La cultura del cibo tra Romagna e Marche

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Piero Meldini

LA CULTURA DEL CIBO TRA ROMAGNA E MARCHE

Piero Meldini, riminese, ha diretto la Biblioteca Gambalunghiana per oltre venticinque anni. Si occupa di storia dellʼalimentazione e della cucina dalla seconda metà degli anni Settanta. In questo campo ha scritto, tra le altre cose, La cucina dellʼItalietta (Guaraldi, 1977), Le pentole del diavolo (Camunia, 1989), Le ricette dʼeʼ Gnaf (Panozzo, 1997) e, con Michele Marziani, La cucina riminese tra terra e mare (Panozzo, 2005). Ha collaborato dalla fondazione alla scomparsa al mensile “La Gola” e fa parte della redazione della rivista “Slow”. È anche autore di quattro romanzi di successo, tradotti in varie lingue: Lʼavvocata delle vertigini (Adelphi, 1994), Premio Bagutta opera prima; Lʼantidoto della malinconia (Adelphi, 1996), Premio selezione Campiello; Lune (Adelphi, 1999); La falce dellʼultimo quarto (Mondadori, 2004), Premio Bigiaretti-Matelica.

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Piero Meldini

LA CULTURA DEL CIBO TRA ROMAGNA E MARCHE

Nel territorio a cavallo tra Romagna e Marche i conÞni amministrativi non determinano alcuna frattura netta tra paesaggi, risorse naturali, colture, comunità, parlate, tradizioni, e anche per quel che riguarda gli usi alimentari e culinari si coglie una sostanziale omogeneità, che si manifesta nellʼampia condivisione di piatti, ingredienti e tecniche. Come la maggior parte delle cucine di conÞne, anche quella di questʼarea possiede due caratteristiche peculiari: da un lato è una cucina ibrida ed eclettica che, nella fattispecie, combina la cultura del cibo romagnola con quella marchigiana e, più in generale, dellʼItalia centrale; dallʼaltro è una cucina schiettamente conservatrice, che è riuscita a preservare e a tramandare sapori, preparazioni e consuetudini talora vecchi di secoli. Il libro, che ha un taglio essenzialmente storico, si occupa di cucina strettamente tradizionale: sia quella che si è estinta o ha subìto metamorfosi tali da diventare irriconoscibile – cucina della quale resta traccia solo nelle fonti scritte, per altro quanto mai scarse e aride – che quella che sopravvive, più o meno rimaneggiata, nelle case e nei ristoranti. È una cucina dai molti volti: marinaro e contadino, urbano e rurale, di pianura e di montagna, festivo e feriale, di estrazione aristocraticoborghese e di matrice popolare; volti che rißettono la complessa, vivace e avventurosa storia di questo territorio, e che si rispecchiano nellʼampia quanto rigorosa raccolta di ricette che correda il volume.

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9-11-2005, 9:38:49


LA CULTURA DEL CIBO TRA ROMAGNA E MARCHE



Piero Meldini

LA CULTURA DEL CIBO TRA ROMAGNA E MARCHE


In copertina: Spighe di grano, fotograÞa © LitofotograÞa Marchi & Marchi srl, San Giovanni in Marignano.

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E così siamo al libro numero quattordici. Da quattordici anni la Banca Popolare Valconca va pubblicando studi originali che insigni Autori dedicano alla nostra terra. Il bel libro di Meldini aggiunge un altro tassello alla scoperta di questo straordinario territorio che si trova fra Romagna e Marche. Zona di conÞne, ma chiaramente identiÞcata, in cui lʼeclettismo e la mescolanza di razze, uomini e culture hanno creato un unicum veramente interessante. Si tratta di unʼarea culturalmente omogenea estesa fra Rimini, Pesaro e Urbino: un territorio che proprio nelle prime righe del libro è indicato come marchignolo. Questi elementi sono evidenti anche nella cucina: una cucina ibrida ed eclettica che combina gli usi alimentari e gastronomici romagnoli con quelli marchigiani; una cucina “di conÞne” che, proprio per questo, è riuscita a tramandare sapori, preparazioni e consuetudini vecchi di secoli. La cultura del cibo tra Romagna e Marche è un grande affresco storico che narra di Costanzo Felici, che nel Cinquecento, nella sua “lettera sulle insalate”, cita per la prima volta la mitica piada; di Giovan Maria Lancisi, che racconta del banchetto offerto dal conte di Carpegna; degli Albini di Saludecio, che hanno conservato un prezioso ricettario di famiglia. Piero Meldini scrive, quindi, della cucina dei nobili e dei giorni di festa. Egli, però, narra anche, e con altrettanta passione, della grande arte dei poveri di arrangiarsi fra carestie, polenta, erbe e poca carne. Tutto ciò ha creato piatti straordinari che narrano “dellʼumile ed elementare arte di sostenersi”. Scorrendo queste pagine pare di sentire aromi di una volta ma che, fortunatamente, sono stati in gran parte conservati: i ceci allʼaglio e rosmarino, le piade dei morti, il vinello, i patacùc, i maltagliati, i passatelli, la pasticciata, i maritozzi e i sontuosi cappelletti in brodo. In questo libro, insomma, ancora una volta si parla di noi e della nostra povera e grande umanità. Non condivido lʼaffermazione di Anthelme Billat-Savarin, un gastronomo francese dellʼOttocento, il quale affermava che lʼuomo è ciò che mangia. Trovo più profonda e pertinente lʼosservazione del grande Ludwig van Beethoven: la cucina racconta di “quegli alimenti che sono necessari alla bestia umana per produrre cose spirituali”.

Avv. Massimo Lazzarini Presidente Banca Popolare Valconca



INDICE

Introduzione. Un territorio culturalmente omogeneo Costanzo Felici e lʼantica cucina rurale Il regime alimentare delle campagne nelle inchieste sociali dellʼOttocento La cucina contadina feriale e dei giorni di festa La cucina dei nobili e dei borghesi nelle lettere di Lancisi e nei ricettari domestici ottocenteschi Microstoria di unʼindustria alimentare La cucina marinara Note Appendice. Ricette BibliograÞa

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INTRODUZIONE UN TERRITORIO CULTURALMENTE OMOGENEO

Un autorevole storico della letteratura italiana che è anche un apprezzato scrittore, Marco Santagata, in uno studio sulla poesia petrarchista Þorita nelle corti di Rimini e Urbino ha individuato «un comprensorio – costituito, oltre che dal Montefeltro, dalle corti malatestiane di Romagna e da quella malatestiana prima e poi sforzesca di Pesaro – entro i cui conÞni la produzione lirica è caratterizzata da una sostanziale omogeneità»1. Più in generale, ha parlato di «unʼarea culturalmente omogenea, estesa fra Rimini, Pesaro e Urbino»2. La poesia cortese in età rinascimentale è uno degli svariati campi, e di certo non il più significativo, in cui sono stati còlti

1-2. Il grano e l’uva

i tratti comuni di quel territorio a cavallo tra Romagna e Marche – se non addirittura tra “Padania” e “Appenninia”3 – che Delio Bischi amava chiamare “marchignolo”4. In questʼarea, che comprende le valli del Conca, del Ventena e del Tavollo, il versante sinistro della valle del Foglia e il Montefeltro centrosettentrionale, i conÞni amministrativi non ratiÞcano né tanto meno determinano fratture nette tra paesaggi, specie vegetali e animali, colture, risorse alimentari, comunità, parlate, tradizioni5. Le differenze interne, che pure esistono e sono profonde, sono perlopiù indipendenti da spartiacque provinciali e regionali, e sono piuttosto legate alle diverse fasce che suddividono il territorio da mare a monte6:

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3. Uva Sangiovese nel tino, pronta per la pigiatura

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la costa, la pianura, la bassa collina, lʼalta collina e la zona submontana. Anche per quanto riguarda gli usi alimentari e culinari non cʼè vera soluzione di continuità tra bassa Romagna e alte Marche, che condividono piatti, ingredienti e tecniche. Il discrimine amministrativo, in effetti, pesa molto meno dellʼambiente Þsico e di quello sociale. Si possono perciò distinguere una cucina marinara e una contadina, una cucina urbana e una rurale, una cucina di pianura e una di montagna, una cucina di estrazione aristocratico-borghese e una di matrice popolare, una cucina festiva e una feriale, ma di rado una cucina dallʼimpronta esclusivamente romagnola o esclusivamente marchigiana. Se cʼè un campo dove il termine “marchignolo” ha piena legittimità, insomma, è proprio quello del cibo. Precisiamo subito che la cucina di cui stiamo parlando e della quale ci occuperemo in questo lavoro, che sarà essen-

zialmente di taglio storico, è la cucina strettamente tradizionale: sia quella che si è estinta o ha subìto metamorfosi tali da diventare irriconoscibile – cucina della quale resta traccia solo nelle fonti scritte, per altro quanto mai scarse e aride – che quella che sopravvive, più o meno rimaneggiata e contaminata, nelle case e nei ristoranti. Pura archeologia culinaria? Solo in parte. Come la maggioranza delle cucine di conÞne, quella del territorio tra Romagna e Marche possiede due caratteristiche. Da un lato è una cucina ibrida ed eclettica che, nella fattispecie, combina gli usi alimentari e gastronomici romagnoli con quelli marchigiani e, più in generale, dellʼItalia centrale, conciliando una folta schiera di opposti: magro/grasso, semplice/elaborato, crudo/cotto, aromatizzato/speziato, olio dʼoliva/lardo e strutto, pane/piada, cottura alla brace/cottura in tegame, eccetera. Dallʼaltro lato è una cucina palesemente conservatrice, che è riuscita a preservare e


UN TERRITORIO CULTURALMENTE OMOGENEO

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a tramandare sapori, preparazioni e consuetudini vecchi di secoli. A dimostrazione che non solo in linguistica e Þlologia, ma anche nel campo delle tradizioni gastronomiche, vale il criterio del “conservatorismo delle aree marginali”. Ovvero, tradotto in parole povere: le tradizioni sembrano resistere più fedelmente e più a lungo alla periferia che al centro di un determinato territorio. La piada cotta sotto la cenere, per esempio, menzionata da Costanzo Felici7 già intorno alla metà del XVI secolo, è attestata

in tempi recenti a nord di Ravenna8 e nel pesarese9, cioè agli estremi e opposti poli dellʼarea di diffusione della piada. Analogamente, i medesimi cibi dai caratteri più o meno arcaici come i manfrigoli (o granetti), gli strozzapreti (o bigoli), i garganelli (o lumachelle), i bracciatelli (o ciaramilla), il casadello (o latteruolo, o lattaiolo), il bustrengo, la sapa, eccetera10, si conservano – con le stesse o con differenti denominazioni – tanto nel pesarese quanto nella Romagna alta e medio-alta.

4. Castagne del monte Pincio, Talamello

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COSTANZO FELICI E L’ANTICA CUCINA RURALE

Due fonti, una del XVIII e lʼaltra del XVI secolo, ci forniscono informazioni altrettanto precoci che preziose sugli usi alimentari e culinari tra Romagna e Marche rispettivamente dei ceti superiori nelle occasioni solenni e degli abitanti delle campagne nella quotidianità. Ci riferiamo alle Lettere inedite1 di Giovan Maria Lancisi e alla cosiddetta “lettera sulle insalate”2 di Costanzo Felici. Cominciamo da questʼultima. Costanzo Felici nacque intorno al 1525 a Casteldurante, oggi Urbania, da genitori originari di Piobbico, isolato e «molto remoto» castello dellʼalto pesarese, sotto la poderosa mole del monte Nerone. Qui, dove si erano trasferiti da Lucca i suoi antenati, egli trascorse la giovinezza, e qui tornava a soggiornare quando si ritirava da Rimini, sua residenza abituale dopo il matrimonio con Virginia di Galeotto Roberto Brancorsi, procuratore e cancelliere del Comune. Felici aveva studiato medicina prima a Perugia e poi a Padova, dove si era addottorato nel 1552. Oltre che a Rimini, esercitò la professione a Casteldurante, a SantʼAngelo in Vado, a Cagli e a Pesaro, città nella quale morirà il 5 febbraio 1585. A Urbino, nel 1557, aveva dato alle stampe Il Calendario overo Ephemeride historico3, un raffazzonato centone di avvenimenti sacri e profani. Lʼaltra sua opera edita è invece un piacevole trattatello Delle virtù et proprietà del lupo4, pubblicato in appendice alla traduzione italiana della monograÞa sullʼalce di Apollonio Menabeni.

Cultore di studi storici, ma soprattutto delle scienze naturali, Costanzo Felici venne in contatto col grande Ulisse Aldrovandi, con cui intrecciò una corrispondenza che Mario Maragi ha deÞnito «la più ricca, frequente e prolungata»5 fra quante si conservano nellʼimponente Fondo Aldrovandi della Biblioteca universitaria di Bologna. Risoluto a trasformare il suo studio – osserva Giuseppe Olmi – «in una sorta di banca dei dati dalla quale poter trarre di volta in volta materiale utile alla stesura della sua poderosa Storia naturale»6 e consapevole, dʼaltro canto, di non poter dominare da solo (e oltretutto senza muoversi da Bologna) lʼimmenso scibile dei tre regni della natura, Aldrovandi aveva allacciato un Þtto commercio epistolare con scienziati della statura di un Mattioli, di un Rondelet, di un Gesner, ma anche «con umili speziali, medici di provincia, collezionisti»7 coi quali scambiare informazioni, scoperte, disegni, fossili, foglie, Þori, semi. Particolarmente assiduo, devoto e amichevole fu il contributo di Felici, di cui il Fondo Aldrovandi custodisce sessantuno lettere degli anni 1555-1573 e sei opere manoscritte di botanica e zoologia. Fra queste, in due distinte redazioni8, il trattato in forma di lettera “sulle insalate”. Indirizzata da Piobbico9 a un corrispondente di cui non è fatto il nome, ma che tutto porta a identiÞcare con Ulisse Aldrovandi, la lettera è un catalogo ragionato di tutte le piante commestibili, spontanee e coltivate, indigene e forestiere: delle erbe che si 13


LA CULTURA DEL CIBO TRA ROMAGNA E MARCHE 5-6. Immagini da un erbario del 1450 c.a: Þnocchietto di montagna (“feniculo minore montano”) e prezzemolo montano (“petrosellino montano”). Rimini, Biblioteca Gambalunghiana, ms. 8, cc. 107v e 89r

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utilizzano crude nelle insalate, ma anche di quelle che si usa cuocere, e inoltre dei bulbi, delle radici, delle cucurbitacee, dei frutti che si consumano freschi e di quelli che si fanno seccare, delle bacche, dei cereali, dei legumi, dei semi odorosi, delle spezie in genere e inÞne, succintamente, dei funghi e del “tartuofano”: oggetto, questi ultimi due vegetali, di un lavoro speciÞco10. 14

Quantunque medico, Felici fa un uso sempre misurato e talora spregiudicato della teoria degli umori. I suo consigli – che lʼinsalata, ad esempio, va condita per essere meglio assimilata e che è preferibile consumarla a inizio pasto – potrebbero essere tranquillamente sottoscritti da un moderno dietologo. Negli stessi anni il cuoco gentiluomo Domenico Romoli detto


L’ANTICA CUCINA RURALE

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il Panunto distingueva con pedanteria i vegetali “secchi” dagli “umidi” e i “caldi” dai “freddi”, per concludere ruvidamente che «per la conservation della sanità né frutti né herbe deve lʼhuomo usar molto per cibo», e men che meno «le selvatice», che «sono assai peggiori»11: un vecchio e diffusissimo pregiudizio che è invece del tutto estraneo a Costanzo Felici.

Benché questi si impegni a far passare ogni pianta attraverso la griglia tassonomica di Dioscoride (scomodando ulteriormente, se necessario, Galeno, Teofrasto, Plinio e Celso), non cʼè dubbio che la soggezione al principio dʼautorità e il ricorso sistematico alle fonti libresche convivono in lui con le osservazioni empiriche, frutto di un rapporto con la natura diretto e assiduo, 15


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7-8. Ulivi a Coriano, 1965 c.a, e a Meleto di Saludecio, 1962

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così come la cultura scientiÞca più aggiornata si accoppia con la cultura contadina e montanara. Essa trapela anche dalle piccole moralità popolari che Felici dissemina qua e là: «lʼinsalata ben salata, poco aceto e ben oliata»12; «lʼinsalata non è buona né bella se in essa non vi entra la pimpinella»13; «ogni herba verde fa nellʼinsalata»14. Sono proverbi che sono arrivati Þno a noi, così come ha

resistito Þn quasi ai nostri giorni, trasmessa di madre in figlia, la “cultura” delle erbe di campagna15: un sapere vasto e rafÞnato che accomuna la Romagna, il Montefeltro e la Marca pesarese, e che rischia di sparire proprio adesso che – ironia della sorte – si è scoperto tutto il valore alimentare, dietetico e curativo delle piante spontanee e di quelle coltivate rispettando la natura.


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Numerose e godibilissime, nella lettera, sono le notizie dirette e indirette dʼinteresse gastronomico. Raccolte da Felici nellʼentroterra tra Rimini e Urbino, esse ci forniscono della cucina di quel territorio, nel Cinquecento, un quadro vivido e ricco di dettagli. Alcuni usi culinari – specie quelli praticati dai più agiati – si sono estinti da tempo,

come la fabbricazione dellʼacqua di rose, dellʼaceto rosato e dellʼaceto “sambucato”, o come la confettatura in zucchero o miele di Þori, fusti, radici e semi di piante, dalla lattuga al finocchio, dalla borragine alla rosa, dal coriandolo allo zenzero. Altri usi, come la preparazione di minestre, frittelle e torte di erbe, cereali e legumi permangono, ma con una drastica riduzione delle specie 17


LA CULTURA DEL CIBO TRA ROMAGNA E MARCHE 9-10. Immagini da un erbario del 1450 c.a: liquerizia (“regolitia”) e origano (“rigano”). Rimini, Biblioteca Gambalunghiana, ms. 8, cc. 74r e 109r

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utilizzate: non si cucinano più minestre di enula, malva, romice e gramigna, né frittelle e torte di miglio, panìco, fave e piselli, mentre marginale è lʼimpiego della borragine, dellʼortica, delle “rosole” (papaveri) e delle cime di rapa nelle minestre, dei Þori di sambuco nelle frittelle e delle “rosole” nelle torte. La cottura sotto la brace (in dialetto romagnolo burnìsa), che nella lettera 18

è associata alle carote, alle ghiande e ai tartuÞ16, veniva usata Þno ad anni recenti per cucinare cipolle, patate e carcioÞ17. Non sono pochi i piatti che si conservano tuttora, soprattutto nellʼentroterra pesarese, con o senza varianti signiÞcative rispetto alla versione di Costanzo Felici: i ceci allʼaglio e rosmarino; la “baggiana” di fave aromatizzata con Þnocchio selvatico o ane-


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to18; le minestre di piselli e di lenticchie; le lenticchie con lʼosso di prosciutto; lʼinsalata di fagioli; la torta di bietole; le melanzane al tegame e in graticola; la zuppa di farro; il pancotto; le frittelle di riso19; i «tortelli, rafÞoli e simile fantasie»20 con ripieno dʼerbe; la lonza, la salsiccia e i fegatelli di maiale profumati con semi di Þnocchio; il pesce infarinato e fritto; le lumache alla mentuccia;

i cetriolini sotto aceto; le olive in salamoia, i capperi sotto sale e la sapa, lo sciroppo ottenuto dalla riduzione per bollitura del mosto. Di straordinaria importanza sono le pagine della lettera dedicate al grano e a tutto ciò che si può ricavare dalla farina di frumento: pane, pan biscotto, piada, focacce, dolci e vari tipi di pasta: «lassagna, lassagnola tirata, macaroni o cavadoli tirati in 19


LA CULTURA DEL CIBO TRA ROMAGNA E MARCHE 11. Il “testo” d’argilla sulla Þamma dell’aròla

varie forme, strenghe, tagliatelli, vermicelli, granetti et altri nomi»21. Quella di Felici, in particolare, è la prima citazione a noi nota di un cibo che non ha solo il nome di “piada”, ma che coincide effettivamente, mutatis mutandis, con la popolare piadina odierna. Parlando del

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pane azzimo, infatti, Felici accenna en passant a «placente e cresce o piade [...] per il più fatte di pasta non fermentata con sale e cotte sotto le cenere infocate overo nelli testi infocati»22, spiega che queste venivano confezionate «per non potere aspettare il resto del pane che si cuocia o quando manca


L’ANTICA CUCINA RURALE

il forno» e le deÞnisce «pessimo cibo con tutto che a molti tanto piaccia». Poco più in là Felici menziona anche quella versione opulenta e aristocratica della piada che nel riminese è chiamata “piada sfogliata”, e nel pesarese e urbinate “crescia”: «questa farina si suole ancora compastare con lardo o altro grasso de porco in tutta la massa, […] che però spesso sentirete dire crescia o piada grassa overo sfogliata overo smalzata, e molte volte sʼintride la pasta con olio per fare queste mede[si]me piade o cresce»23. Insomma, intorno al 1572 – anno in cui si ritiene sia stato composto il trattato di Felici – la piada veniva già preparata nelle campagne tra Rimini e Pesaro. Sembra improbabile, invece, che si confezionassero anche i “cascioni”, perché le “rosole” erano utilizzate, al tempo, solo nelle torte e nelle minestre24. Felici ricorda altresì le spianate25 e i “crostoli”26, che è il nome che nella valle del Foglia si dà attualmente alla versione locale della piada sfogliata27, nonché dolci semplici e casalinghi come i biscotti, i “bracciatelli” e la “pinza” (ma la versione cinquecentesca e quella odierna condividono solo la denominazione e il profumo dʼanice). Sono citate anche delle piade speziate «per le feste dʼOmniasanti e il San Martino»28, da accompagnare al vino novello, che sono con ogni probabilità le antenate dirette delle “piade dei morti” del riminese, tra i cui ingredienti – comʼè noto – entra il mosto. Nella lettera si fa menzione di svariati tipi di pane povero, confezionato con ingredienti vili e dʼemergenza: farine di cereali inferiori (orzo, spelta, sorgo, miglio, panìco); farine di legumi (fava, cicerchia, veccia); farina ottenuta dalle radici del gladiolo e dellʼaro, conosciuto localmente come “zago” o “pane delle bisce”29; farina di castagne e di ghiande30. Il pane di ghianda, propagandato nel 1801 dal medico Michele Rosa31, originario di San Leo, veniva consumato nel Montefeltro ancora agli inizi del Novecento32. Stando ai ricordi di un

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mugnaio di Sassocorvaro, i contadini raccoglievano ghiande della varietà detta “castagnola”, le essiccavano, le bollivano per attenuarne lʼamaro, le lasciavano asciugare e le portavano al mulino a macinare. Ne ottenevano «una farina molto Þne», dalla quale ricavavano «un pane più leggero di quello di farina dʼorzo e di fava»33. Il trattato di Costanzo Felici, in conclusione, si rivela non solo una fonte di assoluto rilievo per i cultori di scienze naturali e per i botanici in particolare, ma un testo capitale per gli storici dellʼalimentazione e della gastronomia. La lettera mostra infatti, oltre a modeste tracce di una cucina nobiliare della quale poco o niente sopravviverà, cospicue e inoppugnabili testimonianze di una cucina rurale e paesana in via di formazione, che è alle radici della cucina di tradizione dellʼarea di cui ci stiamo occupando. Non sono poche, come abbiamo visto, le preparazioni che conservano, a oltre cinque secoli di distanza, la denominazione e spesso anche la formula antica. Ma

12. “Sfogline” che stendono la piada alla Þera di San Gregorio. Morciano, 1963

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LA CULTURA DEL CIBO TRA ROMAGNA E MARCHE 13-14. La ricerca dei tartuÞ sulle colline del Montefeltro

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ben più del numero dei piatti che continuano a esistere, contano i “saperi”, propri – allora come oggi – del territorio: quello dellʼolio dʼoliva e delle olive; quello dei legumi; quello del pane, delle schiacciate e delle focacce; e, primo fra tutti, quello delle erbe spontanee e delle misticanze 22

primaverili, su cui Felici si diffonde a lungo con amabile, evocativo e affettuoso puntiglio: «Nel Þne delʼinverno e principio della primavera si suole dire per proverbio fra le donne che ogni herba verde fa nelʼinsalata, perhoché vi misticano dentro molte piante


L’ANTICA CUCINA RURALE

senza nome overo pochissimo usitate. Prima alli piani raccolgono per le vigne una sorte di lattuchella silvestre, quale ancora chiamano herba grassa, con foglie aspere macchiate di bianco, con Þori gialli fatti a campanelle […]. Si usano oltra di questo gli costi integri della scabiosa giovinetta, detta stebe […]. Similmente non lassano il gallitrico, così detto volgarmente […]. Ancora frequentemente pigliano la primula veris pratense […]. Ancor Þoriscono a suo tempo lʼinsalate con li Þori de viole zoche e mamole […]. Vi pongono ancora unʼherbetina ramosa, sparsa per terra, con Þoretti gialli e silliquette piccole como un trifoglio pratense […] quale chiamano orecchia di lepre. Unʼaltra similissima di foglia, se bene in cima è più tonda, vi colgono neʼ mede[si]mi luochi, cioè neʼ greppi e sodi, che fa il Þor turchino in un bottone tondo lanuginoso […]. Non lassano ancora stare quella che in luochi humidi serpendo per

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terra fa gli suoi sottilissimi rami buttando per nodi de qua e de là le sue doi foglie rotonde a modo dʼun quatrino, che per questo vien detta numularia. La chelidonia

15. Il castagneto di MonteÞore

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LA CULTURA DEL CIBO TRA ROMAGNA E MARCHE 16. Le caldarroste. MonteÞore, 1966

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minore similmente viene per questo a quelli tempi raccolta, cioè le sue tenere foglie, e la chiamano favarelli e favoncelli et è assai buonʼherba. Raccolgono ancora una certa herba con foglia como di borrage, con radice tuberosa negra, Þor bianchiccio; nasce per coltivati e sodi e chiamasi dalle nostre donne gallico […]. Tolgono ancora, dove ne nasce, unʼherbetina humile, con foglia oblonga liscia, […] con odore di aglio detta per questo agliarina […]. Vi pongono ancora le cime tenere del bupthalmo, che a Rimini vien chiamata gotta grassa […]. Non mancano ancora le donne spesse volte de raccogliere in queste loro insalate amare le foglie tenere della matricaria vulgare […]. E de molte altre harei da dire, de quale hora non mi sovene, de quale fanno le lor misticanze secondo la varie fantasie deglʼhuomini»34. I “saperi” a cui abbiamo accennato sono frutto di un complesso di competenze naturalistiche, agricole, meteorologiche, dietetiche e culinarie peculiari del territorio fra Romagna e Marche. Di più: nella lettera di Costanzo Felici si può già cogliere, seppure in embrione, un sistema di sapori che connoterà la cucina di tale area e la contraddistinguerà dalle cucine conÞnanti. Comincia già a delinearsi, in altri termini, una precisa identità gastronomica: identità che mostra maggiori afÞnità con le culture alimentari e culinarie centroitaliane che con quelle dellʼItalia settentrionale.


L’ANTICA CUCINA RURALE

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IL REGIME ALIMENTARE DELLE CAMPAGNE NELLE INCHIESTE SOCIALI DELL’OTTOCENTO

Il quadro alimentare che la lettera di Costanzo Felici tratteggia è quello di un territorio abbastanza ricco e fruttuoso. La fertilità del luogo, per lʼabbondanza delle acque e la dolcezza del clima, è per altro un tema ricorrente, un vero e proprio topos nei calorosi e talora sperticati “elogi” dei cronisti e dei letterati locali. La descrizione della diocesi riminese fatta agli inizi del Seicento da Raffaele Adimari è addirittura una sequela di iperboli: «Vi sono campi di grano così fertili, che il grano […] serìa sufÞciente a mantenere un altro Rimino. […] Circa alla fertilità del vino, lo sa ognʼuno che questa città nostra manda fuori più vino che forsi alcunʼaltra città della Chiesa, e […] buono e perfetto. […] Lʼolio avanza a questa diocesi, i colli della quale si vedono tutti pieni di olivi […] Þno a Fano»1. Non meno florida appare ad Adimari la situazione delle singole località della diocesi e, nella fattispecie, della valle del Conca: San Giovanni in Marignano «è abbondantissimo di grani, biade et vini per il buon territorio cʼha intorno»2; Montegridolfo è «copioso de frutti dʼogni sorte, e particolarmente de olive, oltre lʼaltre cose necessarie al vitto humano»3; ugualmente «copioso dʼolive et altri frutti esquisiti»4 è il castello di Meleto; la «nobil terra di San Lodecio» è «abbondante dʼogni sorte de frutti et olivi, con una buonissima aria»5; Montecolombo, «il cui territorio è dotato di vigne, produce particolarmente vini dolci e delicati»6; il territorio di Gemmano, inÞne,

è così «copioso di tante sorte di frutti, che quasi supera tutti gli altri»7. Come questa specie di Eden potesse incorrere, negli stessi anni, in frequenti e drammatiche carestie, resta un mistero. Sta di fatto che dagli inizi del Cinquecento alla metà dellʼOttocento, a causa di quellʼirrigidimento generale del clima europeo conosciuto come “piccola era glaciale”, le carestie si susseguirono con la tragica, impassibile regolarità dei fenomeni naturali. Le più fiere furono quelle del 1529 (a cui tenne dietro una micidiale pestilenza), del 1569,

17-18. L’aratura con i buoi. Sassofeltrio, 1965 c.a

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LA CULTURA DEL CIBO TRA ROMAGNA E MARCHE

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1581, 1587, 1590, 1591, 1592. Né il giro di boa del secolo invertirà la situazione, giacché il 1606, il 1621 e il 1622 saranno anchʼessi anni di vacche magre. Le ultime grandi carestie di dimensione continentale saranno quelle dellʼanno 1800, del triennio 1815-1817 e del biennio 1846-1847. Delle carestie e, più in generale, delle carenze alimentari di buona parte della popolazione il trattato di Felici non fa pa28

rola. Per essere più precisi, riserva loro un fuggevole cenno esplicito al termine della digressione sulle misticanze («al tempo della carestia […] ogni cosa si raccoglie et ogni cosa – dicono – empie il corpo»8) e numerosi riferimenti indiretti là dove si enumerano i vari surrogati del pane di frumento ottenuti da farine di cereali inferiori, di legumi, di castagne e, scendendo sempre più giù lungo la scala degli


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ingredienti, di ghianda, che «hoggi ancora soccorre aʼ poveri bisognosi, li quali quando non hanno de meglio ne fanno pane, ma» chiosa Felici «molto spaventevole a vedere non che a gustare»9. Altrettanto, se non più “spaventevole”, sarà stato anche il pane confezionato con la radice essiccata e macinata dellʼaro, che Felici, in effetti, giudica «molto ingrato cibo»10. Alla radice dellʼaro accennerà anche lʼabate corianese

Giovanni Antonio Battarra nella sua Pratica agraria, laddove, per bocca del vecchio colono Gasparre, evocherà lo spettro del 1715, «che dai vecchi si è sempre chiamato lʼanno della carestia». Si vedevano allora – ricorda Gasparre – «le povere creature morirsi di fame» e le «povere famiglie di noi altri contadini andare a pascolarsi nel verno di radici dʼerbe; cavar le radici dellʼAro, o come qui si chiamano, del Zago,

19. Buoi all’abbeverata. Morciano, 1965 c.a

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20. Campo di frumentone a Saludecio

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o Pan di biscia, cuocerle, e senza conditura mangiarsele, ed altre farne focacce»11. La laconicità di Felici in tema di risorse alimentari e di condizioni dʼesistenza delle classi inferiori non è imputabile a scarsa sensibilità sociale: sensibilità che sarebbe anacronistico, del resto, pretendere da un gentiluomo del Cinquecento. È vero piuttosto che il vitto di quanti abitavano il territorio tra Romagna e Marche – e specialmente le fasce della pianura e della collina, assai ben irrigate e coltivate fin dal tempo dei romani – era considerato

sufÞcientemente vario e abbondante, perlomeno se posto a paragone con quello di altri, vicini territori. Va ulteriormente precisato che, con buona pace di chi si Þgura un progresso continuo e rettilineo, il regime alimentare del Cinquecento non era complessivamente peggiore di quelli dei secoli successivi, e per alcuni versi, anzi, li sopravanzava. Solo a partire dalla metà del Settecento si avvertiranno in Europa le prime avvisaglie di quella che Fernand Braudel ha


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chiamato “rivoluzione alimentare”. Essa accelererà progressivamente negli ultimi decenni del secolo XVIII, per esplodere nellʼOttocento12. Tra i fattori che concorreranno a migliorare lʼalimentazione, e soprattutto a renderla meno aleatoria, ci saranno le innovazioni tecniche in campo agricolo e le riforme legislative (le une e le altre, in Italia, più timide che altrove). Il principale agente della “rivoluzione alimentare” sarà però il successo degli «intrusi del Nuovo Mondo» (Braudel), e segnatamente del mais e della patata.

Presenti negli orti botanici già a metà Cinquecento (ma Felici parla del «frumentone o grano saracenico» per sentito dire e un poʼ a vanvera13), le piante americane cominciarono a essere coltivate nel riminese molto più in là. Giovanni Antonio Battarra ricorda che quarantʼanni prima – e cioè nel 1740 circa – i contadini riminesi piantavano non più di «una spica o due» di granturco «dʼintorno agli orti»: quanto bastava «per far otto o dieci volte la polenta»14. Ancora ai suoi tempi, benché le colture fossero «ubertose» e fruttassero «dei bei sacchi»,

21-22. Castagneto di monte Pincio, Talamello

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la produzione di mais si manteneva, in rapporto al grano, marginale. Quanto alle patate, esse erano ancora sconosciute, nel 1782, ai contadini di Battarra, che le scambiavano per tartuÞ: «Che cosʼè quella roba che avete portato dalla città questʼoggi nelle bisacce? Sono tartuÞ?» chiede Ceccone al padre (la Pratica agraria è scritta in piacevole forma dialogica). «No,» risponde il vecchio Gasparre «sono certe radici tuberose che 32

mʼha dato il padrone da piantare»15. Patate, per lʼappunto. Ventʼanni dopo, nel 1801, i più continuavano a non conoscerne nemmeno il nome. Se ne indignava Michele Rosa, che denunciava la «nostra vilissima inÞngardaggine nella volontaria mancanza delle patate»16. Se dobbiamo credere al patriarca novantenne Gugliemo Albini17, dellʼagiata famiglia di possidenti di Saludecio, la più impor-


IL REGIME ALIMENTARE DELLE CAMPAGNE 23. Spighe di grano

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tante delle piante americane, il mais, sarebbe stata introdotta nella valle del Conca ancora più tardi che in quel di Coriano. Sarebbe stato suo nonno Basilio, infatti, a seminare per primo il granturco in un vasto podere di San Giovanni in Marignano acquistato allo scopo nellʼanno 1800. La notizia va accolta con qualche riserva, dal momento che a Piandimeleto, nellʼinverno dello stesso “carestoso” anno, si preparava pane con metà grano e

metà frumentone18. Come che sia, nel giro di mezzo secolo il granturco, massicciamente piantato in collina, arriverà a contendere al frumento il ruolo di principale coltura di tutta la valle del Conca e diverrà lʼalimento di gran lunga prevalente, quando non esclusivo, della popolazione rurale. Lo attestano i dati della MonograÞa statistica, economica e amministrativa della provincia di Forlì19, pubblicata nel 1867, e 33


LA CULTURA DEL CIBO TRA ROMAGNA E MARCHE 24. La tradizionale teglia d’argilla fabbricata a MontetifÞ

24

le risposte – fornite da sindaci e funzionari comunali – ai questionari dellʼ“Inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola”, condotta negli anni 1876-1881 sotto la direzione del conte Stefano Jacini e meglio nota come “Inchiesta Jacini”20. Il mais è menzionato tra le “colture dominanti” a Gemmano, Misano, Mondaino, Montecolombo, MonteÞore, Montescudo, Morciano, Saludecio e San Giovanni in Marignano. Le risposte al ventesimo quesito dei questionari (“Condizioni Þsiche e sociali”), che tratta anche della «qualità e quantità» dellʼalimentazione dei contadini, certiÞcano che il granturco stava alla base della loro dieta in tutta la valle. «Prevale disgraziatamente il formentone nella quantità [giornaliera] di kg. 1,500 per individuo»21 recita testualmente il questionario di Gemmano; la «farina di granoturco in quantità sufÞciente è la principale qualità dellʼalimento»22 conferma quello di Montegridolfo; in quello di San Clemente si definisce «mediocre» 34

il vitto, quantitativamente sufficiente ma qualitativamente scadente per «troppo mais ed erbaggi»23; lo stesso si ripete in quello di Saludecio e si mette inoltre in relazione la dieta maidica con i «frequenti casi di pellagra»24; regime alimentare «scarso e per la maggior parte consistente in formentone, legumi ed erbe»25 si ribadisce in quello di Montecolombo. Al preponderante consumo di mais corrispondeva un consumo di grano giudicato ovunque insufÞciente. «I lavoratori si cibano di granturco, poco grano e di marzatelle»26 si legge ad esempio nel questionario di San Giovanni in Marignano. In quello di Mondaino si precisa che «nelle stagioni dʼinverno, primavera ed autunno» i contadini «si alimentano di granoturco e fave ed erbaggi»27; di frumento solo dʼestate, in occasione dei «grandi lavori»; anche il consumo di vino si restringe al periodo estivo. Il compilatore del questionario di Rimini ripete le stesse cose: «[I contadini] si alimentano quasi esclusivamente di cereali, di legumi, di erbe e di pesce fresco


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e salato. Fra i cereali, grano dalla metà di giugno alla metà di agosto, formentone in tutto il resto dellʼanno, salvo qualche eccezione»; «in quanto alle bevande,» aggiunge «usano principalmente il vinello, lʼacqua con lʼaceto, e il vino in giorni eccezionali e specialmente nelle epoche dei maggiori lavori»28. La memoria riassuntiva del circondario riminese, firmata da un non meglio iden-

tificato “Curio”, così sintetizza il regime alimentare della popolazione rurale: «Il contadino si alimenta ordinariamente di polenta e in tanta quantità da poter vivere sufÞcientemente. I più agiati riserbano un poʼ di grano per la minestra specialmente nei dì festivi. Della carne fanno pochissimo uso. Gli erbaggi e qualche poʼ di pesce sono ordinariamente il loro companatico»29. Buon moderato, “Curio” non incupisce di sicuro

25. Vigneto

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26. Grappolo d’uva Trebbiano

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le tinte; semmai, al contrario, tende a edulcorare un poʼ la situazione. Lo attestano le risultanze dellʼinchiesta sanitaria del 1899 che, benché non si occupi espressamente del vitto, deve fare comunque i conti con le malattie endemiche da sottoalimentazione e monoalimentazione: la tubercolosi, il gozzo, il cretinismo e innanzi tutto la pellagra, il “male della miseria”, spontaneamente associata, Þn dal suo insorgere, al consumo di mais30. La dieta del contadino è costituita da «schiacciate di farina di mais mal cotte con teglie di ferro che le abbrustoliscono di fuori senza cuocerle» risponde lʼufficiale

sanitario di Montescudo31; «polenta sotto forma di piadina o cotta nel caldaio con un poʼ di biade»32 conferma quello di Rimini. Non è questa la sede per un esame approfondito dello stato dellʼagricoltura nella valle del Conca dopo lʼUnità dʼItalia (che si differenziava ben poco, dʼaltra parte, dalla situazione delle fasce corrispondenti sia del riminese che del pesarese, geomorfologicamente omogenee). Possiamo parlare, in estrema sintesi, di un territorio impoverito dallo sfruttamento intensivo e da avvicendamenti irrazionali, non concimato, lavorato con strumenti arcaici e tecnologie rudimentali, e ridotto a una monotona teoria di campi di grano e mais, qua e là intercalati da Þlari di viti e alberi33. La grande maggioranza dei lavoratori della terra era costituita da mezzadri (60,6%, se prendiamo per buone le cifre riportate sui questionari) e da braccianti (20,9%); i coltivatori diretti erano poco più del 16% e i Þttavoli intorno al 2%. La famiglia contadina oscillava fra gli otto e i quindici componenti. Nelle campagne il regime alimentare abituale34 – come abbiamo visto – consisteva sostanzialmente di granturco: consumato perlopiù in forma di polenta, ma non di rado anche di piada: di sola farina di frumentone o di farina di grano e mais mescolate (piada arméscla, armés-cia o armìsta). È lecito supporre che la piada – che nei secoli precedenti era un succedaneo del pane a cui si ricorreva in due sole circostanze: tra unʼinfornata settimanale del pane e lʼaltra e soprattutto quando, in mancanza di farina di frumento, si era costretti a utilizzare ingredienti inadatti alla paniÞcazione (cereali inferiori, fave, fagioli, cicerchie, veccie, castagne, ghiande, crusca e peggio) – abbia avuto un forte rilancio nella seconda metà dellʼOttocento, a seguito della massiccia diffusione del mais, che non può essere paniÞcato in modo soddisfacente. È ben noto, infatti, che gli abitanti della bassa Romagna, inclusi i più indigenti, non hanno mai avuto in grande simpatia la polenta, che il padrone, nella Pratica agraria di Giovan-


IL REGIME ALIMENTARE DELLE CAMPAGNE 27. Gregge al pascolo

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ni Antonio Battarra, cerca, senza troppo successo, di propagandare presso i suoi riluttanti contadini35. Non potendo fare il pane con la farina di frumentone, costoro si saranno adattati a cavarne delle tortillas36. Il cardine del vitto della campagna era dunque il mais. Si faceva uso del grano, nel migliore dei casi, durante lʼestate, per risarcirsi dei pesantissimi lavori dei campi, e la domenica, per prepararsi un piatto di minestra. Il companatico consisteva in erbe, cipolla e legumi. Questi ultimi fornivano quasi il solo apporto proteico, dal momento che – come ammetteva il compilatore del questionario di Montecolombo – non si consumavano «mai o quasi mai carne, uova, latte»37. Anche il vino era la bevanda dei mesi estivi e dei giorni di festa. Né i questionari né la memoria riassuntiva dellʼInchiesta Jacini, che sulla coltura della vite sono quanto mai sbrigativi e generici, ci forniscono informazioni esaurienti sui vitigni del riminese. “Curio” si limita ad accennare che «il

sangioveto è quello che predomina, sebbene si vegga qua e là anche il trebbiano, lʼalbano, la canina, la vernaccia e poche altre varietà dʼuva»38. La relazione presentata da Tito Pasqui alla “mostra ampelografica”, tenutasi a Forlì nel 1877, elenca tra le uve rosse il sangiovese, lʼuva dʼoro, il vajano, il marzamino e la vernaccia nera, e tra le bianche lʼuva vacca (lʼodierno pagadèbit), il canino, la ribolla, la ribolla piccola o uva cimicina, il bianchello, la vernaccia bianca, il verdetto, il panzone, la malvasia e lʼuva piccinina39. Sicuramente assente sulle mense contadine era la carne bovina. Il minimo consumo di carne si restringeva al maiale, agli ovini e al pollame. Le razze bovine più diffuse nella Romagna centromeridionale tra Otto e Novecento erano due: la maremmana, importata per lʼappunto dalla Maremma toscana e allevata esclusivamente per il lavoro, e la marchigiana, proveniente «in origine dai mercati di Pesaro, Fano, Senigallia, Pergola»40, ecc., allevata anche per la carne. La principale razza di pecore 37


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28. Bue di razza romagnola alla Þera di San Gregorio. Morciano, 1962 29. Bovino di razza romagnola allevato a Saludecio

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era «la selvatica piccola proveniente dalla Carpegna»41, dal cui latte, considerato poco sostanzioso, veniva però ricavata una modestissima quantità di formaggio42. Oltre alle pecore «carpagnole», oriunde cioè della Carpegna, si allevavano quelle «morzanesi», ossia acquistate alle Þere di Morciano, dal latte ancor più debole43. Il numero delle capre era irrilevante. Due erano anche le razze suine prevalenti: la “nostrana” dal manto rosso e la toscana (o meglio aretina) dal manto nero; la prima era maggiormente diffusa in pianura, la seconda in collina e in montagna; fornivano entrambe dai 170 ai 200 chilogrammi di carne44. Le medesime razze bovine, ovine e suine, quasi tutte originarie delle Marche o della Toscana, venivano allevate nel pesarese. Stando alle cifre fornite dai questionari dellʼInchiesta Jacini, i Comuni della valle del Conca con più ovini erano Gemmano (1.000 capi), MonteÞore (790) e Mondaino (664); quelli con più suini erano ugualmente Gemmano (289 capi), Mondaino (241) e MonteÞore (240). Quel poco che conosciamo della cucina in uso nelle campagne tra Romagna e

Marche nel XIX secolo si restringe ai piatti festivi. Ne tratteremo più in là. Del cibo di tutti i giorni, invece, sappiamo poco o nulla, e più per insussistenza dellʼoggetto che per reticenza delle fonti. Propriamente parlando, infatti, non era neppure cucina, per quanto umile ed elementare, ma unʼingrata, precarissima arte di sostentarsi. La situazione non era gran che cambiata dalla Þne del Seicento, quando il sacerdote Girolamo Cirelli, in una satira sulle “malizie” dei contadini intitolata Il villano smascherato, aveva scritto con brutale franchezza che, «toltone il tempo di nozze, mangiano i villani come porci»45: e non alludeva certo alla quantità, bensì alla qualità del vitto. O forse, se era cambiata, la situazione era addirittura peggiorata. A distanza di settantʼanni dallʼInchiesta Jacini, il geografo Francesco Bonasera traccerà uno spiccio e fin troppo roseo sommario degli usi alimentari e culinari dei contadini del territorio a cavallo tra Romagna e Marche46, frutto di osservazioni condotte dal 1940 al 1952 nelle località di Cattolica, Gabicce, Gradara, Tavullia, Mondaino, Montegridolfo e Pesaro.


IL REGIME ALIMENTARE DELLE CAMPAGNE

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Nel 1953, anche se permanevano squilibri tra Nord e Sud e tra città e campagna, lʼalimentazione degli italiani era radicalmente mutata, quantitativamente e qualitativamente, non solo dalla Þne dellʼOttocento, ma anche dal periodo tra le due guerre: il consumo di carne bovina, di pollame e di pesce fresco era cresciuto, per esempio, di tre volte; di quattro volte il consumo di zucchero. Le colture prevalenti nellʼarea in esame erano ancora il grano e il mais; nonché, in minor misura, la barbabietola, il tabacco, gli ortaggi e la frutta47. Il numero dei pasti

era di due da novembre a marzo (consumati rispettivamente alle 10 del mattino e al tramonto) e di tre da aprile a ottobre (consumati di primo mattino, a mezzogiorno e alla sera). In occasione dei lavori più pesanti, e in particolare della mietitura, il numero dei pasti poteva arrivare al fatidico – e probabilmente mitico – numero di sette: servivano a fronteggiare giornate lavorative massacranti e interminabili, lunghe Þno a diciotto ore consecutive. Nella composizione giornaliera dei pasti prevalevano i farinacei (tra i 200 e i 250 grammi a testa): pane «di puro frumen-

30. Buoi di razza romagnola alla Þera di San Gregorio. Morciano, 1962

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31. L’aratura con i buoi. Sassofeltrio, 1965 c.a

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to confezionato in casa e cotto nel forno adiacente allʼabitazione colonica»48, piade «con uovo o senza uovo, con grasso di maiale e senza, anche di pasta lievitata»49, raramente la polenta, ma innanzi tutto la minestra, «ammannita con poca acqua, cotta in un ampio paiolo, a cui viene aggiunto il

condimento a base di prezzemolo, lardo e cipolla»50. Le proteine (carne e uova) oscillavano – a detta di Bonasera – tra 100 e 150 grammi a testa, e i grassi (lardo e olio dʼoliva) tra i 30 e i 40 grammi. Gli ortaggi più usati erano le patate, i cavoli, la zucca, i carcioÞ e le erbe di campo. Il loro consumo


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era maggiore nella fascia costiera che nellʼentroterra51. Francesco Bonasera, che con strenuo ottimismo definisce il regime alimentare dei contadini della bassa Romagna e delle alte Marche «né sobrio né modesto, contrariamente da quello indicato da una certa letteratura di maniera»52, decanta anche il vino, «generalmente di colore rosso e di una forte gradazione alcolica»53. Delio Bischi ricorda invece un vinello, «di co-

lore appena rosato» e di bassa gradazione, che «era chiamato […] bruschetto per il particolare sapore asprigno»54. Il consumo medio di vino era in tutti i casi di un litro a testa. Di particolare interesse, nellʼarticolo di Bonasera, sono le notizie sui piatti domenicali, delle feste solenni e dei grandi lavori estivi, nonché i cenni sulla norcineria: notizie e cenni che confermano quel che sappiamo da altre fonti.

32. Suino di Mora romagnola allevato a Saludecio

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LA CULTURA DEL CIBO TRA ROMAGNA E MARCHE

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LA CUCINA CONTADINA FERIALE E DEI GIORNI DI FESTA

Tre parole, a detta di Delio Bischi, riassumono la cucina contadina di tutti i giorni dei “bei” tempi andati: povertà, monotonia e autosufficienza. «Era lʼarte del sopravvivere,» egli scrive «e non del gusto e del piacere, come ora intendiamo il mangiare»1. Non tutti i cibi feriali, beninteso, erano poveri in egual modo, così come relativamente differenti erano le condizioni dei lavoratori della terra, che mutavano in meglio o in peggio a seconda che essi abitassero la fascia montana, collinare o di pianura, e che fossero coltivatori diretti, mezzadri o braccianti. In linea generale, tuttavia, il vitto quotidiano era Þnalizzato a riscaldare, a corroborare e ad acquietare la fame. Il numero dei piatti era modesto, gli ingredienti erano di solito quei pochi che già si avevano in casa e le tecniche di preparazione e cottura, a cominciare dallʼimperante “soffritto”, erano piuttosto rudimentali e ripetitive. La minestra, che un vecchio proverbio romagnolo deÞnisce la “biada dellʼuomo”, era – per dirla con Piero Camporesi – «il cardine del sistema alimentare»2 della bassa Romagna e della Marca confinante. La sfoglia – che nei rari giorni di vacche grasse era di farina di frumento e uova (ma circa la metà di quelle usate oggi3) – era di farina di granturco o armìsta, e tuttʼaffatto priva di uova, nei troppo frequenti giorni di vacche magre4. Con farina di grano e mais (metà e metà) erano confezionati i patacùc (in dialetto pesarese crèscʼ tajàt). La sfoglia,

stesa abbastanza spessa, veniva tagliata a quadrettoni. I patacùc – diffusi nella valle del Conca, in parte del Montefeltro e nel pesarese – si consumavano sia asciutti, con condimento di lardo e pomodoro, che in minestra di fagioli5. Con sola farina di frumento, ma generalmente senza uova, erano fatti i tajadlòt, tagliolini di sfoglia piuttosto alta caratteristici di San Giovanni in Marignano, la cui preparazione da parte di una giovane e prosperosa contadina Guglielmo Albini rievoca con maliziosa nostalgia6. Venivano conditi anchʼessi con

33. La campagna di MonteÞore, 1964

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34. Covoni di grano e ulivi. MonteÞore, 1964

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un sugo di pomodoro e pochissimo lardo (sugo deÞnito “matto” nel riminese perché privo, o quasi, di carne). A Cattolica si usava anche condirli con sugo di vongole (puracie) 7. Ugualmente senza uova erano

i “granetti” (o “frescarelli”), minuscoli gnocchetti afÞni ai primitivi “manfrigoli” romagnoli e parenti alla lontana del cuscus, che si ottenevano spruzzando acqua sulla farina; si usava condirli con sugo di


LA CUCINA CONTADINA

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pomodoro e pecorino o con mosto cotto8. Nellʼentroterra pesarese si dava il nome di “granetti” anche a gnocchetti di farina di frumento e mais conditi con un umile sugo di cipolla9. Di sfoglia di grano senza uova,

stesa piuttosto alta e tagliata a fettuccine sottili, erano i tagliolini “con la bomba” (in dialetto cattolichino tajulén sʼla bòmba; in dialetto pesarese tajulìn sa ʼl sgagg)10. Devono il loro singolare nome al fatto che il

35. La trebbiatura del grano. Gemmano, 1963

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36. Ulivi. MonteÞore, 1966

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sugo, costituito semplicemente da cubettini di lardo o di pancetta rosolati (o, peggio, da poco lardo soffritto), veniva gettato nel caldaio dove cuocevano i tagliolini, con effetti esplosivi. Francesco Bonasera – ricordavamo – accenna anche a un condimento per zuppe «a base di prezzemolo, lardo e cipolla»11.

Minestre povere, confezionate in origine senza o con pochissime uova e condite con sughi vegetali, erano inoltre i maltagliati al soffritto12, i “battutini” (manfrìghle; in dialetto cattolichino pistadén; nelle Marche “tocchetti”) in zuppa di fagioli13, le minestre con i ceci e i fagioli14, e un ampio assortimento di minestroni di verdura.


LA CUCINA CONTADINA

Piatti umili erano anche il pancotto, fatto con vecchi tozzi di pane sobbolliti a lungo in acqua e sale e conditi con aglio, un Þlo dʼolio e una spolverata di formaggio15, e soprattutto lʼ“acqua cotta”, una spartana zuppa di pane con acqua, sale, foglie di mentuccia, e talora cipolla e patate, cibo quotidiano dei pastori che arrivavano dʼestate dalla Maremma16. Alimento comune nelle case contadine, consumato quasi tutti i giorni durante lʼinverno, era la polenta, condita solitamente con un soffritto di lardo, e più di rado con conserva di pomodoro, con fagioli o con mosto cotto (saba)17. Con farina di mais, schietta o commista a farina di frumento, era confezionata anche la piada. La si man-

giava ben calda, accompagnata da erbe dei campi crude o cotte. Ripieni di erbe spontanee, e principalmente di “rosole”, erano i “cascioni”, di cui si conoscono differenti versioni, povere o relativamente ricche: con o senza strutto e con o senza uova nella sfoglia; con compenso di erbe dei campi o di spinaci; con o senza formaggio nel ripieno; cotti sul testo, in forno o fritti in padella18. Il pane veniva preparato in casa ogni sette-dieci giorni. La farina di frumento, setacciata la sera precedente, era posta nella madia di buon mattino, mescolata al lievito e intrisa con acqua salata tiepida Þno a formare un pastone voluminoso e pesante, che era lavorato lungamente e poi diviso in Þloni di poco più di un chilo lʼuno. Lievitati

37. Uliveto

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38. La vendita della porchetta alla Þera di San Gregorio. Morciano, 1963

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a dovere, i pani erano cotti per circa unʼora nel forno domestico, che sorgeva accanto alla casa colonica, a lato del portico. La confezione del pane era accompagnata da gesti simbolici, e in particolare dal segno della croce, che testimoniavano lʼaura sacrale che circondava il primo e più ambìto degli alimenti19. Era consuetudine preparare il pane nuovo prima che finisse quello

vecchio, onde evitare che il pane fresco inducesse nella tentazione dʼun eccessivo consumo20. Oltre che di carboidrati (minestre, polenta, pane e piada), la dieta contadina dei giorni feriali consisteva essenzialmente di vegetali: cipolle (crude, cotte sotto la cenere o arrostite in graticola), patate (cotte anchʼesse sotto la cenere, o in umido,


LA CUCINA CONTADINA

o lessate e condite con soffritto dʼaglio), cavoli, bietole e spinaci (lessati e soffritti), cardi (cotti in umido o in graticola), carcioÞ (cotti sotto la brace o, disponendo di un poʼ dʼolio dʼoliva, in tegame con aglio e prezzemolo), zucche (lessate o arrostite nel forno del pane) e pomodori (crudi o cotti sulla graticola con pangrattato, sale, prezzemolo e lardo). A settembre, in tutte le case coloniche, si usava preparare la conserva di pomodoro, che veniva stesa su assi e lasciata asciugare al sole. Più che cospicuo era il consumo di legumi (fagioli, ceci, piselli, fave), sia freschi che secchi. Tra gli alimenti proteici prevalevano largamente le uova. Il consumo di formaggio, utilizzato più come condimento che come companatico, era abbastanza limita-

to. Quello di pesce fresco non si estendeva oltre qualche chilometro dalla costa; più a monte si ricorreva al pesce conservato, di cui ci si riforniva nelle Þere: aringa, acciughe, tonno sotto sale (“tarantello”), baccalà e stoccafisso. I grassi animali (lardo e strutto) si imponevano sullʼolio dʼoliva. La carne – come abbiamo detto – era riservata ai giorni di festa e al periodo dei grandi lavori, ed era quasi esclusivamente di animali da cortile e suina. Onnivora ed efficientissima fabbrica di proteine, capace di trasformare in polpa saporita e in grassi pregiati il 35 per cento di quello che mangia (contro il 6,5 per cento dei bovini, per fare un raffronto)21, il maiale era lʼanimale da carne per eccellenza. Se i bovini, infatti, fornivano anche

39. La rasatura del pelo del maiale dopo la sua uccisione

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LA CULTURA DEL CIBO TRA ROMAGNA E MARCHE 40. Salame di Mora romagnola, ben stagionato e con i canonici lardelli

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latte, pelli e forza lavoro, e gli ovini latte e lana, il maiale forniva esclusivamente carne, da consumare sia fresca che conservata. Proprio per queste sue caratteristiche, nella casa contadina aveva un ruolo centrale, quasi da componente la famiglia: ciò che è testimoniato anche dai vezzeggiativi affettuosi (ninén, ninìn o ninòun) che gli venivano dati. Lʼuccisione del maiale, pur non potendo essere considerata, a rigore, un sacriÞcio rituale, si caricava tuttavia di una particolare attesa e solennità. Si diceva, per esempio,

che lʼanimale presentisse la propria morte con alcuni giorni dʼanticipo (ma forse sul suo nervosismo inßuiva anche il fatto che negli ultimi due giorni era tenuto a digiuno). La macellazione, inoltre, presentava aspetti fortemente drammatici e cruenti, dalle grida quasi umane della bestia al coltellaccio appuntito con cui la si colpiva al cuore o alla gola, dai potenti Þotti di sangue che uscivano dalle ferite (sangue che veniva subito raccolto per confezionare poi la “torta” per antonomasia, il migliaccio22) alla rasatura del pelo nella “conca”, con


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secchiate dʼacqua bollente, fino alla sospensione dellʼanimale a testa in giù e allo squartamento, con un taglio verticale dalla coda alla testa. Il periodo canonico per lʼuccisione del maiale andava dal giorno di SantʼAndrea (30 novembre) a quello di SantʼAntonio Abate (17 gennaio). In passato si cercava, nei limiti del possibile, di macellare il maiale, se non proprio per SantʼAntonio, qualche giorno prima o qualche giorno dopo. Giovanni Antonio Battarra testimonia in proposito che verso Natale, quando le

querce non fornivano più ghiande, i padroni regalavano ai loro contadini fave, crusca e altro, pur di arrivare al giorno fatidico23. Le parti più deperibili del maiale – stomaco, fegato, cuore, milza, polmone, cervello, rognoni, sangue – venivano mangiate il giorno stesso della macellazione o il successivo, in quellʼoccasione conviviale e festosa che un tempo era chiamata “nozze del porco” e che è stata descritta per la prima volta nel 1694, nellʼ“operetta ridicolosa” di don Girolamo Cirelli: «Sono i villani osservatori delle loro antiche usanze, tra le quali

41. Tagliatelle col ragù

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42. Ulivi e covoni di grano. MonteÞore, 1964

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sono le nozze del porco, dove intervengono tutti i parenti, e almeno i più congiunti. Le celebrano con la maggior lautezza che dalla loro povertà li venghi permesso, ed alle volte in simile occasione si mangiano più della metà del porco […], cibo del quale sono più che dʼogni alto ingordi. […] Nel partir che fanno i parenti, donano a ciascheduno una bragiola, o un poco di fegato,

o polmone del medesimo animale. Questa cerimonia tra villani è scambievole»24. Anche le orecchie, gli zampetti e le cotiche che non erano Þnite nei cotechini venivano consumati in fretta. La carne del maiale costituiva tuttavia la principale riserva di proteine, a cui attingere per il resto dellʼanno. Contrariamente alle malevole affermazioni di don Cirelli, se ne mangiava


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fresca solo una piccola parte e si provvedeva a conservare il resto sotto sale o come insaccato. Invece di stendere, a questo punto, un nudo e tedioso elenco di salumi, riserviamo un cenno al più umile degli insaccati, oggi quasi estinto, chiamato andrùghle nel riminese, bartlàc nel Montefeltro e “cirimbolo” nelle Marche25. Cuore, polmoni, canarozzi, milza, budella e ogni altro avanzo si salavano abbondantemente e si riponevano in un bariletto di legno per tutto lʼinverno; in primavera si tiravano fuori, si lavavano e si stendevano ad asciugare, ma non troppo; poi si macinavano, si condivano con sale, parecchio pepe e anicini, e si insaccavano. Si lasciavano stagionare per un paio di

mesi, appesi sotto il camino, dove si asciugavano e si affumicavano. Si consumavano sia in casa, a colazione, che nelle osterie, perché il loro sapore vigoroso e fortemente speziato reclamava il vino. Cibo delle osterie e delle fiere era il maiale in porchetta, caratteristica preparazione dellʼItalia centrale (Marche, Umbria e Lazio), la cui area di diffusione si estendeva a nord Þno al Montefeltro e alla valle del Conca. Le porchette più apprezzate erano quelle di MonteÞore e di San Giovanni in Marignano26.

43. Vigneti

La mensa contadina della domenica, perlomeno dagli anni Trenta del Novecento in poi, era quantitativamente più

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LA CULTURA DEL CIBO TRA ROMAGNA E MARCHE 44. Botti di vino

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abbondante (tre pasti in tutte le stagioni, e a mezzogiorno minestra e carne) e qualitativamente meno povera di quella feriale. Fino al secondo dopoguerra le minestre in brodo erano preparate più spesso di quelle asciutte, perché richiedevano meno condimento e vi si poteva anche inzuppare il pane; poi, gradatamente, prevarranno le minestre asciutte. Il brodo era di pollame o di carne ovina (pecora, castrato o agnellone); raramente di carne bovina. Vi si cuocevano i quadrucci, i tagliolini e talora i passatelli27, nella valle del Conca piatto canonico dellʼEpifania e nelle campagne riminesi del giorno di Pasqua. Tra le minestre asciutte primeggiavano gli gnocchi di patate, nel cui impasto non entravano le uova e che venivano conditi con un sugo di lardo e pomodoro

(o conserva fatta in casa)28. Con lo stesso sugo, o con uno molto simile, si condivano anche gli “strozzapreti” (bighle in “marchignolo”)29. Piatto caratteristico dellʼarea di confine tra Romagna e Marche, ma specialmente del versante pesarese, erano le tagliatelle con sugo di fagioli30, dai contadini chiamate “maccheroni” (macaròn). Al posto della minestra, nelle rare circostanze in cui si disponeva degli ingredienti necessari, venivano consumati i fagioli con le cotiche31 o con lʼosso di prosciutto, che poteva essere anche vecchio di due o tre anni e perciò rancido. La carne era essenzialmente quella degli animali da cortile e la si cucinava perlopiù lessata, arrosto o in umido. Col sugo della carne in umido, che si preparava abbondante, si usava anche condire la pa-

45. La vendemmia

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LA CULTURA DEL CIBO TRA ROMAGNA E MARCHE 46. Pranzo in campagna dei conti Battaglini, probabilmente a Coriano, 1910 c.a

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stasciutta. Nel Montefeltro era chiamata “in potacchio” la cottura in tegame in un sugo piuttosto ristretto di olio (o lardo, o strutto), vino, aglio, prezzemolo, rosmarino, sale e pepe; vi si cuocevano le carni di pollo o di coniglio32; più raramente di castrato o dʼagnello. La “carne grossa”, cioè bovina, veniva consumata eccezionalmente, in genere lessata. Piatto delle grandi occasioni (matrimoni e prime comunioni) era la “pasticciata”: taglio pregiato di manzo o di

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vitellone steccato con lardo e chiodi di garofano, aromatizzato con buccia di limone e stracotto a fuoco lento nel vino rosso33. Contorno di rigore della “pasticciata” erano le bietole lessate e soffritte. Uno speciale regime alimentare e gastronomico accompagnava i grandi lavori. Per la trebbiatura le donne distribuivano al mattino, insieme al vino in cui sarebbero stati inzuppati, il ciambellone (di forma rotonda e col buco al centro) e i maritoz-


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zi34, piccoli pani dolci con lʼuva passa, ben cotti. Col ciambellone e il vino si festeggiava anche il traguardo dei cento quintali di grano, annunciato dal suono della sirena e dagli spari del capoccia (arzdór). Il pranzo si consumava alla fine della giornata di lavoro. Si desinava ordinariamente con tagliatelle – o riso – con sugo di rigaglie e due piatti di carne, arrosto o in umido:

il primo di pollo, oca o tacchino (la carne del coniglio era considerata troppo magra e delicata) e lʼaltro di carne grossa, accompagnati da pane e insalate miste. Se il lavoro si protraeva troppo a lungo, fra la colazione e il pranzo veniva servita la merenda, con pane, salumi, formaggio e vino. Tra i cibi che il padrone offriva ai suoi mezzadri il giorno della vendemmia Guglielmo Albini

47. La preparazione dei cappelletti, 1960 c.a

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LA CULTURA DEL CIBO TRA ROMAGNA E MARCHE 48. Il bollito natalizio accompagnato dal savór

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Jr. cita i fagioli con le cotiche, cotti per una notte intera nel forno del paese, e la saracca in graticola (gradlèda dʼsaraghìna)35. I contadini, per altro, quando i padroni li andavano a visitare accompagnati dai loro Þgli, contraccambiavano con rustiche quanto appetitose merende, particolarmente apprezzate dai ragazzi di città. Nina Rimbocchi, nel 1914, menzionava una speciale piada arricchita con «del latte o del burro e delle uova», «cibo dispendioso e gradito anche allo stomaco più delicato». «I bambini dei ricchi» aggiungeva «ne sono ghiotti e i contadini non si dimenticano mai di offrirla»36. Il vecchio Guglielmo Albini, nel 1934, rievocava dal canto suo le

«numerose e allegre merende» dei «giovani della famiglia» a Monte Ceccolino, con «un buon tegame dʼuova e lʼimmancabile aromatica insalatina di campagna»37. Alle feste solenni del ciclo dellʼanno, così come a quelle del ciclo della vita, erano associate una o più preparazioni caratteristiche. Il marignanese Carlo G. Vanni abbozza addirittura un “calendario gastronomico”, cioè una vera e propria lista di piatti festivi38. Lo integriamo con le annotazioni di Francesco Bonasera39. A Natale, in tutta la Romagna e nel pesarese, in campagna e in città, tanto per i ricchi quanto per i poveri, erano e sono tuttora dʼobbligo i cappelletti in brodo. Nel


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territorio di cui ci occupiamo – come del resto a Rimini, a Pesaro e nella Repubblica di San Marino – il compenso dei cappelletti prevede in genere, oltre ai formaggi e agli aromi, tre tipi di carne: petto di cappone, magro di maiale e magro di vitello o di manzo. Nella versione ottocentesca di casa Albini, che coincide quasi alla lettera con quella coeva di casa Mattei Gentili40 (mentre si allontana notevolmente da quella artusiana41), sono prescritti il petto di cappone e il midollo di bue. In entrambi i ricettari sono inoltre presenti i cappelletti “di magro”, cioè senza carni, da consumare asciutti.

Tra i cibi natalizi Vanni cita anche il lesso di cappone e due dolci: il “latteruolo” o “lattaiolo”42 (casadèl), che i contadini usavano portare al padrone la vigilia di Natale, e la crostata di mandorle. Un altro dolce natalizio tradizionale, il “miacetto”43 (miacètt), era ed è preparato nellʼarea circoscritta che comprende i comuni di Cattolica, San Giovanni in Marignano, Gabicce e Gradara. Il dolce è confezionato con cruschello di grano (rumgiulén), miele, frutta secca (dʼobbligo le mandorle e lʼuvetta; facoltativi i pinoli e le noci), scorze dʼarancio e di limone, spezie e olio dʼoliva. Il “miacetto” – che era anche chiamato, non

49. Formaggi pecorini stagionati in foglie di noce

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50. Il “miacetto”, il tradizionale dolce di Natale preparato a Cattolica, San Giovanni in Marignano, Gradara e Gabicce

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per caso, “migliaccio del padrone” – è una preparazione di non comune opulenza afÞne al panforte, al panpepato, al certosino e ad altri dolci di ascendenza medievale e rinascimentale. È molto dubbia, perciò, la sua estrazione contadina, anche se il legame col territorio è certiÞcato dallʼuso del cruschello, dellʼolio dʼoliva e soprattutto delle mandorle, un tempo prodotte abbondantemente – come ricorda Vanni44 – dai terreni «ricchi di scheletro» di San Giovanni in Marignano. Un dolce natalizio afÞne ma meno ricco, fatto con farina, latte, olio dʼoliva, noci e uvetta, è la “torta di Natale” di Sassocorvaro, Macerata Feltria e zone limitrofe45.

Nel giorno dellʼEpifania era consuetudine preparare i passatelli e le frittelle (per Bonasera anche la «crescia di pasta di pane»46, cioè la spianata); a carnevale le frappe e le castagnole; a Pasqua le uova benedette, il ciambellone, i “bracciatelli”47 (braciadèl) e la pagnotta o “crescia” pasquale48, confezionata con uova, formaggio, pepe e zafferano o cartamo (Carthamus tinctorium), che i contadini coltivavano appositamente in «limitati appezzamenti presso la casa colonica»49; per lʼAscensione (8 maggio) la giuncata, latte stretto con caglio vegetale (la cosiddetta “erba cascia”); per i Santi e i morti (1 e 2 novembre) la “piada dei morti”, una focaccia fatta con lʼimpasto


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del pane, frutta secca e mosto50; per San Martino (11 novembre) caldarroste e vino novello; per la vigilia di Natale, inÞne, la minestra con i ceci aromatizzata con aglio e rosmarino, e condita con un filo dʼolio dʼoliva: preparazione associata alla vigilia già al tempo di Costanzo Felici51. Il pranzo più importante e quindi più lauto del ciclo della vita era sicuramente quello nuziale52. La prima fonte che ne parla, lʼoperetta di don Girolamo Cirelli (1694), asseriva che i cibi serviti nei banchetti di nozze dei contadini, che curavano «la quantità, e non la qualità della robba», sarebbero stati «grossolani, carne di bue, vitello, e pollami, ma il tutto poco cotto e poco stagionato»53. È interessante notare che in unʼepoca nella quale i ceti superiori amavano sottoporre le carni a frollature interminabili, al limite della decomposizione, i contadini facevano invece uso di carni di fresca macellazione, in largo anticipo sullʼevoluzione del gusto.

Per quanto riguarda i piatti che venivano cucinati per il pranzo nuziale, Eugenio Cavazzuti così scriveva nel 1934: «Il menù è sempre uguale: cappelletti, lesso e arrosto, poi unʼinÞnità di dolci di tutte le sorte, parte fatti in famiglia e parte regalati da parenti ed invitati. Vi è una grande abbondanza nel fare le provviste per il mangiare, sicché quasi sempre rimangono cappelletti e carne per almeno altri due giorni»54. Lʼalfonsinese Cavazzuti si riferiva alle usanze della Romagna settentrionale; non molto differenti saranno state quelle del territorio a cavallo fra Romagna e Marche. Graziano Pozzetto, che ha ricostruito schematicamente (e in via ipotetica) un banchetto di nozze “povero” del Montefeltro55, ha elencato salumi, crostini con rigaglie e sottaceti; poi quadrucci, tagliolini o passatelli in brodo (o, in alternativa, tagliatelle o lasagne); poi, ancora, carni lessate e arrostite; inÞne ciambelloni, creme e vini liquorosi.

51. Coloni di San Giovanni in Marignano a tavola. FotograÞa di Giovan Battista Spina, 1888

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Un pranzo piuttosto abbondante e ricco, anche se consumato solo con gli stretti familiari, era quello della Cresima e della Prima Comunione. Per un caso fortunato si è conservata la lista dei piatti preparati nel 1905, per festeggiare una Prima Comunione, da una famiglia di Saludecio, i “Baròzz”56, evidentemente benestanti. Essa comprendeva: prosciutto crudo e crostini con rigaglie di pollo; tajadlòt e strozzapreti con ragù di salsiccia; galletto in umido con pomodori e cardi fritti; formaggi pecorini misti; crema con savoiardi. A Cattolica e nella valle del Conca il dolce canonico della Cresima erano le “ciaramìne” (ciaramén)57, versione dolce dei “bracciatelli”: sono infatti ciambellette di forma circolare di farina, uova e zucchero, passate prima in acqua bollente e poi al forno, e bagnate con alchermes.

52. Veduta panoramica di Saludecio, 1966

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LA CUCINA DEI NOBILI E DEI BORGHESI NELLE LETTERE DI LANCISI E NEI RICETTARI DOMESTICI OTTOCENTESCHI

Se la cosiddetta “lettera sulle insalate” di Costanzo Felici, di cui abbiamo parlato diffusamente in un precedente capitolo, è fonte privilegiata per quanto riguarda gli usi alimentari e culinari della popolazione rurale tra Romagna e Marche di alcuni secoli fa, documento chiave sulla cultura gastronomica dellʼaristocrazia e dei notabili dellʼantico regime sono le quattro Lettere inedite1 di Giovan Maria Lancisi, ritrovate da Tito Cicconi nella Biblioteca Albani e pubblicate dallo stesso nel 1841. Era il mese di giugno del 1705. Reputatissimo archiatra, ossia medico personale di Sua Santità Clemente XI, Lancisi si concedeva un week-end di quattro giorni nel Montefeltro in compagnia dellʼabate Annibale Albani, nipote del Papa, del cardinale Tanara, Legato di Urbino, e di una quindicina di prelati e gentiluomini. Compatibilmente con «i pericoli e le difÞcoltà della strada, anzi deʼ dirupi, deʼ fossi, deʼ greppi»2, con la viscidità dei «sassi lastricati […] di sapone» e con la scomodità del mezzo di trasporto (un solido e paziente, ma ossuto mulo), era, il suo, un viaggio di piacere in un paesaggio scabro e suggestivo, Þtto di testimonianze storiche e accarezzato da unʼaria pura e sottile, profumata di erbe aromatiche. Muovendo da Urbino, Lancisi toccava, trotticchiando, prima Sassocorvaro e poi Macerata Feltria, e di qui, procedendo in salita, affrontava il «gran monte»3 della Carpegna; quindi, di seguito, Sasso Simone, Scavolino, lʼappartata Pennabilli, lo

strapiombo ventoso di San Leo e la piccola Repubblica di San Marino, per tornare inÞne, passando per Cattolica, a Urbino. Persona cólta, curiosa e di spirito, Lancisi prendeva nota dei luoghi e degli incontri, e la sera, dopo essersi ritirato, scriveva lunghi e vivaci resoconti in forma di lettera. Che poi, tornato a Roma, riordinò e rivide. Autorità nei cinque sensi4, e nel gusto in ispecie (Tommaso Alghisi gli aveva dedicato, come a colui che ne sa più di chiunque altro, i suoi Discorsi anatomici sopra la lingua), Lancisi non trascurava di dar conto, oltre che delle «cose che sono oggetto dellʼocchio», di «quelle che appartengono alla bocca»5, e a ogni tappa tornava a stupirsi per lʼabbondanza e la scelta dei cibi che gli venivano offerti; e laddove il ventre, allenato a dovere, resisteva impavido, cedeva la lingua: «Io […] mi trovo impoverito di forme da replicatamente descrivere la sontuosità deʼ pranzi avuti in questo viaggio»6. La serie delle scorpacciate cominciò in tono minore con il pranzo offerto a Sassocorvaro, nella propria casa di campagna, dal dottor Alessandro Boni: pranzo «famigliare, ma però pulito, presto, e […] copioso di cibi»7. Non è impossibile che tra le semplici preparazioni servite agli illustri ospiti vi fosse la “baggiana” di fave, tuttora cucinata a Sassocorvaro8, magari nellʼaristocratica versione con olio dʼoliva di prima spremitura, porri e uvetta lodata da Costanzo Felici9. Sottolineata, en passant, lʼeccellenza dei vini di Macerata Feltria10, apprezzati anche 65


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53. Gregge al pascolo

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dalla corte urbinate, e decantata «lʼaria tanto pura e sottile» di Pietrarubbia, la fertilità della terra e la ricchezza delle erbe balsamiche e medicinali «che naturalmente vi spuntano» – «rute capraggini, scordii, centauree, mente, timi e serpilli»11 – Lancisi si profonde in elogi per il banchetto offerto dal conte di Carpegna, che «fu doppio, perché fu di carni e di pesce; e di che pesci! e di che carni!», e «tutto era buono e tutto ben ordinato», e non mancarono, in fundo, «i dolci, le cioccolatte e i rosolii»12. Lo sfarzoso pranzo apparecchiato dal principe di Scavolino fu «di quattro portate, con due scoperture di tovaglie» e «un copioso dessert con sue canestre e sciroppature le più rare, con vini i più celebri

dellʼEuropa ed in sin condotti dalle Canarie»13. Alla tavola del castellano di San Leo, dove fu servito anche un gigantesco storione, «mangiammo più assai e stemmo più allegri che in ognʼaltra delle passate» abbuffate – assicura Lancisi –, perché vi si sposarono «due cose difficilissime a congiungersi: perfetta rarità delle vivande e somma conÞdenza ed amore con lʼospite»14. La conclusione trionfale del viaggio e delle strippate fu, il venerdì, il pranzo di vigilia in casa del capitano Belluzzi, a San Marino, dove «gli storioni, le linguattole e le triglie» furono serviti senza economia, «con tutti gli aggiunti ed intermezzi che neʼ giorni di magro sogliono uscire dalle industriose mani deʼ cuochi»15. La mattina


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del giorno successivo, a Borgo, il capitano Belluzzi volle dare commiato alla comitiva in partenza con un rinfresco di «cioccolata con le pappardelle»16 e vino «prezioso» servito a temperatura di grotta. «Io mi aspettavo fra quelle montagne» confessa Lancisi «di avere una volta a mangiare, se non con semplicità pastorale, almeno senza […] tanti artiÞci […]. Ma ci convenne di esser condotti ad una tavola sibaritica, in cui Lucullo non avrebbe fatto comparire di vantaggio»17. Fra quei greppi del Montefeltro, in effetti, resisteva una tradizione di cucina signorile che aveva avuto quale terreno di coltura e centro di irradiazione la corte federiciana di Urbino. Nel 1475, a Rimini, in occasione delle nozze di Isabetta, la Þglia appena decenne di Federico, con Roberto Malatesta “il MagniÞco”, era stato dato un banchetto di due servizi di credenza e tre di cucina che era costato più di trentamila ducati e in cui si erano consumati, tra lʼaltro, 8.600 paia di polli, 45.000 uova, 180 prosciutti, 578 «salzizzoni bolognesi», 40 forme di parmigiano, 13.000 arance e 120 botti di vino18. Regista tanto dello spettacolare pranzo quanto del matrimonio tra la sua acerba Þglioletta e il Þglio bastardo del suo mortale nemico Sigismondo, scomparso nel 1468, era Federico da Montefeltro, che si era degnato di prestare, per lʼoccasione, i suoi due cuochi Giovanni e Pietro. Un mese prima, a Pesaro, Federico aveva presenziato alle nozze di Costantino Sforza con la dodicenne Camilla dʼAragona, festeggiate con un madornale banchetto di dodici servizi, di cui il decimo consisteva in un intero vitello arrosto rivestito con la pelle dʼun leone19. Protettorato del ducato di Urbino, la piccola corte di Pesaro ne accettava anche il patrocinio gastronomico. Lʼeredità culinaria di Federico lambirà in qualche modo anche le tavole periferiche e plebee. Se ne trovano tracce consistenti – come abbiamo visto a suo luogo – nel trattato di Costanzo Felici. È curioso ed eloquente anche lʼaneddoto che segue.

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Nellʼagosto del 1744 un altro viaggiatore per diporto, lʼabate Giovanni Antonio Battarra, batteva a cavallo «i viottoli, le siepi, i fossi e le campagne arate» del Montefeltro, e gli si spalancavano davanti «certe pianure deserte, che non si vedea orma né di strada né di sentiero, e solo si vedea qualche scibala di mulo»20. Il giorno, intanto, svaniva, e Battarra, timoroso di perdersi, bussava alla porta di «una casipola di due Þnestre di facciata»21 in località Palazzo, nellʼalta valle del Marecchia, dove veniva accolto ospitalmente e rifocillato con «una zuppa di castrato che aʼ miei giorni non ho mangiato il più squisito», annafÞata da «una zucca di vino che aʼ miei giorni non ho bevuto né il più squisito né il più potente» e seguìta da

54-55. Il castello di Torricella; i Mattei Gentili furono reggitori dell’antico Comune

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«un pollo arrosto freddo»22, formaggio e frutta. Non oseremmo sostenere, beninteso, che quella fosse la normale dieta dei valligiani del Montefeltro. Seppur montanaro, il generoso padrone di casa era – assicura Battarra – «un riccone di queʼ contorni»23, ed era anche reduce da un pranzo nuziale: il che spiega lʼinconsueta abbondanza della sua dispensa. Testimonianza senza dubbio tarda e modesta, ma nientʼaffatto superflua, di questa tradizione culinaria signorile è la raccolta di ricette a uso privato che fu appuntata su un quadernetto da unʼanonima signora feretrana di metà Ottocento e che si conserva nella sezione dei manoscritti della Biblioteca Gambalunghiana di Rimini24. Il ricettario, che non ha particolari pretese gastronomiche e pregi letterari, è pervenuto alla Gambalunghiana nel 1958, insieme con i libri, gli spartiti e le carte domestiche del musicista e bibliofilo Guido Ubaldo Mattei Gentili25, allievo di Mascagni e segretario dellʼAccademia di Santa Cecilia. È perciò assai probabile che lʼautrice del ricettario appartenesse alla famiglia dei Mattei Gentili, reggitori dellʼantico Comune di Torricella di Pennabilli e proprietari del castello. Le ricette superstiti della raccolta sono 53, fra le quali 3 di crostini, 6 di minestre, 6 di fritti e ben 35 di dolci. La schiacciante preponderanza di dolci e dolcetti, oltre a manifestare chiare inßuenze toscane e centroitaliane, rimanda ai ricettari dei conventi di clausura ritrovati e pubblicati da Sebastiana Papa26, anchʼessi perlopiù ottocenteschi. Può darsi che lʼignota compilatrice abbia scelto di non registrare le preparazioni dʼuso comune, ma solo quelle cucinate in speciali circostanze, come i piatti dei giorni di festa e, per lʼappunto, i dolci; non si può neppure escludere, tuttavia, che la raccolta sia dʼorigine monastica (potrebbe esserne un indizio anche la ricetta della “pasta di mandorle ad uso di Subiaco”27, sede dei monasteri di San Benedetto e di

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Santa Scolastica). È evidente, in ogni caso, che il territorio a cavallo tra Romagna e Marche esprimeva in passato – e tutto sommato continua a esprimere28 – una “cultura dei dolci” (conserve, sciroppi, vini passiti e vini di frutta inclusi) complessivamente superiore a quella romagnola. Il ricettario ha caratteri ibridi e arcaizzanti. Se la presenza dei cappelletti, nella doppia versione “di grasso” e “di magro”29 (ovvero con e senza carni), situa la raccolta in territorio culturalmente romagnolo, altri piatti rimandano invece alle tradizioni toscana e marchigiana. Ci riferiamo ai crostini30, alla “focaccia o pizza”31, alla “pizza di Pasqua”32 (assai simile allʼodierna pagnotta pasquale di Pennabilli), alla “pinoccata”33, alla “nociata”34, alle “ciambelle collʼacqua”35, ai biscottini con le mandorle36.

Oltre la metà dei piatti contenuti nel ricettario è caduta in disuso o ha subìto trasformazioni tanto radicali da snaturarsi completamente. La ragione principale di questa alta “mortalità” sta nel conservatorismo, per non dire nel passatismo, della cucina che la raccolta documenta. Tra il 1750 e il 1850, prima in Francia e poi in tutta Europa, ebbe luogo una vera e propria “rivoluzione del gusto”37. La cucina dei ceti superiori, incentrata sulle carni, sulle frollature interminabili, sulle cotture plurime, sullʼabuso delle spezie, sui sapori ibridi (il dolce-salato e il dolce-forte) e, in deÞnitiva, sul camuffamento programmatico dei sapori naturali, fu gradualmente soppiantata da una cucina che andava scoprendo gli alimenti freschi, le verdure, le erbe aromatiche, i conÞni netti tra i sa-

56-57. La corte del cinquecentesco palazzo Albini di Saludecio, già dei Della Rovere

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pori, le salse delicate. Ebbene, il ricettario feretrano include vari piatti agrodolci e dolce-salati, e, ancora più numerosi, piatti ben speziati. Nel composto dei “crostini di prosciutto”, per esempio, entrano, oltre al prosciutto, «[uva] passerina, pignoli, pane grattato, zucchero, cannella ed aceto»38; sui “crostini di alici”, bagnati con acqua e succo di limone, «si sbuffa del[lo] zucchero da tutte le parti»39 e alla Þne si spolverizzano con cannella; lo zucchero è anche tra gli

ingredienti degli “gnocchi di latte”40, della “dose per le carote”41 (una salsa agrodolce arricchita con pinoli, semi di anice e cannella), del “fritto alla genovese”42 e, ovviamente, della “pasta frolla pel pasticcio”43. Le cosiddette “spezie dolci”, a cominciare dalla cannella, sono presenti in più della metà delle preparazioni, dai cappelletti sia “di grasso” che “di magro” agli “gnocchi alla veneziana”44, dal “fritto di regaglie”45 a gran parte dei dolci.


LA CUCINA DEI NOBILI E DEI BORGHESI

È quel che resta di una plurisecolare tradizione gastronomica. Sono gli ultimi spiccioli di un grande e solido patrimonio culinario – quello della cucina signorile e nobiliare dʼantico regime –, e sono destinati anchʼessi a disperdersi nel giro di qualche decennio. Presenta significativi tratti in comune con il ricettario di Torricella di Pennabilli, nella valle del Marecchia, un altro ricettario a uso privato, pressoché coevo, di Saludecio, nella valle del Conca. Si tratta di un quadernetto, anchʼesso di mano sconosciuta, di proprietà della famiglia Albini, intitolato un poʼ pomposamente Il Codice

di Cuccina [sic]. È stato pubblicato una decina dʼanni fa da Luisa Bartolotti46. I fasti conviviali (e non solo) degli Albini, ricca famiglia di proprietari terrieri di Saludecio, furono rievocati nel 1934 dal lucidissimo patriarca novantenne Guglielmo, volontario garibaldino nel 186647. Erede di dodici poderi, suo nonno Basilio (17741851) li aveva quintuplicati nel corso della sua esistenza, pur senza deßettere da uno stile di vita signorile e diciamo pure brillante48. Quasi non passava giorno, infatti, senza che Basilio Albini avesse qualche ospite a pranzo o a cena49. Il 1° di luglio, per la festa del Preziosissimo Sangue di Gesù, egli era solito invitare «le autorità civili e

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60. Orci e giare di fabbricazione locale. MonteÞore, 1966

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religiose e numerosi altri cittadini ad un sontuoso pranzo di quaranta e più portate, […] fra le quali molte di pasticceria e scelti pesci». Tra questi, «uno colossale di circa venti chilogrammi che, prima di servirlo,

faceva bella mostra di sé nel centro della grande tavola»50. Il pesce da primato, acquistato probabilmente a Pesaro, richiama alla mente quelli, altrettanto eccezionali, offerti a Lancisi nel Montefeltro.


LA CUCINA DEI NOBILI E DEI BORGHESI 61. Il ripieno dei cappelletti

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Dalla tenuta di Monte Ceccolino, del resto, arrivava quotidianamente ogni ben di Dio: pane fresco, polli, uova e perfino i limoni che crescevano su dodici grandi piante51. Tra i numerosi servi di casa Albini cʼera anche il cuoco Tapòn, al secolo Giacomo Maroncelli, a cui nonno Basilio «passava gli ordini […] per la tavola della giornata»52 e che a Natale confezionava «cappelletti in abbondanza»53. Tapòn – che è ritratto da Guglielmo mentre sorveglia la «capace pentola per il lesso e il brodo»54 in una vasta cucina che ricorda quella di Fratta – preparerà lʼultimo grande pranzo nel 1853, due anni dopo la morte di Basilio Albini55. La raccolta comprende 56 ricette: 11 di minestre, 6 di fritti, 3 di carni, 7 di salumi e afÞni, 5 di salse, 19 di dolci e 5 di “cose diverse”. Sebbene le minestre siano un poʼ più che nel ricettario feretrano e i dolci un poʼ meno, il rapporto tra i diversi tipi di preparazioni non cambia. La struttura delle due raccolte, in altre parole, è la stessa e ri-

manda a un medesimo proÞlo gastronomico. Alcuni piatti del ricettario di casa Mattei Gentili ritornano anche in quello di casa Albini, benché le denominazioni a volte divergano: la “focaccia o pizza” del primo è strettamente afÞne alla “crescia di Pasqua” del secondo, per esempio, e i “giglietti” assomigliano molto ai “biscottini”. Coincidono invece di nome e di fatto i cappelletti di grasso e di magro, il fritto di pasta bignè, la “bocca di dama”, la “pinoccata” (o “pinocchiata”), la crema e la pastafrolla. La presenza delle stesse preparazioni nelle due raccolte consente interessanti confronti. Prendiamo proprio i cappelletti di grasso. Il ricettario di Saludecio prescrive, come carni, il petto di cappone e il midollo di bue; leggermente più ßessibile, il ricettario di Torricella ammette, oltre al petto di cappone, quello «dʼaltro pollo» e «lo schienale di vitella» al posto del midollo. La cannella e la noce moscata sono indicate da ambedue le raccolte; quella di casa Albini aggiunge una terza spezia: il pepe garo73


LA CULTURA DEL CIBO TRA ROMAGNA E MARCHE 62. L’aròla

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fanato. Gli altri ingredienti del compenso, comuni a entrambi i ricettari, sono il parmigiano e le uova. Le due versioni sono perciò molto simili fra loro, mentre si allontanano notevolmente da quella artusiana (come anche da quelle odierne del riminese e del pesarese), soprattutto per lʼassenza della ricotta e altri formaggi freschi. Sono, dei cappelletti, varianti più saporite, più speziate, più ricche e senza dubbio più antiche. Molte delle considerazioni fatte a proposito della raccolta feretrana valgono anche per quella saludecese. Come ha messo bene in evidenza Luisa Bartolotti, anche questʼultimo ricettario guarda più al passato che al futuro: per lo zucchero che entra in buona parte delle preparazioni salate, dai “ravioli di formaggio”56 alla “torta

di patate”57, dal “marinato di carne”58 alla “lingua in addobbo” (cioè guarnita)59, dalla “salsa da mettersi sopra le ova”60 alla “salsa verde”61; per la cannella e le altre spezie, utilizzate senza economia e un poʼ dovunque, nella “zuppa da vigilia”62 come nella “minestra di cervelli”63, nei “cottichini”64 come nella “conserva di pomi dʼoro”65; per la sopravvivenza di cibi venerandi quali la “crostata”66 (che non è lʼodierna torta di pastafrolla e marmellata, bensì una sorta di millefoglie con o senza frutta), le “pappardelle”67 (che sono uno sformato di uova abbondantemente zuccherato), i “tortelli”68 di riso, mandorle, canditi e pinoli, o il “rach”69, bevanda ricostituente a base dʼorzo tostato, cacao e mandorle amare; per la conservazione, infine, del vecchio sistema di pesi, misure e valori monetari, dalla libbra (g. 338,8) allʼoncia (g. 28,23), allʼottava (g. 3,53), alla foglietta (l. 0,31), al soldo, al baiocco. La raccolta di casa Albini, rispetto a quella di casa Mattei Gentili, mostra minori influssi toscani e più sensibili influenze marchigiane: la ricetta della “crescia di Pasqua”70, per esempio, corrisponde sostanzialmente a quelle tuttora in uso nella provincia di Pesaro71, salvo lʼimpiego dello zafferano, tradizionale della valle del Conca72. Il salame di fegato73 non ha cittadinanza romagnola, ma marchigiana. Come osserva anche Luisa Bartolotti74, lo stesso lessico culinario (“crescia”, “cirimbolo”, “grascioli”, “muscinare”, “erto”, eccetera) rimanda alle Marche. Non si può certo pensare che il Codice rispecchi la cucina quotidiana della pur agiata famiglia Albini. I piatti che vi sono contenuti non rappresentano la regola, ma lʼeccezione, e proprio per questo – ossia per fissarne la formula e conservarne la memoria – ne furono messe per iscritto le ricette. Ecco perché mancano quasi del tutto preparazioni semplici ed economiche, che anche una serva analfabeta sapeva cucinare “a memoria”, mentre abbondano i dolci, le minestre più elaborate, i fritti,


LA CUCINA DEI NOBILI E DEI BORGHESI

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le salse e, insomma, i cibi dei pranzi “di rappresentanza” e delle feste solenni: i cappelletti natalizi, la crescia pasquale e il “pasticcio di maccheroni”75, con la sua sontuosa farcia di «macaroni di Napoli»,

fegatelli, animelle, parmigiano, prugnoli, tartuÞ, cedro candito e cannella, piatto canonico dellʼultimo giorno di carnevale76, particolarmente amato dal “secondo ceto”, cioè dalla buona borghesia.

63. La preparazione dei cappelletti, 1960 c.a

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MICROSTORIA DI UN’INDUSTRIA ALIMENTARE

La principale, o per dir meglio l’unica vera industria alimentare sorta nel territorio di cui ci occupiamo – il pastiÞcio Ghigi –, si collega da un lato alla produzione cerealicola della valle del Conca e in particolare di San Giovanni in Marignano; dall’altro all’antica e rilevante tradizione molitoria delle località attraversate dal Þume; inÞne alla non meno antica identità di mercato di Morciano1. A San Giovanni, il cosiddetto “granaio dei Malatesti”, fra metà Cinquecento e metà Settecento la quasi totalità dei terreni (oltre settemila tornature) veniva adibita ad arativo, giacché il vignato, il prativo, il pascolivo, l’ortivo e il selvoso raggiungevano a stento, tutti insieme, il 5 per cento2. La resa del grano, assai cospicua in rapporto ai tempi, si aggirava intorno al 7,23, ciò che faceva dell’area di San Giovanni in Marignano la più fruttifera del riminese. Lo riconosceva anche l’ipercritico Battarra, che deÞniva quel territorio «molto fertile […] di grano, e biade, e ortaglia»4: di qui la folta presenza, tra i proprietari dei fondi, di nobili riminesi e pesaresi – dai Battaglini ai Diotallevi, dai Belmonti agli Zollio, dai conti di Carpegna ai Bascherini – e di enti ecclesiastici5. Come osserva Oreste Delucca, «stante il ruolo del grano nell’agricoltura [del] riminese e nell’alimentazione del basso Medioevo», i mulini da cereali formavano «un tessuto importante e capillarmente diffuso»6, la cui esistenza è attestata in documenti locali a partire dal X secolo. Essi sorgevano lungo tutti i corsi d’acqua, anche

i più modesti, ma specialmente lungo i due principali Þumi del riminese, il Marecchia e il Conca7. Quest’ultimo alimentava «una pluralità di canali, molto prossimi al letto ßuviale, che servivano un numero limitato di molini, se non addirittura un solo molino»8. L’attività molitoria era assai redditizia, fruttando ciascun mulino – dove gli utenti pagavano in natura – Þno a 60 staia di grano l’anno (circa 85 quintali): nessuna meraviglia, di conseguenza, che la proprietà dei mulini, al pari di quella fondiaria, fosse appannaggio delle famiglie riminesi più ricche e potenti o degli enti religiosi9. I mulini lungo il Conca sono citati con ampio risalto, agli inizi del Seicento, da Raffaele Adimari: «la Conca […] è assai grosso Þume, il qual, per correre con gran caduta, se ne cavano tanti e così spessi canali da molini, che bastano a macinar a tutto il monte e il piano della Diocesi di Rimino inÞno a’ monti di Pesaro»10. Altrove Adimari sottolinea che il castello di San Clemente «ha una gran quantità di molini da grano nel suo territorio» e mette in relazione tale addensamento con la prossimità al «famoso mercato di Morciano»11, dove – ricorda Giuseppe Del Magno12 – venivano scambiati cereali e farina, oltre che altri prodotti agricoli e bestiame. Intorno al 1660, stando al computo di Pier Antonio Guerrieri, il fiume Conca alimentava, «da Monte Buaggine sin alla Cattolica», ben «settantasei mollini»13. Due secoli dopo, nel 1866, si erano ridotti a diciassette; agli inizi del Novecento erano pe77


LA CULTURA DEL CIBO TRA ROMAGNA E MARCHE

rò risaliti a ventiquattro14. Alessandro Costa, Sabrina Manzi e Giorgio Tarducci ne hanno censiti, di recente, sessantatré15. Una decina di mulini sorgevano in prossimità di Morciano: tra questi, sulla riva sinistra, i quat-

64. La campagna intorno a Morciano, 1975

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tro mulini posseduti in origine dai monaci olivetani di Scolca, e cioè il mulino Cerro, del XVI secolo, chiuso negli anni Trenta del Novecento, il mulino Trado, anch’esso del XVI secolo, attivo Þno al 1960 circa, il


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quattrocentesco mulino Del Noce di Sopra e il cinquecentesco mulino Fiorani; e inoltre il mulino Gaggio, citato in un documento del 1474, antica proprietà dell’abbazia riminese di San Gaudenzio, e il mulino Casarola, menzionato in una carta del 1472 e in attività Þno al 1965; sulla riva destra, il mulino Balzi e il mulino Valle di Sopra, entrambi del XVI secolo, e i mulini Leardini di Sopra, Paialunga e Volpone, tutt’e tre presenti nelle carte del catasto pontiÞcio (1815) 16.

Questa triplice eredità di Morciano e del territorio circostante – agricola, molitoria e mercantile – sarà in qualche modo raccolta dal pastiÞcio Ghigi. La pasta secca era stata introdotta nel riminese molto per tempo: intorno al 1760 – ci informa Filippo Giangi – un Þorentino, tale Zenobio Tassi, aveva aperto con successo una «fabbrica delle paste, cioè bigoli, maccheroni, paste all’uso di Puglia»17. Nel 1870 il morcianese Nicola Ghigi, fornaio e commerciante in

65. La trebbiatura

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66. Spighe di grano e papaveri

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generi alimentari, si propose di ampliare la sua attività aprendo presso il proprio forno di via Ronci un piccolo laboratorio per la fabbricazione della pasta secca18: pasta della quale si faceva, al tempo, un uso ben maggiore di quanto oggi non si immagini19. Il laboratorio, attrezzato con macchine piuttosto rudimentali, produceva una quantità di pasta sufÞciente per soddisfare la domanda di Morciano e di una

ridotta clientela esterna al paese. Nicola Ghigi morì nel 1894. L’attività fu proseguita dal Þglio maggiore Stefano, che morì a sua volta nel 1911. A capo della modesta azienda si ritrovò Nicola, il primogenito, che nel 1922, in disaccordo con i fratelli Emilio e Angelo a causa di un «carattere imprevedibile e litigioso»20, fu liquidato da costoro con la somma per l’epoca ingentissima di 50.000 lire. Sotto la guida di Angelo ed Emilio Ghigi, che acquistarono nuove macchine ed estesero il mercato a tutta la Romagna, il pastiÞcio si trasformò progressivamente da azienda artigiana in industria. La produzione passò dagli iniziali 5 quintali di pasta al giorno prima a 20 e poi a 40 quintali. Nel 1933 fu iniziata la costruzione della nuova sede, che fu completata nel 1936 e dotata di moderni impianti. Alla Þne del decennio fu installato, a Þanco della fabbrica, il nuovo mulino a cilindri. Al principio degli anni Quaranta la produzione era salita a 80 quintali al giorno e sarebbe presto raddoppiata. La guerra, infatti, non solo non compromise, ma addirittura incentivò l’attività del pastiÞcio, che era entrato a far parte dei fornitori dell’esercito21. Anche il passaggio del fronte, che inÞerì sui paesi vicini, recò danni marginali a Morciano e minimi alla fabbrica. Nell’immediato dopoguerra alle difficoltà di reperimento del grano22 – che rientrava, al pari della pasta, tra i generi razionati – si sommava una tecnologia primitiva e superata, dove le conoscenze empiriche e i procedimenti manuali avevano ancora un peso essenziale23. La famiglia Ghigi e, soprattutto, Angelo ebbero il merito di puntare sulle tecnologie d’avanguardia24, con l’obiettivo «di fare del pastificio di Morciano il più grande e il più moderno d’Italia»25. Il risultato non fu semplicemente un formidabile incremento della produzione, ma un sensibile miglioramento della qualità. Bruno Ghigi ricorda, in proposito, che la pasta di un tempo – fatta con una miscela di semola di grano duro, farinetta di grano duro e farina di grano tenero, ed essiccata a


MICROSTORIA DI UN’INDUSTRIA ALIMENTARE

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bassa temperatura – era mediocre e passava facilmente di cottura26. Al primo ampliamento dello stabilimento, nel 1948, ne seguì un secondo nel 1953. Fu costruito un altro silos, della capacità di 50.000 quintali di grano (equivalenti al fab-

bisogno dell’azienda per almeno un paio di mesi); il mulino fu ingrandito e aggiornato tecnicamente; a Þanco del pastiÞcio venne costruito il mangimiÞcio, che trasformava i sottoprodotti della lavorazione in cibo per animali27.

67. La trebbiatura

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68. Mugnaio

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La crescita dell’azienda fu impetuosa e ininterrotta fino all’inizio degli anni Sessanta, quando arrivò ad avere 330 dipendenti e a produrre giornalmente 220 quintali di pasta. Premiato dai consumatori per l’alta qualità della pasta prodotta, soprattutto quella all’uovo, e aiutato anche da alcune felici iniziative promozionali – dal marchio (oggi si direbbe il “logo”) dipinto sui camion ai calendari, alla partecipazione alle sagre gastronomiche, Þno alla sponsorizzazione di una squadra ciclistica28 – il pastiÞcio Ghigi era ormai diventato il terzo d’Italia, dopo Barilla e Buitoni29.

Fu proprio il successo a innescare la crisi. Le accresciute responsabilità e insormontabili divergenze circa la ripartizione delle quote tra i cinque Þgli di Angelo e i tre di Emilio30 fecero esplodere il contrasto tra i fratelli Ghigi, che nel 1961 arrivarono alla rottura31. Angelo uscì dalla società e nel 1964, anno della morte di Emilio, inaugurò un proprio stabilimento a Rimini. Il pastiÞcio di Morciano, guidato ora da Giorgio Ghigi, Þglio di Emilio, attraversò un lungo periodo di difÞcoltà, che coinvolse l’intera comunità morcianese, la cui economia dipendeva in larga misura dalle fortune


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69. La prima sede del pastiÞcio Ghigi a Morciano 70-71. Lo stabilimento Ghigi a Morciano

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LA CULTURA DEL CIBO TRA ROMAGNA E MARCHE 72. Chicchi di grano

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MICROSTORIA DI UN’INDUSTRIA ALIMENTARE

dell’azienda32. Indebolito Þnanziariamente e commercialmente, ed esposto alla concorrenza della più moderna e aggressiva impresa di Angelo Ghigi, il pastificio di Morciano rischiò la chiusura deÞnitiva. Nel 1972 dovette intervenire la Gepi, la Þnanziaria di Stato delegata al salvataggio delle

aziende in crisi, e nel 1980 il pastiÞcio fu acquisito da una cooperativa forlivese del settore agroalimentare, la Consvagri33. Anche il pastificio di Rimini sarà più in là venduto alla multinazionale Danone. Il marchio Ghigi sopravvivrà, ma senza più alcun legame con la famiglia fondatrice.

73. Sagra gastronomica sponsorizzata dal pastiÞcio Ghigi. Mondaino, 1964

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LA CUCINA MARINARA

Dobbiamo a Maria Lucia De Nicolò – apprezzata studiosa di storia patria e di storia della marineria adriatica – pionieristiche e ben documentate ricerche storiche sia sulle locande di Cattolica che sulla sua comunità di pescatori. Ubicata sulla via Flaminia, a metà strada fra Rimini e Pesaro, Cattolica ospitava attività alberghiere Þn dal XIII secolo1. È però nel Cinquecento, dopo lʼistituzione intorno agli anni Sessanta di una regolare stazione di posta2, cioè di un servizio permanente di cambio dei cavalli alle diligenze, che Cattolica diverrà – per usare la definizione di Leandro Alberti – «una contrada di taverne per li viandanti», che qui sostavano per riposarsi e rifocillarsi. Alla Þne del XVI secolo Cattolica contava ben otto esercizi alberghieri e metteva a disposizione dei viaggiatori anche un maniscalco, un sellaio e cinque vetturini3. Nei bandi si menzionano osti, tavernieri e bettolieri. Anche se non è ipotizzabile una precisa distinzione fra queste tre categorie, si può ritenere, in linea generale, che i primi fornissero vitto e alloggio, i secondi cucina e vino e gli ultimi gestissero semplici mescite di vino4. Maria Lucia De Nicolò ha censito, tra la Þne del XV secolo e gli inizi del XVIII, ventidue locande che, qui come altrove, prendevano nome dalle insegne quasi araldiche che inalberavano: una stella, una luna, una ruota, una corona, una campana, un angelo, un leone, eccetera. Esse erano di differente livello: le più accoglienti, rag-

gruppate intorno alla rocca e alla chiesa di SantʼApollinare5, ospitavano i viaggiatori più facoltosi e i personaggi di riguardo; le più modeste, i pellegrini diretti a Loreto e a Roma, e la soldataglia. Le locande migliori erano di proprietà di nobili di Rimini, Pesaro e Urbino, che beninteso non le gestivano direttamente, ma le affittavano: di solito non a persone del posto, ma a forestieri di varia provenienza6. I conduttori delle osterie più umili ne erano perlopiù anche i proprietari. Nella maggior parte delle locande si poteva sia pernottare che mangiare. Gli inventari notarili consultati da Maria Lucia De Nicolò contengono accurate descrizioni tanto dei locali adibiti a sala da pranzo, con tavoli, sedie, panche e “complementi dʼarredo” (tappeti, quadri, statue, eccetera), quanto di quelli adibiti a cucina, con il grande camino, il lavello, tavoli da lavoro, madie e cassoni per le provviste, “scaldavivande”, tegami e utensili7. Su quali cibi servissero le osterie, abbiamo scarse e sommarie informazioni. È facile immaginare che tra le migliori e le peggiori lʼofferta variasse parecchio. Le preparazioni saranno state, in complesso, poche e semplici. Lʼinterrogatorio di un ambulante, tale «Barnabeo detto Bernardino del quondam Schrigne di Albenga», ci tramanda la notizia che nel 1544 unʼosteria di San Giovanni in Marignano cucinava una «menestra de tagliategli»8. Un tariffario del maggio 1741 elenca «carne di vitello, di capretto, di agnello, di castrato, 87


LA CULTURA DEL CIBO TRA ROMAGNA E MARCHE

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74. Barche da pesca nel porto di Cattolica, 1960 c.a

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capponi, galline, piccioni cotti arrosto, tordi e quaglie, macaroni o lasagne con formaggio, minestre dʼogni sorte, insalata condita, ova cotte nellʼacqua o nel tegame, pesce fresco minuto, sfoglie fritte o in graticola o arrosto, cefali grossi, triglie, sardelle, barboni»9. Nel tariffario si menziona anche unʼonnicomprensiva “colazione alla mercantile” (antipasto, minestra, lesso, arrosto, formaggio, frutta, pane e vino), antenata

dellʼodierno “menù turistico” a prezzo Þsso10. Quanto inÞne ai vini serviti nelle taverne cattolichine, ricordiamo che nei “Capitoli del datio del vino della Cattolica”11, del 1635, è citata la malvasia. Ospite illustre delle locande di Cattolica fu, nel 1743, Carlo Goldoni12, che, a onta della situazione burrascosa e di qualche disavventura personale, ne conserverà un buon ricordo. Secondo una fantasiosa tra-


LA CUCINA MARINARA

dizione orale che però non trova riscontro nelle Memorie goldoniane, il commediografo, alla foce del Conca (o del Tavollo), avrebbe assaggiato dei gustosi spiedini di lumaconi di mare (in dialetto romagnolo bòble)13, arrostiti da due traghettatori del posto. Lʼaneddoto non è attendibile, ma potrebbe contenere unʼallusione allʼorigine veneziana del piatto. SigniÞcative inßuenze della cucina lagunare su quella cattolichina,

a testimonianza del «forte legame che si instaura fra le popolazioni portuali e che le accomuna», sono segnalate per altro anche da Maria Lucia De Nicolò14. Eredi delle taverne di Cattolica, seppure in tuttʼaltro contesto, saranno, a cavallo tra il XIX e il XX secolo, i ristoranti, le trattorie e le numerose “osterie con cucina” nate per provvedere alle esigenze e agli svaghi dei primi villeggianti: dal café-restaurant

75. Pescherecci nel porto di Cattolica

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LA CULTURA DEL CIBO TRA ROMAGNA E MARCHE 76. Le piccole ma fragranti ostriche piatte (Ostrea edulis) allevate a Cattolica

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annesso allo stabilimento bagni al ristorante “Al Giardino”, aperto nellʼex casa parrocchiale, allo chalet e ristorante sul mare “Nina”, al caffè-trattoria “Vapore”, alle osterie “dellʼOrologio” e “Speranza”, a quella detta “della piazza del pesce”15. La lista delle vivande dellʼosteria “dellʼOrologio”, in via XX Settembre, gestita prima dalla famiglia Biagini e poi da Ottavio Vanni, annoverava «piccole fiamminghe di polipi giovani, seppioline e canocchie, lessati ed insaporiti da una salsa piccante a base di aglio e prezzemolo» e, la domenica, «sogliole arrostite sulle braci, sarde, spiedini di pesce»16. Le coeve osterie di San Giovanni in Marignano – “del Pellegrino” (de Piligrèn), di Cibìn, di Ludvìg, della Carmelia, eccetera – cucinavano passatelli, tagliatelle, piccione ripieno, trippa “alla

marignanese”17. Trippa, pane e vino erano la colazione che i contadini si concedevano la domenica mattina, di nascosto dal padrone, nellʼosteria “del Pellegrino”18. Frequentatore assiduo di Cattolica, dove il fratello Luigi possedeva una casa di vacanza, era Guglielmo Marconi, che in una lettera alla moglie del 17 marzo 1905 accenna al caffè-trattoria “Vapore”, dovʼera solito pranzare19. Al nome dello scienziato bolognese si intitola la ricetta della “testina di agnello alla Marconi”20, spaccata in due, condita con olio dʼoliva (o strutto), aglio, rosmarino, sale e abbondante pepe, e cotta al forno per circa unʼora. Sarebbe stata preparata per Marconi, non ancora ventenne, dal macellaio Vincenzo Filippini, che qualche anno dopo diventerà sindaco di Cattolica.


LA CUCINA MARINARA

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Quella alberghiera era una delle due attività su cui si fondava lʼeconomia antica di Cattolica. Lʼaltra era la pesca. Le prime notizie sullʼattività peschereccia a Cattolica rimontano alla metà del XVI secolo e riguardano lʼesazione del dazio21. Nel 1577, come risulta da uno stato dʼanime di quellʼanno, le famiglie di pescatori erano sette e provenivano in parte da fuori borgo: una da Rimini, una da Senigallia e una terza da Gabicce22. La pescosità della rada davanti a Cattolica, «luoco puoco travagliato dalle tempeste maritime», è celebrata agli inizi del Seicento da Raffaele Adimari, che parla di «una spiaggia bonissima, che dà commodità alli pescatori di pigliare buoni et grossi cevali, meglie, et altri pesci di buona et esquisita qualità»23. Adimari rievoca una gita in bar-

ca sul mare di Cattolica, fatta nellʼaprile del 1610 in compagnia del Governatore di Rimini, il monsignore romano Giovanni Antonio Massimi, nel corso della quale alcuni pescatori del posto si erano tuffati «per cercare ostreghe»: «le quali ostreghe» prosegue Adimari «da esso monsignor illustrissimo furono mangiate lì con molto mio gusto»24. E anche con soddisfazione di monsignor il Governatore, è da credere. La fama delle ostriche di Cattolica – come si vede – è tuttʼaltro che recente. Lʼimmersione era un sistema di pesca arcaico. Ugualmente rudimentali erano la raccolta a riva, praticata da donne e bambini, e la raccolta delle “poveracce” e dei “calcinelli” fatta con lʼapposito ferro, chiamato nel riminese smenacùl25. La tecnica di pesca più usata era quella “alla tratta”,

77. Pescatore

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LA CULTURA DEL CIBO TRA ROMAGNA E MARCHE

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78-79. Pesca “alla tratta”

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effettuata da imbarcazioni a vela o a remi. Calata dalla barca, la rete veniva poi trascinata a riva, mediante lunghe funi, da nutrite squadre di uomini robusti26. Il pesce catturato con la tratta variava con le stagioni: in primavera si pescavano perlopiù cefali, triglie, rombi, soasi, “paganelli” e seppie; nei mesi estivi soprattutto pesce azzurro; in autunno, fra lʼaltro, grandi quantità di aguglie27. Nel XVII secolo verrà introdotta la pesca “a spontiero”. Fissata tramite corde a due aste che si protendevano dalla poppa – per lʼappunto gli “spontieri” – la rete veniva trascinata da una sola imbarcazione, che in questo tipo di pesca era la tartana28. Da metà del Settecento in poi il numero delle barche a Cattolica crescerà lentamen-

te ma costantemente: le cinque del 1757 diverranno otto nel 1783, quattordici nel 179229 e ben settantuno nel 1863, anno in cui si censiranno 201 pescatori appartenenti a 122 famiglie30. La pescosità del mare e lo sviluppo dellʼattività peschereccia incrementeranno signiÞcativamente la quantità del pescato e ne promuoveranno il commercio, che già a metà del XVIII secolo non si limitava più a servire Cattolica, il suo immediato entroterra e i castelli circostanti, ma riforniva regolarmente il ducato di Urbino, e si estendeva Þno a Gubbio e Perugia31. A commerciare il pesce provvedevano le nuove Þgure sociali dei pescivendoli, tramite fra i pescatori e gli acquirenti Þnali. Una relazione del 1762 denuncia lo strapotere e i metodi ricattatori


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dei pescivendoli, che attendevano lʼarrivo delle barche e imponevano ai pescatori un prezzo globale, in genere assai basso (intorno ai due baiocchi per libbra), sia per il pesce povero che per quello pregiato, acquistati in blocco32. La relazione aggiunge che il pesce, comperato a «vilissimo prezzo», veniva poi venduto con forti ricarichi. Allʼacquisto allʼingrosso del pesce va collegata anche la costruzione a Cattolica di numerose “conserve” o ghiacciaie, grandi contenitori ipogei, riempiti dʼinverno di neve pressata, dove si riponevano le eccedenze33. Agli inizi del Novecento, sulla coppia di barche che effettuava la pesca, con un equipaggio complessivo di sette-otto uomini, si divideva il ricavato in otto-nove parti, delle

quali due andavano al capobarca (paròn), una e mezza al comandante della seconda barca, una ciascuno ai marinai e mezza al mozzo (murè), che però cominciava la carriera, bambino ancora, percependo appena la metà di una quartaròla, cioè un ottavo di parte, e poi, per gradi, incrementava il suo guadagno Þno a mezza parte. Questa perlomeno era la regola teorica; di fatto i pescatori, tutti analfabeti, non erano assolutamente in grado di controllare lʼesattezza dei conti, che venivano fatti ogni sette settimane34. Quando i pescatori si imbarcavano, portavano con sé il vino, la boccetta dellʼolio e il pan biscotto (bizzulà). Sulla barca – racconta Giuseppe Ercoles (Fafén)35 – si 93


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80. Vecchi pescatori che rammendano le reti. Cattolica, 1960 c.a

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mangiava sempre e solo pesce, preparato da uno dellʼequipaggio, con mansioni di cuoco, aiutato dal mozzo. Il pesce veniva cucinato in due modi: arrostito sul “focone” e in brodetto. Per la rustìda si utilizzava, in genere, pesce povero e minuto: alici, sarde, rocchi di aguglie, trigliette, piccoli pesci ragno, moletti, “pelosi”, seppioline, calamaretti, ulézni, eccetera. Condito con

pangrattato, olio, pepe e sale, il pesce era inÞlzato in spiedini di tamerice, che venivano disposti tuttʼintorno alla brace, conÞtti nella sabbia. Questa cottura verticale conferiva anche al pesce più meschino, per altro freschissimo, il massimo della morbidezza e della fragranza. Per il brodetto si usavano pesci di taglia maggiore, ma di non grande pregio


LA CUCINA MARINARA

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(il cosiddetto “pesce matto”36): gallinelle (mazòli), tracine (ragn paghèn), pesci prete (bòcca in chèv), palombi (chèn), gattucci, scorfani, triglie, seppie, canocchie, e inoltre esemplari di pesci nobili straziati dalla rete. Puliti e lavati in acqua di mare, i pesci venivano disposti a strati in un tegame chiamato stagnèda, conditi con olio, sale, pepe senza economia, cipolla e conserva

di pomodoro, bagnati con aceto e cotti a fuoco vivace. Nellʼabbondante sugo si inzuppava il pan biscotto. A bordo si beveva perlopiù vino allungato (buànda), e acqua e aceto (cìtala). Maria Lucia De Nicolò ricorda che a Cattolica esistevano due diverse tipologie di brodetto37: ricco (alla sgnóra) e povero (alla puvriténa). Nel brodetto alla sgnóra

81. La “rostita” di pesce, 1964

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LA CULTURA DEL CIBO TRA ROMAGNA E MARCHE 82. Peschereccio

si usava il miglior pesce da zuppa: scorfani, gallinelle, pesci prete, palombi, gattucci, grosse triglie, calamari, sogliole di “sprea” (pescate, cioè, nei fondali profondi della costa slava) e torpedini (trèmule). Il sugo era fatto con cipolla e poco aglio leggermente soffritti in olio dʼoliva, passata di pomodoro, una punta di conserva, sale, pepe e un trito di prezzemolo col quale si cospargeva il pesce al momento di servirlo. Il brodetto alla puvriténa, preparato con

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pesce umile e di piccola pezzatura, era un piatto per palati forti e stomaci robusti, aspro dʼaceto, nero di pepe, con un abbondante e ruvido soffritto di cipolla e concentrato di pomodoro. Andava famoso, a Cattolica, il brodetto di Felice Signorini detto “il Moro”, che gestì la propria trattoria per quarantʼanni Þlati, dal 1910 al 1950, e che per altrettanti anni cucinò e servì brodetti38. La sua era una versione ulteriormente alleggerita e rafÞna-


LA CUCINA MARINARA 83. La cernita del pesce al rientro dalla pesca

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LA CULTURA DEL CIBO TRA ROMAGNA E MARCHE

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84-85. Due nature morte a soggetto ittico di Nicola Levoli: la prima con sogliole, canocchie, cefalo e sporta; la seconda con razza, alici, triglie, gallinella (“mazzola”) e stoviglie. Rimini, Museo della Città

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ta del brodetto alla sgnóra: il gattuccio e la seppia venivano innanzitutto scottati in acqua bollente per attenuarne il sapore troppo marcato; dalle teste e dagli altri scarti dei pesci veniva poi ricavato un brodo sostanzioso e saporito; anche lʼintingolo, fatto con cipolla, pomodoro fresco o passata di pomodoro, prezzemolo, olio dʼoliva, sale e pepe, era preparato a parte; il pesce, sistemato nel tegame di terracotta, veniva coperto col sugo e bagnato col brodo, quindi cotto per cinque minuti a Þamma vivace e per altri venti a fuoco dolce. Più legata alla tradizione marinara è la ricetta del brodetto trasmessa da Guerrino Arduini, pescatore di Gabicce Monte39. Da rilevare lʼimpiego, al posto dellʼaceto, del vino rosso, di rigore nel sugo delle lumachine e dei “garagòli” (piedi di pellicano). Ricordiamo, a proposito degli umili garagòl, che il loro nome

dialettale ha un etimo nobilissimo: discende infatti dal latino caracolus, “conchiglia”. Pur essendo tutte molto simili tra loro, le ricette del brodetto cucinato fra Romagna e Marche sono tante quante le famiglie dove lo si preparava e dove ancora lo si prepara. Per sua stessa natura, infatti, il brodetto è un piatto che rifugge le formule standardizzate, dipendendo dai pesci disponibili, dagli ingredienti e dalle loro dosi, dalle tecniche e dai tempi di cottura, dalla mano e dallʼumore del cuoco, e perÞno dalla meteorologia. Precisato che il vero brodetto è quello preparato con vari tipi di pesce, aggiungiamo che la cottura “in brodetto” può essere applicata a singoli pesci e inoltre alle canocchie40, ai granchi41, ai bovoli42 e perÞno ai fegati di rana pescatrice (ròsp)43. Benché derivi da più antiche zuppe di pesce, il brodetto secondo lʼattuale vulgata


LA CUCINA MARINARA

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è un piatto relativamente recente. Tra gli ingredienti cʼè infatti il pomodoro, fresco o in conserva, che la Romagna conobbe intorno alla metà dellʼOttocento. Un buon numero di quadri del riminese Nicola Levoli (17281801), frate agostiniano e pittore di nature morte, rafÞgura pesci44. Non quelli, enormi e scenografici, dei dipinti napoletani, ma comuni pesci, crostacei e molluschi dellʼAdriatico: cefali, soglioline, triglie, gallinelle, sugheri, sarde, una minuscola orata, un piccolo scorfano, una razza, un sampietro, una seppia, qualche canocchia, un paio di ostriche. Pesce minuto e feriale, adatto non già per piatti elaborati e salse complicate, ma, appunto, per una zuppa alla buona, i cui ingredienti le tele di Levoli accostano in modo non arbitrario, quasi volessero suggerircene la semplice ricetta. Il “brodetto alla Levoli” veniva cucinato

“in bianco” con olio, aglio, cipolla, sedano, scorza di limone e un generoso pizzico di pepe (lʼonnipresente cartoccino del pepe è nei dipinti di Levoli, come in quelli del fanese Magini, quasi una Þrma). Il pomodoro, naturalmente, era ancora di là da venire. Piatti casalinghi di Cattolica, Gabicce e dintorni di schietta tradizione marinara sono, tra le minestre, i quadrettini – o i battutini (pistadén) – con sugo di pesce da frittura45 e con sugo di seppia46, i tajadlòt (ne abbiamo già parlato) con le “poveracce”47 e la pastasciutta con sugo di pesce48; tra i secondi, la purzlèta (la sacca del polipo riempita con uova e fegati di merluzzi e moletti, e cotta alla brace)49, i “garagòli” (o le lumachine) in umido50, lʼajèda (pesce azzurro cotto sulla graticola e poi aromatizzato con aglio e rosmarino)51 e la grancevola, cotta 99


LA CULTURA DEL CIBO TRA ROMAGNA E MARCHE 86-87. Cozze e alici dell’Adriatico

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anchʼessa sulla graticola52. Accanto alla cottura in zuppa, che è il modo più comune di cucinare le vongole (puràcie) e le telline (calcinèl), sopravvivono la cottura entro un canovaccio (nel ciòch)53, che permette di conservare il fragrante liquido interno dei molluschi, e la cottura sulla piastra o in graticola delle “poveracce” più grandi54: in questʼultimo modo si cuocevano, in tempi di forti ristrettezze, anche le insulse e disprezzate madie o mattre (pisòti), gratiÞcate non a caso dellʼepiteto scientiÞco di Mactra stultorum. Più dubbio è il carattere marinaro delle ricette di Antonio Galanti detto Torcicòl (1833-1920), di Gabicce Monte, pescatore per necessità e cuoco itinerante, che preparava pranzi di pesce “a domicilio”, spostandosi di casa in casa (e di osteria in osteria) con un carrettino carico di stru100

menti di lavoro, spezie, erbe aromatiche e altri ingredienti. Sei delle sue ricette, conservate dalla famiglia e comunicate dalla discendente Cesira Galanti Romagnoli, di Cattolica, sono state pubblicate in Mangiari di Romagna55. Si tratta dei “granchi di scoglio alla Torcicòl” (polpa di granchio mescolata a tonno, acciughe, cipolline sotto aceto e prezzemolo), dei “garagòli semplici” (lessati, e conditi con una salsa di acciughe, aglio e prezzemolo), dei “tagliolini al sugo” di vongole e cozze, dei “quadrettini in brodo con seppia”, delle “seppie ripiene” (la farcia è composta da pangrattato, vongole, tonno, aglio, prezzemolo, mentuccia, sale, pepe e olio dʼoliva) e delle “sogliole in burrasca” (lessate insieme a vari “odori”, e condite con una salsa calda composta da succo dʼagrumi, liquori, olio, farina, aglio, sale e pepe). Le ricette di Torcicòl sono


LA CUCINA MARINARA

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senza dubbio di notevole interesse, ma sostanzialmente estranee alla tradizione gastronomica marinara; la sua è piuttosto una rafÞnata cucina dʼautore. Come osserva Maria Lucia De Nicolò, che sottolinea altresì la peculiarità della cucina di Cattolica56, il pesce era certamente centrale nellʼalimentazione dei cattolichini, ma non esclusivo, e «gli ortaggi coltivati nei terreni attigui alle case»57 rientravano nella dieta quotidiana. Anche Francesco Bonasera, mezzo secolo fa, registrava un consumo di ortaggi significativamente maggiore nella zona costiera che in quella interna58. La fertile campagna che circondava il borgo era inoltre, fin dai tempi di

Raffaele Adimari, «abbondantissima di grani, biade et vini»59; produceva anche fagioli, ceci, fava, frutta, e olio dʼoliva copioso e di buona qualità. Alla cucina di mare si afÞancava pertanto, come abbiamo visto a suo luogo, una cucina di terra nientʼaffatto marginale. Ancora alla Þne del XIX secolo lʼarea attraversata dallʼultimo tratto del rio Vivare (il cosiddetto guazz) era acquitrinosa e abitata, soprattutto in inverno, da uccelli acquatici, tra cui oche selvatiche, germani reali e folaghe: e tra le rare ricette recuperate da Maria Lucia De Nicolò presso le vecchie famiglie di Cattolica cʼè per lʼappunto quella, in graÞa ottocentesca, del “risotto con la folaga”60.

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LA CULTURA DEL CIBO TRA ROMAGNA E MARCHE

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NOTE

INTRODUZIONE: UN TERRITORIO CULTURALMENTE OMOGENEO 1. M. Santagata, Fra Rimini e Urbino: i prodromi del petrarchismo cortigiano, in M. Santagata, S. Carrai, La lirica di corte nellʼItalia del Quattrocento, Milano, 1993, p. 46. 2. Ibid., p. 44.

3. C. Felici, Il Calendario overo Ephemeride historico, Urbino, 1577. 4. C. Felici, Del lupo e virtù e proprietà sue, in A. Menabeni, Trattato del grandʼanimale o gran bestia … dalla latina tradotto nellʼitaliana lingua…, Rimini, 1584; ora in G. Nonni, op. cit., pp. 297-320. 5. M. Maragi, Corrispondenti riminesi di Ulisse Aldrovandi, in “Studi romagnoli”, 1967, 18, p. 408.

3. I termini, che risalgono a tempi non sospetti, sono del geografo Francesco Bonasera (cfr. Le abitudini alimentari dei contadini della Romagna sud-orientale e delle Marche settentrionali, in “La Piê”, 1953, 3-4, p. 74).

6. G. Olmi, Presentazione a C. Felici, Lettere a Ulisse Aldrovandi, a cura di G. Nonni, Urbino, 1982, p. 6.

4. Cfr. La civiltà contadina nelle tre valli (Metauro, Foglia, Conca), I, La cucina, a cura di D. Bischi, Rimini, 1980, pp. 14 e 24.

8. Una più breve, datata 5 febbraio 1565, e lʼaltra, dalla quale citiamo, notevolmente più ampia.

5. V. in proposito A. Sistri, Cultura tradizionale nella Valle del Conca. Materiali e appunti etnograÞci tra Romagna e Montefeltro, Milano, 2003.

9. Op. cit., p. 138.

6. Cfr. L. Bagli, Natura e paesaggio nella Valle del Conca, Milano, 2002.

7. Ibid.

10. C. Felici, Lectio nona de fungis, in G. Nonni, op. cit., pp. 118-217. 11. D. Romoli, La singolare dottrina…, Venezia, 1560, cc. 267v-268r. 12. Op. cit., p. 26.

7. C. Felici, Scritti naturalistici, I, Delʼinsalata e piante che in qualunque modo vengono per cibo delʼhomo, a cura di G. Arbizzoni, Urbino, 1986, p. 115.

13. Ibid., p. 60.

8. C. B[oattini], Ancora “della piê”, in “La Piê”, 1948, 9-10, p. 195.

15. Cfr. Associazione “I Radecc”, Le buone erbe, Rimini, 1995 e AA. VV., Le buone erbe della campagna riminese, Verucchio, 1996.

9. V. Valentini, Tutti a tavola. Le ricette della provincia pesarese, Fano, 2004, p. 237.

16. Op. cit., pp. 41, 108 e 138.

10. Cfr. La civiltà contadina nelle tre valli…, cit., pp. 33, 39, 37-8, 601, 64-5, 63-4, 59.

17. La civiltà contadina nelle tre valli (Metauro, Foglia, Conca), I, La cucina, cit., pp. 49 e 51.

COSTANZO FELICI E LʼANTICA CUCINA RURALE

18. V. Valentini, Tutti a tavola. Le ricette della provincia pesarese, cit., pp. 173-4 (versioni della “baggiana” raccolte a Urbania, Frontino e Sassocorvaro).

14. Ibid., p. 75.

1. G.M. Lancisi, Lettere inedite… nelle quali descrive un suo viaggio da Urbino a Montefeltro, e alla Repubblica di S. Marino, Roma, 1841 (rist. anastatica: Rimini, 1993).

19. Ibid., p. 253.

2. C. Felici, Scritti naturalistici, I, Delʼinsalata e piante che in qualunque modo vengono per cibo delʼhomo, cit. SullʼA. v. AA. VV., Costanzo Felici da Piobbico, Urbino, 1977 e G. Nonni, Passatempi e capricci. Le Olive e i Funghi, gli Uccelli e il Lupo nei trattati di Costanzo Felici, Urbino, 2005. Sulla lettera cfr. P. Meldini, Unʼerba o più miste insieme, in “La Gola”, 1985, 30, pp. 6-7.

21. Ibid., p. 117.

20. Op. cit., p. 118.

22. Ibid., p. 115. 23. Ibid., p. 117. 24. Ibid. p. 74.

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LA CULTURA DEL CIBO TRA ROMAGNA E MARCHE 25. Ibid., p. 114. 26. Ibid., p. 115. 27. Cfr. V. Valentini, op. cit., p. 238. 28. Op. cit., p. 116. 29. Ibid., pp. 47-8. 30. Ibid., pp. 107-8, 121-6, 129. 31. M. Rosa, Della ghianda e della quercia e di altre cose utili a cibo e coltura, Rimini, 1801. Cfr. G. Allegretti, Il pane contraffatto. La ghianda nella paniÞcazione dʼemergenza in età moderna, in “Romagna arte e storia”, 2004, 72, pp. 83-98. 32. Lo riferiscono sia Delio Bischi (op. cit., p. 25) che Valentino Valentini (op. cit., pp. 240-1). 33. E. Pierucci, Il mulino ad acqua ed i suoi usi nella realtà contadina, in AA. VV., Campagne e città tra Montefeltro e Cesano: il lavoro degli uomini, la storia delle cose, a cura di G. Pedrocco, Pesaro, 1983, p. 122. 34. Op. cit., pp. 75-8.

17. G. Albini, Gli Albini di Saludecio nel ricordo dʼun nonagenario, Rimini, 1934 (rist. anastatica: Rimini, 1993), p. 27. 18. G. Allegretti, Il pane contraffatto. La ghianda nella paniÞcazione dʼemergenza in età moderna, cit., pp. 88-9. Ricordiamo, a proposito del pane confezionato con metà grano e metà mais, che nel 1801, a Rimini, il medico Michele Rosa diede alle stampe lʼopuscolo Istruzione ai coltivatori del territorio di Rimini sopra una nuova maniera di coltivare in questʼanno il formentone… 19. MonograÞa statistica, economica e amministrativa della provincia di Forlì, a cura di G. Campi, Forlì, 1867 (cfr. S. Pivato, Fonti per una storia sociale alla Þne dellʼ800, in AA. VV., Natura e cultura nella valle del Conca, a cura di P. Meldini, P.G. Pasini, S. Pivato, Cattolica, 1982, pp. 318-9). 20. Il materiale dellʼinchiesta è conservato nel fondo “Archivio della Giunta per la Inchiesta Agraria” dellʼArchivio Centrale dello Stato di Roma. I documenti che riguardano il circondario riminese sono stati pubblicati da C. CatolÞ, Lʼinchiesta Jacini in Romagna. I materiali inediti del Riminese, Rimini, 1990. 21. Ibid., p. 86. 22. Ibid., p. 125. 23. Ibid., p. 172.

IL REGIME ALIMENTARE DELLE CAMPAGNE NELLE INCHIESTE SOCIALI DELLʼOTTOCENTO 1. R. Adimari, Sito riminese, Brescia, 1616, I (rist. anastatica: Rimini, 1974), p. 11. 2. Ibid., II, p. 20. 3. Ibid., p. 22. 4. Ibid. 5. Ibid. 6. Ibid., p. 25. 7. Ibid., p. 24. 8. C. Felici, Scritti naturalistici, I, Delʼinsalata e piante che in qualunque modo vengono per cibo delʼhomo, cit., p. 78. 9. Ibid., p. 108. 10. Ibid., p. 48. 11. G. A. Battarra, Pratica agraria distribuita in vari dialoghi, Cesena, 17822 (rist. anastatica a cura di L. Faenza, Rimini, 1975), I, p. 105. 12. Cfr. in proposito F. Braudel, Civiltà materiale, economia e capitalismo (secoli XV-XVIII), I, Le strutture del quotidiano, Torino, 1982, pp.81-142. 13. Op. cit., pp. 119-20. 14. Op. cit., I, p. 104. 15. Ibid., I, p. 131. 16. M. Rosa, Della ghianda e della quercia e di altre cose utili a cibo e coltura, cit., p. 122.

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24. Ibid., p. 154. 25. Ibid., p. 111. 26. Ibid., p. 178. Con il termine “marzatelle” o “marzatelli” si intendevano la segale, il miglio, la barbabietola e altre colture primaverili. 27. Ibid., p. 103. 28. Ibid., p. 70. 29. Ibid., p. 208. 30. Già nel 1779, nel trattato Della pellagra, il medico milanese Gherardini annotava che il pane quotidiano dei pellagrosi era costituito da un «impasto di formentone, o grano turco, con segale e con miglio». Nel 1787 Gaetano Strambio identiÞcava nelle carenze alimentari la causa principale della malattia. Alla stessa conclusione giungeva, nel 1819, il gruppo di medici lombardi incaricato di indagare sul fenomeno: «Dove ha famiglie che si nutrono di buoni, variati e salubri cibi, [...] colà è sconosciuta la pellagra». 31. G. Dalle Donne, A. Tonelli, C. Zaccanti, Lʼinchiesta sanitaria del 1899. La voce dei medici, Milano, 1987, p. 113. 32. Ibid. 33. Su tutto questo v. la cit. pubblicazione di C. CatolÞ e in particolare le pp. 32-40. 34. Ibid., pp. 45-6. 35. Op. cit., p. 36. Sulla plurisecolare storia della piada v. P. Meldini, Il «pane rude di Roma». Cicalata sulla piada, in “Romagna arte e storia”, 1995, 45 (art. ripubblicato in “ConÞni”, 2004, 16). 37. Op. cit., p. 111.


NOTE 38. Ibid., p. 202.

Firenze, 1970 [VN].

39. Cfr. O. Delucca, La vite e il vino nel Riminese, Rimini, 1994, p. 145.

5. La ricetta in BI, p. 33, in Q, p. 230 (versione di Montescudo abbondantemente riveduta e corretta) e in VL, p. 51.

40. Lʼinchiesta agraria “Jacini” nel circondario cesenate dalle monograÞe di Filippo Ghini e Federico Masi, a cura di P. P. Magalotti, Cesena, 2004, p. 320.

6. G. Albini (Jr.), Dai colli verso il mare. Ricordi, Rimini, 1997, pp. 59-60.

41. Ibid., p. 116. 42. Ibid., p. 132. 43. Ibid., p. 133. 44. Ibid., pp. 117 e 327. 45. G. Cirelli, Il villano smascherato, in “Rivista di storia dellʼagricoltura”, 1967, 1 (riedito in appendice alla rist. anastatica di G. A. Battarra, Pratica agraria distribuita in vari dialoghi, cit.). La citazione è a p. 18 della riedizione. 46. F. Bonasera, Le abitudini alimentari dei contadini della Romagna sud-orientale e delle Marche settentrionali, cit., pp. 74-6.

7. La ricetta marignanese in MR, p. 222; quella cattolichina in C, p. 82. 8. La ricetta in BI, p. 33 e in VL, p. 53. 9. La ricetta in VL, p. 55. 10. La ricetta in BI, pp. 34-5, in C, p. 83 e in VL, pp. 45-6. 11. Art. cit., p. 74. 12. La ricetta in BI, p. 34. 13. La ricetta in BI, p. 34. 14. Le ricette, entrambe in versione cattolichina, in MR, pp. 211 e 214. 15. La ricetta in BI, pp. 36-7 e in VL, p. 240.

47. Ibid., p. 74.

16. La ricetta in BI, pp. 32-3 e in VL, p. 29.

48. Ibid., p. 75.

17. Le ricette in BI, pp. 29-30 e in BO, p. 75.

49. Ibid.

18. Le ricette in BI, pp. 42-3 e in VL, pp. 231-2.

50. Ibid., p. 74.

19. Sui rituali connessi alla preparazione del pane cfr. A. Sistri, Cultura tradizionale nella Valle del Conca, cit., pp. 57-8, E. Baldini, La sacra tavola. Il cibo e il convivio nella cultura popolare romagnola: simbolismi, riti e tradizioni, Bologna, 2003, pp. 45-54 e A.M. Baratelli, Il pane contadino. Case e forni nelle campagne romagnole, in “Romagna arte e storia”, 2004, 72, pp. 51-2.

51. Ibid., p. 75. 52. Ibid. 53. Ibid. 54. La civiltà contadina nelle tre valli (Metauro, Foglia, Conca), I, La cucina, cit., p. 18.

LA CUCINA CONTADINA FERIALE E DEI GIORNI DI FESTA 1. La civiltà contadina nelle tre valli (Metauro, Foglia, Conca), I, La cucina, cit., p. 19. 2. P. Camporesi, Alimentazione folclore società, Parma, 1980, p.171. 3. La civiltà contadina…, cit., p. 34. 4. Segnaleremo, qui e nei prossimi capitoli, le citazioni e le ricette dei piatti contenute nei seguenti repertori (usando, per brevità, le sigle tra parentesi quadra): La civiltà contadina nelle tre valli (Metauro, Foglia, Conca), I, La cucina, a cura di D. Bischi, cit. [BI]; F. Bonasera, Le abitudini alimentari dei contadini della Romagna sud-orientale e delle Marche settentrionali, cit. [BO]; AA. VV., Cattolica, il mare sulla tavola, Rimini, 1997 [C]; Il codice di cucina, a cura di L. Bartolotti, Rimini, 1993 [CC]; P. Meldini, Il Montefeltro, in “La Gola”, 1986, 47 [M]; G. Quondamatteo, L. Pasquini, M. Caminiti, Mangiari di Romagna, Imola, 19754 [MR]; G. Pozzetto, La cucina del Montefeltro, Padova, 1998 [P]; AA. VV., Purazi… doni!, Rimini, 20052 [PD]; G. Quondamatteo, Grande dizionario (e ricettario) gastronomico romagnolo, Imola, 1978 [Q]; V. Valentini, Tutti a tavola. Le ricette della provincia pesarese, cit. [VL]; C.G. Vanni, Lʼestremo lembo della terra di Romagna: San Giovanni in Marignano e la bassa valle del Conca,

20. Cfr. La civiltà contadina…, cit., p. 27. 21. Cfr. M. Harris, Buono da mangiare, Torino, 1990, p. 60. 22. La ricetta in BI, p. 61, in P, pp. 79-80 e in VL, p. 198. Una versione ottocentesca in CC, p. 81. 23. G. A. Battarra, Pratica agraria…, cit., II, p. 135. 24. G. Cirelli, Il villano smascherato, cit., pp. 26-7 della riedizione. 25. La ricetta in Q, p. 16 e in CC, p. 83 (versione ottocentesca sempliÞcata). 26. La ricetta della porchetta di MonteÞore in MR, pp. 80-1; la citazione e lʼaneddotica su quella di San Giovanni in Marignano in VN, p. 134. 27. La ricetta in BI, p. 37, in C, p. 79, in P, pp. 21-2, in Q, p. 209 e in VL, p. 39. 28. La ricetta in BI, p. 39 e in Q, p. 247. 29. La ricetta in BI, p. 39, in P, p. 20 e in VL, p. 51. 30. La ricetta, molto ingentilita, in BI, pp. 39-40, in MR, p. 217 e in VL, p. 75. 31. La ricetta, nella versione di Sassocorvaro, in VL, p. 107. 32. La ricetta del pollo “in potacchio” in P, p. 37; quella del coniglio in

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LA CULTURA DEL CIBO TRA ROMAGNA E MARCHE VL, p. 106. 33. La ricetta in BI, p. 46 e in VL, p. 119. 34. La ricetta del ciambellone in C, p. 98; quella dei maritozzi in VL, pp. 239-40. 35. Op. cit., pp. 147-9. 36. N. Rimbocchi, La Romagna nellʼopera di Giovanni Pascoli, II, in “La Romagna”, 1914, 5-6, p. 167. 37. G. Albini, Gli Albini di Saludecio nei ricordi dʼun nonagenario, cit., p. 46.

LA CUCINA DEI NOBILI E DEI BORGHESI NELLE LETTERE DI LANCISI E NEI RICETTARI DOMESTICI OTTOCENTESCHI 1. G.M. Lancisi, Lettere inedite […] nelle quali descrive un suo viaggio da Urbino a Montefeltro, e alla Repubblica di S. Marino, cit. Su Lancisi e la sua escursione nel Montefeltro cfr. S. Venturi, La cucina del Montefeltro dallʼetà della pietra allʼetà della piada, in “Il Titolo”, 1985, 9, pp. 6-7; P. Meldini, Il Montefeltro, cit.; Montefeltro e Valmarecchia. Natura e storia tra Romagna, Marche e Toscana, Bra, 1993, p. 82; G. Pozzetto, La cucina del Montefeltro, cit., pp. 89-95. 2. Ibid., p. 1.

38. Op. cit., pp. 210 e 216-7.

3. Ibid., p. 8.

39. Art. cit., p. 75.

4. Cfr. G. Bilancioni, G.M. Lancisi e lo studio degli organi di senso, in “Giornale di medicina militare”, 1920.

40. La ricetta di casa Albini in CC, p. 29; quella di casa Mattei Gentili in M, p. 17. 41. Cfr. P. Artusi, La scienza in cucina e lʼarte di mangiar bene, a cura di P. Camporesi, Torino, 1970, pp. 39-42. 42. La ricetta in BI, p. 64, in MR, p. 173 e in VL, p. 269. 43. La ricetta in BI, pp. 62-3 e in C, p. 101.

5. Op. cit., p. 11. 6. Ibid., p. 35. 7. Ibid., p. 5. 8. La ricetta in VL, p. 174.

44. Op. cit., p. 127.

9. C. Felici, Scritti naturalistici, I, Delʼinsalata e piante che in qualunque modo vengono per cibo delʼhomo, cit., p. 129.

45. La ricetta in VL, pp. 258-9.

10. Op. cit., p. 5.

46. Art. cit., p. 75. La ricetta in BI, pp. 27-8.

11. Ibid., p. 8.

47. La ricetta in BI, pp. 60-1 e in MR, p. 176.

12. Ibid., p. 12.

48. La ricetta in BO, p. 75 e in P, pp. 136-7; una bella versione ottocentesca in CC, pp. 57-9.

13. Ibid., p. 20.

49. F. Bonasera, Le abitudini alimentari dei contadini della Romagna sud-orientale e delle Marche settentrionali, cit., p. 75.

14. Ibid., p. 35. 15. Ibid., p. 53.

50. Due ricette, una di Morciano e lʼaltra della Pedrolara di Coriano, in MR, p. 175.

16. Ibid., p. 54.

51. Op. cit., p. 128.

18. Sul banchetto nuziale di Roberto Malatesta e Isabetta da Montefeltro v. F.V. Lombardi, “Liste” delle nozze di Roberto Malatesta ed Elisabetta da Montefeltro (25 giugno 1475), in “Romagna arte e storia”, 1986, 18, pp. 13-26 e P. Meldini, Le nozze di Roberto e Isabetta, in “La Gola”, 1988, 20 n.s., pp. 5-6.

52. Sui rituali del pranzo di nozze in Romagna v. E. Baldini, La sacra tavola, cit., pp. 99-117 e M. Turci, La dimora dei riti. Nascere, vivere e morire in Romagna, Rimini, 1989, pp. 47-56. 53. Op. cit., p. 54. E. Cavazzuti, Di alcune usanze popolari delle Alfonsine e della zona limitrofa della Romagna bassa, Ravenna, 1934, p. 7. 55. Op. cit., pp. 106-8. 56. Cfr. M. Lombardi, La Romagna con le gambe sotto il tavolo, in “In Rumâgna”, 1975, 1, p. 41. La lista sembra alquanto rimaneggiata. 57. La ricetta in C, p. 97.

17. Ibid., pp. 19-20.

19. Cfr. M. Tabarrini, Descrizione del convito… fatto a Pesaro per le nozze di Costanzo Sforza e di Camilla dʼAragona…, Firenze, 1870. 20. G.A. Battarra, Comentario, a cura di C. Di Carlo, Rimini, 2005, p. 56 (“scibala” è sinonimo ironicamente dotto – e per così dire tecnico – di “escremento”). 21. Ibid., p. 60. 22. Ibid. 23. Ibid., p. 61. 24. Il manoscritto, mutilo in fine, si compone di 11 carte e reca la segnatura ms. 1287. È stato parzialmente pubblicato in P. Meldini, Il Montefeltro, cit., p.17 e in G. Pozzetto, La cucina del Montefeltro, cit., pp. 96-100.

106


NOTE 25. Sul fondo bibliograÞco Mattei Gentili cfr. la scheda di P. Delbianco in AA. VV., La Biblioteca Civica Gambalunga. LʼediÞcio, la storia, le raccolte, a cura di P. Meldini, Rimini, 2000, pp. 82-3.

56. Il codice di cucina, cit., p. 49.

26. S. Papa, La cucina dei monasteri, Milano, 1977, pp. 32-42, 97-106, 114-5, 143-8, 151-6, 167-76, 182-8, 202-5.

58. Ibid., pp. 47-9.

27. Ms. cit., c. 3v.

60. Ibid., p. 25.

28. Cfr. La civiltà contadina nelle tre valli (Metauro, Foglia, Conca), I, La cucina, cit., pp. 58-66.

61. Ibid., pp. 33 e 55.

29. Ms. cit., cc. 9v-10r. 30. Ibid., c. 10v. 31. Ibid., c. 5v. 32. Ibid., c. 4. 33. Ibid., cc. 7v-8r. 34. Ibid., c. 9r. 35. Ibid., c. 8v. 36. Ibid., c. 1r. 37. Cfr. in proposito P. Meldini, A tavola e in cucina, in AA. VV., La famiglia italiana dallʼOttocento a oggi, a cura di P. Melograni, Bari, 1988, pp. 424-32, e Id., Lʼemergere delle cucine regionali: lʼItalia, in AA. VV., Storia dellʼalimentazione, a cura di J.L. Flandrin e M. Montanari, Bari, 1997, pp. 658-64. 38. Ms. cit., c. 10v. 39. Ibid. 40. Ibid., c. 6. 41. Ibid., c. 9. 42. Ibid., c. 11v. 43. Ibid., c. 3v. 44. Ibid., c. 8r.

57. Ibid., pp. 61-3.

59. Ibid., p. 41.

62. Ibid., p. 35. 63. Ibid., p. 51-3. 64. Ibid., pp. 75-7. 65. Ibid., pp. 25-7. 66. Ibid., pp. 37 e 47. 67. Ibid., p. 45. 68. Ibid., p. 43. 69. Ibid., p. 61. 70. Ibid., pp. 57-9. 71. Cfr. V. Valentini, Tutti a tavola. Le ricette della provincia pesarese, cit., p. 255. 72. Cfr. F. Bonasera, Le abitudini alimentari dei contadini della Romagna sud-orientale e delle Marche settentrionali, cit., p. 75. 73. Il codice di cucina, cit., p. 77. 74. Ibid., p. 13. 75. Ibid., p. 23. 76. Cfr. P. Meldini, Caffè e ritrovi mondani a Rimini, in AA. VV., I caffè storici in Emilia-Romagna e Montefeltro, a cura di G. Roversi, Casalecchio di Reno, 1994, p. 274: vi si racconta, sulla scorta di Filippo Giangi, della caffetteria e pasticceria Cervellati, in piazza SantʼAntonio, che nel febbraio del 1837 usò per i propri rinomati pasticci di maccheroni ben 236 libbre di Þor di farina.

45. Ibid., c. 11r. 46. Il codice di cucina, a cura di L. Bartolotti, cit. 47. G. Albini, Gli Albini di Saludecio nei ricordi dʼun nonagenario, cit. 48. Ibid., pp. 105-6. 49. Ibid., pp. 71-2.

MICROSTORIA DI UNʼINDUSTRIA ALIMENTARE 1. Cfr. A. Turchini, Fra XV e XVIII secolo, in AA. VV., Natura e cultura nella valle del Conca, cit., pp. 255-7; ripubblicato con lievi modiÞche in A. Turchini, La Romagna nel Cinquecento, I, Istituzioni comunità mentalità, Cesena, 2003.

50. Ibid., p. 52.

2. A. Turchini, Le culture subalterne (secc. XV-XX), in AA. VV., Natura e cultura nella valle del Conca, cit., pp. 360-2.

51. Ibid., pp. 45-6.

3. Ibid., p. 369.

52. Ibid., p. 73.

4. Cfr. G.L. Masetti Zannini, Le estreme propaggini meridionali della Romagna descritte da Giovanni Antonio Battarra, in “Studi romagnoli”, 1967, 18, p. 66.

53. Ibid., p. 103. 54. Ibid., p. 97. 55. Ibid., p. 52.

5. A. Turchini, Le culture subalterne (secc. XV-XX), cit., p. 369. 6. O. Delucca, Lʼabitazione riminese nel Quattrocento, I, La casa ru-

107


LA CULTURA DEL CIBO TRA ROMAGNA E MARCHE rale, Rimini, 1991, p. 627.

LA CUCINA MARINARA

7. Ibid.

1. M.L. De Nicolò, La Cattolica del Cinquecento. Appunti e ricerche per una storia di Cattolica, Urbino, 1979, p. 79.

8. Ibid., p. 628. 9. Ibid., pp. 628-9. Sui mulini tardomedievali lungo il tratto inferiore del Conca cfr. O. Delucca, Misano nel Quattrocento, in AA. VV., Misano Adriatico dalla preistoria al secolo XV, Rimini, 1989, p. 170 e segg. Sui mulini del Conca v., più in generale, A. Costa, S. Manzi, G. Tarducci, I mulini ad acqua nella valle del Conca. Analisi e censimento degli antichi opiÞci idraulici, Rimini, 1996. 10. R. Adimari, Sito riminese, cit., I, p. 14.

2. M.L. De Nicolò, La strada e il mare, s.l., 1993, pp. 104-6. 3. A. Turchini, Fra XV e XVIII secolo, cit., p. 362. 4. Cfr. M.L. De Nicolò, La Cattolica del Cinquecento, cit., p. 87. 5. Ibid., pp. 84-5. 6. Ibid., pp. 82-3.

11. Ibid., II, p. 24.

7. Ibid., pp. 89 e 93-4. Cfr. anche lʼinventario del 1587 ivi pubblicato e in particolare la p. 122.

12. [G. Del Magno], Storia di Morciano, Rimini, s.d. (ma 1991), p. XIX.

8. Rimini, Archivio di Stato, Criminalia, 930.

13. P.A. Guerrieri, Il Montefeltro illustrato, parte terza, capitoli IV-X, de “La Carpegna abbellita et il Montefeltro illustrato”, a cura di L. Donati, Rimini, 1979, p 34. 14. A. Turchini, Le culture subalterne (secc. XV-XX), cit., p. 360. 15. Op. cit., pp. 105-231. 16. Ibid., pp. 118-35 e 200-13. 17. N. e F. Giangi, [Diari 1782-1846], II, Rimini, Biblioteca Gambalunghiana, ms. 341, alla data del 16 agosto 1827. I “bigoli” corrispondono agli odierni spaghetti. 18. Su tutto questo v. [G. Del Magno], op. cit., pp. XX-XXI.

9. M.L. De Nicolò, La cucina sulle vie della storia, in AA. VV., Cattolica, il mare sulla tavola, cit., p. 23. 10. Ibid. 11. Pubblicati in M.L. De Nicolò, La Cattolica del Cinquecento, cit., pp. 129-30. 12. Cfr. M.L. De Nicolò, La strada e il mare, cit., pp. 148-51. 13. La ricetta, preceduta dalla relativa storiella, in Q, p. 290. 14. M.L. De Nicolò, La cucina sulle vie della storia, cit., pp. 24-7. 15. M.L. De Nicolò, La strada e il mare, cit., pp. 331-2. 16. M.L. De Nicolò, La cucina sulle vie della storia, cit., p. 23.

19. La “vacchetta” su cui un gentiluomo di Filottrano (ma colà trasferito da Rimini) annotava quotidianamente le “cibarie” acquistate, ci assicura che già nel 1846 si ricorreva alla pasta secca Þno a dodici volte al mese. Cfr. P. Meldini, A tavola e in cucina, cit., pp. 429-31.

17. C.G. Vanni, Lʼestremo lembo della terra di Romagna: San Giovanni in Marignano e la bassa valle del Conca, cit., p. 134.

20. B. Ghigi, La mia vita tutta di corsa (per non dimenticare Angelo Ghigi), Rimini, 2003, p. 42.

19. La lettera è parzialmente pubblicata in M.L. De Nicolò, La strada e il mare, cit., p. 331.

21. [G. Del Magno], op. cit., p. XX.

20. La ricetta e lʼaneddotica in MR, pp. 231-2.

22. B. Ghigi, op. cit., pp. 32-3.

21. M.L. De Nicolò, La Cattolica tra XVI e XVIII secolo: contrada di taverne e borgo marinaro, in AA. VV., Natura e cultura nella valle del Conca, cit., pp. 287-8.

23. Ibid., pp. 15-6. 24. Ibid., pp. 17-8. 25. Ibid., p. 13. 26. Ibid., pp. 34-5. 27. [G. Del Magno], op. cit., p. XX. 28. B. Ghigi, op. cit., pp. 20-4. 29. Ibid., p. 14. 30. Ibid., pp. 43-4. 31. Ibid., pp. 12 e 27. 32. Cfr. [G. Del Magno], op. cit., p. XX. 33. Ibid., pp. XX-XXI.

18. Ibid., p. 210.

22. M.L. De Nicolò, La strada e il mare, cit., pp. 219-20. 23. R. Adimari, Sito riminese, cit., II, p. 20. 24. Ibid., p. 19. 25. M.L. De Nicolò, La strada e il mare, cit., pp. 223-4. Cfr. altresì G. Quondamatteo, G. Bellosi, Romagna civiltà, I, Cultura contadina e marinara, Imola, Galeati, 1977, pp. 115-7. 26. M.L. De Nicolò, La strada e il mare, cit., pp. 221-2. 27. G. Quondamatteo, G. Bellosi, Op. cit., pp. 119-22. 28. M.L. De Nicolò, La strada e il mare, cit., p. 223. 29. M.L. De Nicolò, La Cattolica tra XVI e XVIII secolo, cit., p. 293. 30. Cfr. S. Pivato, Fonti per una storia sociale alla Þne dellʼ800, cit.,

108


NOTE p. 318.

45. La ricetta in C, p. 80.

31. M.L. De Nicolò, La strada e il mare, cit., pp. 230 e 253.

46. La ricetta in C, p. 81 e in Q, p. 275.

32. Ibid., pp. 232-3.

47. La ricetta in C, p. 82.

33. Ibid., p. 230.

48. La ricetta in VL, p. 63.

34. Cfr. G. Quondamatteo, G. Bellosi, op. cit., pp. 96-7; cfr. M.L. De Nicolò, La cultura marinara, in AA. VV., Storia illustrata di Rimini, a cura di P. Meldini e A. Turchini, III, Milano, 1990, pp. 664-6.

49. La ricetta in C, p. 84. Cfr. la versione di Bellaria in PD, p. 178.

35. In AA. VV., Cattolica, il mare sulla tavola, cit., pp. 32-3. Cfr. anche G. Quondamatteo, G. Bellosi, Op. cit., pp. 111-4.

51. La ricetta in C, p. 85.

36. M.L. De Nicolò, La cucina sulle vie della storia, cit., p. 27.

53. La ricetta in C, p. 90 e in VL, pp. 168-9.

37. Ibid., pp. 22-3.

54. La ricetta in VL, p. 168.

38. La ricetta in MR, pp. 116-7 e, con lievi varianti, in Q, p. 271.

55. Cit., pp. 244-5.

39. In VL, p. 149.

56. M.L. De Nicolò, La cucina sulle vie della storia, cit., p. 19.

40. La ricetta in C, p. 86, in MR, pp. 239-40 e in VL, p. 150. Cfr. la “zuppa con le canocchie” di Bellaria in PD, p. 56.

57. Ibid., p. 20.

41. La ricetta in VL, p. 169.

58. F. Bonasera, Le abitudini alimentari dei contadini della Romagna sud-orientale e delle Marche settentrionali, cit., p. 75.

42. La ricetta (di Gabicce) in VL, p. 144. Cfr. la versione bellariese in PD, p. 130. 43. La ricetta in C, p. 88. 44. Cfr. Nicola Levoli pittore (1728-1801), a cura di G. Milantoni, Rimini, 1990.

50. La ricetta in MR, p. 155 e in VL, pp. 19-20.

52. La ricetta in MR, p. 156 e in Q, p. 295.

59. Op. cit., II, p. 20. Anche Pier Antonio Guerrieri, intorno al 1660, celebrava gli «horti di S. Gianni e della Cattolica»: cfr. La Carpegna abbellita et il Montefeltro illustrato, parte terza, [capitoli I-III], Bologna, 1924 (rist. anastatica: Bologna, 1974), p. 28. 60. M.L. De Nicolò, La cucina sulle vie della storia, cit., pp. 20-1.

109



APPENDICE

RICETTE

Pubblichiamo una scelta di ricette, selezionate non fra le più diffuse, ma fra le più peculiari e rappresentative del territorio. Occorre precisare, a scanso dʼequivoci, che i piatti tradizionali di questa come di altre aree non sono codiÞcati né codiÞcabili, cioè traducibili in una formula precisa e standardizzata, e che i ricorrenti tentativi di approntarne per così dire la “versione ufÞciale” costituiscono altrettante forzature. Di qui la scelta, diametralmente opposta, di non fornire le dosi, fatta eccezione per i dolci. Abbiamo indicato, in nota, le fonti a stampa, manoscritte e orali delle ricette. Dove esistevano più versioni, abbiamo scelto quella che consideravamo la più completa e “attendibile”, o la più caratterizzata, precisando sempre in nota, quando necessario, le ragioni della scelta e segnalando le varianti più notevoli delle altre versioni. Nella trascrizione delle ricette abbiamo uniformato il linguaggio, pur senza tradire le fonti da cui derivano.

Patacùc Impastare farina di grano e frumentone con acqua tiepida leggermente salata, stendere una sfoglia un poʼ spessa e tagliarla a quadrettoni. Soffriggere cipolla affettata sottilmente in un battuto di lardo; aggiungere pomodoro fresco pelato, privato dei semi e tagliato a pezzi; salare e pepare. Cuocere i patacùc in abbondante acqua salata, scolarli e condirli con il sugo. Spolverizzare con pecorino. La versione è quella gradarese della famiglia Gennari raccolta da Delio Bischi (BI, p. 33). Nella versione di Valentino Valentini (VL, pp. 51-2)

lʼimpasto della sfoglia è fatto con farina di grano e polenta avanzata; i patacùc, inoltre, non sono una minestra asciutta, ma in brodo. Sono in brodo, ma conditi con un sugo di fagioli borlotti, anche nella versione della famiglia Mancini di Montescudo raccolta da Gianni Quondamatteo (Q, p. 230).

Battutini con i fagioli Impastare farina di grano con acqua e poche uova. Dare allʼimpasto la forma di un grosso salame e tagliarlo a fette alte qualche millimetro. Lasciarle riposare sul tagliere, quindi tritarle minutamente col coltello o la mezzaluna. Cuocere in acqua moderatamente salata fagioli cannellini secchi. A parte, soffriggere in olio dʼoliva un trito dʼaglio e prezzemolo, aggiungere conserva di pomodoro diluita in acqua tiepida, sale e pepe, e sobbollire per una ventina di minuti. Quando i fagioli sono cotti, versare nel tegame prima il sugo e poi i battutini, che cuoceranno in pochi minuti. Ricetta in uso nella valle del Conca comunicata a Bischi (B, p. 34) da Laura Pullè.

Pasta con i fagioli Versare fagioli cannellini secchi in una pignatta di terracotta. Aggiungere un osso di prosciutto, qualche pezzo di cotica, un battuto di lardo e un trito di cipolla. Salare, pepare, bagnare con acqua, coprire la pignatta col coperchio e sobbollire fino a 111


LA CULTURA DEL CIBO TRA ROMAGNA E MARCHE

cottura completa dei fagioli. Togliere lʼosso, aggiustare il sale e gettare pasta secca corta o maltagliati freschi.

quella cattolichina (C, p. 82) sono larghi mezzo centimetro.

Ricetta cattolichina trasmessa a Quondamatteo, Pasquini e Caminiti (MR, p. 211) da Annunzio Livi.

Frescarelli o granetti

Tagliolini “con la bomba” Stendere una sfoglia non troppo sottile fatta con farina e acqua, e ricavare dei tagliolini a sezione quadrata. Soffriggere cubettini di lardo o pancetta in un tegame di terracotta. Gettare i tagliolini nellʼacqua bollente salata e, raggiunta la cottura, versare di colpo il contenuto del tegame che, a contatto con lʼacqua, produrrà unʼesplosione di vapore (la “bomba”). Mescolare rapidamente e servire. È la versione di Gabicce Mare dettata a Bischi dallʼamico Riccardo Romagna (BI, pp. 34-5), e coincide quasi alla lettera con quella metaurense pubblicata da Valentini (VL, pp. 45-6). La più recente versione cattolichina (C, p. 83) prescrive una sfoglia con le uova e un soffritto di lardo macinato.

Tajadlòt Tirare una sfoglia abbastanza alta fatta senza o con pochissime uova e tagliarla a fettucce sottili. Soffriggere un battuto di lardo e pancetta per pochi minuti, a fuoco vivace, quindi aggiungere pomodoro fresco pelato, privato dei semi e tagliato a pezzi; salare e pepare. Abbassare la Þamma e continuare la cottura per circa mezzʼora. Cuocere i tajadlòt in abbondante acqua salata, scolarli e condirli con il sugo. Spolverizzare con pecorino o parmigiano. Questa ricetta deriva dalla versione marignanese trasmessa da Daniela Spina e pubblicata in Mangiari di Romagna (MR, p. 222), salvo che là i tajadlòt hanno la larghezza dei tagliolini. In

112

Spruzzare acqua tiepida su farina di grano sparsa sulla spianatoia, rimestarla e, setacciandola, ricavare dei grumi. Gettarli in acqua bollente salata, cuocerli per circa un quarto dʼora, scolarli e condirli con mosto cotto (sapa). In alternativa alla sapa, Delio Bischi (BI, p. 33) indica sugo di pomodoro e pecorino grattugiato; Valentini (VL, p. 53) aggiunge soffritto di lardo e aglio, e sugo di salsiccia sbriciolata.

Pancotto Sobbollire i tozzi di pane casereccio raffermo in un tegame di terracotta con acqua, sale e uno spicchio dʼaglio. Dopo circa unʼora, quando il pancotto comincia ad attaccarsi al tegame, versarlo nei piatti e condirlo con un Þlo dʼolio dʼoliva e pecorino grattugiato. È la versione proposta da Delio Bischi (BI, pp. 36-7); in quella data da Valentino Valentini (VL, p. 240) manca lʼaglio e lʼolio dʼoliva può essere sostituito dal burro.

Passatelli Grattugiare pane raffermo di farina intera e unire una pari quantità di parmigiano grattugiato, uova, sale, pepe e odore di noce moscata. Impastare gli ingredienti fino a ottenere un composto sodo. Lasciarlo riposare per una decina di minuti, poi passarlo nellʼapposito utensile. Cuocere i passatelli così ottenuti, preparati pochi minuti prima, in un buon brodo di cappone o di gallina. È la ricetta – nel testo originale ben più dettagliata – fornita da Quondamatteo (Q, p. 209), che coin-


APPENDICE: RICETTE

cide pienamente, per altro, con quella stringatissima di Bischi (BI, p. 37). In quella cattolichina (C, p. 79) la quantità del parmigiano supera di un terzo la quantità del pangrattato. Valentini (VL, p. 39) prescrive tra gli odori anche la scorza di limone. Nella versione feretrana registrata da Pozzetto (P, pp. 21-2) si raccomanda un impasto morbido in cui entra anche il midollo di bue.

Cappelletti di grasso in brodo Tritare minutamente del petto di cappone, unire abbondante midollo di vitello, sciogliere un tocchetto di burro in un tegame e scottarvi rapidamente la carne. Fare raffreddare e unire abbondante parmigiano grattugiato, qualche rosso dʼuovo e odore di cannella e noce moscata. Questo composto servirà come ripieno dei cappelletti, che andranno cotti in un buon brodo di cappone o di gallina. È la versione ottocentesca di casa Mattei Gentili di Torricella di Pennabilli (M, p. 17; c. 9v del ms.) ed è pressoché identica a quella, ugualmente ottocentesca, di casa Albini di Saludecio (CC, p. 29). Unica variante il pepe garofanato al posto della cannella e della noce moscata.

Cappelletti di magro asciutti Per il ripieno unire ricotta, rossi dʼuovo, abbondante parmigiano grattugiato, odore di noce moscata e un niente di cannella. Con questo compenso confezionare piccoli cappelletti. Cuocerli in acqua salata, disporli in una piroÞla, condirli con burro e parmigiano e passarli brevemente in forno. Anche questa ricetta è tratta dal quaderno ottocentesco di casa Mattei Gentili (M, p. 17; c. 10r del ms.). La corrispondente ricetta di casa Albini (CC, p. 31) prescrive per il ripieno un maggior numero di spezie e di erbe profumate: prezzemolo, maggiorana, timo, garofano e cannella.

Pasticcio di maccheroni Per fare la pastafrolla impastare 350 grammi di farina con 180 grammi di burro (o di strutto), altrettanti di zucchero, quattro rossi dʼuovo e un albume. Tirare una sfoglia piuttosto spessa e foderare con questa uno stampo dal bordo alto. Preparare un ragù di fegatelli di pollo, animelle e funghi prugnoli. Cuocere al dente dei maccheroni di semola di grano duro, scolarli e condirli con il ragù. Unire parmigiano grattugiato, fettine di tartufo bianco (o, in mancanza, nero), pezzetti di cedro candito, odore di cannella. Riempire lo stampo con i maccheroni così conditi, disporre qua e là qualche Þocchetto di burro e coprire con altra pastafrolla. Spennellarla con rosso dʼuovo e cuocere in forno. È la ricetta ottocentesca tràdita dal Codice di cucina di casa Albini (CC, pp. 22-3). La ricetta della “pasta frolla pel pasticcio” del quaderno di casa Mattei Gentili (c. 3v del ms.) prescrive come grasso per lʼimpasto solo lo strutto.

Strozzapreti Impastare la farina di grano solo con acqua. Stendere una sfoglia abbastanza spessa, tagliarla a listarelle e arrotolare queste ultime soffregandole tra le palme delle mani. Cuocere gli “strozzapreti” in acqua salata e condirli con un sugo di lardo, pomodoro, aglio e una punta di peperoncino. La versione è quella data da Bischi (BI, p. 39) e ripresa senza varianti di sorta da Valentini (VL, p. 51), che menziona anche un sugo di fagioli.

Gnocchi di patate Lessare delle patate “farinose” in acqua moderatamente salata, pelarle e schiacciarle. Unire farina di grano (circa un terzo del peso delle patate) e la poca acqua tiepida occorrente. Con lʼimpasto ricavare dei 113


LA CULTURA DEL CIBO TRA ROMAGNA E MARCHE

bastoncini e tagliarli a tocchetti, che si passeranno poi sui rebbi di una forchetta o sul rovescio di una grattugia; o, più semplicemente, si schiacceranno con il pollice. Cuocere gli gnocchi in acqua salata, condirli con un semplice sugo di lardo e pomodoro, e spolverizzarli di pecorino.

Per restringerlo ulteriormente aggiungere patate lessate e sfatte. Versione di Sassocorvaro comunicata a Valentino Valentini da Franca Ercolani (VL, p. 107).

Risotto con la folaga È la versione originaria senza uova registrata da Delio Bischi (BI, p. 39), che accenna anche alla successiva aggiunta di un uovo come legante.

Tagliatelle con i fagioli Confezionare delle tagliatelle di sfoglia non troppo sottile e un poʼ più larghe di quelle romagnole classiche. Soffriggere in olio dʼoliva pancetta e prosciutto a dadini. Aggiungere pomodoro fresco pelato, privato dei semi e tagliato a pezzi, insieme a un trito di cipolla, sedano, carota e basilico. Salare e pepare. Sobbollire il sugo per un paio dʼore. Versare alla Þne abbondanti fagioli borlotti lessati e insaporirli per bene. Cuocere le tagliatelle in abbondante acqua salata e condirle con il sugo di fagioli. La ricetta è quella gradarese di Pippo Balducci, del ristorante “La Casaccia”, dettata a Quondamatteo, Pasquini e Caminiti (MR, p. 217), e ripresa integralmente sia da Bischi (B, pp. 39-40) che da Valentini (VL, p. 75).

Pulire la folaga e farla in quattro pezzi. Disporli in un tegame insieme a un poʼ dʼolio dʼoliva, a un battuto di pancetta, e a un trito di cipolla, sedano e carota. Rosolare la folaga, salare, pepare e bagnare con un bicchiere di vino bianco secco. Lasciare asciugare, quindi versare nel tegame conserva di pomodoro sciolta in un bicchiere dʼacqua. Lasciar asciugare anche questo liquido, poi coprire dʼacqua la folaga e farla sobbollire a fuoco moderato fino a perfetta cottura. Togliere i pezzi di folaga, spolparli, triturare la carne ricavata e rimetterla nel tegame. Alzare il bollore e gettare il riso. Quando il riso avrà assorbito il sugo, bagnare con brodo leggero o acqua bollente moderatamente salata. Continuare in questo modo Þnché il riso non è cotto. Toglierlo dal fuoco e mantecarlo con burro e parmigiano grattugiato. Ricetta cattolichina dellʼOttocento recuperata da Maria Lucia De Nicolò e pubblicata nella sua introduzione storica a Cattolica, il mare sulla tavola (C, pp. 20-2).

Fagioli con le cotiche Tenere a bagno i fagioli secchi per un giorno intero. Eliminare dalle cotiche ogni residuo di grasso e di setola, tagliarle a pezzi e lessarle al dente. Fare un soffritto con olio dʼoliva, un battuto di lardo e un trito di cipolla, sedano e carota. Versare mezzo bicchiere di vino bianco e lasciarlo evaporare. Unire i fagioli, le cotiche, una punta di peperoncino, e pomodoro fresco pelato, privato dei semi e tagliato a pezzi. Salare e bagnare con brodo di carne. Cuocere a fuoco basso Þnché il sugo non si è ristretto. 114

Quadrucci con la seppia Impastare la farina con uova e un poʼ dʼacqua, stendere la sfoglia e ricavare dei quadrucci. Pulire della seppia tenera di media grossezza e tagliarla a dadini. In un tegame imbiondire in olio dʼoliva uno spicchio dʼaglio tritato; aggiungere pomodoro fresco pelato, privato dei semi e tagliato a pezzi, un paio di bicchieri dʼacqua e la seppia. Salare e pepare. Sobbollire per unʼora abbondante, poi gettare nel tegame


APPENDICE: RICETTE

i quadrucci. Spolverizzare i piatti con prezzemolo tritato minutamente. Ricetta di Cattolica (C, p. 81). La ben più ricca e complessa versione, anchʼessa cattolichina, dettata a Quondamatteo da Aroldo Riciputi (Q, p. 275), prevede che alla seppia siano aggiunte “poveracce” sgusciate e piselli, e che, al posto dellʼacqua, si usi un brodo di pesce fatto con “zanchetti”, cipolla, sedano, carota e pomodoro. Tale versione del piatto ha più di un punto in comune con quella che qui segue.

giungere pomodoro fresco pelato, privato dei semi e tagliato a pezzi, un poʼ dʼacqua e “zanchetti” puliti. Salare e pepare. Bollire per una decina di minuti, passare al setaccio e cuocere i battutini nel brodo ristretto così ottenuto. Spolverizzare i piatti con prezzemolo tritato minutamente e un poʼ di parmigiano grattugiato. Ricetta di Cattolica (C, p. 80).

Pastasciutta con sugo di pesce Quadrucci con la seppia di Torcicòl Preparare un brodo di pesce con “zanchetti” e altra minutaglia, acqua, sale, cipolla, sedano, carota, prezzemolo, scorza di limone e pepe bianco in grani. Pulire della seppia tenera di media grossezza e tritarla grossolanamente. In un tegame imbiondire in olio dʼoliva cipolla affettata sottilmente. Gettare la seppia e, non appena avrà preso colore, aggiungere piselli, e pomodoro fresco pelato, privato dei semi e tagliato a pezzi. Salare e pepare. Stendere una sfoglia fatta con farina e uova, e ricavare dei quadrucci. Cuocerli nel brodo di pesce Þltrato, scolarli e versarli nel tegame della seppia. È la versione dei quadrucci con la seppia (e i piselli) di Antonio Galanti detto Torcicòl (18331920), di Gabicce Monte, pescatore per necessità e cuoco itinerante, conservata dalla lontana parente Cesira Galanti Romagnoli e trasmessa, con altre cinque ricette dello stesso Torcicòl, a Quondamatteo, Pasquini e Caminiti (MR, p. 244).

Battutini con pesce da frittura Impastare la farina con acqua e poche uova. Dare allʼimpasto la forma di un grosso salame e tagliarlo a fette alte qualche millimetro. Lasciarle riposare sul tagliere, quindi tritarle minutamente col coltello o la mezzaluna. In un tegame soffriggere in olio dʼoliva cipolla affettata sottilmente; ag-

Pulire, lessare e spinare due piccole sogliole, una mazzola, un merluzzetto e qualche sardoncino. Aprire sul fuoco, a parte, un pugnetto di “poveracce” e sgusciarle. Soffriggere il tutto in olio dʼoliva, dolcemente, con uno spicchio dʼaglio e un trito di prezzemolo. Salare, pepare e aggiungere un poʼ di conserva di pomodoro sciolta in mezzo bicchiere dʼacqua. Abbassare la Þamma al minimo e lasciar asciugare il liquido. Con questo sugo condire tagliatelle o tagliolini di pasta fresca, o anche spaghetti. Ricetta di Gabicce Monte dettata a Valentino Valentini (VL, p. 63) dai pescatori Valentino Ortolani e Filiberto Vanzolini.

Baggiana di fave Lessare fave fresche passate di maturazione (“baggiotte”) insieme a bietole, aglio, Þnocchio selvatico, olio dʼoliva, sale e pepe. Dopo tre quarti dʼora di cottura a fuoco moderato, aggiungere pomodoro fresco pelato, privato dei semi e tagliato a pezzi. Cuocere per altri tre quarti dʼora. Versione di Sassocorvaro trasmessa a Valentini (VL, p. 174) da Franca Ercolani.

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LA CULTURA DEL CIBO TRA ROMAGNA E MARCHE

Baggiana di fave “alla Felici”

Pasticciata

Tenere a bagno in acqua e sale, per una notte, fave secche decorticate. Sciacquarle accuratamente e cuocerle a fuoco bassissimo, in un tegame di coccio, con acqua, sale, pepe e un cucchiaio dʼolio dʼoliva extravergine di prima spremitura. Rimestare di tanto in tanto per evitare che attacchino e, se necessario, versare un altro poʼ dʼacqua. A parte, affettare la parte bianca di alcuni porri e soffriggerla dolcemente in olio dʼoliva. Salare e pepare. Far rinvenire dellʼuvetta in acqua tiepida, pestarla nel mortaio e aggiungerla ai porri. Bagnare con poco aceto, mescolare e terminare la cottura dopo cinque minuti. Disporre nei piatti fondi le fave, che saranno diventate una purea, e condirle con la salsa agrodolce di porri, uvetta e aceto.

Steccare un girello intero di vitellone con lardelli, chiodi di garofano, aglio, sale e pepe. Legare il pezzo di carne ben stretto con lo spago. In un tegame di terracotta soffriggere un trito di cipolla, sedano e carota in olio dʼoliva; adagiarvi la carne e rosolarla da tutti i lati. Salare, pepare e bagnare con vino rosso Þn quasi a coprire la carne. Coprire il tegame con il coperchio e cuocere a fuoco bassissimo per alcune ore, evitando accuratamente che la carne si attacchi al fondo. Quando il vino sarà evaporato, aggiungere conserva di pomodoro diluita in acqua o brodo. Affettare la pasticciata e servirla dopo averla irrorata col fondo di cottura.

La ricetta del piatto è desunta dalla descrizione, relativamente dettagliata, che ne dà Costanzo Felici nella sua “lettera sulle insalate” (cit., p. 129).

Pollo in potacchio Tagliare il pollo in un decina di pezzi. Soffriggere in olio dʼoliva, in un tegame di terracotta, cipolla affettata e alcuni spicchi dʼaglio schiacciati. Gettare i pezzi di pollo e rosolarli da tutte le parti. Salare, pepare, colorire con non molto concentrato o salsa di pomodoro, quindi sfumare con vino bianco secco. Continuare la cottura a fuoco dolce per unʼora abbondante. A metà cottura aromatizzare con rosmarino. Ricetta feretrana registrata da Graziano Pozzetto (P, p. 37). Nella ricetta del coniglio “in potacchio” pubblicata da Valentini (VL, p. 106) è presente una fetta di pancetta tagliata a dadini e manca invece il concentrato (o la salsa) di pomodoro.

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È la versione fornita da Delio Bischi (BI, p. 46). In quella pesarese di Valentini (VL, p. 119) il lardo è sostituito dalla pancetta; alla conserva, inoltre, va aggiunta una presa di maggiorana.

Agliata Pulire del pesce azzurro freschissimo (sarde, alici o “saraghine”) e passarlo nel pangrattato condito con sale e pepe. Ungere la graticola, disporvi il pesce e cuocerlo sulla brace. Soffregare vigorosamente con lʼaglio una teglia, cospargerla con un trito di rosmarino e ricoprirla con il pesce. Ricetta di Cattolica (C, p. 85).

Poveracce in fagotto Lavare accuratamente le “poveracce”, preferibilmente di buona pezzatura, e chiuderle ben strette entro un canovaccio. Immergere il fagotto in una pentola dʼacqua bollente e toglierlo dopo pochi minuti. Consumare immediatamente i molluschi, che avranno trattenuto allʼinterno il loro liquido, dal profumo e dal sapore del mare.


APPENDICE: RICETTE

È la ricetta delle semplici quanto fragranti “poveracce” nel ciòch, identica nelle versioni di Cattolica (C, p. 90) e di Gabicce Monte (VL, pp. 168-9). Nella stessa maniera si possono cuocere anche le telline (calcinèl).

Poveracce in graticola Scegliere “poveracce” di buona pezzatura, lavarle accuratamente e passarle, senza aprirle, in un condimento di pangrattato, olio dʼoliva, sale, pepe, e aglio e prezzemolo tritati. Sistemarle verticalmente sulla graticola e toglierle dal fuoco non appena cominciano a sfrigolare. Consumarle immediatamente, succhiando con forza i molluschi, il loro liquido interno e il condimento che è rimasto attaccato alle valve. Versione di Gabicce Monte registrata da Valentini (VL, p. 168).

Spiedini di bovoli e seppia “alla Goldoni” Scottare i bovoli in acqua leggermente salata, estrarli dal loro guscio e condirli con pangrattato, olio dʼoliva, aglio e prezzemolo tritati, pepe e sale. Insaporirli per circa mezzʼora in questo composto e infilarli negli spiedini, alternandoli con pezzetti di seppia conditi allo stesso modo. Cuocere alla brace. Il richiamo a Goldoni non ha fondamento storico, ma la ricetta, comunicata a Quondamatteo da Martina Scola di Cattolica (Q, p. 290), è conforme alla tradizione.

Brodetto Pulire del pesce adatto per il brodetto: gallinelle (mazòli), tracine (ragn paghèn), pesci prete (bòcca in chèv), palombi (chèn), gattucci, scorfani, triglie, seppie, canocchie, eccetera. Non privare il pesce delle teste,

dove si concentra il sapore, e fare a pezzi gli esemplari più grossi. Affettare sottilmente un paio di cipolle e soffriggerle in olio dʼoliva. Aggiungere un cucchiaio di conserva di pomodoro diluita in mezzo bicchiere dʼacqua e lasciar sobbollire per cinque minuti. Disporre nel tegame il pesce a strati, partendo dalla seppia e dai pesci dalla polpa più soda. Salare e pepare. Coprire il tegame con il coperchio e continuare la cottura, ricordando che il brodetto non va mai mescolato, ma solo mosso scuotendo il tegame di tanto in tanto per evitare che attacchi. Dopo una dozzina di minuti bagnare con mezzo bicchiere dʼaceto, scoperchiare e cuocere per altri dieci minuti. Versione leggermente semplificata della ricetta di Cattolica (C, p. 87). Quella di Gabicce Monte, comunicata a Valentino Valentini da Guerrino Arduini (VL, p. 149), marinaio a riposo, prevede che si mettano sul fuoco tutti gli ingredienti contemporaneamente e che lʼaceto sia sostituito dal vino rosso.

Brodetto del Moro Pulire del pesce adatto per il brodetto – gallinelle, tracine, pesci prete, palombi, gattucci, scorfani, soasi, triglie, seppie, calamari, canocchie, eccetera –, togliendo e mettendo da parte le teste. Scottare i gattucci e le seppie in acqua bollente per attenuarne il sapore troppo marcato. Disporre il pesce, a strati, in un tegame di terracotta, partendo dai pesci dalla polpa più soda. Lavare accuratamente le teste e ricavarne il brodo, bollendole in una casseruola con acqua e sale. In un altro tegame soffriggere in olio dʼoliva cipolla affettata sottilmente e prezzemolo tritato. Salare, pepare e aggiungere conserva di pomodoro diluita in acqua o pomodoro fresco pelato, privato dei semi e tagliato a pezzi. Cuocere a fuoco basso per circa mezzʼora. Versare sul pesce questo sugo, il brodo delle teste e un bicchiere di vino bianco secco. Cuocere il brodetto a fuoco vivace per cinque minuti; poi a fuoco 117


LA CULTURA DEL CIBO TRA ROMAGNA E MARCHE

moderato per altri venti, aggiustando il sale alla Þne. È la versione “dʼautore” dellʼoste cattolichino Felice Signorini detto “il Moro”, che gestì la propria trattoria dal 1910 al 1950: ricetta divulgata e resa famosa da Quondamatteo, Pasquini e Caminiti (MR, pp. 116-7) e riproposta da Quondamatteo (Q, p. 271) con le varianti marginali suggerite dai successori Angela e Osvaldo.

Brodetto di canocchie Acquistare canocchie vive, e con le forbici da cucina riÞlare tuttʼintorno i bordi delle corazze, e spuntare la testa e le chele. In un tegame di terracotta soffriggere in olio dʼoliva della cipolla affettata sottilmente. Disporvi poi le canocchie, aggiungere conserva di pomodoro sciolta in acqua, bagnare con mezzo bicchiere dʼaceto, salare e pepare. Coprire il tegame e cuocere a fuoco moderato per circa un quarto dʼora. È la versione essenziale di Cattolica (C, p. 86). In quella proposta da Quondamatteo, Pasquini e Caminiti (MR, pp. 239-40) la conserva è sostituita dal pomodoro fresco e lʼaceto dal vino rosso; gli ingredienti, inoltre, vengono messi al fuoco tutti insieme. Il vino rosso (ben tre bicchieri) rimpiazza lʼaceto anche nella versione trasmessa da Vittorio Omiccioli e pubblicata da Valentini (VL, p. 150). Cfr. altresì la “zuppa con le canocchie” di Bellaria (PD, p. 56).

Crescia di Pasqua Stendere sulla spianatoia il lievito preparato la sera precedente e unire, per ogni chilo di farina, 350 grammi di ottimo pecorino dolce grattugiato, mezzo chilo abbondante dello stesso formaggio tagliato a cubetti, quattro uova, una bustina di zafferano sciolto in poca acqua tiepida, olio dʼoliva, pepe appena macinato e sale quanto basta. Lavorare lʼimpasto Þno a ottenere la giusta morbidezza e lasciarlo poi lievitare, coperto da un canovaccio, vicino a una fonte di ca118

lore. Rompere lʼimpasto, rilavorarlo e farlo lievitare per altre due o tre ore. Ungere con olio dʼoliva delle teglie rotonde, disporvi lʼimpasto, spennellarne la superficie con uovo e cuocere nel forno del pane. La crescia dovrà risultare delle dimensioni di un grosso panettone. È la versione ottocentesca di casa Albini (CC, pp. 57-9), sobriamente riveduta sulla scorta della ricetta feretrana pubblicata da Pozzetto (P, pp. 1367). Nella più semplice, economica e sintetica versione raccolta da Francesco Bonasera (BO, p. 75) lo zafferano è surrogato dallʼassai meno pregiato Carthamus tinctorium (cartamo o zafferanone).

Bracciatelli Impastare farina, uova e un pizzico di sale, e ricavare piccole ciambelle di forma circolare. Tuffarle per un istante in acqua bollente, quindi passarle al forno dopo la levata del pane per circa 40 minuti. Pennellarle con chiara dʼuovo e infornarle per unʼaltra decina di minuti. È la ricetta “marchignola” registrata da Delio Bischi (BI, pp. 60-1); coincide quasi alla lettera con quella pubblicata in Mangiari di Romagna da Quondamatteo, Pasquini e Caminiti (MR, p. 176).

Ciaramine Impastare quattro etti di farina con quattro uova e quattro cucchiai di zucchero Þno a ottenere un impasto morbido e omogeneo. Formare dei “grissini” del diametro di 5 o 6 centimetri e lunghi una ventina. Chiuderli ad anello, ricavando così delle ciambelle di forma circolare. Tuffarle in acqua bollente, scolarle con la ramina e disporle su un canovaccio. Cuocerle al forno per una decina di minuti. Cospargerle con zucchero semolato e bagnarle a piacere con alchermes. Ricetta di Cattolica (C, p. 97).


APPENDICE: RICETTE

Strunzolini Fare un impasto abbastanza molle ma lavorato a lungo con farina, un uovo, un cucchiaio dʼolio dʼoliva, uno di zucchero e uno di mistrà. Ottenere dei bastoncini sottili, congiungerne le estremità, chiudendoli ad anello, e friggerli nello strutto. Vecchia ricetta cattolichina comunicata da Maria Re a Bischi (B, p. 64). La forma degli “strunzolini” è simile a quella delle “ciaramine”.

Ciambellone Impastare mezzo chilo di farina con due etti di zucchero, un etto di strutto, quattro uova, mezzo bicchiere di latte, 15 grammi di cremor tartaro e 10 di bicarbonato, Þno a ottenere un composto morbido. Realizzare uno o due Þloni, disporli su una placca che si sarà provveduto a ricoprire di carta paglia unta e cuocere in forno a temperatura moderata. Ricetta di Cattolica (C, p. 98).

Piada dei morti Acquistare dal fornaio un chilo di pasta lievitata per il pane. Versare a poco a poco sulla pasta due etti dʼolio dʼoliva extravergine e farlo assorbire interamente, lavorando con le mani. Unire 250 grammi di noci sgusciate e tritate grossolanamente, due etti di mandorle sgusciate e pelate, un etto e mezzo di uvetta rinvenuta in acqua tiepida e un etto abbondante di zucchero. Ungere con olio dʼoliva una o più teglie, disporvi il composto e lasciarlo lievitare. Spennellare la superficie della “piada dei morti” con uovo e cuocerla nel forno da pane. Versione di Morciano comunicata a Quondamatteo, Pasquini e Caminiti (MR, p. 175) da Giannina Renzi, che lʼavrebbe ereditata da una zia novantenne. La preparazione, oltre a essere più

semplice, si discosta notevolmente da quelle di Rimini e dintorni. Per dirne una, manca il mosto.

Torta di Natale Impastare un chilo di farina con tre etti dʼolio dʼoliva extravergine, tre etti di noci sgusciate e tritate grossolanamente, quattro etti di uvetta rinvenuta in acqua tiepida, la buccia di un limone grattugiata, un pizzico di noce moscata e 40 grammi di lievito di birra sciolto nel latte. Lavorare a lungo lʼimpasto, disporlo in un tegame rotondo unto con olio e lasciarlo lievitare vicino a una fonte di calore. Cuocere in forno a 250 gradi per circa unʼora. Versione di Macerata Feltria comunicata a Valentino Valentini (VL, pp. 258-9) da Maddalena Simoncini, proprietaria della pasticceria di Callisto Lavanna.

Miacetto Sciogliere 400 grammi di miele in due etti dʼolio dʼoliva extravergine, unire acqua tiepida, 200 grammi di zucchero, un pizzico di sale, la scorza tritata di due limoni e tre arance, due etti di noci sgusciate e tritate grossolanamente, tre etti di mandorle sgusciate e pelate, tre etti di uvetta rinvenuta in acqua tiepida e – aggiunto poco alla volta – semolino di grano quanto basta per ottenere un composto piuttosto solido. Ungere con abbondante olio dʼoliva una o più teglie, che dovranno essere larghe e basse, disporvi il composto e cuocere a forno molto caldo. Togliere quando la superÞcie del miacetto avrà assunto un colore bruno scuro. Delle due ricette pubblicate da Delio Bischi (BI, pp. 62-3), abbiamo scelto la più semplice – e verosimilmente la più vecchia – comunicata da Lia Ercolani di Cattolica, erede dei vecchi proprietari del forno Talacchi. La ricetta si avvicina molto a quella, egualmente cattolichina, dettata dalle Zafarènie (C, p. 101), dove si utilizzano anche i

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LA CULTURA DEL CIBO TRA ROMAGNA E MARCHE

pinoli e soprattutto si danno dosi differenti. Lʼaltra ricetta, trasmessa a Bischi dal fornaio Emilio Giulianelli di Gradara, è più ricca e complicata, annoverando tra gli ingredienti anche la fecola, la frutta candita, le noccioline americane e il cacao.

Torta (migliaccio) Il sangue di maiale, prelevato ancora caldo, viene colato in bottiglioni e sbattuto energicamente per evitare che raggrumi. A un litro di sangue unire 750 grammi di zucchero, due uova sbattute, la scorza grattugiata di un arancio e di un limone, poca cannella e un litro e un quarto di latte intero in cui si sarà sciolto un cucchiaino di caglio. Rimestare bene, scaldando a bagnomaria, Þnché il composto non giunge a bollore. Filtrare il composto e versarlo in una teglia bassa e larga foderata da una sottile pastafrolla fatta con farina, uova, zucchero, strutto e un pizzico di sale. Lo strato di composto non deve superare i quattro o cinque centimetri. Mettere la teglia nel forno tiepido e cuocere a fuoco molto basso per tre, quattro ore. Vecchia ricetta cattolichina comunicata a Delio Bischi da Miriam Golfarelli (BI, p. 61). La versione è un poʼ più semplice e povera sia di quella pesarese-urbinate raccolta da Valentini (VL, p. 198), dove entrano anche il cacao amaro e lʼodore di vaniglia, che di quella feretrana pubblicata da Pozzetto (P, pp. 79-80), dove, oltre al cioccolato fondente amaro, si impiegano i canditi, le mandorle pelate, tostate e pestate nel mortaio, e lʼodore di noce moscata. Nella ricetta ottocentesca di casa Albini (CC, pp. 81-3) il gusto dolce-salato è accentuato dallʼaggiunta di formaggio grattugiato, miele e sapa.

Lattarolo Far bollire per unʼora un litro di latte con un etto di zucchero, rompendo di quando in quando il velo. Lasciar raffreddare, e aggiungere otto rossi dʼuovo e due chiare già sbattuti. Aromatizzare con una punta di vaniglia. Foderare una teglia, preferibilmente 120

di rame, con la cosiddetta “pasta matta”, fatta con sola farina e acqua, e versarvi il composto, ben amalgamato e passato per il colino. Infornare e cuocere a fuoco molto moderato per circa due ore, evitando accuratamente che il composto bolla. Il lattarolo sarà pronto quando, introducendovi la lama del coltello, questa uscirà pulita e asciutta. È la versione registrata da Quondamatteo, Pasquini e Caminiti (MR, p. 173), e ripresa quasi alla lettera da Bischi (BI, pp. 64-5). In quella più recente di Valentini (VL, p. 269) il lattarolo è aromatizzato con cannella e scorza di limone, e arricchito con un bicchierino di rhum. In origine la cottura era con fuoco sotto e sopra.

Sapa Ammostare uva ben matura e lasciarla fermentare per non più di un giorno. Filtrare il mosto e bollirlo a fuoco dolce, schiumandolo di tanto in tanto, Þno a ridurlo di un terzo e più. Conservare in bottiglia. Versione feretrana raccolta da Graziano Pozzetto (P, pp. 80-3), più dettagliata di quella fornita da Bischi (B, p. 59). Nella versione pesarese registrata da Valentini (VL, p. 282), la sapa viene lasciata riposare dopo una prima bollitura e poi ricotta per alcune ore a bagnomaria.


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REFERENZE FOTOGRAFICHE

Le immagini del presente volume sono state gentilmente fornite da: © LitofotograÞa Marchi & Marchi srl, San Giovanni in Marignano: 1, 2, 3, 15, 21, 23, 25, 27, 37, 43, 44, 45, 50, 53, 58, 59, 65, 66, 67, 68, 69, 70, 71, 72, 75, 76, 77, 78, 79, 82, 83, 86, 87. Davide Minghini (© Biblioteca Civica Gambalunga, Rimini): 7, 8, 12, 16, 17, 18, 19, 28, 30, 31, 32, 33, 34, 35, 36, 38, 42, 47, 52, 60, 63, 64, 73, 74, 80, 81, 88. © Stefano Rossini: 4, 11, 13, 14, 20, 22, 24, 29, 40, 41, 48, 49, 54, 55, 56, 57, 61, 62. © Biblioteca Civica Gambalunga, Rimini: 5, 6, 9, 10, 46 e lʼimmagine di pag. 110. Museo della Città, Rimini: 84, 85. Pier Giorgio Pazzini Stampatore Editore, Villa Verucchio, fotograÞe di Pier Paolo Zani: 39.

L’editore rimane a disposizione degli eventuali aventi diritto che non sia stato possibile rintracciare.


Finito di stampare nel mese di Novembre 2005 per i tipi della Tecnostampa srl, Loreto (AN)


I libri della Valconca P.G. Pasini, Piero e i Malatesti. L’attività di Piero della Francesca per le corti romagnole (1992)

Pier Giorgio

Pier Giorgio Pasini

Pasini

IL TESORO DI SIGISMONDO

E. Grassi, Giustiniano Villa poeta dialettale, 1842-1919 (1993) P.G. Pasini, Il crocifisso dell’Agina e la pittura riminese del Trecento in Valconca (1994)

e le medaglie di Matteo de’ Pasti

A. Bernucci – P.G. Pasini, Francesco Rosaspina “incisor celebre” (1995)

P.G. Pasini, Arte in Valconca dal Barocco al Novecento (1997) A. Fontemaggi - O. Piolanti, Archeologia in Valconca. Tracce del popolamento tra l’Età del Ferro e la Romanità (1998) P.G. Pasini, Emilio Filippini pittore solitario 1870-1938 (1999) E. Brigliadori – A. Pasquini, Religiosità in Valconca. Vicende e figure (2000) P.G. Pasini (a cura), Arte ritrovata. Un anno di restauri in territorio riminese (2001) Loris Bagli, Natura e paesaggio nella Valle del Conca (2002) A. Sistri, Cultura tradizionale nella Valle del Conca. Materiale e appunti etnografici tra Romagna e Montefeltro (2003) Oreste Delucca, L’uomo e l’ambiente in Valconca (2004) P. Meldini, La cultura del cibo tra Romagna e Marche (2005) P.G. Pasini, Passeggiate incoerenti tra Romagna e Marche (2006) C. Fanti, Pietre e terre malatestiane (2007) P.G. Pasini, Atanasio da Coriano frate pittore (2008)

Sono in vendita nelle migliori librerie; alcuni titoli sono esauriti

IL TESORO DI SIGISMONDO

P.G. Pasini, Arte in Valconca dal Medioevo al Rinascimento (1996)

BANCA POPOLARE VALCONCA

BANCA POPOLARE VALCONCA

Sigismondo Pandolfo Malatesta, uno dei più importanti signori italiani del Quattrocento, è stato capitano generale degli eserciti della Chiesa, di Firenze, di Napoli e di Venezia, guadagnandosi una grande fama di condottiero ed enormi ricchezze, che gli permisero di costituire a Rimini una importante corte letteraria e artistica. Ancora viveva, quando correva voce di un suo favoloso “tesoro” nascosto nelle mura di alcune rocche del territorio riminese: un tesoro cercato per secoli, e mai trovato. Effettivamente Sigismondo faceva nascondere qualcosa di strano nelle mura dei suoi edifici: ma non si trattava di tesori nel senso classico del termine, bensì di medaglie con la sua effigie, ritrovate, e in grande quantità, soprattutto nei restauri del dopoguerra. Medaglie in bronzo e in argento, squisite e preziose, tra le prime del Rinascimento, dovute al veronese Matteo de’ Pasti, stabilmente attivo alla corte riminese fino alla morte, che precedette di pochi mesi quella di Sigismondo (1468). Dopo aver fornito notizie sul presunto tesoro di Sigismondo, e sui vani tentativi di ritrovarlo, questo volume passa ad illustrare il vero tesoro: le medaglie di Matteo de’ Pasti, annoverate fra i capolavori della medaglistica rinascimentale; e si sofferma sul loro autore, sui loro ritrovamenti, sulla loro datazione, sul loro stile, sulla funzione loro affidata di diffondere la fama del signore presso i contemporanei e presso i posteri. L’apparato illustrativo offerto dal volume – frutto di una campagna fotografica appositamente condotta - permette di esaminare esemplari sicuramente autentici di medaglie pastiane e di approfondirne la conoscenza; e inoltre invita a riflettere su alcuni problematici risvolti dell’attività artistica del grande medaglista veronese e dell’arte alla corte di Sigismondo Malatesta, grande condottiero e grande quanto tirannico mecenate, vissuto in un momento di crisi e di trapasso tra l’autunno del Medioevo e la primavera del Rinascimento. Pier Giorgio Pasini si occupa di storia dell’arte rinascimentale fin dagli anni settanta, quando diresse la mostra “Sigismondo Pandolfo Malatesta e il suo tempo”, Rimini, Sala dell’Arengo, 1970. Già nel catalogo di tale mostra (edit. Neri Pozza, Vicenza) figurano i suoi primi studi su Matteo de’ Pasti, che poco dopo lo indussero a proporre una completa revisione della cronologia delle medaglie pastiane. Per questa si vedano i contributi portati al primo convegno internazionale di studio su “La medaglia d’arte” di Udine (10-12 ottobre 1970) e al symposium su “Italian Medals” della National Gallery of Art di Washington (29-31 marzo 1984), riproposti nel presente volume. Allo studio dell’attività di Matteo de’ Pasti l’autore si è dedicato anche in numerosi altri lavori riguardanti la civiltà umanistica fiorita alla corte malatestiana, e soprattuto nei seguenti: I Malatesti e l’arte, Silvana ed., Milano 1983; Piero e i Malatesti, L’attività di Piero della Francesca per le corti romagnole, Silvana ed., Milano 1992; Piero e Urbino, Piero e le corti rinascimentali, Marsilio ed., Venezia 1992; Cortesia e Geometria. Arte malatestiana fra Pisanello e Piero della Francesca, Luisè ed., Rimini 1992; Il Tempio Malatestiano. Splendore cortese e classicismo umanistico, Skira, Milano 2000. Infine ha scritto, con altre, la “voce” Matteo de’ Pasti per il Dictionary of Art, Macmillan Publishers Ltd, London, 2004.


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