sontuosi e austeri, hanno pavimenti a fondo nero, secondo un gusto ricercato e in controtendenza rispetto alle più comuni stesure bianche, ma attestato anche in altri contesti riminesi coevi (ex Vescovado e palazzo Palloni): mosaici in cui sembra potersi riconoscere l’operato di una medesima bottega, attiva in città in età protoimperiale. Si tratta di un’officina attenta alla tradizione medio-italica dove questa tipologia di tessellato era maturata già alla fine del III sec. a.C. per trovare diffusione in area emiliano-romagnola dalla seconda metà del I sec. a.C. alla metà del I sec. d.C. L’ambiente principale (vano B) e più vasto (metri 6,60x6,30) appare come un insieme unitario in cui l’architettura si fonde con i rivestimenti a pavimento e, molto probabilmente, con gli affreschi alle pareti. Le decorazioni assecondano la pianta, mossa da tre nicchie – due rettangolari in corrispondenza degli ingressi principali, speculari, l’altra semicircolare – suggerendo l’articolazione dello spazio e la gerarchia nella disposizione degli ospiti. Le soglie dichiarano il livello dell’ambiente per le loro dimensioni e per la sofisticata decorazione che propone file di quadrati e triangoli in un complesso motivo a scacchiera in bianco e nero. 36
All’interno si stende un grande tappeto, tessuto in un fitto e regolare ordito obliquo di piccole tessere nere; a vivacizzarlo sono scaglie di marmi chiari, timidi bagliori nella monotonia della superficie, che non vanno a interessare l’abside, separata da una fascia di quadrati neri allineati per i vertici a formare clessidre. La rigorosa geometria si stempera nelle linee della cornice a onde correnti intorno a un riquadro, di circa 1,5 metri di lato, posto al centro dell’ambiente e purtroppo perduto. La medesima atmosfera connota le altre stanze, destinate a incontri che richiedono maggiore riservatezza: le soglie, inserite in un ambiente (vano C) dotato di due ingressi che lo collegano con altrettanti vani, hanno motivi geometrici in bianco e nero, una con un gioco di losanghe dentellate, sovrapposte all’interno di un rettangolo, l’altra disegnata da un reticolo con quadrati sulle diagonali e losanghe; i campi a fondo nero sono uniformi (vano C) o mossi da inserti in crustae di marmi chiari (vano D), o ancora scanditi in quadrati disegnati da singole file di tessere bianche (vano A), a riprodurre il motivo del cassettonato in una estrema sintesi espressiva, tipica del periodo. La predilezione per i pavimenti a sfondo nero e per vani absidati (almeno tre come emerso negli scavi degli anni Ottanta) dichiara la cultura ellenistica dei committenti, sensibili ai canoni del design più moderno, allineato allo stile della Capitale. Qualunque fosse la funzione dell’edificio, ci piace immaginare che lo stesso Ottaviano Augusto ne abbia calcato le soglie compiacendosi di ritrovare quella severa grandiosità e quell’elegante semplicità a lui care e interpreti della magnificentia dello Stato.
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L'impianto della domus a monte dell'Arco venuto in luce negli scavi degli anni Sessanta (da: Forum Popili 2010, p. 53 fig. 8)
Mosaico a fondo nero impreziosito da scaglie di marmo, dalla domus a monte dell'Arco (vano D)
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Soglia con losanghe dentellate a segnare uno degli ingressi del vano C della domus a monte dell'Arco
L’intramontabile ideale della virtus Tra i vani di ricevimento della domus solo uno si distingue (vano E) per la decorazione figurata del mosaico a fondo nero: una sorta di messaggio cui il dominus affida la celebrazione della propria immagine e dei propri ideali. All’interno di quadrati, alternati a piccoli rettangoli ed elementi a croce negli spazi di risulta, campeggiano, sullo sfondo bianco, ora due scudi neri incrociati di forma esagonale allungata, con spina a freccia e umbone circolare, ora un fiore quadripetalo stilizzato con foglioline lanceolate tra i petali. La rappresentazione delle armi è comune, nella tarda età Repubblicana, sia in contesti pubblici sia privati, inserita nei lacunari a soffitto, nelle pitture parietali e nei fregi funerari da cui approda ai mosaici. Anche in Emilia Romagna, a iniziare dalla vicina Forlimpopoli, fra la fine della Repubblica e il primo impero alcuni 38
mosaici accolgono il motivo degli scudi, nell’intento di celebrare l’impegno militare e la dignità sociale del committente e della sua famiglia, richiamando l’esibizione di trofei, propria delle case più nobili, a manifestazione della virtus. Il fiore, frequente nei rilievi funerari anche in associazione alle armi, ricorre fra i tanti simboli nelle formelle sotto il timpano dell’Arco di Augusto: una coincidenza a favore della datazione del pavimento alla fase augustea della domus piuttosto che alla ristrutturazione della prima/media età imperiale. In questo semplice elemento decorativo si legge un antenato della rosa malatestiana che colora le formelle marcapiano di castel Sismondo e sboccia fra gli stemmi delle fiancate del tempio Malatestiano, ennesima citazione della romanità cui guardava Sigismondo Pandolfo, novello Augusto.
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La fascia decorata da un motivo a clessidra segna l'accesso all'abside nel vano B della domus a monte dell'Arco Lo scavo della domus a monte dell'Arco: in evidenza la fascia con motivo a scacchiera di uno degli ingressi principali del vano B
daLLo scavo a mare deLL’arco Alle terme Fra gli edifici ai piedi dell’Arco di Augusto, quello nel lato a mare ospita quasi certamente un impianto termale pubblico. Tempio dell’otium in cui ritemprare il corpo e la mente, nonché intrecciare relazioni, le terme offrono un servizio indispensabile per il modus vivendi romano e, nel contempo, danno visibilità agli interventi di attivazione o potenziamento della rete idrica e fognaria promossi da Augusto. Il complesso ha restituito tre nuclei di ambienti distribuiti fra le mura, cui la costruzione va ad addossarsi, e via Marco Minghetti. L’edificio si compone di vani mossi da nicchie, absidi, esedre, e di un sistema di vasche, anch’esse in parte absidate, rivestite in lastre di marmo o pietra, la cui presenza ha stimolato l’ipotesi della funzione termale dell’impianto. Al settore scavato sotto via Minghetti appartengono tre ambienti con mosaici a fon-
L'estrema semplificazione dell'ornato "a cassettonato" nel mosaico del vano A della domus a monte dell'Arco
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Mosaico con scudi incrociati e fiori, dalla domus a monte dell'Arco (vano E)
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do nero, due dei quali decorati da inserti di marmi preziosi, in uso anche a Roma, con prevalenza di piccole lastre strette e allungate, distribuite senza un preciso disegno, nei toni del verde, rosso, giallo, rosa. A uno dei vani è riservato il lusso di una decorazione figurata all’interno dello pseudo-emblema disegnato da una fascia con motivi floreali. Nella cornice, una ghirlanda di foglie ora cuoriformi, ora lobate, si intreccia con una sequenza di fiori di loto stilizzati: una composizione delica-
ta e originale, tanto da non avere puntuali confronti, resa ancor più gradevole dalla sapiente armonia dei colori. Al centro di questa sorta di gigantesco oblò (circa tre metri di diametro!) si spalanca una visione degli abissi che il mito popola di divinità e di mostri pronti a scatenare la furia delle acque o a tendere agguati. Creature marine (forse due Tritoni o forse Scilla) dovevano essere protagoniste della grande scena, di cui rimangono solo due frammenti, in posizioni quasi opposte: si riconoscono
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le lunghe code avvolte a spirale di uno o due corpi, colti in un movimento repentino, e un lungo bastone o meglio l’asta di un timone. Nonostante le lacune, appare evidente la perizia tecnica dei musivarii nell’ottenere effetti pittorici utilizzando tessere di pochi millimetri in una ricca gamma di sfumature. Le rappresentazioni dei personaggi del mito legati al mondo marino godono di grande fortuna nel repertorio romano e in particolare in quello musivo del II secolo, che le destina quasi esclusivamente ad ambienti termali per composizioni in bianco e nero; molto rare invece le stesure policrome, come quella riminese.
Considerazioni che da un lato supportano l’identificazione del complesso con un impianto termale, dall’altro confermano l’originalità della decorazione e il carattere sperimentale all’interno di una produzione, presumibilmente locale, con competenze tecniche evolute. Si tratta forse delle stesse maestranze cui è affidato l’incarico di eseguire i mosaici in tessere di smalto e di vetro, alternate a bastoncini in vetro ritorto e conchiglie, che abbelliscono le pareti di vasche e fontane dell’edificio. Rimangono solo piccoli brani di questi preziosi sfondi che esaltano i giochi d’acqua con gli intensi riflessi del blu egizio, con gli improvvisi bagliori di smalti gialli, verdi, rosa, bianchi, con la naturale bellezza delle conchiglie. L’impiego di materiali quali il costosissimo blu egizio, i pregiati bastoncini di vetro colorato e le tessere in pasta di vetro, di limitata circolazione al di fuori di Roma, ribadisce l’influenza, se non l’ingerenza diretta dell’autorità imperiale nel progetto del complesso termale.
La rosa quadripetala fra le decorazioni del timpano dell'Arco di Augusto Sotto: Particolare del mosaico con mostro marino da uno degli ambienti a mare dell'Arco di Augusto
da vIa casteLfIdardo Il più antico mosaico di Ariminum Ha il fascino intrigante di un ritratto senza volto il più antico mosaico romano di Ri-
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Mosaici “da fontana”, dallo scavo a mare dell'Arco
mini, un piccolo tappeto di forma quadrata (ca. 1,40 metri la sezione strappata) in cui un ampio bordo policromo incornicia un… vuoto. Carlo Tonini, nel darne la prima notizia, racconta che al momento del ritrovamento, nel 1891 in via Castelfidardo, «nel quadrato dello scompartimento centrale, mancavano i cubetti ed ogni altro oggetto ornamentale che certamente dové essere tolto allorché vi fu sovrapposto il nuovo pavimento. Da un incavo trovatosi nel cemento, sembra potersi rilevare che vi fosse impernata una colonnetta od una statua». Aggiunge di aver assicurato al Museo i “pezzi migliori” dei due mosaici, i primi entrati a far parte delle collezioni riminesi. 42
L’immagine centrale del pavimento dunque fu carpita prima della sovrapposizione, nel II sec. d.C., di un nuovo tessellato. Pur privo della decorazione più importante, in cui le migliori qualità tecniche dei mosaicisti dovevano unirsi con i temi più cari al committente, il pavimento denota un elevato livello di esecuzione. Lo pseudo-emblema, di cui rimangono solo pochi brandelli in prevalenza nei toni del rosso e dell’ocra, è avvolto da cornici concentriche colorate che riprendono l’effetto prospettico dei cassettoni a soffitto. Intorno, tessere rettangolari nei colori bianco, nero, verde e ocra, disposte a coppie alternativamente in orizzontale e in verticale, disegnano un motivo che imita
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Tessere rettangolari disegnano la trama “a stuoia” del mosaico da via Castefidardo
la trama di una stuoia, diffuso a Roma e a Pompei fra la fine del II sec. a. C. e la prima età imperiale, con rari esempi in Cisalpina. È proprio il modulo rettangolare delle tessere a lasciare intuire una sperimentazione locale nell’introduzione della tecnica del tessellato, sperimentazione in genere segnalata dall’impiego di elementi di forma irregolare. In un quadro regionale in cui si registra l’allineamento al repertorio musivo campano e laziale, il tappeto di via Castelfidardo testimonia che ad Ariminum, nella fase di introduzione della tecnica musiva alla seconda metà del I sec. a.C., operano officine alla ricerca di soluzioni originali, seppure ispirate alla tradizione centro-italica.
L’ILLusIone deLLa trIdImensIonaLItà neLL’opus sectile da vIa dante Reca i segni dell’antica bellezza e dell’inarrestabile decadenza il grande pavimento in opus sectile scoperto nel 2002 in via Dante. Già individuato negli anni Cinquanta del secolo scorso, è stato recuperato in occasione di lavori stradali e quindi restaurato per l’esposizione nel Museo della Città. Tuttora inedito, fatta salva una breve descrizione nella tesi di dottorato (2012) di Giovanna Paolucci, il pavimento appartiene a un edificio allineato al cardo, non distante dal litorale e dal porto. Posizione molto ambita per una costruzione di 43
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prestigio che può esibire una stesura pavimentale come l’opus sectile, in una redazione con sapienti effetti tridimensionali, ed esclusiva, tanto da non avere confronti in ambito regionale. Una fascia a cassettoni, avvolta da un bordo in mosaico a tessere bianche, si sviluppa su almeno tre lati, rispecchiando a pavimento la plasticità dei lacunaria a soffitto, in un rimando di forme e di colori ottenuto con l’accostamento di lastre a listelli: il tono scuro del marmo rosso, a richiamare il legno della copertura, il nero per ripartire il motivo a quadrati concentrici composto da listelli bianchi, gialli e verdi, e ancora rossi intorno a un riquadro centrale nero a rendere il senso della profondità. La composizione ripropone in opus sectile un modello realizzato anche in mosaico. L’illusione della tridimensionalità pervade anche il centro della stanza con uno pseudo-emblema di ca. 3 metri di lato, di cui non si coglie il disegno originale; solo qualche timido accenno ricorda quello che doveva essere lo splendido tappeto decorato a cubi prospettici, il più antico fra i motivi del repertorio dell’opus sectile e uno dei più pregevoli, tanto da essere proprio anche dell’edilizia pubblica e da ornare perfino la casa di Augusto. Ideata in origine per il tessellato, la decorazione, ottenuta con lo studiato accostamento di losanghe nei tipici colori bianco, verde e nero di pietre calcaree o ardesie, gode di successo in area centro-italica dagli inizi del I sec. a.C. fino all’età augustea e tende a
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scomparire con l’esaurirsi del gusto ellenistico per la ricerca prospettica. L’eleganza sobria dei cubi doveva sposarsi con una fascia centrale, o un riquadro forse in lastre, di marmo o pietra, di cui rimane traccia in pochi inserti di colore grigio, uno esagonale e alcuni rettangolari. Un’evidente situazione di spolio in cui emerge il metodo di preparazione della stesura (quella originale? o piuttosto quella del restauro antico?) che prevede l’inserimento nel sottofondo di pareti di vasi. Per l’utilizzo di materiali misti – tipico soprattutto dell’età augustea e giulio-claudia, nonché per l’inserimento dell’emblema in opus sectile all’interno di un tessellato, secondo una tendenza che svanisce sul finire del I sec. d.C. – la redazione del tappeto sembra potersi ricondurre entro la metà del I secolo. L’armoniosa composizione originale si presenta alterata per antichi restauri che, nella volontà di mantenere in vita una stesura così preziosa seppur deteriorata, hanno recuperato e reimpiegato le losanghe e altri materiali per sanare ampie lacerazioni. L’intervento, forse affidato a una manovalanza non esperta, sortisce una trama disordinata di rombi in prevalenza bianchi e verdi, che va a occupare gran parte dello spazio già coperto dai cubi. Una risarcitura incoerente, ma non disdicevole per la cultura romana che riconosce nell’antichità delle strutture e nel riciclo valori da custodire; e che riserva particolare attenzione alle pavimentazioni proprio dei primi decenni dell’impero per il loro pregio decorativo e le qualità tecniche.
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Il pavimento in tecnica mista da via Dante
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IV. arImInum neI secolI d’oro dell’Impero I secolo d.c.-metà del III secolo d.c.
I lavori della costruzione del ponte in pietra sul fiume Marecchia proseguono per sette anni dalla morte di Augusto (14 d.C). Nel 21 d.C., infatti, sotto il regno del successore Tiberio, viene consegnata alla città l’opera che ancora oggi, a più di duemila anni, ne monumentalizza uno degli ingressi. Architetture funzionali e rappresentative caratterizzano il volto della città progettata da Augusto. Uno scenario che, a prescindere da interventi di manutenzione e restauro, tende a restare invariato nei primi due secoli dell’impero se si esclude la creazione, all’imboccatura del cardo maximus, fra il foro e la basilica, di una grande fontana a ninfeo. E, finalmente, nella periferia a est del centro urbano, non lontano dalla costa, nasce la grande fabbrica dell’anfiteatro in laterizio, l’intervento più importante per la città e il suo territorio che una moneta rinvenuta nella muratura, assegna ad età Adrianea. Per la piena età imperiale le fonti epigrafiche riferiscono anche di altri interventi quali la costruzione di una schola per le riunioni “di quartiere” e la ristrutturazione del macellum, il mercato alimentare. A un horreum Pupianum, un magazzino per le
derrate alimentari forse in prossimità dello scalo marittimo, fa riferimento un’altra iscrizione, ulteriore tassello della vivacità economica di Ariminum favorita, ora, anche dal vicino porto di Classe. Un’economia di terra e di mare che si alimenta dei commerci dei prodotti dell’entroterra e dell’industria manifatturiera, prima fra tutte quella di anfore e laterizi. Città e campagna condividono i frutti della rinnovata energia che, oltre ai ceti sociali più elevati, coinvolge la classe dei liberti, gli schiavi liberati, in ascesa economica. Nell’organico quadro urbanistico, non cessa l’opera di potenziamento e manutenzione delle infrastrutture di interesse civile, in primis della rete idrica all’epoca di Domiziano e poi di Antonino Pio, che serve di acqua corrente le domus cittadine. Ne sono testimoni vasche e fontane che, accanto ai più funzionali pozzi, ornano e rinfrescano aree cortilizie e peristili. Segnali di crisi economica e sociale accompagnano la nascita del III secolo anche ad Ariminum, città multietnica, che nel periodo di incertezze e timori si apre al fascino delle religioni orientali. A un sacello di epoca posteriore, dedicato al culto orientale di Giove Dolicheno, rimanda la coppia di are datate fra la fine
Nella pagina a fianco: Cornice del mosaico “di Anubi”, da via Fratelli Bandiera (part.)
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i mosaici di
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Nella pagina a fianco: Pantera all'inseguimento della preda nel mosaico di Orfeo della domus del Chirurgo La delicata policromia del mosaico geometrico nella stanza più ampia della domus del Chirurgo Marinai entrano in porto su una scialuppa. Mosaico “delle barche” dalla domus di palazzo Diotallevi (part.)
del II e il III secolo, ritrovate nei pressi del teatro. Una pagina di storia difficile si profila per la città, su cui spira un vento di crisi. Fra il 257 e il 258 e poi tra il 270 e il 271, incursioni di Alamanni e Jutungi seminano distruzioni e incendi, come evidenziano i resti archeologici. La città risponde attrezzando la sua difesa in modo programmato, potenziandola anche sul lato a mare. Recenti riscontri archeologici nell’area di palazzo Agolanti-Pedrocca (ex Banca d’Italia) anticiperebbero la datazione delle mura tardo imperiali al principato di Gallieno. Un’intrapresa che, avviata in tempi rapidi sotto l’urgente pressione delle invasioni, non riesce a salvaguardare la città dalla violenza dei barbari. All’indomani delle incursioni che colpiscono in particolare le insulae situate a nord e a est della città, fra cui la domus del Chirurgo, viene pianificato un secondo intervento che prevede l’esecuzione della cortina muraria in mattoni e solido conglomerato cementizio. Le domus Fra prima e media età Imperiale si conferma una fervida attività edilizia a carattere privato. Il tessuto insediativo urbano si sviluppa in relazione alla crescita demografica: nel contempo gli edifici già esistenti sono interessati da opere di ristrutturazione e di riqualificazione capaci, da un lato, di guadagnare nuovi spazi abitativi e, dall’altro, di rendere più agiati e raffinati gli ambienti domestici. Ciò che prevede anche l’impiego di maestranze che sappiano guardare alle tendenze espresse dalla Capitale. Le planimetrie delle domus, in alcuni casi ispirate al modello centro-italico impostato sull’asse ingresso-atrio-peristilio, ma più spesso non riconducibili a una precisa tipologia abitativa, vedono moltiplicarsi gli ambienti che hanno oramai inglobato
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e trasformato in vani residenziali le strutture già destinate alla produzione artigianale. Nell’ambito delle ristrutturazioni, si riducono le superfici delle aree scoperte che, oltre alle primarie funzioni di servizio, svolgono ora un ruolo di collegamento fra i quartieri della casa ma anche di ricevimento e di soggiorno. Riconvertite in giardini porticati con vasche, fontane e statue o più diffusamente, nel territorio romagnolo, in cortili, versione “locale” e più economica del peristylium e dell’atrium, le aree scoperte diventano il fulcro attorno al quale si distribuiscono i vani di rappresentanza. I triclinia, le grandi sale destinate ai banchetti, sono orientati ai piaceri che offrono il verde domestico, la luce naturale, gli scenografici giochi d’acqua di vasche e fontane, la raffinata eleganza delle sculture. Piaceri da condividere con gli ospiti, retaggio di quella concezione che, dall’Oriente ellenistico, aveva pervaso la cultura e i rituali del modo di vivere l’intimità della casa; e, insieme, un lusso da esibire a simbolo dell’affermazione economica e sociale del dominus. Oltre che dai cortili, per le caratteristiche climatiche della regione destinati a un utilizzo per lo più stagionale, la funzione di smistamento fra gli ambienti domestici è assolta dai corridoi, vere e proprie guide che conducono nel cuore della casa, collegano stanze, disegnano percorsi. Nel corso del II secolo, lo spazio urbano viene anche ad accogliere nuove domus nelle aree ancora non del tutto occupate dall’edilizia. Così come accade per la domus del Chirurgo, che va a inserirsi in una delle insulae il cui andamento, sul lato fronte mare, si fa irregolare per adattarsi al profilo del litorale. È il settore nord-orientale della città, in particolare, a essere attraversato da interventi di ammodernamento che consegnano nuove domus improntate all’alto tenore di vita dei nuovi domini, che le abitano e le esibiscono ai loro ospiti nei lussuosi am-
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bienti di rappresentanza: da quella dell’ex Vescovado, a quella di palazzo Diotallevi, a quella dell’ex Scuola Industriale. Ma anche in altre zone della città importanti residenze (come quella di palazzo Gioia) o mosaici isolati (quelli da via Castelfidardo o da via Cairoli) esprimono ambienti sempre più improntati al prestigio e alla ricchezza dei committenti, che eleggono le loro dimore a simboli della propria autocelebrazione anticipando una tendenza propria dell’età tardoantica. Una spiccata continuità riguarda i vani di servizio e le strutture con funzione utilitaristica come le vasche, che tuttavia acquistano sempre maggiore rilievo quali elementi ornamentali di giardini e cortili. Spazi e manufatti che, per le loro destinazioni d’uso, continuano a impiegare pavimenti in cotto e in cementizio, in grado di assicurare lunga durata e risparmio economico in un territorio vocato all’industria laterizia. Con il rifacimento delle antiche pavimentazioni a essere rinnovate sono innanzitutto le sale di rappresentanza. Mosaici dapprima caratterizzati da un variegato repertorio di geometrie in bianco e nero, e quindi da motivi figurativi anche in vivaci policromie, insieme a eleganti, preziosi pavimenti in marmo, cambiano il volto degli ambienti aperti alla vita sociale. Primi fra tutti i triclini, teatri in cui si esprime il delicato rapporto pubblico-privato. Lusso e decoro sono i codici del linguaggio che il padrone di casa utilizza per veicolare la propria immagine, la sua cultura, il suo potere, talvolta persino le proprie ideologie filosofiche e religiose. Mosaici e pavimenti in opus sectile disegnano gerarchicamente gli spazi domestici non di rado specchiandosi negli schemi decorativi delle pitture parietali e dei soffitti; offrono scene figurate, riecheggiano miti, evocano orizzonti esotici che fanno da sfondo a incontri di affari come a momenti conviviali. 49
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daLLa domus dI vIa guerrIerI Verso una nuova idea dello spazio domestico agli albori del I secolo. Il Ponte sul Marecchia, come già l’Arco di Augusto, funge da polo di attrazione anche per l’edilizia privata. A darne testimonianza sono i ritrovamenti archeologici, preziosi nel disegnare la mappa
In alto: Ricostruzione del peristylium della domus dell'ex Vescovado (da L. Mazzeo [a cura di], Il complesso edilizio di età romana nell'area dell'ex Vescovado a Rimini, Rimini, 2005, tav. 5a) A fianco: Mosaico con losanghe e quadrati in un reticolato di fasce, dalla domus di via Guerrieri
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di isolati che, nel settore settentrionale della città, esprimono ora anche la loro potenzialità residenziale a fianco di quella più espressamente produttiva di età repubblicana. Significativo, a questo proposito, lo scavo eseguito nel 2000 nel complesso di Santa Maria della Misericordia, in via Guerrieri: qui, nell’isolato impostato sul lato a mare del decumano massimo, su strutture di età repubblicana e augustea, sorge, forse in epoca giulio-claudia, una domus di cui sono stati riconosciuti almeno tre ambienti pavimentati in mosaico e in opus sectile, probabilmente in affaccio su un’area cortilizia. Fra questi, il mosaico con reticolato di fasce in cui si alternano losanghe e quadrati di due dimensioni, con una nota di originalità che caratterizza quelli più grandi, campiti da un quadrato a lati inflessi. Una decorazione, qui ricondotta all’essenzialità delle linee, che si specchia nelle composizioni a modulo ripetuto dei soffitti “a cassettoni”.
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Del contesto fanno parte anche il mosaico in cui il campo bianco è punteggiato di tessere nere a distanza regolare – uno dei motivi semplificati che tanto successo hanno goduto in Cisalpina e che, in regione, sono particolarmente attestati fra la tarda età repubblicana e la metà del I sec. d.C. – e l’opus sectile, riconducibile alla seconda metà del I secolo per l’impiego di marmi bianchi e neri, di forma quadrata e rettangolare, e per la disposizione omogenea, seppur non basata su un preciso disegno. daLLa domus deL teatro gaLLI e daLLa domus dI vIa sIgIsmondo Uno sguardo nelle abitazioni del I secolo Al I sec. d.C. sarebbero da riferirsi i ritrovamenti archeologici di strutture residenziali cresciute l’una nell’area di teatro Galli, l’altra in via Sigismondo. Luigi Tonini annota che «nel cavarsi le fondamen-
ta del nuovo Teatro nel 1843, fu trovato sul Corso verso la Rocca alla profondità di tre metri e otto centimetri un bel musaico de’ tempi romani… E similmente ne fu trovato un altro anche meglio conservato, il quale è tuttora visibile sotto le scale del Teatro medesimo…». Il primo pavimento citato rimanda alla sezione in tecnica mista, tessellato e opus sectile, esposta nel 1932 nel Museo archeologico allestito nell’ex Convento di San Francesco e oggi al Museo della Città: un’accurata treccia a calice policroma domina la cornice che delimita la campitura centrale in opus sectile in cui si riconoscono formelle quadrangolari in marmi di vari colori. Al suo fianco ammiriamo oggi il mosaico geometrico in bianco e nero già lasciato in loco che venne recuperato nel 1972. Si compone di un reticolato delineato da rettangoli, in cui due pelte contrapposte inquadrano un fiore a quattro petali, e da quadrati: in quelli più grandi “sbocciano” grandi fiori incorniciati da onde correnti.
Una scacchiera di lastre bianche e nere nell'opus sectile, dalla domus II di via Sigismondo
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Il mosaico con il “genio” della vegetazione, dalla domus del Mercato Coperto
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Un motivo che non sembra trovare confronti puntuali quanto piuttosto richiamare pavimenti con effetto “a cassettoni”. Al carattere di unicità fa riscontro un’esecuzione non propriamente raffinata e puntuale che forse tradisce la difficoltà dell’artigiano a realizzare uno schema a lui non noto. L’impiego di tessere regolari di piccole dimensioni e la bicromia, oltre al richiamo al motivo dei soffitti cassettonati, farebbero propendere per un’attribuzione alla seconda metà del I sec. d.C., periodo in cui può rientrare anche il pavimento in tecnica mista. Il complesso di teatro Galli si è recentemente arricchito di nuove scoperte per cui si rimanda al contributo di Renata Curina in questo stesso volume. Nel denso tessuto insediativo che contraddistingue il settore nord-occidentale della città, non lontano dal sito del teatro Galli, l’insula che già ospita una struttura residenziale di età protoimperiale (domus I dello scavo di via Sigismondo) viene ad accogliere una seconda domus. Fra i rivestimenti pavimenta-
li della fase imperiale dell’edificio, che andrà incontro a nuove ristrutturazioni in età tardoantica, spicca l’opus sectile riferito agli inizi del I sec.d.C. in cui, al motivo semplice della scacchiera in marmo bianco e calcare nero, si affianca una decorazione più complessa con formelle entro le quali è inscritto diagonalmente un quadrato. daLLa domus deL mercato coPerto Non solo geometrie Entrando nella domus che, nella prima età imperiale, sorgeva non lontano dal porto di Ariminum, laddove oggi insiste il Mercato Coperto, avremmo camminato sul pavimento in tessellato bianco e nero del vano B che, per le caratteristiche stilistiche, ci avrebbe riportato alla seconda metà del I secolo. A tradire la sua antichità, pur in assenza di dati archeologico-stratigrafici, il motivo centrale del tappeto, a pale di mulino tangenti, che pare configurarsi come una
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ripresa dello schema la cui fortuna era già andata esaurendosi nel I sec. a.C. L’effetto optical della decorazione, appena sfumato dall’andamento dentato del lato obliquo dei triangoli, è potenziato dal movimento impresso dalle pale di mulino. Una dinamicità che percorre anche la fascia a motivi vegetali e figurativi entro cui è racchiuso il tappeto geometrico: un bordo a giorno disegnato da grandi girali a volute, esili rami che, a intervalli regolari, si avvolgono su se stessi originando spirali entro cui “si muovono” piccoli volatili (“peopled scrolls”) mentre, nella zona angolare, da un cespo di acanto, spunta una figura maschile, resa nei rapidi tratti di un fumetto. Elaborazione stilizzata del “genio” della vegetazione, a lungo attestata nel repertorio romano, recettiva dell’iconografia degli spiriti propiziatori della natura e dei raccolti, che affonda nella tradizione ellenistica. Incontra un gusto diffuso nel nord-est della penisola e in Romagna la punteggiatura di tessere nere disseminate sulla superficie, un dettaglio della creatività degli artigiani locali, interpreti di motivi assunti dal repertorio centro-italico lungo quel “corridoio adriatico” che, apertosi già tra la tarda età repubblicana e l’età augustea, risulta particolarmente attivo nella prima e nella media età imperiale. Affacciandoci a un altro ambiente della domus (vano N) avremmo poi potuto soffermarci su un mosaico bianco e nero, anch’esso della seconda metà del I secolo, caratterizzato da una composizione ad alveare in cui stelle formate da sei losanghe, e fra queste, piccoli esagoni adiacenti si ripetono in maniera modulare. Motivo che, documentato fra Umbria, Toscana e Marche e in Cisalpina, gode di particolare consenso nel versante orientale (ad Aquileia, ma anche a Rimini), nei primi due secoli dell’impero. E che qui sembra anticipare, relativamente alla nostra città, seppure in re-
dazione più semplificata, lo schema del mosaico policromo “delle Vittorie” dalla domus di palazzo Gioia, con cui condivide l’inserimento di elementi figurati entro i grandi esagoni. Quale quello di un animale, un quadrupede in corsa, l’unico documentato nel contesto assai lacunoso del mosaico, che ci permette di cogliere il timbro di uno stile corsivo, di una silhouette piuttosto che di una raffigurazione ispirata al naturalismo. A delimitare il tappeto musivo è una cornice dentellata basata sulla ripetizione di triangoli che ricorre lungo le coste adriatiche (dalle Marche fino ad Aquileia) ed è attestata soprattutto da Ariminum fino a Imola, lungo la via Aemilia. Nel curiosare tra le stanze della domus, di cui non ci è dato conoscere la planimetria, ci saremmo imbattuti anche in un pavimento in cementizio su cui tessere bianche tracciano un reticolato romboidale consegnando alla prima età imperiale un tipo di rivestimento e una soluzione decorativa di origine repubblicana che, se ampia diffusione continua ad avere in ambiente italico, a Rimini cede alla crescente fortuna dei tessellati e dei commessi di laterizi. E quindi, in ambiente esterno, in diverse vasche pavimentate con mattoncini disposti a spina di pesce, esiti di una tradizione che, nella nostra regione e soprattutto a Rimini e Bologna, continua a essere altamente attestata dall’età augustea almeno al pieno II sec. d.C. daLLa domus dI PaLazzo arPeseLLa Un pavimento originale Ancora dal centro di Ariminum, a ovest del decumano massimo, il sito che già aveva consegnato importanti ritrovamenti di età repubblicana, a testimonianza di una continuità abitativa che ha attraversato i secoli, ha restituito il pavimento in cementizio nel quale sono inseriti, in or53
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dagLI scavI dI vIa BonsI e dI PaLazzo BattagLInI e dI vIa BonsI Quando le stelle disegnano i mosaici
Il pavimento in cementizio con inserti musivi, dalla domus di palazzo Arpesella
Il mosaico geometrico di via Bonsi (part.)
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dine sparso, frammenti di mosaico anche di dimensioni rilevanti (fino a un max. di 15 cm), in tessere bianche e nere, a ordito dritto oppure obliquo. L’effetto è quello di una stesura piuttosto grossolana, mossa dai lacerti musivi che, rompendo l’uniformità cromatica del cementizio, concorrono a conferire al pavimento una certa originalità: una soluzione che non sembra trovare confronti quanto piuttosto richiamare esemplari centro-italici di tradizione repubblicana che impiegano l’inserimento di gruppi di tessere nella stesura. Dunque un unicum, nato forse dall’intento di personalizzare la pavimentazione di uno degli ambienti della domus di palazzo Arpesella per il quale, in base alla sequenza stratigrafica e alla datazione delle pitture parietali, si propone una datazione entro la fine I sec. d.C. Ambiente oggi presentato in chiave didattica in una delle sale della Sezione archeologica del Museo della Città attraverso la riproposizione di una copia del cementizio cui sono accostati gli intonaci originali rinvenuti in situazione di crollo.
Il mosaico ama le stelle. Fra la fine del I e lungo tutto il II secolo, stelle o semistelle a otto losanghe si propagano per andare a decorare porzioni, fasce e soglie, o per generare composizioni centralizzate impostate ora su un quadrato ora su un cerchio. Anche a Rimini succede. Ci soffermiamo su alcuni esempi, altri li incontreremo nel nostro racconto. Il mosaico rinvenuto in via Bonsi, di cui si conserva solo il pannello centrale, forse uno pseudo-emblema, ci fa capire che già alla fine del I secolo il motivo della stella a otto punte è apprezzato in città. Intorno a un quadrato obliquo che accoglie un quadrato a fondo nero su cui si staglia un fiore bianco a quattro petali, si dispongono, appoggiate alla cornice lineare esterna in tessere nere, quattro semistelle. Le losanghe dell’una e dell’altra,
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unendosi sulla diagonale, disegnano un quadrato a fondo bianco in cui se ne inscrive uno nero a lati inflessi. I quattro angoli sono risolti da triangoli. Dallo scavo dell’ex palazzo Battaglini proviene lo pseudo-emblema circolare con al centro un fiore a cinque petali a punta ricurva inserito in un cerchio a sua volta incluso in un quadrato. Sul quadrato si impostano semistelle alternate a quadrati obliqui campiti dal nodo di Salomone. Sono due versioni diverse della redazione centralizzata del motivo che, nel caso del mosaico da palazzo Battaglini, presenta carattere di unicità. daLLo scavo dI vIa casteLfIdardo Trionfo del bianco e nero È davvero complessa la stesura compositiva del mosaico di via Castelfidardo: un campionario di figure geometriche appena attenuato dalla sobrietà della bicromia. Una sequenza variegata di cornici degrada verso il centro della stanza a delineare lo pseudo-emblema incentrato su una stella inscritta in un ottagono, dalla quale si origina una ricca tessitura in cui piccoli quadrati incontrano losanghe e triangoli. L’elemento centrale è incluso nell’ottagono intorno al quale si moltiplicano altri ottagoni, a loro volta incorniciati da riquadrature plurime; oltre queste, su uno dei lati del mosaico, corre un pannello decorato da stelle a otto losanghe che formano quadrati sia dritti che sulla diagonale. Il cuore del mosaico, la stella formata da due quadrati sottesi, appare come un’edizione semplificata di un motivo pompeiano che discreta fortuna ha incontrato in Cisalpina fra la fine del I e gli inizi del II secolo. Dall’area pompeiana risale anche la redazione centralizzata della stella a otto punte inscritta nell’ottagono, recepita nel I secolo in mosaici marchigiani, emiliano-romagnoli e in territorio veneto,
a comprova, ancora una volta, della rapidità con cui il versante adriatico assorbe e interpreta gli schemi decorativi dall’area vesuviana e centro-italica. Presi dal gioco delle decorazioni e delle cornici, scopriamo ornati via via differenti
Complesse geometrie nel mosaico in bianco e nero da via Castelfidardo
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e talvolta davvero inusuali quale quello a fila di scudi allineati e la greca irregolare in cui si inseriscono pelte. È sorprendente pensare che, poiché si tratta di motivi scarsamente documentati nel repertorio geometrico, possano rappresentare l’esercizio di maestranze locali curiose di sperimentare accostamenti non consueti. Forse proprio con l’intento di stupire gli ospiti che venivano invitati nella grande sala di rappresentanza. Il confronto con uno dei mosaici della villa di Russi, oltre che con quelli di Este e Aquileia, accomunati dal motivo, non così popolare, delle pelte che si chiudono formando cerchietti, insieme alla complessità del disegno fa propendere per una datazione piuttosto bassa
Planimetria della domus dell'ex Vescovado (da: L. Mazzeo [a cura di], Il complesso edilizio di età romana nell'area dell'ex Vescovado a Rimini, Rimini, 2005, tav. 1)
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del pavimento riminese, orientata tra la seconda metà del I sec. d.C. e gli inizi del II sec. d.C. Dalle domus dell’ex Vescovado Ospiti in un grande triclinio Nel settore nord di Ariminum, non lontano dal foro e dal porto, fra l’età protoimperiale e il II secolo cresce, all’interno di una stessa insula, un complesso di edifici in cui si identificano tre eleganti domus con ricchi tappeti di pietra. Alla fine del I secolo la domus III, nell’ambito di una riqualificazione, rinnova la pavimentazione del grande triclinio (metri 8,60 x 6), il vano O. La nuova
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In alto: Ricostruzione dello schema compositivo del pavimento del vano O della domus dell'ex Vescovado (da: L. Mazzeo [a cura di], Il complesso edilizio di etĂ romana nell'area dell'ex Vescovado a Rimini, Rimini, 2005, p.46 fig. 35) In basso: Opus sectile e mosaico in bianco e nero nel pavimento del vano O della domus dell'ex Vescovado
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Cervo in una delle “vignette” della scena di caccia nel pavimento del vano O della domus dell'ex Vescovado
Nella pagina a fianco: dalla domus dell'ex Vescovado, mosaico geomentrico del vano D; foto di scavo del corridoio G; mosaico a “cerchi allacciati” del vano E
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stesura è realizzata in tecnica mista: tessellato in bianco e nero, con decorazione geometrica e figurata, e opus sectile in marmi policromi. Forse sul lato corto, contrapposto a quello in cui trovano di-
sposizione i letti tricliniari, si apre l’ingresso alla sala. Qui nulla è per caso. Lo schema decorativo segue quello canonico delle stanze destinate ai banchetti: lo spazio riservato
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ai letti è scandito da una geometria originata da quattro rettangoli disposti intorno a un quadrato centrale, che ritroviamo, in contesti della metà del II secolo, anche nelle vicine domus di palazzo Diotallevi e dell’ex Convento di San Francesco. Il motivo a stuoia sviluppa il circuito a U che va a includere l’ambito in cui si svolge il rito conviviale, conformato a T. Nel tappeto centrale, realizzato in sectile a modulo quadrato, uno pseudo-emblema indica il punto in cui poggia la mensa. Lo sguardo dei commensali è portato a scivolare verso il pannello a mosaico disteso ortogonalmente sullo sfondo: all’interno di una composizione di semistelle e rettangoli adiacenti, si aprono “vignette” in cui sono rappresentati animali in corsa. Sequenze isolate di scene di caccia che vedono un cane lanciato all’inseguimento di un cervo a fianco del quale si staglia il profilo di un albero spoglio, l’unica nota paesaggistica insieme all’esile linea che disegna il terreno. Resi ora in scene naturalistiche ora, come in questo caso, in riquadri ricavati entro lo schema geometrico, gli inseguimenti tra animali accompagnano l’età imperiale richiamando un tema caro agli ambienti conviviali quale quello della caccia sportiva. Tema assunto, in redazioni semplificate, dalle più ricche scene venatorie, ad autocelebrazione del dominus che, proprio attraverso l’esibizione di momenti di caccia, intende comunicare uno stile di vita aristocratico e improntato alla virtus. Riportiamo l’attenzione al centro della sala per apprezzare marmi, anche pregiati, che compongono le diverse parti dell’opus sectile, costituito da formelle quadrate a modulo medio: nella maggior parte di esse è inserito un quadrato più piccolo, in altre due quadrati decrescenti, disposti in diagonale. In alcuni riquadri sono inscritti un ottagono, un quadrato e una sorta di girandola formata da losanghe. Dunque un’esecuzione in cui piastrelle di formato standard si affian59
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cano a formelle con disegni originali, a richiamare la produzione dei sectilia “a campionario” con la presenza di elementi diversi. Dove i percorsi della tradizione si fondono con l’estro sperimentale, sintesi che si rispecchia nei caratteri propri della produzione emiliano-romagnola. E che impiega, e spesso reimpiega, marmi giunti dalla Grecia, dall’Asia Minore e dall’Africa, selezionati nell’ambito di una gamma di sfumature che vanno dal grigio al rosato, includendo anche elementi di giallo antico “riscaldato” per virare il colore verso il rossiccio. Materiali e cromie esotiche che contribuiscono a portare fin nel cuore della domus una nuova idea di lusso. Al recente restauro si deve il puntuale riscontro del reimpiego di materiali quali due elementi di sostegno, presumibilmente portalucerne a base scanalata, pertinenti a modelli di gran pregio non posteriori all’età giulio-claudia forse confluiti proprio da Roma nella bottega di un marmorarius di Ariminum. Di stanza in stanza, di mosaico in mosaico Il rifacimento di prima età imperiale della domus II consegna il raffinato mosaico geometrico del vano D, una stanza (di soggiorno?) che si ipotizza di forma quadrata. Il pavimento è realizzato in minute e regolari tessere bianche nella fascia esterna, bianche e nere nel tappeto, su cui tracciano una decorazione basata su esagoni e losanghe adiacenti. Ad arricchire la composizione sono i fiori stilizzati a sei petali campiti in esagoni a fondo nero a loro volta inscritti negli esagoni che scandiscono lo schema. Espressione di un gusto volto alla ricerca di soluzioni formali più complesse che, in termini di confronti, rimanda alla fine deI I sec. d.C.: datazione supportata anche dai materiali ceramici riutilizzati nel sottofondo del mosaico. 60
Con radici nella più antica tradizione decorativa dei pavimenti in cementizio e in cotto, lo schema a esagoni e rombi, in redazione bicroma, trova ampio consenso nelle officine musive dei primi secoli dell’impero e rinnovata applicazione in età tardoantica. Alla metà del II secolo, la chiusura del portico del peristilio della domus I dà origine a piccoli ambienti (I, E, F) e a un corridoio (G) che vengono a disporsi intorno a quello che ora risulta un cortile interno. Se la presenza di suspensurae e tubuli qualifica il vano I come stanza riscaldata, la mancata attestazione di un praefurnium non consente di accreditare l’ipotesi di un quartiere termale, cui ricondurrebbe anche la presenza di una vasca. Uno di questi ambienti, il vano E (la cui ricostruzione suggerisce lati di metri 3,50x3,50), presenta un mosaico con al centro un tappeto rettangolare decorato da una composizione di “cerchi allacciati” che, intersecandosi, originano sequenze ortogonali di quadrifogli neri fra cui si stagliano quadrati a lato inflesso. Particolarmente fortunato nel repertorio musivo romano, soprattutto in versione bicroma dal II secolo e poi anche in toni policromi che vanno via via accentuandosi, il motivo originato da cerchi secanti attraversa un ampio excursus cronologico, sia nell’impiego a tutto campo sia come elemento riempitivo. A delimitare il tappeto è una cornice rettilinea al di là della quale corre una fascia biancastra disseminata di tessere in colori contrastanti che, come coriandoli, sembrano piovute sulla superficie per spargersi fin sul tappeto centrale. Con la trasformazione del peristilio della domus I in area cortilizia, l’ambulacro rivolto a nord-ovest assume la funzione di corridoio (vano G), di passaggio e collegamento fra gli ambienti interni e lo spazio aperto. Disteso per una lun-
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ghezza di 12,80 metri, il corridoio è pavimentato in mosaico bianco punteggiato da rare tessere nere, generalmente isolate e in qualche caso disposte in gruppi di quattro a formare stelline: un semplice motivo decorativo, funzionale a sottolineare il ruolo dinamico del disimpegno fino al punto in cui va a raggiungere una sala di rappresentanza, l’ambiente Q. In corrispondenza dell’ingresso la monocromia del corridoio è, infatti, interrotta da un pannello a scacchi bianchi e neri, a evidenziare il punto di accesso alla stanza. Nell’economicità dell’esecuzione, il motivo a scacchiera
risponde con efficacia a esigenze di arredo, mantenendo un duraturo successo non solo nella redazione di mosaici ma anche di sectilia e di pitture parietali che imitano l’accostamento di lastre marmoree colorate.
L'intero mosaico “delle barche" venuto in luce nello scavo di palazzo Diotallevi
daLLa domus dI PaLazzo dIotaLLevI Il mosaico delle barche e il mare di Ariminum In occasione dei lavori edilizi di palazzo Diotallevi, fra il 1975 e il 1981 sono stati riportati alla luce i resti della domus che ha
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restituito, fra gli altri, uno dei mosaici più rappresentativi della Rimini imperiale. La struttura abitativa e produttiva dell’età repubblicana, nella prima metà del II secolo è interessata da un importante intervento di riconversione degli ambienti già destinati ad attività manifatturiere nonché dalla ristrutturazione volta a trasformare gli spazi di servizio nel raffinato quartiere di rappresentanza della domus. Il cortile, perduta oramai la funzione prettamente utilitaristica, viene ad assumere tratti scenografici: al centro della parete rivolta a nord è collocata la vasca ornamentale (S) in cui forse sono inserite statue in marmo come quella maschile, probabile copia di un’opera di Policleto, giunta frammentaria. Nel contempo lo spazio aperto riduce le sue dimensioni in corrispondenza dei lati brevi, a favore della predisposizione di due nuovi vani contrapposti, con funzione di triclini, entrambi aperti sul cortile (vani N e F). Ma, nell’enfasi dell’autocelebrazione, a sfuggire di mano è l’organicità dell’insieme che risulta sovraffollato di strutture. Sul lato sud dell’area scoperta si affaccia il vano che, attraverso un corridoio, mette in comunicazione il cortile con la grande sala (vano A, metri 7,60x8,60) pavimentata con il mosaico in bianco e nero dalla celebre scena del rientro delle barche nel porto. Forse il porto di Ariminum? La prima “cartolina” di una città che al mare lega la sua storia e la sua fortuna? Suggestioni di uno sguardo contemporaneo oltre il quale spingersi a scoprire il luogo ove il proprietario della domus, alla metà del II secolo, ama ricevere gli invitati esibendo una ricchezza costruita proprio sul mare. Allo schema del mosaico impostato su cornici multiple intorno allo pseudoemblema centrale – che ricalca l’impianto tipico dei triclini – e alla raffigurazione del porto e delle barche, il dominus affida la propria autocelebrazione, l’esaltazione di chi, grazie all’attività commerciale o di 62
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Immagine di Ercole al centro del mosaico “delle barche”, dalla domus di palazzo Diotallevi Nella pagina a fianco sopra: Pianta della domus di palazzo Diotallevi (rielaborazione da M.G: Maioli, La casa romana di palazzo Diotallevi a Rimini (Fo): fasi di costruzione e pavimenti musivi, “IIICoIIIntMos”, II, p. 462) Sotto: Il kantharos sulla soglia del mosaico “delle barche”, dalla domus di palazzo Diotallevi
armatore, ha conseguito benessere e prestigio. L'ospite che varca la soglia per essere ricevuto nella stanza più raffinata della domus, si imbatte in un kantharos, il vaso associato a Dioniso e quindi allusivo al vino e, più in generale, a un ambiente conviviale quale il triclinium. Inserito entro foglie di acanto disposte a suggerire il profilo di una lira, il grande vaso è reso in forma
idealizzata, su alto piede a profilo campaniforme, con ventre baccellato, spalla e collo distinti su cui si innestano, sinuose e sottili, le anse. Rappresentazione isolata di un soggetto assai diffuso nei primi secoli dell’impero cui si associano immagini di prezioso vasellame bronzeo nelle tipologie più in voga. Crateri, brocche, anfore e patere si susseguono a comporre, fra tralci leggeri che terminano con foglie d’edera
Le cornici più esterne del mosaico “delle barche”, dalla domus di palazzo Diotallevi (part.)
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La fascia musiva con la rappresentazione del rientro delle barche nel porto (di Ariminum?), dalla domus di palazzo Diotallevi
Marinaio nell'atto di ammainare le vele nel mosaico “delle barche” dalla domus di palazzo Diotallevi (part. della fascia)
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stilizzate o piccole foglie lanceolate, la cornice più esterna che si sviluppa su tre lati del tappeto, interrompendosi dove incontra la fascia con la scena delle barche. Un bordo di linee parallele cinge la cornice stessa oltre la quale si apre lo spazio a campo bianco destinato ai triclini, conformato a U. Proseguendo verso il centro della stanza si incrocia una seconda bordura che, delimitata da trecce a due capi, sviluppa una decorazione a motivi vegetali e figurati: girali d’acanto stilizzati intrappolano silhouette di animali in corsa, abbinati a coppia negli inseguimenti a eccezione di un rinoceronte che fronteggia un mastino. Scene di caccia cui il dominus affida la simbolica rappresentazione della propria virtus, nel pensiero romano sintesi di doti fisiche e valori morali. Dunque un richiamo alle battute di caccia tanto apprezzate nel repertorio musivo, ma forse anche alle venationes, i combattimenti fra fiere che accendono il tifo nell’anfiteatro o, non possiamo escluderlo, alle sontuose portate
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di carni, anche esotiche, sfoggio dell’opulenza del banchetto. Seguendo lo schema concentrico giungiamo al cuore del tappeto, lo pseudo-emblema quadrato delimitato da un giro semplice di onde a sua volta racchiuso entro un bordo a meandro di svastiche a doppia T. La composizione ruota intorno a un cerchio entro il quale si staglia la figura di Ercole rivolto alla fascia con le barche e dunque all’ingresso della sala, così da essere immediatamente percepito da chi entra. Il dio-eroe è reso in sembianze giovanili che guardano a modelli della statuaria classica: sul corpo nudo, tratteggiato da particolari anatomici che ne sottolineano la forza fisica, ricade la caratteristica pelle di leone. La mano sinistra regge l’altro suo simbolo, la clava, portata dietro la testa in appoggio sulla spalla; la mano destra, tesa in avanti, porge uno scyphos, la profonda coppa biansata per bere vino. Un soggetto mitologico che, se ampia fortuna ha avuto nella scultura, nella numismatica e nelle arti minori, trova scarse attestazioni in campo musivo:
Murena e gallinella di mare nel mosaico “delle barche”, dalla domus di palazzo Diotallevi (part. della fascia)
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La complessa geometria del mosaico in bianco e nero del triclinio (F) aperto sul cortile della domus di palazzo Diotallevi
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fra i rari esempi un pavimento della vicina Sarsina, della fine del II secolo, in cui è raffigurato un Ercole ebbro. Diverse le interpretazioni che sottenderebbero alla scelta di eleggere Ercole al centro della sontuosa sala. Il contesto, unito all’atteggiamento del dio-eroe, riconduce al gesto rituale di levare la coppa per la libagione (Hercules libans). Tuttavia il braccio proteso verso chi entra nella sala in segno di invito, associato, secondo il mito, all’iconografia della coppa donata a Ercole dal Sole per consentirgli il ritorno in Europa via mare, apre al tema conviviale e dionisiaco (Hercules dexioumenos) come a quello del viaggio, suggerendo un legame con la scena del rientro delle barche in porto e una sorta di identificazione tra la figura del dioeroe e quella del dominus. Sono connotazioni differenti che esprimono anche complementarietà: si pensi all’interpretazione dell’Hercules conviva, partecipe delle gioie del banchetto piuttosto che dell’Hercules bibax in relazione anche
alla posa instabile; o che aprono a inconsuete letture, come quella, desunta dalle fonti scritte, di comes, guida per i naviganti, in cui si ravvisa un’attinenza con l’attività del dominus. Si osserva d’altronde come la personalità polisemica di Ercole abbia subìto, nel mondo romano, un lungo processo di semplificazione tanto da essere sempre più ricondotta alla funzione tutelare della domus. Carica di significati è anche la composizione geometrica entro cui si inserisce l’immagine. Tangenti al cerchio che racchiude il mitico eroe, sono quattro semicerchi campiti da conchiglie mentre figure di uccelli di specie diverse occupano i quadranti angolari: vi si riconoscono volatili, in prevalenza acquatici, quali un’anatra, un uccello di palude, uccelli dalle lunghe gambe e becco appuntito come l’ibis che trattiene nel becco un piccolo serpente (segno di buon augurio), oltre a una quaglia e a un pappagallo. La composizione geometrica, attestata nel II secolo specialmente nel versante orientale della Regio VIII e a Rimini, ancora nella domus di palazzo Diotallevi e nella domus del Chirurgo, sembra trovare corrispondenza nelle campiture architettoniche dei soffitti a volta con oculus centrale. Ora, dal centro della sala, ci volgiamo verso l’elemento figurato di maggior attrazione: la profonda fascia bianca su cui scorre la scena del rientro delle barche nel porto. Due navi mercantili, il cui equipaggio è “ripreso” nell’ammainare le grandi vele quadrate, si muovono in direzione della darsena, precedute da una scialuppa sospinta dalla forza di tre rematori e governata da un timoniere. Al seguito della prima nave in ingresso è ancora al traino una seconda scialuppa. Nella resa schematica dell’invaso portuale, a configurare la darsena sarebbe l’arcata disegnata nella struttura a torre in opera quadrata sulla quale un uomo in corta tunica è impegnato a riattizzare il fuoco di un braciere; alle sue
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spalle si eleva una torre ancor più alta, coronata da merlature, forse il tratto di mura che si spingeva fino ai pressi del ponte sul Marecchia e che, perciò, poteva essere anche avvistato da chi risaliva l’imbocco del canale con la marea entrante. O forse il faro stesso? Dunque la rappresentazione, seppure in prospettiva irreale, di un porto attrezzato come doveva essere quello di Ariminum, vocato all’attività mercantile e alla pesca. Dove il mare è animato da delfini e pesci dell’Adriatico, dalla gallinella di mare alla triglia, alla murena che, con i loro guizzi, suggeriscono il movimento delle imbarcazioni. E dove i personaggi in azione sono tracciati in modo impressionistico, nere silhouette sottratte a qualsiasi descrizione naturalistica e tuttavia capaci di imprimere vivacità alla scena. Redazione che porta a riconoscere due diverse scuole in cui quella più naturalistica ha realizzato parte degli animali e il riquadro centrale con Ercole. Scarsamente diffuso nella rappresentazione in bianco e nero di II secolo, il tema del mare realistico torna, ad Ariminum, nel mosaico da via Cairoli e, tra i centri a noi più prossimi, nelle Marche. Per restare all’interno della Regio VIII, occorre risalire addirittura fino a Reggio Emilia, dunque lontano dall’orizzonte adriatico, ove una scena marina figura in un tessellato policromo degli inizi del III secolo, eloquente attestazione dell’ampia fortuna di cui gode il tema del mare. Particolarmente ricorrenti, nell’arte romana, le raffigurazioni degli ambienti portuali e delle attività che vi si svolgevano. La più ampia documentazione musiva riporta alla città di Ostia che, tra la fine del II e la metà del III secolo, esprime scene di navigazione, sempre in bicromia: barche, ora isolate ora presenti in contesti più complessi, ambientate naturalmente sullo sfondo del mare e di esemplari faunistici come di elementi architettonici quale il faro. Tessellati a
soggetto marino, lontani però dalla scena delle barche della domus di palazzo Diotallevi che trova il suo confronto più vicino con un mosaico ora all’Antiquarium di Roma: un vivace quadro di vita del porto antico in piena età imperiale. L’ambiente più prestigioso della domus riminese in età adrianea affiancava, alla ricca stesura musiva, le pitture parietali in un forte contrasto cromatico, dallo zoccolo, probabilmente nero, alle pannellature con riquadri di colore rosso entro cornici policrome.
Il tappeto musivo geometrico in tenue policromia dell'ambiente di soggiorno (N) nel cortile della domus di palazzo Diotallevi
Di triclinio in triclinio Se la grande aula di rappresentanza sorprende per opulenza e sintassi iconografica, la domus di palazzo Diotallevi riserva altri raffinati spazi al tempo dell’ozio e del ricevimento degli ospiti che ha il suo momento più significativo nel banchetto. Sul grande cortile si apre a est il triclinio, già indicato come estivo (stanza F), de-
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corato da un tessellato bianco e nero con minuta, complessa geometria: qui, dove l’horror vacui si fa particolarmente evidente, si ripresenta, all’interno del tappeto centrale di forma quadrangolare, la composizione che si sviluppa intorno a un cerchio, possibile riflesso delle campiture decorative del soffitto. Anche in questo caso tangenti al cerchio sono quattro semicerchi che disegnano quadrangoli concavi e, negli angoli, quarti di cerchio. Non possiamo fare a meno di notare l’ampiezza del clipeo centrale, un grande occhio aperto campito da una scacchiera di triangoli equilateri distinti in quattro settori delineati dalle diagonali, cui si affiancano piccoli ottagoni con fiori stilizzati a sei petali. Con un incredibile effetto optical, i triangoli invadono due dei semicerchi e dei quadrati concavi disposti frontalmente, esito piuttosto tardo di un motivo diffuso in area centro-italica come nella Cisalpina fra la metà del I secolo a.C. e la metà del I secolo d.C. Particolarmente impiegata nella decorazione di intere superfici e non, come a Rimini, limitata a decorare parti della geometria, la scacchiera di triangoli asseconda il gusto dell’epoca. A riempire gli altri due semicerchi contrapposti è invece il motivo dei “cerchi allacciati”, la trama di quadrifogli che abbiamo già incontrato in un mosaico della vicina domus I dell’ex Vescovado. Mentre intorno al tappeto musivo corrono gli spazi bianchi per la disposizione dei letti tricliniari, la soglia è sottolineata da una fascia percorsa da tralci vegetali che fuoriescono da un cespo di acanto posto al centro: un motivo stilizzato che, grazie alla resa pittorica, conferisce elegante leggerezza alla decorazione dell’ingresso affacciato sullo scenografico cortile. Sul lato opposto si apre l’altro ambiente (vano N), più ridotto nelle dimensioni, forse una diaeta, il luogo di soggiorno in cui intrattenere gli ospiti magari ascoltando musica o forse anch’esso un triclinio (già descritto come invernale) ove condividere 68
i piaceri dell’otium intorno a una mensa. A fare da sfondo è il tappeto musivo policromo, l’unico con tale caratteristica nel contesto. All’interno dell’alta fascia in tessellato bianco si staglia uno pseudo-emblema che, ai delicati toni di colore, contrappone l’articolata composizione incentrata su di un quadrato ai cui angoli si innestano coppie di losanghe. Sui lati perimetrali del tappeto, ornato da cornici a linee semplici, a denti di lupo e a treccia, si impostano quattro semistelle e ancora losanghe agli angoli. Geometrie che generano altre geometrie: quadrati, triangoli e la squadra, a comporre la versione centralizzata di uno schema che nel repertorio romano trova maggiore applicazione in redazioni iterative. Lo schema, che sembra incontrare, nello sviluppo della sua complessità, il gusto delle province d’Oltralpe piuttosto che dell’area centro italica, ad Ariminum si caratterizza per l’uso di una, seppur tenue, policromia. dAlle domus deLL’ex convento dI san francesco e deLL’ ex coLLegIo gesuItI Geometrie in bianco e nero L’area dell’ex Convento di San Francesco, a fianco del Tempio Malatestiano, indagata fra gli anni Settanta e i primi anni Ottanta del Novecento, oltre a preziose testimonianze della fase precoloniale e repubblicana ha rivelato una domus che scandisce più interventi edilizi fra cui una risistemazione della prima metà del II secolo d.C. Ristrutturazione che, se da un lato preserva la planimetria impostata sull’atrio affiancato da ambienti collegati con il peristilio, dall’altro restituisce un volto nuovo agli spazi sostituendo pavimenti in cementizio con i più moderni tessellati. Nell’elegante bicromia allora in voga si scandiscono le geometrie dei tappeti di pietra, motivi decorativi diffusi dall’area centrale lungo
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lare del mosaico a tovaglia che, al centro, conserva l’attacco di una cornice, indizio di un possibile sviluppo concentrico. Geometrie giocate su quadrati, pelte e rombi, oramai penetrate nel gusto locale sul filo della tradizione romana, ritmano gli spazi della domus, databile anch’essa alla prima metà del II secolo.
Mosaico geometrico bianco e nero dalla domus dell'ex Collegio dei Gesuiti
daLLa domus deLL’ex scuoLa IndustrIaLe Animali della savana e splendidi volatili in una sala del II secolo
la fascia adriatica e spesso veicolati nella Cisalpina. Come la decorazione che nei primi secoli dell’impero rimbalza in diversi ambienti domestici riminesi: la composizione di quadrati adiacenti originati da quattro rettangoli disposti attorno a un quadrato che qui, diversamente da quanto accade nelle altre domus, è impiegata a campire l’intera superficie della stanza. I motivi decorativi dei diversi ambienti documentano schemi che ritroviamo, fra I e II secolo, ad Ariminum e in regione come nella Capitale piuttosto che in Cisalpina, a ulteriore attestazione di un filo diretto tra le officine locali, capaci anche di libere interpretazioni, e quelle centroitaliche. Allargando lo sguardo ad altre residenze della città romana scopriremmo diverse analogie fra la domus di San Francesco e quella indagata fra il 1984 e il 1985 nell’ex Collegio dei Gesuiti, oggi sede del Museo della Città “Luigi Tonini”. Lo scavo ha infatti portato in luce diversi ambienti pavimentati in tessellato geometrico bianco e nero disposti intorno a un corridoio se non piuttosto a un’ala del portico del peristilio, ambiente cui potrebbe afferire il partico-
1927. Nel corso di lavori edilizi per l’ampliamento della Reale scuola industriale (poi Istituto professionale “L.B. Alberti” e oggi sede dell’Università di Bologna), sul lato del cortile vengono portati in luce due ambienti adiacenti di una domus di cui non è dato conoscere la planimetria: l’uno è pavimentato da un mosaico policromo, l’altro, di dimensioni più ridotte, è realizzato in tecnica mista, opus sectile e tessellato. Soffermiamoci sul primo. A imporsi è la scena di caccia raffigurata sull’ampia soglia oltre la quale, entro una sequenza di raffinate cornici, si stende il tappeto centrale in una ricca geometria. Il tutto incorniciato da fasce in tessere bianche.
Il superbo pavone spicca nella cornice del mosaico policromo dalla domus dell'ex Scuola industriale
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Il teppeto musivo geometrico-figurato con rappresentazione di scena di caccia sulla soglia, dalla domus dell'ex Scuola industriale
Il leone all’inseguimento dell’antilope nella scena di caccia sulla soglia del mosaico dalla domus dell’ex Scuola industriale
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Ancora una volta “progettato” ad autocelebrazione del dominus, il mosaico viene anche esaltato dalle dimensioni e dalle caratteristiche della soglia che accoglie un tema figurato di grande impatto, quale quello dell’inseguimento fra animali. Non un tema originale quanto piuttosto fortunato e perciò ricorrente all’interno di complesse composizioni geometriche come in singoli quadretti naturalistici. Qui sono un cervo, un leone e un’antilope lanciati nella corsa su uno sfondo ambientale evocato dalla linea scura del terreno e dagli scheletri di tre arbusti. Seppur presentati nei colori dei loro mantelli, gli animali appaiono sommariamente descritti in senso naturalistico e non proporzionati, anatomicamente disegnati da pennellate bianche che solcano i corpi quasi in continuità espressiva con la tecnica musiva in bianco e nero. La sequenza che vede il leone inseguito da un cervo in un confronto impari, fa pensare all’edizione di una scena venatoria di genere piuttosto che a una vera e propria battuta di caccia, in cui sono affiancati animali scelti dal repertorio figurativo del II secolo: ciò conferisce originalità alla narrazione. Come già ricordato, il riferimento alla pratica sportiva della caccia, prerogativa dell’aristocratico, appare un’esplicita allusione alla virtus del dominus, in particolar modo se la scena va a inserirsi o addirittura a introdurre un ambiente di rappresentanza. Ora osserviamo da vicino l’elegante cornice a tralci vegetali con fogliame stilizzato su cui sono appollaiati diversi volatili: pavoni, fagiani, un colombo, quaglie o pernici… ritratti in modo naturalistico. A colpire è il vivace cromatismo conferito dalle tessere in marmo colorato e in pasta vitrea. Così mentre il fagiano alza il capo sul caratteristico collo verde scuro, il pavone maschio fa sfoggio del superbo, cangiante piumaggio metallico, acceso
dai tocchi di azzurro, turchese, blu e verde: toni resi ancor più iridescenti dall’uso della pasta vitrea. Oltre la cornice si sviluppa il tappeto geometrico, connotato, per l’utilizzo di pietre locali, da una delicata sobrietà: al centro lo pseudo-emblema figurato, non più esistente, intorno al quale si imposta lo schema decorativo formato da quattro croci campite da trecce che originano coppie di losanghe e quattro esagoni. Schema attestato dal II secolo in bicromismo e quindi in versione policroma orientata a uno spiccato colorismo in età tardoantica. Per le sue caratteristiche (non da ultimo il confronto con la resa del leone nel mosaico di Orfeo della domus del Chirurgo), il pavimento dalla Scuola industriale, di gusto eclettico e linguaggio connotato da spunti sperimentali, sembra potersi ricondurre alla seconda metà del II d.C. Un pavimento senza tempo Il vano attiguo ha restituito un altro pavimento «…se pur più rozzo e di ben altro sapore di quello con figure d’animali, non per questo di scarso interesse» come descritto da Salvatore Aurigemma nella cronaca del recupero del tappeto realizzato in tecnica mista, opus sectile e tessellato. Destinato a una piccola stanza (indicative le misure di m.2,13x1,35) di cui non sono note né la funzione né la relazione con la sala adiacente, il pannello presenta, all’interno di una stesura a fondo bianco fittamente punteggiata di inserti marmorei (eco della tradizione più antica) delimitata da una cornice di triangoli bianchi e neri, un grande kantharos in tessere e piccole lastre anch’esse marmoree, cui fanno da corona lastre quadrangolari policrome. Sul collo del vaso si staglia una sorta di monogramma ad H con la barra sinistra a suggerire una I e quella a destra una B. 71
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Il pavimento in tecnica mista (opus sectile e mosaico) con grande kantharos, dalla domus dell’ex Scuola industriale
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Un pavimento “enigmatico” che, in assenza di confronti puntuali, ha concentrato l’attenzione degli studiosi sull’inserimento di alcuni marmi di reimpiego, in particolare il porfido rosso e il porfido verde di Tessaglia, il cui utilizzo, seppur documentato già nei primi secoli dell’impero, maggior fortuna ha riscontrato dall’età adrianea a quella tardoantica.
Controversa la sua cronologia che spazia dalla piena età imperiale al VII secolo. L’assegnazione alla tarda antichità (anche quale possibile esito di un rifacimento) ha trovato sostegno, in occasione del restauro della fine del Novecento, nell’individuazione del reimpiego di sezioni di pilastrini assegnabili almeno al VI secolo. Una datazione che ha sollecitato la lettura in chiave cristiana dell’iconografia del kantharos, qui reso in forme non classiche, allusive piuttosto alla tipologia bizantina. La datazione all’età imperiale trova invece sostegno nelle pagine dedicate allo scavo in cui viene osservato che «Al di sopra del piano dei pavimenti musivi dell’età romana, per uno spessore di circa 30 cm. fu constatata l’esistenza di uno strato di terreno nerastro che reca in quantità considerevole residui di ceneri, di carboni, e di detriti di murature.» Dunque un incendio, lo stesso che ha lasciato diffuse chiazze nere sul mosaico con scena di caccia, dovette distruggere l’edificio, coperto da uno strato di detriti e in seguito intaccato da tombe alla cappuccina, in una delle quali è stata rinvenuta una moneta di Massimiano, regnante fra la fine del III e i primi anni del IV secolo. Ora, alla luce di quanto le scoperte e gli studi archeologici hanno fatto emergere, sappiamo che, intorno alla metà del III secolo, Ariminum è stata messa a ferro e a fuoco dalle incursioni barbariche. A iniziare dalla domus del Chirurgo, per proseguire lungo una linea di fuoco che unisce edifici allineati allo stesso decumano, quali quelli dell’ex Vescovado e di palazzo Diotallevi. Tra questi forse la stessa domus dell’ex Scuola industriale che gravita nel medesimo isolato della domus di palazzo Diotallevi. I suoi pavimenti, che tale ipotesi ricondurrebbe almeno entro la prima metà del III secolo, sarebbero stati sigillati dunque dalle rovine degli incendi appiccati dai barbari.
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daLLa domus dI vIa caIroLI Il mare realistico Ancora al mare e alla sua rappresentazione guarda il tessellato rinvenuto nello scavo archeologico di via Cairoli in relazione ai lavori di demolizione del cinema Capitol (1992-1993). Per la sua articolazione compositiva e per la pregevole fattura il pavimento, purtroppo già compromesso da pesanti interventi di età moderna, sembra pertinente a una sala di ricevimento di medie dimensioni (circa 35 metri quadrati), forse anche con funzione di triclinio riservato, diremmo oggi, a pochi intimi. Lo schema è scandito da fasce di meandri di svastiche a doppio giro che, nella disposizione in linee ortogonali, disegnano pannelli di forma quadrata, oppure di forma rettangolare intorno al grande riquadro posto al centro. Qui, incorniciata da un tralcio vegetale a tessere nere con foglie di vite di colore verde, si offre una scena policroma che lo stato di estrema lacunosità rende molto difficile definire. Resta parte degli arti inferiori di un personaggio maschile; al suo fianco un animale dalle zampe sottili (forse un cerbiatto). Dei due rettangoli allineati sui lati più lunghi della sala, delimitati da trecce policrome così come le raffigurazioni al loro interno, resta soltanto uno. Vi è rappresentato un felino (pantera o leopardo) all’inseguimento di un cervo, scena di caccia che ricorda quella della soglia del mosaico dell’ex Scuola industriale. La linea del suolo e gli arbusti costituiscono le uniche note ambientali di una composizione che, seppur improntata a una certa rigidità, non disdegna di sottolineare aspetti realistici come il rialzo del terreno in corrispondenza delle radici di un albero. Ma, di nuovo, ad attrarre, è la raffigurazione del mare nella sua proverbiale pescosità. I due pannelli sui lati corti della
stanza (di cui uno quasi totalmente distrutto) “espongono” specie ittiche: dalla murena alle triglie, dall’aguglia al calamaro, dai crostacei ai mitili. Dunque un mare che sembra voler esibire a chi banchetta i suoi pregiati prodotti piuttosto che ricondurre a chi, sulle attività marinare, ha costruito una fortuna, come nel caso del dominus di palazzo Diotallevi. Proposta in chiave realistica con riferimento ad apprezzate specie ittiche, la rappresentazione marina sembra guardare a un tema caro alla tradizione ellenistica che ha pervaso regioni e città anche lontane dal mare, ma non dal suo immaginario.
Calamaro, mitili e pesci in un pannello del mosaico geometrico-figurato dalla domus di via Cairoli
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Disegno ricostruttivo del mosaico “delle Vittorie” dalla domus di palazzo Gioia (da G. Riccioni, Mosaici pavimentali di Rimini del I e II secolo d.C. con motivi figurati (scavi 1956-1965), “IIICollIntMos”, p.26)
In una narrazione che a noi giunge scomposta, appare chiaro l’accostamento fra ambienti di terra e ambienti di mare, orizzonti esotici e panorami più familiari verso i quali i commensali guardano traendo spunti per le loro conversazioni. Oltre alle scelte figurative che fanno riferimento al repertorio veicolato dai cartoni diffusi fra le botteghe artigiane, con predilezione di soggetti quali la pantera, si evidenziano elementi stilistici e tecnici che avvicinano il pavimento ai tessellati della domus del Chirurgo, facendo supporre possa trattarsi di opere della medesima bottega, o meglio di un’équipe attiva fra la fine del II e la metà del III secolo. daLLa domus dI PaLazzo gIoIa Nel segno delle Vittorie Lo scavo eseguito nell’ex palazzo Gioia per la costruzione della nuova sede del Credito
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Romagnolo (ora UniCredit), ad angolo fra corso d’Augusto e via Gambalunga, ha rivelato un sito archeologico di straordinario interesse, capace di restituire una sequenza storica che dalla tarda età repubblicana giunge fino all’epoca tardoantica. Nella seconda metà del II secolo il cortile interno della domus più antica, forse un peristilio con numerose vasche e ambienti residenziali all’intorno, è rimodernato nello spirito del tempo: vasche decorative in un ameno cortile-giardino fanno da sfondo a una scenografia su cui viene ad affacciarsi una grande sala di rappresentanza. Questa mostra, attraverso la restituzione planimetrica, misure assai importanti (metri 13x11 ca.): grandiosità esaltata dal mosaico policromo noto come “mosaico delle Vittorie”. Ad accogliere gli ospiti è infatti la solenne soglia con le Vittorie alate, iconografia che enfatizza l’ingresso all’ambiente in cui il dominus riceve e, per traslato, loda la sua stessa virtus.
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In alto: La solenne soglia musiva con le Vittorie alate che introduce alla sala di rappresentanza della domus di palazzo Gioia
In basso: Il grande clipeo con Gorgoneion sorretto dalle Vittorie alate nel mosaico della domus di palazzo Gioia
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Satiro e menade danzante in uno degli esagoni del tappeto centrale del mosaico delle Vittorie della domus di palazzo Gioia
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Il centro della soglia è occupato dalle Vittorie in volo convergente: l’una reca nella mano destra una palma mentre con la sinistra regge un grande clipeo dorato, decorato da una ricca cornice, con al centro la testa di Medusa (Gorgoneion). Delle due Vittorie si conserva, quasi integra, solo quella di destra. Il lungo mantello grigio-verde volteggia alle sue spalle lasciando in evidenza il corpo nudo, ornato solo da monili: una collana, un’armilla e una cavigliera. Il viso, incorniciato da capelli scomposti, ha un’espressione patetica. Speculare a questa figura l’altra Vittoria
alata, di cui non resta che una timida traccia del capo, a comporre uno schema ricorrente nei monumenti trionfali piuttosto che nelle opere musive. Soggetto che sembra suggerire una relazione con l’impegno militare o pubblico del dominus, se non l’evocazione di un evento vittorioso allusivo alla sua autocelebrazione. Elemento forte della rappresentazione è il grande scudo da cui la Medusa volge il suo sguardo fisso e malinconico, in grado di impietrire chi guarda, nella classica iconografia con il volto paffuto, attorniato da una chioma scapigliata da cui fuoriescono sottili serpenti. Ad accrescere l’effetto pittorico della scena figurata, eseguita in delicata policromia, è il suo inserimento all’interno di una decorazione geometrica basata su stelle a otto losanghe e realizzata, per contrasto, in bianco e nero. La soglia si integra con la decorazione musiva della sala, un immenso tappeto ad alveare composto da stelle a sei losanghe e da quattordici grandi esagoni adiacenti intorno a quali corre una treccia policroma. Lo schema compositivo è delimitato da due raffinate cornici: l’una, la più interna, ancora una volta a treccia, l’altra, più esterna, a motivi vegetali. Qui, nel fregio di girali d’acanto di ispirazione ellenistica, compaiono piccole figure di cacciatori e animali terrestri, chiaro riferimento al tema della caccia che sappiamo così apprezzato in ambiente conviviale accanto ai soggetti dionisiaci. Animali e cacciatori si inseriscono nella sequenza di medaglioni: vi si riconoscono una pantera e un onagro (asino selvatico) in corsa accanto a figure panneggiate, personaggi maschili in corta tunica, che recano la frusta o anche una lancia. Nel campo musivo il tessuto geometrico è vivacizzato, oltre che dalla policromia, da scene raffigurate entro i grandi esagoni che fanno riferimento al thiasos dioni-
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siaco; negli esagoni più piccoli sbocciano invece grandi fiori variopinti a dodici petali. Uno schema che riscontra notevole fortuna e precise corrispondenze, anche artigianali, fra mosaici di Rimini e, in particolare, di Aquileia. In linea con la tendenza della media età imperiale, il pavimento di palazzo Gioia affianca temi geometrici e temi figurativi accogliendo negli esagoni, solo in piccola parte conservati, immagini del repertorio dionisiaco. Quello più integro, nella zona centrale del tappeto, ritrae un giovane satiro nudo sul cui braccio destro, che regge il corto bastone dei pastori a punta ricurva (pedum), ricade la pelle di pantera (pardalis). Con la mano sinistra porge la coppa con le offerte (patera) alla menade che danza, mentre suona un timpano, con il capo cinto da una corona di foglie, semicoperta da uno svolazzante mantello e adorna di monili. Anche nella scena dell’esagono accanto, solo in parte conservato, si riconosce un satiro nell’atto di attirare a sé una menade. Diversamente un terzo esagono, seppur assai lacunoso, presenta una nereide che cavalca un cavallo marino solcando, agile, le acque. Soggetti dionisiaci che, con la splendida soglia, ripetono l’esaltazione della vittoria celebrandola attraverso un linguaggio figurato che trascende i contenuti dei miti bacchici. E che, come tale, dovette anche essere recepito nella scelta di età tardoantica di mantenere in sito lo splendido mosaico, oramai opera di antiquariato, nonché di valorizzarlo nei percorsi della nuova abitazione proprio in ragione dei messaggi che da esso scaturivano ancora con forza. Quale quello della vittoria, funzionale ancora una volta a rappresentare e celebrare un nuovo dominus.
daLLo scavo dI vIa frateLLI BandIera Un personaggio esotico avvolto nel mistero Nel 1948, in via Fratelli Bandiera 16, nel settore meridionale della città, non lontano dall’Arco di Augusto, viene rinvenuto un mosaico figurato policromo, testimonianza isolata di un contesto che doveva interessare una superficie estesa al di sotto dell’edificio (e forse degli edifici) attiguo, fin sotto la strada. Dell’antica struttura non si hanno notizie, mentre del pavimento resta parte del tappeto centrale e della sua stupenda cornice. La porzione interna del mosaico presenta una scena esotica popolata da animali: dall’alto, un palmipede, un uccello non meglio identificato, un dromedario (o una giraffa?), un gallinaceo, un ippopotamo, una sfinge, alcuni felini (una tigre, un ghepardo o una lince), un icneumone, il predatore sacro agli Egizi per le sue lotte contro serpenti e coccodrilli. Gli animali, reali e fantastici, sono disposti intorno a una misteriosa figura maschile dalla testa di canide: il personaggio, in corta tunica su cui pende una bisaccia, si appoggia al lungo bastone tenendo le gambe incrociate in posizione di riposo. Un’iconografia che ha suggerito l’identificazione con Anubi, il dio dalla testa canina e dalle grandi orecchie venerato dagli antichi Egizi; proposto al passaggio dalla vita alla morte, si legava (fra gli altri) al culto alessandrino di Serapide e di Iside. Tutti i soggetti sono rivolti a quello che doveva rappresentare l’elemento principale: una divinità del pantheon egiziano? una personificazione dell’area geografica? In assenza di elementi che possano indicare la natura dell’edificio in cui il mosaico si inseriva (un ambiente pubblico o privato? un luogo di culto o un’abitazione?), l’immagine si presta a letture diverse, sospese fra dimensione sacra e domestica. Un riferimento al culto isiaco 77
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Pannello centrale del mosaico "di Anubi" dallo scavo di via F.lli Bandiera
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come inviterebbero a ritenere la figura di Anubi e ancor più l’esotico paesaggio forse egiziano? O invece una rappresentazione dell’Etiopia sulla base della descrizione pliniana dell’allevamento di
cinocefali, nell’ipotesi di un fraintendimento tra la fonte letteraria e l’artigiano che interpreta il cinocefalo come pastore e non come animale al pascolo? O ancora una raffigurazione agreste ispirata
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dall’illustrazione del Codice Vaticano Latino 3867 a commento del terzo libro delle Georgiche che, forse permeata dalle leggende sui cinocefali, vede un pastore con la testa di cane fra animali domestici? O l’esito decorativo di un gusto per l’esotico che guarda all’egittomania anche come espressione di devozione isiaca, sulla scia della grande fortuna di cui i culti orientali hanno goduto a Rimini? A ripercorrere con dovizia di particolari le diverse argomentazioni e ad affrontare la questione tuttora aperta è Emanuela Murgia che nell’articolo Un pastiche iconografico: Anubi pastore tra gli animali (2014) nota come la ricostruzione ambientale in cui figurano animali reali e fantastici accanto a cespi di acanto «non costituisca la rappresentazione di un luogo reale preciso, ma piuttosto l’intera scena tragga origine da modelli differenti». Osserva che, se la testa canina sembra ricondurre ad Anubi, si deve però notare che del dio mancano gli attributi. La scena e l’atipico pastore troverebbero invece un’analogia con un’iconografia libanese del V secolo al cui centro è un personaggio di incerta interpretazione, Orfeo o il Buon Pastore, fra gli animali. L’autrice ipotizza che, specie in assenza di dati sul contesto, il clima sotteso al mosaico riminese, in cui il pastore tra animali non domestici incontra il carattere “isiaco” suggerito dalla testa di Anubi, riflette il significato culturale piuttosto che cultuale, del IV secolo. Epoca in cui l'arte era «costituzionalmente vocata al recupero e alla rigenerazione di antiche idee iconografiche… creando uno schema complessivamente originale, seppure costituito da figure estremamente conosciute e semanticamente evolute», «immagini ibride, non sempre decodificabili» (F. Bisconti, Pastori eccezionali. A proposito di due affreschi catacombali romani recentemente restaurati, “RACr” 76, p. 205) come nel caso del mosaico di
via Fratelli Bandiera, di indubbia originalità compositiva. Ciò all’interno di una continuità iconografica anche fra «culture diverse ma circonvicine» a dimostrare come la tarda antichità si nutra di scambi in risposta a esigenze di «carattere semantico e comunicativo» (F. Bisconti, Un fenomeno di continuità iconografica: Orfeo citaredo, Davide salmista, Cristo pastore, Adamo e gli animali, in Cristianesimo e Giudaismo: eredita e confronti, XVI Incontro di Studiosi dell’Antichita Cristiana, Roma, 7-9 maggio 1987, Roma, 1988, p. 436). Nel nostro mosaico Anubi si unirebbe al pastore e a Orfeo come divinità funeraria e insieme ctonia e olimpica. Lettura che non esclude, per l’età tardoantica, un legame semantico fra scene pastorali e rappresentazione del mondo ultraterreno come luogo dell’otium campestre. Una contaminazione di soggetti che può trovare risposte nella commistione tra temi pagani e temi cristiani seppur in un panorama arido di attestazioni come quello che mostra il territorio italiano. Sullo sfondo del quale il mosaico di Ariminum appare ancora un unicum. Passiamo ora alla raffinata cornice. È compresa fra due bordure: una, più interna, a foglie disposte a ventaglio, l’altra, a nastro, si snoda in sinuosi cannoncini in cui vanno a inserirsi, obliqui, prismi a base quadrata. Un motivo eseguito con cura utilizzando piccole tessere in tenue policromia che creano un effetto sfumato. E che si rivela originale. Unica attestazione risulterebbe proprio questa eseguita ad Ariminum, variante locale dei motivi a nastro documentati, specie nelle bordure dei mosaici, in regioni extraitaliche, dall’Africa al Vicino Oriente. Se non è sfuggito come la fascia trovi assonanze stilistiche in ambito africano (III sec.) e giordano (V-VII sec.), è sembrato più corretto propendere per un’elaborazione originale dello schema che sa stupire per le soluzioni adottate: 79
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L’elegante cornice policroma del mosaico “di Anubi” dallo scavo di via Fratelli Bandiera e particolare del putto che regge il festone
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così anche nella fascia decorativa in cui corre un lussureggiante festone vegetale, sorretto da putti e interrotto dal Gorgoneion. Impossibile non indugiare sui particolari della fascia cui fa da sfondo un pesante tendaggio, mosso da drappeggi; e poi sul festone dove, fra foglie e fiori, fa la sua comparsa, ancora una volta, il superbo pavone in compagnia di piccoli volatili intorno al grazioso putto che veste una corta tunica. A irrompere è il Gorgoneion, rappresentato entro una cornice in tessere laterizie: ha espressione statica, lontana dal naturalismo con cui è ritratto nella domus di palazzo Gioia. Una conferma della fortuna che il soggetto ha riscontrato in regione, permeabile alle influenze centro-italiche risalite lungo il versante orientale tramite le coste marchigiane, a fronte del vuoto iconografico attestato in Cisalpina. Il mosaico apre a vasti orizzonti, geografici e culturali, volgendo forse lo sguardo al mondo orientale che ad Ariminum non
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fu certamente estraneo, e continuando a sollecitare riflessioni e interrogativi. Quale quello sulla sua cronologia che, negli studi dedicati, spazia tra il II e il IV secolo. Con un’ultima considerazione che ci riporta al luogo stesso del ritrovamento. In via Fratelli Bandiera, al n. 24 (dunque a pochi metri di distanza), è recentemente venuto alla luce un mosaico tardoantico. Forse la pavimentazione di uno stesso, grande complesso? daLLa domus deL chIrurgo Quando un’abitazione diventa “clinica privata” Dall’estate del 1989, quando i lavori per il nuovo arredo di piazza Ferrari fanno emergere i primi indizi di quella che si
sarebbe rivelata la domus del Chirurgo, Rimini non è più la stessa. Nel suo cuore, grazie alla musealizzazione del sito archeologico, inaugurato nel dicembre 2007, si spalancano agli occhi di tutti ben 2000 anni di storia. Nella zona settentrionale della città romana, in prossimità del bacino portuale e della linea di costa allora molto più arretrata, all’interno di un’insula che, adeguandosi all’andamento del litorale, aveva assunto forma trapezoidale, su due precedenti fasi edilizie, l’una tardo-repubblicana, l’altra protoimperiale, intorno alla seconda metà del II secolo, cresce una nuova domus. In risposta all’esigenza di aumentare gli spazi abitativi all’interno di aree residenziali oramai sature, il peristylium viene ridotto, le tre ali di portico chiuse a creare nuovi ambienti ed è elevato un secondo piano.
Pianta della domus del Chirurgo (da: Aemilia 2000, p. 514)
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La domus del Chirurgo: veduta della zona di ingresso e del corridoio
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Una sorta di habitatio adiecta, nell’ambito della quale il medicus, che per ultimo la abitò nel III secolo, ricava il proprio ambulatorio, una taberna medica domestica. Entriamo nella domus. Veniamo ricevuti dall’ingresso indipendente, aperto sul cardine minore (oggi via Giovanni XXIII), che immette nel quartiere residenziale aggiunto. Un vestibolo e un piccolo atrio orientano il nostro cammino: da un lato al quartiere residenziale vero e proprio; dall’altro al cortile ora protetto da una piccola tettoia e arredato da sculture inserite nel verde di arbusti ed erbe officinali; di fronte verso il corridoio che collega gli ambienti prendendo luce pro-
prio dal cortile. Tra le stanze distinguiamo un triclinium, un cubiculum e una sala di ricevimento, oltre a un vano riscaldato e una latrina. Un percorso accompagnato da pregevoli mosaici. Il piccolo ingresso (vestibulum) è arredato da un mosaico in bianco e nero che impiega un motivo più spesso ricorrente in ambienti di rappresentanza o privati piuttosto che di passaggio. L’attenzione è attratta dal centro, una croce inscritta in un quadrato, al cui fianco si dispongono quattro squadre non contigue: edizione semplificata di composizioni geometriche più complesse che, se dal II secolo tendono a schemi più essenziali, sanno essere
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di effetto nell’accostare figure in contrasto cromatico. In bianco e nero anche il mosaico dell’atrio, un tappeto rettangolare che ripete per due volte uno schema generalmente centralizzato, composto da quattro squadre entro cui corrono file di spine corte e quattro ottagoni (campiti da fiori a sei petali inscritti in un cerchio) disposti intorno a un quadrato centrale, a sua volta campito da esagoni, con coppie di losanghe agli angoli. Un motivo attestato in redazione bicroma anche in regione, soprattutto lungo il II secolo, le cui caratteristiche si sposano con la datazione che, su base stratigrafica, riconduce il sito al terzo quarto del secolo. Lasciate alle spalle le complesse geometrie, imbocchiamo ora il lungo corridoio (di poco inferiore a 9 metri) che sappiamo introdurci nella taberna medica. Una sorta di stuoia bianca puntellata di crocette disegnate da tessere nere che, disposte intorno a una centrale bianca, formano un rombo ai cui apici si colloca una
tessera nera. L’effetto è sobrio e insieme elegante, l’ambiente luminoso per effetto del fondo chiaro del tappeto. Le piccole stelle, – disposte a regolare distanza di 20 centimetri l’una dall’altra entro una doppia fascia nera continua – nella loro iterazione invitano ad avanzare verso le stanze che si aprono sul corridoio attrezzato dal chirurgo con mensole e armadi ove riporre lucerne e altri oggetti d’uso insieme a mortai, alcuni dei quali poggiano sul pavimento. Curiosi di visitare le stanze, ci fermiamo all’estremità del corridoio, nel punto in cui dà accesso al triclinium. Non abbiamo dubbi. A dichiarare la funzione della stanza, fra gli altri simboli dionisiaci, è il kantharos posto al centro dello pseudo-emblema bicromo fasciato da una treccia a tre capi e quindi da un tappeto bianco: spazio destinato, almeno su tre lati, ai letti tricliniari. Al di sopra dell’orlo del grande calice, che sulla spalla ostenta una svastica, “sboccia” un fiore fra due foglie lanceolate, a motivo di ornamento. Intorno al quadrato centrale si
Il mosaico del triclinium con al centro il kantharos, con evidenti segni dell'incendio che distrusse la domus del Chirurgo
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Pinax, pannello decorativo con un delfino, un’orata e uno sgombro in vetro policromo, dal tricrinium della domus del Chirurgo
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articola uno schema a partizioni geometriche, quattro rettangoli adiacenti (campiti da trecce a due capi entro cornice dentellata) e quattro rettangoli contigui. In questi torna protagonista il tema della caccia nell’inseguimento di singoli animali, due antilopi e due pantere, i cui profili si confermano rigidamente tratteggiati nello stile che sembra essere caratteristico dell’area romagnola. Al soggetto e alle sue implicazioni si intreccia l’allusione al tema dionisiaco, evocato dalle agili pantere sacre al dio dei simposi. Un mosaico raffinato che va a stagliarsi contro pareti affrescate in un intenso rosso pompeiano. Fra gli arredi della sala spicca un prezioso quadretto in vetro (pinax) da parete, nel cui disco centrale, sul fondale azzurro-verde del mare, si stagliano un’orata, uno sgombro e un delfino realizzati, in modo naturalistico, a mosaico. Un esemplare raro, composto in tecnica mista (intarsio e opus sectile oltre al vetro mosaico) che trova confronti con un pannello realizzato a Corinto nel III secolo. A gettare luce naturale sul raffinato oggetto
d’arredo è la finestra che lo fronteggia sulla parete opposta all’ingresso, di cui resta in evidenza la pesante grata riversa fra le macerie del crollo. Entriamo ora nella stanza a fianco, il cubiculum, collegato con il corridoio e con l’ambiente attiguo insieme al quale costituisce il nucleo della taberna medica. A pavimento c'è un armonioso mosaico in cui, sul fondo bianco, si delinea una composizione di cerchi tangenti entro una riquadratura con, al centro, un ampio cerchio percorso da motivi curvilinei che, intersecandosi, originano una sorta di fiore stellato. Figure vegetali (fiori e foglie stilizzati) e geometriche campiscono gli spazi di risulta. Un motivo la cui fortuna si registra lungo i primi tre secoli dell’impero con particolare concentrazione, dal II secolo, a nord-est della penisola, e, nella Regio VIII, nel settore orientale. Prima di lasciare la stanza preme osservare che il pannello decorativo del pavimento appare decentrato, poiché si è voluto “risparmiare” il lato riservato al letto per i brevi ricoveri. E che da questo ambiente provengono, fra le pitture parietali crollate con l’incendio, sia il frammento graffito che ha permesso di ipotizzare addirittura il nome del medicus, Eutyches, sia la veduta di un paesaggio marino, quasi una proiezione domestica del panorama che si apriva sull’Adriatico. Dal cubiculum accediamo direttamente in quello che il medico elesse a suo studio. Un ambiente di circa 4 x 4,20 metri, che colpisce per la decorazione policroma del tappeto musivo, decentrato in relazione alla dislocazione degli arredi. Al centro dello schema a nido d’ape (che, per restare in ambiente riminese, ci ricorda il mosaico proveniente da palazzo Battaglini, degli inizi del II secolo), disegnato da una treccia a due capi, è rappresentata la figura di Orfeo con la lira. A fare da corona al mitico musico-poeta, sono gli animali che “entrano” negli esagoni periferici, sostituendo i più tradizionali riempitivi geometrici in
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Il raffinato pavimento musivo geometrico in bianco e nero del cubiculum della domus del Chirurgo
questa che si configura come elaborazione locale maturata all’interno di un percorso sperimentale fra territorio romagnolo (Forlimpopoli) e marchigiano (Suasa). Orfeo siede su una roccia, senza copricapo e seminudo: solo gli arti inferiori sono parzialmente coperti da un drappo rosso scuro. Con la mano sinistra, in appoggio sulla gamba, regge la lira, mentre nella destra tiene il plettro. A rappresentare il mito di Orfeo incantatore di animali sono un daino, un pappagallo, un’aquila, un leone, ancora due uccelli, un tordo, o un fagiano, e una pernice. Un bestiario con netta prevalenza di volatili, forse per espressa richiesta del committente o per una scelta di bottega. Rapidi tratti naturalistici, quali
la linea del terreno ed esili arbusti, suggeriscono generici riferimenti ambientali. Negli angoli di risulta tra il grande cerchio a esagoni e il quadrato in cui questo si inserisce, sono raffigurati animali in corsa, pantere e cerbiatti, resi in bianco e nero a differenza dei soggetti nello schema a nido d’ape. Una treccia a calice delimita il tappeto, richiamandone ed esaltandone i colori nella sua policromia. È stato osservato come la fortuna iconografica del mito di Orfeo fra gli animali in campo musivo unisca idealmente l’area centro-italica al Nord della penisola, poiché trova il più vicino confronto con un mosaico tridentino anch’esso della metà del II secolo. Diversi i riferimenti semantici e culturali connessi 85
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Sopra: Il mosaico policromo di Orfeo, nello studio del Chirurgo Nella pagina a fianco: Suoi particolari
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al mito, da quello apotropaico a quello religioso, in connessione alle dottrine orfiche, a quello poetico e musicale, a quello intellettuale e filosofico, con valenze che incontrano la scelta del medicus di abitare la domus e di esercitarvi la sua professione fino al terribile incendio che la devastò alla metà del secolo. Dal cuore dello studio in cui Euty-
ches riceve e visita i suoi pazienti, mettendo a disposizione la scienza acquisita nella sua ampia formazione, Orfeo contribuisce a placare affanni e dolori, squarciando con la forza e l’universalità del mito i limiti della natura umana. Usciamo dalla stanza con l’emozione di sapere che qui, fra gli altri oggetti, è stato
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scoperto il più ricco strumentario medico-chirurgico giunto a noi dall’antichità: circa 150 strumenti, fra cui bisturi, pinze, tenaglie, scalpelli e ferri specialistici per svariati e delicatissimi interventi. Un vero e proprio tesoro che archeologi e studiosi di medicina antica continuano a interrogare con sempre sorprendenti risultati. Entriamo ora nella sala più vasta di questo nucleo di ambienti (metri 5x4,20), quella chi si apre in fondo al lungo disimpegno, ancora una volta caratterizzata da un pavimento a mosaico con ampio quadrato centrale. A stupirci è la complessità della composizione del mosaico geometrico che, nel tessuto bicromo, inserisce elementi di delicata policromia quali le trecce e i nodi di Salomone. Grandi ottagoni, ai cui lati aderiscono dei rettangoli, si impongono alla nostra percezione a fianco delle stelle a otto punte che si aprono fra di essi. Un motivo apprezzato anche in area romagnola dalla fine del I a tutto il II secolo in redazione centralizzata piuttosto che iterativa come in questo caso, recepito attraverso canali di trasmissione ascendenti, da un lato, attraverso il corridoio adriatico e, dall’altro, lungo il percorso tirrenico. Alla ricca e accurata geometria fa da cornice una doppia fila di triangoli che corrono paralleli e adiacenti ma sfalsati: una variante del motivo a una sola fila che a Rimini risulta particolarmente ricorrente. Generalmente indicata come sala di accoglienza (una sala di attesa diremmo noi oggi), è stato ipotizzato che si prestasse anche a sala operatoria per godere della luce naturale che proveniva dall’esterno tramite più di una finestra. Nel lasciare la domus non possiamo fare a meno di andare con il pensiero al tremendo incendio che, forse proprio per effetto delle scorrerie barbariche, la devastò nel cuore del III secolo. Rovina e morte che non hanno cancellato, ma pa-
radossalmente conservato, testimonianze materiali e brani di vita che, insieme ai resti del palazzo tardoantico cresciuto accanto, costituiscono oggi un sito archeologico noto a livello internazionale.
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v. la crIsI dell’Impero e la fIne della romanItà dalla seconda metà del III al vI secolo d.c.
Ariminum vive la parabola discendente dell’impero alternando periodi di crisi e di ripresa. Violata dopo secoli di pace, non riesce a rimarginare le ferite inferte al tessuto urbano e a preservare quanto si è salvato dalle distruzioni. La popolazione diminuisce e le maglie degli isolati iniziano a lacerarsi lasciando aree di abbandono e tornando ad accogliere orti e piccoli impianti produttivi, come nell’area della domus di palazzo Diotallevi. La crisi dell’edilizia privata attanaglia anche quella pubblica che si dedica solo alla costruzione di apparati difensivi e di edifici religiosi. Le strutture soffrono un lento decadimento e la defunzionalizzazione, incentivata da cambiamenti culturali e ideologici: l’anfiteatro, che non accoglie più spettacoli, è inglobato nelle mura come bastione difensivo; i templi vengono abbattuti per lasciar posto alle chiese cristiane; fondi stradali, acquedotti e fogne sono oggetto di precari interventi di manutenzione. Lo spazio forense sembra perdere la funzione di rappresentatività civica a favore, con ogni probabilità, del secondo foro, l’attuale piazza Cavour, destinato a diventare il cuore della Rimini medievale. La creazione, forse intorno al IV-V secolo,
del nuovo polo su cui convergono anche la cattedrale e la sede vescovile, sigla lo spostamento dell’asse urbano in direzione del ponte di Tiberio, mentre le insulae nel lato opposto, fra la fossa Patara e la linea delle mura ai lati dell’Arco, sembrano spopolarsi. Il nuovo foro attrae alcuni dei più pregevoli edifici residenziali che vengono eretti in una città ancora importante per la posizione strategica. Ariminum è un centro di rilievo nella nuova circoscrizione territoriale, la provincia Flaminia, in cui ricade la parte orientale della Regio VIII, l’odierna Romagna, stringendo più intensi rapporti a sud, con le attuali Marche. Nel 359 la città accoglie il Concilio indetto dall’imperatore Costanzo II per risolvere le controversie suscitate dalla dottrina ariana. Si calcola che siano circa 400 i vescovi ospitati in una Rimini “dei congressi” ante litteram. Nel V secolo Ariminum, insieme ad altri centri della Romagna, attraversa una fase di ripresa all’ombra di Ravenna, capitale dal 402 dell’impero d’Occidente e poi, alla fine del secolo, del regno goto di Teodorico. Alla presenza di dignitari, funzionari amministrativi e ufficiali dell’esercito si lega
Nella pagina a fianco: Scena di processione con doni, mosaico policromo dalla domus di palazzo Gioia (part.)
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il rilancio dell’edilizia, dei commerci e dell’economia: domus in rovina o decadenti tornano a vivere in forma di lussuose abitazioni che esaltano il prestigio dei committenti, possessores terrieri, se non potentiores con incarichi imperiali. Ne esce l’immagine di edifici distribuiti a macchia di leopardo in una città disarticolata, riflesso di una società gerarchica; ma anche di un tessuto urbano che cerca di tutelare l’impronta romana e le infrastrutture, seppure con una gestione sempre più privatistica. Costruzioni sontuose si ergono fra strutture più modeste, ma diversificate: domus secolari, consolidate con risultati anche mediocri impiegando le tecniche edilizie tradizionali, come nella domus di via Guerrieri, si affiancano ad abitazioni “povere” in materiali di reimpiego, legno e argilla, documentate negli scavi di teatro Galli. Grazie alla generosità del territorio e alla vitalità commerciale del porto, Rimini sembra accogliere, accanto a un’élite aristocratica, una compagine sociale relativamente vivace. Punto di transito cruciale verso sud, nel V secolo la città è esposta al passaggio di truppe e assiste a decisivi scontri militari finché, come baluardo di quella linea “gotica” che ha segnato anche pagine recenti della sua storia, alla metà del VI secolo diviene teatro della lunga contesa fra Goti e Bizantini: una guerra devastante che conclude il processo di dissoluzione della romanità e apre alla nuova era, il Medioevo. Le domus La complessa planimetria delle nuove domus, estese su ampiezze notevoli, è impostata intorno a grandi cortili perlopiù non porticati, impreziositi da fontane e giochi d’acqua. Gli esempi di maggior pregio accolgono vani di rappresentanza con pianta 90
absidata, polilobata o cruciforme, raggiungibili attraverso un percorso di corridoi o porticati studiato in funzione di un cerimoniale di visita che culmina nella sala di ricevimento in cui il dominus si concede agli ospiti. La residenza, concepita non solo per ostentare ma anche per esercitare il potere, assolve funzioni private e pubbliche in relazione all’amministrazione delle proprietà del dominus e, nei casi in cui egli ricopra anche ruoli formali, alle funzioni di governo. Un’architettura ispirata, in forme ridotte, ai modelli dei palatia imperiali, cui corrisponde uno splendido tenore di vita evocato dai pavimenti quasi sempre musivi, in cui intricati motivi geometrici policromi si dilatano e si rincorrono a occupare l’intera superficie. Più rari i mosaici figurati, come quelli da palazzo Gioia, aristocratiche citazioni di vita del ceto di potere ancorato alla tradizione classica e alla proprietà terriera; o ancora i preziosi sectilia pavimenta che arredano la domus di via Sigismondo. Edifici che, non a caso, sorgono in prossimità del secondo foro della città, polo delle funzioni civili cittadine. La domus di palazzo Gioia è certamente l’esempio più prestigioso di residenze che esibiscono la loro antichità. Anche la domus di palazzo Palloni conserva, accanto ai mosaici rinnovati secondo il gusto moderno, pavimenti “vecchi” di circa 500 anni. Si distingue invece, per essere l’unica costruzione ex-novo, la domus palaziale di piazza Ferrari, eretta dopo avere raso al suolo le strutture precedenti. Completano il panorama dei ritrovamenti nella zona a nord del cardo maximus la fase abitativa di V secolo della domus imperiale di via Guerrieri, cui appartengono i lembi di un tappeto musivo policromo geometrico, e il recupero di parti di un pavimento in tessellato nello scavo di palazzo Arpesella, all’angolo fra le attuali via Sigismondo e via Isotta.
la crisi dell’impero e la fine della romanità
Al di fuori dell’area a prevalente vocazione residenziale, si registrano pochi rinvenimenti attribuibili a un’edilizia abitativa di buon livello: il mosaico da via Fratelli Bandiera e due edifici forse attratti dalla vitalità delle strutture portuali. Il primo, sul tratto del cardo maximus a est del foro, nel lotto più settentrionale dello scavo di palazzo Massani, appare come un’isola nella situazione di abbandono delle domus imperiali, abbattute e coperte di terreno da coltivare. Il secondo è il complesso del Mercato Coperto, a pochi passi dalla Fossa Patara. daLLa domus dI PaLazzo gIoIa L’omaggio al dominus Il corteo sfila lungo il percorso verso la splendida sala in cui il dominus presenzierà la cerimonia di omaggio. In rigoroso ordine gerarchico partecipa al rituale che si ripete per manifestare e rafforzare il ruolo e la ricchezza del potente signore,
richiamando la vastità e la fertilità dei suoi possedimenti terrieri attraverso i prodotti portati in città. Ecco apparire due uomini: sono servi o contadini. Uno, di pelle scura, indossa un corta tunica marrone e alti calzari con legacci incrociati, l’altro, di carnagione chiara, con la veste verde e lo stesso tipo di calzature, sostiene fra le braccia un pavone dalla lunga coda variopinta. Avanzano entrambi verso destra, fra grandi cesti di vimini con pani e frutti, preceduti da un personaggio di ceto superiore, come fa intendere il diverso abbigliamento: una tunica bianca fino alle caviglie e bassi sandali ai piedi. Egli ha oramai varcato le colonne di ingresso all’ultimo tratto del cammino che di lì a poco lo porterà al cospetto del dominus; nelle mani, aperte in avanti nel gesto dell’offerta, reca un dono, coperto da una candida stola sfrangiata, ricadente verso terra. Il racconto di questa scena di vita reale, che intende emulare, probabilmente nella
Pianta della domus di palazzo Gioia nella fase tardoantica (da Edilizia privata tardoantica e bizantina 1992, p. 60)
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Il mosaico della processione con doni, dal portico-corridoio della domus di palazzo Gioia Nella pagina a fianco: Mosaico con medaglione e particolare del vaso con ventre baccellato, dalla sala con grande vasca della domus di palazzo Gioia
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ricorrenza di una festa, la solennità dei cerimoniali di corte, è immortalato nel mosaico del portico della domus di palazzo Gioia, affacciato sul grande cortile (10x15 metri ca.). Proprio quel portico chiuso che funge da corridoio di raccordo verso l’ambiente di rappresentanza più prestigioso, cornice di eventi come quello raffigurato sul pavimento. Il corteo è disegnato all’interno di una doppia bordura, nei toni dell’ocra e del bruno: una fascia a scacchiera di “mattoncini” racchiude una composizione di semicerchi allacciati da triplici nodi, un unicum interpretato come sperimentazione locale di un motivo che, sviluppato sull’intera superficie pavimentale, trova nel VI secolo largo impiego a Ravenna e a Pesaro, sia in edifici sacri che in contesti abitativi. La corrispondenza tra immagine e vita reale rende ancor più pregnante il valore “didattico” e celebrativo della scena, rappresentazione volta a esaltare l’ideologia
del latifondo, dichiarando il rapporto di dipendenza dei sottoposti – clientes, servi o contadini – nei confronti del dominus, un proprietario terriero e, forse, anche funzionario imperiale. Certamente la sua domus, all’angolo fra il decumanus maximus e il cardo minor in corrispondenza dell’attuale via Gambalunga, è una delle più sfarzose della Rimini tardoantica. Diverse le evidenze dell’elevato livello dell’edificio ristrutturato su una lussuosa abitazione del II secolo, “ricordata” dalla presenza, nella sala di ricevimento, del mosaico con le Vittorie alate. L’epoca della nuova costruzione oscilla, in base all’interpretazione stilistica e formale dei pavimenti, dagli inizi del IV al V secolo. Mentre il linguaggio architettonico imperniato sul portico soddisfa le esigenze di rappresentanza di una dimora signorile con funzioni anche pubbliche, la decorazione musiva figurata sottolinea la raffinatezza degli arredi e le potenzialità economiche del committente, insieme alla
la crisi dell’impero e la fine della romanità
volontà di autocelebrazione in forme auliche e idealizzate. Così come la presenza di vasche e fontane ornamentali denuncia una ricchezza in grado di assicurare la disponibilità di acqua non più garantita dall’amministrazione centrale; e insieme è indizio del potere di un’élite che avoca a sé la gestione della rete di rifornimento per la propria residenza. L’acqua, bene di pochi Dei sei ambienti portati in luce lungo i lati a nord-est di quello che probabilmente era il peristilio della domus imperiale, ben tre accolgono vasche ornamentali; a queste si deve aggiungere la vasca o fontana absidata del cortile, posta quasi di fronte alla soglia con le Vittorie alate. È evidente che l’acqua ha un ruolo fondamentale nella domus, tanto da indurre a ipotizzarvi la presenza di terme private. Una grande vasca connota la planimetria dell’enorme sala rettangolare (più di 20 x 16 metri) all’angolo del portico, da alcuni ritenuta una sorta di atrio che introduce al settore di rappresentanza, da altri un vano di ricevimento. La piscina centrale, profonda non più di 20 cm e absidata almeno a un’estremità, crea un’atmosfera ovattata e accogliente: l’acqua ammortizza i suoni, stempera i contrasti di luce e ombre con tremolanti riverberi, mitiga la temperatura, restituisce un senso di frescura e di benessere. L’ambiente, di cui si è scoperta una porzione pari a circa un quarto dell’estensione, ha tappeti musivi che sottolineano l’articolazione dello spazio con decorazioni di raffinata esecuzione in delicata policromia. Nel corridoio che costeggia la vasca, entro una cornice a scacchiera obliqua, si stende una trama geometrica disegnata da linee nere su fondo bianco in cui si ripetono stelle di losanghe a otto punte; negli spazi di risulta si inserisco93
i mosaici di
Rimini
Di valore simbolico l’immagine della colomba e dell’aquila imperiale, in un frammento di mosaico dalla domus di palazzo Gioia
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no quadrati grandi e piccoli, riempiti da motivi a rombi iridati e fiori quadripetali, redazione tardoantica di uno schema assai longevo, comune già nella prima età imperiale. Ogni elemento è campito dal colore, in una contenuta scala di gradazioni del giallo-ocra e del verde-bruno. All’estremità della vasca due grandi riquadri affiancati decorano la superficie pavimentale distesa a coprire tutta la larghezza dell’ambiente. Uno dei pannelli – l’unico conservato – è delimitato da una cornice a riccioli di onde, molto frequente in città, ripetuta intorno al rosone centrale. Cordoni annodati disegnano una corona di cerchi – campiti da fiori quadripetali, nodi di Salomone, rombi a lati curvi – collegati a catena, sia fra loro che al medaglione centrale: una sorta di meccanismo del moto perpetuo di cui non si coglie né inizio né fine. Tutto è sovrabbondante: le cornici multiple, i riempitivi e, soprattutto i nodi, profusi anche all’interno dei cerchi e nell’intreccio a stuoia posto al centro. La decorazione è completata, negli angoli di risulta, da vasi con ventre baccellato, imitazioni dei preziosi esemplari in metallo, da cui si dipartono tralci vegetali. Immagini che in età tardoantica, perso il significato di simbolica allusione alla sfera dionisiaca e al banchetto, figurano come
riempitivi, a generico richiamo della romanità, o come semplici vasi da fiori. Pavoni, colombe, aquile: da simboli pagani a simboli cristiani Piccolo (metri 2,15x1,50) e delizioso l’ambiente – un vestibolo o un pianerottolo di collegamento, forse in stretta relazione con il salone e con il portico – che apre la sequenza delle stanze prospettanti sulla corte. Nel tessellato policromo a pavimento si ammira la graziosa immagine di un pavone con la coda abbassata, volto a sinistra, e, sopra, un ramoscello e una colomba. Le figure sono disegnate da una linea di contorno nero, su fondo bianco; il piumaggio del pavone è reso nei colori prevalenti del verde, dell’ocra e del bruno, mentre il grigio-azzurro connota la colomba. Il “quadro”, che poteva essere completato a sinistra da un elemento vegetale, è delimitato da una doppia cornice policroma: una treccia a tre capi e una fila di cerchi tangenti con all’interno quadrati dai lati concavi posti sui vertici che generano quadrifogli. È la versione lineare, adattata a bordura, di un motivo per composizioni iterative. Una soluzione originale, sperimentata nel V secolo, con piccole varianti, dalle officine musive che lavorano alla domus di palazzo Gioia e a quella di piazza Ferrari. Le immagini di volatili dovevano essere molto apprezzate da chi commissionò l’apparato decorativo dell’edificio. Uccelli, forse colombe, sono rappresentati come riempitivi nella stanza a fianco e la colomba torna in un piccolo ma significativo frammento di tessellato avulso dall’ambiente di provenienza. Qui è colta nell’atto di porgere il ramoscello che ha nel becco a un’aquila ad ali aperte, con la testa rivolta a destra, nell’iconografia tipica del simbolo dell’impero. Il soggetto potrebbe
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confermare il legame del dominus con la corte imperiale e la sua funzione governativa o militare. Il pavone, protagonista del mosaico del vestibolo, compare anche nel corteo, come omaggio al padrone di casa. E inoltre figura in un pavimento in tessellato scoperto a pochi metri dal cortile di palazzo Gioia, nello scavo dell’ex Hotel Commercio, in via Gambalunga: un edificio inserito nella stessa insula, forse un’ala della grande domus, rimodernata con nuovi pavimenti fra la fine del V e i primi decenni del VI secolo. Il contesto ha consegnato solo resti parziali dei mosaici di due ambienti, probabilmente entrambi corridoi. Ipotesi suffragata dalla composizione a pannelli allineati di schemi attinti al repertorio più in voga nell’età tardoantica di cui restituiscono gli ultimi esiti. Nell’uno prevalgono motivi ortogonali costruiti intorno alla figura dell’ottagono; nell’altro, entro un bordo a nodi grandi e piccoli, si susseguono un tappeto con esagoni alternati a quadrati e stelle a quattro punte, e una campitura a corona di cerchi tangenti intrecciati da nodi, versione semplificata della composizione già descritta nel salone con la piscina absidata. Nel medaglione centrale occhieggia un pavone volto a sinistra verso un ramoscello con bacche o gemme rosse, la lunga coda chiusa e abbassata. Stilizzato ma raffinato nell’esecuzione, il pavone stupisce per la vivace policromia, ottenuta con piccole tessere in pasta vitrea blu, turchese e rosso. Se l’immagine del pavone, già presente per la sua bellezza nei mosaici riminesi di età imperiale, con il cristianesimo rinnova la sua fortuna caricandosi, per la carne considerata incorruttibile, di significati di purezza e immortalità, nell’accostamento con la colomba può significare l’allegoria della salvezza eterna e del regno celeste. Molto rara è invece in età tardoantica la rappresentazione musiva dell’aquila im-
Ancora volatili, un pavone e una colomba, nel mosaico di un piccolo ambiente di collegamento, dalla domus di palazzo Gioia
periale che una suggestiva ipotesi colloca nel portico, a segnare l’ingresso della sala con le Vittorie alate. Il ramoscello trattenuto nel becco intende forse richiamare le palme portate in volo nella sala di fronte; palme della vittoria, che, a distanza di secoli, assumono accezioni diverse, pur preservando l’ideale di fedeltà allo Stato. La decorazione del frammento musivo sembra sposare il modello tradizionale dell’impero con il messaggio evangelico della purezza e della semplicità e fors’anche con la stessa Chiesa. Affascinante come una dea Bella e altera come una dea, la domina accoglie gli ospiti su uno sfondo di tendaggi raccolti a festone e di piccole palme. In posa frontale, si appoggia mollemente con il gomito a un sostegno, forse un mobile, mentre con l’altro braccio regge uno specchio o uno scudo ovale. I capelli scuri sono 95
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Rimini
Medaglione con pavone nella vivace policromia delle tessere in pasta vitrea, dallo scavo dell’ex Hotel Commercio
sapientemente raccolti sul capo, composti in un’acconciatura intrecciata con fili di candide perle. I grandi occhi dai contorni marcati sembrano guardare lontano, con espressione distaccata. Un manto copre la spalla sinistra e scende lungo il lato destro, andando a cingere i fianchi e lasciando scoperto il busto con i seni sodi e il morbido addome. Questa la “fotografia” riprodotta nel mosaico comunemente noto come “Venere allo specchio”. Secondo l’interpretazione più condivisa sarebbe il ritratto idealizzato della domina cui l'identificazione con la dea conferisce maggiore dignità. Altre letture indicano nell’immagine la personificazione di una delle quattro maggiori città dell’impero o una raffigurazione mitologica. Venere è rappresentata in una posa originale in cui si fondono due delle iconografie più 96
diffuse. Se infatti la figura seminuda che si appoggia a un sostegno per specchiarsi nelle armi di Marte ricorda la tipologia della c.d. Venere vincitrice, la posizione frontale con lo specchio in mano è propria della “toilette di Venere”, documentata in mosaici italici del II e III secolo. Il tappeto offre dunque una versione del mito adattata alle richieste della committenza e “rimodernata” nell’acconciatura e nell’espressione ieratica del volto. L’immagine, lacunosa, decora uno dei pannelli in cui è ripartito il pavimento della stanza, delimitato da una doppia cornice: la prima monocroma, ocra, la seconda ornata da volute di tralci di acanto stilizzati, spinosi, che si sviluppano da cespi posti agli angoli. Un motivo non raro, ma originale per la resa con tessere policrome, ocra e verdi.
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A loro volta i pannelli sono riquadrati da bordi: in alto una fila di cerchi tangenti, presente anche nel mosaico con il pavone, nel vano accanto; ai lati, sul fondo chiaro, si snoda una treccia a quattro capi e, al suo interno, una treccia a calice con orlo dritto. Uccellini con ramoscelli completano le cornici negli angoli. Del pannello centrale resta solo l’attacco del medaglione che doveva contenere una figura, forse quella del dominus, nell’ottica della volontà di autorappresentazione che indirizza le scelte decorative dell’edificio. A lato dell’ambiente si apre una grande stanza pavimentata da un tessellato geometrico decorato da file annodate di quadrati alternati a cerchi, prototipo di uno schema diffuso nel VI secolo in area alto-adriatica, da Pesaro a Grado.
daLLe domus dI vIa sIgIsmondo Il restyling del IV secolo L’unico segnale di vitalità dell’edilizia domestica attribuito con certezza al IV secolo proviene da un edificio a pochi passi dal secondo foro, la domus II di via Sigismondo, sito – ancora sostanzialmente inedito – fra i più emblematici della dinamicità costruttiva di Rimini romana. Nel settore sud-orientale di questo “assai tormentato palinsesto” è venuto in luce il mosaico che ricopre un ambiente di oltre 35 metri quadrati, datato al primo trentennio del IV secolo: il solo intervento di ristrutturazione in un contesto che conserva i rivestimenti di prima età imperiale. In una delicata policromia nei toni dell’ocra e del verde su fondo bianco, il mosaico si offre nella sua collocazione originaria,
Il ritratto della domina nell'iconografia di Venere, dalla domus di palazzo Gioia
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Rimini
Nella pagina a fianco: Bicromia e centralità dell’esagono accomunano i sectilia di V sec. d.C. nella domus di via Sigismondo
Fiori di loto a croce inseriti in uno schema geometrico di ottagoni (part.), dalla domus di via Sigismondo
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steso come un tappeto eroso dal tempo su cui lo sguardo si perde, ora inseguendo la trama di elementi geometrici dai contorni neri all’interno del bordo a greca, ora attratto da eleganti riempitivi. Uno schema impostato sull’ottagono, il cui rigore è attenuato dall’inserimento di motivi vegetali stilizzati quali i quattro fiori di loto composti a croce all’interno degli ottagoni da cui si origina la composizione, o le crocette allungate e i fiori quadripetali, rispettivamente negli esagoni e nei quadrati che generano gli ottagoni maggiori. Nella stesura il mosaicista ha assemblato decorazioni originali che, pur non trovando confronti puntuali nel panorama musivo, interpretano un gusto diffuso nell’area alto-adratica: la greca del bordo, lo schema geometrico, entrambi elaborazioni di motivi di antica tradizione ma di scarso successo nel repertorio, a eccezione di quello di Aquileia e, più in generale, dell’ambito alto-adriatico, dove sono documentati, alla pari dei riempitivi, prevalentemente nel IV secolo.
Il linguaggio architettonico e decorativo del potere Nel V secolo la domus II viene ristrutturata nel linguaggio architettonico che esprime il potere. Emblematica della struttura palaziale è la grande sala di ricevimento che termina in un’abside sopraelevata, aggiunta invadendo il vicolo di passaggio attraverso l’insula e interrompendo il condotto fognario che lo percorre. Un segno dell’elevato profilo sociale del committente e della debolezza dell’amministrazione locale, prona alle richieste dei personaggi di alto rango cui sacrifica anche l’uso di spazi comuni. La sala offre uno spettacolo di magnificenza, progettato per incutere rispetto esibendo nobiltà e ricchezza: immaginiamo il dominus ricevere in veste ufficiale, enfatizzato dall’abside a volta, un gradino sopra gli astanti, circondato da pareti e pavimenti rivestiti in pietra e marmi, fra un apparato di tende e tappeti preziosi. Degli splendidi pavimenti in opus sectile del vano absidato e di quello adia-
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cente non resta che un pallido riflesso a seguito dello spolio subìto forse in età medievale. Il sottofondo in cocciopesto reca le impronte delle lastre asportate che, nella sala più grande, restituiscono il disegno di una stesura suddivisa in pannelli di diversa forma e dimensione, separati da file di piastrelle rettangolari grigie. Una grande composizione in bicromia, estesa anche all’abside, in cui si alternano tappeti di stelle a sei punte e figure più intricate, quali i dodecagoni. L’opus sectile steso sopra il mosaico di IV secolo, a fianco del vano absidato, amplifica lo schema della stella a sei punte con l’inserimento di rombi negli spazi di risulta, disegnando grandi esagoni in parte sovrapposti. Fantasie differenti con effetti optical che esaltano la geometria attraverso il contrasto cromatico di marmi chiari (bianchi e grigi) e marmi, o meno pregiati calcari, neri. Lo stile dei due pavimenti è semplice e ordinato: elemento comune, oltre alla bicromia, tipica dell’opus sectile di età tardoantica, è l’utilizzo dell’esagono, cuore di ogni schema, e di altri moduli elementari, come il quadrato e il triangolo, a comporre figure stellate. Si tratta di soluzioni decorative di facile esecuzione, nate nella prima età imperiale, che incontrano la maggiore fortuna nel repertorio della Cisalpina fra IV e VI secolo in redazioni attestate, spesso, in strutture religiose. Evidenti le affinità con la produzione ravennate. Un lusso oramai raro, quello dei sectilia pavimenta in epoca tardoantica, tanto da trovare esempi, in regione, solo a Piacenza, Ravenna e Rimini, dove in ambito residenziale risulta quest’unica attestazione, a conferma dell’alta rappresentatività di cui, nel V secolo, l’edificio è investito.
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Rimini
La domus dI PaLazzo PaLLonI. Passione per l’antiquariato o limitato budget finanziario? Impossibile individuare la motivazione che spinse il dominus a ristrutturare la sua abitazione nel V secolo, mantenendo in vita nel settore di soggiorno, a una quota inferiore di circa 20 centimetri rispetto al nuovo piano, due pavimenti di età augustea, un cementizio e un mosaico. Forse l’orgoglio di esibire la vetustà del palazzo e il rimpianto per i bei tempi andati? O piuttosto risorse insufficienti a sostenere un intervento radicale? Certo è che l’impianto della domus di palazzo Palloni appare fra i meno sontuosi nel panorama della Rimini tardoantica: lo compongono sei ambienti articolati intor-
Pianta della domus di palazzo Palloni nella fase tardoantica (da: Edilizia privata tardoantica e bizantina 1992, p. 77)
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no a un lungo corridoio (9 metri) e una vasca absidata rivestita in cementizio, probabilmente inserita in un cortile. I vani ristrutturati offrono un’originale campionatura del repertorio geometrico musivo, affiancando motivi molto in voga ad altri inusuali. Come l’ordinata composizione di pelte con le punte rivolte verso il centro a formare una sorta di fiori quadrilobati; lo schema, diffuso dal II secolo, è risolto nell’ambiente C in una versione priva di confronti per l’alternanza con cerchi concentrici. La rotondità di forme è ripresa nella cornice che avvolge il tappeto in una sequenza di anelli disegnati dall’intreccio di due linee sinusoidi. Simile a quello del pavimento del triclinio del Palazzo di Teodorico a Ravenna, il bordo ripropone la luminosa gamma cromatica
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del tappeto centrale alla ricerca di un effetto volumetrico. Le dimensioni ridotte delle tessere (ca. 0,5 centimetri di lato) e la composizione “ariosa”, non sovraccarica di riempitivi, hanno fatto attribuire la stesura al III-IV secolo, ipotesi non condivisa da chi individua una sola fase di ristrutturazione dell'edificio, fra il 475 e il 500. Non unico, ma particolare, anche il pavimento del corridoio (vano E) con una successione di rette spezzate iridate. Il semplice motivo a zig-zag, realizzato con sfumature cromatiche che richiamano le stuoie, è utilizzato, soprattutto dalla seconda metà del V alla metà del VI secolo, come riempitivo di figure geometriche. Originale la soluzione di estenderlo su una più ampia superficie, riscontrata soltanto ad Ariminum, in due situazioni analoghe e coeve: qui – dove peraltro il motivo sembra coprire in larghezza solo parte dell’ambiente – e nel corridoio a L della domus di piazza Ferrari. Nelle altre stanze fanno bella mostra di sé tessellati policromi in linea con il gusto contemporaneo, improntato all’esagerazione di forme e colori. Tutto appare “grande” e sovrabbondante, in una sorta di horror vacui che porta a occupare l’intera superficie con figure geometriche giocate intorno all’ottagono e ripetute in combinazioni sempre più intricate, cariche di riempitivi, che lasciano uno spazio molto ristretto alle cornici lungo i muri. Schemi complessi su cui lo sguardo si muove senza posa, inseguendo fili intrecciati a tessere nodi, stuoie e catene, perdendosi dietro ottagoni che si fondono generando quadrati ed esagoni, o dietro losanghe ed esagoni da cui nascono poligoni che, per il numero esagerato di lati, tendono alla perfezione del cerchio. Paradigmatico di questa tendenza l’ambiente più grande, il vano D, che colpisce per il vorticoso rincorrersi di forme,
la vivacità dell’ocra e del rosso, l’esuberante varietà dei motivi impiegati per riempire ogni più piccolo angolo: zigzag iridati, nastri intrecciati a stuoia, stelle curvilinee e soprattutto nodi, nelle più diverse forme, cui si aggiungono elementi vegetali stilizzati nei triangoli. Difficile cogliere, nell’intrico di figure geometriche dalle dimensioni dilatate, la trama del disegno, uno schema di matrice centro-italica già affermato in età imperiale che riscuote successo in epoca tardoantica grazie alla predisposizione a essere invaso da riempitivi: quadrati e triangoli distribuiti intorno a esagoni compongono, in un gioco di sovrapposizioni, gigantesche figure a dodici lati che sembrano schiacciare ai margini la
Il tema a zig-zag del corridoio E si unisce alla cornice del tappeto musivo a ottagoni del vano B, nella domus di palazzo Palloni
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Quadrati ed esagoni allungati nel mosaico policromo (vano G), dalla domus di palazzo Palloni
doppia cornice. Il forte impatto visivo non riesce a nascondere la scarsa accuratezza dell’esecuzione e la povertà dei materiali: le tessere di 1 o 2 centimetri di lato, per lo più irregolari, sono in pietre locali e nella rossa terracotta. daL sIto dI PIazza ferrarI Il palazzo tardoantico sulle ceneri della domus del Chirurgo
L’intrico di figure geometriche del mosaico del vano D (part.), dalla domus di palazzo Palloni
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Il complesso archeologico descrive per il tardoantico uno spazio urbano in cui convivono forti contraddizioni: il degrado espresso dal cumulo di macerie della domus del Chirurgo, memoria delle scorrerie barbariche, e il lusso di una nuova dimora, costruita poco dopo il 400 e ulteriormente ampliata negli ultimi anni del secolo, fino a occupare gran parte dell’insula lungo il decumanus. La domus ha caratteristiche tipiche delle residenze di alto livello: un giardino-cortile lastricato, attraversato da un euripo, il canale a cielo aperto in cui scorre l’acqua che proviene da una scenografica fontana a ninfeo; un settore di rappresentanza che culmina nell’abbinamento dell’aula absidata e della stanza con pianta a croce, riscaldata a ipocaustum come l’altro grande ambiente al suo fianco. L’esibizione della capacità di rifornimento e di smaltimento dell’acqua dichiara il potere del dominus di gestire le risorse idriche, così come l’adesione al modello del palatium imperiale, che affianca l’ambiente per gli incontri ufficiali a quello destinato alle relazioni più esclusive e forse al banchetto, rivela l’appartenenza alla classe dei potentiores. All’aulico linguaggio architettonico corrisponde un raffinato apparato decorativo pavimentale che attinge al repertorio geometrico con soluzioni anche originali.
la crisi dell’impero e la fine della romanitĂ
Pianta del palatium tardoantico a fianco della domus del Chirurgo (da A. Fontemaggi, O. Piolanti [a cura di], Rimini, Museo della CittĂ . Guida catalogo della Sezione archeologica e della Domus del Chirurgo, Rimini, 2013, p. 60 fig. 21)
Veduta dei mosaici del palatium di piazza Ferrari: in primo piano il corridoio a L e il grande vano riscaldato
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Tappeti di pietra Dal giardino le porte si aprono su un lungo corridoio a forma di L che, dalla fine del V secolo, indica il percorso per raggiungere il cuore del palatium. Un’accoglienza studiata per creare l’attesa dell’incontro con il dominus: il pavimento è scandito in cinque pannelli dai colori caldi (verde, ocra e rosso), diversi per dimensioni e decorazioni, ma accomunati da una stesura ordinata e serrata e dalla cornice a treccia. Veri e propri tappeti di pietra che riprendono le trame dei tessuti utilizzati, secondo la moda dell’epoca, per arredare gli interni con tende e tappeti di lusso. Compiamo i primi passi su un motivo iridato a zig-zag, che ricorre anche nel corridoio della domus di palazzo Palloni. Il ritmo è poi cadenzato dal regolare succedersi di ottagoni, riempiti da nodi di Salomone, con quadrati negli spazi di risulta, uno degli schemi più amati nella città tardoantica. Svoltiamo l’angolo camminando su una decorazione a squame con un bocciolo
Esuberanza di forme geometriche nel mosaico della sala al termine del corridoio, inciso da tombe medievali, dal palatium di piazza Ferrari
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stilizzato in forma di freccia, imitazione di una calda stuoia di candida lana disegnata in rosso; a metà del tappeto la disposizione delle squame si rovescia, sottolineando il cambiamento del punto di vista. Versione semplice, ma originale, di un motivo che in regione conta solo un esempio a Faenza, e che è documentato in pochi esemplari dell’area medio-alto adriatica. Più comune la campitura successiva, formata da file di stelle di otto losanghe che tracciano quadrati grandi e piccoli, con evidenti errori di impaginazione. Elementi dominanti il quadrato che accoglie ornati a stuoia, nella parte centrale del tappeto, e motivi iridati ai margini; ne sortisce un affollamento di forme e colori che crea quell’effetto di horror vacui condiviso dalle redazioni tardoantiche dello schema, la cui fortuna non conosce soluzione di continuità dalla fine del I sec. a. C., grazie alla sua adattabilità all’evolversi del gusto. Percorrendo l’ultimo tratto del disimpegno, calpestiamo un’altra decorazione
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musiva di grande successo lungo tutto l’impero, composta da cerchi allacciati, con all’interno quadrati dai lati concavi, in diagonale, che disegnano file di quadrifogli. Presente ad Ariminum in tessellati in bianco e nero del II secolo, lo schema è qui proposto in una redazione policroma, più consona alla sensibilità dell’epoca. Il corridoio introduce nel settore di ricevimento, in quella che potrebbe essere una sala d’attesa. A pavimento un mosaico policromo, dominato dal rosso e dall’ocra, che accoglie una decorazione opulenta e ridondante, una sorta di campionario del repertorio geometrico, capace di stupire per la perizia dei musivarii nel gestire tanta esuberanza di forme. All’interno di una triplice cornice si distende uno schema costruito sull’esagono; ai suoi lati quadrati e, negli spazi di risulta, triangoli che generano dodecagoni parzialmente sovrapposti. Nodi nelle più fantasiose composizioni, motivi a stuoia e iridati, ma anche cubi prospettici, fiori quadripetali ed elementi vegetali stilizzati riempiono ogni spazio, in un “caos” che sovrasta l’ordinata geometria. Lo stesso gusto pervade il pavimento della grande sala riscaldata intorno alla quale gira il corridoio: lo schema base, quasi “soffocato” dai riempitivi, è il medesimo, così come i motivi all’interno delle figure. A cambiare sono le dimensioni delle forme, dilatate con l’ampliarsi della superficie, e la ricerca di un ordine compositivo nel ripetere la stessa immagine in ogni fila di esagoni. Stringenti analogie accomunano i due pavimenti e il mosaico del vano D della domus di palazzo Palloni a conferma del rapporto fra il patrimonio musivo delle due abitazioni, già sottolineato dalla decorazione a zig-zag dei corridoi: similitudini riconducibili a una medesima officina attiva in città, e forse anche a Cesena, fra
l’ultimo quarto del V d. C. e gli inizi del secolo successivo. Un tripudio di ottagoni alternati a croci e quadrati, con losanghe negli spazi di risulta, invade il pavimento dell’ambiente a fianco la “sala d’attesa”, riempiendo tutta la superficie di motivi a nodi e occhielli nelle più diverse combinazioni. Lo schema, reiterato in vivace policromia, si differenzia dagli altri esempi riminesi di V secolo per i bordi multipli che sottolineano i contorni di ottagoni e quadrati. Nella cornice una fascia a denti di sega delimita una fila di quadrifogli per lo più bianchi, generati da cerchi tangenti: un tema già incontrato nella domus di palazzo Gioia che torna anche nella sala con pianta a croce. Un’ospitalità senza uguali L’elevato tono dell’edificio palaziale si esprime anche nella pianta a croce di uno degli ambienti di rappresentanza, attribuito agli inizi del V secolo. La tipologia, piuttosto rara, sembra contare solo altri quattro esempi in tutto l’impero, di cui uno in ambito religioso a Ravenna. All’impianto particolare, che vede l’ingresso nella sfera domestica della simbo-
Il mosaico dell’unico braccio conservato della sala a croce, nel sito archeologico di piazza Ferrari
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Rimini
Un campionario del repertorio musivo del palatium nel sito di piazza Ferrari
logia cristiana, corrisponde una decorazione musiva che non ha confronti. Nell’unico braccio della croce che conserva il pavimento, spicca per la vivace policromia un rosone disegnato da un complicato intreccio di cordoni che formano una stella di due quadrati, circondata da una corona di quadrilateri irregolari. Il centro della composizione racchiude un fiore dai petali cuoriformi rossi, intorno a un bottone giallo. Soluzione decorativa complessa, anche per la raffinatezza del colore, e unica pur richiamando, nelle singole parti, schemi documentati tra IV e VI secolo in area medio-adriatica, da Pesaro a Ravenna, e molto amati nelle zone orientali dell’impero. Il tappeto è completato da una doppia cornice: la fascia esterna ha una fila di quadrifogli bianchi ottenuti da cerchi tangenti policromi; il bordo interno è decorato da una treccia policroma a due 106
capi. Negli angoli di risulta fra il quadrato e il rosone sono raffigurati, da un lato un triangolo composto da nodi, dall’altro un kantharos baccellato da cui fuoriescono tralci. La varietà delle decorazioni contraddistingue anche questa stanza che, nei frammenti di mosaici pertinenti agli altri bracci della croce, mostra da un lato la medesima cornice a quadrifogli, dall’altro una fila allentata di quadrati sulla diagonale, riempiti da tessere di diverso colore, ultimo esito oramai destrutturato del motivo presente anche nello scavo del Mercato Coperto. Difficile immaginare la sontuosità dell’attiguo salone absidato di cui il lastricato della piazza lascia intravvedere i resti; i lacerti dei muri e del mosaico geometrico evocano piuttosto la rapida decadenza e l’abbandono dell’edificio nei decenni centrali del VI secolo, quando al tempo della guerra goto-bizantina il sito,
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persa la funzione residenziale, è destinato ad accogliere sepolture. daLLa domus dI PaLazzo arPeseLLa Creature marine fra le geometrie Il mosaico, interessato da lacune tanto ampie da rendere problematica la lettura, doveva pavimentare forse un disimpegno o forse una sala (più di metri 8x3,50) di un edificio che i riferimenti stratigrafici inquadrerebbero nel IV secolo, ma che l’analisi stilistica del tessellato posticiperebbe fra la metà del IV e il V secolo. Articolata in due pannelli consecutivi, la stesura offre una composizione originale, se non unica, nella scelta di alcune soluzioni, espressione di una bottega creativa e di una committenza aperta alle novità.
Lo schema di stelle di otto losanghe, intercalate da quadrati grandi e piccoli, attestato in altri contesti riminesi, è proposto in versione innovativa per il bordo a doppia treccia intorno alle singole figure; un unicum nel repertorio musivo personalizzato ulteriormente dall’inserimento di figure in luogo dei più comuni riempitivi geometrici. Animali marini, reali e di fantasia, popolano i due frammenti conservati: un pesce, con il corpo dai riflessi blu e azzurri, e un serpente marino, gigantesca creatura mitologica largamente rappresentata nel mondo classico, che, così come il pesce, trova fortuna anche nell’iconografia cristiana. L’originalità connota anche le cornici: quella a segmenti di greca separati, in nero su fondo bianco, variante di un motivo policromo impiegato come bordo di figure geometriche in mosaici del III e IV secolo; quella decorata con esagoni allungati e 107
i mosaici di
Rimini
L’originale soluzione compositiva del mosaico della domus di palazzo Arpesella
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adiacenti su uno dei lati corti, intervallati da triangoli. Il motivo, forse elaborato da uno schema incentrato sull’ottagono in voga all’epoca, non pare aver avuto seguito, se non nel VI secolo a Ravenna. Più consueta la decorazione dell’altro tappeto: la cornice, con treccia a doppio capo su fondo punteggiato, contiene una scacchiera di ottagoni, quadrati e croci alternati che disegnano losanghe negli spazi di risulta, redazione in chiave policroma e ridondante di riempitivi di uno schema di lunga tradizione adottato, nello stesso periodo, in altre domus riminesi.
da vIa frateLLI BandIera Bicromia e policromia in un’originale sperimentazione La scoperta, nel 2002 in via Fratelli Bandiera 24, di due frammenti non contigui di un pavimento tardoantico può suffragare la proposta di una datazione tarda del mosaico di Anubi, venuto in luce a pochi passi, nello stesso isolato. Il ritrovamento occasionale non ha fornito dati significativi per la contestualizzazione della stesura che sembra appartenere a un vano di circa 4 metri di lato. Il primo frammento è stato strappato per essere restaurato e poi depositato al Museo; il secondo, di maggiori dimensioni, lasciato in loco, è visibile attraverso un vetro. La cornice, multipla, si compone di fasce in bianco e nero e di un’unica bordura policroma in cui, da un cespo d’angolo a forma di lira, si sviluppa un tralcio vegetale giallo, ondulato, “spinoso” con verdi foglie di vite o di edera percorse da nervature. Al suo interno una cornice decorata da un meandro doppio di svastiche e quadrati tracciato da tessere nere e grigie; quindi una sequenza di onde, sempre in bicromia, racchiude il campo quadrato in cui si distende, entro un medaglione, la composizione centrale. L’angolo fra quadrato e cerchio ospita un kantharos, con il corpo baccellato, le anse sottili a volute, la bocca da cui escono racemi stilizzati con foglie cuoriformi. Incorniciato da tre sottili fasce policrome, il rosone, di cui resta solo un accenno, sembra decorato da un motivo a stella composto da triangoli, o forse quadrati, e cerchi intrecciati, con elementi triangolari negli spazi di risulta. La composizione, così come l’inserimento del kantharos, richiama il mosaico della sala cruciforme di piazza Ferrari degli inizi del V secolo: è al motivo della stella di due quadrati o a otto punte fuso con la corona di cerchi allacciati (attestato a
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Pesaro, Pergola e Ravenna fra IV e VI secolo e di gran moda nelle province orientali dell’impero fra V e VII secolo) che forse guarda il pavimento di via Fratelli Bandiera. Il tralcio di rami e foglie ricorda invece il mosaico della c.d. Venere allo specchio della domus di palazzo Gioia sia per il cespo d’angolo, sia per la particolarità del ramo con “spine”, sia per l’originale resa in policromia rispetto alla più comune bicromia. È invece una novità la fascia con il meandro di svastiche e quadrati, tema di successo ad Ariminum nei pavimenti in cementizio della tarda età repubblicana; diffuso nei mosaici di età imperiale, il motivo trova sporadiche attestazioni nella tarda antichità a Faenza, ad Aquileia e ad Ancona. Il disegno calligrafico del meandro, affidato a una raffinata bicromia e al tratto sottile di una linea dentellata, a imitazione del cementizio, differenziano il mosaico riminese dagli altri rendendolo un unicum. La sperimentazione di elementi innovativi investe anche l’uso del colore nell’alternanza fra bicromia e policromia e nel ricorso a toni del giallo e del verde inusuali per Rimini. daLLa domus deL mercato coPerto Un campionario di geometrie Non distante dall’anfiteatro, al di là della Fossa Patara, sul confine con l’area più degradata della città, sorge il complesso del Mercato Coperto. La planimetria della fase tardoantica dell’edificio si sviluppa intorno a un cortile con grande vasca absidata (metri 8,20x2): due gli ambienti a corridoio e una decina i vani che hanno restituito sette pavimenti a mosaico, in diversi casi stesi a coprire precedenti superfici in laterizio. L’importante documentazione musiva, sebbene assai dan-
neggiata e lacunosa, consegna una sorta di campionario del design musivo più alla moda nelle abitazioni della “Rimini bene” del V secolo. Un compendio che conferma le tendenze già individuate e che consente di sottolineare le caratteristiche della produzione musiva riminese, a iniziare dalla preponderanza del tessuto geometrico rispetto a quello figurato. Evidente la predilezione per composizioni ripetute e prive di punti di vista, studiate per suggerire il percorso con un linguaggio visivo fondato sull’opulenza decorativa e cromatica, riflesso dell’agiatezza del dominus. Le impaginazioni si dilatano a occupare la gran parte della superficie, riservando alle cornici spazi ristretti. Così nel pavimento dell’ampio corridoio (vano A, G), ripartito in pannelli giustapposti, secondo il modello tipico dei disimpegni. Il mosaico, sviluppato in lunghezza per oltre 14 metri, è incorniciato da un bordo a occhielli grandi e piccoli allacciati, documentato anche nel tessellato dell’ex hotel Commercio.
Il tralcio vegetale nel mosaico da via Fratelli Bandiera
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Pianta della domus del Mercato Coperto nella fase tardoantica (da: Edilizia privata tardoantica e bizantina, 1992, p. 70)
Il mosaico emerso in via Michele Rosa nel 1937, in una foto dell’epoca
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Tre i pannelli ricostruibili assemblando la porzione recuperata negli scavi degli anni Sessanta e quella scoperta nel 1937 in via Michele Rosa (casa Bilancioni-Civadda), distrutta durante la Seconda Guerra Mondiale. Le decorazioni ripetono motivi di altri contesti riminesi, come la composizione di ottagoni alternati a quadrati e croci, con losanghe negli spazi di risulta, (domus di piazza Ferrari e di palazzo Arpesella) e lo schema di esagoni ordinati in file e alternati a quadrati e a stelle a quattro punte, proposto anche nel vano di rappresentanza (vano F), già osservato nell'ex hotel Commercio. Si tratta, altresì, di un ornato che non ha confronti a Rimini per la rete ortogonale di
cerchi allacciati a comporre un intreccio di ottagoni dai lati concavi. Proprio l’ottagono è la figura favorita nel repertorio dell’epoca, protagonista, nel complesso del Mercato Coperto, in altri due mosaici. Quello del vano D, forse il più antico dei quattro tessellati riminesi (domus di piazza Ferrari, palazzo Palloni ed ex hotel Commercio) che riprendono la composizione con ottagoni adiacenti, alternati a quadrati. Quello dell’ampio vano H (più di 8x7 metri) in cui la forma ottagonale connota l’esteso riquadro centrale disegnato da una delicata cornice a ghirlanda d’alloro con ciuffi di foglie, ripetuta a bordare l’intera superficie.
Il mosaico geometrico policromo del vano I (part.), dalla domus del Mercato Coperto
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Il mosaico del vano L, trapuntato di stelle a otto punte (part.), dalla domus del Mercato Coperto
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la crIsI dell’Impero e la fIne della romanItà
Il numero otto torna nel tappeto del vano L trapuntato di stelle formate da otto losanghe e intercalate da quadrati grandi e piccoli, riempiti da una variegata gamma di nodi e di motivi iridati. Il tema è scelto per decorare ambienti di pregio anche nelle domus di palazzo Gioia, piazza Ferrari e palazzo Arpesella. Meno comune la cornice, rivisitazione in chiave iridata della striscia in bianco e nero di quadrati tangenti posti sui vertici; il motivo, impiegato anche nel vano D, ricorre nel V secolo a Pesaro e a Ravenna. L’esagono, più apprezzato nelle composizioni complesse che generano poligoni dai molti lati, imbastisce l’ordito dei mosaici dei vani I ed F, accomunati anche dal bordo con il gettonatissimo motivo a denti di sega disegnato in rosso su fondo bianco, come nei mosaici di piazza Ferrari. Nell’ambiente di rappresentanza (F) di dimensioni maggiori (9x6 metri) lo schema già osservato, che ricorre a esagoni, quadrati e stelle a quattro punte per comporre
il profilo di dodecagoni, è rinnovato dall’associazione con un’ampia cornice di esagonette in cotto. Una scelta creativa che rende unico il pavimento e che ne fa il testimonial della vitalità della tradizione del cotto, sia che gli elementi appartengano a una nuova produzione, sia che provengano dallo spolio di un pavimento in disuso. Se infatti il mosaico si afferma in questo periodo come la tecnica di maggior successo, conquistando il mercato accanto a rari esempi di opus sectile, non è possibile escludere che le tipologie pavimentali più semplici, quali i laterizi e i cementizi, non sopravvivessero in ambienti di servizio. Proprio questo tappeto è stato scelto a conclusione della sezione archeologica nel Museo della Città: la ricomposizione della situazione di scavo in cui una tomba alla cappuccina, intorno alla metà del VI secolo, intacca l’armoniosa geometria del mosaico, sigla la fine della romanità.
Il pavimento in tecnica mista del vano F, nella riproposizione della situazione di scavo al Museo della Città
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vI. ULTIME NOTIZIE DA UN ANGOLO DELLA CITTÀ ANTICA I pavImentI neI pIù recentI scavI nel teatro gallI dI renata curIna
Il settore urbano nord-occidentale posizionato ai margini della città, risulta ben strutturato e articolato in residenze che nella ricchezza degli apparati architettonici e delle pavimentazioni testimoniano, specie per l’età imperiale, l’elevato ceto sociale dei proprietari. Le strutture rinvenute nel complesso del teatro Galli documentano non solo un modello insediativo, per i secoli centrali dell’impero scandito da un’alternanza tra aree scoperte e ambienti di servizio e di rappresentanza, ma anche l’evoluzione di un quartiere urbano, dalla fondazione della colonia fino alla tarda antichità. Nella fase di massimo fulgore politico ed economico della città, corrispondente ai primi due secoli dell’impero, l’area parrebbe occupata da un edificio che si articola in una serie paratattica di ambienti sul fronte stradale e da ampie aree scoperte, strutturate e separate da una sequenza di stanze a carattere residenziale. Nel tempo l’edificio subisce variazioni e ristrutturazioni importanti con un frazionamento dei vani, rifacimenti e risarciture sommarie delle pavimentazioni più rappresentative; in altri casi si attuano significativi ampliamenti, come nella vasta aula, forse a tre navate, in cui viene aggiunta un’abside oltrepas-
sata (“a ferro di cavallo”), pavimentata in cementizio. Nell’articolazione interna della domus sembrano riconoscersi alcuni spazi privilegiati, tra cui uno longitudinale al cardine (l’attuale via Poletti) sul quale si affacciava la maggior parte degli ambienti, posto a dividere due vasti cortili; non è tuttavia ancora chiara la funzione di questi ambienti, pavimentati in tessellato e in sectile, sicuramente destinati a essere uno dei punti nodali della domus. Pur risultando estremamente lacunosi, con evidenti sarciture e con superfici assai usurate, è possibile riconoscere la trama dei tappeti pavimentali. Lo schema più semplice si ritrova in quello che resta di una stanza quadrangolare; all’interno di una larga fascia in tessere bianche a orditura obliqua, si dispone il mosaico che doveva ricoprire l’ambiente, anch’esso in tessere bianche ma con stesura obliqua orientata in maniera opposta alla fascia. Il tappeto, in bianco e nero, vede una composizione di quadrati adiacenti, formati da quattro rettangoli disposti attorno a un quadrato; l’alternanza dei colori nonché la sistemazione obliqua delle tessere, producono l’effetto di un sottile ricamo. A impreziosire la semplice trama è l’inserimento, probabilmente al centro
Pavimento in tecnica mista, (mosaico e opus sectile) dallo scavo del teatro del 1843
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Rimini
Ambiente con pavimento in tessellato geometrico, dalla domus del teatro Galli
Ambiente con pavimento in tessellato con emblema in sectile, dalla domus del teatro Galli
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della stanza, di una formella esagonale in marmo, inquadrata da una doppia fila di tessere nere e da una più esterna che vede l’alternarsi della bicromia. Il lungo utilizzo della pavimentazione è documentato dalle integrazioni attuate sia con l’inserimento di nuove tessere senza tener conto del colore, sia dal restauro con materiale differente, come lungo i bordi dove ven-
gono impiegate formelle quadrangolari in cotto. Lo schema, che ebbe una larga diffusione in ambito regionale, dove si riconoscono anche alcune varianti, e un ampio uso nei primi secoli dell’impero, incontrò il gusto anche degli abitanti di Ariminum, che lo utilizzarono per ornare gli ambienti tricliniari, come nel caso della domus III dell’ex Vescovado – combinato con altri schemi compositivi – oppure in quella dell’ex Convento di San Francesco. In nessuno dei due esempi viene impiegata la tecnica dell’alternanza delle tessere bianche e nere per disegnare i rettangoli e i quadrati, tecnica che arricchisce la composizione aumentandone la resa. Adiacente a questo ambiente se ne dispone un altro, quasi sicuramente delle medesime dimensioni, dalla più articolata stesura pavimentale e di maggiore impatto visivo; l’ampia fascia in tessellato bianco impreziosita da crustae marmoree bianche delimita il motivo centrale, un tralcio vegetale in tessere bianche su fondo nero. I grandi girali a volute, che scaturiscono da stilizzati kantharoi in posizione angolare, si avvolgono terminando
ultIme notIzIe da un angolo della cIttà antIca
con una foglia di vite. Il fregio, presente anche in altre pavimentazioni riminesi, spesso impreziosito da piccoli volatili o figure umane, viene generalmente impiegato come bordura di un motivo centrale che, nel caso di questo ambiente, è costituito da una decorazione geometrica in sectile. Le formelle, in marmo di colore e dimensione diversi, non sembrano seguire un preciso disegno, anche se al centro dell’emblema è collocata una lastra, in origine di forma quadrangolare e maggiore di tutte le altre; sembra quindi che in una fase posteriore alla stesura del tappeto musivo, l’emblema originale fosse stato sostituito, forse perché deteriorato, assecondando un nuovo gusto decorativo, ma messo in opera senza tener conto delle simmetrie e degli schemi compositivi più consueti. Il disegno, costituito da quadrati e rettangoli disposti senza un ordine, sembra poco usato in ambito regionale, ove gli unici esempi, salvo uno a Faenza, sono proprio a Rimini; tale modello compositivo, poco coerente nella disposizione delle formelle, sembra trovare applicazione a partire dal III secolo d.C. fino alla tarda antichità. Anche i tralci della bordura perdono regolarità, a indicare un sommario restauro da parte di un mosaicista forse poco attento al rispetto delle geometrie e della coerenza delle forme. I due pavimenti, pur appartenendo probabilmente alla fase di piena età imperiale, documentano con i restauri, i sommari ripristini e l’usura delle superfici, una lunga utilizzazione delle stanze che sono collocate sì in posizione privilegiata rispetto all’articolazione dell’edificio, quasi a ridosso del cardine, ma senza caratteristiche che permettano di definirne, al momento, la funzione. Altrettanto problematica dal punto di vista funzionale è la vasta sala posta a occidente di questi due ambienti la cui pavimentazione non ha confronti in città e nell’intera regione. Tre le tecniche impiegate: il sectile in marmi policromi di
varie dimensioni e forme, dalla quadrata alla rettangolare, stesi in modo irregolare e senza un preciso disegno, a costituire la parte centro-settentrionale del tappeto; il tessellato che sembra delimitare almeno su due lati il sectile, formato da una fascia suddivisa in tre parti, ove le due laterali, l’una a tessere bianche l’altra a tessere nere, racchiudono quella centrale con uno schema geometrico a triangoli alternati bianchi e neri; una stesura, infine, di pelte in cotto che ricopre il resto del pavimento. L’esito finale è quello di una evidente e contrastata policromia ma anche di disomogeneità e discontinuità del disegno: effetto accresciuto dai successivi restauri con elementi incongrui, chiari rattoppi nel tentativo di integrare la superficie ormai usurata. L’impressione è di trovarsi di fronte non a una stesura unitaria ma a sistemazioni progressive di una pavimentazione che probabilmente nel suo assetto iniziale era costituita da pelte in cotto, cui fu aggiunta nella media età imperiale la porzione di sectile, racchiusa forse dalla fascia a mosaico; proprio la disposizione disorganica delle formelle in marmo e la loro diversa dimensione sembra ricondurre a questo periodo.
Ambiente pavimento in cotto, tessellato e opus sectile, dalla domus del teatro Galli
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conclusIonI
Anche i mosaici sottolineano il ruolo di Ariminum nella trasmissione di modelli propri della cultura romana elaborati nella Capitale e nell’area campano-laziale. Un ruolo che, oltre all’assimilazione di un campionario, si rivela attivo nella creazione di varianti che esprimono originalità rispetto agli schemi tradizionali. L’importazione di tecniche e motivi decorativi è, nei secoli della romanizzazione, una dichiarazione di appartenenza allo Stato romano. Così come scelte distintive che accompagnano l’ingresso del mosaico nelle domus riminesi, pur in adesione al preponderante gusto ellenistico mutuato dall’esperienza centro-italica, manifestano la tendenza all’innovazione delle officine locali. Un carattere che non solo si confermerà lungo l’impero e finanche nel tardoantico, ma che produrrà esemplari unici o prototipi di nuove composizioni. Soprattutto dall’età imperiale la produzione musiva riminese si inserisce in un circuito di officine che condividono modelli e gusto, venendo a disegnare quello che è definito “un corridoio adriatico”, una linea ideale di collegamento fra Marche, Romagna e, a nord, Aquileia. La prevalenza delle geometrie accompagna l’intera vita del mosaico romano,
dapprima con l’utilizzo di motivi semplici e di linee rette (in bicromia e poi anche in policromia), quindi con l’introduzione dei motivi curvilinei e di trame sempre più complesse, invase nel tardoantico da riempitivi con le più fantasiose declinazioni di nodi e di temi iridati, per dar vita a una vorticosa sinfonia di forme e colori fra cui predominano il rosso e l’ocra. Scelta dettata dalla volontà di imitare i riflessi aurei impiegando materiali anche “poveri”, quali le pietre locali e le tessere in laterizio. L’horror vacui che impronta i mosaici più tardi riflette il senso di precarietà di una società in declino. A fianco dei mosaici geometrici, le più originali e rare elaborazioni dei mosaici figurati: oltre a temi canonici si impongono rappresentazioni inedite (quale quella del mosaico “di Anubi”) o ispirate alla vita reale (quale il porto nel mosaico “delle barche” o il corteo dei doni di palazzo Gioia). Le iconografie riflettono modelli della tradizione romana, forti dei valori di solidità e continuità ampiamente riconosciuti quali fondanti la grandezza dell’impero. Con la tarda antichità il nuovo linguaggio espressivo rende arduo distinguere, in ambienti domestici, le semplici citazioni di un’epoca d’oro da quelle caricate di valori cristiani.
Nella pagina a fianco: Schema a cordoni annodati con pavone nel medaglione centrale, dallo scavo dell'ex hotel Commercio
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Le stesure sono affidate a maestranze capaci di soddisfare committenti, anche di alto livello, nell’intento di autocelebrazione che sottende gran parte della richiesta e via via interpretando, secondo il gusto dell’epoca, gli schemi della tradizione centro-italica. Dal IV secolo sono le botteghe di Aquileia e poi di Ravenna a ideare i motivi più in voga, dando vita a un linguaggio che conquista i centri della fascia medio-alto adriatica. Un linguaggio condiviso dalle officine riminesi che si rivelano capaci anche di sperimentare varianti e inconsuete combinazioni o adattamenti. Particolarità che offrono lo spunto per riconoscere l’operato di officine attive nella città e nel territorio. Parlando dei mosaici, il nucleo più consistente fra le pavimentazioni della Rimini antica, non si devono perdere di vista neppure le altre tipologie di stesure. Dai più antichi commessi laterizi, di cui rimane ricca documentazione lungo tutta la
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romanità, espressione originale del gusto locale, che, stimolata dall’abbondanza di materia prima, offre una risposta economica e funzionale alle necessità della vita domestica e produttiva; per passare alle meno documentate stesure in cementizio, adottate per uniformarsi agli stili di vita centro-italici che, con le loro decorazioni essenziali, connotano gli ambienti di maggior pregio degli ultimi decenni della repubblica. E inoltre, dalla prima età imperiale, i lussuosi sectilia pavimenta, riservati alle sale più rappresentative delle domus che guardano ai modelli dell’edilizia pubblica. Soluzioni pavimentali che soddisfano due esigenze apparentemente contrastanti, ma unite in nome del pragmatismo romano: l’economicità, che spesso fa riferimento anche al reimpiego, e l’esibizione della ricchezza e dello stato sociale del dominus attraverso il lusso.
conclusIonI
In questa pagina e nella seguente, mosaico “di Anubi�, particolari della cornice, da via Fratelli Bandiera
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BIBlIografIa
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Finito di stampare nel mese di novembre 2016 per conto della Minerva Edizioni - Bologna