Atanasio da Coriano

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P.G. Pasini, Piero e i Malatesti. L’attività di Piero della Francesca per le corti romagnole (1992) E. Grassi, Giustiniano Villa poeta dialettale, 1842-1919 (1993) P.G. Pasini, Il crocifisso dell’Agina e la pittura riminese del Trecento in Valconca (1994) A. Bernucci – P.G. Pasini, Francesco Rosaspina “incisor celebre” (1995) P.G. Pasini, Arte in Valconca dal Medioevo al Rinascimento (1996) P.G. Pasini, Arte in Valconca dal Barocco al Novecento (1997) A. Fontemaggi - O. Piolanti, Archeologia in Valconca. Tracce del popolamento tra l’Età del Ferro e la Romanità (1998) P.G. Pasini, Emilio Filippini pittore solitario 1870-1938 (1999) E. Brigliadori – A. Pasquini, Religiosità in Valconca. Vicende e figure (2000) P.G. Pasini (a cura), Arte ritrovata. Un anno di restauri in territorio riminese (2001) Loris Bagli, Natura e paesaggio nella Valle del Conca (2002) A. Sistri, Cultura tradizionale nella Valle del Conca. Materiale e appunti etnografici tra Romagna e Montefeltro (2003) Oreste Delucca, L’uomo e l’ambiente in Valconca (2004) P. Meldini, La cultura del cibo tra Romagna e Marche (2005) P.G. Pasini, Passeggiate incoerenti tra Romagna e Marche (2006) C. Fanti, Pietre e terre malatestiane (2007) P.G. Pasini, Atanasio da Coriano frate pittore (2008) (Sono in vendita nelle migliori librerie; i primi dieci titoli sono esauriti)

Euro 25,00

Pier Giorgio Pasini

Pier Giorgio Pasini

ATANASIO DA CORIANO frate pittore (1749-1843)

ATANASIO DA CORIANO

I libri della Valconca

Minerva edizioni

Questo volume si occupa di un personaggio fino ad ora pressoché sconosciuto, ma che fa parte della nostra storia: di un frate pittore Minore Osservante, che in religione ebbe il nome di fra Atanasio e che è nato a Coriano dalla famiglia Favini. Visse dal 1749 al 1843 e lavorò in un periodo incredibilmente pieno di rivolgimenti politici e culturali: la Rivoluzione francese, Napoleone, i primi moti risorgimentali. Fra Atanasio attraversò questo tempestoso scorcio di storia con umiltà, obbedienza, e assoluta fedeltà alla Regola. Ecco ciò che salta agli occhi leggendo questo volume: egli accettò tanto le prescrizioni delle autorità civili, che arrivarono fino alla soppressione degli ordini religiosi, quanto gli ordini dei superiori francescani, i quali, conoscendo le sue grandi capacità, lo inviarono in diverse città d’Italia (da Parma a Bologna a Roma a Macerata ad Ascoli Piceno) per dipingere, riparare chiese, restaurare quadri danneggiati dall’incuria o dalle truppe francesi. Accettò con umiltà tutto quanto, anzi con letizia e buona disposizione d’animo, vivendo fino in fondo l’ideale francescano della povertà, e con la coscienza chiara di svolgere un compito: con la sua arte poteva istruire, educare, confortare e rinfrancare la fede del popolo. Fra Atanasio ritenne di essere un umile strumento nelle mani di Dio, mettendo a disposizione la propria inclinazione e le proprie grandi capacità pittoriche: e fu un buon artista di dipinti sacri, fedele alla tradizione seicentesca, ma anche attento ai movimenti artistici del suo tempo. Ci ha lasciato numerosi capolavori, fino ad oggi sconosciuti o sottostimati, illustrati per la prima volta in questa monografia, dovuta al noto storico dell’arte Pier Giorgio Pasini, che da anni si occupa dell’argomento.




Pier Giorgio Pasini

ATANASIO DA CORIANO frate pittore (1749-1843)


In copertina: Fra Atanasio, Il beato Angelo d’Acri, particolare. Macerata, chiesa dell’Ospedale

Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata Deroga a quanto sopra potrà essere fatta secondo le modalità di legge Direttore editoriale: Roberto Mugavero Editor: Paolo Tassoni Grafica e impaginazione: Alessandro Battara Minerva edizioni Via Due Ponti, 2 – 40050 Argelato (Bologna) Tel. 051.6630557 – Fax 051.897420 info@minervaedizioni.com – www.minervaedizioni.com Copyright © 2008 Minerva Soluzioni Editoriali s.r.l., Bologna Copyright © 2008 Banca Popolare Valconca, Morciano di Romagna


Quando, anni fa, la Banca Popolare Valconca decise di dare vita ad una collana editoriale partì da una geniale intuizione: una Banca “locale” non può fare a meno del legame con il proprio territorio e con la gente che vi abita. E’ nata, così, una meravigliosa avventura che, da quasi due decenni, libro dopo libro, approfondisce la conoscenza di questo bellissimo angolo di mondo in cui noi siamo nati e cresciuti. Libri in cui si racconta di noi, della nostra terra così operosa, di persone che hanno affrontato prima di noi la quotidiana fatica del vivere. Questo nuovo volume si occupa di una persona che ha fatto la sua piccola o grande parte nella nostra storia: un pittore di Coriano, Francesco Antonio Favini che, divenuto frate francescano, assunse il nome di Fra Atanasio. Visse dal 1749 al 1843 in un periodo incredibilmente pieno di rivolgimenti politici e culturali: la Rivoluzione francese, Napoleone, i primi moti risorgimentali. Fra Atanasio attraversò questo tempestoso scorcio di storia con umiltà ed obbedienza. Ecco ciò che salta agli occhi leggendo questo bel volume: egli accettò le prescrizioni delle Autorità Civili che arrivarono fino alla soppressione degli ordini religiosi e obbedì anche ai superiori dell’Ordine Francescano i quali, conoscendo le grandi capacità di fra Atanasio, lo inviarono in diverse città d’Italia per dipingere, riparare Chiese, restaurare quadri danneggiati dall’incuria o dalle truppe francesi. Accettò con umiltà tutto quanto, anzi, con letizia e buona disposizione d’animo vivendo fino in fondo l’ideale francescano. La tradizione cristiana chiama tale atteggiamento “umiltà” che deriva da humus, vale a dire la terra, ciò da cui veniamo e di cui si vive: l’atteggiamento umile non è altro che un riconoscimento e un amore al reale, alla terra che siamo. Se dovessimo, tuttavia, fermarci solo a considerazioni circa l’umiltà del nostro buon frate mancherebbe qualcosa: fra Atanasio non era, infatti, umile solo per disposizione di carattere e per modestia congenita. Egli aveva, invece, la coscienza chiara di svolgere un compito: con la sua arte poteva istruire, educare, confortare e rinfrancare la fede del popolo. Pier Giorgio Pasini in questo libro afferma che il pittore “sembra tenersi volutamente lontano dalla “ bella pittura” quasi per evitare ai fedeli distrazioni che li possano distogliere dalla considerazione del contenuto delle storie narrate” ….. “ la pittura per il nostro frate non vuole essere che un mezzo efficace per comunicare convincentemente ai fedeli concetti religiosi”. In questa ottica non è importante l’esaltazione della propria individualità. Egli, ad esempio, non firmava mai i suoi quadri in perfetta assonanza con il proprio ideale di vita: la pittura per lui era un dono e, quindi, un servizio, un esercizio di carità. Atanasio ritenne di essere un umile strumento nelle mani di Dio, mettendo a disposizione la propria inclinazione e le proprie grandi capacità pittoriche: Un mestiere per ciascuno, ognuno al suo lavoro come scrive Eliot ne I cori da “La Rocca”. Così, quando la morte lo raggiunse dopo una lunghissima vita, intuì, forse, le stesse parole che la poetessa Ada Negri, ormai pacificata, scriverà molti anni dopo: “Fa ch’io mi stacchi dal più alto ramo di mia vita, così, senza lamento, penetrata di Te come del sole”. è per questo contributo fra Atanasio ha portato e porta alla nostra vita quotidiana che i suoi quadri, recuperati dall’oblio anche grazie a questa collana editoriale, ancora oggi parlano al nostro cuore.

Avv. Massimo Lazzarini Presidente Banca Popolare Valconca



IndIce

Atanasio da Coriano La formazione Tra Bologna e Parma La maturità Tra Roma e Macerata Nel Regno Italico Capolavori senili L’ultima attività La ‘fortuna’ di padre Atanasio Note Appendice Bibliografia citata Indice dei nomi

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9 11 19 33 43 59 71 85 99 103 109 119 123



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Sembra che padre Atanasio da Coriano, Minore Osservante, sia stato un buon frate: pio, umile, caritatevole, obbediente, di buona reputazione. Osservandone il cadavere, mentre si sussurrava di profumi miracolosi e si insinuava l’idea di avere a che fare con un nuovo santo, un ‘libero pensatore’ non poté fare a meno di esclamare con dispetto: “Vedete questi frati impostori! Hanno l’arte di comparire belli anche dopo la morte”. Era l’anno 1843. Di questo frate mi occupo, sia pur saltuariamente, da tempo; non tanto per le sue virtù morali e religiose, che tuttavia sinceramente mi rallegrano, quanto per la sua attività artistica; fu infatti pittore, e anzi talvolta ottimo pittore. Un tardo Beato Angelico dunque? In un certo senso sì, dimenticato forse perché vissuto in provincia e in tempi calamitosi tanto per la Religione quanto per il suo Ordine, che non ha potuto coltivarne compiutamente il ricordo e conservarne le opere, disperse e nascoste in un territorio vasto e decentrato, e deteriorate dalla dimenticanza e dalla negligenza di laici e religiosi; e soprattutto penalizzate dal fatto che gli studi sulle vicende dell’arte sacra fra Sette e Ottocento languono o sono carenti o appiattite su un indiscriminato giudizio di sterile accademismo. Non è stato facile rintracciare e far fotografare le opere qui presentate (che sono una minima parte di quelle prodotte dall’artista), molte in cattivo stato, di

cui spesso anche i proprietari o i custodi ignoravano la paternità e l’attuale collocazione; del resto molti degli edifici sacri per cui padre Atanasio ha lavorato non esistono più, o sono stati trasformati in ospedali, case di ricovero, abitazioni private, magazzini, e facilmente se ne è persa la memoria. Specialmente nelle Marche, dove le soppressioni napoleoniche e le leggi eversive hanno lacerato in maniera assai grave una trama compatta di istituzioni religiose e caritative di antica origine e disperso un patrimonio di storia e d’arte veramente notevole. Sono pochissimi i dati cronologici desumibili con sicurezza direttamente dalle opere: padre Atanasio infatti si è guardato bene, per umiltà, dal firmarle e dal datarle (con una sola eccezione accertata fino ad ora). La ricostruzione del suo percorso artistico è dunque in molti casi puramente indiziaria, e basata su elementi stilistici e su accadimenti storici esterni, oltre che sui pochi dati offerti dai suoi primi confratelli biografi che, vivendo per anni con lui nel suo convento d’‘adozione’ (Santa Croce di Macerata), lo conobbero personalmente, lo stimarono e gli divennero amici, e appresero da lui stesso notizie riguardanti le movimentate vicende della sua vita; ma videro solo qualche sua opera e guardarono male e poco la sua arte, di cui spesso parlarono per sentito dire sulla scorta di “artisti competenti”.

1. Fra Atanasio, Sant’Eustachio, particolare. Belforte in Chienti, chiesa di Sant’Eustachio

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I. LA formAzIone

Atanasio da Coriano è il nome assunto da religioso da Francesco Antonio Favini, nato a Coriano, nel Riminese, il 31 luglio del 1749 da Cristoforo Favini e Caterina Patrignani1. Oltre ad essere stato un buon frate e un buon sacerdote, è stato un bravissimo pittore, di lunga vita (morì a 94 anni) e di grande operosità (sono quasi mille le opere evocate dai biografi). Il periodo in cui è vissuto e i luoghi in cui ha operato, oltre alla condizione di “zoccolante”, non hanno certo agevolato la conoscenza della sua opera e il diffondersi della sua fama. Il periodo infatti è quello dei grandi rivolgimenti sociali e politici che videro la crisi e il crollo dell’ancien regime e la crescita degli ideali laici che portarono alla realizzazione dell’Unità d’Italia. E i luoghi sono soprattutto quelli di una provincia appartata: le Marche. Ma l’avventura umana e spirituale di padre Atanasio e la sua maturazione artistica sono iniziati in centri niente affatto provinciali della Romagna e dell’Emilia. Sappiamo poco delle sue origini e della sua prima formazione. La famiglia della madre, Caterina Patrignani, godeva di un certo prestigio e aveva una notevole importanza nell’ambito di Coriano, e non è un caso che proprio nella famiglia Patrignani venisse scelta la “comare”, cioè la madrina di battesimo, certa Domenica Antonia Patrignani (forse una zia)2. In quanto al clima paesano, va sottolineato che a Coriano i Minori Osservanti contavano molte simpatie e suscitavano fre-

quenti vocazioni. Infatti nei decenni fra Sette e Ottocento i Francescani originari di Coriano registrati con cariche o compiti importanti negli Atti Ufficiali della Provincia minoritica di Bologna sono molti: tra gli altri vanno segnalati almeno padre Giovanni Carlo da Coriano, guardiano del convento riminese delle Grazie (dal 1762 al 1764) e maestro dei novizi (nel 1766); padre Bonaventura da Coriano e padre Fulgenzio da Coriano, entrambi maestri dei novizi (1791-’97 e 1803-1806; il primo era stato anche maestro di grammatica a Cotignola nel 1782, mentre il secondo fu anche vicario nel 1798); padre Antonio (Cianci) da Coriano, delegato provinciale (dal 1815) e ministro provinciale (nel 1818). Su tutti emerse la figura di un cugino un poco più giovane del Favini, cioè Giovanni Patrignani, che si era fatto frate nel 1770 con il nome di fra Gaudenzio da Rimini (o da Coriano) e che dopo essere stato vicario nel convento riminese di San Bernardino durante i durissimi anni giacobini (1797-1808) fu stimato lettore a Parma e a Roma, ebbe da Pio VII nel 1816 l’incarico di riorganizzare e reggere, come ministro generale, tutta la Provincia già dissestata dalle ‘riduzioni’ napoleoniche, e infine venne nominato vescovo di Ferentino, dove morì nel 18233. Il nostro Francesco Antonio (già i nomi di battesimo fanno supporre una devozione radicata e almeno una simpatia della famiglia per i Francescani, e possono far sospettare anche un certo “condizionamen-

2. Fra Atanasio, La messa del beato Giovanni da Parma, particolare. Parma, Chiesa della SS. Annunziata

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AtAnAsIo dA corIAno 3. Pietro Melchiorre Ferrari, Il miracolo del paralitico, 1761. Parma, Galleria Nazionale

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to” del giovane) vestì l’abito francescano dei Minori Osservanti ad appena quindici anni e fece la professione solenne a sedici, cioè nel 1765, assumendo il nome di Atanasio Antonio, nel convento riminese delle Grazie4, dove ebbe sicuramente l’incoraggiamento e l’assistenza dei frati compaesani; a Bologna continuò gli studi, ricevette gli ordini sacri e completò gli studi filosofici e teologici (“in filosofia e in divinità”) con “conclusioni pubbliche, data facoltà a tutti di potere incontro argomentare”5. Passò poi al convento della Santissima Annunziata di Parma, dove era lettore il cugino padre Gaudenzio, amico del celebre padre Ireneo Affò da Busseto6. L’inclinazione all’arte doveva essersi già manifestata chiaramente in lui, e dovette ben accorgersene appunto il padre Ireneo Affò, attento ad ogni manifestazione di talento in campo letterario e artistico. Padre Ireneo era un personaggio molto stimato e influente tanto nel mondo letterario ed erudito quanto all’interno del suo Ordine; nell’intestazione di un suo decreto del 1797 così vengono riassunti i 12

suoi titoli: “Lettore Giubilato, ex Definitore Generale, Consultore del Sant’Uffizio, Bibliotecario del R. Infante di Spagna Don Ferdinando di Borbone Duca di Parma, Professore Onorario di Storia nella Regia Università di Parma, Ministro Provinciale dell’Osservante Provincia di Bologna”7. Fu lui ad affidare o a raccomandare il giovane confratello a Pietro Melchiorre Ferrari, pittore del duca di Parma e socio e professore della nuova Regia Accademia Parmense. Sotto il governo del bigotto don Ferdinando di Borbone l’ambiente culturale parmense, oltre che stimolante per le aperture alle moderne influenze francesi, era ideologicamente ‘sicuro’ per un frate giovane8. Per quanto riguarda l’arte sostanzialmente prediligeva la tradizione accademica, e nello stesso tempo era devoto ad una cultura pittorica che ancora traeva ispirazioni e insegnamenti dal grande Correggio, direttamente e attraverso le opere della scuola bolognese9. Nelle biografie più antiche si afferma che padre Atanasio fu per cinque anni a Parma alla scuola di Pietro Ferrari, e per diciotto anni a Bologna, dove “divenne


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caro per indole soavissima, affettuosa e vereconda a Rodolfo Fantuzzi e a Gaetano Tambroni”10, che furono decoratori e paesaggisti, dai quali forse avrà appreso la tecnica della decorazione murale soprattutto a tempera. Una tale scansione non convince del tutto; comunque è difficile definire, oltre alla cronologia, il carattere di questo periodo di apprendistato artistico che, sempre secondo i biografi, fu ricco di spostamenti, di viaggi di cultura, di incontri e di conoscenze: “…Fu a Milano per deliziarsi di Leonardo e delle memorie della Scuola di lui; a Cremona, e fu alle egregie pitture di Pardenone [sic] e di Boccaccino; a Mantova ristette dinanzi dai capilavori di Giulio Romano, i quali, sebbene di uno stile alquanto duro, si fanno non pertanto ammirare per la finezza del suo pennello; a Venezia s’imparadisò di Tiziano franco e vigoroso e di un colorito meglio intonato che si vedesse; e in altre Città di Italia, che non si conta, raccolse quanto di bello e di buono vi si trova; e talmente se ne rendè padrone che fino all’ultimo ne discorreva con ordine, e con la sagacità di avveduto maestro”, stando a padre Benedetto da Toro11, un frate maestro di eloquenza, amico di lunga data e primo e attendibile biografo del nostro artista, che probabilmente pone in un solo momento, riassumendole ed enfatizzandole, molte delle ‘esperienze visive’ della lunga vita del confratello pittore, in un primo periodo limitate, a quanto pare, all’Italia settentrionale. Comunque il suo non deve essere stato un apprendistato regolare, organico, continuativo; nel 1795 infatti padre Ireneo Affò non si dichiarava molto contento della formazione artistica avuta dal giovane confratello e, forse avvertendone l’eclettismo, osservava, quasi sospirando: “se avesse avuto maestri sarebbe qualche cosa di grande”12. Dunque bisognerà pensare ad una formazione ‘libera’, da dilettante autodidatta, avvenuta un po’ disordinatamente tra Bologna e Parma e, come per molti altri

4. Gaetano Callani, Sant’Antonio da Padova riceve il Bambino da San Giuseppe, 1781. Piacenza, Chiesa di San Lazzaro

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5. Benigno Bossi, L’apparizione di Soriano, 1779 (particolare). Colorno, Chiesa di San Liborio

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AtAnAsIo dA corIAno 6. Giovanni Fabbri, Un miracolo di San Diego, c. 1776, incisione su disegno di fra Atanasio, da un dipinto di Donato Creti. Rimini, Biblioteca Gambalunghiana

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giovani pittori, iniziata eseguendo copie e ritratti, e magari qualche modesto quadretto devozionale. Di questo primo periodo, comunque, tutto sembra essere andato distrutto, o smarrito, o confuso; anteriormente al 1777 sappiamo con certezza solo di un ritratto eseguito nel 1771 e di un disegno fornito al bolognese Giovanni Fabbri per l’incisione di una pala di Donato Creti13 che era (ed è) nella chiesa riminese di San Bernardino, dei Minori Osservanti (fig. 6); debole, ma sicuro indizio di una continuità di rapporti di fra Atanasio con il territorio natale. Sembra che dallo stesso dipinto abbia tratto anche una copia in grandezza naturale14. A Parma, nei ritagli di tempo liberi dagli obblighi della religione e della predicazione, il giovane sarà anche stato un saltuario scolaro del Ferrari (fig. 3) e un frequentatore più o meno assiduo del suo studio, ma certo guardò con interesse anche ad altri artisti moderni, come ci docu14

menta quella che viene segnalata come la sua prima opera importante, eseguita per la chiesa dell’Annunziata di Parma, con La messa del beato Giovanni Buralli da Parma15, settimo ministro generale dopo San Francesco, vissuto nel XIII secolo, appena salito all’onore degli altari grazie anche agli studi e agli stimoli di padre Ireneo Affò16. Si tratta di una pala d’altare che presenta un episodio miracoloso: la messa del beato servita da un angelo, in assenza del pigro confratello ‘ministrante’17 (fig. 7). Ha una composizione semplificata e severa che sembra rifarsi alla pittura bolognese del Seicento, ma nello stesso tempo è abbastanza coerente con gli esiti della pittura del Ferrari; la stesura pittorica è morbida e sensibile e la scena è caratterizzata da un’attenzione particolare per gli effetti di luce e per i dettagli naturalistici che rivelano l’influenza anche di altri artisti parmensi, come Benigno Bossi e Gaetano Callani (figg. 4-5). Il fascino della figurazione è determinato dalla misura e dalla naturalezza con cui le figure occupano lo spazio, oltre che dalla luce che le investe e mette in risalto i gesti misurati e le espressioni, e conferisce all’ambiente una sorta di silenzio orante pieno di devozione e di poesia. Fu benedetta solennemente nel Duomo di Parma nel giugno del 1778, quando vi venne solennizzata la beatificazione del Buralli, e dal Duomo fu portata processionalmente fino alla chiesa dell’Annunziata18. Segnò l’ingresso ufficiale del frate pittore nel mondo dell’attività artistica, e incontrò il generale gradimento del pubblico, dell’ambiente di corte e in particolare del Duca, che ne volle una copia ‘in piccolo’ per la chiesa ducale di San Liborio19. Lo stesso soggetto fu richiesto in seguito molte volte al pittore, che in vari tempi ne diede versioni anche in formati minori, ‘da stanza’, per la devozione privata e per l’abbellimento di ambienti conventuali, concentrando l’attenzione sul busto del santo, quasi sempre con il suo giovane


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chierico-angelo20. Per quanto riguarda l’iconografia, queste opere forse avevano il loro prototipo in un dipinto seicentesco allora esistente nel romitorio di Greccio, dove il beato aveva vissuto per trent’anni, quasi in esilio, e comunque non si discostano molto nello schema dalle tradizionali e diffuse raffigurazioni della “messa di San Gregorio Magno”. Sembra che la data di esecuzione al 1777-78 della pala parmense, ancorata alla tanto attesa e tanto procrastinata beatificazione di fra Giovanni da Parma, sia abbastanza sicura. Va rilevato appena che quasi coincide con quella dell’elezione del nostro frate pittore a lector et concionator (la nomina infatti è del 14 settembre del 1778)21. Ma quel che va sottolineato è che non può certo essere considerata l’‘opera prima’ di un giovane, e che stilisticamente possiamo accostarle almeno un’altra opera impegnativa, e comunque anche più complessa e matura: la pala con un Miracolo del Beato Sante (fig. 10) nella chiesa

di Montefabbri nel pesarese, sicuramente successiva alla beatificazione del frate laico Sante Brancorsini (cioè al 1770), alla costruzione del bell’altare eretto sulla sua tomba nella chiesa conventuale di Mombaroccio (1772)22 e probabilmente anche alla pala parmense. Il dipinto di Montefabbri è scuro e severo, ricco di contrasti chiaroscurali, rispettoso delle regole accademiche del comporre, ma pieno di vita e di umanità. Anche qui la luce gioca un ruolo importante ed è concentrata sui protagonisti del racconto, che sono il beato e una madre in atteggiamento supplice, con un figlioletto ammalato in grembo e un altro attaccato alla veste. Dietro alla naturalezza dei gesti, alla semplicità delle figure, all’asciuttezza del modellato e al rigore dell’impianto scenico si scorge il ricordo tanto delle “accademie” carraccesche quanto delle opere moderne del Creti, del Cignani, del Ferrari e dei Gandolfi, come è normale per l’opera di un giovane pittore; che tuttavia mostra un modo tutto personale di affrontare il racconto miracoloso: cioè una severa semplicità, una notevole concretezza, una piena adesione ai sentimenti che muovono i personaggi, e infine una attenta regia che permette loro di dominare lo spazio. Nel dipinto c’è un’unica nota discordante: è costituita dagli angioletti inerpicati al sommo della centina, informati ad un manierismo settecentesco di stucchevole ovvietà (ma naturalmente indispensabili con i loro gigli per la corretta identificazione del santo taumaturgo, come il lupo accucciato nell’angolo destro e i confratelli dialoganti nel fondo mentre osservano meravigliati il canestro delle ciliegie miracolosamente maturate in inverno). Questa pala ripete il soggetto di un’altra, più nota perché posta sul sepolcro del beato stesso nel santuario di Mombaroccio, comunemente attribuita a padre Atanasio, ma estranea a questo momento della sua pittura (fig. 9). Se è sua, come vuole la tradizione23, dovrebbe trattarsi

7. Fra Atanasio, La messa del beato Giovanni da Parma, 1777-1778. Parma, Chiesa della SS. Annunziata

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AtAnAsIo dA corIAno 8. Fra Atanasio, Un miracolo di San Diego, 1775-80, copia da un dipinto di Donato Creti. Bologna, Convento dell’Annunziata

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9. Ignoto, Un miracolo del beato Sante da Mombaroccio. Mombaroccio, Santuario del Beato Sante 10. Fra Atanasio, Un miracolo del beato Sante da Mombaroccio. Montefabbri, chiesa parrocchiale

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di un’opera assai più giovanile (e potrebbe anzi essere la prima opera importante che conosciamo di lui), dato che mostra un qualche impaccio formale e che è ancora ricca di ‘frivolezze’ settecentesche; in ogni caso si discosta dal severo modo di sentire la sacralità e insieme la ferialità dell’evento narrato che è propria di fra Atanasio e che caratterizza tutta la sua attività pittorica, e dal forte senso plastico che informa le sue opere. Il soggetto e la composizione della pala di Montefabbri - di cui è persino inutile sottolineare i debiti nei confronti del bel dipinto riminese di Donato Creti con un miracolo di San Diego, che deve essere stato molto amato e studiato dal nostro pittore - verranno replicati dal pittore anche più tardi, riproponendo sempre come centrale il patetico gruppo della madre, che è indubbiamente una bella invenzione, anche se non del tutto originale, ma con una pittura più fresca e nel contempo più sommaria e severa (fig. 32). Il buon esito di questi lavori potrebbe aver convinto i superiori dell’opportunità di trasferire definitivamente il pittore a Bologna per ‘perfezionarsi’ accostando gli insegnanti della prestigiosa Accademia Clementina (alla quale – detto per inciso – verranno presto associati come “accademici d’onore” due grandi amici parmensi del nostro frate: padre Ireneo Affò, nel 1783, e il tipografo Giovan Battista Bodoni, nel 1794).


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Immagine

10. didascalia

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II. trA BoLognA e PArmA

A Bologna fra Atanasio fu presente almeno dal 1780 al 1794; vi lavorò dunque per più di un decennio, arricchendo di dipinti diverse chiese francescane dell’Osservante Provincia di Bologna, e fornendo opere anche a chiese di altri ordini e del clero secolare e persino a privati devoti. Una cronaca coeva del convento bolognese dell’Annunziata, dovuta al suo padre superiore Francesco Gambarini da Bologna24, cita più volte fra Atanasio per la sua attività pittorica all’interno del convento e dell’omonima chiesa; oltre ad uno sportello di tabernacolo con Cristo risorto per l’altar maggiore dell’Annunziata, ricorda una pala d’altare dipinta nel 1787 per celebrare la beatificazione di Nicolò Fattore e Tommaso da Cori, una Pietà dipinta per l’altare del Santissimo Sacramento nel 1791, il restauro operato alla tavola dell’altar maggiore (che era una Nunziata del Francia)25, la decorazione della mostra dell’orologio del corridoio del convento, e le pale per la nuova cappella delle Terziarie francescane (dette “le suore del Pozzo Rosso” dalla località in cui abitavano, nella strada di borgo Orfeo) eretta nella chiesa stessa dell’Annunziata, in cui le Terziarie si riunivano “per gli esercizi e per la festa di Santa Elisabetta”. Appunto dalla cappella delle Terziarie provengono due grandi dipinti raffiguranti il beato Giovanni da Parma e Santa Caterina de’ Vigri (figg. 12-13). Possono essere datati all’inizio di questo soggiorno bolognese, ancora nell’ottavo decen-

nio del secolo, e mostrano il pittore impegnato in ricerche di effetti luminosi altamente espressivi. Nel dipinto con il beato Giovanni una macchia di luce, come un raggio di sole, esalta la figura del beato e colpisce appena di striscio l’angelo chierico dal profilo perduto, suscitando ombre, riflessi, colori esaltati da una esecuzione fresca che rivela interesse e ammirazione per la pittura veneta. Nell’altro la luce è tutta artificiale e proviene dal Bambino che la Vergine ha appena consegnato alla santa. Nel primo caso la luce dà concretezza alle figure e accende di colore la pianeta rosacea e il candido camice del beato; nel secondo crea suggestive ombre portate e toglie spessore e peso alle figure e all’architettura, e suscita larve luminose di diafani angeli musicanti cui si contrappongono le eleganti figure della Vergine (rosa e azzurra, secondo un partito cromatico che diverrà costante) e dell’estatica monaca, che la luce abbagliante del Bambino quasi svuota di espressione e di peso. Una cattiva conservazione mortifica queste due belle pale, che sono di impostazione solenne e di pittura larga, e toglie vigore specialmente alla seconda, che partecipa agli esperimenti di luce artificiale tentati in quel periodo da diversi pittori neoclassici e perseguiti a Parma anche da un amico del nostro frate pittore, Giuseppe Turchi, ma localmente disprezzati dagli ‘accademici’26. A Bologna padre Atanasio sembra sia stato soprattutto pittore; al lector (l’inse-

11. Fra Atanasio, La visione di Santa Caterina de’ Vigri, c. 1780, Bologna. Convento dell’Annunziata

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trA BoLognA e PArmA

gnante) e al concionator (il predicatore) ormai veniva chiesto di insegnare e di predicare soprattutto attraverso la pittura; e d’ora in poi infatti si sforzerà sempre di argomentare e convincere tramite le figure, impegnato ad esaltare in modo particolare i personaggi esemplari dell’Ordine, che rendevano glorioso l’Ordine e che la Chiesa aveva proposto o veniva proponendo alla venerazione dei fedeli, come Giovanni da Parma, Sante Brancorsini, Leonardo da Porto Maurizio, Francesco Solano, Nicolò Fattore, Tommaso da Cori, Pasquale Baylon, Diego d’Alcalà, Giovanni da Capistrano, Margherita da Cortona e tanti altri. Ormai compreso in questo suo ufficio e appunto dedito soprattutto a questo, il frate pittore eseguiva anche una Santa Caterina d’Alessandria (fig. 15) per il convento francescano di Mala Braca di Ragusa (Dubrovnik) in Croazia, molto apprezzata dai biografi che vi videro “maestrevolmente incarnate parecchie bellezze della Cecilia del Sanzio”27, ma che a noi sembra un mediocre esercizio scolastico sullo stile dei seicentisti bolognesi; nel 1780 una pala raffigurante Il sogno di San Giuseppe per una chiesa parrocchiale

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12. Fra Atanasio, La messa del beato Giovanni da Parma, c. 1780. Bologna, Convento dell’Annunziata 13. Fra Atanasio, La visione di Santa Caterina de’ Vigri, c. 1780, Bologna, Convento dell’Annunziata

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riminese28 e nel 1783 un solenne e smagliante Sant’Agostino per gli Agostiniani di Cento29. La pala è perduta, ma non il Sant’Agostino (fig. 16) che, rispetto alle opere eseguite precedentemente, dimostra un deciso cambiamento di rotta nel modo di dipingere dell’artista: vi sono chiari infatti i riferimenti al barocco esasperato di Gaetano Gandolfi, che in quegli anni era il vero protagonista della pittura bolognese, e anzi “un de‘ più accreditati artefici che avesse l’Italia, per estro, fantasia feconda, sensibilità agli affetti, felicità in farne ritratto, sicuro occhio, spedita mano”, come osservava Luigi Lanzi30. Fra Atanasio rivela un grande interesse per la sua pittura, cui tuttavia non aderisce acriticamente; infatti non rinuncia ad un gusto tutto personale per la nitidezza, per la stilizzazione, o meglio per la sintesi plastica e per la monumentalità, che anche in seguito rimarranno segni distintivi della sua arte. Tale interesse doveva essere ben evidente anche in una pala ora smarrita raffigurante l’estasi di Santa Margherita da Cortona, già nella chiesa francescana di Santo Spi-

14. Giuseppe Turchi, La Madonna con il Bambino, disegno. Savignano sul Rubicone, Accademia dei Filopatridi

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AtAnAsIo dA corIAno 15. Fra Atanasio, Santa Caterina d’Alessandria, c. 1780, Ragusa (Dubrovnik), convento di Mala Braca francescano 16. Fra Atanasio, Sant’Agostino, 1783. Cento, Pinacoteca Civica

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rito a Ferrara, di cui ci rimane solo una bella incisione31, con una composizione e uno sventagliare di piume e di panni che senz’altro sono tributari in particolare del Gandolfi (fig. 17). Altrettanto si può dire per una bella paletta dipinta presumibilmente sempre negli anni ottanta per un oratorio privato di Saludecio con l’Immacolata fra san Gaetano e il beato Amato Ronconi32 (fig. 18); le figure dei due santi, allungatissime (e quella del beato Amato, oltre che allungata, contorta) ricordano per l’appunto il Gandolfi, anche se ne rifiutano la scioltezza e la preziosità di tocco e tendono a risolversi tramite il disegno e il chiaroscuro. In quanto al colore, che ha delicatezze di toni e contrasti di armoniosa purezza, è tutto bolognese, ma carraccesco più che gandolfiano. Dichiaratamente gandolfiano per quanto riguarda il disegno e l’intonazione cromatica è anche lo sportello di tabernacolo dipinto su rame per l’altar maggiore della chiesa del convento bolognese dell’Annunziata, ora all’Osservanza33 (fig. 20), di cui non può meravigliare la ‘finitezza’ quasi preziosa, trattandosi di opera di piccole dimensioni, citato costantemente dai biografi dell’ar22

tista come una delle sue opere bolognesi più apprezzate: “Fra le tante sue opere che si conservano in Bologna nel luogo de’ Frati minori sono notabili, a giudizio degli artisti, il Redentore risorto, dipinto sulla portina del Tabernacolo; e ben ti accorgi per sì alto e divino concetto quanto di pittura conoscesse”34. Comunque padre Atanasio non tardò ad abbandonare esperimenti formali di ‘manierismo barocco’ così sostenuti e a ritornare a una pittura più semplice, più ‘naturale’, più tradizionale e, se vogliamo, più facile e popolare. A conclusione di questa fase va posta una pala severa ed eloquente, raffigurante San Leonardo da Porto Maurizio (fig. 18), fino a pochi decenni or sono nel convento di San Bernardino di Rimini. San Leonardo era un santo moderno (era morto a Roma nel 1751) che verrà canonizzato solo nel 1867, ma di cui Pio VI aveva dichiarato le virtù eroiche già nel 1792 (data a cui potrebbe risalire la pala in questione). Padre Atanasio lo dipinse (come già canonizzato: non esitò infatti a fornirlo di aureola) isolato contro il cielo e contro un paesaggio semplificato al massimo, che non concede nulla al pittoresco, nella posa classica di tanti arringatori sacri seicenteschi e settecenteschi resa elegante dal disegno fluido e semplificato, imponente dall’impostazione prospettica ribassata e autorevole dalla fermezza plastica con cui è costruita. Dietro l’alta figura del protagonista che dialoga direttamente con gli spettatori, in un libero rapporto con il bel crocifisso issato sul palco, compare un fraticello penitente in atteggiamento umile, chiuso in un disegno dalle forme singolarmente stilizzate che, ‘per contrasto’, esalta l’eloquente giganteggiare del santo35. A questo periodo bolognese i biografi attribuiscono anche un “grosso quadro” con i santi Pietro e Paolo “che di presente adorna la Reggia di Pietroburgo, la quale accoglie e premia le arti belle” 36, che ci è sconosciuto. E altre opere che segnano la


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17. Ignoto, L’estasi di Santa Margherita da Cortona, incisione su disegno di fra Atanasio. Rimini, Biblioteca Gambalunghiana

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18. Fra Atanasio, La Vergine con il Bambino fra il beato Amato e San Gaetano, c. 1785. Bologna, Collezione privata

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trA BoLognA e PArmA 20. Ignoto, San Leonardo da Porto Maurizio, da un dipinto di fra Atanasio. Bologna, Museo dell’Osservanza 21. Fra Atanasio, Cristo risorto, sportello di tabernacolo. Bologna, Museo dell’Osservanza

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conquista di una maggior libertà compositiva e una maggior disinvoltura pittorica, certamente frutto delle frequentazioni e delle nuove conoscenze dei pittori moderni, ma anche di una ricercata aderenza alla tradizione della grande pittura seicentesca, cui evidentemente veniva ancora riconosciuta una straordinaria efficacia comunicativa. Cadono a questo punto del suo percorso i due dipinti inviati poco dopo il 1790 alla chiesa di San Michele dall’Arco di Parma, che suscitarono l’entusiasmo del collega Giuseppe Turchi: “Al Padre Attanasio molti saluti e congratulamenti de’ suoi quadri che ho qui veduto e digli che quello della pietà fa benissimo, e che qui a Parma non v’è nessuno che possa farne altretanto”, scriveva questo pittore romagnolo a Francesco Rosaspina il primo di novembre del 179337. A causa di una accurata ridipintura totale di gusto accademico-pietistico purtroppo della pittura originale oggi non rimane più nulla di visibile. Comunque nell’affastellarsi di motivi bolognesi e parmensi la pala con la Vergine bambina e santi (Anna e Gioacchino, Margherita da Cortona e Francesco di Paola) (fig. 22) si rivela di composizio-

ne complessa e affaticata (soprattutto nello sfondo di drappi e architetture che forse voleva fare il verso alle opere del Ferrari e del Callani), ma dolce e naturale nel gruppo centrale di Maria e di Sant’Anna, su cui in origine doveva concentrarsi la luce. Quella con la Deposizione (fig. 23), composta classicamente in un blocco piramidale, contiene un significativo omaggio al Correggio, da cui è desunto il Cristo morto, e risulta di una qualche efficacia nella figura del santo francescano (Sant’Antonio da Padova) che sollecita alla contemplazione i riguardanti38. Da Bologna padre Atanasio deve aver continuato a tenere frequenti rapporti con l’ambiente parmense; e a Parma lo troviamo di nuovo nel 1794, attivo per l’incisore Francesco Rosaspina, al servizio dell’abate benedettino Andrea Mazza e del tipografo ducale Giovan Battista Bodoni, ma sempre sotto la protezione di padre Ireneo Affò39. Tra questi importanti personaggi Mazza, Affò, Rosaspina, Bodoni e fra Atanasio - tutti estranei al mondo della Regia Accademia parmense (un mondo chiuso, pieno di “invidiosi” secondo il Bodoni)40, cui occorre aggiungere i pittori Giuseppe

19. Fra Atanasio, San Leonardo da Porto Maurizio, c. 1792. Rimini, Convento di San Bernardino (già)

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22. Fra Atanasio, La Vergine Bambina e i santi Anna, Gioacchino, Margherita da Cortona e Francesco di Paola, c. 1793 (ridipinto). Parma, Chiesa di San Michele dall’Arco 23. Fra Atanasio, La Pietà con i santi Antonio da Padova e Luigi Gonzaga, c. 1793 (ridipinto). Parma, Chiesa di San Michele dall’Arco

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Turchi, romagnolo, e Giuseppe Lucatelli, marchigiano (che si era posto sotto la protezione dei nostri dopo essere stato contrastato e respinto dagli ‘accademici’), si era instaurata una solida amicizia e una sorta di sodalizio artistico che avevano come fulcro il comune interesse e la comune ammirazione per il Correggio; Rosaspina, Turchi e fra Atanasio probabilmente si sentivano accomunati anche dalla stessa provenienza romagnola. Al padre Andrea Mazza e al padre Ireneo Affò si doveva il progetto assai ambizioso di tradurre in incisione le maggiori opere del Correggio: era stato promosso dal Mazza, venne in seguito assunto dal Bodoni e fin dall’inizio affidato per quanto riguarda le incisioni al Rosaspina (che per i disegni si serviva del talento di Giuseppe Turchi, sostituito da fra Atanasio nel 1794 e poi dal pittore portoghese Francisco Vieira)41.

Il Rosaspina nel 1794 si dichiarava molto soddisfatto delle copie delle teste della Deposizione del Correggio che gli forniva fra Atanasio42, che in questo esercizio ebbe modo di approfondire ‘sperimentalmente’ le dolcezze chiaroscurali e cromatiche del grande pittore parmense. Durante questo periodo eseguì anche disegni per Raffaello Morghen43 e alcuni ritratti, come quello del padre Andrea Mazza, assai apprezzato dal Bodoni e inciso con molta accuratezza dal Rosaspina; va notato che quasi contemporaneamente il Turchi eseguiva il ritratto di padre Ireneo Affò, pure inciso dal Rosaspina44. I due dipinti ora sono documentati solo dalle incisioni (figg. 25-26), da cui non è possibile, naturalmente, ricavare che generici indizi sulle pitture originali; il sobrio ritratto del Mazza, comunque, sembra indicare una certa attenzione per la mo-


trA BoLognA e PArmA 24. Fra Atanasio, La Pietà con i santi Antonio da Padova e Luigi Gonzaga, particolare. Parma, Chiesa di San Michele dall’Arco

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AtAnAsIo dA corIAno 25. Francesco Rosaspina, Ritratto di padre Andrea Mazza, c. 1795 incisione da un dipinto di fra Atanasio. ForlĂŹ, Biblioteca Civica, Collezione Piancastelli

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trA BoLognA e PArmA

derna ritrattistica francese, oltre che per quella di Pietro Ferrari. Questo secondo soggiorno parmense venne presto troncato nel 1796 da un avvenimento tanto drammatico quanto inaspettato: l’arrivo delle truppe francesi che conquistarono rapidamente l’Emilia e la Romagna, subito incluse nella Repubblica Cisalpina. Ne seguirono, come è ben noto, soppressioni di conventi e razzie di opere d’arte e, il 26 ottobre, un editto che costringeva i religiosi a rientrare nei loro territori di provenienza. In un clima di paura e di sconforto padre Atanasio era costretto a lasciare Parma e Bologna per ritornare a Rimini; non nel convento delle Grazie sul colle alle spalle della città, dove aveva vestito l’abito francescano, ma nel convento francescano di città dedicato a San Bernardino, che fu uno degli ultimi del territorio riminese ad essere soppresso (con le soppressioni generali del 1810). Il sodalizio con gli amici parmensi e romagnoli dunque si scioglieva bruscamente; e anche l’impresa correggesca rimaneva interrotta. I due frati amici morivano a pochi mesi l’uno dall’altro nell’anno successivo; la salute del Turchi, rientrato a Savignano, declinava irrimediabilmente; e il Lucatelli si trasferiva a Roma. Rimanevano saldi i rapporti d’amicizia con il Bodoni, avvilito per l’interruzione delle sue imprese tipografiche più prestigiose, e con il Rosaspina, ormai affermato insegnante dell’Accademia bolognese e convinto ‘democratico’ e ‘patriota’45. Del perdurante contatto con il Rosaspina e con il suo folto entourage di allievi e di artisti, fra i quali va considerato specialmente Felice Giani, sono dimostrazione diverse lettere e alcune belle stampe che il Rosaspina stesso realizzò su disegno del nostro frate46.

26. Francesco Rosaspina, Ritratto di padre Ireneo Affò, incisione da un dipinto di Giuseppe Turchi. Forlì, Biblioteca Civica, Collezione Piancastelli

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III. LA mAturItà

Nell’autunno del 1796 padre Atanasio ritrovava a Rimini la vicinanza della famiglia naturale e di molti confratelli che erano amici, compaesani e parenti, di superiori che lo ricordavano ragazzo e giovane frate e che lo stimavano: ma tutti confusi e impauriti, e incerti sul loro destino. La regione intera era confusa e impaurita, salassata dalle contribuzioni, percorsa da ‘patriotti’ acclamanti, da profughi in fuga, da gruppi di soldati insolenti e prepotenti. Certo il momento non era favorevole all’arte: la costruzione di diversi edifici importanti sia civili che religiosi rimaneva interrotta, e gli ‘artefici’, privi di committenze ecclesiastiche, erano disoccupati; d’altra parte di lì a poco il mercato artistico diverrà saturo per le molte suppellettili requisite nelle chiese e nei conventi, divenute “Beni Nazionali” e vendute in fretta e malamente. “Veggiamo ben Noi per Verità, ed a ciglio asciutto vedere non possiamo, a quali infelici tempi ed a quali tristissime circostanze abbia Iddio riservata questa nostra elezione [a superiore della Provincia]: a tempi sì torbidi, a circostanze sì calamitose che ogni cuore anche il più forte e magnanimo non può se non perdersi ed avvilirsi. Vedete voi pure, Padri e Fratelli, ed aperto l’avete sotto lo sguardo il tristo orrendo spettacolo di disavventure e di mali che per ogni parte questa sventurata nostra provincia strabocchevolmente inondano. Quindi questa che fu una volta bella, luminosa porzione del Serafico

Mondo, quale oh Dio porta in fronte luttuoso sfiguramento?”, scriveva desolato il reverendo padre provinciale Luigi Antonio da Parma, successore di Ireneo Affò, nella sua prima lettera circolare inviata ai conventi il 15 agosto del 179747. A Rimini padre Atanasio vide la caduta della Cisalpina, il ritorno dei francesi dopo Marengo, la loro fuga e il loro ritorno nell’agosto del 1800, ancora una fuga e il ritorno definitivo fra il dicembre del 1800 e il gennaio del 180148: in un’alternanza di speranze e di ansie, di carestie e di saccheggi, quel periodo di tempo ‘sospeso’, così ricco di avvenimenti e sommovimenti, dovette passare molto lentamente. Qua e là, oltre alla paura, cominciava a serpeggiare la fame (anche fra i parenti stretti del frate)49. Come tutti gli altri artisti che non volevano o non erano in grado di celebrare Napoleone e i miti della ‘rivoluzione’, anche il nostro frate pittore si trovò quasi inattivo per quanto riguardava l’esercizio dell’arte. Probabilmente in quegli anni (che sono gli anni delle “Madonne miracolose”)50 inviò a Francesco Rosaspina il disegno di una testa di Madonna ispirato a qualche opera del Batoni, che fu inciso con grande cura e che, intitolato Maria Santissima della Pietà (fig. 28) e munito di indulgenze dai vescovi di Forlì e di Faenza, riscosse a lungo un grande successo51; produsse disegni di sua invenzione per altri incisori, che magari li utilizzarono più tardi, come per esempio l’estasi di Santa Margherita da Cortona (che riprendeva la

27.Fra Atanasio, Un miracolo del beato Sante, particolare. Forlì, Chiesa di San Francesco

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AtAnAsIo dA corIAno 28. Francesco Rosaspina, Maria Santissima della Pietà, incisione su disegno di fra Atanasio. Rimini, Biblioteca Gambalunghiana 29. Fra Atanasio, San Pasquale Baylon, c. 1798. Rimini, già nel Convento di San Bernardino

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pala ferrarese eseguita alcuni anni prima) 52 (fig. 17). E aprì una “scuola di disegno” ad uso dei giovani rampolli dell’alta società locale53: primo esperimento di una attività di insegnamento che esplicò con passione per tutta la vita. Per quanto riguarda la pittura all’inizio di questo periodo dovrebbe appartenere una pala già nel convento riminese di San Bernardino con San Pasquale Baylon (fig. 29), raffigurante questo santo solitario in atteggiamento estatico contro uno sfondo cupo, inginocchiato davanti al calice con l’Ostia luminosa retto da due angioletti: si tratta di un dipinto severo, quasi monocromo, in cui alla luce proveniente dall’Ostia è affidato il compito di rilevare le figure. L’opera (che era purtroppo in cattivo stato e che ora è dispersa) non è ancora del tutto dimentica della lezione gandolfiana, ma si appoggia soprattutto alla tradizionale pittura devota di radice seicentesca, ed è solenne, essenziale ed espressiva, priva di fronzoli barocchi e rococò tanto nella parte celeste con gli angeli (di struttura cignanesca e gandolfiana, ma torniti e mossi come putti michelangioleschi, e ormai lontanissimi dai convenzionali angioletti presenti nelle pale giovanili del beato Sante e del beato Buralli), quanto nella parte terrestre, che presenta un breve scorcio di paesaggio marino interrotto da una stereometrica “torre saracena”, simile a quello presente nella pala con il San Leonardo. Sembra che durante gli anni riminesi – non più di quattro, a quanto pare - padre Atanasio abbia ricevuto ben poche commissioni esterne di un certo impegno; la più importante gli giunse da un parroco davvero coraggioso che, nonostante le difficoltà economiche e politiche del momento, con molti sacrifici e con molta determinazione portava avanti i lavori di costruzione (iniziati nel 1795) della sua nuova chiesa nell’entroterra riminese. Questo parroco era don Domenico Antonio Fronzoni, che già da anni cercava un pittore in grado di dipingergli una pala per l’altare maggiore della sua nuova chiesa


LA mAturItà 30. Fra Atanasio, San Pasquale Baylon, particolare. Rimini, già nel Convento di San Bernardino

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LA mAturItà

di Saludecio, dedicata a San Biagio. Aveva ricevuto offerte da vari artisti, e su consiglio dell’architetto di fiducia, il cesenate Giuseppe Achilli, si era inutilmente rivolto al pittore più celebre della città, Giuseppe Soleri Brancaleoni, che aveva avanzato pretese troppo alte54. Non sappiamo come abbia scovato il nostro pittore nel convento di San Bernardino, e chi abbia garantito sulle sue capacità, dato che localmente padre Atanasio non doveva essere molto conosciuto: si può ipotizzare che a indicarglielo, verso la fine del 1798 o all’inizio dell’anno successivo, sia stato lo stesso architetto Giuseppe Achilli, che in quel periodo stava lavorando a Coriano per i Patrignani55, dai quali è possibile siano venute indicazioni e raccomandazioni; e che nella scelta l’abbia confortato la famiglia saludecese dei Magi, di cui indubbiamente conosceva la pala del domestico oratorio, o l’arciprete riminese don Antonio Beltramelli, nella cui chiesa faceva bella mostra la citata tela, a noi sconosciuta, con il Sogno di San Giuseppe. Comunque don Fronzoni nell’ottobre del 1800 ricevette la sua grande pala, di cui il pittore stesso volle curare la collocazione, ritoccandola e perfezionandola sul posto56. Risultò un vero capolavoro; scampata fortunosamente all’ultima guerra mondiale, ancora esiste sull’altar maggiore della chiesa parrocchiale di Saludecio, consacrata nel 1803 (fig. 31). L’intesa fra il committente e il pittore fu quella di raffigurare non la morte per decapitazione del santo vescovo di Sebaste, ma il martirio da lui subito prima della condanna definitiva, che la tradizione agiografica attribuisce all’imperatore Licinio. Le circostanze drammatiche di quegli anni avranno fatto scorgere al parroco e al frate pittore più di una analogia fra il martirio dell’antico vescovo e il ‘martirio’ dell’attuale pontefice, spodestato e deportato da Napoleone e morto esule a Valenza il 29 agosto del 1799. Una deportazione e una morte che provocarono un vero choc negli ambienti religiosi già tanto provati. Per questo, forse, i tratti del

31. Fra Atanasio, Il martirio di San Biagio, 1800. Saludecio, Chiesa di San Biagio 32. Francesco Rosaspina, Filottete ferito, incisione da un dipinto di James Barry, Forlì, Biblioteca Civica, Collezione Piancastelli

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volto del santo adombrano quelli di Pio VI e quelli dell’imperatore che ordina il martirio ricordano quelli di Napoleone. Il santo è raffigurato come un atleta, anzi come un antico eroe, spogliato di tutto ma forte, pienamente fiducioso nel Signore che gli invia tramite un angelo la palma della vittoria e la corona del martirio. Il suo corpo risplende nitido e perfetto sotto la luce che piove dall’alto: una luce che illumina anche i paramenti e le insegne vescovili abbandonati in terra, scopre appena il carnefice e i soldati e lascia nell’ombra l’imperatore, quasi un fantasma avvolto nelle tenebre dello sfondo. L’architettura, gli strumenti del martirio, il banco del supplizio, i soldati sono fortemente stilizzati, e su tutto spira un’aria ‘neoclassica’ nuova per il nostro pittore: che vuol essere didascalico senza pedanteria ed eloquente fino alla retorica, che dispone la composizione su linee e piani orizzontali e diagonali di grande efficacia espressiva e che abbandona ogni frivolezza tradizionale per accostare uno stile eroico, in cui si affacciano vivissimi i ricordi del Filottete recentemente dona37


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33. Fra Atanasio, Un miracolo del beato Sante c. 1801. Forlì, Chiesa di San Francesco

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to all’Accademia Clementina dall’inglese James Barry e inciso dall’amico Rosaspina (fig. 32)57, e le massicce sintesi plastiche di Felice Giani. Con lo stesso atteggiamento mentale, e con lo stesso stile, e quindi in vicinanza alla pala di Saludecio, debbono essere stati dipinti due quadri ‘francescani’ raffiguranti San Francesco Solano che battezza gli indigeni scampati con lui al naufragio e il Beato Sante da Mombaroccio che guarisce un bambino morente58 (figg. 33-34). Anche questi sono caratterizzati da abbreviature formali ardite e da personaggi quasi michelangioleschi. E sono di pittura intensa e

cupa, che si ravviva e intenerisce solo nel gruppo della madre con il bambino, schiarito da una luce che scalda e ammorbidisce le forme, memore evidentemente della pala di Montefabbri. L’ambientazione delle due scene è essenziale e contribuisce a dare monumentalità e drammaticità alle figure, dipinte con apparente rapidità e con una sinteticità che ancora una volta escludono ogni vezzo decorativo e ogni compiacimento cromatico. Anzi il pittore sembra tenersi volutamente lontano dalla “bella pittura”, quasi per evitare ai fedeli distrazioni che li possano distogliere dalla considerazione del contenuto delle storie narra-


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te: storie di pietà, di eroismo, di dolore, in un mondo popolato da un’umanità dolente, tanto simile a quella che viveva il presente momento storico, a cui solo la fede poteva fornire una qualche speranza. Le inflessioni ‘neoclassiche’ presenti in queste opere di fra Atanasio erano assolutamente nuove per l’ambiente artistico riminese, dove imperava la mite e corretta pittura del nobile e devoto Giuseppe Soleri Brancaleoni59 (fig. 35) e dove ancora operava un altro frate, ma specialista in nature morte, l’anziano Nicola Levoli, un agostiniano che morirà di lì a poco ospite dei Francescani nel

loro convento riminese di Santa Maria delle Grazie60. E certo parvero, e lo erano infatti, eccezionalmente ‘moderne’, ma non mutarono il panorama e l’orientamento della cultura artistica cittadina, che continuava ad essere dominata dal Soleri e in cui si affacciava un sacerdote pittore che in seguito ebbe localmente molta fortuna, portatore di un neoclassicismo devoto e a suo modo purista: don Stefano Montanari da Gatteo61. Del resto padre Atanasio a Rimini non produsse pubblicamente altro, e presto fu lontano dalla città, chiamato improvvisamente dai superiori a Roma.

34. Fra Atanasio, San Francesco Solano battezza gli indigeni c. 1801. Forlì, Chiesa di San Francesco

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AtAnAsIo dA corIAno 35. Giuseppe Soleri Brancaleoni, Sant’Emidio, 1788. Rimini, Chiesa di San Francesco Saverio

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LA mAturItĂ 36. Don Stefano Montanari, Estasi di San Francesco. Rimini, Museo della CittĂ (deposito del Convento delle Grazie)

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IV. trA romA e mAcerAtA

Probabilmente in occasione della messa in opera della pala con il Martirio di San Biagio, all’inizio di ottobre del 1800, il parroco di Saludecio commissionò al pittore una Via Crucis. Quest’opera fu certamente iniziata, ma forse mai finita, e comunque mai consegnata, nonostante fosse stata pagata in anticipo (solo 10 scudi) al fratello del pittore, Giacomo Favini, la cui famiglia a Coriano si trovava “quasi al stremo senza niente da mangiare”62. Un breve carteggio riguarda questa Via Crucis, che avrebbe dovuto essere compiuta entro il maggio del 1801, che vien detta a buon punto il 24 gennaio e l’11 maggio del 1802 e infine il 19 aprile 1804. Il carteggio relativo ci dà conto degli spostamenti di fra Atanasio in questi anni, e ci informa sulla densità dei suoi impegni di lavoro, prima a Roma e poi a Macerata63. A Roma il pittore fu chiamato nel settembre del 1801, non appena l’Ordine riebbe a disposizione il convento dell’Aracoeli, “comprato dagli Ebrei nel tempo che il Generale Francese Berthier proclamava nelle vette del Campidoglio la Repubblica”64, per restaurare le opere pittoriche dell’annessa chiesa di Santa Maria in Aracoeli, danneggiata dalle truppe napoleoniche; e specialmente per dipingere due affreschi nella sua navata centrale, nel luogo in cui prima dell’occupazione francese erano la cantoria e l’organo, a completamento e in prosecuzione di quelli già dipinti tra le finestre da Giovanni Odazzi e da Giuseppe Passeri con

le storie della Vergine. Esistono ancora, e raffigurano L’Incoronazione della Vergine e La Madonna che protegge la città di Roma, assistita dai Santi Pietro e Paolo e dall’arcangelo Michele65 (figg. 45-48); ma solo recentemente sono stati liberati dalle vaste ridipinture e dai molti radicali rifacimenti subiti tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento che li avevano completamente sfigurati (figg. 46-47). Si tratta dei primi dipinti murali a noi noti del nostro pittore, che nel concepirli sembra aver voluto compiere una ingenua e quasi romantica rivisitazione del barocco classicista romano nel tentativo di pervenire ad una più libera e franca espressione; senza tuttavia sottrarsi al suggestivo ricordo delle opere del sempre amato Correggio, ben visibile nell’Incoronazione, con i protagonisti in vesti dai colori chiari contro il cielo dorato e con vivaci intrecci di membra negli angeli musicanti; una composizione sostanzialmente classica nella sua ostentata simmetria appena mossa dalla costruzione un poco scalena, che per la fusione dei colori e la classicità delle figure si distingue bene dal resto della veramente barocca decorazione marattesca. Grandiosa, solenne e preziosa, e ancora più personale, è l’altra scena con la Vergine protettrice vestita di rosa e d’azzurro, accompagnata da figure ‘eroiche’, potenti per forme e chiaroscuri, trasvolanti su una veduta del colle capitolino con la chiesa e il convento francescani: una veduta colta dal vero (naturalmente prima dello

37. Fra Atanasio, Santa Chiara d’Assisi, 1801-1804, affresco. Roma, Santa Maria in Aracoeli

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AtAnAsIo dA corIAno 38. Roma, l’interno della Basilica di Santa Maria in Aracoeli

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trA romA e mAcerAtA 39-41. Fra Atanasio, Sante e Santi francescani, 1801-1804, affreschi. Roma, Santa Maria in Aracoeli

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scempio compiuto per la costruzione del Vittoriano), che era stata completamente e pesantemente ridipinta per mettere in evidenza il Palazzo Senatorio, il centro laico della vita politica cittadina. La conservazione di questi dipinti non è ottimale, perché i recenti e restauri non hanno potuto ovviare alla considerevole consunzione della superficie pittorica. Meglio conservati e in molti casi ancora pienamente godibili sono, invece, i ventiquattro ovali inseriti tra gli archi della navata, con figure a tre quarti di sante e santi francescani (in due ‘serie’ distinte, aperte rispettivamente da Santa Chiara e da San Francesco) dipinte su sfondi neutri appena modulati da chiaroscuri (sfondi in alcuni casi pesantemente ridipinti durante il recente restauro) (figg. 39-44); si tratta di figure colte da sotto in su, che ostentatamente debordano dalle cornici quasi per proiettarsi nel vano della navata, e che sono caratterizzate da una grande vivacità e da un grande vigore, e in alcuni casi dipinte con disinvolta freschezza66. La loro qualità non è sempre alta, ma sempre efficace è la loro espressività, per la quale

il pittore non esita a ricorrere anche alla retorica reniana. Scarsi vi paiono i debiti con la tradizione bolognese settecentesca, nonostante il pittore dovesse conoscere bene molti analoghi dipinti delle chiese bolognesi e se non altro gli otto ovali con

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AtAnAsIo dA corIAno 42. Fra Atanasio, San Bernardino da Siena, 1801-1804, affresco, particolare. Roma, Santa Maria in Aracoeli

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simili soggetti nella sagrestia del convento bolognese dell’Annunziata, dovuti a pittori dell’ambito dell’Accademia Clementina67, che deve aver visto mettere in opera, o appena messi in opera nel 1778. Una grande attenzione viene posta dall’artista anche nella caratterizzazione fisionomica delle figure, come nella ge46

stualità e nell’uso degli attributi iconografici consueti, senza timore di apparire in alcuni casi arcaizzante. Si vedano per tutte la figura-ritratto di San Bernardino e, all’opposto, quella tutta ideale di Santa Chiara (figg. 37-42). Ad aiutare l’artista a schiarire la tavolozza, a dare vitalità e soprattutto eloquen-


trA romA e mAcerAtA

za alle figure della decorazione dell’Aracoeli, deve essere stata la vicinanza della grande pittura romana del Cinquecento: Michelangelo e Raffaello e in genere i ‘manieristi’ da questo momento diventano assai più di prima elementi della sua cultura pittorica, che a Roma dovette confrontarsi anche con un’ampia cerchia di opere moderne: il frate pittore senza dubbio continuò a meditare sui ‘classici’ dipinti bolognesi ed emiliani del Seicento, che ne orienteranno sempre l’attività e sempre costituiranno la base del suo fare artistico, ma non poteva certo rimanere indifferente alle grandi pale marattesche che trionfavano nelle chiese romane, alle opere ‘moderne’ del Conca e del Batoni, alle decorazioni del Giani. Inoltre l’attività all’interno della chiesa dell’Aracoeli lo mise in contatto con opere che ebbero una profonda influenza sul suo lavoro per molti anni: mi riferisco ai capolavori del Benefial nella cappella di Santa Margherita da Cortona, ai dipinti del Trevisani e anche a quelli del più modesto Pasqualino de Rossi, questi ultimi nella cappella di Santa Rosa da Viterbo, che probabilmente il nostro frate ebbe a restaurare con la diligenza che gli era consueta. Quando gli era giunta la “lettera pressantissima” del Superiore che gli ordinava di portarsi sollecitamente a Roma “per eseguire alcuni quadri nella chiesa di Aracoeli”, il pittore pensava solo ad un breve allontanamento dal suo convento riminese68; ma quella romana non fu una trasferta di pochi mesi. L’anno dopo (1801) scriveva che “per quanta attività e solecitudine abia adoperato ancora non ho finito, e mi vorranno ancora altri due o tre mesi prima che mi liberi da questo purgatorio per non dir altro”69. I lavori romani si protrassero invece fino a tutto il 1803, dunque assai più del previsto; e quando stavano per concludersi un nuovo ordine del padre generale chiamò l’artista nelle Marche, a Macerata, per un altro restauro. Come è naturale fu subito obbedito, ma

43-44. Fra Atanasio, Sante francescane, 1801-1804, affreschi. Roma, Santa Maria in Aracoeli

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AtAnAsIo dA corIAno 45. Fra Atanasio, La Madonna protegge la città di Roma, 18011804. Roma, Santa Maria in Aracoeli

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volentieri “sarebbe ancor rimaso, dopo la gallica rapina, in Roma, fuor della quale a niuno è speranza, né potere di crescere valoroso artista, a studiare negli affreschi di Raffaello e nel meglio di quanto vi rimase (= vi lasciò) il superbo vincitore”, afferma l’amico biografo70. L’attività romana fu così lunga perché non si limitò ai due affreschi e ai ventiquattro medaglioni che decorano gli archi della navata maggiore, ma perché dovette estendersi al restauro di molte altre parti dell’apparato decorati48

vo della chiesa, fortemente danneggiato durante la “Repubblica Romana”, oltre che a far fronte (presumibilmente) a piccoli lavori richiesti dai superiori e dai confratelli di Roma e di Rimini. Comunque una maggior comprensione del suo stile forse potrà portare a riconoscergli altri lavori all’interno della grande basilica romana (come per esempio i bei putti e gli ovali con l’Orazione nell’orto e la Flagellazione della cappella del Crocifisso, che credo potrebbero essere appunto suoi).


trA romA e mAcerAtA 46. Fra Atanasio, L’incoronazione della Vergine, 1801-1804. Roma, Santa Maria in Aracoeli

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47-48. Gli affreschi di fra Atanasio in Santa Maria Aracoeli a Roma, prima dei recenti restauri

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AtAnAsIo dA corIAno 49. Fra Atanasio, L’estasi di san Francesco, copia da Agostino Masucci, c. 1805. Macerata, Chiesa di Santa Croce

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trA romA e mAcerAtA 50. Domenico Corvi, NativitĂ , dipinto restaurato da fra Atanasio. Macerata, Chiesa di Santa Croce

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AtAnAsIo dA corIAno 51. Fra Atanasio, Le stimmate di san Francesco, copia da Agostino Masucci (particolare). Macerata, Chiesa di Santa Croce

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A Macerata, dove giunse tra la fine del 1803 e l’inizio del 1804, padre Atanasio trovò una situazione disastrosa per quanto riguardava il convento cui era stato provvisoriamente assegnato (Santa Croce) e un po’ tutta la città, che nel 1799 aveva osato ribellarsi agli invasori francesi ed aveva subito un pauroso saccheggio. La forte opposizione degli insorgenti maceratesi alle truppe napoleoniche e giacobine fra il 27 giugno e il 5 luglio di quell’anno aveva avuto il suo punto di maggior sforzo proprio sul colle dell’Osservanza, poco discosto dalle mura cittadine, più volte strappato ai Francesi, che da lì cannoneggiavano la città. La chiesa e il convento francescano di Santa Croce sorgevano proprio nella parte più alta del colle e alla fine degli scontri risultarono in gran parte bruciati e quasi distrutti. Durante il saccheggio della città che immediatamente era seguito alla battaglia (anzi all’assedio) furono uccise molte persone e persino un frate del convento, colpito mentre portava conforto e amministrava gli ultimi sacramenti ad un cittadino morente71. L’occupazione militare fu molto breve, ma durissima; terminò alla fine di luglio, quando la città entrò a far parte dell’“Imperial Regia Pontificia Reggenza”, che durò fino al ritorno delle truppe francesi nel 180772. Durante quel periodo di precaria “restaurazione” padre Atanasio lavorò indefessamente per il recupero della chiesa di Santa Croce: secondo i suoi biografi ne fu anzi l’architetto, l’arredatore e il pittore73. Ma difficilmente gli si potrà fondatamente attribuire una attività di architetto. Poiché non risulta avesse competenza ed esperienza in questo campo, potrà al più aver dato dei consigli, come più tardi forse ne dava Luigi Angelini per la costruzione della sua villa ‘neoclassica’ a Treja74, che è una bella opera del Valadier. Al suo arrivo a Macerata, del resto, la parte architettonica della chiesa (che verrà solennemente riaperta al culto il 5 maggio 1805) doveva essere a buon punto almeno nelle sue linee generali, dato che

già nel 1803 era pronta la mediocre pala dell’altar maggiore raffigurante L’Invenzione della Croce, dipinta dal maceratese Filippo Spada (che in seguito diverrà amico e ‘allievo’ di padre Atanasio)75. Dunque a Macerata il nostro frate pittore non trovò un convento accogliente, bensì un cantiere in piena attività in cui era impossibile organizzare lo spazio necessario per eseguire i lavori che gli venivano richiesti, cioè il restauro delle pale d’altare della chiesa. Fortunatamente il marchese Valerio Ciccolini Silenzi (“poeta, scienziato e buon dilettante di musica”76 e soprattutto mecenate, forse già conosciuto a Bologna) gli mise generosamente a disposizione alcuni ambienti del suo palazzo, ben noto per la sua accogliente ospitalità agli uomini di cultura e agli artisti; padre Atanasio finirà per rimanervi per ben diciotto anni, praticamente fino alla morte del marchese (1819), organizzandovi un atelier che era una sorta di domestica ‘accademia’ e una scuola di disegno in cui venivano accolti i giovani maceratesi interessati all’apprendimento dell’arte. Il suo lavoro inizialmente fu quello di restauratore: in effetti proprio in quanto restauratore di Santa Maria in Aracoeli, e non come ‘pittore d’invenzione’, era stato mandato da Roma; e dunque non può destare meraviglia che per una pala nuova i maceratesi si siano rivolti, nonostante le ristrettezze del momento, ad un pittore esterno e affermato e ben noto a Macerata come Pietro Tedeschi, che da Roma inviò nel 1806 una composta e molto accademica Santa Margherita da Cortona. Come restauratore, del resto, venne in più occasioni utilizzato anche in seguito77, conquistando con la sua abilità la stima degli intendenti e degli amatori: valga per tutti l’elogio di un amante e conoscitore dell’arte come Amico Ricci, che lo conobbe bene e lo stimò come uomo e come artista78. Le tele di Santa Croce che padre Ata53


AtAnAsIo dA corIAno 52-53 Fra Atanasio, San Pasquale Baylon, c. 1810, Macerata. Chiesa di Santa Croce

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nasio avrebbe dovuto restaurare erano state danneggiate molto gravemente nel 1799: si trattava di un’Estasi di San Francesco dipinta da Agostino Masucci nel 1745 e di una Natività dipinta da Domenico Corvi nel 1783, e dunque di due buoni dipinti moderni (figg. 49-50). Sembra che il pittore, nell’impossibilità di intervenire sugli originali, data la gravità dei danni subiti, abbia preferito trarne delle copie, forse abbastanza fedeli79; soprattutto l’Estasi, mentre dal punto di vista pittorico, per la finezza dei chiaroscuri e per la morbidezza cromatica, è coerente con il suo stile, dal punto di vista compositivo gli è completamente estranea. Invece la Natività, che per le pessime condizioni di conservazione ora è al limite della leggibilità, sembra conservare almeno in alcune parti una finezza ed una nitidezza di stesura pittorica che fanno pensare più ad un restauro che ad una copia; solo un esame accurato in fase di restauro (veramente auspicabile) potrà dare indicazioni certe su una eventuale autografia del Corvi. In ogni caso il lavoro diede occasione al pittore di confrontarsi con opere romane interessanti, di cui peraltro nella capitale stessa aveva conosciuto splendidi esempi. Il gusto romano, del resto, da tempo permeava profondamente la cultura cittadina; a Macerata il nostro pittore poteva ammirare con tutto suo agio molte opere moderne di provenienza o di matrice romana: soprattutto quelle sgargianti e mosse, ma anche delicate ed eleganti, di Sebastiano Conca e di Francesco Mancini nel santuario della Madonna della Misericordia, che sicuramente apprezzò (e in parte restaurò in seguito) e le molte conservate nelle più importanti case nobiliari maceratesi, a cominciare da palazzo Buonaccorsi, con la sua fastosa “galleria dell’Eneide”80, in cui ritrovava anche alcune notevoli e autorevoli presenze bolognesi che dovevano essergli ben note fin dalla giovinezza. Ma forse a Macerata il dipinto moderno che può 56

averlo interessato maggiormente per affinità di gusto e di sentimenti sarà stato la splendida pala di Cristoforo Unterbergher nell’abside della cattedrale (1776), con figure dolci e di suadente eloquenza, toni caldi e smorzati, forme di un barocco attenuato composte in uno schema di gusto rococò, ma in modo molto ordinato e chiaro. I lavori per Santa Croce furono subito applauditi e fecero capire che il frate era un vero pittore e non un semplice restauratore, e dunque capace di ben altro; e a lui, infatti, vennero affidate due nuove pale per la stessa chiesa: quella di San Pasquale Baylon e quella di San Diego. Ma intanto, declinate rapidamente le sorti dell’“Imperial Regia Pontificia Reggenza”, ritornavano le truppe francesi e giacobine e Macerata veniva annessa al napoleonico Regno d’Italia. Presto i conventi vennero soppressi, e nel maggio del 1810 anche i Minori Osservanti furono espulsi da Santa Croce e costretti a disperdersi e a secolarizzarsi, nonostante la loro chiesa rimanesse aperta al culto in quanto divenuta parrocchiale con il titolo della Concezione, in sostituzione di un’altra chiesa maggiormente periferica81. Già prima di questa soppressione – resa ancor più drammatica per i religiosi e i fedeli dall’allontanamento forzato dalla diocesi del santo vescovo Vincenzo Maria Strambi (1808) e poi dalla notizia della deportazione di Pio VII (a Savona nel 1810 e a Fontainebleau nel 1812) - padre Atanasio, dopo il restauro-rifacimento delle pale del Corvi e del Masucci, doveva aver concluso una propria pala d’altare per Santa Croce raffigurante San Pasquale in adorazione della Santissima Eucaristia (fig. 52). è un’opera in cui si notano bene sia l’effetto delle meditazioni sulla pittura barocca compiute negli ultimi anni, che una sorta di forte nostalgia per la grande pittura correggesca e seicentesca: tanto nell’affascinante figura del santo, rapito in una adorante estasi mistica, quanto nel


trA romA e mAcerAtA 66. Stemma di Alessandro Gambalunga, olio su tela, circa 1615. Rimini, Biblioteca Gambalunghiana.

cielo, in cui è tutto un armonioso moto ascensionale di angeli bellissimi, mentre in terra la luce tenera dell’alba comincia a schiarire il paesaggio. Il calice con l’ostia domina e illumina tutta la scena, sostenuto da nubi stratificate in cui si tuffano gli angeli, nubi che scendono fino a terra,

formando una quinta oscura che isola e fa risaltare il santo inginocchiato. Il risultato è straordinariamente coinvolgente, per la chiarezza costruttiva, per la dolcezza del colore dominato da un caldo tono brunastro, per la bellezza e l’espressività devota delle figure.

54. Coro ligneo, forse eseguito su disegno di fra Atanasio. Macerata, Chiesa di Santa Croce

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V. neL regno ItALIco

Le soppressioni del 1810 allontanarono dal loro appena riattato convento e dispersero i ventisei religiosi della famiglia minoritica maceratese. Come gli altri frati, anche padre Atanasio fu costretto a dismettere l’abito degli zoccolanti e a secolarizzarsi, ma non perse la protezione e la preziosa amicizia del buon marchese Ciccolini Silvestri, presso cui si ritirò a vivere. Da palazzo Ciccolini possiamo immaginare uscisse tutte le mattine in abito talare e, attraverso le piccole strade cittadine affiancate dai troppo grandi e troppo sussiegosi palazzi nobiliari di cui il centro della città era ed è tuttora affollato, si recasse a dir messa, ad ascoltare le confessioni e a fare la carità in una delle chiese maceratesi scampate alle soppressioni. Proprio in quei palazzi nobiliari lo condussero gli eventi di quegli anni, per eseguire decorazioni con soggetti profani a cui fino a quel momento non si era mai applicato. Ritornavano a quel punto utili gli insegnamenti ricevuti una trentina d’anni prima dai bolognesi Fantuzzi e Tambroni, e i ricordi delle fastose decorazioni dei palazzi bolognesi, parmensi e romani che aveva conosciuto in gioventù; ma era necessario sostituire alle familiari figure dei santi francescani quelle degli antichi eroi romani, o le favole della mitologia. Ora che il frate pittore non aveva più la protezione del convento, né richieste di dipinti da chiesa, ora che le occasioni di

dipingere si restringevano a qualche immagine devozionale di modesto formato e forse a qualche ritratto, era giunto il momento propizio per riflettere sulla propria attività e sulla propria vita. Fra Atanasio faceva il pittore da più di trent’anni; alla pittura era stato chiamato dal suo ‘genio’ o, se si preferisce, dalla sua ‘inclinazione’, ma anche dalla sua vocazione di religioso devoto e umile, che deve e vuole essere apostolo in ogni momento, in ogni attività della vita. Per lui l’esercizio dell’arte era stato ed era preghiera, testimonianza e predicazione a servizio della Chiesa e dell’Ordine Francescano, ed era sempre stato sorretto più dal sentimento religioso e dall’intima necessità di essere utile al prossimo che da una esigenza di affermazione (e di ‘espressione’) personale. Aveva lavorato a Parma, a Bologna, a Rimini, a Roma, a Macerata, sempre obbedendo agli ordini dei superiori che l’avevano costretto ad un’attività intensa e continua quanto dispersiva, e si era applicato con passione all’insegnamento del disegno e della pittura; anche troppo spesso era stato distratto dall’esercizio della propria arte dalla necessità di copiare o restaurare immagini di altri: ma anche questo, del resto, come l’insegnamento, era stato un ‘servizio’, oltre che un esercizio di carità verso gli autori le cui opere erano offese dal tempo e dagli uomini, e di amore per i fedeli che quelle immagini avevano voluto, amato e venerato; un servizio cui in coscienza non

55. Fra Atanasio e aiuti, Giove e Giunone, particolare. Macerata, Palazzo Costa

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AtAnAsIo dA corIAno 56-57. Fra Atanasio e aiuti, Venere e Vulcano, c. 1812. Macerata, Palazzo Costa

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aveva potuto sottrarsi, e che in fin dei conti gli riusciva bene, perché era in grado di annullare umilmente la propria personalità grazie ad un pennello ubbidiente e duttile, che facilmente riusciva ad imitare le diverse ‘maniere’. Le circostanze, gli incontri, i contatti favoriti dagli spostamenti in ambienti diversi lo avevano indotto nel tempo a compiere esperienze multiformi e anche a modificare più volte il suo stile; ma il suo problema principale non era mai stato quello dello ‘stile’, cioè di affermarsi con uno stile personale, quanto di comunicare in maniera efficace, convincente le verità della fede e soprattutto il ‘sentimento’ della fede. Proprio perché sinceramente devota, la sua pittura era stata in un certo senso eclettica, segnata a volte da sdegno per le offese fatte alla religione, a volte da tentazioni ‘contemplative’ che lo avevano indotto ad utilizzare formule tradizionaliste. Da tempo non era più un giovane pittore (e forse non era nemmeno più tanto 60

“bello di corpo e robusto” come l’ha definito il suo primo biografo), ma certo era ancora di “animo forte e capace di sostenere qualunque noja”82. Aveva già superato i sessant’anni ed era separato dai confratelli e privo di lavoro; il futuro era incerto, perché l’abolizione dei conventi sembrava definitiva. Era dunque il momento di ripensare al proprio destino umano, ma intendeva tener ben fermi i principi fondamentali della sua vita, l’umiltà, la povertà, la carità e l’amor di Dio; e occorreva trovare nuove occasioni di lavoro, per integrare la piccola ‘pensione’ stabilita dal nuovo governo per i religiosi estromessi dai loro conventi, in modo da poter provvedere al proprio sostentamento e non pesare troppo sulla disponibilità dell’ospite, e soprattutto per poter alleviare le difficoltà dei poveri sempre più numerosi in quei tempi difficili. Intendeva rimanere anche come semplice sacerdote secolare un fedele seguace di San Francesco: entrò quindi nel secolo mutando abito, non ani-


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mo. “E perché l’amor di Dio non va mai disgiunto dall’amor del prossimo, quindi è che questo ardeva nel suo cuore unitamente a quello, per cui si sentiva portato ad applicare le sue forze a vantaggio de’ fedeli assistendoli al Tribunale di penitenza fino agli ultimi momenti di sua carriera mortale; dimodoché, stando ancora gravemente infermo, non ricusava ascoltarli. Penetrato altresì dell’altrui miseria, pressoché ogni giorno divideva co’ poveri lo scarso vitto al suo sostentamento assegnato; i quali consci della sua liberalità a lui ricorrevano”83. Negli affari del secolo, ovvero nelle cose pratiche, pare fosse oltremodo ingenuo e impacciato e che se la cavasse piuttosto male tanto che, stando al suo primo biografo, “per soperchio di buona fede si trovò alle volte gabbato da’ maliziosi quando conviveva fuori dall’Ordine in abito da prete”84. Il regio prefetto del dipartimento del Musone in carica dal 1808 al 1811, Gia-

como Gaspari - un avversario, se non altro per ufficio, dei religiosi – lo incaricò tra i primi di una decorazione ‘profana’, chiedendogli di abbellire alcuni ambienti del palazzo del Governo (ora Prefettura): buona dimostrazione di stima, se non per l’ex frate almeno per il pittore. Poi fu la volta del marchese Carlo Costa, che gli commissionò la decorazione del suo appartamento con storie romane e mitologiche nel nuovo palazzo di famiglia che, veramente maestoso, sorgeva proprio di fianco a quello del marchese Ciccolini in cui il Favini dimorava e lavorava. Il marchese Ciccolini era già stato favorito dal pittore, per gratitudine, di alcuni lavori decorativi: dal cupolino d’ingresso del suo palazzo, alla volta della cappella di San Francesco Saverio, suo juspatronato, nella chiesa di San Giovanni85. Poi furono le famiglie dei Pallotta, dei Mornati, dei Romani, che “amarono di abbellire co’ suoi dipinti le magnificenze e le delizie de’ loro palagi”86. 61


AtAnAsIo dA corIAno 58. Fra Atanasio e aiuti, Soffitto della sala di Coriolano (c. 1812). Macerata, Palazzo Costa

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59. Fra Atanasio e aiuti, Coriolano incontra la madre e le donne romane, particolare. Macerata, Palazzo Costa

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Quasi tutte queste decorazioni ‘profane’ sono perdute o ci sono sconosciute. In quanto alle sale del palazzo della Prefettura hanno ancora molte decorazioni ottocentesche, ma riprese e ridipinte; nel ricco repertorio di grottesche, greche e arabeschi vari ancora visibili al piano nobile non c’è più niente che sia possibile riferire con qualche probabilità al nostro artista; e al primo piano forse solo un Ganimede potrebbe rimandare ad un suo ‘pensiero’87. In palazzo Costa, invece, rimangono fortunatamente tre soffitti di sale contigue con decorazioni sicuramente sue, discordanti con l’apparato decorativo di tutti gli altri ambienti del palazzo per la loro leggerezza ‘neoclassica’: al centro recano le figurazioni di Giove con Giunone (fig. 61), di Venere con Vulcano (fig. 56), di Coriolano (fig. 58). Ad eccezione della prima sono di esecuzione impacciata e dura, che non riesce a nascondere l’im-

barazzo del pittore nell’affrontare temi erotici e storici, né la sua difficoltà nel conseguire effetti ‘moderni’ seguendo o imitando prototipi imposti, estranei alla sua sensibilità e alla sua cultura. Come le scene centrali, anche le decorazioni di contorno, su sfondo bianco come richiedeva la moda, sembrano desunte da uno dei tanti repertori a stampa ampiamente circolanti ad inizio secolo. Il soffitto migliore è quello con Giove e Giunone, con un insieme di grottesche, nastri, ovali con amorini e putti variamente raccordati al tondo centrale; il più ricco è quello del Coriolano, caratterizzato da lunette a ventaglio a grisaille con finte sculture, e aquile, figure alate, panoplie; ma il riquadro centrale con un desolato Coriolano è veramente scadente, e talmente incerto fin nell’ambientazione architettonica da impedire una attribuzione al nostro artista, che l’avrà affidato a un collaboratore (penso a Filippo Spada); tuttavia dai 60. Fra Atanasio, Soffitto della stanza di Giove (particolare). Macerata, Palazzo Costa

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AtAnAsIo dA corIAno 61. Fra Atanasio, Soffitto della stanza di Giove (c. 1812). Macerata, Palazzo Costa

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contemporanei queste decorazioni furono considerate dei veri “capi d’opera di quest’arte sublime”88 (figg. 55-61). Padre Atanasio venne chiamato a lavorare in case private anche fuori Macerata: a Tolentino nel palazzo Fidi esiste ancora - recentemente restaurato - un bel soffitto dipinto da lui in questi anni, con il Trionfo di Venere89 su un carro trainato da cigni fra un tripudio di amorini, come vuole la più tradizionale iconografia; cammei, sfingi e grifoni in finto rilievo arricchiscono la decorazione, completata da quattro finte lunette con altri amorini e statuari personaggi mitologici (fig. 62). Forse si tratta della decorazione profana più antica e indubbiamente della migliore fra le poche superstiti del nostro artista, per composizione e colorito; è anche la più tradizionalista e la meno ‘aggiornata’. In queste decorazioni, non sempre e non del tutto d’evasione, perché anche nella storia profana e nella mitologia possono nascondersi splendidi esempi di moralità, probabilmente gli scolari che era andato e andava istruendo nel suo studio maceratese facevano le loro prime prove sotto la sua saggia direzione, apprezzata anche dal pubblico, se nel 1813 l’ex frate veniva nominato “professore provvisorio” di disegno presso il Regio Liceo di Macerata90. Agli scolari, ma soprattutto ai giovani aspiranti pittori che frequentavano il suo studio, l’ormai anziano ‘professore’ insegnava, secondo il biografo padre Benedetto da Toro, “che ogni secchezza si fuggisse; la nobiltà e la grazia si ricercasse; la natura, ma non servilmente s’imitasse; s’abbellisse e portasse al suo più alto ideale; la gioja e l’ira s’esprimesse, ma senza sforzare i volti, che è bassezza dell’arte; si temperasse ogni affetto a quei gradi e a quelle misure che fanno dignitosi i soggetti nelle disavventure e nelle felicità, che muovono a pietà o ad allegrezza i riguardanti, e li traggono a prender parte negli affetti attivati nelle rappresentazioni”91. Criteri

di insegnamento, questi, in linea con le teorie neoclassiche, ma forse più volonterosamente ‘immaginati’ dal biografo che ricostruiti sulla base di considerazioni veramente espresse dal pittore, nelle cui opere comunque è evidente una forte ricerca di idealizzazione formale, però sempre ben lontana da certo accademico neoclassicismo celebrativo che già si era ovunque rapidamente diffuso. In questo periodo di forzata secolarizzazione la vicinanza e la stima degli scolari e degli amici dovette essere di importante sostegno e conforto per il frate pittore, non solo privato della famiglia conventuale, ma da tempo privo di rapporti anche con gli antichi amici e colleghi emiliani. Non sappiamo quanto gli giungesse delle novità promosse nel mondo dell’arte; sappiamo che mandò allora, e manderà più tardi, alcuni allievi a Roma, prima presso il Camuccini e poi presso il Minardi. Sappiamo anche che nelle sue puntate di lavoro nei centri marchigiani ritrovò un vecchio amico degli anni parmensi, cioè il pittore Giuseppe Lucatelli, ritornato in patria da tempo e stabilitosi a Tolentino (ma lavorerà e insegnerà anche a Macerata) dopo essere stato a Roma presso Tommaso Conca e Raffaello Mengs, a Parma per copiare il Correggio e di nuovo a Roma a studiare i cinquecentisti: un poco fortunato e molto moderato pittore ‘neoclassico’ che Amico Ricci lodava appunto per la sua moderazione (che doveva essere apprezzatissima anche dal nostro pittore) oltre che per “la verità di colorito, che in questa si distinse particolarmente presso i suoi, e li stranieri ancora”92. Grazie al Lucatelli, nel 1819 fra Atanasio rivide con ammirazione alcune incisioni di Francesco Rosaspina, con cui non aveva più avuto contatti, neanche epistolari, dopo la sua partenza per Roma: per una “dimenticanza provenuta specialmente dalle molte vicende, che mi hanno sbalzato qua e là, e che 65


AtAnAsIo dA corIAno 62. Fra Atanasio, Soffitto con il trionfo di Venere, c. 1810. Tolentino, Palazzo Fidi (ora Biblioteca Filelfica)

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74. Elio Morri (19131992), Il miracolo della mula (1964), paliotto in bronzo dell’altar maggiore della chiesa dei Paolotti, a Rimini.

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63-64. Fra Atanasio, Soffitto con il trionfo di Venere, particolari. Tolentino, Palazzo Fidi (ora Biblioteca Filelfica)

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mi hanno fatto dimentico di ogni cosa”, come lo stesso frate scriveva all’incisore nel 181993. I dipinti dell’artista negli anni del Regno Italico - per quanto si può capire da quel poco che conosciamo - sembrano piuttosto impersonali e, talvolta, semplici esercizi di bella calligrafia (non sempre ben riusciti), di un neoclassicismo tutto esteriore, in cui sono presenti esperimenti di idealizzazione formale e di pura decorazione che erano inediti nella sua precedente produzione. In quanto alle quadrature, o meglio alle compartimentazioni, sono tutto sommato eleganti e rispettose della struttura architettonica, ma per niente originali e, almeno a Tolentino, tributarie più della tradizione barocca che delle correnti moderne. Una decorazione murale di grande impegno, cui si può a questo punto accennare, anche se è databile a più tardi (cioè ai primi anni della restaurazione), è quella della cappella del vescovo monsignor Gregorio Zelli ad Ascoli Piceno94: un ambiente di modesta grandezza, con un soffitto a cassettoni e con le pareti scompartite da una finta architettura di stile ionico,

con dodici finte nicchie rettangolari in cui sono figurati come statue marmoree gli Apostoli, individuati dai consueti attributi iconografici e dai nomi scritti sui bassi piedistalli (fig. 65). La scansione architettonica è solenne, e ancora più solenni sono le figure, tutte grandiose ed eloquenti: composte classicamente quelle dei santi Pietro e Paolo, mosse e vibranti le altre. La decorazione è condotta a grisaille, con effetti di illusionismo perfetti. Nonostante le cattive condizioni di conservazione in cui versa, l’ambiente è ancora oggi di grande suggestione ed eleganza soprattutto per le figure monumentali che presidiano e animano lo spazio, arricchendolo di presenze autorevoli e nello stesso tempo discrete, che la condotta pittorica sapiente e controllata, ma fresca e talvolta vivace, rende mosso e prezioso. Siamo in pieno clima neoclassico e in pieno ‘stile’ neoclassico: ma per quanto riguarda le figure i prototipi ideali sono quasi sempre quelli barocchi; quasi operasse ancora in padre Atanasio la suggestione delle grandi statue marmoree che aveva ammirato tanti anni prima nelle ormai lontane basiliche romane. 65. Fra Atanasio, La parete frontale della cappella vescovile (c. 1815-20). Ascoli Piceno, Episcopio

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VI. cAPoLAVorI senILI

Il ritorno ‘definitivo’ delle Marche nello Stato della Chiesa, dopo il congresso di Vienna e l’esilio di Napoleone (1815), ripristinò la religione e i conventi, e un’apparenza di normalità di cui la maggior parte della gente sentiva il bisogno. Certo nella sostanza non tutto fu più come prima, ma il ritorno all’ordine e alla tradizione fu da principio tranquillizzante, perché finalmente sembrava stabile, definitivo, non preoccupando i primi moti carbonari e le prime infiltrazioni della Giovane Italia. Del resto erano altri i problemi da affrontare nell’immediato, cioè la carestia e la grave epidemia di tifo che funestarono veramente i primi anni della “restaurazione”95. Che furono anni di grande attività per il nostro ormai anziano pittore, ritornato frate a tutti gli effetti e chiamato a dare la sua opera per ripristinare conventi e chiese in parte faticosamente ricuperati, ma generalmente in pessimo stato, e a fornire pale d’altare per colmare i grandi vuoti lasciati dalle requisizioni e dalle alienazioni di opere d’arte operate in epoca napoleonica e durante il Regno Italico. I dipinti subito messi in cantiere da fra Atanasio sembrano in un primo momento riflettere un senso di gioioso entusiasmo per la possibilità di ritornare a trattare temi sacri, come dimostra il bellissimo Sant’Eustachio della chiesa di Belforte in Chienti96 (fig. 67), che forse è la sua unica pala firmata e datata (1817)97: con il santo sorpreso e abbagliato dal Crocifisso issato fra le corna del cervo che sta cacciando,

con due angioletti vivaci che precipitano su di lui recando i consueti simboli del martirio e della vittoria, con gli animali stupiti o indifferenti in un’atmosfera sospesa; con la luce che fa scintillare l’armatura del santo e accende i colori e arrotonda le forme, dando rilievo alla figura e profondità al cielo e al paesaggio. Una uguale felicità cromatica sembra caratterizzasse anche una gran pala, ora dispersa, forse dipinta negli stessi anni per la chiesa francescana della vicina Tolentino, raffigurante il Perdono d’Assisi, che viene citata come un capolavoro proprio per i suoi “vivi colori più che egli non soleva usare”98. Ma certo non sarà sul colore splendente che padre Atanasio farà affidamento, soprattutto in questa ultima fase della sua attività, bensì sull’atmosfera, sull’espressione, sulla composizione. Tale atteggiamento non fu compreso dai confratelli, che decisamente avrebbero preferito i colori sgargianti della tradizionale pittura barocca: “Ti contrista alquanto quel suo colore sparuto”, osservava padre Benedetto da Toro, e padre Giacinto Picconi ripeteva: “poco apparisce pel suo colore sparuto”99: per la ferma volontà di osservare scrupolosamente, anche nel campo dell’arte, il voto di povertà francescana, e per non gravare il convento con la spesa di colori costosi, si commenterà in seguito100. Ma si trattò piuttosto di un’esigenza espressiva, perseguita con coerenza specialmente dagli anni venti, che nel pittore segnano

66. Fra Atanasio, La Madonna con il Bambino e Santi (particolare). Pesaro, Chiesa di San Giovanni Battista

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AtAnAsIo dA corIAno

79-80. La Beata Vergine della Salute, o Salus infirmorum, con e senza l’abito ottocentesco. Rimini, già in Santa Maria ad Nives, chiesa dell’ospedale (1970). 81. La Beata Vergine della Salute in un’immaginetta xilografica di metà Ottocento. Rimini, raccolta privata.

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cAPoLAVorI senILI 67. Fra Atanasio, Sant’Eustachio, 1817. Belforte in Chienti, Chiesa di Sant’Eustachio 68. Fra Atanasio, San Pietro, c. 1815’20. Ascoli Piceno, Cappella vescovile 69. Fra Atanasio, San Paolo, c. 1815’20. Ascoli Piceno, Cappella vescovile

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definitivamente lo spegnersi di ogni vanità pittorica e che vedono nella sua pittura il deciso sopravanzare di intenti mistici e didattici, e il crescere di una sensibilità per i drammi del tempo presente. Infatti la restaurazione, oltre a non aver risolto i vecchi e gravi problemi sociali, aveva accresciuto le già diffuse contrarietà nei confronti del governo della Chiesa e, di riflesso, nei confronti della Religione: cominciavano, proprio con la restaurazione, i lunghi decenni inquieti e talvolta drammatici dei moti e delle insurrezioni. Padre Atanasio doveva avvertire chiaramente di vivere tempi “manifestamente travagliatori della Chiesa in modo progressivo”, tempi “in cui il secolo mena in trionfo la licenza, e la vanità”, come scriveva in una sua circolare del 1828 il Ministro Provinciale padre Francesco Antonio da Bologna101. Ne era, naturalmente, turbato, e i suoi dipinti finirono per rispecchiare questo stato d’animo e in un certo

senso lo portarono a reagire distaccandosi sempre più dal tempo presente, che in arte sembrava ormai decisamente votato ad un’accademia neoclassica di stampo purista ed eclettico a cui aderivano anche alcuni dei suoi vecchi allievi ormai divenuti amici e colleghi, come il marchese Filippo Spada, che ne è stato appunto un buon rappresentante, anche se certo non geniale, e diversi pittori giunti a lavorare a Macerata dal Lazio, dalla Toscana e dall’Emilia. Il frate aveva ormai troppi anni, troppa esperienza e ancora troppo desiderio di essere apostolo e predicatore per poter capire e potersi adattare in fretta alle nuove correnti, e anzi alle mode moderne di cui forse avvertiva la frivolezza e l’anacronismo, e soprattutto la difficoltà di essere comprese da parte della gente. E questo valeva tanto per l’imperante neoclassicismo, le cui formule aveva a malincuore e malamente utilizzato nelle ‘decorazioni 73


AtAnAsIo dA corIAno 70. Fra Atanasio, Sant’Andrea, c. 1815’20. Ascoli Piceno, Cappella vescovile 71. Fra Atanasio, San Filippo, c. 1815’20. Ascoli Piceno, Cappella vescovile

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profane’ e a cui si era accostato soprattutto, ma in parte tradendolo, nella già citata decorazione della cappella del vescovo di Ascoli Piceno (figg. 68-71), quanto per i movimenti moderni più ‘religiosi’, come quelli dei ‘Nazareni’ e poi dei ‘Puristi’, dei quali pur doveva giungergli da Roma qualche eco, promossi da pittori di ‘storia religiosa’, ma pur sempre interessati più alla forma che al messaggio, e ad una forma analitica in cui avevano un gran peso i gusti oltremontani, tedeschi e fiamminghi: “Ebbe sempre in odio coloro che si fanno servili imitatori delle cose di oltremonte; ai quali venuta in fastidio la eleganza e semplicità greca, sformano e guastano il bello naturale, e producono que’ mostri che sono delizia degli sciocchi, e disperazione degli uomini savi”, scriveva, forse alludendo proprio ai ‘Nazareni’, e comunque interpretando a modo suo il pensiero del confratello, fra Benedetto da Toro102, che però poco più avanti aggiun74

geva: “discorrendo delle opere altrui, era di lode profuso… nel mentre che se gli si andava toccando le sue, le avviliva fino al fango”103. In questo atteggiamento di modestia, anzi di umiltà, forse è percepibile anche una certa timidezza e quasi l’imbarazzo dell’artista che si sente superato dai tempi; ma certo non un proposito di resa alla ‘modernità’ o l’intenzione di cedere alla stanchezza, come pur avrebbe ormai comportato l’età avanzata. E infatti non smise di dipingere, né rallentò il lavoro, perché con la pittura riteneva di potersi rendere ancora utile alla religione. La restaurazione del Governo della Chiesa nei suoi antichi territori portò delle novità non solo nell’attività, ma anche nel modo di vivere di padre Atanasio, che ritrovava la sicurezza di una vita regolata da ritmi certi all’interno di una comunità ordinata in cui prevalevano i valori spirituali. Egli nonostante la lunga permanenza a Macerata era sempre rimasto ‘in-


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cardinato’ (cioè teoricamente dipendente) alla sua provincia francescana d’origine, quella bolognese. Ma ora, superata la settantina, avvertì di essere ormai del tutto estraneo ai luoghi della giovinezza, ai superstiti parenti corianesi e anche ai confratelli bolognesi e riminesi. Decise quindi di consumare gli ultimi anni della sua vita definitivamente a Macerata, accanto ai confratelli con cui aveva condiviso per tanto tempo gli affanni della ricostruzione del convento e della chiesa, l’ansia della diaspora e dell’isolamento; e si incardinò nell’“Osservante Provincia Minoritica del Piceno”. Inoltre fra il 1819 e il 1820, dopo la morte del marchese Valerio Ciccolini Silenzi, trasferì il suo vecchio atelier nel convento di Santa Croce, che così diventava veramente in tutto il “suo” convento104. Per lui, del resto, cominciavano “i malori della vita, i quali furono di natura sì malvagia, che il Chiarissimo Dottore Santarelli conosciuto in tutta Italia, avendolo più fiate liberato da pericoli presentissimi, ebbe a durar lunga fatica e diligenza per ritornarlo sano”105. Forse il dono d’addio alla sua provincia d’origine e al convento riminese che l’aveva accolto da ragazzo106 fu costituito da due modesti dipinti: uno con Il beato Giovanni da Parma, l’altro con una bella Immacolata (fig. 72) reniana107, quasi a ricordo l’uno degli inizi parmensi e l’altro dell’apprendistato bolognese. Ma i capolavori di questo periodo sono ben altri, e si trovano nelle Marche settentrionali, a Pesaro e a Fano. Difficile precisarne la datazione in mancanza di documenti diretti, che comunque andrà posta negli anni venti dell’Ottocento, sulla stessa linea e in prossimità del sant’Eustachio di Belforte in Chienti, della cui maniera vivace e fresca, caratterizzata da un disinvolto amalgama di barocco e di classicismo ‘romantico’, sono partecipi. Per l’altar maggiore della bella chiesa minoritica di San Giovanni Battista di Pesaro venne richiesta a padre Atanasio una

nuova pala raffigurante la Madonna con il Bambino, e quattro santi (Lucia, i due Giovanni e Francesco) (fig. 73), per rimpiazzare quella di ugual soggetto dipinta nel 1632 dal Guercino e venduta (a pezzi) all’inizio dell’Ottocento108. Probabilmente fra Atanasio non ebbe mai occasione di vedere quest’opera, e comunque il suo dipinto non ne riutilizza lo schema compositivo; tuttavia viene detto “copia” di quello del Guercino e inoltre viene definito mediocre dalla letteratura locale109 che, abituata al timido rococò raffaellesco del nume artistico locale, il canonico Giannandrea Lazzarini, non è stata assolutamente in grado di capirne la forza e la bellezza. Ma non si tratta di copia, né di derivazione, e la sua qualità è davvero molto buona.

72. Fra Atanasio, L’Immacolata, c. 1820. Rimini, Museo della Città (in deposito dal Convento di Santa Maria delle Grazie)

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AtAnAsIo dA corIAno 73. Fra Atanasio, La Madonna con il Bambino e i Santi Lucia, Giovanni battista, Giovanni evangelista e Francesco, c. 1820. Pesaro, Chiesa di San Giovanni Battista

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In alto presenta il gruppo della Madonna con il Bambino cui Santa Lucia porge i suoi occhi, caratterizzato da figure vivaci, dolci e solenni, da un disegno largo e da colori delicati. In basso il gruppo dei tre santi è dominato da un San Giovanni Battista che, pur senza rispettare il canone proporzionale classico, è bello come una divinità antica; esce dall’ombra che avvolge gli altri due santi e sembra volersi proiettare fuori dalla tela per proclamare con forza, vera vox clamans, la santità del gruppo divino che indica alla venerazione dei fedeli. C’è di tutto in questa tela: il Parmigianino e il Maratta, Guido Reni e Simone Cantarini, e anche Felice Giani: si tratta di un’opera di un neoclassicismo romantico che non rifiuta nulla della tradizione, ma che punta sull’eloquenza delle immagini e sulla grandiosità e chiarezza della composizione per esortare e convincere; e su una pittura fresca e vibrante per dare vitalità alle figure: una pittura coerentissima in tutte le sue parti, che costituisce una sorta di libera, originale ‘rivisitazione’ del Seicento priva di riscontri, ci pare, nei dipinti sacri e profani del tempo. Gli stessi caratteri ha anche la grandissima tela (è alta più di quattro metri) dell’altar maggiore della chiesa francescana di Santa Maria Nuova di Fano, raffigurante Il perdono d’Assisi110 (fig. 75), dominata dal Salvatore in trono e dalla Vergine che lo implora di ascoltare la richiesta umilmente avanzata da san Francesco, inginocchiato in basso, e quasi schiacciato dalla grandiosità delle figure divine. Allo sfondo di nuvole e di buio della pala di Pesaro si sostituisce qui uno sfondo architettonico costituito da una grande e semplice, leggera e precisissima nicchia quasi ‘d’aria’ che circoscrive la figura del Salvatore e ne accresce la maestosità. Ancora una volta il colore, privo di toni squillanti, è sobrio e dolce, ricco di sfumature, e il chiaroscuro costruisce senza sforzo le figure e ne precisa la collocazione spaziale tramite

una pittura sempre fresca e larga, sempre vibrante, sintetica senza essere sommaria, bella senza la preoccupazione di essere tale. In queste opere il pittore sembra assai più libero di un tempo da legami stilistici e da debiti e da ricordi, e persino da ogni desiderio di originalità; né ha timore di ripetersi: l’angelo ‘gianesco’ trasvolante in alto ripete il volo di quello che si trova nella pala di Pesaro; la Vergine rosa e azzurra non nasconde ascendenze reniane e si dichiara apertamente sorella di tutte le altre dipinte in vari tempi dal pittore; in quanto al Cristo in maestà, infine, rifiuta ogni somiglianza con il Giove pagano degli antichi e dei neoclassici per mostrarsi in tutta la sua umanità, fragile e tuttavia gloriosa. Questo è il Dio dei cristiani, morto e risorto, avvolto in una veste candida che ricorda il sudario - sembra proclamare con forza il pittore - e mostra le stimmate del martirio con cui ha redento il mondo e grazie alle quali può esercitare la sua misericordia e concedere il perdono ai peccatori, tanto implorato da San Francesco e raccomandato da Maria. Tutto è guidato e mosso fortemente e ‘liberamente’ dal sentimento religioso, che investe tanto le singole figure, i loro atteggiamenti e le loro espressioni, quanto la materia pittorica e la struttura compositiva, ordinata istintivamente (ma poi coltivata studiosamente) su un insieme di linee salienti che uniscono la parte terrestre dei dipinti alla parte celeste, al di fuori di ogni considerazione di spazi e di tempi reali. Come non ci sono riflessioni sulla storia (né potrebbero essercene in questa sorta di “visioni”), non ce ne sono sulla ‘bellezza ideale’, almeno quella ricercata dai contemporanei neoclassici nelle opere dell’antichità o dai contemporanei puristi nelle opere del Rinascimento raffaellesco; la pittura per il nostro frate continua ad essere solo un mezzo efficace per comunicare convincentemente ai fedeli concetti religiosi, e per esaltare attraverso una pre77


AtAnAsIo dA corIAno 74. Fra Atanasio, La Madonna con il Bambino e santi, particolare. Pesaro, Chiesa di San Giovanni Battista

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sentazione il più possibile solenne e grandiosa l’immagine della divinità e le figure della religione; non ha quindi come fine la ricerca e la rivelazione di una indefinibile, ideale bellezza, o la ricostruzione e la riproposizione di fatti della storia; come si è già accennato, ma giova ribadire, vuol essere funzionale unicamente agli effetti e agli affetti devoti, e si propone unicamente di coinvolgere l’animo dei fedeli e di essere uno strumento al servizio della fede e della devozione e il riflesso di un grato e costante legame con Dio. Nonostante esuli da lei ogni tono trionfalistico, sembra segnare un ritorno ai propositi e ai concetti della controriforma tridentina, d’altra parte giustificato dai pericoli che la religione correva in un mondo che la ragione illuministica e positivistica rendeva sempre più laico e insofferente di ogni dogma, e a cui il frate pittore cercava di far fronte per la sua parte, cioè con i suoi mezzi e le sue capacità, e con il linguaggio della tradizione, che evidentemente riteneva il più facilmente comprensibile alla maggioranza dei fedeli. I soggetti religiosi che padre Atanasio ha trattato non l’hanno quasi mai portato ad occuparsi di ‘narrazioni’ storiche: infatti i temi che gli erano stati e gli venivano generalmente richiesti riguardavano (con l’eccezione di un martirio e di qualche miracolo) visioni ed estasi, o esaltazioni di singole figure. Ma alla fine della carriera, come già all’inizio, fu costretto ad affrontare anche il problema narrativo: infatti dai confratelli di Monteprandone, impegnati nella celebrazione del centenario della canonizzazione di San Giacomo della Marca (che cadeva nel 1828), gli venne commissionata una tela raffigurante un episodio della vita di questo santo, e precisamente la consegna a lui da parte del “cardinale di Savona “ (Francesco Della Rovere, il futuro Sisto IV) di una immagine mariana miracolosa111 (fig. 77). Un’occasione per dipingere architetture medievali e costumi rinascimentali che

nessun altro pittore contemporaneo si sarebbe lasciato sfuggire, ma che il nostro frate non prese nemmeno in considerazione. Al centro del suo dipinto mise la piccola, miracolosa immagine della Vergine, che è la vera protagonista dell’episodio e il vero soggetto dell’opera; ad essa conducono e con essa si raccordano tutte le linee della composizione che si snodano quietamente a partire dalla figura di San Giacomo e del cardinale; attorno a questi personaggi si raggruppano e formano un blocco piramidale, compatto, le figure vicine e lontane. L’ambiente è definito da un gradino in primo piano e da una nicchia concava nel fondo che ripete, ma con la necessaria concretezza, quella sperimentata nella pala di Fano, e che allude ad uno spazio ampio, semplice, raccolto. I personaggi che abitano questo spazio si muovono con devota lentezza; anche i due che compaiono sullo sfondo e che nell’ombra accostano i volti per sussurrarsi la loro meraviglia: non si tratta dei soliti personaggi delle corti cardinalizie, ma di giovani frati, nei tratti e nella posa simili ad altri che abbiamo già incontrato in altri dipinti del nostro artista. A prima vista si tratta di una pittura assai più delle precedenti povera di colore, per i toni bassi che la caratterizzano; ma ad una attenta considerazione, anzi ad una intensa meditazione, finisce per apparire ricca di sfumature e di notazioni, che dal bruno predominante svariano al rosso e si arricchiscono di zone bianche e nere e rosse. è una pittura austera e umile, e nello stesso tempo intima, in cui un disegno fermo sorregge la composizione e pochi tocchi chiari danno vita alle figure e profondità alla scena. Siamo di fronte all’opera di un pittore ormai ottuagenario: ma che ha ancora intelligenza, sensibilità e fantasia per creare situazioni di grande effetto e atmosfere suggestive, di silenzio e raccoglimento. In queste opere, benché di misure notevoli, non si avverte traccia di collabora79


AtAnAsIo dA corIAno

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cAPoLAVorI senILI 75-76. Fra Atanasio, Il Perdono d’Assisi, c. 1820. Fano, Chiesa di Santa Maria Nuova

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zione. I collaboratori e gli scolari tuttavia spesso figurano accanto al frate pittore con opere autonome, a volte in parte condotte su suo disegno e sotto la sua guida. Per esempio nella chiesa dei Cappuccini di Macerata accanto a padre Atanasio lavorava Filippo Spada; a Santa Maria Nuova di Fano appartengono certamente a suoi collaboratori i mediocri ovali del presbiterio con figure di santi francescani; anche alcuni degli ovali della chiesa di San Francesco di Matelica, con soggetti analoghi, sono attribuibili a suoi allievi112: in questi dipinti l’opera del maestro appare limitata a suggerimenti o a schemi grafici più o meno sviluppati, raramente a qualche intervento pittorico diretto. Anche vari ritratti che passano sotto il suo nome sono opera di allievi e collaboratori: tra questi, sempre come esempio, si può ricordare quello del cardinale Francesco Bertazzoli a Lugo, eseguito dopo il 1828113, che non gli è certo imputabile per quanto riguarda la scontata impostazione, né la realizzazione pittorica, data la sua estrema convenzionalità e schematicità. Una schematicità che troviamo anche nel presunto Autoritratto di fra Atanasio, in realtà un ritratto postumo (fig. 90), ora presso la canonica di Santa Croce di Macerata, dovuto quasi sicuramente a fra Celestino Pesarini da Ancona, cui il biografo padre Benedetto si rivolgeva subito dopo la morte del maestro con questo caldo appello: “Ma il debito poi sacrosanto di ritornarlo alla seconda e più durevole vita a te, o P. Celestino, lo commetto. Tu che ricevesti le prime notizie dell’arte dal buon Vecchio, ricordando le cure e la diligenza con cui ti metteva nel sentiero della gloria, avrai cagione di tenere sempre viva nell’animo l’immagine di lui, e succedergli alle eredità delle sue virtù. E comechè le sue pitture daranno ai posteri grandissimo desiderio di conoscere le fattezze di sua persona, dipingilo, qual’era, venerando per canizie, e fa che dagli occhi e dal volto traspaja qual’anima lo informava, onde rimanga 82

monumento perenne di tua gratitudine”114. Padre Atanasio insegnò fino ad età molto avanzata, e anche quando fu sopraggiunto dalla cecità: “l’età inoltrata lo privò del vedere; onde si fece ad esercitare i giovani per consiglio”115. Padre Celestino da Ancona sembra sia stato l’ultimo o uno degli ultimi suoi scolari; negli ultimi tempi il nostro annoverò tra i più affezionati amici laici diversi ‘colleghi’ che erano stati suoi scolari e che anche dopo la morte si dimostrarono apertamente fieri di esserlo stati: i principali sono Giovan Battista Viscardi, Giuseppe Cortesi e il conte Filippo Spada che, “amore obsequioque faticati erga magistrum”, nel dedicargli un paio di iscrizioni funerarie vollero dichiararsi suoi “moerentissimi discipuli”116. Ma oltre a questi vanno ricordati almeno Antonio Giacomini e Felice Hercolani, e naturalmente il padre Celestino d’Ancona appena citato. Di Felice Hercolani, morto nel 1813, fra Atanasio fu il supplente di disegno nel Regio Liceo di Macerata; di Filippo Spada, insegnante di architettura e di ornato nello stesso Liceo, fu collega. Di tutti lo Spada, nobile, ricco, piissimo, morto nel 1852, fu il più attivo e l’unico a raggiungere una qualche notorietà, culminata nella sua nomina ad accademico d’onore dell’Accademia Clementina: “Fuggendo l’ozio si esercitava per suo divertimento nell’arte pittorica della figura, e per quanto non fosse tanto felice nel disegno, pure le sue tele ebbero molto pregio nel colorito”, scrisse di lui il contemporaneo Antonio Natali 117. Certamente la frequentazione dell’atelier del nostro frate e la sua amicizia gli avranno permesso di correggere più di qualche clamoroso ‘errore’ di disegno.


cAPoLAVorI senILI 77. Fra Atanasio, San Giacomo della Marca riceve in dono la “Madonna delle Grazie”, 1826’28. Monteprandone, Santuario di Santa Maria delle Grazie

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VII. L’uLtImA AttIVItà

Potrà forse sorprendere, ma proprio durante la vecchiaia il modo di dipingere del nostro pittore subì un non piccolo cambiamento. Lo si avverte nell’ultima opera da lui dipinta per la chiesa del suo convento di Santa Croce di Macerata, raffigurante l’Immacolata fra San Bonaventura e San Diego118 (fig. 80), che sembra segnare un suo originale accostamento alle correnti ‘puriste’. Si tratta di una tela caratterizzata da una monumentale sintesi plastica che si accorda perfettamente con un disegno abbreviato e con il rifiuto di ogni particolare ornamentale, e da un colore caldo e smorzato, fuso in una materia fresca, ricca di trasparenze e leggerezze. Vi si può leggere il ricordo lontano di Guido Reni e, se si vuole, anche di Raffaello; ma calato in una visione molto personale e trasfigurato da una meditazione profonda da cui le figure escono idealizzate e solenni. Ai lati dell’alta Vergine dalla veste rosa e dal manto azzurro, incoronata con un serto di stelle da due angioletti e poggiante su una bianca falce di luna, sono raffigurati in ginocchio San Bonaventura, dottore e cardinale, austeramente solenne nel suo ampio piviale, e l’umile San Diego in atto di devota sottomissione. La scena è contemplata da due angeli putti che sorreggono lo stemma di Macerata, isolati contro il cielo da cui si alzano le nubi della mistica visione. Padre Atanasio con questo dipinto sembra voler ricuperare la semplicità della prima maturità e affidarsi ad una

pittura ‘devota’ di alta moralità, priva di retorica e priva di tensioni, che avvii al recupero di una religiosità forte e serena dopo i drammi e le persecuzioni recenti. L’esecuzione dell’Immacolata di Macerata viene posta generalmente all’inizio del secolo e assegnata materialmente al maceratese Felice Hercolani119; ma per un equivoco che rende necessaria una precisazione. Nella vecchia chiesa di Santa Croce esisteva una cappella di juspatronato pubblico dedicata a san Diego, che era uno dei compatroni di Macerata; per cui i frati il 2 agosto del 1804 (cioè durante i lavori di ricostruzione della chiesa) presentarono al Consiglio di Credenza un’istanza affinché il Comune si accollasse la spesa per il ripristino del suo altare con il relativo dipinto. L’istanza fu accolta e inviata, come di dovere, a Roma alla Congregazione del Buon Governo120, ma non sappiamo con quale esito. Quel dipinto, se pur fu realizzato (e magari dall’Hercolani su disegno di fra Atanasio, come appunto vuole la tradizione) in seguito deve essere stato sostituito dal presente, che non ha più come unico o principale soggetto San Diego, bensì L’immacolata Concezione. Poiché il titolo della “Concezione” fu trasferito nella chiesa di Santa Croce con decreto vescovile del 3 luglio 1810121, certamente l’opera fu messa in cantiere solo dopo questa data, con il finanziamento o almeno il patronato del Comune, cui apparteneva il dipinto precedente. Siccome è improbabile che ciò avvenisse durante

78. Fra Atanasio, L’Immacolata fra i santi Bonaventura e Diego, particolare. Macerata, Chiesa di Santa Croce

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AtAnAsIo dA corIAno 79. Antonio Giacomini, Santi domenicani, su disegno di fra Atanasio. Macerata, ex-Chiesa di San Paolo

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L’uLtImA AttIVItà

gli anni del Regno Italico, si dovrà pensare ad un momento successivo al definitivo ritorno di Macerata nello Stato Pontificio, che avvenne, come si è accennato, dopo il congresso di Vienna, nel 1815 (e a quella data Felice Hercolani era già morto da un paio d’anni). Difficile precisare tale momento, che in base allo stile potrebbe essere ragionevolmente posto, dopo le belle pale ‘barocche’ di Pesaro e di Fano, di più disinvolta composizione ed esecuzione e quindi meno disposte a tenere in considerazione gli esiti puristi, che sembrano aver veramente interessato il nostro pittore solo negli ultimi anni di attività e di cui qui vediamo le prime tracce. Tuttavia che da tempo Padre Atanasio non fosse ignaro delle novità romane è una buona dimostrazione una pala realizzata su suo disegno dall’allievo Antonio Giacomini per l’altar maggiore della chiesa dei Domenicani di Macerata122 (fig. 79), che costituisce una singolare testimonianza di attenzione appunto agli gli esiti del purismo, oltre che nello schema compositivo e nei palesi riporti perugineschi e raffaelleschi, ibridati al solito con ricorsi reniani, nella stesura pittorica liscia e diligente del Giacomini, in cui però anche il frate deve aver messo mano, come dimostrano molti intensi passaggi chiaroscurali e certe delicatezze pittoriche che si intravedono ancora, nonostante le cattive condizioni della tela. Secondo un cronista sarebbe stata dipinta nel 1805, ma sarà da collocare più tardi, ormai in periodo di piena restaurazione. Comunque costituisce un segnale forte di attenzione del nostro pittore per le nuove mode romane, e un esperimento, condotto prudentemente per mano altrui, degli esiti che ne potevano derivare. Crediamo ne seguisse la pala dell’Immacolata per Santa Croce, con cui poté verificare l’efficacia delle ‘semplificazioni’ proposte dai pittori moderni. Ma la ‘conversione’, ormai completa, del nostro pittore è visibile nelle opere dipinte in se-

guito per i Cappuccini di Macerata, che avevano potuto recuperare il loro convento solo dopo il 1821123. Nel soffitto della loro chiesa (ora cappella dell’Ospedale) (fig. 81), padre Atanasio dipinse La gloria di San Francesco: oltre al santo, in uno scorcio ‘tiepolesco’ che fu molto apprezzato, vi troviamo i bellissimi angeli ‘correggeschi’ del San Pasquale Baylon di Santa Croce, dipinti con una franchezza ed una tenerezza veramente notevoli, ma tenuti su un tono molto chiaro e quindi un po’ svuotati dell’antica vitalità; di intonazione chiara e di disegno nitido, del resto, è nella stessa chiesa, la pala raffigurante un celebre e infaticabile predicatore, cappuccino Angelo d’Acri (fig. 83) raffigurato su un palco e in posa oratoria, attorniato da una folla implorante fra cui spicca l’inquietante figura di un confratello incappucciato. L’opera tutto sommato non è esaltante, la si potrebbe definire di buona ‘accademia’, ma in alcune parti è dipinta con una disinvoltura e con una freschezza straordinarie, e senz’altro inusuali per il nostro artista, che in questo periodo si trovò a meditare a lungo sulla brillante e fresca pittura degli affreschi di Francesco Mancini nel santuario della Misericordia, da lui restaurati nel 1826. In questi dipinti compare un elemento antico in una forma nuova: la luce che colpisce i protagonisti non si rivela più perché ne scolpisce i volumi e ne rende espressivi i gesti e le forme, ma perché si materializza in una striscia luminosa astratta e geometricamente definita che ‘scorre’ dietro alle figure, più simbolica che figurativamente efficace. La si confronti per esempio con la luce che dava vita ai protagonisti delle ormai antiche pale del beato Sante o del beato Buralli, o dell’appena citato san Pasquale. Anche questo particolare dimostra che il pittore voleva tirarsi fuori da una tradizione figurativa sostanzialmente ancora barocca e che era disposto ad accostare correnti ‘illustrative’ più moderne, caratterizzate da 87


AtAnAsIo dA corIAno 80. Fra Atanasio, L’Immacolata fra i santi Bonaventura e Diego, c. 1825-30. Macerata, Chiesa di Santa Croce

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una luce ‘diffusa’ che non lascia spazio al mistero ma che permette una descrizione puntuale di azioni e di figure. Siamo, con questi dipinti, di fronte all’ultima ‘maniera’ del nostro vecchio artista, cui rimangono la forza e la volontà per eseguire ancora qualche lavoro. L’ultima opera che ora è possibile riferirgli è costituita da due grandi tele ‘per traverso’ dipinte a tempera per il presbiterio dell’ex chiesa francescana di Monte San Giusto. Si tratta di due scene che hanno come protagonista San Francesco, che riceve le Stimmate e che dà la Regola a Santa Chiara (figg. 86-87). Lasciano francamente interdetti, e per il loro carattere illustrativo e per la tecnica adoperata, ma soprattutto per lo stile. Il disegno rigoroso e la struttura compositiva, il gusto per la sintesi grafica e plastica sono tipici dell’ultimo fra Atanasio; ma non vi è traccia del suo modellato morbido e solenne, dei suoi colori bassi che si fondono nella penombra misteriosa degli sfondi, delle atmosfere mistiche che circondano i suoi personaggi. Qui l’intonazione è chiara, i chiaroscuri e il disegno sono netti e le immagini, a volte ridotte a sagome piatte, a volte sostenute da un plasticismo statuario, sono stilizzate fino al limite dello schematismo. Nel pannello con le Stimmate la luce proveniente dal divino Serafino (anzi non la luce, ma una piatta striscia lucente) si abbatte su san Francesco, la cui figura sorretta da un angelo si schianta come un vecchio tronco contro la quinta trasparente del monte ritagliato sul cielo rosato. La composizione, drammaticamente ordinata su linee spezzate, finisce per essere privata di ogni drammaticità dalla chiarezza illustrativa perseguita in ogni parte della scena, e diventa così una semplice ‘favola’ devota. E narrazione fredda di un episodio ben altrimenti drammatico e significativo è anche la Consegna della regola a santa Chiara, che si svolge in un ambiente aulico, chiaro, dominato da una nicchia che vorrebbe evidenziare l’asse della dispersiva composizione e mettere in

evidenza la parte importante della scena. Al bel gruppo delle suore inginocchiate davanti al santo si contrappongono figure statuarie e distaccate, che non riescono a inserirsi pienamente nella composizione, regolata sulla diagonale del pannello secondo l’indicazione delle ombre portate da una luce diretta e cruda che svaria da un massimo di chiaro nell’angolo superiore sinistro ad un massimo di scuro nell’angolo opposto. La mano del nostro artista è forse visibile nel gruppo delle suore, vicine e lontane, e particolarmente nel volto bellissimo di Santa Chiara ed in alcuni minori dettagli di entrambe le scene. Per il resto domina, sembra, il lavoro un po’ meccanico di qualche scolaro di gusto purista, ormai di aiuto essenziale al venerando maestro, cui forse le diminuite facoltà visive rendevano difficoltosa la visione d’insieme di superfici così grandi. 81. Fra Atanasio, San Francesco in gloria, c. 1830. Macerata, Chiesa dell’Ospedale Civile

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L’uLtImA AttIVItà 82. Fra Atanasio, San Francesco in gloria, particolare. Macerata, Chiesa dell’Ospedale Civile

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AtAnAsIo dA corIAno 83. Fra Atanasio, Il beato Angelo d’Acri, c. 1830. Macerata, Chiesa dell’Ospedale Civile

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Anche per queste opere non conosciamo per ora documenti che permettano di avanzare una datazione precisa, che comunque sarà da porre negli avanzati anni trenta, a conclusione dell’attività pubblica del nostro pittore, forse già costretto a dedicarsi soprattutto a piccole opere, ad istruire qualche allievo, e a pregare. Gli ultimi anni ci vengono descritti dal padre guardiano del suo convento e dai primi biografi con accenti commossi. A loro conviene lasciare la parola (e si vedano appunto i loro scritti riportati nell’appendice del presente volume) sulla conclusione di una vita che è stata lunga e laboriosa e che ha attraversato un’epoca intensa, difficile e drammatica per la società, per la religione, per l’arte. Basti pensare che padre Atanasio è nato vent’anni prima di Napoleone, quando ancora non era stato pubblicato il primo fascicolo dell’Encyclopedie di Diderot e D’Alembert; e che è morto poco prima della pubblicazione del Manifesto di Marx ed Engels: questi riferimenti permetteranno forse di valutare meglio non tanto la lunghezza della sua vita, quanto l’intensità dei rivolgimenti di mentalità del periodo in cui visse, veramente cruciali per la storia europea124. Non è possibile stabilire quando fu costretto a riporre definitivamente i pennelli; il suo primo e più informato biografo non ce lo dice e non ci fornisce indizi per indovinarlo. Ma padre Pacifico da Recanati, anch’egli nel convento di Macerata negli anni trenta e quaranta dell’Ottocento, asseriva di avere presso di sé l’ultima opera dipinta dall’artista (rappresentava “Maria Santissima avente seduto sulle ginocchia il divino Infante Gesù”) che affermava essere stata “terminata poco più di un anno pria, che passasse agli eterni riposi”125. Secondo questa asserzione (poco credibile per quanto riguarda i tempi), padre Atanasio avrebbe dunque dipinto fin oltre i novant’anni: e questo giustificherebbe l’incredibile attribuzione a lui di quasi mille opere, dovuta al primo biografo e ripresa in seguito da tutti.

A conclusione non si chiedano giudizi di valore sulla sua arte o il suo inserimento puntuale in una ideale classifica di merito. L’arte non sopporta classifiche; e inoltre l’arte di padre Atanasio va considerata all’interno di un genere che dalla fine del Settecento è divenuto minoritario e particolare, quello dell’arte sacra. Inutile quindi ricordare che quando fra Atanasio si spegneva il realismo di Courbet o la felicità pittorica del pre-impressionismo, rivolti unicamente ad una clientela borghese ormai del tutto laica e positivista, già cominciavano a fare le loro prime prove contestando l’accademismo imperante; o che una serie di pii accademici già elaborava studiosamente auliche storie sacre presso le corti europee o in Vaticano. Non si potrà dire per questo che la sua arte è inadeguata ai tempi ‘moderni’ iniziati con la rivoluzione francese; essa appartiene ad un mondo diverso, cerca di dare concretezza e di rendere intelligibili ai sensi e allo spirito soggetti che non sono né antichi né moderni, né vecchi né nuovi. Diremo dunque solo che padre Atanasio è stato un buon pittore, capace di dare forma e di tradurre in poesia temi, concetti, sentimenti religiosi profondamente sentiti e personalmente vissuti, e condivisi dalla maggioranza della gente del suo tempo, senza contestare la tradizione ma senza seguirla pedissequamente. Anch’egli è stato poeta, e a volte grande poeta, in grado di inventare situazioni formali di grande suggestione, ma va considerato e compreso all’interno di una cultura o di un clima culturale in cui i valori della religione hanno la predominanza e sono valori di vita. Schematizzando e riassumendo molto brevemente, questo sembra essere stato il percorso ‘formale’ del nostro frate pittore: dopo una prima fase di esperienze emiliane (da Correggio ai Gandolfi), nella prima maturità sembra incline ad applicare forme neoclassiche, pur contaminate con quelle eroiche del manierismo, ad una pit93


AtAnAsIo dA corIAno 84-85. Fra Atanasio, Il beato Angelo d’Acri, particolari. Macerata, Chiesa dell’Ospedale Civile

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tura sacra intesa come narrazione di eventi e presentazione di concrete figure storiche (si tengano presenti le opere di Saludecio e di Forlì); successivamente all’esperienza romana torna ad interessarsi alle forme della tradizione barocca, che permettono un’eloquenza maggiore, e abbandona ogni sforzo per rendere ‘storicamente’ credibili i temi sacri, affidati piuttosto al sentimento devozionale (e in questa lunga fase, che definirei di “neoclassicismo romantico” i capolavori sono quelli, già tardi, di Pesaro e di Fano). Il periodo ‘neoclassico’ che lo ha visto impegnato in decorazioni profane durante gli anni del “Regno Italico” sembra aver costituito una semplice e tutto sommato inconcludente parentesi. Nell’ultima fase della sua attività il pittore sembra cautamente impegnato in una ricerca in termini di purismo personalizzato; semplifica i colori, il disegno, il volume e riprende anche un discorso illustrativo-narrativo: capolavoro di questo periodo, concluso con i dipinti di Monte San Giusto, probabilmente è la pala con la Concezione di Macerata, tuttavia ancora segnata da inflessioni barocche. Il percorso così delineato non è privo di contraddizioni, e talvolta di cedimenti verso una religiosità sentimentale, né di venature intimistiche e di troppe nostalgie, ma tutto sommato non annovera mai opere banali. Ed è coerente, se visto nell’ottica religiosa e devota che fu sempre di questo pittore francescano, povero e umile, obbediente e devoto, che “per meglio godere della Divina Conversazione negli ultimi preziosi momenti della sua vita amava starsene solo formando il più profondo silenzio colle creature, e così meglio ascoltare le dolcissime voci dell’amoroso suo Creatore”, come vuole l’affettuosa e credibile testimonianza del contemporaneo Antonio Natali. Si spense il 4 novembre del 1843, alla bella età “di novanta quattro anni e 4 mesi occupata per utili fatiche, per dolci costumi, e per notabile amorevolezza distinta”126.

86, 88. Fra Atanasio e aiuti, Santa Chiara riceve la Regola, c. 1835. Monte San Giusto, ex-Chiesa di San Francesco 87, 89. Fra Atanasio e aiuti, San Francesco riceve le Stimmate, c. 1835. Monte San Giusto, ex-Chiesa di San Francesco

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VIII. LA ‘fortunA’ dI PAdre AtAnAsIo

Il primo a stampare un profilo biografico di fra Atanasio è stato padre Benedetto da Toro, “il quale legato in istretta amicizia al Defunto, quando era in Macerata, diligentemente aveva raccolto dalla bocca istessa di lui tutte le notizie storiche che ha fatto di pubblico diritto pei tipi di Gennaro Agnelli, Napoli 1844”127. Trasferito a Napoli pochi mesi prima della morte del confratello, appena gliene giunse notizia lo volle solennemente commemorato nel convento in cui si trovava, quello napoletano di San Severo. L’“elogio” da lui composto e letto in quella occasione è stato stampato in un opuscoletto modesto, diffuso soprattutto in ambito francescano e col tempo divenuto molto raro. è costruito piuttosto bene ed è molto interessante per noi, riguardando oltre alla biografia e le virtù di padre Atanasio, la sua attività artistica; ha il difetto di essere stato steso da un “professore d’eloquenza” che trascura un po’ troppo la cronologia e ogni tanto si lascia prendere un po’ troppo la mano dall’eloquenza, ed è comunque del tutto inattendibile per quanto riguarda i giudizi critici sull’arte, di cui si dimostra digiuno. Ciò nonostante cerca di mettere in evidenza i pregi maggiori dell’artista, che identifica nel disegno (“che sempre nobile e dignitoso ti riesce”) e nel chiaroscuro (per cui “si lascia grandemente ammirare”); inoltre gli riconosce una certa originalità nella “gentilezza, e devozione di maravigliosa dolcezza sua propria”. Naturalmente gli interessava mettere in

rilievo le virtù del confratello e la sua lunga vita trascorsa “da lodevole e pulito osservante religioso”, la sua cultura, i suoi “dolci costumi”, il suo amore per la povertà serafica, l’umiltà e l’obbedienza; accennava appena a “qualche trascorso” non definito di cui il pittore si purgava sopportando pazientemente i malanni della vecchiaia e a una qualche tendenza alla suscettibilità (“presto era al perdono comechè sensibilissimo alle offese”), oltre che alla struttura fisica e morale dell’uomo: “E veramente la natura lo ebbe provveduto di tutto ciò che serve al difficile cammino delle arti: bello di corpo e robusto, animo forte e capace di sostenere qualunque noja; temperanza nel vivere e costanza nel moderare le passioni; fantasia nobile ed un cuore acconcio nel sentire il bello e raggiungerlo”. Padre Benedetto concludeva il suo “elogio” dicendosi certo che l’“Accademia Bolognese” avrebbe voluto ricordare in qualche modo il frate pittore “come piccola porzione a tanta gloria della sua scuola; poiché è da sapere che quella nobilissima città si è sempre distinta nel giudizio e nell’onore accordato ai valenti nelle arti belle e graziose”. Ma si sbagliava di grosso: nel 1843 a Bologna nessuno ricordava più il povero frate, e nessuno pensò a commemorarlo. La biografia di padre Benedetto non è stata la prima, perché fu preceduta da quella, rimasta manoscritta, diffusa appena due giorni dopo la morte dal padre guardiano del convento di Macerata, fra

90. Fra Celestino Pesarini da Ancona (?), Ritratto di fra Atanasio c. 1845. Macerata, Chiesa di Santa Croce (canonica)

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Serafino da Castel d’Emilio, tramite una circolare inviata a tutti i conventi della sua Provincia monastica, affinché “si dia carico fargli apprestare tutti quei suffragi soliti a praticarsi pei nostri Religiosi confratelli defonti”. Non si tratta di un semplice atto burocratico, di una circolare d’ufficio, ma di una commemorazione veramente commossa. Questo è il suo inizio: “Non si esagera punto quando affermasi che il defunto Confratello osservò nel modo il più perfetto la Serafica Regola ed in modo speciale i Santi Voti, fra i quali primeggiò l’osservanza di quello che sopra gli altri fu oltremodo caro al suo Patriarca S. Francesco, cioè dell’altissima povertà”. Accenna appena all’attività di “eccellente” pittore del defunto solo per ricordare che con tale attività, pur “potendo accumulare tesori, tuttavia dispregiando il tutto, nulla voleva, nulla chiedeva, né per il Monastero, né per sé, per cui tante volte era ancor privo del necessario”. Questa circolare è stata trascritta fedelmente dal maceratese Antonio Natali (1771-1855), che era segretario della confraternita delle Sacre Stimmate di San Francesco con sede nella chiesa di Santa Croce di Macerata, oltre che impiegato postale e per alcuni anni anche consigliere comunale; e, cosa soprattutto importante per noi, attento raccoglitore di notizie sulla sua città e sui suoi personaggi eminenti, anzi “benemeriti”. Nella sua raccolta di biografie manoscritte (ora custodita nella biblioteca Comunale di Macerata) ne ha dedicata una consistente al nostro frate (definito fin dal frontespizio “esemplarissimo Religioso” e “celebratissimo Artista”, “mai compianto abbastanza dalla civile società”), che ebbe modo di conoscere di persona, fornendoci molte utili notizie sulla sua attività artistica maceratese. Gli scritti di padre Benedetto da Toro e di Antonio Natali, l’ultimo comprensivo della circolare di padre Serafino, vengono trascritti qui in appendice perché fonti 100

primarie per la conoscenza di fra Atanasio e perché rari o inediti. Tutti i biografi successivi, francescani e non, si sono rifatti a questi scritti (soprattutto a quello di padre Benedetto da Toro); anche padre Pacifico Fedeli, prefetto degli studi nel convento di Macerata, che “non solo conobbe Padre Atanasio Favini, ma visse con lui per molti anni nel convento di Santa Croce a Macerta”128, nella sua biografia, rimasta manoscritta fino a poco tempo fa, purtroppo non fa altro che ricopiare, unendole, molte parti di questi due scritti, aggiungendo appena qualche breve considerazione e qualche insignificante nota al testo di padre Benedetto per renderlo ancor più ‘agiografico’. è inutile dunque passare in rassegna gli altri pochi scritti francescani che trattano del nostro frate pittore, la cui fama non riuscì mai ad uscire dall’ambiente minoritico e il cui ricordo divenne sempre più opaco. Dalla brevissima voce che il Thieme Becker gli dedicò all’inizio del Novecento per mano di V. Aleandri, risulta che ne era stato dimenticato persino il cognome, nonché gli estremi cronologici. Sicché nel 1971 risultò assai utile il breve saggio, purtroppo immesso solo nel limitato circuito degli ambienti francescani, che fra Teodosio Lombardi dedicò al nostro artista, ma più per le notizie collaterali e per la trascrizione delle due vecchie biografie di padre Pacifico Fedeli e di padre Giacinto Picconi che per le considerazioni critiche e per le nuove attribuzioni. Non conoscendo il raro scritto di padre Benedetto da Toro, padre Lombardi dà importanza a quello del Fedeli, che ne è in buona parte una semplice copia. Scarsi sono stati i riferimenti al nostro pittore nelle storie locali: estraneo alla sua patria per formazione e attività, estraneo per nascita e condizione ai luoghi in cui si trovò ad operare, non ha mai attirato l’interesse degli storici locali che sono


LA ‘fortunA’ dI frA AtAnAsIo

gli indispensabili ‘informatori’ della critica; per essi era troppo difficile, del resto, inquadrare l’artista negli schemi tradizionali, cioè dare una definizione della sua arte (barocca, neoclassica, romantica, eclettica?) e persino darne una schematica collocazione cronologica (del Settecento, dell’Ottocento?). Comunque, benché rari, non sono mancati nel tempo brevi riferimenti alle sue opere nelle più diligenti guide cittadine; ad esclusione però di quelle riminesi. La letteratura locale riminese, nonostante sia sempre stata in genere molto attenta alle glorie ‘locali’, ha dimenticato completamente il nostro frate pittore (l’unica eccezione, nel 1954, è costituita da un breve scritto del parroco di Coriano, don Michele Bertozzi, sul bollettino della sua parrocchia), mentre ha conservato memoria di altri frati pittori: soprattutto del padre Cesare Pronti, agostiniano, nato a Cattolica ma operoso soprattutto a Ravenna e nel Ravennate fra Sei e Settecento, e di fra Nicola Levoli, celebrato pittore di nature morte, anch’egli agostiniano, vissuto nella seconda metà del Settecento. Nel Riminese, del resto, di padre Atanasio esiste una sola opera di grande importanza esposta pubblicamente: la pala dell’altar maggiore della chiesa parrocchiale di Saludecio, raffigurante il martirio del santo titolare, San Biagio. è da quest’opera, imponente già per le sue misure, uscita malconcia dalla guerra che ha duramente colpito anche quella chiesa, (ma provvidenzialmente restaurata negli anni settanta), che è iniziata la presente ricerca. Ha ben presto portato all’esposizione di tre belle pale di padre Atanasio alla mostra bolognese dell’Arte del Settecento emiliano, nel 1979, nella sezione romagnola che lo scrivente ebbe l’incarico di curare. La presenza a quella mostra segnò l’avvio di una maggior considerazione per il nostro frate pittore, di cui si sono avuti piccoli indizi e nella rapida citazione da parte di Sandra Pinto della einaudiana

“Storia dell’arte italiana”, VI, 2 (1982) e nelle brevi voci stese da Stefano Tumidei nella collana sulla “Pittura Italiana” edita dall’Electa (Il Settecento, II, 1990), da Luigi Marzocchi nel Dizionario Biografico degli Italiani (vol. XLV, pp. 473-474), dallo scrivente nel nuovo Thieme-Becker (vol. XXXVII. p. 285, 2003). Com’era prevedibile, sul pittore si sono concentrate in seguito le attenzioni di alcune tesi di laurea (la migliore, di Silvia Triola, è del 1984). Ma il cammino per la ricostruzione e il recupero critico dell’attività del pittore sarà ancora lungo e per niente facile e dovrà passare attraverso un avveduto censimento critico delle opere d’arte ancora esistenti e nascoste nelle molte chiese e chiesette dei territori periferici delle province marchigiane.

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Note

Fondamentali per la ricostruzione della vita di padre Atanasio da Coriano risultano le sue prime biografie, che naturalmente verranno più volte richiamate nel presente testo: Benedetto da Toro, Elogio del pittore P. Attanasio Favini da Curiano nella Romagna, Napoli 1844, ristampato qui in appendice; Serafino da Castel d’Emilio, guardiano del convento di Santa Croce di Macerata, Circolare per la morte di p. Atanasio, 1843, in A. Natali, Raccolta di memorie, biografie e necrologie…, ms. 562 bis della Biblioteca Comunale di Macerata, pubblicata qui in appendice; P. Fedeli, Biografia del P. Atanasio da Coriano, ms. (c. 1845) nell’Archivio del convento di Sant’Antonio, Bologna, Codice Stagni n. 147, pubblicata in T. Lombardi, Il pittore francescano P. Atanasio da Coriano, Bologna 1971, pp. 23-32 (le citazioni successive si riferiranno a questa versione a stampa); G. Picconi, Cenni biografici sugli uomini illustri della Francescana Osservante Provincia di Bologna, I, Parma 1894, pp. 210-216, ristampato in appendice da T. Lombardi, cit., pp. 35-40 (le citazioni successive si riferiranno a questa ristampa).

1

T. Lombardi, op. cit., p. 16; M. Bertozzi, Un grande corianese: Padre Atanasio Favini, in “La Voce del Parroco”, Coriano, A. VII, n. 24, del 13. VI. 1954 (ristampato in appendice a T. Lombardi, op. cit., pp. 45-48), ricorda che il primo maestro elementare di Coriano “fin da prima del 1800” fu un sacerdote della famiglia Patrignani (don Cristoforo).

2

Atti Ufficiali della Provincia Osservante Francescana di Bologna, II (1753-1808), a cura di F. Guidarini, B. Monfardini, G. Montorsi, Bologna 2003, passim.

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4

P. Fedeli, op. cit., p. 23, G. Picconi, op. cit., p. 35.

5

Benedetto da Toro, op. cit., p. 4.

Per l’Affò cfr. la voce relativa nel Dizionario Biografico degli Italiani, I, Roma 1960, pp. 155-157.

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7

Atti Ufficiali, op. e vol. cit., p. 691.

8

E. Badinter, L’infant de Parme, Paris 2008.

E. Riccòmini, I fasti, i lumi, le grazie. Pittori del Settecento parmense, Cinisello B. (Milano) 1977; L’arte a Parma dai Farnese ai Borbone, cat., Bologna 1979; S. Pinto, La promozione delle arti negli Stati italiani dall’età delle riforme all’Unità, in Storia dell’arte italiana, parte II, Dal Medioevo al Novecento, vol II, Dal Cinquecento all’Ottocento, t. II, Torino (Einaudi) 1982, pp. 791-1060.

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10 Benedetto da Toro, op. cit., p. 5; tutte le biografie successive, derivando da questa, ripetono tali dati. 11

Ibidem, p. 6.

12

In M. Mussini, Correggio tradotto, Milano 1995, p. 141.

L’incisore Giovanni Fabbri morì nel 1777; un esemplare della stampa in questione è conservato nel Gabinetto delle Stampe della Biblioteca Gambalunga di Rimini. G. Picconi, Centone di memorie storiche della Minoritica Provincia di Bologna, II, Parma 1911, p. 286, ricorda come di p. Atanasio e del 1771 un perduto ritratto di p. Serafino Giglioli, maestro di filosofia presso l’Annunziata di Bologna. Si tratta della prima notizia di un’opera del nostro pittore.

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14 Fino a tutti gli anni sessanta del Novecento una copia di questo dipinto (ma non è possibile dire chi ne fosse l’autore) si trovava nell’annesso convento, dove è citata da P.G. Pasini nelle annotazioni alla ristampa di C.F. Marcheselli, Pitture nelle chiese di Rimini, 1754, Bologna 1972, p. 121, nota 70/1-5; ora non c’è più. Un’altra copia, attribuita con ragione a padre Atanasio, è nel convento dell’Annunziata di Bologna (fig. 8), forse proveniente dalla cappella delle Terziarie all’Annunziata. 15 Benedetto da Toro, op. cit., p. 4; N. Pelicelli, Parma monumentale illustrata, Parma 1972, p. 117. 16

I. Affò, Vita del beato Giovanni da Parma, Parma 1777.

17 Il fatto miracoloso è narrato da Salimbene de Adam da Parma, Cronaca, trad. di B. Rossi, Bologna 1987, pp. 433-444. Cfr. A.C. Caddero, Il Beato Giovanni da Parma settimo Ministro Generale dei Frati Minori dopo San Francesco (1208-1289), Villa Verucchio 2004, specialmente le pp. 331 e 382-384. 18

G. Picconi, op. cit., p. 39.

19 Questa tela (cfr. G. Picconi, op. cit., p. 36), in cattive condizioni di conservazione, sembra più una copia che una replica autografa. 20 Un esemplare interessante di modesto formato, in cattive condizioni, è conservato nel convento delle Grazie di Rimini. Invece un esemplare in grande formato si trova nella chiesa di San Nicolò di Carpi (G. Picconi, op. cit., p. 39).

Durante la seconda congregazione capitolare presieduta dal Ministro provinciale Ludovico da Mirandola nel convento dell’Annunziata di Bo-

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AtAnAsIo dA corIAno logna, il 14 settembre del 1778: cfr. Atti Ufficiali, op. e vol. cit., p. 440. 22 B. Giannini, La spada nel fodero, il B. Sante Brancorsini (biografia), Falconara 1988, p. 22; G. Mandolini, Beato Sante Brancorsini, Pesaro 2001, pp. 387-390.

Ferdinando Diotallevi, Nella terra dei Fioretti, Memorie biografiche della provincia Minoritica Lauretana, Sassoferrato 1936, p. 201; A. Talamonti, Cronistoria dei Frati Minori della Provincia Lauretana, IV, Sassoferrato 1948, p. 50; F. Battistelli, Fano, Urbino 1973, p. 130. G. Callegari in Il convento del Beato Sante di Mombaroccio, Atti del convegno a c. di G. Mandolini, Rimini 1986, p. 216; G. Ugolini in Il Santuario del Beato Sante a Mombaroccio, Ciclo di conferenze a c. di G. Mandolini, Roma 1998, pp. 295, 299, 307. La più antica attribuzione a padre Atanasio si deve ad una mediocre stampa del dipinto incisa su disegno di Filippo Ercolani, riprodotta da G. Mencarelli, Iconografia del Beato Sante Brancorsini, in Il contenuto del Beato Sante, cit., tav. 16. 23

Memorie storiche di questo venerabile convento della santissima Nunziata presso Bologna dall’anno 1751 all’anno 1836, parzialmente pubblicato e/o riassunto in vari numeri de “L’Annunziata”, bollettino del convento e della parrocchia, Bologna, a cominciare dall’A. XXVIII, n.s. A. XVI, n. 10 del 15 luglio 1975. 24

25 Si tratta dell’Annunciata fra quattro santi di Francesco Francia, dal 1866 nella Pinacoteca Nazionale di Bologna: cfr. Pinacoteca Nazionale di Bologna, Catalogo generale, I, a c. di J. Bentini, G.P. Cammarota, D. Scaglietti Kelescian, Venezia 2004, pp. 368-369. 26 “Sappi che il Padre Abate è rimasto confuso di sentire che il signor Morghen abbia fatto tante lodi del mio ritratto di notte, quando il signor Calani me lo valutò cosa da mondezzario”, scriveva G. Turchi a F. Rosaspina il 22 novembre 1793, in Biblioteca Comunale di Forlì, Collezioni Piancastelli, sez. “Carte Romagna”, busta 508. 82; sul Turchi cfr. G.I. Montanari in Biografia degli italiani illustri, I, Venezia 1834, p. 111; P.G. Pasini, in Grafica riminese, op. cit., pp. 161-163. Sembra che il Turchi abbia eseguito diversi dipinti “a lume notturno” (fig. 14). 27

Benedetto da Toro, op. cit., p. 7.

In un esemplare del volumetto di C.F. Marcheselli, Le pitture di Rimino, Rimini 1754, già di proprietà di don Nicola Beltramelli, ora nella Biblioteca del Seminario di Rimini, segn. R. XII. I. M., già A.V.3, nell’ultima carta è presente, di mano dello stesso Beltramelli, questa nota riferentesi alla chiesa di San Tommaso, di cui era parroco: “Il [quadro] laterale a mano sinistra entrando in chiesa rapresentante il sogno di San Giuseppe è opera del Padre Anastagio di Coriano che lo dipinse nell’anno 1780”.

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Ora nella Pinacoteca Civica di Cento. “Nel retro, sul telaio originale, si legge: FR. ATANASIUS DE CORIANUS ORD. MIN. FECIT ANNO 1783”, in La Pinacoteca civica di Cento, Guida illustrata a cura di F. Gozzi, Bologna 1987, p. 128.

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L. Lanzi, Storia pittorica dell’Italia dal risorgimento delle belle arti fin presso al fine del XVIII secolo, X, Milano (Bettoni) 1831, pp. 151152. Nell’ultimo quarto del secolo Gaetano Gandolfi (Accademico del Numero dal 1764 e direttore di figura per dieci volte dal 1765) fu veramente il personaggio di maggior spicco dell’Accademia Clementina. 30

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La stampa, che reca in calce solo il nome dell’inventore (P. Ath. de

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Coriano Ord. Min. de Obs. Inv.) trova un quasi esatto riscontro in questa descrizione dovuta a padre Giacinto Picconi, op. cit., p. 40: “Santa Margherita da Cortona che sviene all’apparirle di Gesù Cristo: due Angeli la sorreggono, un terzo più indietro sta in atto di stupore, ed in alto è un Angioletto con due Serafini. Abbozzo di un quadro grande. Trovasi nel Convento di Santo Spirito in Ferrara – Il medesimo in grande, ma alquanto modificato. Sta nella chiesa di Santo Spirito in Ferrara”. Per un esemplare della stampa della Santa Margherita cfr. P.G. Pasini in Grafica riminese fra rococò e neoclassicismo, cat., Rimini 1980, pp. 159-160. A testimonianza di Marcello Oretti questo dipinto è stato reso pubblico nel 1783. Il dipinto è stato confuso da T. Lombardi (op. cit., p. 41; Idem, I Francescani a Ferrara, Bologna 1974, p. 120) con quello raffigurante San Diego e Santa Margherita da Cortona ora nel convento bolognese di Sant’Antonio da Padova, ma proveniente da Forlì, dove era attribuito a Giacomo Zampa; credo possa essere meglio riferito all’attività tarda di Giuseppe Pedretti. L’opera proviene dall’oratorio privato del palazzo Magi di Saludecio, costruito nella seconda metà del Settecento da Francesco Magi, un notabile del paese molto devoto al beato Amato Ronconi e il cui primogenito si chiamava Gaetano (e questo spiega la presenza dei due santi ai piedi della Madonna). Il Magi morì nel 1786; il beato Amato è stato beatificato nel 1776: evidentemente entro questo decennio va collocata l’esecuzione dell’opera. 32

Ora nel Museo dell’Osservanza, ma con una attribuzione a Ercole Petrini; cfr. D. Biagi Maino, Il Museo dell’Osservanza di Bologna, Guida alle collezioni d’arte, Bologna 2003, pp. 72-73. In passato - completamente dimenticato e ignorato fra Atanasio - è stato riferito anche al Fancelli con datazione al 1828. 33

34

Benedetto da Toro, op. cit., p. 7.

Nel Museo dell’Osservanza di Bologna è da alcuni anni un quadretto con lo stesso soggetto, di provenienza privata, attribuito al Favini, che sembra più una derivazione che un “bozzetto”, come invece si vorrebbe (fig. 19). 35

36

Benedetto da Toro, op. cit., p. 7

37 Lettera di G. Turchi a F. Rosaspina, Forlì, Biblioteca Comunale, Collezioni Piancastelli, sez. “Carte Romagna”, busta 508. 78 38 A. Santangelo, Inventario degli oggetti d’arte d’Italia, III, Provincia di Parma, a c. di R. Serra, Roma 1934, pp. 78-79.

Riferendosi a padre Atanasio nel 1795 padre Ireneo Affò scriveva: “[Francesco Rosaspina] un frate del mio ordine guidò seco da Bologna (che se avesse avuto maestri sarebbe qualche cosa di grande), gli copiò [dalla Deposizione del Correggio] la testa a olio in carta grande al naturale con grandissima espressione”, in M. Mussini, op. cit., p. 141. 39

“…i nostri [pittori] si macerano dall’invidia, non si occupano che di cabale e di ragiri qualor viene qualche estero per istudiar il sommo Pitor delle grazie!”, scriveva il Bodoni a F. Rosaspina il 6 novembre 1795: in Autobiografia di G.B. Bodoni, a cura di L. Servolini, Parma 1958, p. 124. Anche Giuseppe Turchi nella sua corrispondenza con il Rosaspina lamenta spesso la chiusura e anche l’ostilità dell’ambiente artistico parmense.

40

41 M. Dall’Acqua, “La conversazione del mio amatissimo Correggio”, in “Il Carrobbio”, XIV, 1989, pp. 135-146. A. Bernucci, P.G. Pasini,


note Francesco Rosaspina “incisor celebre”, Cinisello B. (Milano) 1995, pp. 31-32 e passim. Autobiografia di G.B. Bodoni, op. cit. p. 72; M. Mussini, op. cit., p. 141. 42

Risulta da una lettera di Giuseppe Turchi a Francesco Rosaspina del 22 novembre 1793, nelle citate “Carte Romagna” del Fondo Piancastelli di Forlì, busta 508. 82. 43

“Ho veduto il bellissimo Ritratto del R.mo P.A. Mazza, fatto in breve tempo dall’ottimo padre Atanasio”, scriveva il Bodoni al Rosaspina il 9 gennaio 1795, cfr. Autobiografia… cit., p. 77; per l’incisione dei due ritratti cfr. A. Bernucci, P.G. Pasini, op. cit., pp. 29 e 94. 44

45

A. Bernucci, P.G. Pasini, op. cit., pp. 36-40.

Molte lettere di Bodoni, Rosaspina, Turchi e p. Atanasio testimoniano di una perdurante e sincera amicizia; sono in gran parte conservate nei folti carteggi romagnoli della Collezione Piancastelli (sezione “Carte Romagna”), nella Biblioteca Civica di Forlì, per i quali cfr. Inventari dei manoscritti delle biblioteche d’Italia, Forlì, voll. XCIII-XCVIII, a c. di P. Brigliadori e L. Elleni, Firenze 1979. Di padre Atanasio si vedano in particolare sette lettere inviate al Rosaspina da Rimini, da Spadarolo di Rimini e da Macerata nel 1800-01 e nel 1816 (“Carte Romagna”, busta 395). Vi sono accenni a incisioni del Rosaspina e del Morghen, informazioni sulla copia di un dipinto ravennate (del Carracci o di Tiziano) riguardante il Genio della pittura da eseguire per il Rosaspina, sull’attività per Saludecio; tramite il Rosaspina il nostro frate invia saluti “a Francesco Giusti, Ferri, ed Antonio Beccatelli, miei antichi boni amici”, bolognesi e parmensi, e si dichiara molto indaffarato. Sembra che fra l’estate e l’autunno del 1800 avesse in corso lavori decorativi per la villa di campagna dei conti Cima a Spadarolo di Rimini (distrutta dalla guerra). 46

47

Atti Ufficiali, op. e vol. cit., pp. 725-726.

C. Tonini, Rimini dal 1500 al 1800, vol. VI della Storia civile e sacra riminese, t. I, Rimini 1887, pp. 797-946; Atlante per il Dipartimento del Rubicone, a c. di G. Gattei e P.G. Pasini, “Romagna arte e storia”, A. II, n. 6, 1982.

48

Lettera di padre Atanasio a don Domenico Antonio Fronzoni del 16 aprile 1801, in Archivio Parrocchiale di Saludecio, cfr. P.G. Pasini, Artisti romagnoli per la parrocchiale di Saludecio, in “Studi romagnoli”, XVIII (1967), Faenza 1969, p. 99. 49

50

R. Camilleri, V. Messori, Gli occhi di Maria, Milano 2001.

P.G. Pasini in Grafica riminese, op. cit., p. 160; l’incisione è databile fra il 1787 e il 1807, stando alla cronologia degli episcopati dei vescovi (Prati e Manciforte) che avevano concesso le indulgenze. 51

52

Ivi, pp. 159-160.

53 Un accenno alla scuola di disegno è in una lettera di padre Atanasio a Francesco Rosaspina senza data, ma del novembre del 1801: Forlì, Biblioteca Comunale, raccolte Piancastelli, “Carte Romagna”, busta 395, 471. 54

P.G. Pasini in “Studi Romagnoli”, op. cit., pp. 85-102.

55 Risulta da tre lettere inviate dall’architetto al parroco di Saludecio il 27 X, il 3 XI, il 24 XI 1797, conservate nell’Archivio Parrocchiale di Saludecio. Il palazzo Patrignani, nel centro del paese, esiste ancora: divenuto di proprietà comunale, ospitò la scuola elementare e gli uffici catastali e comunali. Danneggiato dalla guerra, è stato gravemente manomesso nella struttura interna. 56 P.G. Pasini in “Studi Romagnoli”, op. cit., pp. 86-87; Idem, Arte dell’Ottocento, in Storia di Rimini dal 1800 ai nostri giorni, III, L’arte e il patrimonio artistico e archeologico, Rimini 1978, p. 11, anche per la situazione artistica del Riminese all’aprirsi del XIX secolo: pp. 9-14. Interessante l’accenno epistolare sulla messa in opera del dipinto: “Son pochi giorni che sono a casa, mentre sin ora sono stato fuori a riporre il quadro al suo posto, che ho dovuto ancora lavorare per certe cose che non erano a modo…”: lettera di fra Atanasio a F. Rosaspina, senza data (ma novembre 1800), nelle citate “Carte Romagna”, busta 395, 471.

S. Zamboni, in L’arte del Settecento emiliano, La Pittura, l’Accademia Clementina, catalogo della mostra, Bologna 1979, p. 294; P.G. Pasini, ivi, p. 208. La struttura del dipinto ricorda nelle sue divisioni orizzontali e nella collocazione dell’imperatore una pala bergamasca di Giuseppe Crespi (Il martirio di san Giovanni evangelista) che padre Atanasio facilmente può aver conosciuto nei suoi viaggi giovanili nell’Italia settentrionale.

57

58 I due dipinti si trovano ai lati del presbiterio della chiesa di San Francesco di Forlì, ma non possono essere stati dipinti per questa chiesa, che appartiene ai Minori Osservanti solo dall’ultimo ventennio dell’Ottocento (cfr. G. Viroli, Chiese di Forlì, Forlì 1994, p. 71). 59

P.G. Pasini, in Storia di Rimini…, op. cit., pp. 9-14.

60

L. Muti in Nicola Levoli, Rimini 1990, pp. 95-110.

61

P.G. Pasini, in Storia di Rimini…, op. cit., pp. 9-14.

62 Lettera di padre Atanasio a don D.A. Fronzoni del 16 aprile 1801 in Archivio Parrocchiale di Saludecio. Nel verso della stessa lettera, di pugno di Giacomo Favini, è la ricevuta per la somma dei 10 scudi pattuita per l’opera. 63

P.G. Pasini, Artisti romagnoli…, op. cit., pp. 99-102.

64 Padre Benedetto da Toro, op. cit., p. 7. Questo autore, sbagliando, asserisce che a chiamare p. Atanasio a Roma sarebbe stato il p. Pasquale Frasconi da Varese; questo errore ha indotto ad ipotizzare un inesistente primo viaggio del nostro pittore a Roma prima del 1791 (anno di morte di p. Frasconi). 65 Ibidem; P.G. Pasini, Padre Atanasio Favini pittore, in Coriano, contributi per una storia locale, Rimini 1983, pp. 75-80; L. Russo, Santa Maria in Aracoeli, Roma 2007, p. 52.

Vengono erroneamente attribuite a fra Umile da Foligno, che negli stessi ovali aveva precedentemente dipinto scene a più figure, come dimostra una veduta della chiesa parata per la canonizzazione di Santa Margherita da Cortona nel 1728, incisa da A. Rossi su disegno di G. De Santi e A. Bicchierai, riprodotta in L. Russo, op. cit., p. 134, fig. 156. 66

67 Sono opere dei due Gandolfi, di Jacopo Alessandro Calvi, di Mariano Collina, di Antonio Beccatelli, di Giuseppe Pedretti, di Luigi Tavolini e di Giuseppe Varotti, ora collocate nell’ex refettorio del Convento

105


AtAnAsIo dA corIAno dell’Osservanza; cfr. D. Biagi Maino, “Varj ritratti d’uomini illustri per santità e dottrina”, in L’Osservanza nell’arte bolognese, a c. di padre O. Gianaroli, Carpi 1989, pp. 40-48. “L’anno scorso nel mese di setembre mentre io mi trovava a letto gravemente ammalato mi giunse una lettera pressantissima del mio superiore acciò solecitamente mi portassi a Roma per eseguire alcuni quadri nella chiesa dell’Aracoeli, che subito appena fui alquanto ristabilito mi posi in viaggio senza poter assetare le mie cose, e sudisfare agl’altri impegni tra i quali la sua Via Crucis, che già alcune stazioni avevo principiato, figurandomi che qua mi sarei sbrigato in pochi mesi…”, lettera di p. Atanasio a d. D. A. Fronzoni, da Roma, s. d., in Archivio Parrocchiale di Saludecio, pubblicata da P.G. Pasini in Artisti romagnoli…, op. cit., pp. 101-102.

68

69

Ibidem.

70 Benedetto da Toro, pp. 7-8. Per i lavori dell’Aracoeli (in verità per i due soli riquadri della navata) fra Atanasio ebbe un compenso di quaranta scudi (oltre a quindici di rimborso per le spese di viaggio), come risulta dai documenti conservati nell’Archivio Capitolino di Roma, pubblicati da S. Triola in Padre Atanasio da Coriano pittore, tesi di laurea, Università di Urbino, Facoltà di Lettere e Filosofia, relatore P. Zampetti, Anno Accademico 1983-84, pp. 200-203.

L. Paci, Le vicende politiche, in Storia di Macerata, I, Macerata 1971, pp. 340-344; D. Cecchi, Macerata e il suo territorio, la storia, Cinisello B. (Milano) 1979, pp. 165-181; S. D’Amico, 1798-1998. Bicentenario della Parrocchia di Santa Croce in Macerata. Note storiche, Macerata 1998, p. 5.

venerabile Religioso a cagione di stima e di affetto, poiché alle più severe virtù sa unire, benché grave di anni, la pratica più costante dell’arte, i modi più gentili nel parlarne e nello istruirne”: in Memorie storiche delle Arti e degli Artisti della Marca di Ancona, II, Macerata 1834, p. 366. 79 P. Fedeli, e G. Picconi riferiscono di rifacimenti o di copie; A. Talamonti, A. Maggiori, e L. Paci di restauri, mentre per Benedetto da Toro (op. cit., p. 8) e F. Diotallevi (op. cit., pp. 201-202) si tratta di opere originali di padre Atanasio. Per A. Natali padre Atanasio: “…rammaricandosi assai di non poterne conservare alcuna per il pessimo stato… ideò di copiare il San Francesco… ed il Presepio” (ms. cit. c. 12). 80 C. Miller, The Gallery of Aeneid in the Palazzo Bonaccorsi at Macerata, in “Arte antica e moderna”, 32, 1963, pp. 153-158; P. Zampetti, op. cit.,, pp. 197-208. 81

S. D’Amico, op. cit., p. 6.

82

Benedetto da Toro, op. cit., p. 5.

83 P. Serafino da Castel d’Emilio in A. Natali, ms. cit., c. 9v, da cui P. Fedeli, op. cit., p. 31. 84

71

72

L. Paci, op. cit., pp. 345-350.

73 Benedetto da Toro, op. cit., p. 8; G. Picconi, op. cit., p. 36; L. Paci, L’arte, in Storia di Macerata, op. cit., III, pp. 133 e 143; assai più plausibilmente il Natali, ms. cit., c. 13, attribuisce a padre Atanasio solo la progettazione del “mobiliare sacro” della chiesa, dal fonte battesimale al coro ai candelieri.

Benedetto da Toro, op. cit., p. 9; ora villa Spada; “Diede forma di regolare architettura alla deliziosa villa Angelini di Treja”, scriveva padre Benedetto. Ma tale villa fu eretta su progetto di Giuseppe Valadier (1815): cfr. A. Montironi, Ville napoleoniche nel Maceratese, in “Quaderni del bicentenario”, n. 3, Tolentino 1997, e ora in Architettura Neoclassica nelle Marche; Bologna 2000, pp. 181-187. 74

75 S. D’Amico, op. cit., p. 5. Il conte Filippo Spada (1769-1852) viene dichiarato e si dichiara discepolo di padre Atanasio, cfr. Benedetto da Toro, op. cit., pp. 14-15; fu musicista e filantropo, oltre che pittore e architetto, e socio della bolognese Accademia Clementina; insegnò disegno e architettura teorico-pratica al R. Liceo di Macerata: cfr. V. Brocco, Dizionario bio-bibliografico dei Maceratesi, in Storia di Macerata, II, Macerata 1972, pp. 449-450. 76

77

Ibidem, p. 83. Cfr. L. Paci, op. cit., III, p. 144, nota 1138.

Dopo aver lodevolmente citato il restauro compiuto da padre Atanasio ad un quadro di Giuseppe Campeggi (tuttora esistente in Santa Caterina di Fabriano: cfr. per una riproduzione P. Zampetti, Pittura nelle Marche, IV, Firenze 1991, p. 330, fig. 7), Amico Ricci scrive: “Io nomino questo

78

106

Benedetto da Toro, op. cit., p. 10.

Il cupolino d’ingresso di palazzo Ciccolini è praticamente distrutto; l’andito ha una bella decorazione a grottesche del Cinquecento, che naturalmente non è di p. Atanasio (contrariamente a quanto asserito in G. Bruschi, L. Paci, Macerata, Guida storico-artistica, Macerata, p. 80), che tuttavia potrebbe avervi aggiunto il fregio a festoni sottostante. Praticamente distrutta e appena leggibile è la volta della cappella Ciccolini in San Giovanni, con San Francesco Saverio in gloria e quattro angeli nei peducci. 85

86

Benedetto da Toro, op. cit., p. 9.

87 Grazie alla gentilezza del Prefetto di Macerata ho potuto visitare gli uffici della Prefettura al primo piano e l’appartamento di rappresentanza della Prefettura al secondo. Non ho visitato i locali della Questura, che ha sede nello stesso palazzo. 88

A. Natali, ms. cit., c. 13; Benedetto da Toro, op. cit., p. 9.

L.M. Armellini, La volta dipinta di Palazzo Fidi e la Biblioteca Filelfica, Tolentino 2006. 89

P. Fedeli, p. 30 (nota 6). Documenti riguardanti questa supplenza scolastica, nell’Archivio Storico di Macerata, sono stati pubblicati da S. Triola, op. cit., pp. 206-222. 90

91

Benedetto da Toro, op. cit., p. 6.

92

A. Ricci, op. cit., II, p. 443.

Lettera di fra Atanasio a Rosaspina, da Macerata, 6 agosto 1819, Forlì, Biblioteca Comunale, Coll. Piancastelli, “Carte Romagna”, busta 395, 470. 93

94 G. Carducci, Su le Memorie e i Monumenti di Ascoli nel Piceno, Fermo 1853, p. 66; A. Talamonti, Cronistoria dei Frati Minori della Provincia Lauretana, II, Sassoferrato 1939, pp. 219-220.


note 95

D. Cecchi, op. cit., pp. 181-182.

L.M. Armellini, Una pala d’altare oscurata, in “L’Appennino Camerte”, n. 26, 2 luglio 2005; Idem, Il quadro del patrono in una documentazione del XIX secolo, ivi, 26 novembre 2005, p. 15. 96

97

In capitali romane: “P. Atanasio da Coriano minore oss.te fece 1817”.

P. Fedeli, op. cit., p. 29; G. Picconi, op. cit., p. 36; F. Diotallevi, op. cit., p. 201. 98

99

Benedetto da Toro, op. cit., p. 7; G. Picconi, op. cit., p. 36.

F. Diotallevi, op. cit., p. 201; D. Ferriani in Il culto e l’immagine. San Giacomo della Marca nell’iconografia marchigiana, a c. di S. Bracci, Milano 1998, p. 136.

100

Atti Ufficiali della Provincia Osservante Francescana di Bologna, III, a c. di D. Guidarini, B. Monfardini, G. Montorsi, Bologna 2003, pp. 173-174. 101

102

103

Benedetto da Toro, op. cit., pp. 6-7. Ibidem, op. cit., p. 10.

A causa del silenzio degli archivi frateschi, in parte dispersi, non è possibile precisare la data del trasferimento di Provincia, assicurata tuttavia da tutti i biografi. Per l’allontanamento dal palazzo Ciccolini cfr. specialmente p. Benedetto da Toro, op. cit., p. 8, dove afferma che il marchese, “morendo, lo avrebbe lasciato molto bene in arnese, se non lo avesse ricusato per altissima povertà serafica”. 104

105

Ibidem, p. 11.

Era stato soppresso nel 1806 e venduto a privati; i frati riuscirono a riaverlo solo nel 1841: cfr G. Montorsi, P.G. Pasini, Il Santuario riminese di Santa Maria delle Grazie, Storia e restauri, Villa Verucchio 2001, pp. 65-66. Tutti i frati che vi avevano soggiornato avevano mantenuto un bellissimo ricordo, una sorta di nostalgia, per questo convento. Si leggano in proposito le parole commosse del padre provinciale Michelangelo da Reggio nel dare notizia del suo recupero: “Esulteranno per certo in sentirla non pure i vecchi padri della nostra Provincia, ai quali il solo nome delle Grazie di Rimini spreme dagli occhi calde lacrime di tenerezza, tornando loro a mente e l’amenità di quel luogo e l’aere puro che vi si respira e la varietà delle verdure che vi si gode e molto più la dolcezza della solitudine e del raccoglimento che vi si gustano, e la sanità e la perfezione della vita che in antico vi si coltivava, e l’osservanza regolare, e la claustrale disciplina che vi fioriva,…”, in Atti ufficiali della Provincia Osservante Francescana di Bologna, III, op. cit. p. 796.

106

Il primo dipinto è conservato ancora nel convento delle Grazie, mentre il secondo è in deposito presso il Museo della Città, Rimini.

Talamonti, Cronistoria, op. cit., VI, pp. 215-216; F. Battistelli, Fano, Fano 1978 (3), p. 64; P.G. Pasini in Coriano, op. cit., p. 78. I biografi ricordano (ed esaltano) di preferenza il Perdono d’Assisi già all’altar maggiore della demolita chiesa francescana di Santa Maria di Loreto a Tolentino, misteriosamente disperso in anni recenti (c. 1960) insieme ad un’altra pala di padre Atanasio, già su un altare laterale della stessa chiesa, con San Diego che risana un fanciullo.

110

D. Ferriani, in Il culto e l’immagine. San Giacomo della Marca nell’iconografia marchigiana, a c. di S. Bracci, Milano 1998, pp.135-136.

111

112

113 Creato cardinale da Pio VII il 15 dicembre del 1828, morì il 7 aprile 1830. L’attribuzione a padre Atanasio mi è stata gentilmente segnalata dal prof. G.L. Masetti Zannini nel 1973 e risulterebbe da un documento d’archivio. è citato senza alcuna attribuzione dalla guida di Lugo del Rossi. 114

Benedetto da Toro, op. cit., pp. 12-13.

115

Ibidem, p. 9.

In Benedetto da Toro, op. cit., pp. 14-15’ sono trascritte due iscrizioni funerarie dettate dal letterato maceratese Mercurio Salvatori.

116

A. Natali, ms. cit., Biografia LI (Brevi cenni del nobil’uomo sig. conte Filippo Savini Spada nobile di Terni e patrizio di Macerata), cc. 156-159; per altri allievi di p. Atanasio (G. Bonfigli, G. Cotoloni, P. Giuliani, G. Zannoni) cfr. L. Paci, L’Arte, op. cit., pp. 144-147.

117

P.G. Pasini, in L’arte del Settecento emiliano, la pittura…, op. cit., pp. 208-209.

118

A. Natali, ms. cit., c. 12 v; L. Paci, op. cit., 1973, p. 143; A. Bruschi, L. Paci, op. cit., 1977, p. 111; S. D’Amico, op. cit., p. 6.

119

120

Archivio di Stato di Macerata, Libri riformanze, 1804, c. 9v.

121

S. D’Amico, op. cit., p. 6.

P. Pagnanelli, Storia sagra della città di Macerata, ms. nella Biblioteca Comunale di Macerata, c. 44; A. Natali, ms. cit., c. 12v; L. Paci, L’arte, op. cit., p. 143; G. Bruschi. L. Paci, op. cit., p. 52.

122

A. Natali, ms. cit., c. 12v. A Macerata vengono attribuiti a padre Atanasio anche altri dipinti murali: un rovinatissimo San Francesco Saverio in gloria nella cappella Ciccolini in San Giovanni e un ridipinto SS. Sacramento con le quattro virtù cardinali nella chiesa del Corpus Domini.

123

124

P.G. Pasini, in Coriano, op. cit., pp. 76-77.

125

P. Fedeli, op. cit., p. 29.

126

A. Natali, ms. cit., cc, 13 v-14; Benedetto da Toro, op. cit. p. 3.

107

108 F. Bisogni, A Fragment of Guercino’s Pesaro Altar-piece, in “The Burlington Magazine”, 187, 1975, pp. 338-343; P.G. Pasini, in L’arte del Settecento emiliano, op. cit., p. 208..

G. Vanzolini, Guida di Pesaro, Pesaro 1864, p. 151; C. Ortolani, Il mio bel S. Giovanni, Pesaro 1930, p. 140; C. Contini, Pesaro, Guida storica e artistica illustrata, Urbino 1962, p. 59. E inoltre A. Talamonti, Cronistoria, VI, 1962, pp. 215-216; F. Battistelli, Fano, guida turistica, 1978, p. 64.

109

L. Paci, L’arte, op. cit., p. 144; D. Ferriani, op. cit., p. 137.

P. Fedeli, op. cit., p. 23; per non appesantire ulteriormente e inutilmente il testo, non si inseriranno in seguito che pochi rimandi, dato che i riferimenti bibliografici saranno facilmente desumibili dalla bibliografia allegata.

127

128

T. Lombardi, op. cit., p. 11.

107



APPendIce



APPendIce

I. Elogio del pittore P. Attanasio Favini da Curiano nella Romagna scritto da frate Benedetto da Toro professore di eloquenza fra i M.O. e letto nella chiesa di S. Severo Maggiore dello stesso Ordine in Napoli. Napoli, dalla tipografia di Gennaro Agrelli. 1844. Al P. Attanasio da Curiano M.O. Ammirati del suo merito i PP. Di S. Severo Maggiore di Napoli fecero solenni esequie il dì 19 gennajo 1844. [p. 3] Poiché non fui presente alla morte del Padre Attanasio (1), e non mi toccò in sorte di stringerlo affettuosamente incontro al mio seno e dirgli l’ultimo addio, ho voluto, sebbene lontano, e in un paese in cui forse non giunse la fama di lui, soddisfare al mio antico e costante desiderio di onorare sì valente e lodato artista. E certamente non mi sarà difficile; perocché alla mestizia de’ luttuosi ragionamenti, ben volentieri si conduce l’animo mio già da natura disposto, e troppo dalle sventure esercitato a malinconici pensieri. Né presumo di crescere o avanzare con le mie rimesse parole il suo nome; dacchè la vita ben lunga di novantaquattro anni, e 4 mesi occupata per utili fatiche, per dolci costumi, e per notabile amorevolezza distinta, [p. 4] gli ha cominciata la posteriorità, la quale, come suole e sempre avviene, ora che tace l’invidia, lo leverà nella stima dell’universale. Io dunque per dar tregua al dolore che provo e riconoscermi della santa amicizia ed affetto di che mi onorava, mi son brigato di ordinare a quell’anima benedetta e cara questi ufficii estremi; i quali, buona mercè di Dio, e di questi Reverendi Padri, oggi si compiono colla pietà e con ogni possibile decenza. E se questi pochi fiori sparsi sulla tomba del virtuoso saran semi, che ne’ giovani religiosi fruttino desideri di venire in parte nella gloria e nel merito di tanto uomo, avrò cagione di consolarmi, e ringraziare Iddio, che mi donò un cuore disposto a sentire la virtù, ed onorarla. Nell’anno 1749 a dì 27 Luglio da Cristofano Favoni, e Caterina Patrignoni nacque Francesco Anto-

nio in terra di Curiano nella Romagna, il quale rendendosi Minore assunse il nome di frate Attanasio. D’allora che votossi a Dio, visse da lodevole e pulito e osservante Religioso; dacchè l’onestà della sua vita seguitò sempre di ugual passo lo avanzamento dello stupendo e poderoso suo ingegno. Studiò in filosofia e in divinità, e dell’una e dell’altra sostenne conclusioni pubbliche, data facoltà a tutti di potere incontro argomentare. In Parma divenne caro al chiarissimo P. Ireneo Affò, il quale accorgendosi della sua inclinazione, cercò di metterlo sul sentiere che mena all’acquisto delle arti belle e gentili. Primo suo maestro fu Pietro Ferrari, pittore non ispregevole del Duca Ferdinando Borbone, che lo ebbe alla sua scuola cinque anni; e per primo frutto ritrasse in tela il Beato Giovanni da Parma, e lo dedicò al P. Rossena. E veramente la natura lo ebbe provveduto di tutto ciò che [p. 5] serve nel difficile cammino delle arti: bello di corpo e robusto; animo forte e capace di sostenere qualunque noja; temperanza nel vivere e costanza nel moderare le passioni; fantasia nobile ed un cuore acconcio nel sentile il bello e raggiungerlo. Ma tosto si accorse che lungo e riposato studio richiedeva l’arte, la quale si fece ad investigare in Giorgio Vasari, in cui considerando i principii, l’incremento, e la perfezione, si andò preparando quel gusto gentile e maraviglioso. E la fortuna che tante volte congiura a danno dei buoni talenti, parve favorevole a lui; perocchè lo mise in Bologna, ove dimorando per diciotto anni, non è a dire quanto divenne caro per indole soavissima, affettuosa e vereconda a Rodolfo Fantuzzi ed a Gaetano Tambroni, i quali per la dignità dei concetti e per lo spirito e decoro dello stile levarono nella stima universale la Scuola Bolognese. Quivi profittò di molto; e senza metter tempo in mezzo, con la pazienza di Michelangelo che gli fece manifesto il severo modo di dar vita ed affetto alle tele ed ai marmi, si recò dinanzi i Guidoreni, i Francia, i Caracci, i Guercini; e in essi dì e notte studiò le arcane bellezze dell’arte. Ed apparò come la pittura domanda soggetti sublimi, e di morale grandezza, da muovere l’animo a generosi pensieri. Laonde mai non gli cadde di mente il senno de’ Greci che solo a liberi uomini e ben nati consentisse 111


AtAnAsIo dA corIAno

l’esercizio di sì nobile arte, per timore, cred’io, che per viltà d’animo, o per mancanza di mezzi non avvilissero il pennello, e lo avvallassero in servitù de’ potenti del mondo. Ed era tale e tanta la voglia di apprendere, che il tempo concesso ai Religiosi tra l’agosto e ‘l settembre per onesto [p. 6] diporto, egli lo usava viaggiando; perocchè fu a Milano per deliziarsi di Leonardo e delle memorie della Scuola di lui; a Cremona, e fu alle egregie pitture di Pardenone e di Boccaccino; a Mantova ristette dinanzi dai capolavori di Giulio Romano, i quali, sebbene di uno stile alquanto duro, si fanno non pertanto ammirare per la finezza del suo pennello; a Venezia s’imparadisò di Tiziano franco e vigoroso e di un colorito meglio intonato che si vedesse; e in altre Città di Italia che non si conta, raccolse quanto di bello e di buono vi si trova; e talmente se ne rendè padrone che fino all’ultimo ne discorreva per ordine, e con la sagacità di avveduto maestro. Nutrito da sì nobili e sublimi concetti fu vero Italiano; ché tenne sempre l’occhio all’antichità, ed a quanto si fece in quei tempi che non erano ancora per corruzione infami. Di architettura, che i Greci segnarono col nome di maestra e signora delle arti, ne seppe quanto bastava; ma quella che gli soprabbondò fu l’anatomia delle ossa e dei muscoli, alla quale voleva che gli allievi dassero opera. Ed insegnò a questi che ogni secchezza si fuggisse; la nobiltà e la grazia si ricercasse; la natura, ma non servilmente s’imitasse; s’abbellisse e portasse al suo più alto ideale; la gioja e l’ira s’esprimesse, ma senza sforzare i volti, che è bassezza dell’arte; si temperasse ogni affetto a quei gradi e a quelle misure che fanno dignitosi i soggetti nelle disavventure e nelle felicità, che muovono a pietà o ad allegrezza i riguardanti, e li traggono a prender parte negli affetti attivati nelle rappresentazioni. Ebbe sempre in odio coloro che si fanno servili imitatori delle cose di oltremonte; ai quali venuta in fastidio la eleganza e sempli- [p. 7] cità greca, sformano e guastano il bello naturale, e producono que’ mostri che sono la delizia degli sciocchi, e disperazione degli uomini savi. Era molto innanzi nella conoscenza delle religioni, delle favole, dei costumi de’ popoli e de’ tempi; il perché invogliava i giovani allo studio delle antiche e moderne istorie. Primeggia egli per disegno che sempre nobile e dignitoso ti riesce; comechè ti contrista alquanto quel suo colore sparuto. Per la espressione e pel maneggio di luci ed 112

ombre si lascia anche grandemente ammirare. Fra le tante sue opere che si conservano in Bologna nel luogo de’ Frati minori sono notabili, a giudizio degli artisti, il Redentore risorto, dipinto sulla portina del Tabernacolo; e ben ti accorgi per sì alto e divino concetto quanto di pittura conoscesse; San Pietro e San Paolo in grosso quadro che di presente adorna la Regia di Pietroburgo la quale accoglie e premia le arti belle; una Santa Caterina in Ragusi in cui seppe maestrevolmente incarnare parecchie bellezze della Cecilia del Sanzio. Ma tanto valore non fu nascosto al Padre da Varese, durato per 23 anni nel governo generale della famiglia; il quale come riebbe il convento di Araceli, comprato dagli Ebrei nel tempo che il Generale Francese Berthier proclamava nelle vette del Campidoglio la Repubblica, faceva di tutto per ristorarlo dalle ingiurie sofferte, e cercava dalla Provincie monastiche persone che fossero da ciò. Il P. Attanasio fuvvi chiamato a compiere la storia di nostra Donna, e dipinse in giro alla Chiesa capitolina di Araceli l’Incoronazione di Maria, e la Protezione di Lei, con allogarvi i due Principi degli Apostoli, e l’Arcangelo S. Michele. Sarebbe ancor rimaso. dopo la gallica rapina, in Roma, fuor della quale a niuno è spe- [p. 8] ranza, né potere di crescere valoroso artista, a studiare negli affreschi di Raffaello e nel meglio di quanto vi rimase il superbo vincitore, se il P. Domenico Andrea di Albagina, creato Provinciale della Marca nel 1803, non lo avesse chiesto e poscia ottenuto, ai bisogna della Chiesa di S. Croce in Macerata andata in fuoco ed in ruina ne’ rivolgimenti politici delle cose italiche. Per diciotto anni ebbe cortese ospizio dal Cavaliere Valerio Marchese Ciccolino, il quale, morendo, lo avrebbe lasciato molto bene in arnese, se non lo avesse ricusato per altissima povertà serafica. Questo singolarissimo signore, onorando i buoni talenti, avanza di merito e di nobiltà i Duchi e Marchesi suoi pari; ché non ad oltraggio, né stoltamente usava i doni di fortuna, ma li volgeva a sovvenire la bisognosa virtù, e a donare qualche uomo utile al mondo. Quindi la casa di quell’illustre Mecenate rendè somiglianza all’Orto fiorentino di Bernardo Rucellai; poiché oltre le persone erudite, e dotte, e civili che la frequentavano, divenne scuola del P. Attanasio, e l’officina, in dove dipinse in servigio della chiesa di Santa Croce, San Francesco che sviene in braccio all’Angelo di Dio; il Presepio, notabile per le tenebre della notte rotte


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dai raggi della stella, e per le celesti sembianze del Pargoletto divino che ragguarda la sua cara madre, amabilissima; San Pasquale che di riverenza e di rispetto atteggiato dinanzi all’Angelo che gli porge il pane celeste, t’innamora e muove a religione. Altri santi e sante poi ritti e genuflessi puoi vederli in Ascoli, in Fermo, in San Giusto, in Monbaroccio, in Monteprantone, e in Fano. A casa Fidi da Tolentino dipingendo le stanze, creò alla vista e alla fantasia il diletto non iscompaginato dall’utile; die-[p. 9] de forma di regolare architettura alla deliziosa villa Angelini di Treja. I Pallotti, i Normati, i Romani amarono abbellire co’ suoi dipinti le magnificenze e le delizie de’ loro palagi. Non abbiamo altra composizione profana di lui, che il Coriolano del Palazzo del Marchese Andrea Costa di Macerata; chè obbligato, come Innocenzo Francucci, dalla fortuna e dalla condizione a soggetti sacri, non potè mostrare il valore dell’arte e dell’ingegno nell’inventare e nel comporre. Cionondimento in tutte le sue opere di pittura che sono vicino a mille, pose una gentilezza, e devozione di meravigliosa dolcezza sua propria, che lo fanno conoscere studioso di Raffaello, e nutrito alle sue muse Vaticane. Né credere che l’amore e l’affetto mi facciano travedere; perocchè il Prefetto Gaspare (ed era testa robustissima e dottissima) il quale reggeva il Piceno nel nome di Buonaparte, conosciutone il merito, oltrechè lo chiamò a dipingere le stanze della Prefettura, lo nominò eziandio Censore e gli divenne si fattamente accetto, da non negargli cosa la quale si facesse a domandare per gli amici. Ma l’età inoltrata lo privò del vedere; onde si fece ad esercitare i giovani per consiglio. Mirabile esempio di memoria, che invecchiando non indebolisse! E ciò è tanto vero che l’ultimo suo scolare P. Celestino d’Ancona, verso cui usò d’ogni industria a farlo nobilmente sentire e nobilmente immaginare, mi scrisse di aver trovato in Roma tutto ciò che dalla sua voce raccolse. Fino all’ultimo gli durò l’equità del giudizio; né mai diede verun segno di quella infezione, onde per antico pare che gli artisti non possano esser sani; e nettissimo d’invidia, mai ad alcuno si faceva censore. [p. 10] Come religioso onorò l’Instituto di tutte sue osservanze; ricordandosi per altro di vivere fra gli uomini, ed esser parte di una civile comunanza. Né fu di coloro che, sottomettendo la ragione al talento, vanno in cerca dell’ammirazione del popolo,

al quale si danno strano spettacolo. Ogni suo modo riusciva per una cortese gravità amabile; e (quel che più importa) insegnava con ischietti, ed innocenti, e dolci costumi, che la virtù non è odiare gli uomini, ma sopportarli, beneficarli, amarli. Memore delle amicizie, si rallegrava di ogni fatto antico; presto era al perdono comechè sensibilissimo alle offese: a tutti affabile e sincero; ai poveri liberale; agli afflitti pietoso; onorato e ricompensato quanto bastava al vivere religioso, né lucro né fama cercava più in là. Aggiugni, che per soperchio di buona fede si trovò alle volte gabbato dai maliziosi, quando conviveva fuori dell’ordine in abito di prete, ed era tanto il dispetto in che aveva il danaro, che commise ad uno de’ suoi scolari esigergli le paghe assegnate ai religiosi soppressi. Cultore sincero delle arti non fu vago di ambizione; nella lunga sua vita non ebbe mai briga di sorta; e cercato di consiglio, trovarono in lui il sentenziare libero e severo della verità. Nella lode che meritevolmente se gli dava, lo vedevi nell’estrema modestia restringersi; e se la superbia, che spesso rigonfia gli animi saputi, ardiva levarlo più del dovere, e’ la frenava a sua posta. Di ciò ne sono io medesimo testimonio; chè discorrendo delle opere altrui, era di lode profuso, quantunque non gli venisse da temere che lo splendore di altri in qualche modo l’adombrasse, nel mentre che se gli andava toccando le sue, le avviliva fino al fango, essendo anche [p. 11] solito dire di avere storpiata sì nobile arte. Del resto è comune sentenza, ed io l’ho intesa recitare a molti periti, che egli poteva (quando l’occasione gliel concedesse) far opere eccellenti di storia e di favole; ma trovò intoppo nelle prime impressioni, di cui poté mai l’animo dispogliarsi, di una severa, e santa educazione. La quale portolla fino alla morte; chè né per voce del superiore, né per severi precetti di medico si condusse mai a cibarsi di latte nei venerdì, giorni destinati al digiuno per regole monastiche; ed il solo timore della morte, o la speranza di sopravvivere, piegarono alle volte quell’anima ostinata nel bene. Ma queste macchiette si perdono nella copia delle sue cristiane virtù, e nella mirabile sofferenza con che sosteneva i malori della vita, i quali furono di natura sì malvagia, che il Chiarissimo Dottore Santarelli conosciuto per tutta Italia, avendolo più fiate liberato da pericoli presentissimi, ebbe a durar fatica e diligenza per ritornarlo sano. Nell’esercizio di questa eroica rassegnazione purgavasi di qualche trascorso; e si sentiva sollevato il cuore di trovar grazia appo il giusto premiatore d’ogni 113


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opera buona, che solo conforto negli ultimi anni della vita gli rimaneva; ne’ quali non solamente facciamo giudizio certo degli uomini, ma l’uomo giudica sinceramente se stesso. Si moriva il buon Vecchio, ma segnato dalla stampa di tutte virtù, non senza lagrime e lamento degli amici e confratelli, ma sen giva con ferma fiducia di trovarsi in miglior secolo; né poi periva tutto, poiché visse virtuoso. E vivrà nella memoria degli uomini per le sue opere; la Città di Macerata gli rese ogni buono ufficio; ed egli in cambio di privato compianto ottenne il pubblico. [p. 12] L’illustre Pastore Monsignor Teloni (2) si mostrò sollecito, che, in sepoltura distinta, si raccogliessero gli avanzi di sua mortalità; i Cittadini appalesarono anch’essi per gli occhi quell’ambascia che dentro gli premeva; Giov. Battista Viscardi, Giuseppe Mancini, il Conte Filippo Spada amatissimi suoi scolari lo amarono in vita, e lo piansero in morte. Né noi siamo rimasti indifferenti a tanto merito; poiché se gli rinnova il mortorio, componendosi la musica funerale da Maestro lodato, ed acconcio a ciò Antonio de Falco; il M. Reverendo ex Provinciale P. Geremia di Roccascalegna gli prega requie dal Cielo; gli assicurano perpetua ricordanza le iscrizioni latine di Mercurio Salvatori. Né penso che sì modesto pittore non sia a notizia dell’Accademia Bolognese, come piccola porzione a tanta gloria della sua scuola; poiché è da sapere (ed è di sola vostra gloria o Bolognesi) che quella nobilissima città si è sempre distinta nel giudizio e nell’onore accordato ai valenti nelle arti belle e graziose. Ma il debito poi sacrosanto di ritornarlo alla seconda e più durevole vita a te, o P. Celestino, lo commetto. Tu che ricevesti le prime notizie dell’arte dal buon Vecchio, ricordando le cure e la diligenza con cui ti metteva nel sentiero della gloria, avrai cagione di tener sempre viva nell’animo l’immagine di lui, e succedergli alle eredità delle sue virtù. E comechè le sue pitture daranno ai posteri grandissimo desiderio di conoscere le fattezze di sua [p. 13] persona, dipingilo, qual’era, venerando per canizie, e fa che dagli occhi e dal volto traspaja qual’anima lo informava, onde rimanga monumento perenne di tua gratitudine. E come mi tornano alla mente i felici presagi che di te solea farmi, e considero il nobile tuo ingegno (3), il buon volere, ed il forte immaginare, sempre più mi cresce la speranza già concetta di vederti messo in riga di coloro che fan parlare le tele, e infiammano al bene i nostri cuori. 114

1. Ai 24 giugno dello scorso anno non senza forte dispiacere e dolore mi divisi da lui per venire a Napoli. 2. Vescovo di Macerata e Tolentino amico del defunto, ornato di lettere latine, e amatissimo delle Italiane. 3. Per due anni e più in Macerata lo ebbi a studente in belle lettere insieme con il P. Domenico da Matelica, anch’egli a me caro per bontà e costumi, e per trasporto all’Astronomia; per la quale, se gli dura la vita e la volontà, spero vederlo salito in nome. L’uno e l’altro, di coscienza del buon Vecchio, il P. Generale Giuseppe Maria d’Alessandria, Mecenate carissimo alla gioventù desiderosa di apprendere, menò seco in Roma, onde meglio potessero studiare. Iddio ci mantenghi si buon Padre, e lo avanzi sempre di Bene in meglio…!


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II. Elogio storico dell’Esemplarissimo Religioso Padre Atanasio da Coriano Lettore, Predicatore, e celeberrimo Artista nel Convento di S. Croce dei Minori Osservanti di questa Città di Macerata Scritto da Antonio Natali di detta Città ammiratore delle chiarissime virtù di quest’uomo singolare mancato ai vivi nel dì 4 novembre dell’anno 1843, né mai compianto abbastanza dalla Civile Società. (Biografia XXX, in A. Natali, Raccolta di memorie, biografie e necrologie, ms. 562 bis, cc. 7- 14. Biblioteca Comunale “Mozzi-Borgetti”, Macerata) [c. 8]Mentre in questo Sodalizio delle Sagre Stimmate di S. Francesco si deplorava la perdita del benemerito Confratello già Guardiano Filippo avvocato Barabani, e se ne leggeva la distinta relazione, che ne davano i Guardiani di quell’affigliato Sodalizio di Filottrano, il lungo lugubre suono di una campana che da lontano si udiva, annunciava altro maggiore infortunio per la Chiesa, per l’Ordine Serafico, e per la civil società. Moriva in quell’ora lo specchio esemplare di questa religiosa famiglia dei Minori Osservanti, il venerando vecchio lettore, e predicatore, e fin da più anni aggregato a questa Picena Provincia padre Atanasio da Coriano, il quale nelle decrepita età di anni 94, mesi tre, e giorni 8, dei quali 78 ne passò nella Religione. Ebbe egli a tempo, e sempre presente a se stesso i conforti tutti che la madre Chiesa suole apprestare a figli suoi negli ultimi periodi della vita, e colla piena tranquillità di spirito di cui godono le anime giuste si riposava come in placido sonno alle ore 6 antimeridiane del dì 4 novembre dell’anno 1843. Non appena si seppe la morte preziosa di questo esemplarissimo Religioso, che accorsero i fedeli a contemplarne la di lui spoglia mortale, che senza aver cambiato colore con angelica fisonomia sembrava che indicasse che l’anima che fu racchiusa in quel corpo fosse di già volata al Paradiso, e che quel cadavere stesso ne fosse stato santificato, tanta era la fiducia che ispirava quella devota faccia, ove era dipinta l’ilarità e la dolcezza con cui se ne era dipartito lo spirito. Volonterosi ed in copioso numero accorsero i Fratelli delle Stimmate alla recita dell’officio, che la Chiesa santa ha destinato per suffragare le anime dei fedeli defunti e quei buoni frati si dimostrarono riconoscenti per l’obbligante pensiero dei suddetti componenti la suindicata Confraternita, che

senza esser chiamati vollero usare quest’atto di religiosa urbanità a questo rispettabilissimo religioso la di cui preziosa spoglia da essi stessi fu racchiusa nel sepolcro gentilizio della Famiglia Gatti situato innanzi l’altare del Presepio a mano sinistra nell’ingresso della Chiesa, collocandola supina sopra la cassa del defunto Sacerdote D. Carlo Ranganeschi, e ligandogli al collo con funicella nera [c. 9] una boccettina di cristallo, entro cui fu scritta una memoria succinta delle virtù eroiche di questo Servo di Dio. In seguito il Guardiano di questo Convento di S. Croce diramò una circolare ai Guardiani di tutti i Conventi dell’Ordine dei Minori Osservanti, nella quale dando la notizia della morte di questo esemplare Religioso ne faceva una biografia delle sue rare qualità, che qui si riporta alla lettera. “Non si esagera punto quando affermasi che il defunto confratello osservò nel modo il più perfetto la Serafica Regola, ed in modo speciale i Santi Voti, fra i quali primeggiò l’osservanza di quello, che sopra gli altri fu oltremodo caro al suo Patriarca S. Francesco, cioè dell’altissima Povertà. Ed in effetto egli quantunque eccellente pittore (come lo dimostrano le tante, e tutte accreditate sue opere) potendo accumulare tesori, tuttavia dispregiando il tutto, nulla voleva, nulla chiedeva, né pel Monastero, né per sé, per cui tante volte era ancor privo del necessario, da lui per amor della povertà non palesato neanche allo stesso Superiore. Bello era il vedere la sua cella spogliata in modo che nulla mai vi fu, che non indicasse aborrimento a qualunque comodità. Un miserabile letticciolo, poche sedie, un genuflessorio, piccola e rozza mensa, due imagini di semplice carta ed un Crocefisso logoro dai baci formavano tutto il corredo della meschina sua camera. Il totale distacco dal mondo totalmente lo unì a Dio, per cui nella cella, e nel coro lunga pezza di tempo consumava in trattare per mezzo della santa orazione col suo Signore, che sempre aveva in cuore e spesso sulle labbra. Non minore era l’affetto che avea alla Vergine immacolata, che spessissimo onorava con varii ossequi. E siccome l’amor divino non va mai disgiunto dall’amore del prossimo: quindi è che questo ardeva nel suo cuore unitamente a quello, per cui si sentiva portato ad applicare a vantaggio dei fedeli, assistendoli nel Tribunale della Penitenza fino agli ultimi momenti di sua carriera mortale; di modo che stando ancora gravemente infermo, non ricusava ascoltarli. Penetrato eziandio dall’altrui miseria, pressoché ogni giorno divideva lo scarso vitto al suo sostentamento 115


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assegnato con i poveri, che consci [c. 10] della sua liberalità, a lui ricorrevano. Queste e tutte le altre sue virtù, che per brevità tralascio, erano talmente basate su la vera umiltà che, sebbene peritissimo nella sua arte, e non scarso di scientifiche cognizioni, tuttavolta reputavasi uomo da nulla e ancor discepolo, ove da gran tempo era già maestro. Da qui avveniva che ei non dispregiava mai alcuno, ma commendando tutti, in tutti ritrovava cosa degna di lode. E perché aveva imparato da S. Bernardo che humiliatio via est ad humilitatem, perciò esercitavasi spesse volte in atti di umiliazione grandissima. Fu dessa, che un dì lo guidò a miei piedi, supplicandomi con lagrime agli occhi a volerlo tollerare altro poco, perchè come egli chiamavasi peccatoraccio miserabile ed indegno di più vivere. Effetti ancora della sua profonda umiltà erano le gentili e piacevoli maniere colle quali trattava con tutti e guadagniava il cuore di ognuno. Le fin qui accennate sue doti coronate furono da una pazienza invitta e fortezza grande nelle cose avverse e nei varii e molteplici incomodi a cui andava soggetto. Una condotta sì lodevole di vita da lui tenuta non solo nel chiostro, ma eziandio nel secolo in tempo di soppressione, non poteva non renderlo accetto e caro a questo convento, non che alla città, che l’ebbero per lo spazio di circa anni 40, nel corso dei quali conosciuto dal vigilantissimo monsignor vescovo Francesco Ansaldo Teloni, bene spesso lo onorava di sua venerata presenza, avendo alta stima delle sue nobili morali prerogative. Ad una vita accompagnata da tante virtù, non poteva non corrispondere una morte preziosa, quale in realtà fu la sua, mercechè placidamente spirò nel bacio del Signore, nella cui beatifica visione va tutto il fondamento di credere che l’anima sua venturata dolcemente si delizi. Perché però Iddio vede ciò che non vede l’uomo, e nelle sue bilance si pesano anche le giustizie, perciò ne porgo avviso alla Paternità Vostra Molto Reverenda affin si dia carico fargli apprestare tutti quei suffragi soliti a praticarsi pei nostri religiosi confratelli defonti. Colgo la presente circostanza per ossequiarla e protestarmi di Vostra Paternità Molto Reverenda. Macerata, S. Croce, 6 novembre 1843. Umilissimo ed affezionatissimo servo vostro F. Serafino da Castel d’Emilio”. [c. 11] Fin qui si è parlato delle virtù morali di questo esemplarissimo religioso, osserviamol’ora nei pregi della sua arte. 116

Nacque questo religioso in Coriano piccola terra vicina alla città di Rimini provincia di Romagna nello Stato della Chiesa, ove apprese i primi rudimenti de’ suoi studi, applicandosi anche al disegno, ove sembrava lo chiamasse la sua inclinazione. Vestì l’abito dei Minori Osservanti in Bologna avendo l’età di anni 16; e si chiamava al secolo Francesco Antonio Favini, concambiandolo in Religione con quello di Atanasio. Attese in quella dotta città ove era destinato di stanza a sempre più perfezzionarsi non solo nello studio delle lingua, ma nelle scienze sagre ed essenzialmente secondando il suo genio nel disegno specialmente della figura. Incominciò quindi a dipingere sotto eccellenti maestri, e già faceva conoscere che presto li avrebbe superati. Difatti dietro l’imitazione dei Tiziani, dei Correggi, e dei Guidi dette fuori in quella città le prime sue opere, che esposte al pubblico giudizio riportarono dagli intelligenti i maggiori elogi. Eletto in seguito lettore fra i suoi correligiosi passò a Parma, ove dedicossi pure alla predicazione senza però mai abbandonare il suo genio per la pittura di cui si occupava nelle ore di divertimento, e per cui in breve tempo divenne eccellente specialmente nel copiare le opere dei più rinomati artisti. Succeduta la rivoluzione francese ed invasa l’Italia dagli eserciti repubblicani, alcuni esaltati cittadini della provincia maceratese guidati dal fanatismo di varii imprudenti e presuntuosi, facendosi capi di fazione, osarono di fare resistenza alle falanci francesi, che presa la città di assalto nel giorno 5 luglio dell’anno 1799, dopo di aver saccheggiato le abitazioni e fatto crudo macello di tanti prodi cittadini, dettero fuoco ad alcune chiese fra le quali quella dei Minori Osservanti, ove si custodivano con la maggior gelosia varii quadri di eccellenti pennelli. Fu pertanto preda del fuoco una pittura colorita in legno per l’altare a sinistra nell’ingresso della chiesa, opera pregevolissima del divino Raffaele Sanzio di Urbino, ed i quadri in tela delle altre cappelle [c. 12] rappresentanti il Presepio, il S. Francesco che riceve le stimmate, il S. Pasquale ed il S. Diego rimasero così anneriti dal fumo per cui queste pitture di mani maestre furono del tutto rovinate. Cessato per allora il turbine delirante e ritornato alla sua Apostolica Sede il Supremo Gerarca, anche i religiosi si riunirono nei loro conventi. Fu in allora che il Provinciale dei Minori Osservanti chiese al Reverendissimo Superiore generale di quella rispettabile famiglia la


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traslocazione del padre Atanasio, perché dasse mano al restauro dei quadri di questa chiesa di S. Croce. Di buona voglia obbediva questo osservante religioso ai comandi del suo Generale, e giunto appena in questa città occupossi sull’istante ad osservare le pitture dei quadri della stessa chiesa, rammaricandosi assai di non poterne conservare alcuna per il pessimo stato, in cui erano tutte ridotte dal fuoco. Ideò pertanto di copiare il S. Francesco che riceve le stimmate ed il Presepio, e fu così felice in questo suo lavoro che le copie a nulla differivano dagli originali, per cui se si fosse ignorato l’incendio accaduto, nessuno si sarebbe accorto del loro cambio. Formò in appreso il quadro di S. Pasquale di tutta sua idea. Disegnò il S. Diego, che fu poi colorito dal sig. Felice Hercolani. Dipinse il S. Francesco in gloria nel volto della chiesa dei Padri Cappuccini reputato dagli intelligenti per un lavoro pregevolissimo, e quindi il S. Giovanni d’Acri nella prima cappella a cornu aepistolae della stessa chiesa. Fece pure di sua idea il disegno del quadro dell’altar maggiore dei Padri di S. Domenico, che fu poi colorito dal sig. Antonio Giacomini di questa città di Macerata. In tempo delle soppressioni del suo ordine minoritico, essendo chiuso il suo convento, dimorò in casa del marchese Valerio Ciccolini Silenzi, che lo volle presso di sé. Ivi dipinse il cuppolino dell’ingresso di quel suo palazzo imitando così bene le pitture del Tibaldi, che sono nel volto di quell’androne, che sembrano fatte dalla stessa mano. Riparò con molta intelligenza il dipinto del volto della chiesa dei Monaci Camaldolesi di Fabriano molto danneggiato per la caduta del coperto della tribuna, avendogli esso ridonata la primitiva sua bellezza [c. 13] coll’aggiungere anche alcune parti di sua idea, che erano del tutto deperite. Dipinse pure in casa Costa nell’appartamento del marchese Carlo alcuni quadretti nel volto di due camere reputati capo d’opera di quest’arte sublime. Molte altre sue opere ha lasciato in provincia, che sono di un valore inestimabile da esso fatte o gratuitamente o con compensi assai frivoli, essendosi una volta contentato di un semplice cappello di lana da religioso del tenuissimo valore di baiocchi trenta, o poco più, che egli richiese in pagamento di un quadro stragrande con molte intere figure di Santi da esso dipinto per una Confraternita di una terra vicina; in una parola, se egli cercato avesse l’interesse, avrebbe al certo potuto arricchire il suo convento, e

procurarsi quei commodi che esiggevano la sua età e la sua salute. Oltre poi alle opere pregevolissime da esso lasciate in pittura, sarà anche ricordato per i disegni del coro di questa sua chiesa di S. Croce, per il battisterio, pel baldacchino, per i candelieri ed altro mobiliare sacro da esso lasciato di sua invenzione, e disegno. Era in una parola un uomo sommo che godeva meritamente la stima dei più grandi artisti dei nostri tempi e per le sue rare virtù sociali avea un’affezzione la più sincera dei suoi correligiosi fratelli per l’osservanza la più esatta della regola dell’Istituto Serafico, ed una venerazione straordinaria da tutti quelli che ne conoscevano gli atti di estrema povertà, di umiltà, di pazienza, di carità, e di tutte le altre virtù cristiane, di cui era ripiena quell’anima grande, e per ciò se ne piange con ragione la perdita irreparabile fatta dalla Chiesa, dalla Minoritica Famiglia della Serafica Osservanza, e dall’intera civil società. Oh come furono ammirabili quegli ultimi momenti di vita di quest’uomo di Dio. Se ne stava questo venerando vecchio nel suo povero letticciolo, sereno, ilare, tranquillo e rassegnatissimo ai divini voleri. Soffriva i suoi gravissimi mali e dolori senza dare il minimo segno di impazienza. Per meglio godere della Divina Conversazione in questi ultimi preziosi momenti della sua vita amava starsene solo formando il più profondo [c. 14] silenzio colle creature, e così meglio ascoltare le dolcissime voci dell’amoroso suo Creatore. Figlio tenerissimo della sua madre Maria Santissima, mai lasciava di recitare in ogni giorno tutto intero il Rosario, santo costume che volle mantenere fino alla morte. Mostrò vivo desiderio di ricever di nuovo il Santissimo Viatico alla presenza di tutti i suoi correligiosi fratelli, e profittò di questa circostanza per domandare a tutti perdono dei cattivi esempi che la sua umiltà gli faceva credere di aver dati, e dopo una Comunione sì santa se ne stava tutto contento col suo Gesù nel cuore, e si vedevano in lui riflettere quelle grandi virtù di cui l’anima sua era sì ricca e sì bene l’adornavano e la sostenevano in quegli estremi. Cogli stessi pii e religiosi sentimenti richiese l’estrema unzione, ed il suo confessore vedendolo sempre più mancare gli diede l’assoluzione sacramentale, ed il servo di Dio placidissimamente, pieno di giorni e ricco di meriti acquistati colle virtù, penitenze e fatiche, al Cielo passò a riceverne il premio in seno alla beata eternità. 117



BIBLIogrAfIA cItAtA

V. Aleandri, voce Atanasio (frate) da Coriano, in U. Thieme, F. Becker, Allegemeines Lexicon del Bildenden Kunstler, II, Lipsia, p. 209 G. Angelini, In occasione del restauro dell’affresco di Francesco Mancini, Macerata 1988.

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Autobiografia di G.B. Bodoni, a c. di L. Servolini, Parma 1958.

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S. D’Amico, 1798-1998. Bicentenario della Parrocchia di Santa Croce in Macerata. Note storiche, Macerata 1998. F. Diotallevi, Nella Terra dei Fioretti. Memorie biografiche francescane della Prov. Minoritica Lauretana (1700-1935), Sassoferrato 1936, pp. 200-202. P. Fedeli, Biografia del p. Atanasio da Coriano, ms. del XIX secolo nell’Archivio Provinciale del Convento di Sant’Antonio, Bologna. D. Ferriani, schede in Il culto e l’immagine. San Giacomo della Marca nell’iconografia marchigiana, Milano 1998, pp. 135-136. F. Gambarini da Bologna, Memorie storiche di questo venerabile convento della santissima Nunziata presso Bologna dall’anno 1751 all’anno 1836, in “L’ Annunziata”, bollettino del Convento e della parrocchia dell’Annunziata di Bologna, a. XXVIII, n.s. a. XVI, n. 10 e seguenti. B. Giannini, La spada nel fodero, il B. Sante Brancorsini (biografia), Falconara 1988. Grafica riminese fra rococò e neoclassicismo. Disegni e stampe della Biblioteca Gambalunghiana, catalogo della mostra, Rimini 1980, pp. 159-160. Il culto e l’immagine. San Giacomo della Marca nell’iconografia marchigiana, a c. di S. Bracci, Milano 1998 Inventari dei manoscritti delle Biblioteche d’Italia, Forlì, Biblioteca A. Saffi, voll. XCIII, XVII, XCXVIII, Firenze 1979-1980. L. Lanzi, Storia pittorica dell’Italia dal risorgimento delle belle arti fin presso al fine del XVIII secolo, Milano (Bettoni) 1831. La Pinacoteca civica di Cento, Guida illustrata, a c. di F. Gozzi, Bologna 1987.

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La pittura. L’Accademia Clementina, catalogo della mostra, Bologna 1979, pp. 188-209.

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P.G. Pasini, Padre Atanasio Favini, pittore, in Coriano. Contributi per una storia locale, 1983, pp. 75-80.

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G. Ugolini, Iconografia del Beato Sante, in Il Santuario del Beato Sante a Mombaroccio di Pesaro, Ciclo di conferenze, a c. di G. Mandolini, Roma 1998, pp. 279-309.

P.G. Pasini, La pittura in Romagna, in L’arte del Settecento emiliano.

P. Zampetti, Pittura nelle Marche, IV, Firenze 1991.

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BIBLIogrAfIA cItAtA

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IndIce deI nomI

Achilli G. Affò I. v. Irnerio da Busseto Agnelli G. Agostino (santo) Amato Ronconi (beato) Angelini F. Antonio (Cianci) da Coriano Aleandri V. Armellini L. M. Ascoli Piceno, cappella vescovile Badinter E. Barabani F. Barry J. Batoni P. Battistelli F. Beato Angelico Beccatelli A. Belforte in Chienti (Macerata), chiesa di Sant’Eustachio Beltramelli A. Benedetto da Toro Benefial M. Bentini J. Bernucci A. Bertazzoli F. Berthier L. A. Bertozzi M. Biagi Maino D. Bicchierai A. Bisogni F. Boccaccino B. Bodoni G. B. Bologna Bologna, Accademia Clementina Bologna, chiesa e convento dell’Annunziata Bologna, chiesa e convento dell’Osservanza Bologna, Museo dell’Osservanza Bologna, Pinacoteca Nazionale Bonaventura da Coriano Bonfigli G. Borbone, Ferdinando di Bossi B. Bracci S. Brancorsini S. (beato) Brigliadori P. Brocco V. Bruschi G. Buralli Giovanni da Parma (beato) Caddero, A. C. Caldani D. Callegari G.

Calvi I. A. Camilleri R. Cammarota G. P. Campeggi G. Camuccini V. Cantarini S. Caracci Carducci G. Carpi (Modena), chiesa di San Nicolò Caterina d’Alessandria (santa) Caterina de’ Vigri (Santa) Cattolica (Rimini) Cecchi D. Celestino (Pesarini) d’Ancona Cento (Ferrara), Pinacoteca Civica Ciccolini V. Cignali C. Collina M. Colorno (Parma), chiesa di San Liborio Conca S. Contini C. Coriano (Rimini) Coriano (Rimini), palazzo Patrignani Correggio (A. Allegri) Cortesi G. Corvi D. Costa C. Cotignola (Ravenna) Cotoloni G. Courbet G. Cremona Crespi G. Creti D. D’Alembert J. B. D’Amico S. Dall’Acqua M. De Falco A. De Rossi P. De Santi G. Della Rovere F. Diderot D. Diego d’Alcalà (santo) Diotallevi F. Domenico Andrea di Albagina Domenico da Matelica Elleni L. Emilia Engels E. Fabbri G. Fabriano (Ancona), chiesa di Santa Caterina

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AtAnAsIo dA corIAno Faenza (Ravenna) Fancelli P. Fano (Pesaro), chiesa di Santa Maria Nuova Fantuzzi R. Fattore Nicolò (beato) Favini C. Favini G. Fedeli P. Fermentino (?) Ferrara, chiesa e convento di Santo Spirito Ferrari P. M. Ferriani D. Ferrigni D. Filottrano (Ancona) Fontainebleau (Francia) Forlì, Biblioteca civica A. Saffi Forlì, chiesa di San Francesco Francesco (Gambarini) da Bologna Francesco (santo) Francesco Antonio da Bologna Francesco Solano (beato) Francia F. Francucci I. (Innocenzo da Imola) Fronzoni D. A. Fulgenzio da Coriano Gandolfi G. Gaspari G. Gattei G. Gaudenzio (Patrignani) da Rimini (o da Coriano) Geremia da Roccascalegna Giacomini A. Giacomo della Marca (santo) Gianaroli O. Giani F. Giannini B. Giglioli S. Giovanni Carlo da Coriano Giovanni da Capistrano (Santo) Giuliani P. Giulio Romano Giuseppe Maria d’Alessandria Giusti F. Gozzi F. Greccio (Rieti) Gregorio Magno (santo) Guercino Guidarini. F. Hercolani F. Ireneo (Affò) da Busseto Lanzi L. Lazio Lazzarini G. Leonardo da Porto Maurizio (santo) Leonardo da Vinci Levoli N. Lombardi T. Lucatelli G. Lugo (Ravenna) Luigi Antonio da Parma Macerata Macerata, Biblioteca Comunale “Mozzi-Borgetti” Macerata, canonica della chiesa di Santa Croce Macerata, cattedrale Macerata, chiesa dei Cappuccini, ora cappella dell’Ospedale Civile Macerata, chiesa dei Domenicani Macerata, chiesa di San Giovanni Macerata, chiesa di San Paolo

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Macerata, chiesa e convento di Santa Croce Macerata, confraternita delle Sacre Stimmate di San Francesco Macerata, palazzo Buonaccorsi Macerata, palazzo Ciccolini Macerata, palazzo Costa Macerata, palazzo del Governo (Prefettura) Macerata, Regio Liceo Macerata, santuario della Madonna della Misericordia Magi F. Magi G. Manciforte D. Mancini F. Mandolini G. Mantova Maratta C. Marche Marcheselli C.F. Marengo (Mantova) Margherita da Cortona (santa) Marx C. Masetti Zannini G.L. Masucci A. Mazza A. Mengs R. Messori V. Michelangelo Buonarroti Michelangelo da Reggio Milano Miller C. Minardi T. Mombaroccio (Pesaro-Urbino). Santuario del Beato Sante Monfardini B. Montanari G.I. Montanari S. Monte San Giusto (Macerata), ex chiesa di San Francesco Montefabbri (Colbordolo, Pesaro-Urbino), chiesa parrocchiale Monteprandone (Ascoli Piceno), Santuario di Santa Maria delle Grazie Montironi A. Montorsi G. Mornati, fam. Mussini M. Muti L. Napoleone Bonaparte Napoli Napoli, convento di San Severo Maggiore Natali A. Odazzi G. Oretti M. Ortolani C. Paci L. Pagnanelli P. Pallotta, famiglia Parma Parma, Cattedrale Parma, chiesa di San Michele dall’Arco Parma, chiesa e convento della Santissima Annunziata Parma. Galleria Nazionale Parmigianino Pasini P. G. Pasquale (Frasconi) da Varese Pasquale Baylon (santo) Passeri G. Patrignani C. Patrignani D. A. Patrignani fam. Pedretti G. Pelicelli N.


IndIce deI nomI Pesaro Pesaro, chiesa di San Giovanni Battista Piacenza, Chiesa di San Lazzaro Picconi G. Pinto S. Pio VI papa Pio VII papa Pordenone G.A. Prati M. Pronti C. Raffaello Sanzio Ragusa (Dubrovnik, Croazia), convento di Mala Braca Ranganeschi C. Ravenna Reni G. Ricci A. Riccomini E. Rimini Rimini, Biblioteca Gambalunga Rimini, chiesa di San Francesco Saverio Rimini, chiesa di San Tommaso Rimini, chiesa e convento di San Bernardino Rimini, convento di Santa Maria delle Grazie Rimini, Museo della Città Roma Roma, chiesa e convento dell’Aracoeli Romagna Romani, fam. Rosa da Viterbo (santa) Rosaspina F. Rossena P. Rossi A. Rucellai B. Russo L. Salimbene de Adam Saludecio (Rimini), Archivio parrocchiale Saludecio (Rimini), chiesa di San Biagio Saludecio (Rimini), palazzo Magi Salvatori M. Santangelo A. Santarelli Savignano s. R. (Forlì-Cesena), Accademia dei Filopatridi Savona Scaglietti Kelescian D.

Serafino da Castel d’Emilio Servolini L. Sisto IV papa Soleri Brancaleoni G. Spada F. Spadarolo di Rimini, villa Cima Strambi V. M. (santo) Talamonti A. Tambroni G. Tavolini L. Tedeschi P. Teloni F. A. Tiziano Vecellio Tolentino (Macerata) Tolentino (Macerata), chiesa di Santa Maria di Loreto Tolentino (Macerata), palazzo Fidi (ora della Biblioteca Filelfica) Tommaso da Cori (beato) Tonini C. Toscana Treia (Macerata), Villa Angelini (poi Spada) Trevisani F. Triola S. Tumidei S. Turchi G. Ugolini G. Umile da Foligno Unterbergher C. Valadier G. Valence (Francia) Vanzolini G. Varotti G. Vasari G. Vaticano Venezia Vieira F. Vienna Viroli G: Viscardi G. B. Zamboni S. Zampa G. Zampetti P. Zannoni G. Zelli G.

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Fra Atanasio: illustrazioni 1. La formazione Pietro Melchiorre Ferrari, Il miracolo del paralitico, 1761 (particolare). Parma, Galleria Nazionale. Gaetano Callani, Sant’Antonio da Padova riceve il Bambino da san Giuseppe, 1781. Piacenza, Chiesa di San Lazzaro. Benigno Bossi, L’apparizione di Soriano, 1779 (particolare). Colorno, Chiesa di San Liborio. Benigno Bossi, San Marino (particolare). Colorno, Chiesa di San Liborio. Giovanni Fabbri, Un miracolo di San Diego (c. 1776), incisione su disegno di padre Atanasio, da un dipinto di Donato Creti. Rimini, Biblioteca Gambalunghiana. Padre Atanasio, La messa del Beato Giovanni Buralli da Parma, 1777-1778. Parma, Chiesa della SS. Annunziata, Padre Atanasio, Un miracolo del beato Sante da Mombaroccio. Montefabbri, chiesa parrocchiale. Ignoto, Un miracolo del beato Sante da Mombaroccio. Mombaroccio, Santuario del Beato Sante. 2. Tra Bologna e Parma Padre Atanasio, La messa del Beato Giovanni Buralli da Parma (c. 1780). Bologna, Convento dell’Annunziata, Padre Atanasio, La visione di Santa Caterina de’ Vigri (c. 1780), Bologna. Convento dell’Annunziata, Giuseppe Turchi, La Madonna con il Bambino, disegno. Savignano sul Rubicone, Accademia dei Filopatridi. Padre Atanasio, Santa Caterina d’Alessandria (c. 1780), Ragusa (Dubrovnik), convento di Mala Braca. Padre Atanasio, Sant’Agostino,1783. Cento, Pinacoteca Civica. Ignoto, L’estasi di santa Margherita da Cortona, incisione su disegno di padre Atanasio. Rimini, Biblioteca Gambalunghiana. Padre Atanasio, La Vergine con il Bambino fra il beato Amato e san Gaetano (c. 1785). Bologna, collezione privata. Padre Atanasio, Cristo risorto, sportello di tabernacolo. Bologna, Museo dell’Osservanza. Padre Atanasio, San Leonardo da Porto Maurizio (c. 1792). Rimini, Convento di San Bernardino. Ignoto, San Leonardo da Porto Maurizio, da un dipinto di padre Atanasio. Bologna, Museo dell’Osservanza. Padre Atanasio, La Vergine Bambina e i santi Anna, Gioacchino, Margherita da Cortona e Francesco di Paola (c. 1793). Parma, Chiesa di San Michele dall’Arco. Padre Atanasio, La Pietà con i santi Antonio da Padova e Luigi Gonzaga (c. 1793). Parma, chiesa di San Michele dall’Arco. Francesco Rosaspina, Ritratto di padre Andrea Mazza (c. 1795), incisione da un dipinto di padre Atanasio. Forlì, Biblioteca Civica, Coll. Piancastelli. Francesco Rosaspina, Ritratto di padre Ireneo Affò, incisione da un dipinto di Giuseppe Turchi. Forlì, Biblioteca Civica, Coll. Piancastelli. 3. La maturità Francesco Rosaspina, Maria santissima della Pietà, incisione su disegno di padre Atanasio. Rimini, Biblioteca Gambalunghiana. Padre Atanasio, San Pasquale Baylon (c. 1798). Rimini, Convento di San Bernardino. Padre Atanasio, Il Martirio di san Biagio,1800. Saludecio, Chiesa di San Biagio. Padre Atanasio, Un miracolo del beato Sante (c. 1801). Forlì, Chiesa di San Francesco. Padre Atanasio, San Francesco Solano battezza gli indigeni (c. 1801). Forlì, Chiesa di San Francesco. Giuseppe Soleri Brancaleoni, Sant’Emidio, 1788. Rimini, Chiesa di San Francesco Saverio. Giuseppe Soleri Barncaleoni, Madonna con il Bambino, 1805. Saludecio, Chiesa di San Biagio. Nicola Levoli, Natura morta, Rimini, Museo della Città. Stefano Montanari, L’estasi di San Francesco, Rimini, Museo della Città (in deposito dal Convento di Santa Maria delle Grazie). 4. Tra Roma e Macerata Padre Atanasio, L’incoronazione della Vergine, 1801-1804. Roma, Santa Maria in Aracoeli. Padre Atanasio, La Madonna che protegge la città di Roma, 1801-1804. Roma, Santa Maria in Aracoeli. Padre Atanasio, Santa Chiara d’Assisi, 1801-1804. Roma, Santa Maria in Aracoeli. Padre Atanasio, San Bernardino da Siena, 1801-1804. Roma, Santa Maria in Aracoeli. Padre Atanasio, San Pietro d’Alcantara. Roma, Santa Maria in Aracoeli. Padre Atanasio, L’estasi di san Francesco, copia da Agostino Masucci (c. 1805). Macerata, Chiesa di Santa Croce. Domenico Corvi, Natività, restaurato da padre Atanasio (c. 1805). Macerata, Chiesa di Santa Croce. Padre Atanasio, San Pasquale Baylon, Macerata (c. 1810). Chiesa di Santa Croce. Coro ligneo. Macerata, Chiesa di Santa Croce. 5. Nel Regno Italico Padre Atanasio, Giove e Giunone (c. 1812). Macerata, Palazzo Costa. Padre Atanasio, Venere e Vulcano (c. 1812). Macerata, Palazzo Costa. Padre Atanasio, Coriolano (c. 1812), Macerata, Palazzo Costa. Padre Atanasio, Soffitto della stanza di Giove (c. 1812), Macerata, Palazzo Costa. Padre Atanasio, Il trionfo di Venere (c. 1810). Tolentino, Palazzo Fidi. Padre Atanasio, La parete frontale della cappella (c. 1815-20). Ascoli Piceno, cappella vescovile. 6. L’ultima attività Padre Atanasio, Sant’Eustachio, 1817. Belforte in Chienti, chiesa di Sant’Eustachio. Padre Atanasio, San Pietro (c. 1815-20). Ascoli Piceno, Cappella vescovile. Padre Atanasio, San Paolo (c. 1815-20). Ascoli Piceno, Cappella vescovile. Padre Atanasio, San Andrea (c. 1815-20). Ascoli Piceno, Cappella vescovile. Padre Atanasio, San Filippo (c. 1815-20). Ascoli Piceno, Cappella vescovile. Padre Atanasio, Santi domenicani, esecuzione di Antonio Giacomini. Macerata, chiesa di San Paolo Padre Atanasio, San Francesco in gloria (c. 1830). Macerata, chiesa dei Cappuccini.


Padre Atanasio, Il beato Angelo d’Acri(c. 1830). Macerata, chiesa dei Cappuccini. Padre Atanasio, L’Immacolata (c. 1820). Rimini, Museo della Città (in deposito dal Convento delle Grazie), Padre Atanasio, La Madonna con il Bambino e i santi Lucia, Giovanni battista, Giovanni evangelista e Francesco (c. 1820). Pesaro, chiesa di San Giovanni Battista. Padre Atanasio, Il Perdono d’Assisi (c. 1820). Fano, chiesa di Santa Maria Nuova. Padre Atanasio, San Giacomo della Marca riceve in dono la “Madonna delle Grazie”, 1826-28. Monteprandone, Santuario di Santa Maria delle Grazie. Padre Atanasio, L’Immacolata fra i santi Bonaventura e Diego (c. 1825-30). Macerata, Chiesa di Santa Croce. Scolaro di Padre Atanasio, Ritratto del cardinal Francesco Bertazzoli (c. 1830). Lugo, Municipio. Padre Atanasio e aiuti, San Francesco riceve le Stimmate (c. 1835). Monte San Giusto, ex-chiesa di San Francesco. Padre Atanasio e aiuti, Santa Chiara riceve la Regola (c. 1835). Monte San Giusto, ex-chiesa di San Francesco. 7. La ‘fortuna’ Celestino Pesarini da Ancona (?), Ritratto di Padre Atanasio (c. 1845). Macerata, Chiesa di Santa Croce (canonica). Appendice I Frontespizio dell’opuscolo di padre benedetto da Toro Appendice II Frontespizio della biografia manoscritta di Antonio Natali


Finito di stampare nel mese di Novembre 2008 per i tipi della Tecnostampa srl, Loreto (AN)


I libri della Valconca P.G. Pasini, Piero e i Malatesti. L’attività di Piero della Francesca per le corti romagnole (1992)

Pier Giorgio

Pier Giorgio Pasini

Pasini

IL TESORO DI SIGISMONDO

E. Grassi, Giustiniano Villa poeta dialettale, 1842-1919 (1993) P.G. Pasini, Il crocifisso dell’Agina e la pittura riminese del Trecento in Valconca (1994)

e le medaglie di Matteo de’ Pasti

A. Bernucci – P.G. Pasini, Francesco Rosaspina “incisor celebre” (1995)

P.G. Pasini, Arte in Valconca dal Barocco al Novecento (1997) A. Fontemaggi - O. Piolanti, Archeologia in Valconca. Tracce del popolamento tra l’Età del Ferro e la Romanità (1998) P.G. Pasini, Emilio Filippini pittore solitario 1870-1938 (1999) E. Brigliadori – A. Pasquini, Religiosità in Valconca. Vicende e figure (2000) P.G. Pasini (a cura), Arte ritrovata. Un anno di restauri in territorio riminese (2001) Loris Bagli, Natura e paesaggio nella Valle del Conca (2002) A. Sistri, Cultura tradizionale nella Valle del Conca. Materiale e appunti etnografici tra Romagna e Montefeltro (2003) Oreste Delucca, L’uomo e l’ambiente in Valconca (2004) P. Meldini, La cultura del cibo tra Romagna e Marche (2005) P.G. Pasini, Passeggiate incoerenti tra Romagna e Marche (2006) C. Fanti, Pietre e terre malatestiane (2007) P.G. Pasini, Atanasio da Coriano frate pittore (2008)

Sono in vendita nelle migliori librerie; alcuni titoli sono esauriti

IL TESORO DI SIGISMONDO

P.G. Pasini, Arte in Valconca dal Medioevo al Rinascimento (1996)

BANCA POPOLARE VALCONCA

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Sigismondo Pandolfo Malatesta, uno dei più importanti signori italiani del Quattrocento, è stato capitano generale degli eserciti della Chiesa, di Firenze, di Napoli e di Venezia, guadagnandosi una grande fama di condottiero ed enormi ricchezze, che gli permisero di costituire a Rimini una importante corte letteraria e artistica. Ancora viveva, quando correva voce di un suo favoloso “tesoro” nascosto nelle mura di alcune rocche del territorio riminese: un tesoro cercato per secoli, e mai trovato. Effettivamente Sigismondo faceva nascondere qualcosa di strano nelle mura dei suoi edifici: ma non si trattava di tesori nel senso classico del termine, bensì di medaglie con la sua effigie, ritrovate, e in grande quantità, soprattutto nei restauri del dopoguerra. Medaglie in bronzo e in argento, squisite e preziose, tra le prime del Rinascimento, dovute al veronese Matteo de’ Pasti, stabilmente attivo alla corte riminese fino alla morte, che precedette di pochi mesi quella di Sigismondo (1468). Dopo aver fornito notizie sul presunto tesoro di Sigismondo, e sui vani tentativi di ritrovarlo, questo volume passa ad illustrare il vero tesoro: le medaglie di Matteo de’ Pasti, annoverate fra i capolavori della medaglistica rinascimentale; e si sofferma sul loro autore, sui loro ritrovamenti, sulla loro datazione, sul loro stile, sulla funzione loro affidata di diffondere la fama del signore presso i contemporanei e presso i posteri. L’apparato illustrativo offerto dal volume – frutto di una campagna fotografica appositamente condotta - permette di esaminare esemplari sicuramente autentici di medaglie pastiane e di approfondirne la conoscenza; e inoltre invita a riflettere su alcuni problematici risvolti dell’attività artistica del grande medaglista veronese e dell’arte alla corte di Sigismondo Malatesta, grande condottiero e grande quanto tirannico mecenate, vissuto in un momento di crisi e di trapasso tra l’autunno del Medioevo e la primavera del Rinascimento. Pier Giorgio Pasini si occupa di storia dell’arte rinascimentale fin dagli anni settanta, quando diresse la mostra “Sigismondo Pandolfo Malatesta e il suo tempo”, Rimini, Sala dell’Arengo, 1970. Già nel catalogo di tale mostra (edit. Neri Pozza, Vicenza) figurano i suoi primi studi su Matteo de’ Pasti, che poco dopo lo indussero a proporre una completa revisione della cronologia delle medaglie pastiane. Per questa si vedano i contributi portati al primo convegno internazionale di studio su “La medaglia d’arte” di Udine (10-12 ottobre 1970) e al symposium su “Italian Medals” della National Gallery of Art di Washington (29-31 marzo 1984), riproposti nel presente volume. Allo studio dell’attività di Matteo de’ Pasti l’autore si è dedicato anche in numerosi altri lavori riguardanti la civiltà umanistica fiorita alla corte malatestiana, e soprattuto nei seguenti: I Malatesti e l’arte, Silvana ed., Milano 1983; Piero e i Malatesti, L’attività di Piero della Francesca per le corti romagnole, Silvana ed., Milano 1992; Piero e Urbino, Piero e le corti rinascimentali, Marsilio ed., Venezia 1992; Cortesia e Geometria. Arte malatestiana fra Pisanello e Piero della Francesca, Luisè ed., Rimini 1992; Il Tempio Malatestiano. Splendore cortese e classicismo umanistico, Skira, Milano 2000. Infine ha scritto, con altre, la “voce” Matteo de’ Pasti per il Dictionary of Art, Macmillan Publishers Ltd, London, 2004.


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