Un senso di utile ordine

Un senso di utile ordine Arte contemporanea a Rivodutri Yukoh Tsukamoto - Culti del bosco 28 ottobre - 10 novembre 2012 Nito Contreras - LO SPAZIO DEL LIMITE 10 marzo -31 marzo 2013 Mathew McWilliams - Possibili impressioni 19 maggio - 2 giugno 2013 Ono Emiliani - Intrecciare, scorrere, fiorire 15 settembre - 30 settembre 2013

Una rassegna a cura di Luca Arnaudo e Barbara Pavan Organizzazione esecutiva a cura di Studio Evento

Testo in catalogo di Luca Arnaudo English texts at the end of the catalogue

Foto in catalogo di Filippo Maria Gianfelice

Studio Evento editore

Acqua, arte, fuoco. MEMORIE di Rivodutri.

La presentazione, l’introduzione, l’incipit insomma è compito e privilegio del Sindaco che ha voluto questo percorso di arte, che ha voluto percorrerlo alla ricerca di senso, che ha scelto di fare un esperimento nel comune di Rivodutri. Non sarà però una introduzione troppo istituzionale, forse perché questa esperienza, così fortemente intrisa di emozioni, mi ha insegnato che è proprio la passione che deve guidarmi anche nelle occasioni formali. Più che di un esperimento, forse, si è trattato di una vera e propria sfida per il nostro territorio: per una volta Rivodutri ha alzato la testa per guardare il mondo e lasciato andare i pensieri, all’improvviso ritrovandosi a pensare in grande. Così, in fondo, è nato questo progetto.

Il nostro è un piccolo comune con grandi risorse, in parte note e in parte ancora da valorizzare appieno. Ci è voluta una bella intuizione congiunta di più persone, che grazie ad un reciproco affidarsi si sono messe in gioco per questo progetto. Chi ci avrebbe scommesso all’inizio? Ma dopo qualche incontro l’idea ha preso strada, riempiendo i sogni miei e degli altri amministratori. E così a Rivodutri è arrivata, con l’autunno 2012, Yukoh Tsukamoto. La legittima curiosità mista a perplessità dei nostri cittadini è stata ampiamente ripagata dalla sensazione avvolgente dell’ingresso nella sala consiliare: sembrava di entrare nel nostro bosco, al “cepparo”, sembrava davvero di stare in montagna, all’ombra del faggio. La stessa sensazione di appartenenza ai luoghi ce l’ha data anche Nito Contreras: gli abitanti del paese hanno ritrovato nelle sue opere le proprie case, le strade che percorrono ogni giorno. Con Mathew McWilliams è stato un po’ più difficile scovare il filo conduttore, ma una volta chiarito che tutto partiva dagli affreschi della nostra chiesa parrocchiale, i visitatori ormai avvezzi alle mostre si sono fatti prendere per mano e guidare attraverso il frottage. Con Ono Emiliani poi, c’è stata la sorpresa finale, quasi percepibile il movimento dell’erba e lo scorrere dell’acqua della nostra sorgente di Santa Susanna in mezzo alla stanza, immersi nelle sue opere. È stata una esperienza importante per questo territorio, una prova di valore, un’apertura al mondo dell’arte di alto livello alla quale la popolazione ha risposto dapprima con semplice curiosità, poi con attivo interesse.

Le mostre sono diventate un appuntamento atteso anche da molti non addetti ai lavori, occasione di incontro e confronto di arti e culture diverse. Ringrazio, dunque, tutti coloro che con noi ci hanno creduto, senza i quali questo volume non avrebbe potuto essere nelle vostre mani a futura memoria di passione, tecnica e bellezza.

Barbara Pelagotti, sindaco di Rivodutri

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Il paese se ne sta silenzioso, alto, oltre lo sguardo che lo cerca risalendo per la strada tra i boschi, apparentemente indifferente all’arrivo di estranei. La storia, da queste parti, ha abituato a un simile distacco, scorrendo da più di un millennio insieme all’acqua: stando a certe carte risalenti all’anno 1010, un tale Transarico di Manfredo di Rieti sarebbe stato infatti tanto generoso da donare all’abbazia di Farfa del terreno nei pressi di Utri, ora corrispondenti a Rivodutri, e c’è chi specula che il nome del luogo derivi proprio dall’essere “rivus utrinque”.

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Tra due ruscelli, dunque, se ne stanno una terra, un paese e, in base all’ultimo censimento, poco più di mille abitanti, appartati ma non per questo troppo esclusi dal corso delle cose che passa abitualmente sotto il nome di mondo – e tiene insieme spazi e tempi, guerre e paci, santi, profani, arti, mestieri, distruzioni e costruzioni.

L’abitudine e meraviglia, insomma, di essere vivi.

A proposito di santi, risulta che uno dei più famosi asceti della storia occidentale, Francesco, proprio a Rivodutri passò e vi trovò riparo. Una tradizione diffusa vuole addirittura che il futuro patrono d’Italia, meglio tacendo qui quanto poco efficacemente possa aver svolto di recente il suo lavoro, si trovò sorpreso da un temporale tra i boschi sopra Rivodutri, e un faggio allora si piegò gentilmente a fargli da ombrello.

Chi sia in vena di passeggio troverà davvero, poco fuori dal paese, un maestoso faggio selvatico sviluppatosi in orizzontale, e pare che solo altri due esemplari – almeno secondo quanto sostiene l’ente del turismo che, sotto l’insegna del “Cammino di Francesco”, di recente sta cercando di avviare dalle parti di Rieti rotte mistico-turistiche stile “Camino de Santiago” – gli si avvicinino per grandezza e bellezza di mutazione rispetto all’ordinaria verticalità della specie: per vederli, tuttavia, bisogna andare perlomeno in Inghilterra. Per tornare al monumento botanico nostrano, l’albero ha meno di trecento anni, dunque difficilmente potrebbe reggere la storia di San Francesco appena richiamata. Del resto, il tempo è relativo, e non è detto che qualcosa di sacro non ci sia nel faggio e nei boschi che circondano Rivodutri.

Una sacralità naturale, che si offre liberamente a chi con buona volontà giunga in questi luoghi, vi sosti un tempo, quindi prosegua il suo cammino.

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Si diceva pure, qualche riga fa, di tempi e spazi. Ora, mentre più o meno affannosamente inseguiamo la freccia del nostro tempo lungo i suoi improvvisi, la natura ruota periodica intorno a un luogo. Gli anelli delle stagioni e la catena così composta passano spesso inavvertite, e questo è un peccato, ma è pur vero che vi sono entità capaci di creare una concentrazione, conferendo nel cerchio una collocazione anche al nostro punto di vista, di vita: l’arte, è una di tali entità.

Per farla breve, l’idea di invitare a soggiornare e poi esporre a Rivodutri quattro artisti lungo altrettante stagioni è sorta proprio dal sentimento di un raccoglimento necessario, dal tentativo di condensare l’attenzione su una serie di forme che, nella loro individuale transitorietà, finiscono per definire qualcosa di più generale e durevole.

Attraverso le mostre degli artisti passati per il paese qualcosa è così avvenuto nel moto quotidiano del luogo, come quando in uno scambio lungo i binari un veicolo si trova a mutare direzione, ed è propriamente in tale scambio che la prosecuzione del movimento trova il suo significato.

Con l’autunno, dunque, è arrivata Yukoh.

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Yukoh Tsukamoto da anni vive tra il Giappone d’origine e l’Italia d’elezione, in un equilibrio sottile di sensibilità che l’artista combina al meglio quando, a partire dall’esperienza della natura, si dedica a svelare come al di sotto della frammentarietà delle apparenze ogni cosa sia connessa. Sulla scena artistica degli ultimi decenni i tentativi di approfondire una simile consapevolezza spirituale sono stati frequenti, con esiti che – seppure spesso estemporanei, zoppicanti tra uno sciamanesimo da primo mondo e giardinaggio escursionistico – tradiscono un’aspirazione più ampia a rinnovare la percezione di un animismo primigenio. La cultura giapponese, dal canto suo, mostra al proposito una predisposizione straordinaria, raffinata attraverso i millenni di quella singolare religione naturale che è lo Shinto, e che Yukoh ha sviluppato nella sua arte fino a sciogliere i confini ordinari tra contemplazione spirituale e oggetto materiale.

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Giunta nella tarda estate del 2012 a Rivodutri per un sopralluogo di alcuni giorni, l’artista ha camminato tra i boschi che circondano il paese, sostato a lungo accanto al faggio di Francesco, ne ha raccolto piccoli rami spezzati e altre testimonianze caducamente stagionali per riportarle con sé nel suo studio milanese.

Ha quindi rianimato tali tracce in una serie di opere che, una volta presentate in pieno autunno, a novembre, nella sala consiliare del paese, hanno riempito di meraviglia gli abitanti e gli altri convenuti.

Tutto è sacro, per lo Shinto, abitato com’è da Kami, presenze spirituali che nei luoghi naturali in genere e nei boschi in particolare trovano le loro dimore d’elezione, partecipando di una comunione dinamica fatta d’infinite, vive relazioni. Proprio per questo, credo, le incisioni di Yukoh realizzate a partire da una piuma d’uccello raccolta per terra, i suoi disegni a china dai tratti organicamente affini nello scorrere sulla carta alla linfa degli alberi, le minuscole teche, costruzioni di rami e fili da appendere come giocosi amuleti hanno potuto cogliere e restituire con tanta raffinata semplicità lo spirito di un luogo ben determinato come Rivodutri, rinviando al contempo a una dimensione genuinamente universale. Sul grande

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tavolo della sala comunale, a completare una simile comunione, Yukoh ha infine imbandito un pasto ideale fatto di foglie, ghiande, bacche, disposti in stoviglie modellate nella terracotta: e più di uno dei presenti si è trovato a pensare quanto diverso, quietamente pacificatore fosse così diventato lo spazio rispetto a quello dove, di solito, i consiglieri comunali si trovano a discutere, accapigliandosi intorno al medesimo tavolo.

Cosa cambia, rispetto a esposizioni allestite dentro un museo o una galleria, quando si porta l’arte nella struttura spaziale e vitale di un paese, di una comunità, utilizzando ambienti normalmente destinati ad altri usi? Quella dello spazio bianco, negli studi di museologia, è ormai una vecchia questione (le seminali riflessioni critiche di Brian O’Doherty sul “cubo bianco” risalgono al 1971), che però, riconsiderata mentre per disporre un’opera si combatte col colore improbabile delle pareti di una sala comunale o le complicate volumetrie di una chiesa, assume una valenza nuova, proiettata in una dimensione sociale dell’arte spesso trascurata. Durante le quattro

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mostre stagionali a Rivodutri sono stati prima di tutto gli abitanti del paese a considerare le opere degli artisti, convivendovi nella quotidianità anche dopo le inaugurazioni, e questo secondo modalità percettive assai diverse da quelle tipiche degli ordinari spettatori d’arte contemporanea. Quanto all’esperienza personale di chi ora scrive, rimangono impressioni inusualmente vive, difficili da inquadrare nelle ordinarie interazioni espositive: per esempio quella dei bambini del paese che, alla seconda inaugurazione, pensavano si trattasse della stessa esposizione già vista mesi prima, e una volta scoperta invece la novità, entrarono a osservare le opere con divertita meraviglia.

Una meraviglia quasi pari a quella dell’artista canadese che, all’apertura della sua mostra, si ritrovò quegli stessi bambini di nuovo presenti, accompagnati da un luminescente scarabeo al guinzaglio.

Non saprei dire, francamente, cosa resterà a Rivodutri di una simile successione di attività e d’incontri, né esprimermi sulla loro coerenza rispetto al vivere ordinario dei suoi abitanti. Se non altro non si è trattato di una replica delle occasioni individualistiche, spesso feticistiche, tipiche del consumo culturale in uso nei grandi centri, e proprio l’operare ripetuto in uno spazio reale, fortemente pre-condizionato dalla trama minuta delle esistenze residenti, pur nelle sue innegabili difficoltà organizzative ha determinato una diversa articolazione di senso dell’insieme. La vita, del resto, non si svolge mai in uno spazio completamente bianco. E niente, nessuno è mai del tutto isolato.

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Passa l’autunno, i monti del Reatino si coprono di neve, giunge l’inverno e con lui Nito Contreras.

Scultore dalla formazione filosofica (da qualche parte ha ancora il diploma di laurea di una prestigiosa università pontificia), Nito vive tra l’originaria Galizia, nel nord della Spagna, e quella selva di pietra e macchine che è Roma: passato per Rivodutri in un intervallo di questi suoi movimenti, l’artista ha deciso di percorrere – per la preoccupazione di Barbara e Marinella, la curatrice di Rieti e l’albergatrice di Rivodutri che non riuscivano a localizzarlo – gli ultimi chilometri a piedi, sotto una nevicata leggera che ha trasformato il paesaggio circostante in uno sterminato foglio bianco a disposizione dell’immaginazione.

Ora, per avvicinarsi all’opera di Contreras è utile richiamare le confessioni rilasciate da un suo dichiarato riferimento, lo scultore Eduardo Chillida: “posso operare in campi molto diversi, ma quel che ha affinità con l’arte, quel che hanno in comune tutte le arti, è che sono costrette a presentare due componenti che contemporaneamente non possono mancare: la poesia – è necessario che esista la poesia – e la costruzione.

In caso contrario, non si dà arte”. E ancora: “Esistono limiti per lo spirito? Grazie allo spazio esistono limiti nell’universo fisico e io posso essere scultore. Nulla sarebbe possibile senza questo rumore di limiti e senza lo spazio che li permette”. Nei lavori realizzati e presentati a Rivodutri, come del resto in tutta la sua ricerca, Nito agisce precisamente nei territori dell’immaginazione che intercorrono tra i due elementi appena citati, la poesia e la costruzione, operando sugli spazi che i limiti rappresentano, ed è in questi ambiti inattesi che erige le sue sculture, sempre più svincolate dai materiali e i mezzi che a tale arte tipicamente si associano.

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A Rivodutri l’artista ha studiato le forme del paese, quindi le ha trasfigurate in una serie di sculture da parete dove minuscole pietre, inserite in superfici immacolate, scandivano ritmi ricavati dalla topografia del centro urbano, oppure dove tagli e sovrapposizioni di lastre metalliche componevano motivi visivi simili a linee di livello del paesaggio circostante. Ne è risultata una collezione di mappe per luoghi indecisi tra la mente e il territorio, affiancata da un video in cui la fisionomia generale del borgo veniva sovvertita con l’inserimento immaginario di grandi sculture pubbliche, ed è avvenuto che, durante l’inaugurazione, diversi abitanti abbiano chiesto quando finalmente avrebbero potuto trovare davanti alle loro case quelle sorprendenti strutture.

Mentre rinviavo divertito al sindaco per maggiori lumi amministrativi in proposito, accompagnavo intanto altre persone nella piazzetta panoramica dietro l’arco alchemico dove Nito era intento a tracciare il disegno dei reticoli stradali di Rivodutri su alcune pietre – e già dopo poche ore molti di tali petroglifi contemporanei erano rotolati nelle tasche di qualche visitatore furtivo. Anche questa, del resto, per Nito è scultura: la costruzione poetica di un modo nuovo di vedere, insediato nello sguardo e nelle vite dei passanti.

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Il fuoco è una vecchia storia.

Io vorrei con un senso di utile ordine, nel rispetto delle leggi della natura, aiutare la mia terra con un incendio, un caldo incendio purificatore

Il titolo della rassegna, Un senso di utile ordine, è stato generato da verso di Gary Snyder, il grande poeta americano che, dopo aver battuto le strade californiane insieme all’amico Jack Kerouac – il personaggio di Japhy Ryder, ne I vagabondi del Dharma, è un affettuoso ritratto proprio di Snyder – andò a cercare la sua via in un monastero giapponese.

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Il fuoco, dice dunque il poeta, è una vecchia storia che gli serve per parlare di un’ambizione di rinnovamento: una volontà per nulla distruttiva o iconoclasta, anzi rispettosa delle leggi naturali, volta ad aiutare la propria terra con un caldo incendio purificatore, animato da un senso di utile ordine. Potrà apparire ingenuo e discutibile, ma chi scrive ritiene che l’arte possa essere simile a un tale incendio, perché come il fuoco, se ben impiegata, è in grado di rinnovare, rigenerare una terra. Un simile mutamento può avvenire, tuttavia, solo attraverso una partecipata attenzione, lontano da commerci che necessariamente condizionano il senso di un’attività, per opera di esseri animati da intenti genuinamente ri-creativi e che, come nel gioco delle parole appena consumato, sciolgono il pregiudizio comune secondo cui l’arte sia un’occupazione da tempo libero nella dimostrazione che essa serve invece a liberarlo, rinnovando lo spazio che si trova ad attraversare.

Anche quello appartato di un paese, stretto tra boschi e due corsi d’acqua.

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Mi racconta Luca Vannozzi, memoria storica di Rivodutri e illustratore egregio, che l’arco alchemico situato al centro del paese, lungo la salita di via Umberto I, ha subito più revisioni di una manovra finanziaria della nostra difficoltosa repubblica, e che nulla della sua storia, a parte l’enigma, è certo. Il monumento risalirebbe in effetti al XVI secolo, sarebbe stato a lungo inserito nella facciata di un edificio adibito a scuola, poi, dopo il terremoto che il 31 dicembre 1948 distrusse larga parte del paese, smontato e conservato in un magazzino comunale fino ai primi anni Novanta, quando è stato riassemblato nella sua posizione attuale.

A varcarlo, mentre lo sguardo è già tutto preso del balcone panoramico che s’apre nel giardino retrostante, si rischia di non prestarvi l’attenzione che merita, barattando le trasmutazioni alchemicopsichiche di cui l’arco narra nei suoi bassorilievi con quelle più naturalistiche del paesaggio che incornicia. Per fortuna, altri meno inosservanti (tra cui lo stesso Vannozzi) hanno scritto ponderosi saggi sulle allegorie delle stagioni e degli elementi fondamentali, le conoscenze ermetiche e i simboli che incorpora nella pietra – simboli condivisi, pare, solo con un’altra porta del genere, quella nascosta tra gli alberi e i rifiuti dei giardini di piazza Vittorio a Roma. Nelle ultime quattro stagioni, come per opera di un’ulteriore alchimia, degli artisti hanno poi attraversato l’arco per sporgersi su visioni personali dei continui mutamenti che animano il mondo, offrendone le tracce agli abitanti di quell’angolo di questo stesso mondo dove l’arco, per un inspiegato incanto, si trova.

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Si diceva, qualche riga fa, di come uno dei privilegi dell’arte consista nel suo saper rinnovare lo sguardo. Se ciò è sempre stato vero, l’arte contemporanea ha tuttavia aggiunto una caratteristica ulteriore di sovvertimento, spesso fraintesa: il riferimento è alla sua assenza di gerarchie operative, con la conseguente legittimità di ogni pratica e strumento cui gli artisti decidano di far ricorso. Questo rinnovamento dello sguardo può avvenire nei modi più diversi – per paradosso anche velando una cosa, escludendola dall’ordinaria inavvertenza e proprio così rendendola più visibile – ma sempre alla luce di un’originaria capacità di meraviglia che, nei suoi esiti migliori, collassa percezioni e riflessioni in un’irripetibile singolarità (Socrate, almeno secondo il resoconto offerto da Platone nel suo Teeteto, sosteneva che origine della filosofia è propriamente la meraviglia, e non pare dunque un caso che tanta parte dell’arte contemporanea finisca per coincidere con operazioni schiettamente immateriali ed eidetiche, insomma filosofiche).

A primavera, mentre i boschi intorno al paese prendevano a respirare sempre più verdi, gli abitanti di Rivodutri hanno avuto occasione di sperimentare una simile meraviglia col passaggio dell’artista canadese Mathew McWilliams.

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McWilliams si è dedicato a lavorare sui bassorilievi dell’arco alchemico e alcuni antichi affreschi – presumibilmente di scuola umbra del XIV secolo – presenti nella parrocchia locale, dove sono stati inseriti dopo essere stati recuperati in forma frammentaria dalle rovine di una cappella abbattuta dal terremoto del ‘48. Con tutte le cautele del caso McWilliams ha realizzato delle copie per sfregamento di tali affreschi e rilievi, quindi ha lasciato i primi coperti dal loro calco di carta in chiesa ed esposto al contempo alcune “carte fregate” presso la sala consiliare, di nuovo improvvisatasi spazio espositivo tra una riunione e l’altra del consiglio comunale. Qui, l’artista ha pure usato la forma ad arco del tavolo per reinventare – una volta di più rispetto alla sua storia materiale – l’arco alchemico, con una giocosa permutazione dei calchi dei rilievi.

La tecnica impiegata da Mathew, nell’arte contemporanea indicata come rubbings o frottage, è nota ai bambini sin dai tempi della scuola (tutti noi, credo, abbiamo calcato una foglia o una moneta fregando sulla carta con un pastello di cera) e ai maestri della stampa cinese da qualche migliaio di anni, ma proprio per questa usata semplicità colpisce quanto con essa l’artista abbia saputo reinventare a Rivodutri la percezione degli oggetti originari, creando per così dire degli originali dal passato. Così, mentre le opere esposte in Comune sono diventate per gli abitanti degli atlanti immaginari – e c’era chi, guardandole, scambiava i bordi degli affreschi col disegno di un lago o un monte della zona – i tenui campi monocromi delle grandi carte rimaste appese in chiesa portavano a interrogarsi sulle forme sottostanti: e c’era chi, magari alzando gli occhi durante un sermone domenicale, scopriva di non aver mai notato prima quelle figure di malinconica bellezza, immobilizzate da secoli in un sottile strato di affresco prima di venire rianimate, per qualche tempo almeno, da un artista straniero di passaggio.

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L’Italia, solo a uscire dalle rotte autostradali o dall’alta velocità ferroviaria che sta condannando a una lentezza disagiata le zone da lei disdegnate, è fatta di posti come Rivodutri: piccoli borghi dalla popolazione decrescente, spesso provati tanto dalle distruzioni di guerre e terremoti quanto dalle successive ricostruzioni, ricchi di tesori d’arte e natura poco noti e ancor meno frequentati. La somma di simili luoghi, dove più forte capita di percepire il sentimento della bellezza profonda di un paese e insieme l’urgenza d’interromperne un corso mediocremente decadente, ha potenzialità ancora tutte da scoprire. Per questo, in Italia, erigere algidi contenitori per l’arte contemporanea rappresenta, prima ancora che una discutibile allocazione di risorse scarse, un’incomprensione di quanto il contemporaneo sia sempre necessariamente il prodotto di ciò che l’ha preceduto, e che solo in uno sviluppo armonicamente consapevole di tempi e spazi, dove il passato e il presente si tengano insieme guardando al futuro, può darsi una vita buona, individuale e collettiva. Come l’arciere dell’affresco custodito nella parrocchia

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di Rivodutri senza il suo bersaglio (un afflitto San Sebastiano, con ogni probabilità) rimane isolato in una storia irrisolta, così è per un paese cui sia stato sottratto il senso del suo insieme e delle sue prospettive. L’arte, di questo insieme, è una parte, e può aiutare talvolta a riaffermarlo, o almeno a riconsiderarlo. E poi, ha ragione Francis Alys (di cui ho trovato l’affermazione aprendo un libro donatomi da Mathew, dopo la sua mostra a Rivodutri): “talvolta fare qualcosa di poetico può divenire politico, e talvolta fare qualcosa di politico può divenire poetico”.

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Dopo aver svolto un sopralluogo di qualche giorno a luglio, Ono Emiliani ha inaugurato la sua mostra a metà settembre, dell’estate di Rivodutri sperimentando in questo modo sia la luce calda dell’avvio di stagione che quella finale, ormai scesa malinconicamente a patti col clima piovoso dell’autunno. Di tale variare, del fertile alternarsi di secco e umido che regge l’ordine della natura l’artista ha trattenuto un principio creativo potente, rifacendosi alla trama dei vegetali, allo scorrere dell’acqua, al fiorire del paesaggio per realizzare una serie di opere genuinamente aperte, tra loro componibili.

darsi nel fiorire di un prato: di fatto, in qualche modo esiste una continuità tra simili occasioni, forse reminiscente delle passeggiate consumate da Ono lungo i sentieri che scorrono intorno alle sorgenti di Santa Susanna, ai piedi di Rivodutri, e da cui l’artista si è spinto anche per raggiungere alcuni degli eremi fondati da San Francesco nei boschi della zona, segnandone poi i profili in una serie di essenziali miniature astratte.

Quanto all’esperienza di un’arte, una natura e una presenza costruttiva dell’uomo così riunite, l’avvicina al meglio una coscienza che, per riprendere le parole di un grande mistico dei nostri tempi, Thomas Merton, “non cerca di adattare le cose a strutture artificialmente preconcette. Non giudica il bello e il brutto secondo i canoni del gusto – anche se ha un gusto suo proprio. Sembra che giudichi e distingua, ma lo fa solo quanto basta per indicare il puro vuoto che è al di là del giudizio”. Si tratta di una coscienza, viene solo da aggiungere, che i quattro artisti passati per Rivodutri hanno senz’altro contribuito a sviluppare in chi ha incontrato le loro persone, o le opere che hanno lasciato leggeri dietro di sé.

Per molti versi l’intervento di Ono è stato una sintesi anche dei passaggi degli artisti precedenti, riecheggiando insieme la sensibilità orientale per le forme organiche di Yukoh, la capacità di osservazione dei luoghi di Nito, l’estro spiazzante di Mathew. Il risultato è stato un ciclo di pitture su tela raccolto all’interno della sala consiliare, affiancato all’esterno da una miriade di piccoli pastelli appesi intorno alla fontana pubblica del paese come bandiere votive prese a segnalare che di ogni luogo, solo a volerlo e a prestarvi cura, si può scoprire o rinnovare lo spirito – il poeta Wendell Berry, buon amico di Snyder, ha scritto che “non ci sono luoghi privi di sacro; / ci sono solo luoghi sacri / e luoghi dissacrati”, il che vale per Lhasa come per un paese dell’entroterra laziale.

L’immaginario visivo di Emiliani, dunque, è retto da un proliferare di segni capace di trascendere il mero supporto delle singole tele e rendere ogni opera, solitamente intesa come in sé compiuta e isolata, veicolo di un fluire più ampio, dove gli elementi trovano una propria dinamica soluzione. Non c’è progetto, qui, più di quanto non possa

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NOTE

Quattro stagioni hanno ruotato intorno a Rivodutri, persone prima ignare della stessa esistenza di questo piccolo paese l’hanno raggiunto, vi hanno sostato e meditato, definendo così un tratto del proprio percorso esistenziale; altre persone ancora, che in questo luogo vivono da sempre, hanno scoperto di non conoscerlo del tutto, forse addirittura poco, e preso a immaginarlo diversamente. Ora è tempo per tutti di proseguire, ma in questi attraversamenti e incontri, nella somma degli infiniti elementi così attivati e di cui non è dato intendere le combinazioni che continueranno a darsi e propagarsi con un senso – davvero, si spera – di utile ordine, qualcosa è stato scambiato. Qualcosa è cambiato, lasciato al gioco delle altre stagioni che verranno.

Luca Arnaudo Roma, dicembre 2013

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I documenti citati a proposito della fondazione di Rivodutri e del faggio di san Francesco si ritrovano in internet, insieme a una bibliografia di riferimento (http://www.rivodutri.org; http://www.camminodifrancesco.it/le_tappe_del_cammino/il_faggio.php).

Il richiamo alle riflessioni di O’Doherty sul “white cube” deriva dal bel saggio di Kevin Hetherington, The Empty gallery? Issues of subjects, objects and spaces, in Museum and Society, vol. 8, n. 2, 2010, pp. 112 ss.

Le citazioni di Chillida sono tratte da Eduardo Chillida (a cura di Stefano Esengrini), Lo spazio e il limite. Scritti e conversazioni sull’arte, Marinotti, Milano 2010, pp. 55-32.

La poesia di Gary Snyder riportata parzialmente nel testo s’intitola Incendi controllati e si trova nella raccolta di scritti (a cura di Chiara D’Ottavi), L’isola della tartaruga, Stampa Alternativa, Viterbo 2004, p. 46.

Le informazioni sulla porta alchemica di Rivodutri sono state colloquialmente fornite da Luca Vannozzi, co-autore (insieme a Valerio Leoni e Monica Sampalmieri) di uno studio in materia pubblicato nel Bullettino della Deputazione Abruzzese di Storia Patria, 1995, ora disponibile anche on-line (http://www.rivodutri.org/l’arco.htm).

Per le riflessioni di Socrate su filosofia e meraviglia si veda Platone, Teeteto, 155d. Una trattazione magistrale dei rapporti tra arte e meraviglia é offerta da Philip Fisher, Wonder, the rainbow, and the aesthetics of rare experiences, Harvard University Press, Cambridge Mass. 1999, pp. 12 ss.

La citazione di Francis Alys si ritrova in una sua conversazione con Russell Ferguson, riportata nel volume (curato da Cuauhtémoc Medina, Russell Ferguson e Jean Fischer), Francis Alys, Phaidon, Londra 2007, p. 40.

Il verso di Wendell Berry è tratto dalla poesia How To Be a Poet (to remind myself), in Poetry Magazine, n. 3, 2001, p. 270 (http://www. poetryfoundation.org/poetrymagazine/poem/30299).

Per Thomas Merton si veda, infine, il suo Lo studio dello zen, in Lo zen e gli uccelli rapaci, Garzanti, Milano 1992, p. 16.

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Yukoh Tsukamoto Culti del bosco

28 ottobre - 10 novembre 2012 Yukoh Tsukamoto è nata a Osaka, in Giappone, e vive a Milano.

Laureata in pittura, e successivamente specializzata in incisione, presso l’Università di Musashino a Tokio e l’Accademia di Brera a Milano, insegna litografia presso l’Università di Kinki, a Osaka, dove ha anche fondato la scuola d’incisione Atelier 410lito. Da anni espone con frequenza, soprattutto in Italia e Giappone: tra le più recenti personali si segnalano quelle presso la galleria Neo Geo Arte di Milano (2009), Lads Gallery di Osaka (2009), la galleria Atelier di Roma (2010), la Galleria Ban di Osaka (2011), la Galleria Studio7 di Rieti (2012), il Complesso Monumentale Sant’Anna in Locorotondo (2013).

Yukoh Tsukamoto was born in Osaka, Japan, and lives in Milan.

Yukoh graduated and then specialized in engraving at the Musashino University,Tokyo, and Brera Academy, Milan; she teaches lithography at Kinki University, Osaka, where she also founded the engraving school Atelier 410lito. The artist has had several exhibitions, mostly in Japan and Italy. Among the most recent solo exhibitions are: NeoGeo Galley in Milan (2009), Lads Gallery in Osaka (2009), Atelier Gallery in Rome (2010), Ban Gallery in Osaka (2011), Studio7 Gallery in Rieti (2012), Monumental Complex of Sant’Anna in Locorotondo (2013).

una piuma di uccellino vivo e cinguettante

disegno a china nera giapponese su cartoncino, cm53x39, anno 2012

una piuma di uccellino vivo e cinguettante sul faggio

disegno a china nera giapponese su cartoncino con piuma, cm53x15, anno 2012

omaggio al faggio di San Francesco

tecnica mista, china e pigmenti su seta antica, cm 40Ă—55, anno 2012

il faggio di San Francesco, particolare

disegno a china nera giapponese su cartoncino, cm 39,5x50, anno 2012

una serie di rivelazioni nel bosco - erbe

tecnica mista su seta antica, pigmenti e elementi naturali essiccati, cm 20x10, anno 2012

albero di piume

incisione, cm 50x30, anno 2012

una piuma di uccellino vivo e cinguettante

tecnica mista su seta antica giapponese, inchiostro di china, pigmenti e piuma, cm 33x20, anno 2012

sette respiri

litografia, cm 53x37, anno 2012

NITO CONTRERAS LO SPAZIO DEL LIMITE 10 marzo - 31 marzo 2013 Nito Contreras è nato nel 1947 a Ourense, Spagna, dove vive alternando lunghi soggiorni a Roma. Scultore di formazione filosofica, Contreras ha esposto con frequenza in Italia e all’estero: tra le più recenti mostre si ricordano le personali presso la Galleria Atelier di Roma (2008), la Galleria ASM28 di Madrid (2011), la Galeria Visol di Ourense (2012), la galleria Studio7 di Rieti (2013).

Nito Contreras was born in 1947 in Ourense, Spain, where he still lives, while spending long stays in Rome. A sculptor with a philosophical background, Contreras has held several exhibitions in Italy and abroad. Among the most recent: the solo exhibitions at Atelier Gallery in Rome (2008), Gallery ASM28 in Madrid (2011), Galeria Visol in Ourense (2012), Studio7 Gallery in Rieti (2013).

percorso

pvc, alluminio e pietre, cm 23x23, anno 2013

la piazza

cera e piombo, cm 23x23, anno 2013

planometria

alluminio e carta acquerellata, cm 23x23, anno 2013

lo spazio del limite

pvc e piombo, cm 23x23, anno 2013

fontana

pvc, alluminio, cera, piombi, cm 45x23, anno 2013

MATHEW MCWILLIAMS POSSIBILI IMPRESSIONI 19 maggio - 2 giugno 2013 Mathew McWilliams è nato a Vancouver, Canada, nel 1973, vive a Parigi e Sidney. Artista d’impronta concettuale interessatosi in particolare al processo fotografico e a lavori su carta, ha esposto in tutto il mondo: tra le mostre più recenti si segnalano quelle presso il PlugIn-ICA di Winnipeg e la galleria Graanmark 13 di Anversa (2011), la Presentation House Gallery di Vancouver e la Chalk Horse Gallery di Sydney (2012), la Elsewhere Gallery di Los Angeles (2013).

Mathew Mcwilliams was born in Vancouver, Canada, in 1973, and lives in Paris and Sidney. A conceptual artist with a primary interest in the photographic process and works on paper, he shows regularly internationally. Among the most recent exhibitions: PlugIn-ICA in Winnipeg and Graanmark Gallery in Antwerpen (2011), Presentation House Gallery in Vancouver and Chalk Horse Gallery in Sidney (2012) and Elsewhere Gallery in Los Angeles (2013).

relief #7

pastelli a cera su carta, cm 150x120, anno 2013

relief #11

pastelli a cera su carta, cm 140x120, anno 2013

relief #11

vista dell’installazione

relief #3

pastelli a cera su carta, cm 100x70, anno 2013

relief #14

pastelli a cera su carta, mm 100x70, anno 2013

ONO EMILIANI

INTRECCIARE, SCORRERE, FIORIRE 15 settembre - 30 settembre 2013 Ono Emiliani è nato a Torino nel 1964, vive in un paese tra le montagne del cuneese. La sua pittura è stata esposta in Italia e all’estero: tra le occasioni più recenti si segnalano la presentazione di suoi lavori insieme a opere di Alberto Burri presso il Castello Angioino di Mola di Bari (2010), la personale presso la Galleria Studio7 di Rieti (2011), la doppia personale (con Derek White) presso lo spazio Orto Capovolto di Roma (2012).

Ono Emiliani was born in Turin in 1964, and lives in a small mountain village nearby Cuneo. His paintings have been shown in Italy and abroad. Among the most recent exhibitions: the combination of some of his works with the works of Alberto Burri at the Angevin Castle of Mola di Bari (2010), a solo show at Studio7 Gallery in Rieti (2011) and a two person exhibition (with Derek White) at the Orto Capovolto Art Space in Rome (2012).

capanna

resina e pigmento su cartone telato, cm 13x18, anno 2013

capanna, vari esemplari in installazione

resina e pigmento su cartone telato, cm 13x18, anno 2013

capanna

resina e pigmento su tela, cm 120x100, anno 2013

eremo

resina e pigmento su cartone telato, cm 13x18, anno 2013

disco

resina e pigmento su rafia sintetica, cm 50x60, anno 2013

ON WATER, ARTS, FIRE. MEMORIES OF RIVODUTRI.

This introduction is the duty and privilege of the Mayor who wanted this art route, wanted to follow it to the search for meaning, chose to do an experiment in the municipality of Rivodutri. It will not be an introduction too institutional, perhaps because this experience so strongly imbued with emotions taught me that it is the passion that should guide me even in formal occasions. More than just an experiment, perhaps, it was a real challenge for our region: for once Rivodutri raised its head to look at the world and let go its thoughts, suddenly finding itself to think big. In this way, in the end, this project was born.

Ours is a small municipality with great resources, some known and some yet to be fully appreciated. It took us the joint insight of several people, who, by relying on a mutual trust, put themselves into play for this project.

Who would have bet on it in the beginning? But after a few meetings the idea took its path, filling my dreams and those of the other municipal administrators. And so, with autumn 2012 came to Rivodutri Yukoh Tsukamoto.

The legitimate curiosity mixed with concern of our citizens has been amply rewarded by the enveloping feeling of the entry into the council chamber: it seemed to enter our woods, the “cepparo”, it really seemed to be in the mountains, in the shade of the beech. The same feeling of belonging to places has been offered by Nito Contreras: the inhabitants of the village have found in his works their own homes, the streets that run every day. With Mathew McWilliams it was a bit more difficult to discover the thread, but once he clarified that all started from the frescoes of our parish church, visitors already accustomed to the exhibitions left themselves to be taken by the hand and guided through the technique of the frottage. With Ono Emiliani, then, there was the final surprise, as almost perceptible was the movement of the grass and the flowing water of our source of Santa Susanna in the middle of the room, immersed in his works.

It was an important experience for our land, a test of value, an opening to the world of cutting-edge arts to which the population has responded first with curiosity, then with active interest. The exhibitions have become a highly anticipated event even by many non-professionals, an opportunity to meet and exchange arts and cultures. Thank you, therefore, to all those who have believed in it, without whom this book could not have been in your hands for future memory of passion, technique and beauty.

Barbara Pelagotti, mayor of Rivodutri

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The village sits silent, high above the eyes that seek it as one ascends the road through the woods, seemingly indifferent to the arrival of strangers. History, around here, is accustomed to such detachment, it, along with the water, has run for more than a millennium: indeed, according to some papers dating back to 1010 a certain Transarico di Manfredo from Rieti generously donated a parcel of land near Utri, now corresponding to Rivodutri, to the abbey of Farfa, and there are those who speculate that the hamlet’s name derives precisely from its being “rivus utrique” between two streams, therefore, there is a land, a village, and, according to the last census, just over a thousand inhabitants, secluded but not too excluded from the course of things that usually go under the name of ‘world’ and that hold together space and time, war and peace, saints and laymen, arts and crafts, destruction and construction. The habit and wonder, in short, of being alive.

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As for saints, it seems that one of the most famous ascetics of Western history, Francesco, passed through Rivodutri and found shelter there. A widespread tradition even maintains that the future patron saint of Italy (perhaps we should remain silent on how poorly he may have performed his duties of protecting his country recently) was caught by a storm in the woods above Rivodutri, and a beech kindly leaned over to protect him as an umbrella.

Any in the mood for a walk will find, just outside the village, a wild majestic beech that has grown horizontally.

It seems that only two other specimens of beech approach this one as regards their size and the beauty of their unusual horizontal growth (at least according to the claims of the provincial tourist office which, under the banner of a “Saint Francis Walk”, is recently trying to start mystical-tourist routes around Rieti somewhat in the style of the “Camino de Santiago”): to see either of the other two, however, you have to go at least to England. To return to our local botanical monument, we should also note that this tree is less than three hundred years, so it is improbable that it was the one referred to in the story of St. Francis just mentioned. Anyway, time is relative, and it may well be that there is something sacred in the beech and in the woods surrounding Rivodutri. A natural sacredness, which is offered freely to those who come with goodwill to these parts, stay for a while and then continue their journey.

A few lines back we spoke about time and space. So, while more or less frantically we are all busy chasing the arrow of our time along its trajectory, nature revolves around a spot with regularity. The rings of the seasons and the chain thus forged often go unnoticed, which is a pity, but it is true that there are entities capable of creating a concentration, giving to our point of view and life a placement within this cycle: art is one of these entities.

All in all, the idea of inviting four artists to stay in and then to show their work at Rivodutri through as many seasons evolved from the feeling of a necessary concentration, from an attempt to condense attention on forms which, in their individual transience, end up defining something more general and durable. And it is true, something has changed in the daily life of the place because of the exhibitions held by the artists who came to the village, as when a train car taking another track at an exchange changes direction, and it is precisely in this exchange that the continuation of the movement finds its meaning.

So with autumn came Yukoh.

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For many years Yukoh Tsukamoto has lived between her native Japan and her adopted Italy in a subtle balance of sensitivity that the artist combines starting from the experience of nature, devoting herself to revealing that under the fragmentation of appearances everything is connected.

Now, there have been many attempts over recent decades to deepen this spiritual awareness with results that – though often pretentious, limping between a first-world shamanism and some sort of gardening/hiking tour for intellectuals – betray a broader aspiration to renew the perception of a primitive animism. Japanese culture has an extraordinary predisposition in this area, refined through millennia by that singular natural religion which is the Shinto, and that Yukoh has developed within her art until it reaches the point of dissolving the ordinary boundaries that exist between spiritual contemplation and the material object.

The artist arrived at Rivodutri at the end of the summer in 2012 for a preliminary visit, she walked through the woods that surround the village and spent time beside St. Francis’s beech. Then she collected small broken branches and other ephemeral evidence of the season to bring back with her in her studio in Milan. There, she gave them life again in a series of works which, when they were presented late in autumn, in November, in the town hall, filled the residents and the others present with wonder.

Everything is sacred, for the Shinto, inhabited as it is by Kami, spiritual presences that dwell in the natural environment in general and in the woods in particular in which they participate in a dynamic community made up of infinite, lively relationships. Precisely for this reason, I believe, the engravings of Yukoh starting from a feather collected from the ground, her ink drawings whose flowing traits on paper are organically related to the sap running within the trees, the tiny shrines structures of branches and wires playfully hung as amulets, are able to seize with refined simplicity and bring back the spirit of a place such as Rivodutri, but at the same

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time to refer to a genuinely universal dimension. To complete this communion Yukoh has set out an idealised meal made of leaves, bark, acorns and berries placed in earthenware dishes with terracotta silverware on the big table in the town hall. Many of those present found themselves thinking how different, how quietly peaceful that space had become, a space more used to meetings in which the village councilors discuss and quarrel loudly around the table.

When you bring art into the spatial structure and life of a village, of a community, using environments normally intended for other uses, what is the difference compared to an exhibition held in a museum or gallery? The idea of white space is an old issue in museology (the seminal critical reflections of Brian O’Doherty on the ‘white cube’ date back to 1971): however, when you reconsider it while struggling with the highly debatable colours of the walls of a town hall or trying to hang artworks in the complicated spaces of a church, it takes on a new significance projecting art into an often overlooked social dimension. The inhabitants of Rivodutri have been the first to consider the works of the four seasonal exhibitions, cohabiting with them in their own everyday lives even after the openings, experiencing modes of perception very different from those typical of the ordinary viewers of contemporary art. From my limited personal experience, some impressions remain unusually alive: for example, the one of the village children who, at the second inauguration, thought it was the same exhibition they had seen months before, but that once they discovered the novelty went on to observe the new works with amused wonder. A wonder almost equal to that of the Canadian artist who, at the opening of his exhibition, found those same children again present, leading a gilded scarab beetle on a leash.

To be frank, I cannot say what will remain to Rivodutri of this succession of encounters and activities, nor can I say much about their coherence as respects the ordinary life of the village’s inhabitants. If nothing else, they were not mere replicas of those individualistic, basically fetishistic occasions that are typical of the cultural consumption in vogue in the major centers. In fact, repeated performances in a real space strongly influenced by the minute plots of the existences of the residents, despite the undeniable organizational difficulties, led to a different articulation of the sense of the whole. Life, after all, never takes place in a completely white space. And nothing, no one is ever completely isolated.

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Autumn has gone, the mountains surrounding the province of Rieti are covered with snow, the winter arriving and with it Nito Contreras.

A sculptor with a philosophical background (somewhere he still has a bachelor’s degree awarded by a prestigious pontifical university), Nito lives between his native Galicia, in northern Spain, and that forest of stones and machines called Rome.

He visited Rivodutri in an interval between these places: Barbara, the art curator in Rieti and Marinella the hotel-keeper in Rivodutri were worried when they could not locate him, but he had decided to travel the last few kilometres on foot, under a light snowfall that had transformed the landscape into a sheet of endless white paper waiting to be filled by his imagination.

To get closer to Contreras’ work it is useful to recall the confessions transcribed by one of his declared references, the sculptor Eduardo Chillida: “I can work in very different fields, but what has affinity with art, what all the arts have in common, the two components that cannot be missing are: poetry – there must be poetry – and construction. Otherwise, there can be no art.” And again: “Are there limits to the spirit? Due to space, limitations exist in the physical universe and I can be a sculptor. Nothing would be possible without this noise of limits and the space that allows them.”

In the works he produced for and presented in Rivodutri, as well as in the rest of his research, Nito operates in the territories of imagination that exist between the two elements: poetry and construction, working on the spaces that their limits represent, and it is right in these unexpected areas that he sets up his sculptures, increasingly released from the materials and resources that typically are associated with sculpture. At Rivodutri the artist has

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studied the shapes of the village and then transformed these into a series of wall sculptures in which tiny stones, set in immaculate surfaces, punctuated rhythms derived from the local topography, or where cuts and overlapping metal plates composed visual motifs similar to the contour lines of the surrounding landscape. The result is a collection of maps of places that seem unable to decide between the mind and the territory, accompanied by a video in which the overall shape of the village is subverted by the insertion of large imaginary public sculptures, and during the opening several people asked when they might finally see those amazing structures in front of their homes. While I, amused, was forwarding such questions to the mayor for an administrative answer I accompanied other people to the panoramic square laying behind the alchemic arch, where Nito was intent on tracing the road system of Rivodutri on some stones – and just a few hours later many of these contemporary petroglyphs had rolled into the pockets of some furtive visitor. After all, this too for Nito is sculpture: the poetic construction of a new way of seeing, erected in the sight and lives of passers-by.

The title of the whole art exhibition, A sense of helpful order, has been taken from a line of Gary Snyder, the great American poet who, after travelling the roads of California with his friend Jack Kerouac – the character of Japhy Ryder in The Dharma Bums is an affectionate portrait of Snyder – went to seek his way in a Japanese monastery.

Fire is an old story.

I would like with a sense of helpful order, with respect for laws of nature, to help my land with a burn. a hot clean burn

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Fire, says the poet, is an old story whose ambition of renewal is a will, neither destructive nor iconoclastic, but rather respectful of natural laws and aimed at assisting the land with its purifying heat, animated by a sense of helpful order.

It may seem naïve and questionable, but I believe that art can be similar to such a fire, because, like the fire, if used well it can renew and regenerate a land. A similar mutation can occur through a sharing of attention, far from commerce that must condition the meaning of an activity, by means of beings animated by a genuinely recreative intent that, as in the previous pun, resolves the common misconception that art is a leisure time activity by demonstrating instead that it will release this free time, renovating the space it crosses, even the secluded space of a village, nestled between the woods and two streams.

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Luca Vannozzi, a true historical memory and egregious illustrator of Rivodutri, told me that the alchemical arch, located in the center of the village along the Via Umberto I, has undergone more revisions than the budgets of the Italian Republic, and that nothing of its history, apart from its enigma, is certain. The monument, which is thought to date back to the sixteenth century, was long a part of the façade of a building used as a school, until an earthquake on December 31, 1948 destroyed large parts of Rivodutri and the arch was dismantled and stored in a municipal warehouse until the early nineties, when it was reassembled in its current location.

When you pass under the arch, your eyes already captured by the panoramic view from the garden behind it, it is easy to overlook its details, exchanging the psychic-alchemical transmutations depicted in its bas-reliefs with the more naturalistic ones of the landscape that it frames. Happily, other more attentive observers (like Vannozzi himself) wrote laborious essays on the allegories of the seasons and the fundamental elements, the hermetic knowledge and symbols which are embedded in the stone – and which it seems, it shares with only one other similar arch, hidden among the trees and the refuse of the garden in Piazza Vittorio in Rome. Over the last four seasons, as a further work of alchemy, some artists have passed through the arch to create personal visions of the continuous changes that drive the world, bringing back to the inhabitants traces of the corner of the world in which this arch, for some unexplained spell, lies.

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A few lines above we mentioned that it is one of the privileges of art to renew our vision. If this has always been true, contemporary art has, however, added a further feature of disruption that is often misunderstood: it lacks operational hierarchies, consequently legitimizing any practice or instrument which an artist decides to use. This renewal of what/how we see may be achieved in one of several ways – paradoxically also by veiling one thing, cutting it out of its ordinary inadvertent place and thus making it more visible – but always from the perspective of an original capacity of wonder that, at its best, collapses perceptions and reflections into an unrepeatable singularity (Socrates, at least according to the report made

by Plato in his Theaetetus, argued that wonder is the proper source for philosophy, and it is therefore not surprising that so much contemporary art coincides with operations which are purely intangible and eidetic, that is to say philosophical).

In the spring, as the woods around Rivodutri were beginning to breathe more and more green, the inhabitants of the village had the opportunity to experience such a wonder with the

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passage of the Canadian artist Mathew McWilliams, who chose to work on the reliefs of the alchemic arch and on a series of ancient frescoes (assumed to date back to the XIV century and attributable to the Umbrian school) in the parish, where they were placed after being recovered in fragmentary condition among the ruins of a chapel destroyed by the earthquake of 1948. With appropriate care, McWilliams rubbed the frescoes and reliefs, then left the first covered by their paper cast in the church and presented some cartes frottées in the town hall, once again acting as an exhibition space as it took a rest from its ordinary role of hosting council meetings; he also used the u-shaped table to reinvent – once more as regards its material history – the alchemic arch by playfully shifting the order of the molded paper which he had made of its reliefs.

The technique employed by Mathew, which in contemporary art is referred to as rubbings or frottage, is well known to children in school (all of us, I think, sooner or later transferred the shape of a leaf or coin by placing a sheet of paper on them and rubbing them with crayons) and masters of Chinese printing for thousands of years, but it is because of the very simplicity of this practice that it is amazing what the artist achieved at Rivodutri, reinventing our perception of original objects by creating, so to speak, an original from their own past.

So while on the one hand, the works on display in the town hall became for the local residents a collection of fantastic maps of some unreal country – and there were those who, staring at the papers, exchanged the edges of the frescoes with representations of a nearby lake or mountain, on the other, the soft monochromatic fields of large cards left hanging within the church led many to wonder about the underlying shapes, and there were those who, maybe raising their eyes during a Sunday sermon, discovered that they had never before noticed those figures of melancholic beauty, immobilized for centuries on a thin layer of fresco before they were brought back to life, for a time at least, by a foreign artist who was passing through.

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Italy, once one leaves the motorway routes or the highspeed rail which condemns to a disadvantaged slowness the areas that disdains, is made of places like Rivodutri: small villages with a decreasing population, so often tested by the destruction of wars and earthquakes as well as by the following reconstructions, rich in treasures of art and nature that are little known and even less admired. These places, in which the feeling for the nation’s beauty is profound, and at the same time stronger the sentiment that its descent toward a mediocre decadence must be interrupted, are full of undiscovered potential. This is why erecting frigid containers for contemporary art in a country like Italy is, even before we wonder at the allocation of scarce resources, a misunderstanding of how contemporary is always necessarily the product of what has preceded it, and that only in a development harmonically aware of time and space, where the past and the present are held together looking to the future, may there be a good, individual and collective life. Like the archer in the fresco housed in the parish of Rivodutri without his target (in all probability an afflicted San Sebastian) a country, which has been subtracted from the sense of its whole and its perspectives, becomes isolated in a story without resolution. The art is a part of this whole and can sometimes help to reaffirm or at least to reconsider it. Then perhaps Francis Alys was right when he said, (I found this quote when I opened a book that Mathew gave me after his exhibition at Rivodutri): “Sometimes doing something poetic can become political and sometimes doing something political can become poetic”.

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elements find a dynamic solution of their own. Here there is no project aside from the one that can be found in a flourishing meadow: in fact, there is somehow a continuity between similar occasions, perhaps reminiscent of Ono’s walks along the green paths that run around the cool springs of Santa Susanna, at the foot of Rivodutri, which he followed until they led him to some of the hermitages founded by St. Francis in the woods nearby and which the artist redesigned in a series of essential abstract illuminations.

An experience of an art, nature and a constructive human presence united in this way can best be approached by means of a consciousness that, in the words of a great mystic of the last century, Thomas Merton, “does not try to fit things into artificially preconceived structures. It does not judge beauty and ugliness according to canons of taste – even though it may have its own taste. If it seems to judge and distinguish, it does so only enough to point beyond judgment to the pure void”. It is a consciousness, we may add, that the four artists who passed though Rivodutri certainly helped to develop within the people who meet them or the artworks that they left behind.

Ono Emiliani stopped by at Rivodutri for a few days in July to look around and then he was back to open his exhibition in mid-September, so he experienced both the warm light of mid-summer and the rainy melancholic autumn weather at the end. The artist took this change, this fertile alternation of dry and damp that governs the order of nature, and used it as a powerful creative principle, as he produced a series of works based on plants, flowing water and the flourishing of the landscape all genuinely open and capable of recombining among themselves.

In many ways, the intervention of Ono was also a summary of the passages of the previous artists: we find echoes of Yukoh’s oriental sensibility for organic forms, Nito’s power of observation of places, and Mathew’s unsettling inspiration. The result was a cycle of paintings on canvas collected in the town hall, flanked by a myriad of small crayons hung around the village fountain, like votive flags as if to show that in each place, if you want and if you take care, you can discover or renew a living spirituality – the poet Wendell Berry, a good friend of Snyder, wrote, “There are no sacred places; / there are only sacred places / and desecrated places”, a meditation which applies to Lhasa as well as to a village of the Lazio hinterland.

Emiliani’s painting is governed by a proliferation of signs capable of transcending the mere support of the single works, making each painting, usually seen as complete in itself and isolated, a vehicle of a wider flow, where the

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NOTES

Four seasons have revolved around Rivodutri, people previously unaware even of the existence of this village came to visit, paused and meditated here, defining a small bit of their existential journey, yet other people who live in this place have discovered that there was much they did not know, maybe a lot, and they have started to imagine it differently.

Now it is time for everyone to go on, but at each crossing or meeting, in the sum of the infinite elements that have been activated and which are not given to understand their combinations and resonances that will continue to spread – let us hope – with a sense of helpful order, something has been exchanged. Something has changed, left for the seasons to come to play with.

Luca Arnaudo Rome, December 2013

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Information about the founding of Rivodutri and the Beech of St. Francis can be found on the Internet, along with some related bibliography (http:// www.rivodutri.org; http://www.camminodifrancesco.it/le_tappe_del_cammino/il_faggio.php).

The reference to the reflections of O’Doherty on the “white cube” comes from the fine essay by Kevin Hetherington, The Empty gallery? Issues of subjects, objects and spaces, in Museum and Society, vol. 8, no. 2, 2010, p. 112 ff.

The quotes of Chillida are taken from Eduardo Chillida (Stefano Esengrini ed.), Lo spazio e il limite. Scritti e conversazioni sull’arte, Marinotti, Milano 2010, p. 55-32.

The poem of Gary Snyder partially quoted in the text is entitled Control burn and reported in the collection Turtle Island, New Directions, New York, p. 19.

The information on the alchemical arch of Rivodutri were colloquially provided by Luca Vannozzi, co-author (with Valerio Leoni and Monica Sampalmieri) of a study on the subject published in the Bullettino della Deputazione Abruzzese di Storia Patria, 1995, now available online (http:// www.rivodutri.org/l’arco.htm).

As for Socrates’s reflections on philosophy and wonder see Plato, Theaetetus, 155d. For a masterful discussion on the topic, also in its relationships with arts, see Philip Fisher, Wonder, the rainbow, and the aesthetics of rare experiences, Harvard University Press, Cambridge Mass. 1999, p. 12 ff.

The quote by Francis Alys comes from a conversation with Russell Ferguson, in Cuauhtémoc Medina, Russell Ferguson, Jean Fischer (eds.), Francis Alys, Phaidon, London 2007, p. 40.

The line of Wendell Berry is taken from his poem How To Be a Poet (to remind myself), in Poetry Magazine, no. 3, 2001, p. 270 (http://www. poetryfoundation.org/poetrymagazine/poem/30299).

The quote from Thomas Merton, finally, comes from his essay The study of Zen, Zen and the birds of appetite, New Directions, New York 1968.

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Questo volume, impaginato ed edito da Studio Evento a Rieti, è stato stampato nel mese di aprile 2014 da Press Up S.r.l. a Ladispoli in mille copie.

Le fotografie all’interno del catalogo sono di Filippo Maria Gianfelice, fatta eccezione per quelle alle pagine 5,11,14,64 I caratteri impiegati per il testo sono il Perpetua e l’Helvetica, la carta è la Patinata Opaca per l’interno e la Mondi Cartoncino Naturale per la copertina.

Abbiamo lavorato con cura all’organizzazione delle mostre e ora alla pubblicazione del catalogo: possano i suoi contenuti circolare ampi e la sua materia, dopo lunga vita, tornare infine alla natura.