NUMERO STRAORDINARIO
SPECIALE
NATALE 2021
Una raccolta imperdibile delle migliori ricette pubblicate sul BBQ4All Magazine per le vostre festività
La ricetta scientifica
COTECHINO lenticchie e purè
Direttore Editoriale Rossella Neiadin
Redattore Capo Michela Bongiorni
Redazione
Enio Berton Virgilio Brunetti Tommaso Buccafurri Nunzia Clemente Roberto Dal Bosco Salvatore Di Mento Luca Gallozza Marco Gerometta Mariangela Ibba Gianfranco Lo Cascio Riccardo Meniconi Giovanni Minelli Emiliano Nencioni Elena Ninotti Andrea Spaggiari Alessandro Trezzi Carlo Trono Paolo Tucci Alex Vasile Caterina Vianello Alberto Zonghetti
Realizzazione Grafica
Impaginazione Carlo Trono Illustrazioni di Eleonora Castagna e Ozzy Bellesi Fotografie di Rossella Neiadin, Luca Gallozza, Tommaso Buccafurri, Elisa Giuli, Emiliano Nencioni
magazine@bbq4all.it instagram.com/bbq4allmagazine
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Speciale Natale 2021
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I
IN DI Editoriale a cura di Gianfranco Lo Cascio #01 - Cucinare senza stress
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#02 - La tartare di manzo perfetta
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#03 - Mille e una tartare
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Antipasti
Insalata di mare in griglia
16
Crostoni di fegato fumosi
18
Aperislider 20 Brie affumicato e würstel
24
Tortini di zucca bruciata
26
Crudo di gamberi e scampi
30
Vol-au-vent con gamberi grigliati
32
Cocktail di gamberi
36
Crostino al salmone in due versioni
38
Tortello fritto ripieno di prosciutto
42
Primi piatti
Tortelloni affumicati in brodo
46
Spaghetti vongole e wok
49
Lasagne ragù e fumo
50
Assoluto di gamberi rossi di Mazara
52
Busiate al ragù di tonno
56
Tagliolini al nero di seppia, gambero rosso, burrata e lime
58
Pasta con le sarde
60
Tagliatelle di gambero
64
Spaghettoni con i ricci di mare
67
Agnolotti con guancia affumicata
70
Ravioli affumicati
73
BBQ4All Magazine
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Secondi piatti Baccalà alla vicentina
76
Black Angus tonnato
78
Grigliato e brasato
80
Aragosta 82 Ammaru ammuddicato (gamberi gratinati)
88
Il tonno vitellato
90
Filetto con funghi e castagne
93
Baccalà in tempura
96
Frittura di paranza
100
Contorni Insalata russa in ember
106
Insalata di rinforzo
108
Giardiniera classica e in cbt
111
Dessert Bûche de Noël con arance alla griglia
114
Tartufi di Natale
116
Panettone fuoco e pere
118
Ananas grigliato
120
Aspic prosecco e uva
122
Cassata siciliana
124
Il Tiramisù secondo il pasticciere
128
Mousse alla ricotta
134
Panettone grigliato con marmellata di arance
138
Il pandoro perfetto
142
La ricetta scientifica di Gianfranco Lo Cascio
Speciale Natale 2021
Cotechino con lenticchie e purè
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150
Cucinare stress
Editoriale di Gianfranco Lo Cascio
Un piccolo manuale di sopravvivenza per arrivare sereni alle tavole delle feste
senza
Quest'anno ricominciamo finalmente a respirare quell’arietta piacevole che sa di convivialità natalizia. L’odorino del sughetto coi crostacei, il profumo impregnante di frittura, l’aroma caramellato di arrosto e il solletico frizzante dei mandarini sbucciati. Negli ultimi due anni certe fragranze le abbiamo dovute mettere da parte, ci siamo dovuti accontentare di tavolate ridotte, salotti meno rumorosi e cuori debitamente distanziati. Quest’anno è diverso, perché potremo finalmente tornare a goderci le festività, a mangiare vicini, magari rinunciando al servizio da 24, ma senza scendere sotto quello da 12. Anche se, pensandoci bene, cucinare per una tavolata di parenti e amici affamati non è soltanto calore ed effluvi di manicaretti. Fare il cuoco di famiglia, a Natale, significa andare spesso in iperventilazione, bruciare l’arrosto e cannare miseramente il dolce, specialmente dopo due anni di riposo gastronomico forzato. Non si può nemmeno ripiegare sulla pizza a domicilio, che in quei giorni la pizzeria è chiusa. Per questo motivo, e per preservare la vostra stabilità emotiva, ho pensato di stilare un piccolo manuale di sopravvivenza salva-stress, frutto di anni e anni di banchetti luculliani preparati dal sottoscritto per le persone care. Che si cucini per pochi o per una folla, tenete a mente queste poche e semplici regole, e arriverete a fine pasto senza aver detto nemmeno una parolaccia:
Per prima cosa fate una lista degli invitati e prendete nota delle necessità alimentari dei vostri ospiti. Chi
Dividete il menu in portate e determinate quanti piatti preparerete - un piatto per portata andrà benissimo. Quattro piatti fatti bene sono meglio di 8 fatti così così. Evitate di strafare, che poi i parenti se la legano al dito. Fate una lista della spesa intelligente: dividete gli ingredienti da acquistare in base alla disposizione degli scaffali del vostro supermercato o gastronomia di fiducia. In modo da poter riempire il carrello in un unico giro, piuttosto che andare avanti e indietro come i pesci rossi, e magari scordarsi quell’ingredienti fondamentale per la riuscita della pasta.
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Pianificate, pianificate, pianificate: non saltate questo passaggio e vi risparmierete sorprese e musi lunghi. Prima di iniziare a cucinare dovete avere tutto sotto controllo.
di noi non ha in famiglia una persona intollerante al glutine o allergica ad un particolare ingrediente? Siate accorti e premurosi. E sforzatevi di creare dei piatti equivalenti o quanto più simili tra loro, perché è spiacevole sentirsi esclusi a tavola e magari desiderare il piatto del vicino. Sono gesti d’amore sempre apprezzati, abbiate cura di chi siede alla vostra tavola. Non vorrete mica rovinare tutto per delle di tracce di frutta secca?
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La pratica rende perfetti: suddividete ogni piatto del menu in una tabella con gli step di preparazione. Non dovete tagliare, pesare o cucinare tutto il giorno di festa, perché combinereste senz’altro qualche casino. Potete tranquillamente fare in anticipo gli impasti per torte e biscotti e avviare le cotture in sous vide (sottovuoto in un bagno termostatico). Mondate le erbette e le verdure, pesate e miscelate le spezie, tagliate tutto a cubetti o a listarelle e spremete il succo degli agrumi per tempo. Usate la carta gommata e un pennarello per etichettare i contenitori in frigorifero e per mantenere la mise en place bella organizzata. Vi garantisco che gli ingredienti puliti e porzionati sembrano tutti uguali, e voi non volete mettere la crema pasticciera nell’insalata russa.
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Scegliete i piatti da portata in anticipo: se state cucinando molte pietanze diverse, assicuratevi di aver scelto in anticipo le porcellane, i piatti, i vassoi o le ciotole. Sinceratevi che ogni stoviglia sia pulita e pronta per essere usata, nessuno vuole vedervi con la testa nella credenza mentre il sugo sta bruciando sul fuoco.
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Rimanete lucidi e non fatevi prendere dall’ansia. Il segreto per la buona riuscita di un pranzo o una cena è anche arrivare rilassati a tavola e divertirsi insieme agli ospiti. Come si fa? Seguendo le semplici regole che avete appena letto. Se arrivate cotti a cena rischiate di guastare la festa a tutti, la suocera se lo ricorda e lo racconta alle amiche del burraco.
La pianificazione step by step •
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DURANTE IL MESE DI DICEMBRE Fate scorta di carne e pesce. Tagli specifici e carni pregiate, pesce selezionato, ingredienti che trovate solamente online. Considerate sempre quei due-tre giorni per la consegna e non abbiate paura di tenere tutto al fresco in congelatore. Cominciate a fare scorta di vini e liquori, in modo tale da avere una riserva consistente per le serate alcoliche. Preparate o acquistate dei piatti salva-cena e metteteli in freezer, nel caso dovessero piombarvi in casa degli ospiti a sorpresa (pulled pork, costine già pronte, stinchi). UNA SETTIMANA PRIMA DEL NATALE O CAPODANNO Andate al supermercato e in gastronomia ad acquistare tutti gli ingredienti secchi, la pasta, le farine, le spezie, le cose che potete tenere in dispensa. Meglio fare le provviste con calma che prendere a gomitate la vicina per l’ultima pacco di lenticchie. Assicuratevi di avere tutte le pentole e le padelle necessarie, recuperate gli utensili che vi occorrono e soprattutto controllate di avere abbastanza piatti, bicchieri (soprattutto calici) e posate. Non mi fate vedere qui boccali che vi hanno regalato col 3x2. Se avete surgelato grossi tagli di carne, scongelateli due giorni prima del pranzo o della cena in frigorifero. In questo modo torneranno a temperatura in maniera graduale. Individuate uno spazio dedicato in cucina, uno scaffale o una credenza, per stoccare le quantità extra di cibo che inevitabilmente comprerete (occhio a non buttare niente che mi arrabbio!). Il 23 dicembre uscite a comprare tutti gli ingredienti freschi che vi occorrono: uova, latticini, salumi, verdura e frutta. Le uova “vecchie” sono più difficili da trattare e i tuorli più delicati, le verdure mosce e rovinate dal frigorifero non piacciono a nessuno, la frutta avvizzita andante, nemmeno. IL GIORNO PRIMA DEL PRANZO O DELLA CENA Preparate tutti gli step iniziali e intermedi dei vostri piatti: impasti, ripieni, sughi, salse. Bollite, pelate e schiacciate le patate in anticipo, potete conservarle coperte in frigorifero. Preparate tutto il preparabile: se avete ortaggi o verdure che si anneriscono, potete conservarli in acqua acidulata con del succo di limone. Se invece il vostro menù prevede verdure a foglia, sbollentatele per pochi secondi, tuffatele in acqua e ghiaccio e conservatele in un contenitore a chiusura ermetica. Conserveranno consistenza e colore e saranno pronte per essere saltate in padella con un filo d’olio e gli aromi che più vi piacciono. Stilate una lista delle cose da fare il giorno dopo, con accanto gli orari, per non arrivare impreparati al momento clou.
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E adesso l'antipasto LA
TARTARE DI MANZO PERFETTA
Un classico delle festività sempre apprezzato e appagante. La tartare di manzo mi piace moltissimo perché è un piatto perfettamente bilanciato tra condimento, aroma, consistenza e acidità, oltre a prestarsi ad un numero infinito di personalizzazioni. Prepararne una perfetta, però, è tutt’altro che un compito semplice. Gli errori più comuni sono tutti legati alla scelta della carne. Taglio sbagliato ricco di connettivo e cartilagini, poco frollato, poco marezzato, spesso troppo lavorato o scondito. Non preparate mai una tartare col primo pezzo di ciccia fetente che vi capita a tiro, perché avrà un sapore deludente, ve lo garantisco. Mangiare qualcosa nella sua forma più schietta, più sincera, fa trasparire le sue caratteristiche senza filtri. E se questi tratti caratterizzanti sono tutti difetti, mangerete senz’altro una pessima tartare. La materia prima, quando si assaporano i crudi, deve essere tassativamente di qualità. Quando serviamo una tartare dobbiamo assicurarci di avere sotto le mani la carne migliore, per ragioni di sicurezza sì, ma anche di gusto. Prediligete tagli teneri e privi di tessuto connettivo. Trattandosi di ciccia in purezza, non possiamo affidarci al calore né per renderla più morbida, né per trasformare il connettivo in gelatina. Scegliete carni marezzate, mi raccomando, perché il gusto sta sempre nel grasso e non altrove.
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Tenderloin (filetto), Sirloin (controfiletto) e Eye of Round (girello) sono i tagli più utilizzati, ma io vi suggerisco di provare anche con il Teres Major (filettino di spalla), che è tenerissimo e molto saporito.
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INGREDIENTI 1 filoncino di pane o una baguette 8 uova freschissime 400 g di Eye Round o Teres Major 80 g di senape 16 g di scalogno tritato 16 g di capperi dissalati 12 g di erba cipollina 8 g di sale 4 g di pepe macinato Cetriolini sottaceto q.b. Succo di limone fresco q.b.
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#01. PREPARATE I CROSTINI I crostini serviranno per raccogliere la tartare e creare il mix di consistenze perfetto. Per ottenere delle fette piatte e perfettamente tostate, mettete il pane in congelatore per facilitare il taglio e poi tostatelo tra due teglie da biscotti. Il peso della teglia superiore impedirà al pane di imbarcarsi, di fare la cupoletta insomma, e il calore si propagherà in maniera uniforme, favorendo una tostatura dorata e omogenea.
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1. Iniziate avvolgendo il filone di pane nella pellicola e mettendolo in freezer. 2. Preriscaldate il forno a 200°C. 3. Tagliate le fettine di pane ad uno spessore di 5mm, non fatele troppo sottili o potrebbero spezzarsi se usate come “cucchiaio”. Psst! Vi svelo un segreto: io uso l’affettatrice. 4. Prendete una leccarda, capovolgetela e foderatela con della carta forno. Sistemate le fettine di pane sulla teglia capovolta, coprite con un secondo foglio di carta forno e poggiateci sopra la seconda leccarda. Dovete preparare un sandwich di teglie con del pane nel mezzo in pratica. Sulla teglia superiore poggiate qualcosa di pesante che possa resistere al calore.
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A dire il vero a me piacciono anche i crostini ondulati, potete tranquillamente evitare la cottura a strati se non avete la necessità di ottenere delle fettine perfettamente piatte. 5. Tostate per 4-7 minuti, in base alla potenza del vostro forno di casa. 6. Sfornate il pane e fatelo raffreddare, scoperto, finché non diventa croccante. 7. Servite immediatamente oppure conservate in un contenitore a chiusura ermetica.
#02. PREPARATE I TUORLI IN SOUS VIDE La tartare viene generalmente servito con il tuorlo crudo, ma perché rischiare di beccarci un’intossicazione quando possiamo portarlo a 62°C-65°C col sous vide? Questo passaggio non solo renderà il piatto totalmente sicuro da mangiare, ma migliorerà sapore, consistenza e aspetto del rosso d’uovo, riuscendo anche a preservare la sua forma originaria. 1. Preparate il bagnetto termostatico del sous vide scaldando l’acqua, in base alla consistenza che volete ottenere: a 62°C il tuorlo risulterà più liquido, a 65°C più denso. 2. Procuratevi un piccolo contenitore dal fondo
#03. PREPARATE LA CARNE Per prima cosa ripulite la carne, se necessario, dalla silver skin, la membrana argentea che fascia i muscoli. Vi basterà togliere quel velo che vedete all’esterno del pezzo. Finita il trimming (la pulizia), mettete la carne in freezer, per compattarla leggermente; potrebbero volerci 30 minuti fino a due ore, dipende dalla potenza del vostro congelatore. L’obiettivo è ottenere un tocco di ciccia che sia congelato esternamente e ben freddo internamente (non duro fino al cuore, solo in superficie). Questa operazione serve per effettuare un taglio più veloce, pulito e semplice. Molto spesso le persone si sottraggono all’assaggio di carne cruda perché hanno paura di beccarsi un brutto mal di pancia, o qualcosa di più fastidioso. Volete un trucchetto per convertire anche i più scettici? Cambierà leggermente la consistenza finale della pietanza, ma sono sicuro che farete breccia nel cuore della zia più riluttante. Fate così: prendete il pezzo di carne da utilizzare per la tartare, asciugatelo e ungetelo con un velo d’olio extravergine di oliva. Scaldate molto bene una padella antiaderente o in ghisa e metteteci
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piatto che potrete sistemare all’interno della vaschetta con l’acqua, largo abbastanza per farci stare i tuorli belli comodi e distanziati (almeno 2 cm l’uno dall’altro). Riempite il contenitore con 5 cm di olio extravergine di oliva, di semi di girasole, di arachidi, di riso, quello che preferite. L’olio servirà solo per distanziare e proteggere i tuorli e per veicolare il calore in maniera uniforme. 3. Separate I tuorli dagli albumi usando le mani come “colini”, facendo attenzione ad eliminare la calaza, quel tessuto filamentoso che sospende il tuorlo all’interno dell’uovo. Fate scivolare i rossi nel contenitore con l’olio, facendo attenzioni a non romperli e mescolando delicatamente, per ricoprirli in maniera uniforme. 4. Immergete il contenitore nella vasca, facendo attenzione che il livello dell’acqua superi quello dell’olio ma non finisca nei tuorli. Coprite con un coperchio, un tappo o della stagnola. Cuocete per un’ora. 5. Terminata la cottura potete servire i tuorli fino a due ore dopo. Trascorso quell’intervallo di tempo, diventeranno troppo densi e collosi. Se siete parecchio in anticipo, abbassate la temperatura a 60°C e teneteli in cottura per un massimo di due ore.
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dentro la carne, scottandola leggermente su ogni lato. Toglietela dal fuoco e mettetela in freezer per 30 minuti/2 ore prima di tagliarla. In questo modo avrete abbattuto completamente la carica batterica esterna, oltre ad aggiungere una nota tostata al piatto. Se invece amate la carne completamente cruda, l’importante è utilizzare strumenti puliti e avere a portata di mano una ciotola a bagnomaria in acqua e ghiaccio dove trasferire la carne appena battuta al coltello. Per sterilizzare le lame e il tagliere, che devono essere lavati ed asciugati, utilizzo molto spesso l’alcol alimentare a 90°, quello che si usa per fare i liquori. Lo verso in uno flacone spray e lo spruzzo sulle superfici all’occorrenza. Facile, no? Ma torniamo alla preparazione della ciccia, che a questo punto si sarà raffreddata per bene. 1. Tagliate il pezzo di carne in fette da 0.5 cm, poi tagliate ogni fetta in striscioline da mezzo centimetro e quindi a cubetti. 2. Trasferite in una ciotola sistemata su un bagnomaria di acqua e ghiaccio 3. Fate questa operazione 20 minuti/un’ora prima del pranzo o della cena. In questo modo darete il tempo alla mioglobina di legarsi con l’ossigeno e diventare ossimioglobina, quella sostanza che conferisce il colore rosso rubino alla carne. Volete qualche alternativa per ottenere una grana della carne più fine o rustica? Per una grana medio/fine: tagliate la carne in fette sottili, poi a striscioline e quindi in piccoli pezzi da 3-4mm senza badare alla forma, non devono essere dei cubetti precisi. Avrete la classica tartare battuta al coltello, il taglio tipico da bistrot francese o americano. Per una grana fine: Tagliate la carne in cubi da 2-3 cm per lato e mettetela in freezer. Prendete il tritacarne e trasferite anche questo in congelatore, deve essere ben freddo. Passate la carne una sola volta, o rischiereste di preparare un omogeneizzato. Mettete il trito nella consueta ciotola a bagnomaria in acqua e ghiaccio.
#04. CONDITE La vostra carne è nella boulle con il fondo a mollo in acqua e ghiaccio. Aggiungete l’olio extravergine di oliva ed il pepe. Non mettete ancora il sale ed il succo di limone, perché sale e acidi denaturano le proteine della carne, rendendola grigia, gommosa e umidiccia. Fatelo poco prima di servire il piatto, oppure mettete il succo di limone in una piccola ciotolina, che gli ospiti potranno versare in base ai propri gusti.
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#05. IMPIATTATE E SERVITE
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Sistemate la carne al centro del piatto e disponete tutto intorno, a raggiera, uno spicchio di limone o un piccolo bricchetto con del succo di limone fresco, l’erba cipollina tritata, lo scalogno sminuzzato, i cetriolini battuti al coltello, il tuorlo cotto in sous vide, il sale, il pepe, i crostini di pane, la senape e i capperi. Semplice, vero?
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Spazio alla fantasia
MILLE TARTARE ED UNA
Facciamo un riassunto per rinfrescare la lista degli ingredienti e individuare altri cibi perfetti per questo piatto. CARNE DI MANZO Filetto - Tenderloin : È il taglio più magro, costoso e tenero di manzo che possiate trovare. Controfiletto - Sirloin : meno costoso ma più beefy, più “manzoso” del filetto, perfetto per lo scopo. Eye Round - girello : morbido, facile da ripulire, non avrete nemmeno un briciolo di scarto. Oltre ad avere (per natura) la forma perfetta per essere tagliato a cubettini. Teres Major - filettino di spalla: tenerissimo, al pari del filetto, e poco conosciuto. È praticamente perfetto per essere gustato crudo. PESCE E CROSTACEI La pancia dei pesci da lisca sarà la parte più grassoccia, la coda quella più gommosa e fibrosa e il dorso quella più morbida e pregiata. Prediligete quei pesci che hanno dei bei filetti, come il tonno, il salmone, la ricciola, l’orata, lo scorfano (ma pure la triglia, anche se è piccina).
Speciale Natale 2021
I crostacei sono perfetti per la tartare, che sia Gambero Rosso di Mazara o scampo, sarà il piatto che rimarrà impresso nella memoria della tavolata.
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Potete provare anche con polpo, calamaro o seppia, dovete però sbianchirli prima in acqua bollente per pochi secondi e poi raffreddarli in acqua e ghiaccio FUNGHI Porcini (Boletus), Ovoli (Amanita
caesaria), Prataioli (Agaricus hortensis), Cardoncelli (Pleurotus eryngii) tartufo nero o bianco. Si possono mangiare crudi e sono perfetti anche come complemento alla carne di manzo VEGETALI Rape, carote, radici in generale, si prestano ad essere trattate come la carne. Certo, l’aroma di terriccio caratteristico non riuscirete ad annientarlo manco con la magia del Natale. FRUTTI Quelli densi come la banana, il lychee, la fragola e il mango sono l’ideale per una tartare di frutta. Immaginate un pre-dessert coloratissimo con crema inglese, Lime o Lemon curd, qualche meringhetta o biscotto di frolla. Ho già l’acquolina. PER ACCOMPAGNARE Crostini di pane, nachos, chips di patate, grissini, pane carasau. La parte croccante non deve mai mancare. Insomma, l’antipasto è al sicuro, ora non vi resta che preparare le liste degli invitati, quelle con i quadratini da spuntare della spesa e le scorte di carne e pesce da fare online. Più avanti trovate tante altre idee e spunti per i vostri piatti delle feste, ma sbrigatevi a fiondarvi sulle selezioni del Megastore, il calendario dell’avvento è iniziato e gli invitati hanno già fame!
Gianfranco Lo Cascio
QUI TROVI LA SELEZIONE MAZHARA CON I MIGLIORI INGREDIENTI PER LA TUA TARTARE PERFETTA
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INSALATA DI MARE IN GRIGLIA
Siete pronti a stupire i vostri amici per la cena della Vigilia? Allora tenete la ciminiera e i bricchetti a portata di mano, perché questa volta partiamo con un bell’antipasto sfizioso come piace a noi, griller irriducibili anche a Natale. Facciamoci una bella insalata di mare grigliata. Un saltino dal nostro pescivendolo di fiducia e prendiamo il necessario per lasciare a bocca aperta i commensali. Vedrete che, dopo il primo assaggio, vi chiederanno di moltiplicare i pani e i pesci. Iniziamo a vedere come preparare il tutto.
Speciale Natale 2021
Ingredienti per 4 persone: 3 calamari / 1 kg di cozze / 1 kg di vongole veraci / 1 kg di seppie / un peperone rosso / un limone / 2 cucchiaini di senape / succo di limone q.b. / prezzemolo fresco q.b / aglio q.b / sale q.b / pepe nero q.b / olio extravergine d’oliva q.b.
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PREPARAZIONE 1. Prepariamo il nostro kettle, accendendo una ciminiera piena e settandolo per una cottura diretta, tenendo le braci sui due lati e la zona di comfort, al centro, sotto la griglia gourmet® della Weber. 2. Mettiamo, su un lato delle braci, il peperone per una cottura in ember, e sullo stesso lato in griglia, posizioniamo il limone tagliato a metà, a grigliare. 3. Sull’altro lato del kettle, procediamo alla cottura in indiretta dei calamari e delle seppie. Per queste ultime è consigliabile un vassoio apposito in acciao forato per evitare la caduta sulle braci. 4. A cottura ultimata di tutto ciò che c’è in griglia, spostiamo le braci al centro del kettle e procediamo con la cottura dei molluschi ( cozze e vongole). 5. Disponiamo le cozze e le vongole in un wok sulla griglia gourmet®. Irroriamo con olio ex-
travergine d’oliva, uno spicchio di aglio intero schiacciato, e lasciamo cuocere sino ad apertura dei gusci. 6. A cottura ultimata, filtriamo i succhi delle vongole e delle cozze e prepariamo un’emulsione con la quale condiremo l’insalata. In un contenitore, versiamo i succhi dei molluschi, l’olio, l’aglio e il prezzemolo tritato, il succo di limone e due cucchiaini di senape. Aggiungiamo sale e pepe ed emulsioniamo con un mixer ad immersione o una frusta a mano. 7. Completiamo la preparazione dell’insalata sgusciando I molluschi, tagliando a striscioline i calamari e le seppie, affettando i limoni e riducendo i peperoni a pezzetti. 8. Mescoliamo tutte le preparazioni (calamari, seppie, peperoni, cozze e vongole ) in un recipiente da portata e utilizziamo la nostra emulsione per condire l’insalata.
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CROSTONI DI FEGATO FUMOSI
In Toscana, una ricetta che non passa mai di moda è il famoso patè di fegatini di pollo da mangiare sui crostini di pane. Gustosi e goderecci, tanto da essere riportati già dall’Artusi nel suo famoso ricettario “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene” (1891), i crostini col patè di fegatini ancora oggi non mancano mai sulle tavole toscane in occasione delle feste. Mi ricordo che la mia bisnonna mangiava il patè a cucchiaiate mentre preparava questo delizioso antipasto per i parenti a Natale. In questo caso, abbiamo preparato il patè nel wok sul kettle, affumicandolo durante la cottura e rendendo così più attuale una ricetta dai sapori antichi, senza stravolgere quella originale, che certo non è dietetica e che prevede l’utilizzo delle interiora, cosa da non sottovalutare, dato che la maggior parte delle ricette a base di interiora sono andate via via scomparendo.
Speciale Natale 2021
Questo patè servirà poi a farcire dei crostini fatti col tipico pane toscano, quello senza sale, che fa storcere il naso a molti. Provare per credere. Il pane senza sale, tagliato a fette alte circa mezzo centimetro e poi tostato, è in assoluto il pane più adatto per gustare questo patè dal sapore forte e deciso. Tuttavia se proprio non riuscite a convincervi, provatelo sulle fettine di polenta fritta.
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Ingredienti per 6 persone: 500 grammi di fegatini di pollo / una carota / una cipolla bianca / una costa di sedano / mezzo bicchiere di vino bianco / 2 filetti di acciughe sott’olio / una foglia di alloro / pane toscano senza sale / sale q.b. / pepe q.b. / due cucchiai di olio extravergine di oliva PREPARAZIONE 1. Pulite bene i fegatini togliendo la vescichetta del fiele senza romperla (a meno che non siano già puliti quando sono stati comprati). Lavate e tritate finemente le verdure. 2. Predisponete il kettle per una cottura diretta e ponete al centro della griglia gourmet il wok. Fatelo scaldare bene, poi versate nel wok l’olio e subito le verdure tritate. 3. Quando saranno dorate, aggiungete i fegatini di pollo e lasciateli rosolare per alcuni minuti. Sfumateli a questo punto col vino bianco, lasciandolo evaporare. 4. Aggiungete la foglia di alloro e i filetti di acciuga, salate e pepate. A questo punto chiudete il coperchio, aggiungete qualche chip del legno che preferite facendolo cadere un po’ sulla griglia e un po’ direttamente sul carbone, stabilizzate il kettle alla temperatura di 150°C e lasciate cuocere il composto fino a quando i fegatini non si saranno del tutto ammorbiditi. Ogni tanto aprite il coperchio e, se vedete che il composto si sta asciugando troppo, aggiungete un po’ di acqua o brodo. 5. Quando i fegatini saranno pronti, togliete l’alloro e passateli nel mixer: otterrete così un patè bello cremoso. 6. Tagliate il pane a fette spesse circa mezzo centimetro e tostatelo. Spalmate il patè sul pane e condite i crostini con un filo d’olio extravergine d’oliva. Serviteli caldi.
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Speciale Natale 2021
APERISLIDER
IN GREDIENTI PE R 4 PERSO N E • 2 burger Blue Ox • Uova di quaglia • Mortadella a fette • Pancetta a fette sottili • Gorgonzola • Prugne della California, snocciolate • Stracchino • maionese • salsa bbq • salsa tartara
Per esordire nei pasti di questo special natalizio, volevamo pensare a qualcosa di diverso: dopotutto in questo stesso numero potete trovare preparazioni più tradizionali, istituzionali e irrinunciabili, quindi perché non proporre qualcosa di più scanzonato, che faccia presa anche sui più giovani presenti al vostro desco? Va da sé, niente è più attraente e palatabile di un bell’hamburger farcitissimo, per i giovani virgulti. E, con la scusa dei ragazzini, anche i senatori della forchetta, i veterani del diger seltz, potranno fermarsi un attimo la fame con qualcosa di esplosivo. Niente di più facile con i burger di Black Angus Blue Ox: potete dividere ogni burger in due e ricavare degli slider. Hanno il sapore deflagrante che ben conoscete e al quale BBQ4All vi ha abituato e con la loro composizione sono facilissimi da cuocere alla perfezione. Un ottimo hamburger chiede però un bun (il panino tondo!) all’altezza, e ancora una volta ci viene incontro BBQ4All: basta seguire la nota ricetta che potete trovare sul sito www.bbq4all.it. O anche quella sul libro “Diventare Grill master” di Gianfranco Lo Cascio. Sono due ricette diverse, ma entrambe molto valide.
Noi vi suggeriamo tre modi di farcire i mini hamburger, ma questi sono solo spunti per farvi scatenare con la fantasia. HAMBURGER CON PANCETTA CROCCANTE E UOVO DI QUAGLIA FRITTO Mettete le strisce di pancetta sulla griglia, o sulla piastra se l’avete, e osservatele sfrigolare e ritirarsi: quando la parte grassa diventerà dorata, rilasciando grassi che doreranno anche la parte magra, è il momento di girarla dall’altra parte e attendere lo stesso risultato. Mettetele subito in salvo appena pronte. Sulla stessa piastra, leggermente unta, potete rompere l’uovo di quaglia (attenzione, potrebbe essere più coriaceo di quanto pensiate, per merito di una membrana testacea piuttosto resistente),
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Per fare una cosa differente, abbiamo decorato e insaporito la cupola del bun con del grue di fave di cacao, molto interessanti come consistenza sotto i denti e dal sapore un po’ insolito . Ricordatevi che un hamburger
eccezionale non può prescindere da una bella reazione di Maillard, per cui, se la possedete, tirate fuori una piastra in ghisa e scaldatela sul kettle: girate i patty facendo attenzione a non far annerire la superficie, che dovrà essere bruna e saporita, non nera e amara; i più scafati di voi provvederanno a schiacciare leggermente il centro con il pollice, per evitare che il patty si gonfi come una palla da rugby, ottenendo così una rosolatura più uniforme delle due superfici. Quelli che avranno utilizzato i burger Blue Ox possono stare tranquilli invece, perché non succede, mai. Temperatura al cuore? Vi consigliamo di non superare i 75°C, a noi piace a 55°C.
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stando bene attenti a non rompere la membrana vitellina del tuorlo, per farlo friggere quei pochi secondi necessari per far solidificare il poco albume. A cose fatte, toglietelo subito con una paletta e mettetelo sopra il patty già cotto. Non esitate adesso, e montate il panino: parte inferiore del bun, patty, uovo, strisce di pancetta croccante, parte superiore del bun. Salse a piacimento: sicuramente la maionese si sposa bene con l’uovo, ma per sicurezza chiedete ai vostri piccoli (e non più tanto piccoli) ospiti, che potrebbero voler osare con una salsa bbq.
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HAMBURGER CON STRACCHINO E MORTADELLA L’abbinamento classico tipico dell’Emilia: questa variante è facilissima, ma eccezionale. Portate al giusto grado di cottura il patty, come indicato sopra, e appoggiate semplicemente due o tre strati di mortadella sulla carne; ricoprite con un generoso strato di stracchino e incorniciate col bun leggermente scaldato. Qui, se volete esagerare, vi consiglio una buona salsa tartara alla base del panino..
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HAMBURGER CON PRUGNE E GORGONZOLA Potrà sembrarvi strano l’abbinamento di prugne e manzo, ma dovreste aver imparato a fidarvi di noi. Davvero, provateci. Anche qui la difficoltà è bassissima: una volta cotto il patty (alla perfezione, inutile ricordarlo) appoggiateci sopra una fettina di gorgonzola e due prugne della California snocciolate, e via dentro il bun. Niente salse, è già perfetto così. Se temete che questo strano sapore di prugna e gorgonzola possa essere sgradito ai giovanissimi, provate tranquillamente a tenere segreti gli ingredienti: è talmente buono che lo divoreranno.
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BRIE
AFFUMICATO E WÜRSTEL
I girasoli di pasta sfoglia ripieni di formaggio brie e Franks Würst BLUE OX possono essere l’idea più divertente delle feste... ed anche la più golosa! Non solo perché è esteticamente accattivante ma perché contiene al suo interno i miglior würstel in circolazione. Un girasole di pasta sfoglia dorata e croccante, che racchiude nei petali i Franks Würst, i würstel definitivi fatti al 100% di carne di Black Angus americana Blue Ox. Sono già cotti, già affumicati con metodo tradizionale: cioè esposti a vero fumo di legna con essenza di ciliegio e hickory. Al centro del nostro girasole, una formina di formaggio brie dolcemente affumicata in precedenza e condita con il nostro Smoky Chipotle. Ciò che fa la differenza sostanziale in questa preparazione è sicuramente la tecnica del planking applicata al formaggio. Il planking prevede di grigliare le vostre pietanze a contatto con una tavoletta di legno (solitamente di cedro), in precedenza scaldata per qualche minuto utilizzando la cottura diretta. In questo modo il fumo prodotto e gli oli essenziali doneranno alla preparazione un’aroma molto particolare, delicato e gustoso. A differenza del Camembert, molto più intenso e dal sentore di tartufo, il formaggio brie con la sua delicatezza si presta molto bene in questo piatto. La tecnica è fondamentale: si stacca un pezzo di sfoglia con una leggera torsione , si intinge con ingordigia nel formaggio fuso e poi in una salsa a scelta.
PREPARAZIONE 1. Stabilizzate il vostro dispositivo con un setup indiretto e scegliete una tavoletta di legno dell’essenza che preferite. 2. Dopo averla tenuta a bagno per circa mezz’ora, sistematela in cottura diretta con il brie ed aspettate che inizi a fumare. Successivamente, potrete spostare l’intera tavoletta sul lato indiretto e lasciare affumicare per 10/15 minuti. 3. Sovrapponete i due dischi di pasta sfoglia senza schiacciarli ed al centro di quello inferiore inserite il brie precedentemente raffreddato, avendo cura di sigillarlo bene con il disco superiore. 4. I lembi restanti di pasta andranno divisi in quattro quadranti a loro volta suddivisi in tre sezioni così da ottenere un totale di 24 petali del nostro girasole. È importante lavorare sempre in ambiente fresco aiutandosi con il frigo,al bisogno, viste le temperature estive. 5. Dividete ogni würstel in otto pezzi uguali ed avvolgere con ogni sezione di pasta il singolo pezzo di würstel; poi richiudetelo attorno al brie come se fosse la corona di un girasole. 6. Una volta terminati i würstel, spennellate con l’uovo leggermente sbattuto e cospargere con un leggero strato di semi di sesamo senza esagerare. 7. Cuocere a 200°C per circa 30/35 minuti, avendo cura di controllare le parti più spesse in cui si uniscono i lembi di sfoglia. 8. Una volta pronto il nostro girasole, scoperchiare con cautela brie e liberarlo dalla crosta fiorita superiore. Cospargete con un velo leggero di Smoky Chipotle e servite ancora caldo!
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Si presta perfettamente una salsa dal sentore acidulo, leggermente piccantina o un chutney di frutti rossi.
Ingredienti per 6 persone: 2 rotoli di pasta sfoglia rotonda / 3 würstel Franks Würst Blue Ox / 1 formina di Brie da 150 g / 1 uovo / semi di sesamo / Smoky chipotle Sal’s Seasoning
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TORTINI DI ZUCCA BRUCIATA
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Il periodo autunnale e prenatalizio si riconosce anche dal fatto che, un po’ ovunque, si moltiplicano i piatti a base di zucca: nel risotto, nella pasta, nei dolci, nel pane, nei minestroni, nelle vellutate; stufata, fritta, frullata o arrostita, la cucurbitacea arancione è la vera protagonista della stagione corrente. Anche noi vi abbiamo proposto preparazioni a base di zucca più di una volta nel corso degli anni, in questo stesso periodo. E anche nel 2021 non vogliamo rinunciare alla tradizione e abbiamo scelto di abbinarla alle noci e ai fichi secchi: più autunnale di così non si può! Torniamo a una delle tecniche che tanto ci piacciono quando dobbiamo cucinare i vegetali e vogliamo usare il carbone a tutti i costi: l’ember roasting.
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Come sapete, la zucca si presta benissimo a questa modalità di preparazione; grazie alla buccia spessa, può essere adagiata sui carboni senza il rischio che la polpa si carbonizzi. Per cuocerla all’interno ci vuole un po’ di tempo, ma il risultato è sicuramente eccezionale. Può essere appoggiata sulle braci a pezzi o intera: una volta cotta, si preleva la polpa morbida, la si frulla per ottenere una crema e, come ci insegna Gianfranco Lo Cascio, le si dà una nota acida per bilanciare la sua dolcezza e rendere più brillante il sapore. A quel punto, si può utilizzare la crema di zucca bruciata per svariate preparazioni (se cercate un po’ fra i vecchi post in community troverete tre ricettine dello Zio, di quelle da leccarsi i gomiti!). In ogni caso, si fa presto a dire zucca, ma sapete che ne esistono moltissime
varietà? Prima di passare alla ricetta dei nostri tortini di pasta fillo, facciamo una piccola panoramica delle cinque zucche più diffuse in Italia: Zucca Mantovana: polpa densa, dolce e farinosa dal colore arancone brillante, buccia verde e rugosa, dalla forma a turbante. E’ perfetta per realizzare il ripieno dei tortelli e per le vellutate. Zucca Delica: parente stretta della mantovana, è diffusa molto in Veneto, in Lombardia e in Emilia Romagna. Buccia verde scuro e polpa asciutta, questa zucca si presta benissimo ad essere arrostita. Zucca Tonda padana: con striature pronunciate, la forma tondeggiante e un robusto peduncolo legnoso. I semi sono saporiti, la polpa soda è adatta a ripieni e mostarde. Zucca di Chioggia: ha una scorza bitorzoluta, che va dal verde scuro al verde ramato, e una forma tipicamente schiacciata; la polpa è molto saporita ed è adatta alla preparazione di gnocchi, ripieni e risotti. Zucca lunga di Napoli: può arrivare la metro e superare i 20 kg di peso, per questo motivo è generalmente venduta a tranci. Il colore è arancio intenso, è adatta alla preparazione di zuppe e sughi ma è altrettanto perfetta per la griglia. Detto ciò, non vi resta che scegliere dunque la varietà preferita (o disponibile) di cucurbitacea e preparatevi a cucinare questi deliziosi tortini salati con noi.
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Ingredienti per 8 tortini: una confezione di pasta fillo / un trancio di zucca da circa 500 g / 50 g di burro / il succo di un limone / 150 g di cubetti di speck / parmigiano reggiano q.b. / sale e pepe q.b. / olio extravergine di oliva q.b. / un pizzico di noce moscata / un uovo / noci a piacere / fichi secchi a piacere PREPARAZIONE 1. Accendete le braci e versatele nel vostro dispositivo togliendo le griglie: appoggiate dunque la zucca direttamente sui carboni, chiudete il coperchio e lasciatela lì per almeno un’ora, finché la pola non sarà completamente cedevole. 2. Una volta pronta, togliete la zucca dalle braci, pulitela, ricavatene la polpa morbida, mettetela nel frullatore e frullatela con olio, un pizzico di sale, un pizzico di noce moscata e un poco di succo di limone (la percentuale è: per ogni cup di zucca, 5 g di succo di limone). 3. Una volta pronta la purea di zuppa, tenetela da parte e saltate in padella i cubetti di speck. 4. Aggiungete dunque alla purea lo speck, il parmigiano reggiano a piacere, l’uovo, un poco di sale, e il pepe. Mescolate bene e mettete il tutto in frigo.
6. Una volta cotti, servite i tortini con noci sbriciolate e fichi secchi tritati.
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5. Sciogliete il burro e passatelo su ogni foglio di pasta fillo, poi tagliate dei quadrati e create dei fazzoletti di pasta sovrapponendo più strati (circa tre), che metterete negli stampini imburrati: riempite i fazzolettini con la crema di zucca che avete tenuto in frigo, poi metteteli a cuocere in forno (oppure, se preferite, nel vostro dispositivo in cottura indiretta) a circa 180°C per 30 minuti. Controllate che siano ben cotti anche sotto e se doveste vedere che si cuociono troppo sopra, copriteli con la carta forno e spostateli in modo che la parte sottostante sia più vicina alla fonte di calore.
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CRUDO DI GAMBERI E SCAMPI
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Scampi e gamberi, i frutti del mare, sono tra le preparazioni più ambite della cucina di pesce. Noi grigliatori amiamo abbrustolirli su una griglia rovente, dopo averli marinati e insaporiti, rendendo la loro la carne succulenta e profumata. Eppure tali esemplari ben si prestano (se assolutamente sicuri) per preparare degli ottimi piatti crudi, assaporando in tal modo tutto il gusto del mare. Vediamo cosa fare per presentare due piatti a base di gamberi rossi e di scampi crudi (e occhio alla provenienza, sempre).
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LA PULIZIA Lo scopo della pulizia del crostaceo è quella esporre le carni eliminando il carapace, ossia l'esoscheletro, e rimuovere l’intestino, il filamento nero che scorre lungo la schiena. Gamberi e scampi sono animali che sostano sul fondo del mare, motivo per cui il budello è spesso colmo di sabbia e risulta, se mangiato, fastidioso e leggermente amarognolo. Nella prossima pagina sono illustrate in dettaglio tre diverse tecniche di pulizia dei crostacei. Prima di continuare, diamo una risposta esaustiva a una domanda che ci sentiamo fare spesso: parlando del Gambero Rosso di Mazara, possiamo notare come, da crudo, la testa risulti alla vista molto scura, quasi nera. Vuol dire che il prodotto non è fresco? Niente affatto: quel colore scuro che vedete sono le uova che poi, da cotte, diventano di un bellissimo e brillante color arancio. Quindi niente paura. IL CRUDO
C’è chi preferisce evitare di lavorare ulteriormente una materia prima così perfetta, così nobile. Un filo di olio extravergine di oliva e un po’ di pepe basterebbero per accompagnare un crudo di gamberi e scampi da panico, ma con una buona dose di fantasia si può arrivare anche più avanti: una granita al limone per un contrasto fresco, una crema di burrata e basilico per accompagnare la succulenza della carne, o ancora una riduzione di frutti rossi per evidenziare le note dolci ma saporite del gambero. L’unica accortezza da avere è accertarsi che il crostaceo sia freschissimo, in modo da non incorrere in nessun problema di salute. LA TARTARE Una delle preparazioni più classiche per gustare un prodotto crudo, di pesce come di carne. Tagliate rigorosamente al coltello il gambero a cubetti di circa un centimetro, condite con olio, sale, pepe e una spruzzata di succo di limone; prendete un coppapasta, appoggiatelo su della carta forno e adagiate la carne all’interno, premendo per compattare bene il tutto. La viscosità della carne e l’olio aiuteranno nell’operazione, ma se dovesse essere necessario, girate il coppapasta in modo da premere anche dall’altro lato e uniformare le due superfici. La dimensione della grana va a vostro gusto e piacimento, ma è bene sottolineare che con una dimensione più grossolana avrete una maggior consistenza sotto i denti.
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TECNICA N.1
Rimuovete l'esoscheletro dalla coda in modo da servire all’occorrenza la carne con ancora attaccata la testa e le chele, oppure eliminando anche la parte anteriore utilizzando solo la coda per altre preparazioni. •
Incidete il carapace sulla pancia, più morbida e flessibile, sollevando con l’aiuto della punta di un coltello l’esoscheletro.
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Eliminando le zampe posteriori si agevola l'operazione.
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Aprite l'esoscheletro sulla coda rimuovendolo dalla carne.
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Incidete la coda per tutta la sua lunghezza
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Con l'aiuto di uno stuzzicadenti o di un altro utensile appuntito ma non tagliente, rimuove-
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te l'intestino.
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TECNICA N.2
Mantenete l'esoscheletro integro eliminando solo l'intestino (scelta ideale per grigliare i crostacei). Piegate il crostaceo, incidete tra coda e testa, sfruttate l'apertura per inserire uno stuzzicadenti e tirate fuori delicatamente l'intestino.
TECNICA N.3
Aprite completamente il crostaceo (scelta ideale per i gamberi ammuddicati) Incidete il crostaceo dalla schiena per tutta la sua lunghezza, dividendolo in due parti lungo l'asse di simmetria. Pulite la polpa dal canale digerente.
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VOL-AU-VENT CON GAMBERI GRIGLIATI
PREPARAZIONE
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Il gambero è un frutto del mare, te lo puoi fare arrosto, bollito, grigliato, al forno, saltato, c’è lo spiedino di gamberi, gamberi con cipolle, zuppa di gamberi, gamberi fritti in padella, con la pastella, a bagnomaria, gamberi con le patate, gamberi al limone, gamberi strapazzati, gamberi al pepe, minestra di gamberi, stufato di gamberi, gamberi all’insalata, gamberi e patatine, polpette di gamberi, tramezzini coi gamberi... e questo è tutto mi pare. (dal film Forrest Gump)
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E in effetti, Bubba, hai proprio ragione: questo crostaceo gustoso e saporito si presta a infinite preparazioni e ad abbinamenti con moltissimi sapori diversi. La sfida era quella di proporvi qualcosa che unisse la passione per la griglia a un aperitivo sfizioso, non pesante, che si mangiasse in un sol boccone e facesse venir voglia di prenderne ancora, in stile uno tira l’altro. Sono nati così i vol au vent ripieni di salsa guacamole; questa burrosissima salsa con una spiccata nota di lime non va a coprire, anzi lo esalta, il sapore esplosivo del gamberone grigliato. Se avete qualche ospite un po’ schifettoso, che non sopporta l’idea di mangiare l’intestino, dovete assolutamente toglierlo e pulire per bene il crostaceo, anche se molti mangiatori seriali di gamberi diranno che questa operazione è inutile e che anzi, se non succhi la testa godi solo a metà (provateci, abbiate coraggio, e non smetterete più di farlo). In ogni caso, che voi apparteniate alla prima o alla seconda categoria - onestamente noi preferiamo pulirli non temiamo smentite se vi diciamo che questo piccolo boccone vi soddisferà pienamente. Burroso ma non pesante, acido al punto giusto, dolce quanto basta: la felicità in un morso. Il contrasto poi fra il gambero caldo e la salsa guacamole fredda, serviti in un fragrante vol-au-vent, vi sorprenderà piacevolmente ancora di più. Oh, non barate: non rovinate tutto comprandovi quei vol-au-vent imbustati, tristi, insapori e duri. Ci vuol poco a farseli in casa Ok, vi concediamo almeno la pasta sfoglia già pronta. Ma per il resto non fate i pigri: occhio, che vi vediamo!
1. Srotolate la pasta sfoglia e ricavate trentasei tondi tutti uguali usando un coppapasta di circa 6 centimetri di diametro. Mettetene da parte dodici, mentre praticherete un foro al centro dei restanti 24, utilizzando un coppapasta di diametro più piccolo, in modo da ottenere delle corone. 2. Bucherellate con una forchetta i dischi pieni e spennellateli con l’uovo sbattuto. Su ciascuno poi posizionate due corone, spennellando con l’uovo sbattuto anche i bordi. 3. Cuoceteli a 180 gradi finché non saranno dorati, leggeri e fragranti. 4. Preparate la guacamole sbucciando un avocado maturo, privandolo del nocciolo e tagliandolo a pezzetti piccoli. Schiacciate la polpa dell’avocado con una forchetta riducendolo a una poltiglia: a questo punto aggiungete sale, pepe, cipolla tritata finemente, il succo del lime e l’olio. Mescolate il tutto e tenete in frigo la guacamole così ottenuta. 5. Preparate il vostro dispostivo per una cottura diretta. Se volete pulire i gamberoni privandoli dell’intestino, togliete loro la testa e aiutandovi con uno stuzzicandenti sfilate l’intestino delicatamente. Non togliete il resto del carapace. In alternativa, lasciateli interi. 6. Mettete i gamberi in cottura così come sono: saranno cotti quando avranno raggiunto i 55 gradi al cuore e il carapace sarà diventato bianco. Nel frattempo riempite i vostri vol-auvent con la guacamole 7. A questo punto sbucciate i gamberoni e adagiateli caldi sui vol-au-vent ripieni. Servite con una macinata di pepe e un po’ di prezzemolo tritato finemente.
I N G REDI EN TI P E R 4 P E RS ON E • 12 gamberi rossi Mazhara GLC Top Selection • un avocado • un lime • una cipolla piccola. • 2 cucchiai di olio di oliva. • 1 cucchiaino di peperoncino
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• tre rotoli di pasta sfoglia rettangolare • un uovo • sale q.b. • pepe q.b. • prezzemolo q.b. • olio extravergine di oliva q.b.
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COCKTAIL DI GAMBERI
INGREDIENTI 4 persone
24 gamberi rossi Mazhara GLC Top Selection Per la maionese di gambero: le teste dei 24 gamberi 60 g di tuorli 150 g di olio di semi di girasole 10 ml di succo di limone 10 ml di aceto di vino bianco 3 g di sale 1 g di pepe di Timut Brandy q.b. Per la composta di peperoni:
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500 g di peperoni rossi e maturi
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200 g di zucchero 1 dl di aceto di vino bianco sale q.b. (senza esagerare) peperoncino a piacere (opzionale)
Come ha avuto modo di affermare lo scrittore, giornalista e gastronomo inglese Nigel Slater , il cocktail di gamberi ha trascorso gran parte della sua vita passando rapidamente da piatto glamour e alla moda a preparazione ridicolmente demodé. In effetti, se dovessimo scegliere un solo piatto che rappresenti appieno gli anni ‘80 in cucina probabilmente sarebbe questo: sospeso tra terra e cielo in quella linea sottile che separa il vintage dall’evergreen, è ancora onnipresente (spesso nella versione con gli scampi) in tutti i menu dei classici cenoni di fine anno, quelli con le signore con i capelli cotonati e vestite di lamé che trascinano i mariti alla ”serata danzante aspettando il brindisi di mezzanotte!”. Forse proprio per questo motivo, molti gastrofighetti in tv e sui social hanno coniato l’espressione “ma è anni ‘80!” per descrivere qualcosa di passato di moda, per niente sorprendente per il palato e troppo popolare. Il cocktail di gamberi, probabilmente anche a causa della salsa rosa (conosciuta in America anche con Mary Rose Sauce) con il suo inconfondibile aroma di Brandy, è sicuramente una di quelle preparazioni che racchiude tutte queste caratteristiche: abusato, scontato, banale, ovvio. Però buono, provate a dire di no. Nato, secondo alcuni, già negli anni ‘60, ha conosciuto il boom negli anni ‘80 del Novecento quando, emblema di eleganza e raffinatezza, veniva servito sulle tavole di tutto il mondo (vi ricorderete senz’altro della scena in cui i Blues Brothers ne ordinano ben cinque al ristorante insieme a dodici bottiglie di Champagne) nelle coppe da Martini o nelle conchiglie con l’immancabile foglia di lattuga croccante. La ricetta originale è semplicissima: si lessano i gamberi, si scolano e si lasciano raffreddare, poi si prepara la salsa mescolando maionese, ketchup, senape, Brandy e panna e la si lascia riposare in frigorifero almeno un’ora prima dell’utilizzo. Al momento del servizio, nelle coppe rivestite di lattuga si versa un cucchiaio di salsa e uno di gamberetti, si decora a piacere con una spolverata di pepe e del prezzemolo. Et voilà. Se si è particolarmente pigri la salsa cocktail è disponibile in vasetti al supermercato.
1. Togliete la testa ai gamberi, poi privateli del carapace e dell'intestino aiutandovi con uno stuzzicadenti. Cuoceteli al vapore finché non diventeranno opachi (oppure in un padellina a coperchio chiuso, con un filo d'acqua e a fuoco molto lento). Quando saranno pronti, asciugateli bene e poi lasciateli raffreddare. 2. Mettete le teste in una casseruola con un po' d'acqua e schiacciatele bene. Fate uscire il liquido e fatelo ritirare, poi filtratelo. Otterrete un composto denso e rosso, da aggiungere alla maionese. In alternativa seguite la ricetta della bisque di Gamberi Rossi di Mazara (trovate la ricetta più avanti). 3. Pastorizzate i tuorli delle uova, poi miscelate i due olii in un contenitore con beccuccio. Sbattete i tuorli pastorizzati ancora tiepidi insieme al liquido molto ristretto ottenuto dalle teste di gambero (o a un paio di cucchiaini di assoluto), e versate a filo l'olio continuando a sbattere con le fruste. Aggiungete a questo punto il limone, l'aceto, il sale e il pepe. Aromatizzate la vostra maionese con un goccino di Brandy e mettete tutto in frigo a far raffreddare. 4. Pulite i peperoni, privandoli del piccolo, dei semi e dei filamenti. Tagliateli a cubetti e poi metteteli sul fuoco insieme allo zucchero, all'aceto, al sale e al peperoncino (opzionale). Cuocete il tutto per una quarantina di minuti, poi passatelo al mixer e filtratelo. 5. Servite il vostro cocktail di Gamberi di Mazara mettendo la salsa in un bicchiere, poi i preziosi crostacei cotti al vapore e sopra la maionese con mezzo cucchiaino di composta di peperoni. BBQ4All Magazine
E qui entra in gioco la versione di Gianfranco Lo Cascio che, partendo dalla materia prima più buona del pianeta (il Gambero Rosso di Mazara, of course), ha rivisitato a suo modo questo grande classico della cucina italiana e internazionale, togliendogli un bel po’ di rughe ma senza snaturarlo. Il risultato è stato, nemmeno a dirlo, sorprendente: la scelta di presentare il cocktail alla vecchia maniera, nella coppa di vetro coi gamberi in piedi (abbiamo solo evitato di inserire la lattuga) è stata voluta. I vostri ospiti si aspetteranno il classico sapore di gamberetti in salsa rosa e al primo assaggio l’effetto sorpresa sarà una vera e propria detonazione. Non vi anticipiamo nulla, seguite passo passo la ricetta e godetevi lo spettacolo di fuochi d’artificio.
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CROSTINO
IN DUE VERSIONI Mazara del Vallo. Luogo: sala da pranzo di casa Lo Cascio, durante la pausa dello shooting per il Magazine. Stiamo mangiando i crostini al salmone di cui fra poco vi parleremo (è proprio duro il nostro lavoro...). Dopo il primo morso, lo Zio esclama: “Il salmone affumicato farà anni ‘80, ma è proprio buono!”. In effetti, possiamo affermare senza ombra di dubbio che il pesce nordico affettato sottilmente sia sempre stato uno dei protagonisti indiscussi sulle tavole di quel decennio. Anzi, diciamo pure che il suo successo non è stato scalfito neppure nel decennio successivo e solo negli anni 2000, complici gli innumerevoli programmi tv in cui i cuochi sono diventati star televisive e influencer, le preparazioni a base di salmone affumicato hanno conosciuto un lieve declino proprio perché bollate come demodé. Eppure, fra i tanti piatti anni ‘80 che non hanno retto allo scorrere del tempo, quelli col pescione rosa al sapore di fumo ancora resistono e, così come diremmo di una bella signora attempata ma ancora piacente, si portano bene gli anni che hanno. Il perché è presto detto: ha ragione Gianfranco Lo Cascio, il salmone affumicato è proprio buono ed è versatile, quindi in grado di stare al passo coi tempi.
Da dove viene il salmone che mangiamo?
Il mercato italiano è composto prevalentemente da tre provenienze: la Norvegia, la Scozia e l’Alaska, (esiste poi una quarta provenienza molto presente sul mercato, spesso omessa in etichetta, il Cile). La Norvegia è il primo allevatore al mondo di salmone, quindi il prodotto più comune che troviamo nei negozi è proprio il salmone norvegese. La posizione geografica facilita lo sviluppo del pesce che necessita di acque fredde e pulite per raggiungere l’età adulta. Questa provenienza è tra le migliori se parliamo di salmone prodotto negli allevamenti: il Paese nordico punta molto su quelli all’avanguardia dove viene salvaguardata la salute del pesce e dell’ambiente circostante. La Scozia non differisce molto dalla Norvegia, anche se la sua posizione geografica è un po’ meno favorevole, essendo più a sud e quindi con le temperature dell’acqua che in certi periodi dell’anno possono innalzarsi un po’ rispetto agli standard ideali per il nostro pesce, che ama l’acqua fredda. In ogni caso anche la Scozia è uno dei principali allevatori europei, che dal punto di vista qualitativo non differisce molto da quello norvegese, poiché le tipologie di accrescimento si basano su direttive standard. Tra Norvegia e Scozia quindi, le differenze non sono grandi in termini di gusto se si assaggia il prodotto fresco. Tuttavia la Norvegia è il paese più all’avanguardia se parliamo di tecniche di allevamento (per chi fosse interessato all’argomento, segnaliamo che nel 2016 un articolo pubblicato sul sito dell’Associazione SlowFood ha attaccato duramente le condizioni degli allevamenti del salmone norvegese, e in seguito a quell’episodio il Norwegian Seafood Council ha ribattuto punto per punto rassicurando i consumatori sulla qualità e sulla sicurezza del prodotto ittico da esso certificato); il salmone affumicato scozzese, però, presenta un gusto più raffinato grazie alle ricette tradizionali di affumicatura e alla tradizionale affettatura lunga.
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Questo pesce è parte della storia dell’umanità da millenni. Con l’arrivo della stagione fredda gli antichi essiccavano al fuoco i pesci per ottenere una maggiore durabilità delle carni. Anche secondo la medicina tradizionale cinese, esporre un alimento al fumo per lungo tempo ne aumenta la conservazione e gli conferisce un potere energetico molto utile per l’inverno. Quello affumicato a freddo come lo conosciamo oggi, sarebbe nato a Londra nei primi anni del ‘900, quando l’ebreo russo Harry Forman arrivó nella città inglese in fuga dai pogrom antisemiti e aprí un affumicatoio, importando salmone in salamoia dal Baltico. Si rese conto subito, però, che quello atlantico pescato negli estuari scozzesi era di qualità migliore e poteva essere acquistato fresco. A quel punto perfezionò la London cure, un mix segreto di sale e fumo di quercia e in pochi anni l’azienda di famiglia diventò il primo fornitore di salmone
affumicato dei migliori negozi, dei ristoranti stellati e della Regina.
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L’Alaska è il paese di provenienza del salmone selvaggio che si discosta fortemente da quello di allevamento sia in termini di gusto che di qualità organolettiche. La sua carne è molto magra e tende al rosso vivo, caratteristiche date rispettivamente dallo stile di vita del pesce in natura e dall’alimentazione fatta in gran parte di crostacei (a differenza di quelli di allevamento la cui carne è più grassa e nel cui mangime è contenuta l’astaxantina, un carotenoide che dona la colorazione rosa alla carne). Mangiando il salmone selvaggio si percepisce un sapore decisamente più intenso. Questa tipologia di materia prima deve essere sempre abbattuta a -18 C° prima di essere lavorata, così da eliminare il rischio Anisakis. Ultima sotto tutti gli aspetti è la provenienza cilena: il pesce di questa tipologia viene acquistato dagli affumicatori europei solo perché costa molto meno, purtroppo a discapito della qualità finale. Gli allevamenti cileni, purtroppo, detengono il primato mondiale per utilizzo di antibiotici nelle pratiche di acquacoltura.
INGREDIENTI 4 persone
400 g di salmone affumicato una baguette o una frusta da mezzo kg 200 g di stracciatella 200 g di yogurt greco fettine sottilissime di limone aglio q.b. sale e pepe q.b. due fichi maturi salsa di soia (opzionale)
Le ricette
Speciale Natale 2021
Tornando ai nostri crostini, come avete letto nel titolo essi rappresentano la rilettura e l’evoluzione di uno degli antipasti più in voga negli anni ‘80: la tartina. La tradizione era questa: mettere insieme pane per tramezzini, burro, salmone, vari ed eventuali condimenti sopra (limone, pepe rosa, erba cipollina). Da qui poi prendevano forma le varianti: con formaggio Philadelphia, con il mascarpone, con la maionese, con la robiola, col cipollotto, con l’aneto, con i ribes…
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La versione Locasciana lascia intatto solo l’ingrediente principale, il salmone affumicato appunto, e rivoluziona completamente gli altri elementi. Il pane, innanzitutto, non è più quello morbido per tramezzini ma è una baguette o una frusta tagliata a fettine che vengono tostate in padella, per dare croccantezza. Il burro viene sostituito da due diversi ingredienti: da un lato la stracciatella, dall’altro lo yogurt all’aglio. A seconda di quello che si sceglie, sarà diverso poi l’elemento da mettere sul salmone che chiuderà il crostino: se si opta per la burrosa e dolce stracciatella, una fettina sottile di limone sarà la scelta ideale, se al contrario si sceglie lo yogurt, già più acido, una fettina di fico andrà a completare e a bilanciare perfettamente il gusto. E se si è ribelli e si vuol provare la soluzione burrata+salmone+fico? Nessun problema: un goccio di salsa di soia aggiusterà il tutto.
PREPARAZIONE
1. Tagliate il pane a fette alte mezzo cm, poi tostatele. 2. Tritate finemente l’aglio e poi unitelo allo yogurt greco insieme a un pizzico di sale e di pepe. 3. Tagliate il salmone a striscioline e affettate i fichi. 4. Preparate i vostri crostini: yogurt greco, salmone e una fetta di fico, oppure stracciatella, salmone e una fettina di limone. Come scritto in precedenza, potete anche optare per stracciatella, burrata e fico, completando il boccone con un goccio di salsa di soia.
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realizzato da Gianfranco Lo Cascio
IL TORTELLO FRITTO
RIPIENO DI PROSCIUTTO Non tutti hanno avuto la possibilità di studiare all’università. Chi per scelta, chi per cause di forza maggiore, una volta finita la scuola dell’obbligo si è catapultato nel mondo del lavoro. Una scelta che merita rispetto e stima ma che purtroppo ha sicuramente precluso una serie di esperienze che, pur non essendo sempre piacevoli, meritano di essere raccontate. Coloro i quali, invece, hanno intrapreso il percorso universitario hanno avuto sicuramente modo di provare sulla propria pelle esperienze uniche, a tratti trascendentali, a cui si sottoporrebbe solo uno studente universitario: la resistenza al cibo delle mense pubbliche, l’incredibile capacità di passare una notte insonne a studiare e l’indomani dare l’esame, il dono di prendere appunti e contemporaneamente invitare la ragazza seduta nel banco vicino a prendere un caffè dopo le lezioni. Queste sono le principali skill di cui è dotata la fauna universitaria fuori sede, un po’ come il personaggio di un videogioco che aumenta i suoi punti forza uccidendo i vari mob nel gioco, così uno studente, oltre ad aumentare la sua conoscenza di una determinata materia, forgia le sue caratteristiche durante gli anni di studio. Per chi deve studiare c’è poco da fare, bisogna frequentare le lezioni, studiare a casa e dare gli esami. Il tempo per la vita sociale, cibo e sonno sono risicatissimi, e ogni giorno il dilemma verte su quale rinuncia bisogna fare per riuscire a conseguire l’agognata carta pecora.
Ma più la sessione d’esame s’avvicina più le privazioni sono toste da sopportare. Il secondo step è la
La terza fase è la semplificazione estrema del cibo. Per risparmiare tempo e dedicarne di più allo studio lo studente disperato deve ricorrere a un rigido piano di ottimizzazione dei tempi e cucinare, mangiare, lavare le stoviglie sono operazioni che vanno svolte nel tempo massimo di 18’ e 42”. E quando ci si riesce in tempo minore è sempre cosa lieta (leggende narrano di studenti fantastici che siano riusciti a completare quest’operazione in meno di 6 minuti). Si escludono, quindi, le lunghe preparazioni e i cibi a breve conservazione. L’alimentazione in questa fase si basa principalmente su carboidrati e scatolette. Si va una sola volta al supermercato e gli acquisti devo essere conservabili nell’armadio, non sia mai il coinquilino di turno decida in preda alla fame notturna di consumare cibo non suo. Tra tutti i piatti annoverati nei ricettari degli studenti universitari però uno su tutti troneggia sugli altri: i tortellini panna e prosciutto. Una pietanza semplice, fatta con ingredienti a lunga conservazione e ricca di proteine. Il top per lo studente disperato. Una preparazione che tormenta gli emiliani dagli anni ’80 e che è arrivata ai giorni nostri tramandato da generazioni di studenti universitari disperati. Questo piatto ha ereditato dagli anni ’70 l’ usanza di mettere la panna su tutto e dagli anni ’80 quella di utilizzare cibi in scatola. Quaranta anni fa era su tutti i menu d’Italia (spesso nella variante coi piselli) e oggi è possibile ancora trovarlo in qualche mensa universitaria.
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Nell’escalation delle privazioni, tendenzialmente, la prima cosa a cui rinuncia il giovin virtuoso è la vita sociale. Spranga la porta di casa, spegne il telefono e dopo sufficiente tempo la scrivania diventa l’amico a cui confidare segreti e desideri. Una privazione in fin dei conti ragionevole considerato l’obbiettivo.
privazione del sonno. Si arriva al momento in cui il tempo è poco e le pagine da studiare sono troppe, per cui bisogna ricorrere a soluzioni estreme. Si apre il barattolo di guaranà (sì proprio quella del tormentone estivo), si tirano fuori le scorte di barrette energetiche e nel caffè invece di mettere l’acqua ci si mette direttamente la redbull. E se state storcendo il naso leggendo queste cose, o se pensate che sia esagerato, ricordate che stiamo parlando di soluzioni estreme, adottate in momenti di emergenza.
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Quel giorno a Mazara, quando abbiamo deciso di affrontare l’ennesima sfida, non potevamo certo eliminare un piatto del genere nella nostra rivisitazione e così lo Zio ci ha pensato un po’ su e poi ha tirato fuori questa imprevedibile versione. Ma nel farlo ha stuzzicato anche la fantasia di suo figlio Flavio, 12 anni: papà, ma il tortellino so farlo meglio io di te! E dunque è partita la sfida. È stato bello vederli cucinare insieme, e vi assicuriamo che Lo Cascio padre non ha fatto sconti a Lo Cascio figlio: ha preso la gara seriamente e si è battuto come un leone. Lo stesso possiamo dire di Flavio. Avete le foto di entrambe le preparazioni: non c’è niente da fare, al DNA non si sfugge. Dunque, correte a comprare tutti gli ingredienti e preparate insieme a noi questa particolare rivisitazione dei tortellini panna e prosciutto (ci scuseranno gli studenti universitari, ma la nostra versione supera i 15 minuti).
INGREDIENTI 4 persone
Per la sfoglia 500 g di farina 00 5 uova sale q.b. Per il ripieno 250 g di prosciutto cotto 250 g di ricotta sale q.b. 500 g di stracciatella 200 ml di panna olio di semi di arachidi q.b. sale e pepe q.b.
PREPARAZIONE 1. Setacciate la farina e impastatela con le uova e il sale. Create un panetto che metterete a riposare in frigorifero per un’oretta. Poi stendetela in fogli sottili e ritagliate dei quadrati non troppo piccoli. 2. Nel frattempo avrete preparato il ripieno frullando insieme la ricotta e il prosciutto cotto tagliato a striscioline, aggiustandolo se necessario di sale. 3. Ponete al centro di ogni quadrato un po’ di ripieno (senza mai esagerare) e formate a questo punto il tortello (Flavio Lo Cascio è stato un maestro!). 4. Chiudete bene il tortello e, se non siete sicuri che tenga bene, aiutatevi a farlo stare chiuso con uno stuzzicadenti; scaldate bene l’olio e friggete i vostri tortelli, poi metteteli a scolare sulla carta assorbente.
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5. Nel frattempo, frullate la stracciatella con la panna e aggiustatela a vostro gusto con sale e pepe. 6. Servite i tortelli fritti e fragranti con la stracciatella: pucciandoli, scoprirete il paradiso.
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E ora diteci: quale dei due tortelli, a vedere le foto, vi ispira di più? Padre o figlio? Non siate timidi, qualunque sia la vostra risposta lo Zio sarà felice.
realizzato da Flavio Lo Cascio
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TORTELLONI
AFFUMICATI IN BRODO
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L’idea iniziale era quella di fare dei tortellini. I tortellini in brodo sono una prelibatezza e una grande tradizione del pranzo di Natale: per molti di noi, non è Natale se sulla tavola non c’è una zuppiera bianca con brodo fumante e tortellini. Si tratta di un piatto che mette tutti d’accordo e naturalmente ogni regione ha la sua variante. Tuttavia, i veri tortellini sono emiliani e se ne contendono la paternità Bologna, Modena e Castelfranco Emilia. Per questo motivo, esistono anche diverse leggende sulla nascita dei tortellini con luoghi e scenari diversi, molti dei quali associano la nascita del tortellino alla folgorazione di un uomo che, guardando l’ombelico di una nobildonna (alcune leggende parlano della dea Venere, altre di Elena di Troia), cerca di riprodurlo con un fazzolettino di pasta ripiena. I nostri però avranno un ripieno decisamente diverso dai tortellini che, secondo il disciplinare depositato nel 1974 dalla Dotta Confraternita del Tortellino, dovrebbero essere fatti solo con carne di maiale, prosciutto crudo e mortadella; ma soprattutto sarà maggiore la loro dimensione dato che, sempre secondo il disciplinare, il peso finale dovrebbe essere di 5 grammi. Per cui abbiamo deciso di chiamarli tortellotti, onde evitare incidenti diplomatici. La nostra variante da veri griller incalliti è stata quella di farcirli con carne affumicata. Ma quale carne? Per fare questo ripieno ci vuole una bella fetta di Top Blade di Black angus del nostro Megastore, da un chilo circa. Il Top Blade è un taglio di seconda categoria corrisponde al collo del bovino: è ricco di collagene e grasso, perciò adatto a cucinare un ripieno ricco di sapore.
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PER IL RIPIENO Stabilizzate il vostro dispositivo a 110°C per una cottura indiretta. Spennellate la carne con un velo d’olio, mettetela in cottura indiretta e affumicate, buttando dei petali di legno aromatico sulle braci, chiudendo il coperchio. Quando la carne ha raggiunto i 75°C al cuore, toglietela dalla griglia e ponetela in una pentola, adatta alle cotture in forno, sopra il soffritto classico fatto con sedano, carota e cipolla che avrete precedentemente preparato. Aggiungete la passata di pomodoro, il brodo, il sale, e il pepe, quindi chiudete il coperchio della pentola e continuate la cottura indiretta sempre in griglia, aggiungendo brodo se necessario e alzando la temperatura a 150°C. Ovviamente, chiudete anche il coperchio del dispositivo. Il Top Blade è pronto quando alla minima pressione con una forchetta si sfilaccia. Ciò dovrebbe accadere al raggiungimento dei 98°C al cuore. A questo punto, prendete la carne con un po’ di sugo, tritatela molto molto finemente, aggiungete il Parmigiano grattugiato e amalgamate bene.
I N G REDI EN TI P E R 4 P E RS ON E PER IL RIPIENO • 1 kg di Top Blade Black Angus del Megastore • una cipolla • un gambo di sedano • una carota • due bicchieri di brodo di carne • 3 cucchiai di passata di pomodoro • 300 g di Parmigiano grattugiato • sale q.b. • pepe q.b PER LA PASTA • 400 g farina • 4 uova • un pizzico di sale PER IL BRODO • 4 l di acqua • un gambo di Sedano • una carota • una cipolla • un pomodoro • una patata • sale q.b. • 1 kg di carne per bollito mista (pollo, manzo)
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• qualche grano di pepe nero
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PER LA SFOGLIA Fate la classica fontana con la farina, scavate un buco in cima, rompete le uova, aggiungete il sale e con l’aiuto di una forchetta iniziate ad unire gli ingredienti; terminate di impastare con le mani fino a quando non otterrete una palla compatta, che lascerete riposare mezz’ora sotto un canovaccio. Se siete alle prime armi, formare tortellotti tutti uguali non è semplice, per questo è consigliabile, dopo aver steso finemente la pasta, di suddividerla in quadrati. La dimensione? Non c'è un disciplinare, quindi non c'è da preoccuparsene troppo. Al centro di ogni quadrato mettete il ripieno e chiudete il fazzoletto di pasta formando un triangolo; fate aderire la pasta bene al ripieno per eliminare l’aria e chiudete bene i bordi. Mettete il triangolo sul dito e, avvolgendolo intorno al dito, unite le due punte. A questo punto i tortellotti sono pronti per essere cotti in un buon brodo, saporito e sostanzioso. PER IL BRODO Prendete una pentola capiente, mettete dentro tutti gli ingredienti e riempila d’acqua fredda. Quando il brodo arriva al bollore, abbassate la fiamma, copritelo con un coperchio e lasciate sobbollire per 4 ore circa, avendo cura di eliminare la schiuma che si crea in superficie. Quando il brodo è pronto, togliete la carne e le verdure, per poi filtrarlo per togliere ogni piccola impurità e lasciarlo raffreddare in modo che il grasso si solidifichi e possa essere tolto facilmente.
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Dividete il brodo in due parti, in una dove saranno cotti i tortellotti, nell’altra li servirete.
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Vi assicuriamo che offrirete ai vostri ospiti un piatto dal gusto eccezionale: la giusta sapidità del brodo avvolgerà il sapore deciso e pieno del tortellotto, e la nota affumicata del ripieno esalterà ancora di più questo connubio perfetto di sapori.
INGREDIENTI PER 4 PER S O N E • 350 g di spaghetti alla chitarra • 1 kg di vongole veraci • Olio extravergine di oliva • Peperoncino q.b. • uno spicchio d’aglio • sale q.b. • pepe q.b. • mezzo bicchiere di vino bianco • Prezzemolo q.b.
SPAGHETTI VONGOLE E WOK
Nel giorno della Vigilia di Natale, in molte regioni italiane è abitudine mangiare “di magro”, ovvero piatti non a base di carne. Questa tipica tradizione cristiana, che oggi ovviamente è rimasta solo come pura abitudine nei credenti, risale al Medioevo: a quel tempo la carne cotta specialmente con burro, lardo e strutto era considerata IL vero cibo, per cui chi doveva rispettare la penitenza durante i giorni stabiliti (la Quaresima, ogni venerdi e ogni vigilia di feste importanti) doveva accontentarsi del cibo considerato magro, come pesce, verdure e legumi. Come dicevamo, oggi è rimasta solo l’usanza, per coloro che ancora amano rispettare questa tradizione, di mangiare il pesce nei giorni penitenti. Gli spaghetti alle vongole sono un primo piatto adatto a chi vuol rispettare la tradizione, ma sicuramente godurioso per tutti quanti. Il piatto ha origini campane e come tale ha sia la versione bianca che rossa. Noi abbiamo cucinato la versione in bianco nella cocotte direttamente nel bbq.
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La cosa più importante da fare è pulire bene le vongole: le mettete in acqua di mare o acqua fredda per almeno 12 ore. Successivamente le scolate e ripassate sotto l’acqua corrente fredda. Per assicurarci della completa pulizia, picchiettate le vongole su un piano e verificate l’assenza di sabbia. Predisponete il kettle per una cottura diretta e mettete la cocotte sulla griglia gourmet® per farla riscaldare. Una volta pronto aggiungete le vongole, l’aglio e il vino bianco. Dopo aver fatto evaporare l’alcool, mettete un coperchio ed aspettate che le vongole si aprano (circa 3/5 minuti). Scolate il tutto e recuperate il sughetto ottenuto che andrà filtrato e messo da parte. Mettete nella cocotte calda tre cucchiai d’olio per far rosolare il peperoncino e l’aglio tritato finemente o lasciato intero, poi aggiungete le vongole e il sughetto filtrato. Mentre gli ingredienti si insaporiscono tritate finemente il prezzemolo per la guarnizione finale. Mettete gli spaghetti in abbondante acqua salata bollente e lasciate cuocere per qualche minuto. In questa fase andrete a sbollentare velocemente la pasta per poi portarla a cottura “risottandola” nel sugo, usando l’acqua di cottura. Aggiungete la pasta al sugo e portate a cottura. Se il sugo si dovesse ritirare troppo, potete aggiungere qualche ulteriore cucchiaio di acqua di cottura della pasta per mantenere il tutto ben umido. Impiattate gli spaghetti guarniti con una spolverata di prezzemolo e godetevi la vostra pasta con le vongole fatta al bbq.
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LASAGNE RAGÙ E FUMO
Speciale Natale 2021
Non so voi, ma noi, quando vediamo una bella teglia di lasagne al ragù, la prima cosa a cui pensiamo è proprio il Natale. Le lasagne sono la preparazione regina sulle tavole degli italiani per queste festività. Declinate in tantissime varianti, rappresentano più o meno per tutti un ricordo d’infanzia, legato alle feste in famiglia, alla nonna che si alzava prestissimo la mattina per prepararle in dosi da battaglione, al profumo del ragù che sobbolliva piano e che, una volta pronto, non potevi fare a meno di assaggiarlo con una bella fetta di pane. Ogni regione ha, come dicevamo, la sua variante di ragù e ogni famiglia ha poi il suo personale adattamento, cosicché è praticamente impossibile dare una ricetta che metta d’accordo tutti senza che qualcuno abbia qualcosa da ridire o da suggerire. Allora lo diciamo subito, giusto per mettere le mani avanti: questa versione è quella col tipico ragù toscano, fatto con manzo macinato (non scelto, non magro, ma macinato grossolanamente e con una buona percentuale di grasso) e salsiccia toscana, molto speziata e saporita. Inoltre, l’abbiamo adattata alla cottura sul fuoco, utilizzando il wok sul kettle e affumicando leggermente il ragù.
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Preparate le sfoglie per le lasagne oppure utilizzate quelle già pronte, fresche. Tritate finemente il sedano, la carota, la cipolla, le foglie di salvia, il rosmarino, l’aglio. Preparate il kettle per una cottura diretta, adagiando i bricchetti al centro della griglia carboni. Fate attenzione a non accendere subito tutti i bricchetti, ma posizionate anche alcuni spenti accanto a quelli accesi: avete bisogno che la cottura si protragga per quattro o cinque ore. Posizionate il wok nell’apposito spazio in griglia, facendo attenzione che il carbone si trovi sotto il wok, ma non a contatto. Chiudete il coperchio del kettle e aspettate che si scaldi bene. Poi versate abbondante olio extravergine e il soffritto. Quando sarà ben appassito, aggiungete il macinato e la salsiccia e fate insaporire. Bagnate col vino rosso e aspettate che evapori. Poi aggiustate di sale e di pepe, e aggiungete il concentrato e la passata di pomodoro. Se volete, potete a questo
punto aggiungere chips di melo o altro legno per affumicare. Chiudete il coperchio, stabilizzate il kettle alla temperatura di 110°C e lasciate andare il ragù piano piano, aprendo il coperchio ogni tanto per aggiungere legno per affumicare e per bagnare il ragù con un po’ d’acqua o brodo se dovesse asciugarsi troppo. Se dovesse bollire in modo troppo vivace, allontanate un po’ i bricchetti dal wok, perché vuol dire che sono troppo vicini alla padella. Fate cuocere il ragù per almeno tre o quattro ore, facendolo ritirare bene quando lo vedete pronto: non deve risultare né troppo asciutto, né troppo acquoso. Preparate la besciamella: in un pentolino fate sciogliere il burro, poi aggiungete la farina mescolando con una frusta velocemente in modo che non si creino grumi. Quando la farina avrà formato una cremina dal colore biscottato, aggiungete il latte tiepido e continuate a mescolare velocemente. Salate leggermente e aggiungete una bella spolverata di noce moscata. Portate la besciamella a ebollizione, sempre mescolando, e vedrete che a quel punto comincerà ad addensarsi. Quando sarà bella densa, spegnete il fuoco e fatela intiepidire. Imburrate una pirofila adatta alla cottura in forno. Montate le lasagne a strati, aggiungendo sfoglie di pasta fresca, ragù, bescamella e Parmigiano grattugiato: così per ogni strato. Fate almeno cinque o sei strati. Sull’ultimo strato abbondate con la besciamella e il Parmigiano Reggiano. Predisponete a questo punto il kettle per una cottura indiretta, stabilizzandolo alla temperatura di 180°C. Adagiate la teglia delle lasagne sulla griglia, fuori dalla fonte di calore, e chiudete il coperchio: cuocete finché le lasagne non saranno morbide alla prova con la forchetta. Non servitele subito, aspettate che si repprendano un poco, ma fate attenzione a non farle raffreddare.
I N G RED I EN TI P E R 4 P E RS ON E PER IL RAGÙ: • 500 g macinato di manzo • 500 g salsiccia toscana • una costa di sedano • una carota • una cipolla • uno spicchio d’aglio • due foglie di salvia • un rametto di rosmarino • qualche chiodo di garofano • una foglia di alloro • un bicchire di vino rosso • tre cucchiai di doppio concentrato di pomodoro • mezzo bicchiere di passata di pomodoro • olio extravergine di oliva • sale q.b. • pepe q.b. PER LA BESCIAMELLA: • un litro di latte • 100 g farina • 100 g burro • noce moscata q,b. PER LE LASAGNE: • 250 g sfoglie per lasagne • burro q.b, • Parmigiano Reggiano grattugiato 150 g
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ASSOLUTO
DI GAMBERI ROSSI DI MAZARA
Ambìto e consumato in lungo e in largo, troppo spesso del gambero si perdono le qualità più importanti e distintive. Eh sì, perché se è vero che è la coda ad essere servita cruda o cotta in uno svariato repertorio di preparazioni, è anche vero che sono testa e carapace a contenere la maggior spinta di sapori e aromi, tra i più complessi, ricchi e potenti di tutta la cucina. Con pochi e semplici passaggi è possibile preparare un estratto dalla forza inaudita, adatto a insaporire brodi, salse, sughi, primi e secondi piatti. L’Assoluto di Gamberi è, di fatto, un concentrato inestimabile di sapori, una riserva preziosissima da preparare e tenere da parte, adatta a mille scopi. PREMESSA: L’ORIGINE DEL SAPORE Il carapace dei crostacei è una porzione di esoscheletro che protegge il cefalotorace dell’animale, ed è composto da 4 strati ben definiti: • epicuticola: proteica e lipidica, priva di chitina. • esocuticola: formata da proteine e chitina eventualmente calcificata. • endocuticola: ricca in chitina e che può essere abbondantemente calcificata. • strato membranoso: contenente chitina non calcificata addossato all’epiderma. Un concentrato di proteine, lipidi e polisaccaridi insomma, che tostando funge da sorgente inestimabile di sapori. PRIMA PARTE: LA MAILLARD Trito di sedano, carota e cipolle come base, il più classico dei soffritti, utile a garantire insieme ad un buon olio extravergine di oliva un’esplosione amplificata dei profumi estratti dal gambero. Una volta saltato il mix di verdure, spadellate tutte le rimanenze dei gamberi a fiamma alta: carapaci, teste, tutto quel che non si mangia insomma. SECONDA PARTE: IL PLUS DI SAPORE Una volta che gli zuccheri del carapace sono caramellati, sfumate con del cognac per recuperare tutto il prezioso fondo; a tal proposito, se usate una padella antiaderente potete dire addio al 50% del risultato. Evaporato l’alcol, aggiungete qualche pomodoro datterino fresco o del concentrato di pomodoro, mezzo lime e abbondante ghiaccio, in modo da evitare che a fiamma viva i carapaci brucino in fretta, alterando le proprietà inestimabili per l’Assoluto perfetto.
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TERZA PARTE: LA RIDUZIONE Eliminate le teste e le chele, strizzando il loro contenuto all'interno della pentola, aiutandovi con una pinza. Fate ridurre, frullate con un mixer a immersione e filtrate con un colino cinese. Otterrete un concentrato molto denso, carico di sapori, utile anche in dosi minimi per generare un boost inconfondibile a qualsiasi piatto. Fidatevi, non potrete mai più vivere senza.
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BUSIATE AL RAGÙ DI TONNO
Tipiche della tradizione trapanese, le busiate sono un formato di pasta fresca fatta solo con farina, acqua e un pizzico di sale. Si tratta di una sorta di maccheroni attorcigliati su se stessi, con la tipica forma a spirale cava al centro. Questo fa sì che la pasta cuocia alla perfezione e che trattenga benissimo il condimento. L’origine del nome, come spesso accade, è incerto: secondo alcuni deriva da un particolare ferro da maglia detto buso, che veniva utilizzato nel trapanese per lavorare lana e cotone, col quale si dava la forma a spirale alla pasta; secondo altri, il nome deriva dalla busa, ovvero lo stelo molto sottile dell’Ampelodesmos mauritanicus, graminacea tipica della macchia mediterranea, che veniva utilizzato sia per legare i fasci di spighe che per realizzate le busiate. In ogni caso, per preparare questi maccheroni basta avvolgere l’impasto intorno al ferro e poi dargli la forma desiderata attraverso la pressione col palmo della mano. Se non si possiede il ferro adatto, si può utilizzare anche uno spiedino di legno. Di solito, le busiate vengono condite con il pesto alla trapanese, ma oggi lo chef Angelo Ferrara ci insegna un ragù di tonno che si sposa benissimo con questi tipica pasta siciliana. Il tonno usato per questa ricetta è quello a pinne gialle, chiamato così per la caratteristica colorazione delle pinne dorsali e ventrali, la cui carne è tenera, compatta e dal colore rosa intenso.
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La spezia che viene usata dallo chef, che dona un sapore molto particolare al ragù, è il finocchietto: è importante ricordare che, dopo aver eliminato tutti i fili duri, va sciacquato e fatto bollire in una pentola con acqua salata. Prima di essere utilizzato, infatti, il finocchietto va sempre sbianchito.
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E se non riuscite a trovare le busiate o non avete tempo per prepararvele da soli? Lo chef consiglia le trofie, che si adattano benissimo a questo ragù.
Ingredienti per 4 persone: 300 g Tonno pinna gialla / 300 g di busiate / qualche rametto di finocchietto sbianchito in padella / un cucchiaio di sedano, carota e cipolla tritati finemente / vino bianco q.b. / mezzo cucchiaio di concentrato di pomodoro / pinoli 100 g / sale q.b. / olio extravergine di oliva q.b. PREPARAZIONE 1. Riducete il tonno a pezzetti piccoli e poi, in una padella, soffriggete in olio extravergine di oliva il sedano, la carota e la cipolla tritati finemente. 2. Tritate il finocchietto e aggiungetelo al soffritto, poi fate insaporire il tonno. 3. Bagnate il tutto col vino bianco e lasciatelo evaporare. 4. Aggiungete il concentrato di pomodoro con poca acqua, aggiungete i pinoli e aggiustate di sale (senza esagerare, addirittura lo chef consiglia di non usare il sale e di regolarsi solo con quello nell’acqua della pasta); a questo punto lasciate cuocere il ragù: è importante ricordare che il tonno non ha bisogno di una cottura prolungata. 5. C u o c e t e l a p a s t a i n abbondante acqua salata, e poi saltatela in padella con il ragù di tonno e i pinoli, aggiungendo acqua di cottura per risottarla un po'.
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TAGLIOLINI AL NERO DI SEPPIA GAMBERO ROSSO BURRATA E LIME
Cos’è il nero di seppia? Chiamato comunemente inchiostro è una sostanza altamente colorante, contenuta in un organo speciale presente nei molluschi cefalopodi, di interesse gastronomico: si trova nei polpi, nei calamari e nelle seppie. Presenta colorazioni differenti a seconda della specie ma è costituito essenzialmente da muco e melanina. Il nero di seppia è contenuto in una ghiandola a forma di sacco annessa al tratto finale dell’apparato digerente del mollusco. Il suo contenuto viene espulso direttamente nella cosiddetta cavità del mantello dove alloggiano le branchie, e spruzzato tramite il sifone, cioè una struttura tubolare che serve all’animale per respirare e muoversi secondo principio della propulsione a getto tipico di questi molluschi. L’animale espelle l’inchiostro a scopi difensivi. Per ricavare facilmente una quantità di inchiostro sufficiente, le seppie devono essere di buone dimensioni e freschissime, in quanto gli organi interni di questi molluschi sono fragili e si decompongono molto rapidamente dopo la morte dell’animale.
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Per mantenere integra la struttura della seppia e ricavare la ghiandola dell’inchiostro è necessario incidere la seppia dal dorso e rimuovere l’osso, in questo modo saranno visibili le interiora del mollusco che devono essere rimosse delicatamente al fine di non rompere la ghiandola che ha un colore nero-argenteo. Il nero di seppia deve essere consumato rapidamente e ha un altissimo rendimento in termini di colorazione. Può essere utilizzato sia come base per condimenti sia come colorante per la pasta, classica o all'uovo.
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Qui è stato usato per l’impasto dei tagliolini che poi sono stati conditi con gambero rosso di Mazara, una burrata rigorosamente pugliese e del lime.
Ingredienti per 4 persone per i tagliolini: 400 g di semola di grano duro rimacinata / acqua q.b. / un pizzico di sale / nero di una seppia sciolto in 2 cucchiai di acqua fredda per il condimento: uno spicchio d’aglio / un cucchiaio di sedano, carota e cipolla e tritati finemente / olio extravergine di oliva q.b / sale q.b. / 200 g di burrata pugliese / mezzo bicchiere di vino bianco / una ventina di Gamberi Rossi di Mazara / un lime PREPARAZIONE 1. Mettete la farina in un recipiente, setacciandola, poi inumiditela con mezzo bicchiere d’acqua e un pizzico di sale; 2. Diluite il nero di seppia in acqua: questo procedimento aiuta la colorazione dell’impasto che deve essere di un nero assoluto; cominciate ad aggiungere il nero all’impasto, che deve risultare morbido e non appiccicoso. Se si presenta ancora pallido e grigio, aggiungere altro nero. 3. Quando il panetto di impasto è pronto, fatelo riposare per un’ora, poi stendetelo con un mattarello aiutandovi con la farina, poi avvolgetelo su se stesso e ricavate i tagliolini. 4. In una padella mettete l’olio, lo spicchio d’aglio, il cucchiaio di soffritto e fate cuocere leggermente i gamberi sgusciati, tenendovene però quattro ancora col guscio; sfumate con vino bianco e fate evaporare l’alcool. 5. Scottate i tagliolini in abbondante acqua salata, poi aggiungeteli al condimento facendoli saltare e risottare, continuando a mantecare per dare cremosità. Non aggiungete sale al condimento, ma solo all’acqua di cottura. 6. Impiattate i tagliolini con burrata pugliese, una grattugiata della scorza del lime e un gambero intero come decorazione.
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PASTA CON LE SARDE
Con il termine generico sarda si indicano i pesci appartenenti a due grandi famiglie: quella dei Clupeidae e quella degli Engraulidae. A queste due famiglie appartengono le sardine, le acciughe (o alici), e le aringhe. Il nome sarda (sarda sarda, Bloch, 1793) è riferito a un altro pesce, comunemente detto palamita, che però è molto più grosso rispetto agli altri. Sardine (Sardina pilchardus, Walbaum, 1792) e aringhe (Clupea harengus, Linneo, 1758) appartengono entrambe alla famiglia Clupeidae ma sono due specie diverse, mentre le acciughe (Engraulis encrasicolus, Linneo, 1758) appartengono alla famiglia Engraulidae. Questi pesci, seppure simili all’apparenza, sono molto differenti nel gusto; per questo motivo se ne fa un diverso utilizzo in cucina. Per le ricette che seguono la protagonista è la sardina che in Sicilia viene comunemente chiamata sarda. Oggi, insieme allo chef Nicola Indomito, ci addentriamo nei meandri della tradizione culinaria siciliana con una preparazione tipica dell’isola: la pasta con le sarde. Questo piatto, inserito nella lista dei prodotti agroalimentari tradizionali italiani redatta dal Ministero delle politiche agricole e forestali, è tipico della stagione che va da marzo a settembre, ovvero il periodo in cui è più facile reperire sarde fresche e raccogliere nei campi il finocchietto selvatico (ingrediente di cui è ricca). Secondo la leggenda, questa pasta fu inventata dal cuoco arabo di Eufemio da Messina (alcuni sostengono che questo fatto sia successo proprio a Mazara!) il quale, dovendo sfamare le truppe durante la campagna militare degli arabi in Sicilia, si trovò a dover arrangiarsi con il poco che aveva a disposizione: fu così che nacque la prima ricetta mare&monti della storia, poiché il cuoco unì un prodotto del mare, le sarde, con altri due prodotti della terra, il finocchietto e i pinoli.
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Operazione preliminare è la pulizia delle sarde. È abbastanza semplice, ma richiede manualità e un po’ di pratica. Prendete le sardine e ponetele in uno scolapasta, sciacquatele dunque sotto l’acqua corrente. Fatto questo staccate la testa del pesce e, aiutandovi con il pollice, aprite il pesce in due seguendo la linea ventrale. Fatto questo eliminate la lisca centrale. Se avete un po’ più di manualità potete anche unire le operazioni: staccando la testa tirate verso la coda e contemporaneamente aprite il ventre ed eliminate la lisca. Terminata la fase di pulizia rimettete le sardine nello scolapasta e passatele nuovamente sotto l’acqua corrente per eliminare gli ultimi residui di sangue.
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Prima di parlare della ricetta protagonista di oggi è bene soffermarsi su un altro ingrediente che sarà presente nel piatto: la muddica atturrata. Diversamente da quello che sembra, questo ingrediente non è semplicemente del pangrattato, ma è il prodotto che si ottiene grattando la mollica dal pane di semola divenuto secco. Una volta ottenuta la muddica si fa tostare in padella con un filo d’olio, sale e pepe, fino a ottenere il prodotto adatto a questo tipo di preparazione. Nella versione palermitana, oltre agli ingredienti appena citati, si aggiungono prezzemolo e aglio tritati nella fase di tostatura.
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Ingredienti per 4 persone: 500 g di sarde già pulite / 500 g di bucatini / due mazzi di finocchietto selvatico sbianchito / mezzo bicchiere di passata di pomodoro / 100 g di pinoli / uva passa q.b. / una bustina di zafferano / una cipolla bianca / un bicchiere di vino bianco / olio extravergine di oliva q.b. / 100 g di muddica atturrata
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PREPARAZIONE 1. Tritate finemente la cipolla e il finocchietto 2. In una pentola mettete la cipolla, il finocchietto, una dose generosa di olio, i pinoli, l’uvetta e il vino. 3. Fate adesso rosolare il tutto. 4. Aggiungete la passata di pomodoro e lasciate sobbollire qualche minuto. 5. È i l m o m e n t o d e l l o zafferano: aggiungetelo al sugo; in alternativa, se volete, provare la curcuma (ma non ditelo ai gastrotalebani!) 6. Lasciate sobbollire qualche minuto 7. Aggiungete infine le sarde pulite e sciacquate. 8. Aggiustate di sale e fate cuocere a fuoco dolce, aiutandovi con un poco d’acqua se il sugo vi sembra troppo asciutto 9. Nel frattempo in un’altra pentola mettete a cuocere la pasta 10. Quando la pasta è cotta conditela con il sugo di sarde 11. Impiattate adesso la pasta condita e guarnite con la muddica come se fosse Parmigiano.
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TAGLIATELLE DI GAMBERO Parliamo ancora di tagliatelle, che ultimamente sono molto amate dallo Zio. È facile infatti arrivare a casa sua ed essere accolti da un Gianfranco sorridente – credeteci, è così- intento a sperimentare, impastare, tirare e stendere chili e chili di pasta. Oggi, dunque, siamo qui a parlarvi di un nuovo, felice e riuscito esperimento: le tagliatelle di Gambero Rosso di Mazara del Vallo. Occhio ai dettagli e soprattutto alle preposizioni: non al, ma di. Vi abbiamo illustrato più volte quanto il nostro amatissimo amico crostaceo mazarese sia un cibo prelibato di cui non si butta via praticamente nulla, ma stavolta andiamo oltre, facendovi vedere come poter usare lo scarto dello scarto. Allo Zio l’idea è venuta perché voleva esaltare il sapore inconfondibile del Gambero Rosso in un primo piatto che fosse condito con pochissimi ingredienti: solo burro, al massimo un cucchiaio di bisque, per portare in tavola una preparazione gourmet e raffinata, bella da vedere, essenziale e al tempo stesso perfettamente rotonda e appagante.
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Una bella mattina, quindi, Gianfranco Lo Cascio ha preso ciò che rimaneva dei gamberi dopo la bisque (che vi ricordiamo noi abbiamo chiamato Assoluto) e ha pensato bene di seccare nel forno tutti gli scarti; successivamente li ha resi una polvere e con quella ha realizzato delle tagliatelle. La delegazione del BBQ4All Magazine era presente all’assaggio. Già solo il colore era uno spettacolo per gli occhi. Il sapore, indescrivibile. Come se il mare avesse vivesse in una tagliatella. Non vi aspettate un sapore esplosivo, di quelli che detonano in bocca, quanto piuttosto un gusto delicato che si rivela piano piano e a ogni boccone si intensifica.
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Probabilmente troverete un po’ di difficoltà nel lavorare la pasta, poiché la polvere la renderà meno elastica di ciò che vi aspettate e dovrete ripassarla più volte nella sfogliatrice. Non demordete, e otterrete delle tagliatelle uniche sia nell’aspetto che nel sapore. Nel frattempo tenete a portata di mano il vostro Assoluto di Gambero Rosso, il burro e l’immancabile limone. Vi ritroverete la Sicilia nel piatto, prima, nel cuore e nei ricordi, dopo. Come è successo a noi. Non provateci con un altro tipo di gambero: non avrebbe senso.
INGREDIENTI 4 persone
Per l'Assoluto di gamberi due cucchiai di trito di sedano, carote e cipolle due cucchiai di olio extravergine di oliva le teste e i carapaci dei Gamberi Rossi di Mazara mezzo bicchiere di cognac mezzo cucchiaio di concentrato di pomodoro mezzo lime abbondante ghiaccio Per le tagliatelle mezzo kg di pasta di semola di grano duro 5 uova 250 g di polvere di gambero Per finire un cucchiaio o due di Assoluto di Gambero 300 g di burro la scorza di un limone sale e pepe q.b.
PREPARAZIONE 1. Pulite i gamberi e tenete da parte le teste e i carapaci; a questo punto potete cominciare a preparare l'Assoluto di gamberi (il procedimento dettagliato è poche pagine prima); 2. In una padella, fate soffriggere il trito di verdure e poi spadellate tutte le rimanenze dei gamberi a fiamma alta. Sfumate col cognac. 3. Evaporato l’alcol, aggiungete il concentrato di pomodoro, la spremuta di mezzo lime e il ghiaccio, in modo che i carapaci e le teste non si brucino in cottura; 4. Fate ridurre il tutto, frullatelo con un mixer a immersione e filtratelo con un colino cinese, ottenendo un concentrato molto denso. 5. Prendete le parti solide della rimanenza della bisque, schiacciatele e mettetele in forno ad asciugare a una temperatura di circa 70°C, in modalità ventilata. Quando tutto sarà perfettamente secco, riducetelo ad una polvere, macinandolo. 6. Formate la fontana con la farina su una spianatoia e aggiungete la polvere di gambero e le uova. Cominciate a lavorare l’impasto e
poi formate una pallina, copritela con pellicola trasparente e fatela riposare per mezz’ora in un luogo asciutto. 7. Tirate la pasta con la sfogliatrice; probabilmente serviranno più passaggi affinché le sfoglie raggiungano la consistenza adatta per formare le tagliatelle. Le sfoglie alla fine dovranno avere circa 1,5 mm di spessore. A questo punto tagliatele per formare le tagliatelle, che dovranno essere alte circa 5 mm. Mettetele infine ad asciugare su uno stendipasta in modo che non si sovrappongano tra loro. 8. In una padella scaldate il burro, aggiungete l’assoluto di gamberi e nel frattempo fate cuocere le tagliatell in abbondante acqua salata, tenendovi poi da parte un po’ dell’acqua di cottura. 9. Fate saltare le tagliatelle nel burro e nella bisque, rigirandole con energia e eventualmente aggiungendo un poco d’acqua di cottura. Aggiustate di sale e di pepe, completate con una generosa grattugiata di scorza di limone e servite.
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SPAGHETTONI CON I RICCI DI MARE
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Molti di noi condividono il ricordo di un’esperienza simile, quella del riccio di mare mangiato sugli scogli, appena pescato. L’iniziale diffidenza, la curiosità mista a ribrezzo, il timore; poi l’esplosione di un sapore così unico, marino e terreno insieme, affilato e morbido, secco e allo stesso tempo umido. Il mare nel palato, le persistenti note iodate, i brividi sul corpo, l’appagamento che segue l’adempimento di un rito dal sapore arcaico e pagano. Immersi nell’estasi sensoriale, quasi ci si dimentica che la parte commestibile del riccio, quella che si può mangiare è costituita dalle gonadi… in altre parole, l’apparato riproduttore!
a.C – 8 a.C). I ricci li troviamo nella Satira VIII, libro II: descrivendo una cena a casa del ben ricco Nasidieno, racconta che un certo Curtillo consigliava di “[...] fare una salsa con le uova di riccio non lavati, spaccati in due, perché il loro liquido è migliore di qualsiasi salamoia”. Allontanadoci dai poeti ed entrando nel mondo culinario, è d’obbligo citare l’esperienza di Apicio, il cuoco simbolo della Roma imperiale (vissuto a cavallo fra il I secolo a.C. e il I secolo d.C.): “[...] Prendi una pentola pulita e fai bollire un po’ di olio, garum, vino dolce, pepe in polvere. Quando ha bollito, versa su ciascun riccio questa salsa. Mescola e fai bollire per tre volte. A cottura ultimata, condisci con pepe e servi”.
Numerosi scrittori e artisti di ogni secolo celebrano il sapore la magica capacità evocativa che solo lui, l’Echinoidea, è capace di suggerire. Gli archeologi ci confermano che già in epoca Neolitica (intorno al 6.000 – 3.000 a. C.) gli abitanti delle grotte consumavano ricci di mare; abitudine confermata anche dai ritrovamenti all’interno dei nuraghi sardi (1.100 a.C.).
Nel Medioevo perdiamo un po’ di vista il nostro puntuto protagonista, che però ricompare nel successivo Rinascimento. Bartolomeo Scappi, celebre cuoco famoso anche per essere il prediletto di Carlo V, re di Spagna, lo preparava in questo modo “Il riccio marittimo è animaletto di statura ritondo, […] Si cuoce tale animaletto quando è netto su la graticola ponendoli un poco d’oglio, e pepe nel buco, e cotto che sarà servasi caldo… Si può anco empire di varie composizioni dapoi che sarà ben netto come di sopra, facendosi poi cuocere su la graticola sotteflato a beneplacito…”.
Ma è con il mondo greco prima e quello romano poi, che troviamo chiarissime testimonianze scritte e preparazioni che, con qualche accorgimento, possiamo anche riadattare ai nostri palati, usanze ed abitudini. Il mondo greco, soprattutto, ci ha lasciato innumerevoli testimonianze del riccio di mare come cibo singolo o ingrediente di preparazioni più o meno complesse. Ippocrate, il padre della medicina, (460 a.C. - 377 a.C.), riporta questa testimonianza preziosa: “Alcuni mangiano i ricci di mare sia nel vino mielato, sia nella salsa di pesce. Queste usanze erano praticate prima del pranzo, per purgare il ventre”. Il filosofo e poeta Archippo (400 a.C.) racconta: “I ricci sono teneri, succosi, dal cattivo odore, saziano e sono di facile digestione; mangiati con aceto e miele, sedano e menta sono appetitosi, dolci e di buon sapore”. Poco dopo, il poeta Nicostrato (IV sec. a.C) scrive: “Il primo vassoio che introduce alla cena, comprenderà un riccio di mare, un po’ di pesce affumicato, capperi, una focaccia al vino, una fetta di pane ed un lampacione in salsa acida”. La notazione più vicina a noi è però quella di Orazio, poeta e scrittore del mondo romano (65
Oggi la pasta con i ricci di mare ha un posto fisso nel menu di molti ristoranti delle località marine più famose; la procedura di preparazione è simile con poche variazioni, ma noi ci siamo permessi di slegarci dalle convenzioni e di riflettere. Può essere migliore? Qualche purista afferma che la preziosa polpa va consumata pura, senza mediazioni. Quindi è meglio senza pasta? Gualtiero Marchesi ci è venuto in aiuto, con la sua insalata di pasta fredda ai ricci di mare. Da questa idea abbiamo iniziato a sperimentare, concordando che, per nostro gusto personale, il calore forse rovina i ricci. Essi diventano una materia prima irritabile, non rendono al palato, c'è troppa intensità, troppa aromaticità, troppi effluvi, troppi spigoli, troppo umami. La migliore espressione dei ricci si ha quando questi sono freddi, tranquilli e beati. Perché ben si prestano ad amalgamarsi e plasmarsi ad altri ingredienti. Quindi pasta fredda. Riccio freddo. Semplice, no?
Ingredienti per 4 persone: 250 g di spaghettoni trafilati al bronzo / 1 kg di ricci di mare / 60 ml di vino bianco / 4 spicchi di aglio / olio extravergine d’oliva q.b. / erba cipollina q.b. / sale q.b. / il succo di 1 limone intero / pepe in grani da macinare q.b. PREPARAZIONE 1. Predisponete una bacinella di acqua ghiacciata salata considerando 1 litro d'acqua e 10 grammi di sale ogni 100 g di pasta. 2. Nel frattempo, preparate una emulsione con sale, limone, olio extravergine d’oliva. 3. Cuocete gli spaghettoni in acqua bollente salata, scolateli e versateli subito nella bacinella: l’obiettivo è raffreddarli del tutto.
5. Nel frattempo, pulite i ricci. Con l’aiuto di un tagliaricci (che vi sarà indispensabile) incidete
6. Una volta aperto il riccio, con l’ausilio di un cucchiaino, scavate la parte arancione: quelle sono le uova e l’apparato riproduttore, la nostra parte edibile. Prendete tutto il possibile col cucchiaino e versate la polpa in un recipiente. 7. Prendete gli spaghettoni dal frigo, scolateli nuovamente e versateli in una zuppiera ampia. 8. Conditeli con l’emulsione e mescolate energicamente. Aggiungete la polpa dei ricci fredda, il pepe macinato al momento, un trito di erba cipollina a finire.
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4. Lasciateli riposare in frigo a circa 4°C per qualche ora, in modo tale da freddarli ancora.
dal lato della bocca, che è anche il lato superiore del nostro riccio.
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AGNOLOTTI
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CON GUANCIA AFFUMICATA
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Tortellini, ravioli, agnolotti, tortelloni, cappelletti: di tutte le forme, di tutte le grandezze, con svariati ripieni, in brodo o asciutti, con condimenti tradizionali o alternativi… in qualunque modo vogliate prepararla la cosa certa è che non può esistere un Natale senza che la pasta ripiena faccia bella mostra di sé sulle tavole italiane, specie della zona centro-settentrionale.
pasta ripiena non è facile. A dar retta, dovremmo dedicare un numero intero solo a questo argomento, e forse non basterebbe. C’è però un’annosa questione che dobbiamo affrontare: considerando che agnolotti e ravioli hanno la stessa forma, che differenza sostanziale c’è tra l’una e l’altra preparazione? Possono di fatto essere considerati sinonimi?
Parliamo tradizionalmente di una sfoglia di pasta, perlopiù all’uovo, che viene riempita con un composto a base di carne, di pesce, di verdura o di formaggio (ma ormai le varianti sono molteplici e non mancano quelle con la frutta o addirittura quelle dolci). Questo modo di cucinare la pasta, nato con il duplice scopo di contenere e cuocere un ripieno, risale al Medioevo. La pasta ripiena nacque come cibo per benestanti e signori (e chi altri poteva permettersi una cosa simile?); le prime notizie certe che si hanno su questa preparazone riguardano il raviolo, comparso sulle tavole dei nobili tra il XII e il XIII secolo e citato anche dal Boccaccio, nel Decameron (VIII giorno, III novella “Calandrino e l'elitropia”): i protagonisti del racconto arrivano nel Paese di Bengodi dove “ (…) eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan genti che niuna altra cosa facevan che far maccheroni e raviuoli, e cuocergli in brodo di capponi, e poi gli gittavan quindi giù, e chi più ne pigliava più sen’aveva (...) ”.
Abbiamo appurato che i primi a vedere la luce sulle tavole siano stati i ravioli, dato che la loro nascita viene datata ai primi del 1200, e fino al 1800 nei ricettari esiste solo ed esclusivamente la parola raviolo. Il termine agnolotti debutta per la prima volta nel 1814 e a farne menzione è Vincenzo Agnoletti, chef di Maria Luigia d’Austria duchessa di Parma e Piacenza, che li cita (chiamandoli agnellotti) in La nuovissima cucina economica. Agnolotti, agnellotti e agnoletti. Ci rendiamo conto che la faccenda diventa difficile. In ogni caso, per farla breve, sono nati prima i ravioli. In Piemonte poi li hanno chiamati agnolotti (non ci addentriamo sull’etimologia del nome, perché altrimenti festeggiamo qui il Capodanno). Secondo il Dissionari piemontèis (Sergio Seglie,1972) L’agnolotto è “essenzialmente di carne”, mentre il raviolo viene definito “pezzetto di pasta con ripieno di verdura o ricotta”.
Nel tempo, la bontà della pasta ripiena è stata riconosciuta un po’ ovunque e la sua popolarità è cresciuta velocemente, tanto da essere presente nei ricettari di quasi ogni regione già nel XV secolo. Le paste ripiene più diffuse in Italia (con le relative varianti nei condimenti e nei ripieni, non solo a livello regionale, non solo a livello locale, ma anche a livello familiare) sono tortellini e tortelloni, cappelletti, agnolotti, ravioli e casoncelli. Ognuna con una propria storia legata alle vere origini, spesso motivo di litigi fra le varie città che ne rivendicano le paternità. AGNOLOTTI O RAVIOLI? Districarsi fra i nomi, le forme e i condimenti della
In pratica, sempre per amore della sintesi, la differenza sostanziale riguarda il ripieno: se è di sola carne (specie arrosto) siamo mangiando un piatto di agnolotti; se è di verdura, di carne e verdura, di verdura e formaggio (specie ricotta) e infine di pesce, stiamo gustando un piatto di ravioli. I nostri, considerato il ripieno di carne cucinata alla maniera del vero serial griller, sono dunque da considerarsi agnolotti, ma chiamateli pure ravioli, anzi, chiamateli come volete. Avrete una sola certezza: più buoni di così sarà difficile che ne troviate. Noi li abbiamo presentati in brodo (considerato anche il lungo articolo su come preparare il brodo perfetto), ma provateli anche col ragù scientifico dello Zio (ce l’avete tutti il Codice Lo Cascio, vero? No? Ahi ahi ahi!) e vi emozionerete.
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Ingredienti per 4 persone: per la guancia brasata: 2 guance di manzo del nostro Megastore / 2 cucchiai di Ultimate SPOG Sal’s Seasoning / 1 l di vino rosso / una cipolla rossa / una carota grossa / due gambi di sedano / due foglie di alloro / olio extravergine di oliva q.b. per la pasta : 400 g di farina / 4 uova / un pizzico di sale per il ripieno : 80 g di Parmigiano Reggiano 40 Mesi GLC Top Selection / un uovo / sale e pepe q.b. PREPARAZIONE 1. Ripulite la carne eliminando gli eventuali brandelli e la membrana che la riveste. Tamponate con carta assorbente per eliminare l'eccesso di umidità. 2. Spennellate con olio extravergine e condite con il rub . 3. Preparate il setup del vostro dispositivo per una cottura indiretta a 170°C, poi adagiate le guance in griglia, affumicando con l’essenza di legno che preferite, chiudendo il coperchio del dispositivo. 4. Una volta formato il bark mettete la carne in cottura diretta, installate la cocotte in ghisa nell’apposito spazio in griglia oppure adagiatela sulla griglia in corrispondenza delle braci o della fonte di calore, versate l'olio extravergine di oliva e rosolate le cipolle, le carote ed il sedano tagliati grossolanamente. Aggiungete il vino e trasferite le guance affumicate all'interno del tegame. Coprite con il coperchio e terminate la cottura della carne portandola a 95°C al cuore. Recuperate i succhi di cottura e filtrateli. 5. Tagliate la carne a fette e mettetele nel mixer, aggiungete un cucchiaio di salsa del brasato, il parmigiano e l’uovo. Eventualmente aggiustate d sale. 6. Amalgamate bene il composto ottenuto e mettetelo da parte. 7. Preparate la sfoglia: disponete 400 g di farina nella classica forma a fontana, unite le uova e un pizzico di sale. Lavorate bene il composto, fino a quando non otterrete una palla omogenea e compatta (aggiungete farin se vi sembra troppo molle). Trasferite la vostra palla in frigo per un’oretta.
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8. Tirate la sfoglia con il mattarello o con una macchina per tirare la pasta, prendete il ripieno e disponetelo a mucchietti non troppo grossi, distanziandoli fra loro di circa due cm.
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9. Ripiegate la sfoglia sui mucchietti di ripieno, fate uscire l’aria aiutandovi con le dita e poi tagliate gli agnolotti, chiudendoli bene. 10. Cuocete gli agnolotti nel brodo di manzo oppure serviteli asciutti con il ragù.
RAVIOLI AFFUMICATI
La pasta fresca è un caposaldo della tradizione culinaria italiana; un ricettario della nostra cucina non può dirsi completo se non dedica un’ampia sezione a questa preparazione, dalla scelta della farina, fino alla stesura della sfoglia, da cui poi ricavare i vari formati. Nonostante tutto ciò, l’alimento che ci ha reso famosi nel mondo pare non sia stato inventato da noi.
in grado di ricavare una farina dai chicchi di miglio, per poi ottenere una pasta da stendere grossolanamente in lunghe strisce. In ogni caso, in Italia fu l’ingegno medioevale ad intuire le grandi potenzialità della pasta e ad avvicinarla moltissimo al prodotto che oggi nel mondo tutti amano mangiare, introducendo la cottura in acqua e l’essiccazione per prolungarne la durata. In questo periodo, nella Repubblica marinara di Genova, comparve sulla scena
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È difficile stabilire quale popolo abbia iniziato per primo a mescolare con acqua e sale
una farina ottenuta macinando grossolanamente il grano. L’opinione diffusa è che le sue origini siano da ricercare nella civiltà persiana e, soprattutto, in quella greca. Il primo a parlare di pasta come alimento nel V secolo a.C. è il commediografo Aristofane, che in una delle sue commedie ne descrive una preparazione simile agli attuali ravioli. Un reperto archeologico venuto alla luce nel 2000, nel corso di alcuni scavi a Lajia (Qinghai, Cina), ci racconta che i cinesi nel Neolitico erano già
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culinaria un quadrato di pasta ripieno di carne e verdure, chiamato raviolo in onore del suo ideatore, il cuoco Ravioli. Questo fagottino delizioso si diffuse con grande rapidità lungo tutta la penisola grazie all’esportazione via mare delle navi genovesi, conquistando il palato di tutti coloro che lo assaggiarono e dando vita anche a molte varianti nella forma (quadrati o tondi, con o senza bordo), nel ripieno (carne, verdure e formaggi) e nel nome (agnolotti, cappellacci, tortelli, anolini ecc…). Per mantenere viva l’evoluzione di questa specialità, vi proponiamo la ricetta dei ravioli farciti con ricotta affumicata e spinaci, saltati nel burro aromatizzato alla salvia. Per dare un po’ più di spinta e di sapidità, abbiamo messo nel ripieno anche un Cheddar aromatizzato al whiskey e zenzero. Il tutto è racchiuso in un semplice guscio di pasta all’uovo, condito con burro fuso, salvia e una spolverata di Parmigiano.
INGREDIENTI per 6 persone
300 g di farina 00 3 uova una ricottina di latte vaccino intera da circa 300 g 300 g di spinaci puliti sale q.b. mezzo cucchiaino di cannella pepe q.b. 80 g di burro 4 foglioline di salvia fresca
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Parmigiano Reggiano grattugiato q.b.
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100 g di Irish Whiskey & Stem Ginger Cheddar Cheese
PREPARAZIONE: 1. Su una spianatoia, create la classica fontana di farina, all’interno della quale romperete le uova e aggiungerete un pizzico di sale. 2. Inizialmente, incorporate la farina alle uova con una forchetta, poi continuate ad impastare con le mani fino ad ottenere un panetto liscio e compatto, che farete riposare per circa due ore in un recipiente coperto con un canovaccio. 3. Preparate il dispositivo per una cottura indiretta a 160°C, mezza ciminiera di bricchetti sarà sufficiente. 4. Appoggiate sulla griglia, in cottura indiretta, la ricottina intera con sotto un foglio di carta forno leggermente inumidito. Affumicate con due o tre manciate di chips di legno aromatico e chiudete il coperchio. 5. Dopo 30 minuti circa controllatela: se alla vista la superficie risulta disidratata e ha un bel colore dorato è pronta. Altrimenti, chiudete il coperchio e lasciatela andare per altri 10-15 minuti circa. 6. Quando il formaggio è pronto, toglietelo dal dispositivo e fatelo raffreddare. 7. Lessate in abbondante acqua salata gli spinaci, 20 minuti circa dopo il bollore scolateli. 8. Quando sono tiepidi, poco per volta, strizzateli con le mani per eliminare l’acqua in eccesso. Terminata questa operazione tritateli grossolanamente con un coltello. 9. In una ciotola capiente, schiacciate la ricotta con una forchetta e poi unite gli spinaci e il cheddar. Amalgamate bene gli ingredienti tra di loro e aggiustate di sale. 10. Prendete il panetto di pasta schiacciatelo con entrambe le mani e stendetelo, non troppo sottilmente, con il mattarello. 11. Ottenuta la sfoglia, prendete la farcia e con un cucchiaino iniziate a posizionarla, mantenendo una distanza di circa 2 cm . Il ripieno va messo a 5/6 cm dal bordo superiore. 12. Quando avete terminato la prima fila, prendete il lembo di pasta rimasto libero sopra, e coprite il ripieno. 13. Fate aderire bene la pasta alla farcia per eliminare l’aria e tagliate la pasta con la rotella dentata, formando i ravioli. 14. Proseguite fino a quando la sfoglia non è terminata. 15. Mettete a bollire l’acqua salata e, mentre aspettate che raggiunga il bollore, in una padella fate sciogliere il burro con la salvia. 16. Quando l’acqua bolle calate i ravioli e dopo circa cinque minuti scolateli e saltateli nel condimento, aggiungendo anche il Parmigiano I ravioli sono pronti. Se volete, al momento del servizio, potreste decorare i piatti con due foglioline di salvia fritta. I vostri commensali si aspetteranno i soliti ravioli ricotta e spinaci, ma avranno in realtà una piacevole e esplosiva sorpresa al primo morso.
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BACCALÀ ALLA VICENTINA
Da sempre Natale è sinonimo di grandi abbuffate. Sopratutto in Italia, dove il cibo è cosa sacra. Ogni regione ha le proprie pietanze e le proprie specialità, che caratterizzano questa tradizione. Tra queste, quella che non può mancare in Veneto è il baccalà alla Vicentina. Ma che cos’è il baccalà o bacalà (con una “C”)?
già ammollato, ma ricordatevi che deve essere stoccafisso e non baccalà.
C’è da far distinzione, sebbene si tratti della stesso pesce, tra stoccafisso e baccalà. Ciò che li differenzia è la modalità di trattamento del pesce. Il baccalà, dopo essere stato deliscato e depinnato, viene conservato sotto sale in barili. Lo stoccafisso si ottiene per essiccazione, esponendolo a freschi venti del Nord Europa o del Canada, con temperature prossime allo zero.
Procediamo col tritare le cipolle, facendole poi soffrigere a fuoco bassissimo con una parte d’olio e uno spicchio d’aglio. Quando le cipolle si saranno ammorbidite, si aggiungono le sarde deliscate facendole sciogliere nel soffritto.
Bene, sappiate che i vicentini, abili maestri nella cottura di questo pesce, chiamano baccalà quello che in realtà è stoccafisso, per pura ragione fonetica, pur conoscendone essenzialmente la differenza. Così si è fatto nei secoli (la prima ricetta ufficiale di questo piatto così gustoso e saporito risale al 1700) e così si continuerà a fare. Tra i vari passaggi da effettuare in questa ricetta, è fondamentale la cottura che deve avvenire in maniera lenta e prolungata a fuoco bassissimo, in un contenitore di coccio, senza che mai venga mescolato il tutto. Questa particolare tecnica, in Veneto prende il nome di “pipiare “.
Speciale Natale 2021
Veniamo al dunque. Cosa ci serve per realizzare questo baccalà? Un coccio di terracotta, un ottimo stoccafisso (se già ammollato vi risparmierete tanta fatica) e un kettle sul quale andremo ad impostare un setup con minion method e una temperatura in camera di cottura tra i 100/120°C.
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Iniziamo col prendere il nostro stoccafisso, batterlo con una mazzuola in legno e sfibrarlo, per poi metterlo a mollo in acqua per 3-4 giorni, ricor-dandosi di cambiare l’acqua almeno ogni 6-8 ore. In alternativa lo si trova
Una volta che lo stoccafisso riprende vigore, assorbendo parte dell’acqua, si procede a rifilare e deliscare il pesce, aprendolo successivamente a libro.
Apriamo lo stoccafisso a libro e cospargiamo tutta la polpa con le cipolle precedentemente ammorbi-dite. Spolveriamo il tutto con farina, Parmigiano, prezzemolo, sale e pepe. Richiudiamo il pesce. Dividiamo in parti uguali il pesce, passando i suoi tagli nuovamente nella farina. Ora ricopriamo il fondo di una pentola in coccio con il composto di cipolle e adagiamo i tranci di baccalà, in verticale col taglio verso l’alto, affiancandoli l’uno all’altro sino a riempirla. Versiamo il rimanente olio e il latte fino a coprire il tutto. Mettiamo nel kettle in diretta, a temperatura compresa tra i 100°C e i 120° C e lasciamo “pipiare” (ovvero lasciare che l’olio sobolla leggermente a bassa temperatura ) per minimo tre ore, finché i tranci non si sfalderanno da soli, senza mai girare il contenuto della pentola. Se volete affumicare leggermente il pesce, potete utilizzare una tavoletta di cedro precedentemente bagnata e messa in indiretta, dalla parte opposta al vostro setup. Il vostro baccalà alla vicentina è pronto. Se volete rispettare le buone regole vicentine di questo piatto, preparate delle strisce di polenta grigliata come accompagnamento tradizionale.
INGREDIENTI PER 4 PERSO N E • 1 kg di stoccafisso • 300 g cipolla bianca • 4 sarde sotto sale • 500 ml di olio extra vergine d’oliva • 500 ml latte intero • Farina 00 q.b. • 50 g di Parmigiano Reggiano • Prezzemolo q.b. • Sale e Pepe q.b.
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BLACK ANGUS TONNATO La nostalgia degli anni ‘80 non si nota solo negli innumerevoli reboot e rifacimenti dei film culto di quel decennio, ma anche in cucina. E così anche noi, colti da improvviso rimpianto per gli odori e i sapori di trenta (ormai quasi quaranta) anni fa, abbiamo pensato di reinterpretare, attualizzare e migliorare un classico immancabile sulle tavole di allora, come le capigliature cotonate, le giacche con le spalline enormi, il Moncler, le Timberland e il diario El Charro. Il vitello tonnato era una pietanza non priva di difetti: tanto per cominciare era tradizionalmente un bollito di girello di fassona, quindi esattamente non la preparazione più ricca di sapori del mondo. Noi però abbiamo a disposizione la carne spettacolare del BBQ4All Megastore, ed è proprio qui che entra in gioco un bellissimo Eye Round di Black Angus, gustosamente “beefy” e saporito. Sicuramente, sarete tutti d’accordo, non lo impoveriremo facendone un bollito.
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L’obiettivo è quello di ottenere una carne morbida, saporita, facilmente masticabile e che non ricordi il gusto del sughero immerso nel brodo di manzo.
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Abbiamo le metodologie e gli strumenti adatti, adesso: prendiamo l’eye round, lo copriamo con le spezie del Rub#18 BBQ4All e lo mettiamo nel forno preriscaldato da 50°C a 55°C massimo; giunti a 50°C all’interno dell’Eye Round lo spostiamo dal forno al kettle, impostato per una cottura diretta: facciamo una lesta rosolatura per procurare un po’ di reazione di Maillard e un buon bark, poi, dopo un minimo di rest, riduciamo il Black Angus in fette sottili circolari, disponendolo su un vassoio pronto per essere ricoperto di salsa tonnata e capperi, servendolo poi a temperatura ambiente.
Ingredienti per 4 persone: 1 Eye Round di Black Angus di circa 2kg dal Megastore / Rub#18 BBQ4All / 200g Tonno in olio d’oliva sgocciolato / 2 tuorli di uova sode / Frutti del cappero q.b. / Due cucchiai di maionese / 1 filetto d’acciuga / Olio extravergine d’oliva / Spremuta di mezzo limone PREPARAZIONE DELLA SALSA TONNATA 1.
Prendere il tonno, i tuorli delle uova sode, i capperi, il filetto d’acciuga, l’olio e il limone e frullare tutto a immersione.
2. Aggiungere due cucchiai di maionese. PREPARAZIONE DELL'EYE ROUND 1. Asciugare con carta assorbente la superficie dell’Eye Round e successivamente inumidirlo con un filo d’olio d’oliva; depositare con cura il Rub#18 sulla carne, senza eccessi e senza lasciare zone scoperte. 2. Preriscaldare il forno a 50°C/55°C e mettere l’Eye Round su una griglia (non su una leccarda), posizio-nando la sonda di un termometro al cuore del pezzo. 3. Giunti a 50°C, spostare la carne su un kettle adeguatamente settato per la cottura diretta (avendo cura di predisporre una zona di sicurezza in griglia dove poter appoggiare la pietanza in caso di necessità) e arrivare a una buona rosolatura uniforme, girando quando necessario la pietanza ed evitando di causare bruciature nel rub che potrebbero risultare amare. 4. Affettare sottilemente il girello, usando un coltello molto affilato. 5. Quando le fette sono appena tiepide, copritele con la salsa tonnata e decoratele con i capperi.
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GRIGLIATO & BRASATO
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Quando fuori fa freddo, non c’è niente di meglio che mangiare un ottimo brasato per riscaldare mente e cuore. Il brasato al Barolo è una ricetta tipica piemontese, i cui ingredienti principali sono manzo e Barolo. E’ una ricetta ricca e molto saporita, ideale per le occasioni speciali e per le feste Natalizie. Tradizionalmente si usano i tagli di carne come pesce, noce o cappello del prete per preparare questo piatto, prima facendo marinare a lungo la carne con le verdure e il Barolo, e poi stufandola nella marinatura stessa per diverse ore. Su molti siti, anche accreditati, troverete scritto che è importantissimo “sigillare la carne prima di metterla a cuocere nella marinatura per trattenere all’interno i suoi succhi”. Ebbene, quello della sigillatura delle carne è uno dei miti da sfatare particolarmente ostico. Torneremo in futuro sull’argomento, per ora vi chiedo di fidarvi se vi dico che sigillare la carne per mantenere i succhi all’interno è assolutamente pleonastico. In ogni caso, noi abbiamo deciso di sostituire l’inutile passaggio della sigillatura con una ben più interessante fase di affumicatura, che dà una bella spinta di sapore in più a questo piatto già squisito. Ora che ho la vostra attenzione, seguitemi in tutti i passaggi della ricetta.
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La prima cosa da fare è preparare la marinatura per la carne. In una ciotola capiente, mettiamo tutti gli aromi e le verdure tagliate a tocchetti di 2/3cm, aggiungiamo la carne e poi copriamo il tutto con il vino. Lasciamo la carne a marinare
per tutta la notte. Scoliamo il tutto tenendo da parte sia il liquido che le verdure. Prepariamo il nostro bbq per una cottura indiretta a bassa temperatura. Dopo aver asciugato molto bene la carne la spennelliamo di olio e rubbiamo con sale, pepe, aglio. Mettiamo in cottura la carne nel bbq e aggiungiamo qualche pezzetto di legno da affumicatura (scegliamo un aroma leggero, come melo o ciliegio, per non sovrastare il sapore della carne e del vino). Quando la carne avrà raggiunto i 55°C al cuore smettiamo di affumicare. Ai 75°C al cuore togliamola dalla griglia e mettiamola nella cocotte insieme alle verdure della marinatura e un filo d’olio EVO. Chiudere il coperchio della cocotte e lasciare insaporire per 15 minuti. Regoliamo poi di sale e aggiungiamo il liquido della marinatura fino a coprire metà della carne. Proseguire la cottura fino ai 95°C/96°C al cuore sempre a coperchio chiuso. Una volta giunto a cottura, mettiamo il cappello del prete a riposo in una teglia coperta con della carta stagnola. Trasferiamo il contenuto della cocotte in un contenitore per poi frullarlo con il minipimer in modo da ottenere una salsina con la quale guarnire il brasato. Una volta che la temperatura al cuore del cappello del prete avrà raggiunto i 60°C procediamo al taglio e al servizio delle fette guarnite con la salsina.
I N G REDI EN TI P E R 4 P E RS ON E • 1 kg Top Blade del Megastore • una bottiglia di Barolo • 1 Carota • 1 Sedano • 1 Cipolla • Due spicchi d’aglio • 1 rametto di rosmarino • 1 foglia di alloro • chiodi di garofano • sale q.b. • pepe q.b. • cannella in stecche • Olio extravergine di oliva
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L'ARAGOSTA
L’obiettivo è ricavare in maniera più pulita possibile, in modo da evitare sprechi, la preziosa polpa dalla coda, dal torace ed eventualmente anche dalle zampe e dalle chele. Il procedimento vale per tutti i grossi crostacei: aragoste, scampi di grossa pezzatura, astici, canocchie e cicale di mare. La particolarità di questi crostacei è che l’esoscheletro è molto duro e calcificato quindi occorrono utensili specifici, l’ideale è utilizzare delle buone forbici da cucina. Il primo passo per valorizzare e sfruttare al massimo queste delizie del mare è lessarle correttamente (o facendole cuocere al vapore con un forno che abbia questa funzione) in modo che i tessuti all’interno perdano la consistenza gelatinosa traslucida e assumano una corretta consistenza soda e bianca con sfumature arancio. Ovviamente, come per la carne, l’overcooking (la cottura eccessiva n.d.r.) genera una polpa meno succosa e saporita. Un indice non trascurabile per determinare la cottura di un crostaceo è il colore. Molti hanno un colore rosso arancio piuttosto vivace anche allo stato crudo, invece molti altri, come granchi, astici e aragoste, hanno un colore completamente diverso da crudi e assumono la colorazione rosso-arancio solo da cotti. Tuttavia esiste una temperatura ideale al cuore, seguendo la quale sappiamo con certezza che l’aragosta è cotta: 56°C, misurabili con uno dei nostri amati termometri da cucina.
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Non c’è un approccio specifico per ricavare la carne da un’aragosta: se esplorate in rete troverete molte varianti. Noi vi consigliamo di praticare delle incisioni lungo la parte ventrale e dorsale della coda, dove si trova la parte più nobile della polpa del crostaceo; l’operazione viene effettuata utilizzando una robusta forbice da cucina facendo scorre una delle lame al di sotto del carapace, al fine di ottenere due valve che vanno separate delicatamente. Si può anche lasciare la coda intera, tagliando con le forbici i lati del carapace (esattamente come si fa per gli scampi) e esponendo poi tutta la polpa.
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In fase di cottura potrebbe essere necessario fissare la coda dell’aragosta con un supporto dritto in modo che la contrazione dovuta al calore le impedisca di curvarsi, rendendo più complicata la rimozione dell’esoscheletro.
Anche il torace e le zampe contengono una significativa parte di carne edibile. Nell’aragosta le dieci zampe articolate al torace (in realtà cefalotorace) possono essere letteralmente spremute con un mattarello, facendolo rollare su di esse, schiacciandole e spremendole come se fossero un tubetto di dentifricio. Una volta pulita, l’aragosta si presta ad essere gustata in numerose preparazioni: dal semplice olio e limone, al sugo per la pasta (servita perfino all’interno del carapace, per un effetto scenico più impattante), dalla catalana alla griglia. L’aragosta alla catalana è un piatto che, quando presente, catalizza letteralmente tutti gli ospiti del pasto. Monumentale, invitante, colorata: impossibile non notarla. L'impiattamento tradizionale di questo piatto è molto scenico: infatti, viene utilizzato il mezzo carapace del nostro prescelto beniamino come piatto di portata per contenere la polpa e i condimenti. Il nome potrebbe facilmente suggerirci che le origini di questo piatto siano da collocare in Spagna: ma lo sappiamo bene, in un bacino così fertile di scambi culturali come il Mar Mediterraneo, che le ricette fanno viaggi immensi fin quasi a perdere le tracce della propria origine. L’aragosta alla catalana, in realtà, vedrebbe origine in Sardegna: durante il XIV secolo, infatti, gli spagnoli occuparono l’isola. In particolare, la città di Alghero assorbì così tanto gli usi e i costumi spagnoli da essere chiamata Barceloneta, cioè piccola Barcellona. Gli ingredienti locali si mischiarono piacevolmente per secoli, portando queste gustose ricette ai giorni nostri. Oltre al nostro crostaceo, gli ingredienti fondamentali sono olio extravergine d’oliva, cipolla bianca, pomodori, pepe, sale e succo di limone. Per l’aragosta e l’olio extravergine d’oliva, date piuccheunosguardo (semi-cit) al nostro Megastore: la linea Mazhara propone delle aragostelle mediterranee deliziose (o se volete esagerare, utilizzate una bestiola da 2 kg e mezzo, come abbiamo fatto noi per lo shooting di questo meraviglioso piatto!); la nostra selezione di olio extravergine d’oliva da sole olive siciliane, poi, parla da sola.
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Ingredienti per 4 persone: 1 aragostella del Mediterraneo Mazhara (circa 1 kg) / 1 cipolla di Giarratana abbastanza grande / 8 pomodori tondi insalatari non troppo maturi / olio extravergine d’oliva q.b. / il succo di 2 limoni interi / pepe nero in grani q.b. / sale q.b. PREPARAZIONE 1. P r o c u r a t ev i u n a p e n t o l a abbastanza capiente, riempitela di acqua e salatela. Poi, portate a bollore. 2. Una volta giunta a bollore l’acqua, calate all’interno della pentola l’aragosta. Dovrà sbollentare per circa 25 minuti. 3. Una volta sbollentata l’aragosta, lasciarla raffreddare nel liquido di cottura. 4. Una volta ben raffreddata, prelevate l’aragosta e tagliatela in due parti, incidendo con decisione il carapace per il senso della lunghezza. 5. Prelevate con cura la polpa dell’aragosta, tagliatela a tocchetti e riponetela in un’insalatiera. Conservate un mezzo carapace per il servizio. 6. Prendete la cipolla. Dopo averla sfogliata degli strati superficiali, tagliatela a rondelle grosse. 7. Fate la stessa cosa con i pomodori, tagliati a rondelle grosse. 8. In una ciotola, preparate un’emulsione di olio extravergine d’oliva, il succo dei due limoni, sale e pepe. 9. Versate l’emulsione nella ciotola, insieme ai pomodori e le cipolle a rondelle. Mescolate bene. 10. Con l’ausilio di un cucchiaio, “riempite” il mezzo carapace che avevate messo da parte con l’insalata di polpa di aragosta. BBQ4All Magazine
11. Servite su un piatto da portata MONUMENTALE, da mettere al centro tavola.
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AMMARU AMMUDDICATO
Il Gambero Rosso di Mazara del Vallo è un’eccellenza gastronomica siciliana. Un prodotto unico nel suo genere, pescato nelle profondità del mar Mediterraneo. Questo crostaceo vive nelle limpide acque del canale di Sicilia e, grazie all’elevata evaporazione di questo mare, è caratterizzato da una tipica nota di sapidità apprezzabile sia da cotto che da crudo. Nel suo gusto inconfondibile è inoltre possibile percepire il sapore tipico dei fondali marini di queste zone. Che gusto ha? È molto più dolce dei gamberi che siamo soliti assaggiare, ha una burrosità al palato molto accentuata e, quando si succhia la testa, si ha proprio la sensazione di assaggiare il mare. Come abbiamo già detto più volte, per preservare queste sue eccezionali caratteristiche viene congelato direttamente a bordo a una temperatura di -40°,per fare in modo che durante le lunghe battute di pesca il prodotto non deperisca. Nell’area del trapanese questo spettacolare crostaceo non manca mai durante le festività ed è protagonista indiscusso sulle tavole dei siciliani. Stavolta lo chef Francesco Lombardo ci propone una ricetta semplice e veloce che però riesce a esaltare il delicato gusto del gambero. È quello che in Sicilia viene definito ammaru ammuddicato. Per rendere comprensibile a chi non è pratico del dialetto siciliano possiamo tradurlo in gambero gratinato, ma questa definizione non gli rende giustizia.
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Aanche per queste due ricette si usa la muddica atturrata e non il pangrattato. Ne abbiamo già parlato in precedenza (vedi la pasta con le sarde): siete stati attenti, vero?
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Anche in questo caso abbiamo pensato a chi non può proprio rinunciare alle sue amate preparazioni in griglia: la ricetta si presta benissimo ad essere preparata nel kettle.
Ingredienti per 4 persone: 16 Gamberi Rossi Mazhara / 500 g di muddica alla palermitana / 100 g di Parmigiano grattugiato / olio extravergine di oliva q.b PREPARAZIONE 1. Preparate il kettle per una cottura indiretta e settatelo a 180°C 2. Sciacquate i gamberoni e asciugateli 3. Con un paio di forbici da cucina apriteli dorsalmente facendo attenzione a non incidere la carne 4. Apriteli le ggermente aiutandovi con le dita ed estraete il budello e la sacca che si trova nella testa 5.
Una volta pulito ogni gambero, con un coltello dal cucina incidete la carne
6. Mescolate adesso la muddica alla palermitana con il parmigiano 7. Tenendo i gamberi aperti con le dita ungeteli con un po’ d’olio 8. Aggiungete adesso la panatura all’interno del gambero 9. Ungete una teglia con un filo d’olio e adagiatevi i gamberi 10. Aggiungete un ultimo filo d’olio 11. Cuocete nel kettle per 20 minuti circa.
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IL TONNO VITELLATO
Il vitel tonnè è un po’ come Carla Bruni: sembra francese ma è italianissimo. Le prime nozioni di questo piatto sono infatti presenti già alla corte dei Savoia nel XVIII secolo. Nella versione originale però non erano presenti il tonno e la maionese: si componeva con scarti di vitello, acciughe e capperi. Si faceva cuocere a lungo il vitello per farlo ammorbidire, e poi in mancanza di sale gli si conferiva sapidità con le acciughe e i capperi che avevano una reperibilità e un costo molto inferiore rispetto al sale. Il nome deriva probabilmente dal dialetto piemontese, dove tonnè e una trasformazione dell’originale tannè (conciato in dialetto piemontese, appunto).
La ricetta rimase pressoché immutata fino all’unità d’Italia. In quel periodo infatti si intensificarono gli scambi commerciali tra il Piemonte e le tonnare di Sicilia e Sardegna. Il tonno arrivava in enormi scatole da 5 kg e poi venduto al dettaglio. Il permanere a lungo in queste scatole aperte guastava il prodotto sia visivamente che dal punto di vista igienico sanitario. Quindi, per mascherare le imperfezioni del tonno, esso veniva usato come ingrediente per il vitel tonnè. A trasformare questo piatto da espediente per camuffare prodotti deteriorati a ricetta della tradizione ci pensò l’immancabile Pellegrino Artusi che nella sua “Scienza in cucina e arte del mangiar bene” codifica per la prima volta questo piatto. Nella ricetta vengono descritti ingredienti a preparazioni necessarie. Viene consigliato ad esempio di utilizzare vitella da latte, che deve essere fatta bollire insieme a prezzemolo, chiodi di garofano, sedano, carote e alloro. Una volta cotta la carne, va poi tagliata a sottil fette e messa in infusione nella salsa di acciughe per un giorno o due.
Il vitel tonnè (ma chiamatelo pure anche vitello tonnato), in quanto piatto della tradizione, è stato ovviamente suscettibile di modifiche e personalizzazioni, sia dai cuochi casalinghi che dai grandi chef stellati. Ha conosciuto enorme successo negli anni ‘80, tanto che in quegli anni non era Natale se non c’era il vitello tonnato sulle tavole. Quando abbiamo lanciato il primo numero del Magazine, a dicembre 2018, abbiamo volutamente provocato i lettori con una versione tutta nostra sapendo già che in molti ci avrebbero accusato di anniottantismo. Ma la verità è che, come molte delle preparazioni che vi stiamo presentando in questo speciale, questo è un piatto – che, fra l’altro, può essere annoverato fra le preparazioni Mari&Monti di cui vi parlavamo qualche pagina fa- gustoso, raffinato e affascinante. Parlavamo di chef famosi: Carlo Cracco sostiene che non debba essere preparato con la maionese, ma con la salsa tonnata. Una delle modifiche più famose di questo piatto è stata però quella di invertire i due ingredienti e farlo diventare un Tonno Vitellato. Sicuramente la versione più celebre è stata quella di Antonino Cannavacciuolo, ma anche Heinz Beck ne propone una interpretazione convincente. Gianfranco Lo Cascio ve ne presenta una tutta sua, il Tonno Vitellato Insuperabile. Prima di iniziare vi diamo un consiglio: al prossimo brisket raccogliete un po’ di fondo di cottura e tenetevelo da parte.
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Insomma, nella ricetta dell’Artusi nulla è lasciato al caso: viene pure consentito di servirla fredda e mangiarla nei mesi più caldi, al contrario di quanto ad esempio accade in Argentina, dove invece viene servito caldo per il cenone di Natale. L’ultima modifica della ricetta avvenne negli anni
’60 del Novecento, quando Guido e Lidia Alciati, famosi gestori di un ristorante piemontese delle Langhe, aggiunsero la maionese alla preparazione (In molti ricorderanno Lidia – scomparsa nel 2010- per la preparazione che l’ha resa ambasciatrice della cucina tradizionale piemontese: gli agnolotti al plin) .
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PREPARAZIONE
1. Tritate finemente le nocciole e poi sbattete le uova con un pizzico di sale. 2. Impanate il tonno passandolo prima nell’uovo e poi nella nocciola; ripetete l’operazione due volte formando una doppia panatura. 3. Mettete una padella sul fuoco e scaldate bene l’olio di semi, poi friggete il tonno dorandolo bene all’esterno ma facendo attenzione a non cuocerlo all’interno (vi ricordiamo che il tonno deve rimanere rosato). Basteranno pochi istanti.
INGREDIENTI 4 persone Due fette alte 3 cm di tonno fresco (circa 400 g di peso in tutto) 300 g di nocciole intere due uova sale e pepe q.b. olio di semi per friggere q.b.
4. Nel frattempo, preparate la maionese montando le uova aggiungendo a filo l’olio di semi, poi l’aceto e il fondo di cottura del brisket. Una volta ottenuta la maionese, frullatela insieme alla carne con un frullatore a immersione, rendendola il più vellutata possibile. 5. Preparate anche la panna acida: mescolate lo yogurt insieme alla panna, aggiungete il succo di limone filtrato e mescolate ancora. Lasciatela riposare in frigorifero.
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6. Servite il tonno tagliandolo a fette altre circa mezzo cm, condendolo con le salse e guarnendolo coi frutti dei capperi.
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frutti dei capperi per decorare per la maionese vitellata 200 g di olio di semi due tuorli pastorizzati mezzo cucchiaio di aceto di mele fondo di cottura del brisket q.b. 50 g di brisket cotto per la panna acida 100 ml di panna fresca 100 g di yogurt 1 cucchiaino di succo di limone
Ricette a cura della Redazione
FILETTO CON FUNGHI E CASTAGNE
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Per celebrare il Natale abbiamo pensato ad una ricetta col filetto di maiale, raffinata ma di sicuro effetto! Può sembrare a prima vista un secondo piatto, ma è proponibile anche come antipasto. Camminando per i boschi in questo periodo, accompagnati dai profumi della terra umidiccia e dallo scricchiolare delle foglie cadute, con un minimo di attenzione, ci si imbatte spesso nei nostri amici funghi. Porcini, ovuli, chiodini e finferli diventano i protagonisti di questa meravigliosa stagione, immancabilmente accompagnati dal pregiatissimo tartufo bianco.
INGREDIENTI 4 persone Per il filetto:
E le castagne? Ne vogliamo parlare? Tra quelle che vantano il marchio IGP ed il prestigioso riconoscimento DOP, c’è solo da leccarsi i baffi… ma noi siamo quelli che non disdegnano nemmeno le castagne senza riconoscimenti. Vero, eh? Vi sfidiamo a dire il contrario. Le castagne, un tempo, erano considerate il pane dei poveri: ne esistono varietà più dolci, più minerali e sapide, ognuna ottima per l’uso appropriato.
400 g di filetto di maiale Duroc
Noi per questa ricetta abbiamo utilizzato la castagna Riggiola, la cultivar di castagno più precoce della Calabria, che matura già nelle prime decadi di Ottobre. Tondeggiante, di dimensioni medio grandi e facile da sbucciare, presenta una polpa dolce e leggermente sapida. Ad armonizzare il tutto ci aiuteranno i cachi, con la loro polpa gelatinosa e leggermente acidulata ci ripuliranno per bene il palato, boccone dopo boccone.
1 l di latte intero
Per quanto riguarda invece la componente proteica del piatto, abbiamo scelto il filetto di maiale, leggermente affumicato con quercia rossa. La salsa di accompagnamento sarà una versione della meat glaze molto più veloce, ma saporitissima e lucida al punto da potercisi specchiare, spessa e perfetta per accompagnare i piatti di carne.
Sale q.b. Pepe q.b. Olio extravergine di oliva q.b. Per la crema di caldarroste: 365 g castagne Riggiole (circa 25 castagne) Acqua q.b. 100 g panna 100 g burro di montagna Sale q.b Per il gel di cachi: 1 caco ben maturo 1 cucchiaino di succo di limone Per i funghi: 1 spicchio d’aglio 200 g di funghi porcini 1 cucchiaio di meat glacé 20 g burro di montagna Sale q.b. Pepe nero q.b. Per la meat glacé: 3 kg ossa e ritagli di carne di manzo 2 cipolle dorate 4 carote 3 coste di sedano 1 testa d’aglio Un mazzetto aromatico 500 g Barolo o Nebbiolo Ghiaccio q.b.
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20 g miele oppure glucosio
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MEAT GLAZE 1. Partire dalla meat glaze. Tostate le ossa di manzo e gli scarti in forno a 230°C/240°C per 20/25 minuti. Devono risultare ben rosolate. 2. Nel frattempo lavate accuratamente carote, cipolle e sedano, anche senza sbucciarli, e tagliateli in pezzi regolari. La testa d’aglio invece sarà sufficiente tagliarla a metà nel senso della larghezza. 3. In una pentola che possa contenere almeno 4 volte il volume delle ossa fate scaldare un filo d’olio d’oliva e tostate le verdure a fiamma vivace fino a che non risulteranno bruciacchiate. 4. Aggiungete il vino e raschiate con vigore il fondo della pentola, dove si sarà attaccato e caramellato tutto il vero gusto della salsa, staccandola e diluendola nel liquido. 5. Dealcolate bene e con cautela inserite le ossa tostate e gli scarti in pentola. Coprite di ghiaccio e a fiamma bassa fate cuocere fino a ridurre almeno del 70% il liquido che si formerà. Otterrete così un’estrazione di sapori perfetta. 6. A questo punto filtrate con un colino cinese, spremendo bene ad ogni step per ricavare ogni goccia di questo succo meraviglioso. 7. Riponete in abbattitore o in frigo fino a quando le parti grasse non affioreranno in superficie, separandosi. 8. Eliminate con cautela il grasso aiutandovi con un cucchiaio e continuate a ridurre la salsa (che da fredda avrà l’aspetto di un budino gelatinoso) di almeno un altro 15%, per un totale di circa 85% rimanente. 9. Aggiustate la consistenza e il sapore con il glucosio o il miele che ne aumenteranno anche la naturale lucentezza oltre a bilanciarne la sapidità e la potenza. Si conserva in frigo per mesi.
FUNGHI 1. Pulite i porcini in maniera classica. Con un panno umido rimuovete terriccio e impurità o se eccessivamente sporchi sotto un getto di acqua corrente in maniera rapida e decisa. 2. Tagliate la cappella in bocconi da 1/1,5 cm di lato, molto regolari per una cottura omogenea. I gambi potete utilizzarli per un buonissimo risotto o una tagliatella memorabile. 3. Riscaldate in una padella il burro con l’aglio tritato finemente fino a sentirne un profumo intenso e tostato. Aggiungete le cappelle e spadellate velocemente per circa 10 minuti. A cottura ultimata aggiungete un cucchiaino di meat glaze e regolare di sale e pepe. CREMA DI CALDARROSTE E GEL DI CACHI 1. Incidete le castagne con un coltello e ponetele in acqua a mollo per almeno 20 minuti. 2. Preparare il dispositivo per la cottura diretta e grigliare le castagne a calore forte finché non saranno tenere e dolci. 3. Sbucciate le castagne da calde (non bollenti, mi raccomando, calde) e mettetele a bagno nel latte per un paio d’ore. Portate a cottura le castagne con il latte aggiungendo la panna. 4. In un blender frullate il composto, quando il latte si sarà ritirato di 2/3 montate aggiungendo il burro a fiocchetti. Aggiustare di sale e pepe. 5. Passate la purea al colino cinese. Dovrà risultare molto liscia e vellutata, sostenendosi anche in altezza. 6. Frullate la polpa del caco con il succo di limone. Assemblate ogni piatto così: con un medaglione di filetto condito semplicemente con olio e sale maldon, una quenelle di purea di caldarroste dalla parte opposta e la meat glaze servita caldissima al centro tra i due elementi, così da essere ponte d’unione. I funghi sparsi nel piatto, così come degli spot di gel ai cachi, che andranno a solleticare il palato anche con le loro note tanniche. Un antipasto chic che celebra l’autunno in tutta la sua generosità.
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FILETTO DI MAIALE 1. Stabilizzate il dispositivo per una cottura indiretta sui 125°C/ 130°C; successivamente, condite il filetto di maiale abbondantemente con sale, pepe e olio d’oliva. 2. Ponete in cottura indiretta affumicando con legno di quercia rossa o alberi da frutto fino ai 63/64°C al cuore 3. Date un passaggio veloce in diretta per ottenere una crosta profumata e croccante.
Lasciate riposare fino ai 68°C al cuore.
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BACCALÀ IN TEMPURA
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“Sei proprio un baccalà!”. Chi si offende alzi la mano. Di sicuro, nessuno dei nostri: il baccalà è un prodotto squisito e potremmo soltanto essere fieri di essere accostati ad esso. Chiariamo per bene cosa è il baccalà: esso proviene dal merluzzo atlantico e subisce un lungo processo di salatura. Islanda, le isole Fær Øer, la Groenlandia, la Danimarca e la Norvegia, sono tutti grandi produttori di baccalà da merluzzo atlantico. Il merluzzo viene pulito e parzialmente diliscato: grazie a questi procedimenti, la polpa del merluzzo inizia a perdere acqua, disidratandosi, fino a raggiungere percentuali di acqua presenti nella polpa minori al 48%. Una volta raggiunto questo stadio di lavorazione, il nostro baccalà è pronto per essere messo in commercio. La diffusione del baccalà è, possiamo affermarlo tranquillamente, mondiale. Soltanto in Italia non si contano le innumerevoli versioni e lavorazioni del baccalà: si va dal Veneto alla Campania. Dobbiamo la sua ampissima diffusione alla grande capacità di viaggio e conservazione. Infatti, fino a non molti decenni fa, il baccalà era usato come merce di scambio tra i contadini (che mettevano a disposizione masserizie varie) e commercianti oppure cittadini di posti sul mare. Ecco spiegato perché, anche in posti lontanissimi dalla costa, vige ancora una forte tradizione fatta di baccalà e sagre dedicate. La differenza sostanziale tra baccalà e merluzzo consiste nel fatto che il merluzzo viene essiccato all’aria aperta dopo essere stato decapitato ed eviscerato. Così il merluzzo subisce tutti i fenomeni climatici, avendo una lavorazione minima da parte dell’uomo.
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Per questa ricetta, abbiamo deciso di friggere il nostro baccalà, con la tecnica della tempura. La sua fragrante crosticina, che ad ogni assaggio rompendosi regalerà la morbidezza e tutto il sapore del pesce, conquisterà tutti i vostri ospiti. Sembra che le origini della tempura coinvolgano sia il popolo giapponese che quello portoghese. Durante il Cinquecento, infatti, i missionari gesuiti emigrati dal Portogallo in Giappone importarono anche la loro abitudine di friggere le verdure pastellate in uova e farina durante i periodi di digiuno della Quaresima o delle Quattro Tempora (i giorni in cui i cristiani devono evitare il consumo di carne, tipicamente il venerdì). Con
INGREDIENTI Per il red pepper dip: un peperone rosso una cipolla dorata un peperoncino di cayenna 6 pomodorini Piccadilly un cucchiaino di paprika affumicata uno spicchio d’aglio 2 cucchiaini di Worcestershire sauce 10 foglie di basilico 10 foglie di prezzemolo un cucchiaino di origano secco 1/4 cucchiaino di cumino Sale q.b. Zucchero q.b. Aceto di vino bianco q.b. Olio extravergine d’oliva q.b. Per il baccalà in tempura: 600 g di baccalà 200 g di acqua frizzante fredda 70 g di farina 00 40 g di farina di riso un tuorlo d’uovo (facoltativo) 500 g di olio di semi di arachide la scorza di un limone
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la frittura, i portoghesi rendevano le verdure più appetitose. I giapponesi poi rivisitarono il piatto e lo arricchirono cominciando a friggere anche i frutti di mare.
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Questa tecnica di frittura è composta da una pastella leggera che avvolge gli ingredienti, i quali spesso hanno bisogno di una cottura molto veloce. Due gli accorgimenti necessari in questa preparazione: bisogna evitare di mescolare eccessivamente la pastella e scegliere una farina con un basso indice proteico. La pastella non deve risultare troppo collosa ed elastica, segno che si sta formando la maglia glutinica, altrimenti anche durante la frittura
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ritroveremo un composto pesante e gommoso che di sicuro risulterà sgradevole. L’olio dovrà essere sempre caldo e andranno fritti pochi pezzi alla volta. Un’altra garanzia di successo è lo shock termico che avviene quando gli ingredienti freddi entrano in contatto con l’olio caldo: per questo motivo è molto importante mantenere bassa la temperatura della pastella, tanto che alcuni mettono in frigorifero anche la farina (potete anche utilizzare la farina di riso se avete necessità di un prodotto senza glutine). Il dip che useremo per accompagnare la frittura è vagamente di ispirazione messicana con sentori mediterranei. La cottura in ember roasting (a contatto diretto con le braci) farà la differenza.
PREPARAZIONE 1. La prima cosa da fare è la dissalatura del baccalà. Riponetelo in una ciotola ampia, capace di contenere almeno due volte il volume del baccalà. Coprite d’acqua e abbiate cura di cambiarla almeno ogni 12 ore per un paio di giorni, o comunque fin quando assaggiando un pezzo di baccalà non risulterà della giusta sapidità. 2. Un giorno prima che il baccalà sia pronto occupatevi del dip; accendete un cesto di carbone e quando sarà pronto rovesciarlo nel braciere del dispositivo in modo tale da creare un letto di braci. Sistemare tra le braci il peperone, i pomodori e la cipolla e lasciateli bruciare esternamente, avendo cura di girarli di tanto in tanto. 3. Una volta cotti gli ortaggi, chiudete il peperone ancora caldo in un sacchetto di plastica per alimenti dove per effetto del vapore creatosi la buccia bruciata si staccherà automaticamente in 10 minuti. Spellate il peperone e il resto delle verdure e battetele al coltello più o meno finemente a seconda dei gusti. In una bowl unite il basilico, il prezzemolo e l’aglio tritato finemente,il peperoncino, la paprika, la salsa Worchestershire e le spezie. Salate a vostro gusto e fate macerare la salsa, aggiungendo l’aceto e l’olio, almeno una notte in frigo.
4. Porzionate il baccalà in piccoli tranci comodi da pastellare e da mangiare: questo passaggio è fondamentale, vista la rapidità con la quale avviene la cottura con la tecnica tempura. 5. Unite la farina, il tuorlo se si vuole dare un colore dorato alla pastella, e l’acqua fredda in una ciotola capiente. Mescolate delicatamente con una pinza o una frusta. Anche se si creano dei grumi, basta far riposare la pastella il tempo di riscaldare l’olio e quest’ultimi spariranno. 6. Infarinate leggermente i tranci di baccalà e con una pinza passateli leggermente nella tempura, così da creare un velo sottile di pastella che diventerà croccantissima. Friggete in abbondante olio di semi di arachide a 170°C/180°C. 7. Volendo, si può procedere con la fioritura, aggiungendo un cucchiaio di pastella intorno ad ogni pezzo già inserito all’interno. 8. Nei primi minuti meglio non toccare il pezzo di baccalà in frittura, per evitare che il velo ancora delicato di pastella attorno al pesce si stacchi. 9. La tempura resta tendenzialmente chiara. Quando risulterà ben croccante scolate su carta assorbente, vaporizzate un po’ di succo di limone e condite con la scorza e un pizzico di sale.
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FRITTURA DI PARANZA
Mi sono innamorato di una stronza Ci vuole una pazienza Io però ne son rimasto senza Era molto meglio pure una credenza Un fritto di paranza, paranza, paranza
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Con buona pace dello stimato cantautore Daniele Silvestri, la paranza non è una danza che si balla nella latitanza, ma è una imbarcazione da pesca diffusa dall’adriatico centrale fino al basso tirreno, in uso fino alla metà del ‘900 e oggi sostituita dai più moderni motopescherecci. La caratteristica principale di questa barca, molto tozza e capiente, sviluppata nel corso dei secoli per poter navigare anche nelle condizioni meteo più avverse, è di essere utilizzata a coppie: le due paranze procedevano di pari passo, grazie all’abilità dei pescatori al comando dell’equipaggio, trascinando ciascuna un'ala di una rete (anche essa chiamata paranza, giusto per confondere le idee) portata a strascico. In questa tecnica di pesca la rete, smuovendo la sabbia, spaventa i pesci che, risalendo dal fondo, rimangono imprigionati nel sacco il quale, una volta riempito, viene issato a bordo, svuotato e schiarato nuovamente per un successivo passaggio.
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La pesca a strascico è una tecnica con un notevole impatto sull’ecosistema marino: le reti catturano tutto quello che incontrano sul loro cammino, asportando oltre ai pesci e agli invertebrati anche alghe, coralli e posidonie. Per questo motivo, in Italia è vietata la pesca a strascico entro le 3 miglia marine o a profondità inferiori ai 50 metri, esistono i periodi di fermo biologico e le reti devono avere maglie sufficientemente ampie da impedire la cattura di piccoli esemplari non ancora in età riproduttiva. Nonostante tutte queste indicazioni (a volte volontariamente ignorate da pescatori poco onesti e ancor meno lungimiranti) capita, oggi come in passato, che nelle reti finiscano intrappolati pesci di piccole dimensioni con uno scarso valore sul mercato ittico: merluzzetti, triglie, sogliolette, zanchette, alici, ghiozzi, sarde, vope, insieme a qualche totano, seppioline, calamari e - perché no? gamberetti, costituivano quello “scarto” che alimentava le famiglie dei pescatori i quali, nei periodi di povertà ci facevano la “zuppa”, mentre quando c’era l’olio in abbondanza, festeggiavano con una gustosissima frittura di paranza. Oggi la frittura di paranza è un secondo piatto diffuso così tanto nei ristoranti ad ogni livello (dalla bettola sotto il porto fino al ristorante stellato, passando per l’immancabile street food) che si può trovare persino chi lo propone misurato non in porzioni o in “grammi”, ma “al metro” proprio come la pizza. Il fritto deve essere croccante fuori e umido all’interno, va servito caldo e non deve essere unto e pesante. La realizzazione di un buon fritto misto di paranza
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non richiede una tecnica particolarmente complessa o numerosi passaggi, ma è sufficiente rispettare una serie di accortezze che garantiranno un risultato eccellente. Vediamo quali. Il pesce deve essere freschissimo. Affidatevi al vostro pescivendolo di fiducia e acquistate solo prodotti di giornata; è il mare che comanda! Lasciate sul banco il decongelato di cui non conoscete il percorso. Se non riuscite a trovare il fresco, prendete un abbattuto a bordo ancora surgelato e da fornitori che vi assicurano la massima qualità del processo. I gamberi migliori li trovate nel Megastore. Il pesce va portato a temperatura ambiente. Evitate di tirare fuori dal frigo il pesce all’ultimo secondo per non abbassare troppo la temperatura dell’olio durante la cottura. Il pesce va asciugato perfettamente. È fondamentale per la riuscita di un buon fritto croccante eliminare l’umidità superficiale. Tamponate il pesce con la carta assorbente prima di procedere con le fasi successive. I pescetti più piccoli vanno solo eviscerati e ripuliti dalle eventuali alghe, lasciando al suo posto testa e lische (vanno mangiati in un boccone, le spine sono troppo piccole per costituire un pericolo o un fastidio). Anche nel caso di esemplari di pezzatura medio-piccola va mantenuta la testa e la lisca, che andranno rimosse durante il consumo dell’alimento. Se siamo abili con il coltello e preferiamo portare nel piatto solo quello che viene mangiato senza far sporcare le mani ai nostri commensali, possiamo eliminare la testa e aprire il pesce tenendolo collegate le due parti per il dorso, rimuovendo facilmente la lisca.
Passiamo ai crostacei, ovvero ai gamberi e ai gamberetti. Qui ci sono due scuole di pensiero: classicamente, i crostacei vengono fritti interi con il loro carapace, che servirà a difendere la carne dall’aggressione dell’alta temperatura e che verrà rimosso durante il consumo del pasto; chi invece non ama sporcarsi le mani, preferisce rimuovere il carapace prima della cottura. In entrambi i casi, vi consiglio di adoperarvi di sana pazienza e rimuovere il budello, indicendo il dorso e aiutandovi con uno stuzzicadenti. Se scegliete di rimuovere il carapace dai gamberi, potete mantenere la parte terminale della coda attaccata. Se vogliamo proprio esagerare possiamo friggere anche qualche mitile, in particolare le cozze, che vanno estratte dal loro guscio crude aprendolo con l’apposito coltello, oppure in alternativa possiamo dargli una veloce botta di calore in pentola togliendole con una pinza appena si schiudono. Volendo, potremmo anche avere la malsana idea di friggere delle ostriche, ma in questa maniera il nostro, più che di paranza, diventerebbe un fritto di yacht. Prima di essere immerso nell’olio profondo, il pesce va “rivestito” da un elemento che proteggerà l’alimento e contemporaneamente contribuirà a dare sapore e croccantezza. A questo punto ci sono due scelte possibili: usare solo farina (o, meglio ancora, una miscela di farine) oppure preparare una pastella.
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Per quanto riguarda i molluschi, si procede come segue. Le seppioline vanno tenute intere: si incide il corpo con un coltello per la sua lunghezza e si estrae l’osso, le interiora e l’eventuale sacca del nero; si tira via la pelle sfilandola e con la punta del coltello si eliminano gli occhi. I tentacoli possono essere tenuti insieme al corpo oppure separati; infine va sciacquato tutto sotto l’acqua corrente e messo ad asciugare sulla carta assorbente o su un canovaccio pulito. Totani e calamari vanno ripuliti separando il mantello dai tentacoli; dopo aver eliminato il gladio cartilagineo e la pelle, il mantello va tagliato per formare i classici anelli. È consigliabile eliminare il margine inferiore del corpo (per intenderci il lembo più vicino ai tentacoli caratterizzato da un margine irregolare e dal colore lievemente diverso) perché tende a diventare duro in cottura. I tentacoli, ripuliti
dagli occhi e dal rostro, possono essere separati in due o tre parti. È fondamentale cercare di ottenere anelli e pezzi di tentacoli tutti della stessa misura, per non pregiudicare l’uniformità di cottura. Se siete fortunati e avete trovato dal vostro pescivendolo di fiducia anche un bel polpo (magari ben arricciato, o in mancanza va bene anche un decongelato), questo potrà diventare il pezzo forte della vostra frittura: è sufficiente, dopo averlo ben ripulito dall’acqua corrente, cuocerlo in un tegame a secco (sfruttando la sua stessa acqua) fino a che le carni non diventano tenere, dopo di che si lascia raffreddare sempre nel tegame e infine si taglia a tocchetti tutti della stessa dimensione. Altro pezzo forte di una frittura veramente golosa possono essere i moscardini: come per le seppie, meglio tenerli interi; vanno puliti sotto acqua corrente eliminando impurità, sabbia e rimuovendo occhi e rostro, dopo di che vanno scolati in un colino e messi ad asciugare su carta assorbente.
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Se scegliete di usare solo farina, potete utilizzare una miscela al 50% di semola rimacinata di grano duro e farina di grano tenero: la semola tosterà fornendo croccantezza al vostro fritto, mentre l’amido della farina di grano tenero assorbirà l’acqua residua sulla superficie del vostro pesce, gonfiandosi e creando il rivestimento intorno all’alimento. In alternativa, per i celiaci, si può utilizzare una miscela di farina di mais e farina di riso. Per rivestire in maniera uniforme gli alimenti, potete usare un sacchetto da congelatore: riempitelo della miscela di farine, inserite una parte del pesce e agitate il tutto (delicamente nel caso dei gamberi, per non romperli). Recuperate il prodotto e ponetelo in un setaccio scuotendo per rimuovere la farina in eccesso. Se optate per la pastella (scelta obbligata nel caso dei crostacei privati del carapace e dei mitili), potete utilizzare sempre il mix di farine 50% semola e 50% farina di grano tenero, diluendo il tutto con la birra ghiacciata. È consigliabile utilizzare una farina debole, e la pastella non va mischiata troppo energicamente, per evitare di formare glutine che darebbe al nostro fritto una consistenza elastica. Se si formano grumi nella pastella, lasciatela riposare per una decina di minuti in frigo e vedrete che si scioglieranno da soli. È consigliabile tenere separate le varie tipologie di pesce, che verranno inserite nell’olio bollente una alla volta per poi essere riunite solo da cotte. In questo modo si otterrà una cottura omogenea delle varie parti della nostra frittura. Il pesce il suo rivestimento non va assolutamente salato prima della cottura, e nemmeno appena uscito dall’olio. Il sale va messo solo un istante prima del servizio, altrimenti il fritto si ammoscerà. Si frigge a 175°C/180°C. Lasciate perdere tutti i metodi empirici tipo buttare una pallina di pane nell’olio e vedere “se fa la schiumetta”, oppure provare a percepire il calore dell’olio passandoci sopra la mano a pochi millimetri di distanza dalla superficie incandescente; affidatevi ad un buon termometro digitale e non fidatevi nemmeno del termostato della friggitrice. L’olio deve essere in quantità dieci volte superiore al pesce. Con questo non voglio dire che dovete consumare una betoniera di olio per fare il vostro piatto, ma dovete friggere poco pesce alla volta in modo da evitare un repentino abbassamento della temperatura che renderebbe la vostra frittura unta e molliccia. Per ogni litro di olio contenuto nella vostra pentola o nella vostra friggitrice, immergerete 100
g di prodotto alla volta. Proprio perché si frigge in piccole quantità alla volta e l’olio deve rimanere a temperatura per tutto il tempo necessario, bisogna usare un olio con un adeguato punto di fumo e con un'ottima resistenza alla degradazione. L’olio di palma raffinato ha un punto di fumo molto alto ma rilascia troppo colesterolo negli alimenti; l’olio extravergine d’oliva ha un buon punto di fumo e basso colesterolo, ma ha un costo elevato e soprattutto incide notevolmente sul sapore finale della pietanza; quello che consigliamo per una frittura leggera, facilmente digeribile e croccante è l’olio di arachidi. Attenzione però ai commensali allergici alla frutta a guscio: in tal caso optate per un olio di girasoli alto oleico. E adesso, siamo fritti! Il pesce va tenuto nell’olio per due-tre minuti al massimo, i gamberi e i mitili per un minuto appena, e va girato se necessario solo una volta. Per arricciare i tentacoli dei moscardini, possiamo tenerli con una pinza e fargli fare due o tre tuffi, prima di lasciarli completamente a bagno. Il pesce avvolto dalla pastella richiede in media un minuto in più di cottura rispetto a quello avvolto solo dalla farina. Quando si immerge il pesce crudo nell’olio si sentirà lo sfrigolio dato dall’acqua della pastella che evapora violentemente; nel momento in cui il rumore cesserà, probabilmente il pesce sarà cotto. Verificate la doratura superficiale e recuperate il fritto con l’apposito colino. Posatelo sulla carta paglia stendendolo bene, senza creare montagnole che provocherebbero condensa di vapore acqueo e senza tamponare. Se vi manca molto da friggere, potete tenere il tutto in caldo in un forno impostato ad 80°C con lo sportello lievemente aperto. In nessun caso coprite il fritto con un telo o della carta, sempre per evitare l’accumulo di vapore acqueo che condenserebbe ammosciando il tutto. Finito di friggere, mischiate tutto nel piatto da portata e solo un istante prima di andare a tavola, spargete il sale. E il limone? Spesso è una questione di gusti personali, ma sicuramente qualche goccio di un elemento acido può donare maggiore brillantezza al piatto. Potete utilizzare al posto del classico condimento, un sale aromatizzato al limone o al lime; optare per un'esotica salsa ponzu (soia+succo di agrumi); per una marcia in più, potete realizzare una salsa con soia, aceto di frutta, peperoncino secco e semi di sesamo tostati.
Preparazione:
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1. Se avete un polpo, mettetelo in un tegame a cuocere sul fuoco con il fornello basso, senza aggiungere acqua. Per un polpo di medie dimensioni, il tempo di cottura è all’incirca di quaranta minuti. Testate la sua tenerezza con uno stuzzicadenti. Una volta cotto, lasciatelo raffreddare. 2. Eviscerate i pescetti e i molluschi, passandoli sotto l’acqua corrente per eliminare tutte le impurità. Eliminate con accuratezza dai molluschi gli ossi cartilaginei, gli occhi e il rostro, se riuscite sfilate via la pelle. Ripulite i crostacei dal loro intestino e, se volete, eliminate il carapace sulla coda. Ponete tutto il pesce ad asciugare su un canovaccio pulito o su più strati di carta assorbente, tenendolo separato per tipologia. 3. Separate il mantello dai tentacoli dei totani e dei calamari e tagliatelo in anelli di pari dimensione. Tagliate anche i tentacoli in pezzi di uguale dimensioni. Quando si sarà raffreddato, tagliate anche il polpo. Lasciate seppioline e moscardini interi. 4. Aprite le cozze con un coltello oppure sul fuoco, avendo l’accortezza di rimuovere dalla pentola il singolo mitile appena si schiude, senza aspettare che si aprano tutti. 5. Portate l’olio ad una temperatura di 180°C, misurandola con un termometro. 6. Tamponate ulteriormente il pesce con la carta assorbente, poi passatelo nel mix di farina. Scuotete la farina in eccesso e tuffate il pesce nell’olio, poco alla volta e mantenendo sempre separati le varie tipologie. 7. Crostacei sgusciati e mitili possono essere immersi nella pastella, che può essere preparata anche precedentemente e tenuta in frigo fino all’ultimo momento; rimuovete sempre l’eccesso di pastella prima di immergere l’alimento nell’olio. Per mantenere l’olio pulito, usate una schiumarola a maglie strette. È consigliabile friggere i pesci in pastella per ultimi. 8. Scolate accuratamente il fritto e ponetelo in una teglia rivestita da carta paglia senza creare montagnole. Mettete la teglia al caldo nel forno riscaldato ad 80°C e tenuto lievemente aperto con una pallina di stagnola per evitare la formazione di condensa al suo interno. 9. Finito di friggere tutto il pesce, ponetelo in un piatto di portata e servitelo accompagnato dal sale aromatizzato al limone e da altre salse a base acida, lasciando ad ogni commensale il compito di condire il proprio fritto un istante prima di consumarlo.
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INSALATA RUSSA IN EMBER L’insalata russa è un antipasto tipico delle feste natalizie, è un piatto che da solo rallegra la tavola con i suoi colori che fanno capolino dalla maionese e le sue splendide decorazioni; a volte è talmente ben decorata che sembra quasi un peccato mangiarla, ma è troppo buona e non si può resisterle a lungo. Nonostante si chiami russa la sua origine rimane dubbiosa: c’è chi attribuisce la sua paternità al cuoco belga Lucien Olivier, che l’avrebbe ideata mentre lavorava a Mosca nel suo ristorante l’Hermitage a metà dell’800; c’è chi invece afferma che sia stata la creazione di un cuoco della corte dei Savoia a fine ‘800; ma c’è anche chi sostiene che questo piatto sia nato in Polonia nel XVI secolo per omaggiare la nuova regina Bona Sforza, figlia del Duca di Milano. L’unica cosa certa è che l’insalata russa è una delle bontà delle feste e che può diventare ancora più buona aggiungendo alla complessità del sapore della maionese, dei piselli e delle carote, la nota aromatica del fumo cuocendo in ember roasting le patate.
INGRE DIE NTI PE R 4 P ER S O N E • 2 tuorli d’uovo • 200 g di olio di semi • un pizzico di sale • un cucchiaino di limone • 250 g di patate • 100 g di piselli • 100 g di carote
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• sale qb
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Preparazione:
1. Preparate il vostro dispositivo per una cottura diretta sulle braci. 2. Sbollentate le patate in acqua per 5 minuti: questo passaggio vi aiuta ad accelerarne la cottura. 3. Asciugate bene le patate, avvolgetele nella stagnola, ponetele a diretto contatto con le braci e chiudete il coperchio. Dopo 20 minuti verificate la cottura: infilzandole con uno stecchino devono risultare morbide fino al cuore; morbide sì, ma non completamente disfatte, altrimenti non riuscirete a ricavarne dei dadini. Se non sono pronte chiudete il coperchio e continuate la cottura, ma tenetela costantemente d’occhio. 4. Quando le patate sono pronte, lasciatele dalle braci, aprite la stagnola e lasciate raffreddare; dopodiché togliete la buccia e tagliatele a dadini. 5. Mentre le patate sono in cottura potete lessare le carote tagliate a rondelle e i piselli in acqua salata. Il consiglio è di usare due pentole distinte visti i tempi diversi di cottura. Quando le carote e i piselli sono pronti, toglietele dall’acqua e lasciatele freddare. 6. Sbattete con una frusta l’uovo con il sale; quando le uova saranno ben sbattute iniziate ad aggiungere a filo l’olio sbattendo energicamente con la frusta fino a quando la maionese non si è ben addensata. A questo punto aggiungete il limone e amalgamate bene. Piccola ma importante raccomandazione, le uova non devono essere fredde di frigo se non volete correre il rischio che la maionese impazzisca. 7. A questo punto gli ingredienti sono pronti: amalgamate bene le carote,i piselli e le patate nella maionese e la vostra insalata russa è pronta. Vi assicuriamo che il palato dei vostri ospiti rimarrà piacevolmente stupito dalla gradevole nota di affumicato che esalta ancora di più la bontà dell’insalata russa.
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L'INSALATA DI RINFORZO
Opulenta, ricca di sapori e abbondante di ingredienti: l’insalata di rinforzo già dal nome è un programma. Nasce a Napoli questa ricetta ricca di verdure, senza la quale non si apparecchiano le tavole partenopee alla vigilia di Natale, ma anche durante l’ultimo dell’anno. L’insalata di rinforzo risale circa al 1800, quando il Cavalcanti la descrisse nel suo libro Cucina teorico -pratica (1837), denominandola caponata. Niente a che vedere con la preparazione che conosciamo oggi, ovviamente (ne abbiamo parlato molto nel numero di Ottobre 2020). Questo è un piatto tradizionale che spesso costituisce una delle portate principali del menù natalizio. L’ingrediente più importante è il cavolfiore, quelli complementari i sottaceti, insieme a papaccelle (peperoni napoletani), capperi, acciughe e olive. Inquadrata la faccenda, vi chiederete: perché è chiamata di rinforzo? Esistono almeno tre spiegazioni. Per alcuni è perché veniva preparata per la vigilia di Natale e rimaneva un piatto di accompagnamento per tutte le festività che portano sino al Capodanno. Da qui il rinforzo, dato dall’inserimento degli ingredienti mancanti, man mano che si consumavano. La seconda spiegazione è legata al cavolfiore. Questo elemento principale pare andasse rinforzato, dato i suo sapore delicato, con l’aggiunta di altri ingredienti di carattere come i capperi, le acciughe e l’aceto. La terza e ultima ipotesi è legata alle pietanze che venivano servite durante la cena della viglia, durante la quale si mangiava di magro, solo pasta e pesce, e quindi l’insalata serviva per l’appunto al “rinforzo” della cena, proprio con lo scopo di renderla corposa.
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Riguardo l’ultima ipotesi, al giorno d’oggi possiamo garantirvi che, almeno a Napoli, la cena della Vigilia di Natale tutto è fuorché una cena di magro. Sostanzialmente, l’insalata di rinforzo viene utilizzata verso la metà della cena, per “pulire la bocca”, dicono alcuni, dai sostanziosi primi piatti e passare, dunque, a corpose fritture di pesce.
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Quindi, la versione di BBQ4All sarà una insalata ma non di rinforzo, dato che ormai sulle nostre tavole è presente ogni bendidio. Questa nostra variante si chiamerà insalata di conforto, perché ci aiuterà a superare con forza d’animo le lunghe abbuffate natalizie. Procederemo con un’affumicatura del cavolfiore, sostituiremo le papaccelle con dei comuni peperoni dolci, ai quali daremo una semicottura in ember roasting, per donare una nota bruciata ma tenendoli un pochino croccanti, e friggeremo delle belle olive nere di fresco raccolto. Voi in alternativa potrete ricorrere ad ottime olive nere di Gaeta. A questi ingredienti aggiungeremo delle belle sarde sotto sale e i cucunci, ovvero i frutti del cappero. Aggiungeremo carote, cipolline borettane, cetriolini sott’aceto e qualche verdura di stagione come il cardo.
INGREDIENTI 4 persone
un cavolfiore (circa 1 kg) 300 g di carote 100 g di Olive Termite di Bitetto oppure di Olive nere di Gaeta un cardo 100 g di cipolle borettane 100 g di acciughe sotto sale 200 g di peperoni 50 g di frutti dei capperi 80 g di cetrioli sott’aceto Aceto di mele q.b Olio extravergine di oliva q.b Sale q.b. Zucchero q.b il succo di un limone
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PREPARAZIONE 1. Lavate scrupolosamente le olive e scolatele. In un tegame versate una porzione generosa di olio. Fate scaldare e unite le olive. Salate e fate cuocere per circa 10/15 minuti a fuoco medio/basso mescolando delicatamente. Appena risulteranno morbide, saranno pronte. Lasciate raffreddare da parte. 2. Pesate le acciughe sotto sale, poi dissalatele a bagno in aceto. Pulitele bene e spinatele. Sgocciolatele e tenetele da parte. 3. Lavate bene i cucunci e teneteli da parte. 4. Lavate anche qualche costa interna di cardo. Pulitele, eliminando i filamenti esterni e la pellicina bianca interna. Poi tagliate a tocchetti di qualche cm e immergeteli immediatamente in acqua e succo di limone per prevenire l’annerimento dovuto ad ossidazione. Lasciate a bagno sino all’utilizzo. 5. Togliete il primo manto delle cipolline borettane, lavate bene e asciugate. Sbollentatele per dieci minuti in acqua salata, scolatele e raffreddatele. Mettetele in una ciotola, irroratele con un filo d’olio, un cucchiaio di aceto, un cucchiaino di zucchero e ½ cucchiaino di sale. Rimestate bene e poi scolate l’eccesso. Predisponete il vostro dispositivo per una cottura diretta e mettete le cipolline a cuocere all’interno di un vassoio bucato per verdure; lasciatele cuocere per 20 minuti circa e toglietele con una consistenza ancora al dente. 6. Lavate e pelate le carote. Tagliatele a rondelle spesse qualche cm e fatele sbollentare in un litro d’aceto e un cucchiaino di sale, per 6 minuti. Scolate e lasciate raffreddare. 7. Ora predisponete il vostro dispositivo per una cottura indiretta, alla temperatura di circa 180°C. Suddividete le cime del cavolfiore, lavatele e fatele cuocere su un vassoio per verdure, all’interno del vostro dispositivo, per 30 minuti, affumicando con chips di legno aromatico. Togliete il cavolfiore e lasciatelo raffreddare. 8. Lavate esternamente i peperoni e asciugateli bene. Dividete in due metà ciascun peperone. Eliminate picciolo, placenta e semi. Cuocete direttamente sulle braci nel vostro dispositivo, avendo premura di appoggiarlo con il lato buccia sui carboni, affinché si bruciacchi ma rimanga comunque croccante. Togliete dal fuoco, spellate e lasciate raffreddare. 9. Siete pronti ad assemblare l’insalata. In una ciotola capiente inserite per primo il cavolfiore. Condite con olio e aceto, aggiungete il sale e amalgamate delicatamente il tutto. 10. Prendete i peperoni, tagliateli prima a falde larghe 4/5 cm e poi a quadrettoni, infine aggiungeteli nella ciotola. 11. Ora inserite uno per volta i restanti ingredienti: carote, cardi, cipolline, olive, capperi, acciughe i cetriolini sott’aceto tagliati a tocchetti.
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12. Infine condite con altro olio extravergine di oliva, aceto e sale e mescolate con accuratezza al fine di non sfaldare i cavolfiori.
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Nella versione tradizionale è facile trovare il più delle volte l’insalata riccia. Essa rilascia la nota amara all’interno del piatto, ma solitamente tende ad appassirsi già dopo qualche giorno. Questo il motivo per cui l’abbiamo sostituita con un freschissimo cardo marinato. Ma se proprio volete mettercela, aggiungetela fresca di volta in volta, a seconda del consumo.
GIARDINIERA No, non la signora che cura le vostre piante, ma quel contorno fatto da un assortimento di verdure in agrodolce, fresco, croccante e sgrassante. È il simbolo della conservazione del cibo, un grande esempio di non spreco degli alimenti, o di sostenibilità, coma va di moda dire oggi. La giardiniera nasce principalmente in tempi antichi come metodo di conservazione per salvare la materia prima dei campi in eccesso al raccolto e per consentire al cibo più fragile di durare nel tempo, in modo che nei periodi invernali, quelli in cui si faceva più fatica a reperire alimenti, si avesse una scorta sicura di verdure in dispensa. Inizialmente pare venisse realizzata con le verdure crude in agrodolce, senza olio, solo con aceto e salamoia. La ricetta poi venne perfezionata nelle corti aristocratiche del Rinascimento. Era un metodo in uso già nei secoli X-XII nei monasteri e nei conventi della pianura padana, principalmente piacentini e cremonesi, ma anche mantovani, ferraresi e piemontesi. Questo delizioso insieme di verdure in agrodolce era considerato uno degli alimenti più salutari di tutto il Medioevo. Come veniva fatta? Prima si lavavano accuratamente le verdure in acqua preventivamente bollita e acidificata, poi si asciugavano bene ben asciugate. Si lasciavano appassire su canovacci (non espsosti direttamente al sole) per qualche giorno in modo che perdessero consistenza e si ammorbidissero, infine venivano tagliate a pezzi piccoli, messe nei vasetti e coperte abbondantementedi salamoia, aceto di vino bianco, zucchero e con varie erbe e spezie tipo cannella, chiodi di garofano e foglie di alloro. I vasi poi venivano conservati in un luogo fresco e buio, chiusi con tappi di legno e stracci. Fino al XVI-XVII° secolo non vi era altra sterilizzazione o creazione di sottovuoto: la colmatura e l’aceto dovevano bastare.
Vediamo dunque come realizzarle entrambe
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La giardiniera era amatissima anche da figure illustri della cultura italiana, come Giuseppe Verdi e Giovanni Guareschi: rispettivamente, l'abbinavano a spalla cotta e cotechino lesso. Certamente non può mancare una nostra versione, perché è perfetta come antipasto ma anche come abbinamento ai cibi tipici delle tavole natalizie, quando vengono serviti i vari capponi ripieni o i bolliti misti, specie sulle tavole del centro-nord Italia. Anzi, invece di una versione ve ne diamo due: una classica e una in cbt del coach Virgilio Brunetti. Poi non dite che non siamo generosi!
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GIARDINIERA CLASSICA
GIARDINIERA IN CBT
Ingredienti per 4 persone
Ingredienti per 4 persone
per le verdure: 2 peperoni rossi e gialli / 2 zucchine grandi / 2 cipollotti / 2 carote / 4 coste di sedano / 300 g di fagiolini / 4 litri di acqua / 200 g di aceto di vino bianco.
per le verdure: 500 g di verdure miste (peperoni, zucchine, rape rosse, carote, cavolo cappuccio, sedano rapa...).
per il liquido di conserva: 1,5 l di acqua / 115 g di glucosio / 0,5 l di aceto / 50 g di sale (grosso) / 5 foglie di alloro / grani di pepe a piacere / chiodi di garofano a piacere.
per il liquido di conserva: 100 g di acqua / 100 g di aceto di mele / 100 g di vino bianco / 30 g di zucchero / 20 g di sale
PREPARAZIONE
PREPARAZIONE
1. Per realizzare una giardiniera a regola d’arte, è fondamentale ricordare che l’acidità del prodotto deve essere inferiore a pH 4,5. E’ dunque altresì fondamentale dotarsi di cartine tornasole, in grado di misurare con precisione il pH.
1. ll vino bianco deve essere di ottima qualità e deve essere dealcolato per bollitura prima di assemblare il liquido di conserva. Dopo aver dealcolato il vino, preparate dunque il liquido di conserva.
2. Selezionate le vostre verdure, eliminando quelle troppo acerbe e quelle troppo mature. Date insomma la preferenz a quelle freschissime e turgide. Lavatele accuratamente e pulitele, poi tagliatele cercando di formare pezzi che si eguaglino in grandezza.
2. Tagliate tutte e verdure e poi dividetele con qualche accorgimento: i peperoni devono essere cotti a parte, perché altrimenti il loro sapore coprirebbe tutte le altre verdure; le rape rosse, il cavolo viola e altre verdure colore rosso devono essere cotte anch’esse in una busta separata altrimenti tutta la giardiniera si colora di viola.
3. Scottate le verdure in acqua acidulata (50 g/l) un tipo per volta: fatele bollire per pochi minuti (non più di 4) e poi fermate la cottura in abbondante ghiaccio. 4. Preparate il liquido di conservazione facendo bollire tutti gli ingredienti per un quarto d’ora. 5. Sterilizzate i vasetti facendoli bollire per mezz’ora in abbondante acqua (che deve ricoprirli completamente), insieme ai loro coperchi. Poi metteteli ad asciugare a testa in giù, su uno strofinaccio pulito. 6. Una volta che le verdure saranno tutte sbollentate e raffreddate col ghiaccio, mettetele nei vasetti insieme al liquido di conserva, riempiendoli fino al collo ( non andate oltre) e aiutandovi con un pressino per fare in modo che nessun ortaggio rimanga scoperto. 7. Chiudete bene i vasetti, poi avvolgeteli negli stracci e copriteli interamente con l’acqua fredda, mettendoli in un pentolone capiente. Portete il tutto a ebollizione e fateli bollire per mezz’ora.
Dal giorno successivo la vostra giardiniera sarà pronta e potrete conservarla in frigo (consigliamo di non superare un anno di conservazione).
4. Cuocete a 82°C per due ore in acqua, suddividendo però la fase di cottura in due parti: 60 minuti a 82°C, poi abbattete con ghiaccio e cuocete di nuovo per altri 60 minuti, sempre 82°C. 5. Alla fine del processo il prodotto sarà conservabile a 4°C per sei mesi, sarà perfettamente acidificato e pastorizzato. Questa Giardiniera è ottima per il consumo dopo una settimana dalla cottura: può essere mangiata così, come accompagnamento di bolliti e arrosti, ma anche scolata e fatta saltare nel wok con poco olio e servita come contorno sfizioso in agrodolce. BBQ4All Magazine
8. Trascorso il tempo necessario, il sottovuoto si dovrà essere formato: a quel punto estraete i vasetti, verificate che il centro del coperchio, una volta premuto, non si muova e non faccia alcun rumore, e mettete i vasetti a raffreddare a temperatura ambiente a testa in giù.
3. Una vota tagliata la verdura e separata come consigliato, mettetela nelle buste (non è necessario possedere una macchina per il sottovuoto a campana, basta saldare le buste con una macchina ad estrazione) insieme al liquido di governo. Se non avete le buste, potete metterle nei vasetti.
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BÛCHE DE NOËL
CON ARANCE ALLA GRIGLIA
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Tradizionalmente il bûche de Noël, o tronchetto di Natale, è un dolce francese a forma di tronco, fatto con pan di Spagna, ricoperto di glassa al cioccolato e ripeno di vari tipi di crema. Cercando di adattarlo alla cottura sul fuoco e di abbinarlo anche alla nostra tradizione italiana, abbiamo tirato fuori dal cappello questa piccola meraviglia. Ci scuserete se ci prendiamo la libertà di definirlo così, ma questo tronchetto è un vero capolavoro, ed è anche facile da preparare. Anzitutto, è un ottimo modo per riciclare pandori avanzati anche dopo le feste natalizie. In secondo luogo si può (anzi si deve) congelare e quindi conservare anche per diverso tempo. Terzo, ci dà la possibilità di utilizzare il barbecue per fare un dolce: cosa che stupirà tantissimo i vostri ospiti. Ultimo ma non ultimo, è divertente e abbastanza facile da preparare, il che vi spingerà a prepararlo anche coi bambini, che saranno felici di “aiutarvi col babbechiù!” . Come dicevamo, è praticamente una preparazione perfetta, che soddisfa tutti: i tradizionalisti dei dolci natalizi, gli innovatori, gli amanti del bbq, i bambini, gli ospiti e in generale tutti i golosi. Già, perché è anche buonissimo.
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Tagliate a fettine sottili le arance con la buccia. Predisponete il vostro dispostivo bbq per una cottura indiretta e stabilizzatelo ad una temperatura di 110°C. Mettete le arance sulla griglia, in cottura indiretta, chiudete il coperchio e dimenticatele lì per un po’ di tempo. Piano piano essiccheranno. Saranno pronte quando completamente essiccate. Mi raccomando, controllatele ogni tanto, in modo da non far sbruciacchiare troppo quelle che inevitabilmente si troveranno più vicine alla fonte di calore. In questa fase, se vi sentite particolarmente temerari, potete provare anche ad affumicarle con legni fruttati. Nel frattempo, preparate la crema: montate la panna con 150 grammi di zucchero e unitela al mascarpone, facendo attenzione ad amalgamare il tutto in maniera perfetta. Prendete uno stampo per tronchetti e rivestitelo con fettine di pandoro alte circa un centimentro. Farcite con la crema e chiudete il tronchetto con altre fettine di pandorlo. Mettete tutto in freezer per almeno tre ore.
INGREDIENTI PER 4 PERSO N E • un pandoro • 500 g di mascarpone • 250 ml di panna fresca • 400g zucchero • 1 kg di arance mature • mezzo bicchiere di Prime Arance Maschio
Quando le arance saranno essiccate, preparate un caramello liquido, usando il Prime Arance: in un pentolino fate sciogliere 200 g di zucchero con mezzo bicchiere di Prime Arance. Quando sarà pronto e l’alcol evaporato, aggiungete acqua bollente (occhio agli schizzi!) e mescolate velocemente. Mettete le arance in un altro pentolino con poca acqua bollente e due cucchiai di zucchero, in modo che si ammorbidiscano bene. Tirate fuori dal freezer il tronchetto, lasciatelo scongelare un po’ e poi bagnate col caramello, aiutandovi con un pennello, la superficie. A questo punto, prendete le arance e attaccatele al tronchetto, ricoprendolo interamente. Aiutatevi col caramello, spennellandolo un po’ sulle arance, qualora doveste far fatica a farle aderire al tronchetto. Il dolce è pronto. Fatelo riposare un po’ fuori dal frigo e poi affettatelo. Non vi preoccupate se le arance si staccheranno un po’ durante il taglio. Il dolce deve essere così, rustico, con le arance che si mescolano alla crema. E voi dovete leccarvi le dita.
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TARTUFI DI NATALE
Il Natale porta nelle nostre case tante cose belle: allegria, musica, luci colo-rate, regali, famiglie unite. Ma porta anche una cosa veramente terribile, che ogni anno si ripete: i panettoni che avanzano e che per molti diventano la classica colazione della mattina per i mesi a venire.
INGREDIENTI PER 8 PA L L I N E • Tre fette spesse di panettone • un bicchiere di Vin Santo • zucchero di canna q.b. • granella di nocciole q.b. • cioccolato fondente al 70% • 100 ml di panna
La soluzione per smaltirne qualcuno potrebbe essere la ricetta che hai letto su internet “come riciclare il panettone”; ma le vostre precedenti esperienze vi fanno desistere. Tutte le volte che vi siete cimentati in quel tipo di ricetta, avete creato dei veri orrori dolciari: brutti alla vista, traballanti, grondanti creme liquide o farciti di gelato duro come il marmo. Dolci che si disfano al primo taglio, guardati con disgusto dagli ospiti. Tutto questo è successo perché avete scelto ricette troppo elaborate, pesanti e, diciamocelo, un po’ banali. Vi assicuriamo, invece, che la semplicità è sempre la scelta vincente. Ed è proprio semplice, ma decisamente sorprendente, la ricetta che vi stiamo proponendo: praline di panettone caramellate. Sono morbide pallette di panettone aromatizzate al Vin Santo, prima grigliate e poi caramellate con granella di nocciole tostate, infine condite con abbondante cioccolato fuso. Vi avvisiamo: creano dipendenza. PREPARAZIONE 1. Spezzate il panettone grossolanamente, eliminando la crosta; bagnalo col Vin Santo quel tanto che basta ad ammorbidirlo bene. 2. Formate delle pallette un po’ più grosse di una noce e passatele nella granella di nocciole e poi nello zucchero. 3. Stabilizzate il dispositivo per una cottura indiretta a 180 gradi, adagiate le pallette su una teglia di alluminio e mettetele in cottura, coprendo il coperchio. Lascialete dentro fino a quando lo zucchero non si sarà caramellato, circa 20 minuti.
5. In un pentolino, sciogliete il cioccolato fondente a bagnomaria insieme alla panna. Colate il cioccolato fuso ancora caldo sulle praline e servite.
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4. Preparate nel frattempo un caramello classico, avendo cura di lasciarlo un po’ liquido. Aiutandovi con un pennello, stendete il caramello sulle praline, senza esagerare, rendendole lucide, poi aspetta che si asciughino.
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PANETTONE FUOCO&PERE
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State organizzando il pranzo di Natale e l’unica portata che non vi desta preoccupazione è il dolce: come tutti gli anni, secondo la tradizione, servirete un panettone, che è proprio quello che si aspettano i vostri ospiti. E se rompessimo questa routine delle feste preparando un dolce diverso, col quale poter finalmente dimostrare coi fatti che anche il panettone può diventare un dolce ricercato e gourmet? Qui vi proponiamo una ricetta che prevede l’uso del panettone alle gocce di cioccolato, farcito poi con una deliziosa crema al profumo di pere affumicate e decorato con fette di pera disidratate. Una goduria per la vista e per il palato. Il sapore classico del panettone unito alle gocce di cioccolato si sposa alla perfezione con la dolcezza della crema alle pere: delicato, godurioso, ricercato. Perfetto per fare un figurone, perché oltretutto è anche molto scenografico e bello da vedere.
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Stabilizzate il vostro dispositivo a 180°C per una cottura indiretta. In una teglia disponete le pere sbucciate, divise a metà e prive del torsolo. Mettete la teglia sulla griglia e affumicate; per affumicare buttate una manciata di petali di legno aromatico sulle braci e chiudete il coperchio. Dopo venti minuti circa, controllate la cottura infilzando con uno stecchino la pera, se risulta cedevole fino al cuore è pronta, ma deve rimanere comunque soda e compatta. Una volta pronte, tagliatele a cubetti e lasciale raffreddare. Montate la panna con metà dello
zucchero; lavorate bene la ricotta amalgamandola con le pere. Ottenuto un composto omogeneo, aggiungete la panna montata mescolando dall’alto verso il basso. Ora che la crema è pronta, prendete il panettone e tagliate due fette in orizzontale (quindi due cerchi) dello spessore di 2 cm. Per assemblare un dolce compatto, stabile e pulito, vi consigliamo l’uso di un anello per torte. Prendete le due fette di panettone e coppale con l’anello perché abbiano il giusto diametro, poggia l’anello su un piatto e mettete il disco di panettone, la crema, di nuovo il panettone e nuovamente la crema. Livellate bene l’ultimo strato di crema con una spatola. Mettete il dolce nel congelatore per una notte. Per la decorazione vi servono delle pere abate biologiche. Preparate il dispositivo per una cottura indiretta a 110°C/120°C. Tagliate la pera a fette sottili in verticale, mantenendo la buccia e lasciando ad alcune fettine il piccolo. Mettete in cottura indiretta, appoggiando le fettine sulla griglia: vi consiglio di utilizzare un foglio di carta forno. Le pere sono pronte quando hanno acquistato un bel colore ambrato e sono completamente disidratate. Sformate il dolce e con l’aiuto della spatola, aggiustate il bordo a cui applicherete, giro giro, le fette di pera. Sarà un successo, ve lo assicuriamo: i vostri ospiti rimarranno talmente deliziati dalla bontà di questo dolce che nessuno rimpiangerà il classico panettone.
I N G RED I EN T I P E R 6 P E R S ON E • Un panettone con gocce di cioccolato • 500 g ricotta vaccina, meglio se di bufala • 250 g panna fresca • 200 g zucchero a velo • 350 g di pere più alcune per la decorazione
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abate per il ripieno
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ANANAS GRIGLIATO
Brasil la la la la la la la laaaaa, Brasil Brasil! Più o meno finiscono così le feste in stile natalizio e i veglioni di fine anno. Trenino qui, trenino là. E si va avanti fino a notte fonda. Tutto questo dopo essere passati per antipasti, primi, secondi di carne e di pesce, contorni, e dolci. Senza dimenticare la frutta, che nelle tavole delle feste è la regina di fine pasto. Noci, nocciole e mandarini, melograno e uva, simbolo di ricchezza e benessere, nelle credenze popolari. Sono, tutti, frutti che accompagnano il tempo che scorre tra un pasto e l’altro, in queste giornate di festività. Ma noi non ci conformiamo al semplice e al banale. Cerchiamo di offrirvi un tocco in più che, oltre a nutrirvi e a soddisfarvi, sia anche leggero, per non sovraccaricare ulteriormente un pasto già ultra saturo di calorie, e che al contempo vi faccia fare un figurone con tutti gli invitati. L’ananas è un frutto appartenente alla famiglia delle Bromeliaceae, cresce sopratutto nelle zone tropicali e sub tropicali del Sudamerica. Tra le migliori varietà c’è quella della Costa Rica extra gold, dal colore giallo intenso, dolcissima e succosissima. Il frutto dell’ananas ha una grandissima proprietà, quella di contenere bromelina. La bromelina è infatti un enzima proteolitico, in grado di degradare altre proteine in aminoacidi, perciò favorirà lo smaltimento delle grandi abbuffate di carne. Vi permetterà di digerire facilmente e non aumenterà il vostro apporto di calorie, avendone un basso contenuto. Ma passiamo al dunque. Vediamo come prepararla al meglio.
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Iniziamo con la pulitura dell’ananas, eliminando la scorza esterna. Tagliamo l’ananas per metà dalle parte della lunghezza e poi ricaviamone delle fette a semicerchio. In un contenitore, versiamo il latte di cocco e quindi immergiamo una per una le nostre fette succose. Una volta bagnate col latte di cocco, passiamole, solo da un lato, sullo zucchero di canna. Infine spolverizziamo con la cannella. Settiamo il nostro dispositivo per una cottura diretta e, quando la nostra griglia sarà ben calda, adagiamo le nostre fette d’ananas, prima dal lato senza zucchero e poi rivoltiamole quando si saranno formate le classiche grill marks, anche sul lato dello zucchero. Le nostre fette d’ananas grigliata, succose e salutari, sono pronte.
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Pronti a stupire ? Volete esagerare ancora, dopo tutta la pappardella che vi ho fatto sui benefici dell’ananas ? Ok, peggio per voi. La festa è festa. Allora prendete la vostra ananas ancora calda e irroratela con del buon rhum, servitela con una tazzina di latte di cocco e zucchero di canna e, se ancora non vi basta, accompagnatela con una pallina di gelato alla vaniglia o una cucchiaiata di panna montata.
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ASPIC PROSECCO E UVA
I N G RED I EN TI PER 4 ASPIC • 750 ml di Prosecco di buona qualità • un grappolo d'uva bianca
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o rosata, senza semi
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• 40 g di gelatina in fogli • Cannella q.b • Zucchero q.b.
- Ciao, cosa stai mangiando? - Carne TInsemal! Forse non tutti ricorderanno questa pubblicità nostalgica. Il bambino protagonista dello spot mangiava la celebre gelatina di carne e rendeva famosa una ricetta che, anche se poteva sembrava moderna e innovativa, in realtà ha origini molto più antiche. L’aspic, ovvero la gelatina di carne, era molto diffusa in Francia già dal Medioevo. Ma è con l’avvento di Napoleone Bonaparte che si ha la prima traccia di una ricetta scritta. Infatti Marie-Antoine Carême (1784- 1833), chef de cuisine di Napoleone Bonaparte, presentò all’imperatore lo chaud-froid (letteralmente ‘caldo-freddo’), una pietanza di carne o di pesce che veniva bagnata con una salsa calda e lasciata raffreddare. Successivamente apportò delle modifiche alla ricetta utilizzando del brodo addensato e realizzò la prima versione di aspic, allo scopo di migliorare il sapore e garantire una vita più lunga al pesce freddo e al pollame. Le origini del nome sono invece da ricerca nella parola latina aspis, vipera. Probabilmente tale nome gli fu dato per l’analogia tra la temperatura di servizio che ricordava quella dei rettili. Il piatto si è poi diffuso largamente in tutta Europa. In Russia, è noto come kholodets, preparato con pollo e frattaglie, è tipico delle festività natalizie. Altre versioni salate vengono preparate in tutto l’est Europa fino ad arrivare in Nepal dove viene fatto con la carne di Bufalo.
Al momento di servire, per rimuovere la gelatina da uno stampo senza rovinarla, prendete una ciotola più grande dello stampo e riempitela con acqua calda. Successivamente posizionate lo stampo nell’acqua facendo attenzione a non sommergere la gelatina. Attendete qualche secondo e poi rimuovete la gelatina dallo stampo. Fate quest’operazione mezz’ora prima rispetto a quando volete servire il piatto così la gelatina avrà avuto modo di stemperarsi e stabilizzarsi.
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Anche in Italia questa preparazione è largamente diffusa, ricordiamo ad esempio la versione lombarda preparata con le parti meno nobili del vitello e del pollame che poi viene arricchita con funghi, pistacchi e tartufo. Una variante a base di pesce è invece diffusa in Sardegna, la cui protagonista è l’aragosta accompagnata da lamelle di tartufo bianco. Da annoverare anche le versioni dolci, tra cui forse la più famosa è il gelo di anguria palermitano. Quest’ultima viene preparata con il succo dell’anguria, il cioccolato fondente e i fiori di gelsomino che gli danno un profumo inconfondibile. Con questa ricetta, infatti, vi proponiamo una versione dolce e tutta natalizia, a base di uva e Prosecco. Perfetta per accompagnare i piatti che segnano l’arrivo delle grandi festività. È un dolce facile da preparare, fresco e frizzantino, che fa sempre un certo effetto sui commensali.
PREPARAZIONE:
1. In una ciotola mettete la gelatina a mollo in acqua fredda. 2. Sgranate l’uva e lavatela accuratamente. 3. Ponete adesso l’uva su una teglia e cospargetela con cannella e zucchero, poi accendete il vostro dispositivo e lasciatela caramellare e appassire leggermente in cottura indiretta, a circa 80°C. 4. In un pentolino mettete a scaldare circa la metà del prosecco a fuoco basso. Nel frattempo strizzate la gelatina e aggiungetela nel pentolino quando il prosecco si è intiepidito. 5. Aggiungete adesso il resto del prosecco e mescolate accuratamente. 6. Adagiate sul fondo di uno stampo in silicone per semifreddi o muffin (in alternativa uno per ghiaccio) l’uva e copritela con la soluzione di Prosecco e gelatina. 7. Mettete adesso gli stampi in frigorifero per almeno 24 ore.
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CASSATA SICILIANA L’emblema dell’opulenta ricchezza di sapori e di colori, unita alla straordinaria maestria nella decorazionetipica della pasticceria siciliana apprezzata in tutto il mondo- è la cassata. Abbiamo già parlato di questo squisito dolce in un vecchio numero, mostrando una versione che fondeva insieme la tradizione secolare con la cultura della griglia, decorandolo con frutta grigliata al posto di quella candita.
Questa volta, invece, presentiamo la cassata classica, realizzata per l’occasione dalla Pasticceria DoppioZero a Mazara del Vallo. Questa torta, così come molte altre ricette tipiche del territorio, nasce dalla grande influenza saracena durante il dominio arabo (827d.C.-1072d.C.). Il nome Cassata deriva dalla parola araba quas’at (bacinella). Inizialmente, a Palermo alla corte dell’emiro, la sua forma era ancora molto lontana da quella che siamo soliti vedere nelle vetrine delle pasticcerie, perché cotta al forno e priva di decorazioni. La crema di ricotta veniva messa all’interno di un guscio di pastafrolla e infornata. Nel XII secolo, con la dominazione Normanna, la ricetta conobbe un’importante modifica avvicinandosi moltissimo alla versione moderna: da preparazione calda diventò fredda. La pasta frolla venne sostituita dalla deliziosa pasta reale, detta anche Martorana, realizzata con farina di mandorle. Ideata dalle monache dell’ordine della Martorana, intorno al 1100, la pasta reale veniva utilizzata dalle consorelle per realizzare i famosi frutti, dolcetti tipici della festività dei morti. In seguito, nel ‘600, il dominio spagnolo e l’influsso barocco arricchirono la torta con nuovi elementi: il cioccolato, il pan di Spagna, la lussureggiante decorazione con frutta candita e gli ornamenti simili a ricami lungo la fascia di pistacchio.
I N G RED I EN TI PER 6 PER SONE PER LA PASTA REALE • 250 g di pistacchi di Bronte pelati • 25 0g di zucchero semolato • 125 ml di acqua PER LA FRUTTA CANDITA • due arance • 25 0g di zucca pulita • zucchero semolato q.b. • cannella q.b. PER IL PAN DI SPAGNA • 120 g di farina • quattro uova • 120 g di zucchero • burro q.b. • 8 g di lievito per dolci (circa mezza bustina) PER LA CREMA DI RICOTTA • 1 kg di ricotta • 100 g di gocce di cioccolato fondente • 240 g di zucchero PER LA BAGNA • 250 g di acqua • 125 g di zucchero semolato • 35 g di rum PER LA GLASSA
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• 35 g di zucchero fondente
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La codificazione della ricetta di questa straordinaria e cosmopolita delizia, avvenne nel 1873 ad opera del mastro pasticcere Salvatore Gulì, che aggiunse alla decorazione la zuccata (zucca candita) da quel momento ornamento immancabile della cassata.
• 175 g di acqua PER LA GHIACCIA REALE • l’albume di un uovo • 170 g di zucchero a velo • un cucchiaino di succo di
Vediamo come realizzarne una a casa, seguendo le linee guida della Pasticceria DoppioZero.
limone
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PREPARAZIONE:
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1. Partiamo dalla pasta di pistacchio. Pre-riscaldate il forno a 180°C, su una teglia ricoperta di carta forno disponete i pistacchi, dopo averli liberati dalla pellicina, e tostateli per pochi minuti. 2. Dopo averli tostati, utilizzando il mixer tritateli fino a farli diventare polvere. 3. In un pentolino, fate bollire l’acqua insieme allo zucchero: quando il fluido avrà raggiunto i 106°C toglietelo dal fuoco, versatelo in una ciotola capiente e con le fruste elettriche montatelo fino a che non assume un bel colore bianco. 4. Aggiungete la farina di pistacchio ed iniziate ad unire i due elementi prima con una spatola e poi con le mani fino ad ottenere un panetto compatto. Avvolgetelo nella pellicola alimentare e ponetelo in frigo per una notte. 5. Passiamo alla frutta candita. Sbucciate le arance mantenendo la buccia il più possibile intera e bollitela in abbondante acqua per 10 minuti. Scolate le scorze e ripetete il procedimento per altre due volte. La terza volta lasciatele nell’acqua per una notte. 6. Il mattino dopo, scolatele e suddividetele in strisce non troppo sottili, pesatele e mettetele in una casseruola con lo stesso peso in acqua e zucchero, su un fuoco medio basso. 7. Lasciatele andare fino a quando il liquido sarà quasi tutto evaporato. Togliete le bucce dallo zucchero prima che caramellino e fatele raffreddare sopra un grata. 8. Prendete la zucca, eliminate i semi e tagliatela grossolanamente mantenendo la buccia; immergetela in acqua salata per circa un’ora. Passato questo tempo scolatela e sciacquatela sotto l’acqua corrente. 9. Eliminate la buccia e tagliatela in pezzi più piccoli tenendo conto della decorazione che intendete creare. Sbollentatela in abbondante acqua per 5 minuti, per ammorbidirla. 10. Pesatela e in un tegame immergetela nella stessa quantità di zucchero ed acqua con una spolverata di cannella. Come per le scorze d’arancia la zuccata sarà pronta quando è ricoperta da uno strato di zucchero; prima che caramelli lasciatela raffreddare su una grata. 11. Quando sarà ben raffreddata, tagliatela in fette lunghe e sottili da ripiegare su se stesse per creare i petali di un fiore, il classico abbellimento con la zuccata. 12. Preparate la bagna alcolica per il Pan di Spagna. Posizionate un pentolino sul fuoco medio basso
con dentro lo zucchero e l’acqua, e mescolate con un cucchiaio fino a quando lo zucchero si è totalmente sciolto. Il liquido non deve arrivare al bollore. Spegnete la fiamma ed unite il liquore girandolo per qualche minuto. Ponete la bagna in un recipiente coperto. 13. Siamo giunti alla preparazione del Pan di Spagna. Sbattete le uova con le fruste, aggiungendo poco per volta lo zucchero, fino a quando non saranno belle spumose. 14. Incorporate poco per volta la farina setacciata, e unite delicatamente gli ingredienti, senza dimenticarvi di mettere anche mezza bustina di lievito. 15. Pre-riscaldate il forno a 160°C. 16. Imburrate la teglia, versate l’impasto all’interno ed infornate per 30 minuti 17. Prima di sfornare la torta verificate che sia cotta infilando uno stecchino nella zona centrale del Pan di Spagna, penetrando in profondità: se risulta asciutto il dolce è pronto. 18. Passiamo alla crema. La sera prima posizionate la ricotta intera all’interno di un colino sopra un contenitore per farle perdere il siero. Il giorno successivo, setacciatela per poi lavorarla con lo zucchero, fino ad ottenere una crema liscia. 19. Unite alla crema le gocce di cioccolato fondente. Copritela con la pellicola alimentare e ponetela in frigo. 20. Infarinate il piano di lavoro con dello zucchero a velo, prendete la pasta di pistacchio e lavoratelo con le mani fino a creare un lungo serpente, come quando si preparano gli gnocchi; schiacciatelo prima con il palmo delle mani e poi con in mattarello, fino ad ottenere una lunga striscia di mezzo millimetro. 21. rendete una tortiera svasata o anche un anello per dolci e rivestite il bordo con la pasta di pistacchio rifilando i bordi con un coltello. 22. Prendete il Pan di Spagna, eliminate la leggera crosta della parte inferiore e di quella superiore, e suddividetelo in tre strati. 23. Tagliate a rettangoli un disco di Pan di Spagna ed inseriteli lungo il bordo sopra la pasta di pistacchio, spingendo leggermente per farli aderire bene. 24. Foderate la base della tortiera con il Pan di Spagna, e con un pennello alimentare inumiditelo con la bagna. 25. Farcite lo stampo con la crema, distribuendola in modo omogeneo e coprite il tutto con un altro strato di Pan di Spagna che poi renderete
umido con la bagna. 26. Coprite la cassata con la pellicola alimentare e ponetela in frigo 5/6 ore perché rassodi. 27. Capovolgete la cassata aiutandovi con un sottotorta e sformatela con estrema delicatezza, perché ricordatevi che è un dolce che si compone al contrario. 28. È il momento della glassa, mettete sul fuoco medio basso lo zucchero fondente aggiungendo poco per volta l’acqua per ottenere un composto né troppo liquido, né troppo denso. Quando il composto sfiora il bollore è pronta. 29. Versate la glassa sopra il dolce, utilizzate una spatola per distribuirla in modo omogeneo, evitando che coli sui bordi. Questa operazione deve essere rapida, la glassa si rapprende velocemente. Mettete la torta in frigo, mentre preparerete la ghiaccia reale per il decoro. 30. Con le fruste elettriche sbattete l’albume con il limone, quando inizia a montare versate poco per volta lo zucchero a velo setacciato fino ad ottenere un composto denso. 31. Decorate la torta con la frutta candita precedentemente tagliata a strisce o a spicchi 32. Preparate un piccolo cono con la carta forno, inserite all’interno la ghiaccia, spuntate leggermente la cima con le forbici (il tratto deve essere sottile) e terminate la decorazione con abbellimenti barocchi sulla frutta candita e sulla fascia di pistacchio. BBQ4All Magazine
Ricordatevi che la cassata deve riposare una notte in frigo prima di poter essere servita..
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a cura del Maestro Pasticciere Pasquale Bevilacqua Pasticceria Mamma Grazia, Nocera Superiore (Salerno)
Il tiramisù
secondo il pasticcere Per quanto riguarda i dolci squisitamente italiani, sulle tavole non può mancare il tiramisù. Tra le pagine del Magazine è già apparsa una ricetta di questo dolce, mangiato praticamente da tutti. Ma non vi è stata ancora data la versione del tiramisù del pasticciere, con i biscotti fatti da voi, il mascarpone artigianale, la bagna al caffè calibrata al millilitro delle vostre golosità.
Vi darò tutti i suggerimenti ed i passaggi utili per costruire praticamente il vostro tiramisù da zero: imparerete a fare dei savoiardi gustosissimi, friabili e “da pasticceria”; il mascarpone – avete già una ricetta, fornita dal Mastro Formaggiere del Magazine, ma vi fornisco anche la mia – sarà una crema, non duro come quello del supermercato e sarà avvolgente, grasso ed irrinunciabile. Il tiramisù così preparato potrete conservarlo in frigo per circa 3 giorni, ad una temperatura di +5 °C. Se avete in mente di conservarlo più a lungo sarà opportuno surgelarlo negli appositi ripiani del congelatore. Basterà tirarlo fuori un’oretta prima del servizio e portarlo a temperatura di frigo. Siete pronti? Andiamo a preparare insieme il più grande classico italiano!
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Sebbene sia un dolce non registrato nei manuali di cucina prima degli anni Sessanta del secolo scorso, il tiramisù gode di una fama smisurata sia in Italia che all’estero. Vi assicuro che uno dei dolci più presenti nei menu di tutti i ristoranti italiani del mondo è proprio questo blocchetto di biscotti inzuppati nel caffè, crema al mascarpone, cacao. Negli ultimi anni – diciamo pure, negli ultimi vent’anni – il tiramisù ha subito tutte le svariate trasformazioni che abbiamo visto nella pasticceria: è stato scomposto, messo in bicchiere, ricomposto in altre forme. Per la mia esperienza, posso assicurarvi che il tiramisù più buono di tutti potete farlo da soli. Proprio da soli. Troppo spesso – per velocità, per poco tempo, per presunta “scarsa capacità” – il tiramisù diventa un dolce bistrattato, raffazzonato. Savoiardi di dubbia qualità vengono inzuppati a più non posso in litri di caffè, il mascarpone duro come uno zoccolo messo a cucchiaiate selvagge, il cacao amaro come una specie di diluvio estivo. Volete cimentarvi in un tiramisù
che sembrerà ai vostri ospiti come appena uscito da una pasticceria? Non vi resta che seguirmi passo dopo passo.
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Ingredienti per circa 12/16 savoiardi: 250 g Farina 00 / 300 g Albumi d’uovo / 200 g Zucchero semolato / 140 g Tuorli d’uovo / 6 g di buccia di limone non trattato (sfusato amalfitano, se lo trovate) / 0,5 g di pasta di vaniglia Bourbon
Preparazione: 1. Per prima cosa, montare a neve ferma albume con lo zucchero per circa 10 minuti. 2. Successivamente, unire la buccia del limone grattugiata (ben lavata) e la pasta di vaniglia Bourbon. 3. Versare i tuorli d’uovo a filo e far miscelare per un minuto a velocità media. 4. Prendete la farina ed unitela a mano, fino ad ottenere un composto liscio e molto liquido. 5. Con una marisa, iniziamo ad emulsionare il composto. 6. È il momento di prendere una sac à poche. Create una bocchetta che sia ampia circa 14 mm, per estrudere i nostri savoiardi. 7. Preparate una teglia ampia con un foglio di carta forno. 8. Nel frattempo, impostate il forno in modalità ventilata e fate raggiungere la temperatura di 220°C . 9. Riempite la sac à poche con cucchiaiate di impasto ed estrudete con calma e sangue freddo i vostri savoiardi. Dovrete avere la pazienza e la fermezza di estruderli uno ad uno con un colpo unico, altrimenti tenderanno a creparsi e spaccarsi. Abbiate cura anche di conservare un discreto spazio tra i biscotti, diciamo tre dita di spazio tra un savoiardo e l’altro. 10. Infilate la teglia in forno e cuocete per massimo 15 minuti.
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11. Per circa 8 minuti di cottura, la valvola del forno (quella che permette all’umidità di fuoriuscire) dovrà essere chiusa, per la restante parte della cottura dovrà essere aperta, per permettere ai savoiardi di asciugarsi.
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12. I savoiardi saranno pronti quando la loro superficie sarà brunita. Se avete lavorato bene, il savoiardo sarà integro e non collassato.
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Ingredienti per mascarpone e crema: 1 l di panna fresca con il 35% di grassi / 2 g di sale / 80 g succo di limone / 250 g di tuorli d’uovo / 250 g di zucchero semolato / 6 g di buccia di limone non trattato (sfusato amalfitano se disponibile) Preparazione del mascarpone: (Il mascarpone va preparato necessariamente il giorno prima) 1. Realizzate una infusione con il litro di panna, i 2 g di sale e gli 80 g di succo di limone. 2. Portate ad ebollizione il composto. 3. Togliere dal fuoco e lasciar freddare per circa 30 minuti. 4. Dopo aver lasciato raffreddare, trasferite il composto su un canovaccio a sua volta poggiato su un setaccio. 5. Coprite con pellicola per alimenti e trasferite in frigo a circa 5°C.
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6. A questo punto, il mascarpone dovrà riposare in frigo per l’intera giornata (24 ore complete).
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Preparazione della crema al mascarpone: 1. Montare in planetaria i 250 g di zucchero semolato con i 250 g di tuorli d’uovo. 2. Quando saranno ben montati a neve, versare all’interno il nostro mascarpone. 3. Far montare tutto insieme per qualche minuto a velocità media. Vi renderete conto che il processo sarà ultimato quando il composto assumerà una consistenza cremosa. Questo accade perché la cremosità del nostro mascarpone andrà a sostituire la componente ariosa degli albumi e dello zucchero montati a neve.
Ingredienti per la bagna e per l'assemblaggio: 100 g caffè espresso napoletano / 50
g acqua / 50 zucchero / 100 g di cacao amaro / decorazioni di cioccolato a piacere Assemblaggio: 1. Iniziamo la costruzione del nostro tiramisù. Creiamo una bagna al caffè espresso con i 100 g di caffè, i 50 g di acqua e i 50 g di zucchero in un bicchiere abbastanza capiente.
abbiamo scelto per presentare il nostro dolce. 4. Riempiamo una sac à poche di crema al mascarpone. 5. Estrudere uno strato consistente di crema al mascarpone sulla porzione di savoiardi. 6. Imbibire ancora due savoiardi per coprire lo strato di crema mascarpone.
2. Ad uno ad uno, imbibiamo i nostri savoiardi con delicatezza nella bagna.
8. Con l’aiuto di un setaccio, spolverate il cacao amaro come decorazione.
3. Posizioniamo uno o due savoiardi sul piatto che
9. Decorate con i fili di cioccolato.
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7. Sulla sommità, estrudete qualche altro ciuffo di crema mascarpone.
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MOUSSE ALLA RICOTTA
Spumosa, soffice, ariosa, compatta, dai molteplici sapori, farcia golosa racchiusa in scrigni di pastafrolla, tra strati di Pan di Spagna o di sfoglia caramellata croccante; o ancora goloso dolce al cucchiaio se servita in coppette adornata con sbuffi di panna, di frutta o di biscotti sbriciolati: stiamo parlando della mousse.
Come ci indica il nome stesso, è un dolce di origine francese: il nome letteralmente significa schiuma o spuma e ne descrive alla perfezione la consistenza. Infatti, la mousse è una preparazione che racchiude dentro di sé delle microscopiche particelle d’aria che le permettono di avere una texture morbida e molto piacevole al palato, poiché nel momento in cui la spumosa solidità si scioglie in bocca rilascia lentamente il suo sapore. L’effetto si ottiene inserendo un elemento che ha incamerato aria (panna o albumi montatati), con gli altri ingredienti.
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Se sulla nazionalità non vi sono dubbi, la stessa cosa non si può affermare per la paternità. Ci sono due schieramenti: alcuni sostengono che la mousse nacque (nella sua versione più famosa), nella cucina reale di Luigi XVI ad opera di Charles Fazi, cuoco svizzero che, come il suo datore di lavoro, finì per perdere la testa sul patibolo nel 1793.
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Dopo l’esecuzione fu diffusa la notizia che le sue ultime parole, prima che la lama gli tranciasse il collo, pare siano state: “mais j n’ai pas finis ma mousse de chocolat!” (ma non ho ancora finito la mia mousse al cioccolato). In effetti,
è decisamente un dolce per cui perdere la testa. Altri studiosi attribuiscono la creazione della straordinaria leccornia a un tale passato alla storia come Mastro Menon. Costui è considerato uno dei più importanti cuochi francesi del XVIII secolo, che nel 1749 pubblicò La science du maître d'hôtel cuisinier (le tecniche del capo cuoco), in cui si trovano quattro tipologie di mousse: al cioccolato, alla crema, allo zafferano e al caffè. Nonostante fosse un dolce di semplice preparazione, gli ingredienti utilizzati da Maestro Menon ci fanno capire subito come inizialmente fosse riservato solo alla classe benestante, che non solo aveva la possibilità di acquistare ingredienti importati dalle Americhe e dall’Oriente, ma aveva altresì la possibilità di accedere al ghiaccio, indispensabile per il rassodamento del prelibato composto. Sicuramente la ricetta ha riscosso molto successo nel corso dei secoli, in special modo nella sua versione più famosa, ovvero quella al cioccolato; tutto ciò è testimoniato dalle numerose varianti che sono nate e continuano ad essere create, sia dolci che salate. La variante che noi vi presentiamo è alla ricotta, arricchita e decorata con scorza d’arancia caramellata, scaglie di cioccolato fondente e briciole di biscotto saltate nel burro. Utilizziamo la panna per esaltare il gusto della ricotta e per dare ariosità. La croccantezza sarà data dal biscotto, la dolcezza dalla frutta candita e l’amaro dal cioccolato.
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Ingredienti per 6 persone: 500 g di ricotta vaccina,
magari di un giorno o due prima, correttamente conservata / 150 ml di panna fresca per dolci / 2 cucchiai di zucchero a velo / cioccolato fondente di alta qualità q.b. / 250 g biscotti secchi tipo digestive / 125 g di burro chiarificato / la buccia di 1 arancia non trattata / zucchero q.b.
PREPARAZIONE 1. Partite dalla preparazione più lunga:le arance candite. Sbucciate l’arancia cercando di non spezzattare troppo la buccia, rimanendo in superficie per non tagliare la parte bianca perché amara. Bollite il tutto in acqua per 10 minuti. Scolate le scorze e ripetete il procedimento per altre due volte. Alla terza lasciatele nell’acqua per almeno 8 ore. 2. Passato questo tempo, scolatele, asciugatele e suddividetele in strisce non troppo sottili. Pesate il tutto e mettetelo in un pentolino con lo stesso peso di acqua e di zucchero, su un fuoco medio basso. Lasciate andare fino a quando il liquido non sarà quasi del tutto evaporato. 3. Con l’aiuto di pinze da cucina, togliete le bucce dallo zucchero caldo, poi fatele raffreddare sopra una gratella. 4. Prendete i biscotti e sbriciolateli grossolanamente all’interno di una busta alimentare, aiutandovi con un mattarello. 5. Sciogliete il burro in una piccola padella, unitelo ai biscotti, mescolate bene e poi versate il tutto in un recipiente lasciando raffreddare. 6. Con un coltello tagliate il cioccolato a scaglie grossolane. 7. Setacciate la ricotta per renderla più morbida. 8. Lavoratela con lo zucchero. 9. Montate la panna ed unitela al composto con delicatezza, mescolando dall’alto verso il basso per non perdere l’aria incamerata. 10. Fate riposare la crema così ottenuta per almeno 4 ore in frigo.
12. Prima di servire vi consigliamo di mettere anche sulla superficie una bella spolverata di biscotti.
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11. Adesso siete arrivati alla fase di montaggio: prendete una coppetta e inserite i biscotti sbriciolati senza pressarli, mettete un bello strato di crema e decorate a vostro piacimento con scorze d’arancia e con le scaglie di cioccolato.
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PANETTONE GRIGLIATO CON MARMELLATA DI ARANCE
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Mettiamo subito le carte in tavola: marmellata e confettura non sono la stessa cosa. E’ vero che entrambe sono prodotti a base di zucchero e frutta, ma la prima è il risultato dell’unione tra l’elemento dolce e i soli agrumi (limone, arancia, bergamotto, pompelmo, mandarino, e cedro), mentre la seconda utilizza la restante vasta gamma fruttifera. Questa differenza è sancita ufficialmente dalla direttiva europea 79/693 del 1979, recepita in Italia tre anni dopo con il DPR n. 401 del 1982, dove si stabilisce che possono definirsi (in parole povere e brevemente) marmellate tutti i prodotti a base di zucchero e agrumi dove la polpa superi il 20% del totale e che possono definirsi confetture tutti prodotti a base di zucchero e frutta la cui polpa superi il 35% del totale.
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Questa informazione sembra non aver mai oltrepassato la cerchia degli addetti ai lavori, visto l’uso indiscriminato della parole marmellata e confettura, considerate l’una il sinonimo dell’altra. In parte questa confusione ha una sua giustificazione: il metodo di cottura di entrambe è praticamente identico se non per qualche piccola variazione. L’arte di conservare in questo modo gli alimenti, nata dalla necessità di preservare i raccolti fruttiferi per l’alimentazione invernale (momento dell’anno più scarno di colture), ha origini molto antiche: il Faraone Ramses II il Grande apprezzava le composte realizzate con frutta miele ed erbe aromatiche; i greci le realizzavanodi mele cotogne, cuocendole lentamente con il miele, mentre i romani aggiunsero al processo di preparazione il vino (per amore della precisione, ad oggi la composta si differenzia dalla confettura per il minor quantitativo di zucchero e per la maggior presenza di frutta).
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La ricetta conobbe la sua svolta nel Medioevo con l’arrivo dello zucchero di canna, rendendo di fatto la realizzazione dell’epoca non molto dissimile dall’attuale. Ovviamente era un prodotto dedicato alla classe privilegiata, visto l’elevato costo degli elementi dolcificanti.
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Nello specifico la marmellata di arance quando è nata? Secondo una leggenda cantata dai menestrelli nelle corti europee nacque nel rinascimento per curare una grave carenza di vitamina C della regina Maria de’Medici (sposa di Enrico IV re di Francia). Dopo che il medico emise la diagnosi furono inviati degli uomini in Sicilia per recuperare le arance, ma durante il lungo viaggio di ritorno i frutti iniziarono a deperire, per cui furono trasformati in un dolce composto. Sempre secondo la leggenda, su ogni vasetto fu posta l’etichetta “pour Marie malade”, da cui si dice nasca la parola marmellata associata alle preparazioni con gli agrumi. Secondo altri invece il termine viene dal portoghese marmelada, con cui si indicava un preparato a base di mele cotogne. Dal latino melimēlu(m), derivato a sua volta dal greco melímēlon: miele e mele. Questo, ovviamente, prima che la Comunità Europa facesse la distinzione rigorosa di cui parliamo all’inizio. Sicuramente, la marmellata è un alimento molto versatile (come la confettura): ottima come farcitura di biscotti, crostate e brioche, ma anche mangiata sul pane imburrato e, perché no, spalmata su una bella fetta calda di panettone appena grigliato. Sì, avete letto bene, grigliato. Per mangiare al meglio il panettone si consiglia di scaldarlo in forno: noi vi proponiamo di andare oltre grigliando sul fuoco ogni singola fetta. Il calore diretto creerà sulla superficie una deliziosa e dorata crosticina croccante (grazie alla sempre nota reazione di Maillard); inoltre amplificherà il profumo del panettone e ,ammorbidendo il burro, renderà la pasta sofficissima. Il tutto sarà incorniciato dalla dolcezza della marmellata di arance che, sposandosi alla perfezione con i sapori dell’uvetta, della frutta candita, della vaniglia e delle nocciole, renderà meravigliosa l’esperienza gustativa.
Ingredienti per 4 persone: 1 Panettone Classico alle
Nocciole GLC Top Selection per la marmellata: 1 kg di arance Navel già pulite / 500 g di zucchero semolato / il succo di un limone PREPARAZIONE 1. Sbucciate le arance rimanendo il più possibile in superficie, evitando di tagliare la parte bianca (perché amara). Tenete da parte solo la buccia di 2 arance. 2. Terminate di sbucciare l’agrume e poi suddividetelo in tanti tocchetti. 3. Pesate le arance, ricordate per ogni kg di frutta ci vuole mezzo kg di zucchero. Mettete gli agrumi, lo zucchero e i succo di limone in una padella ampia e capiente e lasciate cuocere a fiamma medio bassa per 45 minuti, ricordandovi di mescolare spesso. 4. Nell’attesa prendete le bucce messe da parte e tagliatele a striscioline sottili, dopodiché bollitele per due volte in acqua calda per tre minuti, in modo che perdano in parte il loro sapore amaro. 5. Terminato questo passaggio inseritele nel composto sul fuoco. Fate molta attenzione all’ultima fase di cottura, perché il composto potrebbe attaccarsi sul fondo e bruciarsi. 6. Prendete dei vasetti precedentemente sterilizzati, versate la marmellata all’interno, chiudete e capovolgete il tutto, in questo modo si creerà il sottovuoto. Se volete però essere ancora più sicuri, dopo aver proceduto con la sterilizzazione potete effettuare la pastorizzazione dei vasetti già riempiti, avvolgendoli in panni di cotone e mettendoli in una pentola. Riempite con dell’acqua non calda (a temperatura ambiente va benissimo) fino al raggiungimento del tappo. Portate sul fuoco e dal momento della bollitura calcolate 25 – 30 minuti di pastorizzazione. Passato il tempo spegnete il fuoco e lasciateli nella pentola fino al raffreddamento, in cui dovrete sentire il tipico “clack” del coperchio: vuol dire che la pastorizzazione è andata a buon fine. 7. Preparate il vostro dispositivo per una cottura diretta, mezza ciminiera di bricchette sarà più che sufficiente.
9. Servite la fetta calda agli ospiti, fornendo ad ognuno una coppetta di marmellata. Non solo la finiranno ma vi chiederanno anche il bis.
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8. Tagliate il panettone a fette e grigliatelo qualche minuto per lato, deve solo acquistare una leggera doratura.
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a cura di Alessandro Trezzi
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eam pandoro o team panettone? Sicuramente, almeno una volta nella vita, vi sarete trovati davanti a questo enorme dilemma, a dover scegliere tra l’uno e l’altro per qualsiasi motivo. Amici e parenti vi avranno chiesto cosa avreste preferito per cena, e avrete magari partecipato a qualche insulsa battaglia per gridare il vostro insindacabile parere sul vostro grande lievitato preferito. Di guerre e di campanilismi il nostro Paese è fin troppo pieno, anche quando non è necessario. Sebbene ammetta di preferire l’incredibile complessità del panettone, il pandoro non è certo un dolce banale, anzi; semplicemente, non è comparabile in quanto a celebrità, ed è quindi ben più stretta la differenza tra una versione buona e una meno buona. Come tutte le cose “semplici e non banali”, tuttavia, un pandoro perfetto può farvi letteralmente cappottare dalla sedia.
Storia e leggenda L’origine certa del pandoro è commerciale. Il signor Melegatti, allora proprietario di una drogheria nel centro di Verona, richiede ed ottiene l’attestato di privativa industriale (il brevetto dell’epoca) dal Ministero di Agricoltura e Commercio del Regno d’Italia per la sua nuova invenzione dolciaria, il pandoro. Era il 14 ottobre 1884.
La leggenda vuole che l’etimologia sia nata da un grido di stupore di un garzone dell’allora drogheria Melegatti alla vista di questo dolce, dal colore dell’impasto simile all’oro: “L’è proprio un pan de oro!” Sebbene di storie si tratti, il nome “pandoro” fa chiaramente riferimento al colore di questa pasta lievitata molto gialla. Il riferimento al Pane d’oro era però già stato utilizzato commercialmente anni prima rispetto all’anno del brevetto: nel 1871 un certo Cesare Capri di Verona lo aveva portato ad un’esposizione regionale descrivendolo come “un panettone di pasta dolce”. Il nome pandoro potrebbe anche derivare dal pan de oro della Serenissima, di cui non abbiamo tuttavia notizie certe; sembra che nelle case dei patrizi veneziani si consumasse, durante le feste, un pane ricoperto da una foglia d’oro. In ogni caso, il riferimento all’oro deriva sicuramente dal colore del pane: il consumo di pane bianco era di norma destinato solo ai più ricchi, e lo stesso lievitato bianco appariva come cibo lussuoso. Moltissimi fanno discendere il pandoro dall’antico dolce veronese chiamato Nadalin; si tratta di un lievitato ricoperto da un impasto di pinoli lavorati con lo zucchero (la pignocada) e granella di mandorle. Secondo gli studi di Andrea Brugnoli, si trovano menzioni di questo dolce già a partire dalla metà del Settecento nei documenti delle corporazioni dei festari o scalettéri, ovvero le corporazioni dei produttori di dolci che potevano preparare una
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Per realizzarlo aveva perfezionato una ricetta secolare delle famiglie veronesi, un dolce a cui spesso si dava la forma di una stella a otto punte. Melegatti affidò la realizzazione di un disegno per uno stampo ad un amico, il pittore impressionista Angelo dall’Oca Bianca, che aveva partecipato diverse volte alla Biennale veneziana ed era stato premiato all’Esposizione universale di Parigi. Melegatti si impegnò così tanto per il lancio commerciale che propose addirittura un concorso con in palio mille lire (una discreta somma per l’epoca) che sarebbe andata da chi fosse riuscito a riprodurre il dolce perfetto in casa. Fu l’inizio di qualcosa di grande; oggi, nella vecchia sede veronese della sua pasticceria, c’è lo storico
palazzo Melegatti-Turco-Ronca, e sopra la balaustra delle terrazze laterali due pandori in tufo.
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versione di pane dolce ricoperta di pinoli e zucchero. Ai pistori (i panettieri) era invece permesso solo aggiungere zucchero alla pasta lievitata. Il Nadalin viene considerato un antenato del pandoro non tanto per la sua ricetta (che prevede anche la frutta secca) ma perché era confezionato a forma di stella ad otto punte, pur trattandosi di un dolce molto meno sviluppato del pandoro, a pasta dura, con le punte formate a mano prima della lievitazione. Se dal Nadalin il pandoro ha tratto la forma, la ricetta probabilmente deriva dal pane di Natale del monastero femminile di San Giuseppe a Fidenzio. Analizzando i registri di spesa della casa veronese Del bene, il 21 dicembre del 1790 si acquistarono 500 uova oltre a una grande quantità di burro e di zucchero per la realizzazione dei pani di natale (la farina, probabilmente, era già presente nella dispensa del monastero). La trasformazione dei dolci di Natale antichi nel pandoro avvenne probabilmente verso la metà dell’800. Dal 1814 Verona cadette sotto il dominio austriaco; e a partire dagli anni ’50 iniziarono a registrarsi cambiamenti nei dolci tradizionali di Natale, che cominciarono a lievitare molto più di quello a cui erano abituati i veronesi in accordo con le peculiarità della pasticceria viennese.
Il pandoro perfetto
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Con il termine “pandoro” oggi intendiamo un dolce lievitato di forma alta e tronco-conica, con basamento circolare e forma del corpo a stella a otto punte. All'esterno è color bruno, mentre all'interno
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rimane giallo chiaro; la pigmentazione è uniforme e solo l'eventuale aggiunta di zucchero a velo ne modifica l'aspetto. Per la realizzazione del pandoro vengono generalmente impiegate farina bianca di grano tenero, lievito naturale, uova, zucchero e burro. Aspetto e consistenza sono i primi parametri di giudizio per valutare un buon pandoro: • La crosta esterna deve essere di color marrone chiaro, uniforme, senza segni di bruciatura; al tatto deve presentarsi morbida ed elastica; • La forma deve essere armonica, geometrica, perfettamente strutturata senza collassi e cedimenti; • La mollica interna deve presentare un’alveolatura fine e diffusa, uniforme, di un colore giallo chiaro tendente al dorato; strappandone un pezzo deve filare, risultare soffice e per nulla asciutta. Inoltre, al gusto il pandoro deve risultare fresco, intenso ed equilibrato, senza eccessi di note grasse, acide opulente. Un vero pandoro profuma e sa di uovo, burro, vaniglia e panna fresca. Vogliamo vedere come si fa?
Il lievito madre Come per il panettone, anche qui c’è poco da fare: potete fare un pandoro con il lievito di birra, ma non avrà mai la struttura e l’effetto cotone di un prodotto realizzato con un lievito madre dalle giuste caratteristiche. L’acidità apportata all’impasto grazie a questo particolare prefermento è in grado di conferire al glutine le caratteristiche necessarie per sostenere la massa durante tutte le fasi, per sorreggere il peso di ingredienti “tosti” come i grassi e le uova, per sviluppare una mollica filante, e per garantire infine una shelf life adatta allo scopo per cui il panettone è stato pensato: essere prodotto in anticipo e consumato anche un mese dopo. Tuttavia, farla troppo semplice è il più grande errore che possiate commettere. Il lievito madre è una coltura complessa di lieviti e batteri con
un delicatissimo ecosistema vivente, che cambia in continuazione ed è direttamente influenzato dalle operazioni fatte per il mantenimento. Di fatto, nient’altro si tratta che un impasto di acqua e farina lasciato maturare per un tempo più o meno lungo; durante questo periodo i lieviti e i batteri presenti nell’aria e nella farina avviano il processo di fermentazione. La sua gestione richiede una pratica di rinfresco costante a intervalli regolari, ovvero il nutrimento di questo organismo con nuova acqua e farina, e quindi nuovi zuccheri per i lieviti e un ambiente stabile per le reazioni enzimatiche. Ciò è fondamentale per mantenere il pH intorno al valore di soglia, ovvero 4.1, che tradotto significa avere un lievito madre dal profumo equilibrato simile a quello dello yogurt. Principalmente ne esistono due versioni, solida (con un’idratazione del 45-50%) e liquida (con un’idratazione del 100%). La forma liquida è la più utilizzata per il pane, in quanto non solo è immediata nel rinfresco e nella gestione quotidiana ma soprattutto perché l’elevata presenza di acqua accelera l’attività enzimatica regalando una maglia glutinica più estensibile e un sapore più pungente a causa della presenza di acido acetico e alcol; l’acidità pronunciata aiuta a far legare le proteine di cereali deboli come la segale e aumenta la croccantezza della crosta.
La strumentazione Se anche voi foste degli abili MacGyver tuttofare, difficilmente potrete scampare dall’obbligatorietà di quanto sto per dirvi: senza lo stampo adatto, non potrete realizzare un pandoro degno di nota. Il motivo pare piuttosto scontato: la forma di questo dolce è talmente particolare che difficilmente potrete replicarla a mani nude. Di importanza essenziale è inoltre il materiale dello stampo, un ottimo alluminio; conducendo il calore in maniera docile ed equilibrata, eviterà di bruciare il vostro capolavoro e donerà una colorazione più uniforme possibile alla crosta esterna. Detto questo, devo sconfiggere anche un’altra convinzione, per quanto sia abbastanza certo di spezzare parecchi dei vostri cuori: l’impasto per pandoro è molto complesso e richiede, per la perfetta riuscita, una maglia glutinica in perfetto stato. Motivo per cui è altamente sconsigliato impastare a mano, in quanto non avreste la forza e la costanza di una macchina che vi consentirebbe di andare sul sicuro. Lavorate con una planetaria o, se la possedete, con un’impastatrice a spirale/braccia tuffanti, e il vostro risultato sarà garantito.
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Per quanto riguarda i grandi lievitati invece, si utilizza la versione solida per lo scopo: una struttura salda, spinta verso l’alto e una maglia glutinica ben sorretta grazie alla prevalenza di acidi organici, mollica morbida e aromatica grazie all’acido lattico. Per questi prodotti tuttavia la vostra pasta madre deve essere in perfetto equlibrio; non basta che un lievito raddoppi in 3 ore per essere considerato pronto, è fondamentale che sia bilanciato nei profumi e senza punte di acidità evidenti. Per questo motivo è importante una pratica di rinfresco serrato nel periodo precedente alla produzione.
Il lievito solido viene spesso avvolto in un panno e legato per rallentare la fermentazione, o lavato in una soluzione di acqua e zucchero per disperdere i microorganismi indesiderati che ne rallentano l’azione, ma se avete rinfrescato correttamente circa 3 volte al giorno non dovreste mai averne bisogno.
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Il riposo
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Come il fratello panettone, anche il pandoro necessita di più fasi di riposo, necessarie per incorporare tutti gli ingredienti mantenendo l’impasto strutturato e carico, pronto per la crescita finale: 1. Si parte dal rinfresco del lievito, che deve mostrarsi in forma perfetta prima di essere inserito nel pandoro; anche in casa spendete non pochi spiccioli per ingredienti di massima qualità, quindi se non siete sicuri del vostro lievito non iniziate nemmeno ad impastare, o potreste dover buttare tutto. Una buona idea è quella di fare, lo stesso giorno, tre rinfreschi consecutivi: uno alle 8.00, uno alle 12.00, uno alle 16.00, per poi preparare il primo impasto alle 20.00; 2. Dopo la preparazione del primo impasto (fatto di lievito, zucchero, farina, uova e burro) si lascia lievitare per 10-12 ore, fino a che non avrà triplicato di volume; è fondamentale che questo requisito sia rispettato per non incorrere in ritardi nelle tempistiche del secondo impasto; 3. Si prepara il secondo impasto (con farina, sale, malto, tuorli e panna) e si lascia riposare per 30 minuti. Dopo le doverose pirlature, si lascia riposare altri 15-20 minuti perché si stabilizzi; 4. Si rovescia l’impasto nello stampo precedentemente imburrato, si copre con pellicola e si attende 4-6 ore che arrivi alla sommità, per poi cuocere. Il riposo non è un lusso, ma un ingrediente; fare di testa propria con i tempi e le temperature di fermentazione è il modo più facile per fallire, tenetelo bene a mente.
INGREDIENTI
per un pandoro da 1 kg Primo impasto 80 g di lievito naturale; 95 g di zucchero semolato; 260 g di uova; 110 g di burro; 315 g di farina 00 (320-350 W). secondo impasto 55 g di farina 00 320-350 W 5 g di sale 4 g di malto 55 g di tuorli 20 g di panna fresca emulsione 120 g di burro 55 g di zucchero semolato 25 g di burro di cacao grattugiato o micronizzato 10 g di miele 1 bacca di vaniglia
EMULSIONE Preparate l’emulsione la stessa sera del primo impasto, per poi conservarla a temperatura ambiente coperta da pellicola fino al giorno successivo. In una ciotola riunite il burro a pomata (tenendolo a temperatura ambiente per un paio d’ore) con tutti gli altri ingredienti e montate fino ad avere una crema omogenea. Coprite con pellicola e lasciate riposare. PRIMO IMPASTO Riunite nella ciotola della vostra macchina la farina, la pasta madre spezzettata e metà delle uova. Nel caso in cui la vostra macchina non sia dotata di gancio a spirale, evitate di usare l’uncino e lavorate con la foglia. Fate partire la macchina per circa 10/15 minuti fino a formare un impasto liscio, omogeneo ed elastico; a questo punto aggiungete poco alla volta le uova rimaste fino al completo assorbimento. Aggiungete lo zucchero in più riprese e successivamente sempre in più riprese il burro a pomata. Fate attenzione a non lavorare troppo l’impasto, misurate costantemente la temperatura con il termometro e se vi accorgete di avvicinarvi ai 26°C fermatevi, riponete il tutto in freezer per 10 minuti e tornate alla carica. Impastate fino ad ottenere un composto liscio, setoso, omogeneo ed elastico, a una temperatura di 24°C-25°C.
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PRIMA LIEVITAZIONE Ribaltate l’impasto sul piano e pirlatelo con un tarocco senza usare farina. A questo punto riponetelo in un contenitore stretto dai bordi alti e dritti, e segnate con un
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elastico il punto di partenza; coprite ermeticamente e lasciate lievitare in un luogo con temperatura costante di 25-26 °C, come il vostro forno spento con luce accesa. L’impasto deve assolutamente triplicare (1+2), e se riusciamo ad avere un ambiente stabile sarà pronto in circa 10/12 ore. Se trascorso Il tempo l’impasto non risultasse pronto, attendere il completo sviluppo, in quanto anticipare i tempi significherebbe ottenere un prodotto finito con un alveolatura irregolare, oltre ad allungarvi le lievitazioni successive costringendovi a cucinare di notte.
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SECONDO IMPASTO Abbiamo realizzato il nostro impasto alle 20.00, e terminato il tutto intorno alle 21.00? Bene, intorno alle 8.00-9.00 di mattina sarà pronto. Se la vostra macchina tende a scaldare parecchio, riponete l’impasto in freezer per 20 minuti, in modo da partire con una massa più fredda. Inserite nella ciotola metà del primo impasto, la farina e il malto, fate partire a velocità minima e alzate successivamente e fate amalgamare bene il composto. Quando avrete una massa liscia aggiungete l’altra metà del primo impasto e il sale. Una volta che l’impasto sarà incordato, aggiungete in più volte i tuorli e lasciate lavorare fino al completo assorbimento; dovremo assolutamente ottenere un impasto liscio, elastico e asciutto A questo punto versate in 3-4 volte la vostra emulsione, senza mai perdere l’incordatura, ed infine regolate la consistenza dell’impasto con la panna, sempre aggiunta in 2-3 volte.
SECONDA LIEVITAZIONE (ed eventuale formatura) Avete impastato intorno alle 9.00 e finito verso le 10.00? To gliete l’imp asto dalla macchina, riponetelo in un contenitore a chiusura ermetica e lasciatelo riposare 30 minuti, a circa 26-28 °C. Dopo questo periodo, ribaltate la massa sul piano, e lasciatela puntare all’aria per circa 15 minuti perché si asciughi. La nostra ricetta ha le dosi esatte per 1200 grammi di impasto; tendenzialmente, per un dolce lievitato da 1000 grammi si calcola un 10% in più, contando il peso perso durante la cottura. L’eccesso è per essere sicuri che, perdendovi per strada delle quantità durante le lavorazioni, non finiate con l’avere masse di peso insufficiente. Se doveste aver bisogno di realizzare 2 o 3 pandori, vi basta moltiplicare ogni ingrediente per la dose desiderata. A questo punto quindi pesate bocce da 1100 grammi, e formate i panetti con il tarocco senza mai usare farina. Lasciate quindi puntare sul banco per altri 15 minuti o più, fino a che la massa non sarà asciutta. Pirlate nuovamente, attendete altri 15-20 minuti e sarete pronti per la fase successiva. TERZA LIEVITAZIONE Dopo circa 1 ora di riposo (tra contenitore e banco), sono le ore 11.00. Ponete il panetto nel vostro stampo precedentemente imburrato, con la chiusura (la parte che prima era appoggiata sul piano (su una faccia laterale; coprite con pellicola e lasciate a lievitare a 26°C-28°C per 4-6 ore. Il nostro pandoro è pronto per
la cottura quando è arrivato a 2 cm dal bordo dello stampo, non uno di più, non uno di meno. COTTURA Pre-riscaldate il forno a 150°C in modalità statica; nel frattempo, riportate il dolce a temperatura ambiente scoprendolo dalla pellicola per lasciare asciugare la base. Prima di infornare, con uno stecchino praticate dei fori sulla cupola per evitare la formazione di grosse bolle d’aria. Infornate in modo che il pandoro non sia né troppo vicino alla base o alla sommità del vano cottura. Ci vorranno circa 50/55 minuti, ma in ogni caso la temperatura al cuore dovrà essere di 9°C. N e gli ul t im i 1 0 m in u t i , socchiudete leggermente la porta del forno, magari aiutandovi con una pallina di stagnola, in modo da far uscire il vapore in eccesso e colorare la base. Se il vostro forno non è professionale e, anzi, fatica a tenere la temperatura, scordatevi di inserirne due alla volta; in quel caso il rendimento potrebbe calare drasticamente. RIPOSO E CONSERVAZIONE Una volta sfornato il vostro pandoro, dovrà rimanere nello stampo per almeno un’ora. A questo punto giratelo, liberatelo delicatamente dallo stampo e lasciatelo raffreddare almeno 10 ore prima di confezionarlo. Per conservarlo per lunghi periodi, nebulizzate all’interno di un’apposita busta alcool puro a 95°, che ridurrà il rischio della formazione di muffe.
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La ricetta scientifica a cura di Gianfranco Lo Cascio
Cotechi n o con lenticchie e purè
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Massimo Bottura
Non posso fare il cotechino come cinquant'anni fa. Digerirei dopo due settimane. Lo stile di vita è cambiato. Spesso si sente dire "ah, una volta...". Una volta c'era la fame. Oggi molto meno. In compenso ci sono agricoltori e artigiani bravissimi e prodotti straordinari. Io parto da un dubbio: la tradizione è poi così rispettosa delle materie prime? L’ha detto lo Chef sul tetto del mondo, Massimo Bottura, a proposito di tradizione, di rispetto, di cotechini. E io sono più che d’accordo con lui. We stan, direbbero i giovani. Siamo proprio sicuri che il cotechino bucato e lessato (Argh!) con un contorno di bucce di lenticchie della mensa sia il massimo da offrire sulla tavola delle feste? Che ricchezza potrebbe mai portarci una vassoiata di legumi bolliti alla meno peggio? Ve lo dico io, manco i punti fragola del supermercato.
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Quanto sarebbe figo invece servire del succulento cotechino tagliato in fette, piastrato e croccantizzato, accompagnato da un purè di patate setoso e ricco, lenticchie in due consistenze e una spruzzata di salsa Teriyaki?
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Grasso, sapido, dolce e acido. Una seconda portata perfettamente equalizzata, che non si risparmia in termini di aroma e calorie. E siccome è Natale, pure un poco complicato, ci meritiamo porzione doppia. La dieta migliore, ora come non mai, è evitare i cibi che non ci piacciono.
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IL COTECHINO
È un salume tipico della tradizione modenese, ma che viene confezionato un po’ in ogni parte d'Italia. Tecnicamente un salume, è uno di quei prodotti della macellazione del maiale che viene mangiato per primo, insieme alla coppa (o torta) di testa e ai ciccioli. Anche per questo motivo viene tradizionalmente consumato a Natale: il maiale si macella abitualmente in Dicembre.
ll cotechino è un insaccato cosiddetto “povero”, viene ricavato dai tagli del maiale meno nobili, inadatti a lunghe stagionature e quindi non impiegati nella produzione di salami, prosciutti, salsicce e altri insaccati decisamente più snob. L'ingrediente principale del cotechino è (o meglio era) la cotenna, seguita dagli spolpi della testa e del collo, tutte carni ricche di tessuto connettivo che richiedono una cottura lunga e che assumono, una volta cotte, la consistenza gelatinosa tipica. E chi meglio di voi conosce l’idrolisi del collagene? Storicamente il cotechino veniva insaccato dalle sapienti manine dei "lardaroli e salsicciari" modenesi, che si riunirono in una Corporazione Autonoma nel 1547. La prima citazione ufficiale è datata 1745, in un documento che ne calmierava il prezzo. La prima ricetta compare invece l'anno successivo, nel 1746.
Composizione del cotechino Il cotechino è uno dei salumi più volubili per quanto riguarda la scelta degli ingredienti che lo compongono. La ricetta tradizionale prevede l'utilizzo di cotenna per almeno il 50%, come indicato nel 1841 da Vincenzo Agnoletti, cuoco romano al servizio di Maria Luigia, granduchessa di Parma, il quale afferma che "[...] l'impasto deve essere per metà di cotenna e per metà di nervetti e carne magra".
Oggi solo i produttori artigianali, ancora legati alle tradizioni contadine, continuano a produrre il cotechino seguendo i vecchi dettami. La produzione industriale si è infatti spostata su una ricetta meno ricca di cotenna e infarcita di carni grasse. Nel cotechino da scaffale troviamo infatti solo il 20% di cotenna, il resto 80% è composto da carne magra e grassa (spalla, pancetta, ecc). La cottura del cotechino artigianale può richiedere fino a 3-4 ore, soprattutto se la cotenna non ha subito una precottura prima di essere macinata e insaccata. Va consumato con il purè, oppure con mostarde di mele o di zucca, o ancora con il cren, la pasta di rafano, più o meno piccante, che si sposa molto bene con le carni opulente e gelatinose.
Il Cotechino di Modena I Cotechini Modena IGP sono tra i più antichi prodotti della salumeria italiana. La leggenda narra che hanno fatto la loro prima apparizione nel 1511 a Mirandola, durante l’assedio delle milizie di papa Giulio II della Rovere. In quell’occasione, per sottrarre cibo al nemico, i Mirandolesi si sarebbero ingegnati insaccando la carne di maiale macinata nella cotenna e nelle zampe. Nacquero così, per istinto di sopravvivenza e un poco di cazzimma, il cotechino e lo zampone. Le carni vengono macinate delicatamente e insaporite con spezie ed erbe aromatiche (chiodi di garofano, pepe, noce moscata, cannella e vino). L’impasto così ottenuto viene poi insaccato: lo Zampone Modena IGP in un involucro costituito dalla cotenna della zampa anteriore del maiale, il Cotechino Modena IGP in budelli. Protagonisti indiscussi delle tavolate natalizie, sono sempre più “destagionalizzati” e divorati tutto l’anno.
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Questo mix di tagli viene insaccato nel budello del maiale, messo ad asciugare per qualche giorno (1-2 settimane al
massimo) e poi consumato, previa lunga cottura necessaria alla trasformazione del collagene della cotenna e delle carni ricche di connettivo che contiene.
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IL COTECHINO SCIENTIFICO Il principio è molto semplice.
Abbiamo detto che il cotechino fresco al suo interno custodisce pezzi tritati di carne “povera” che fondamentalmente contengono moltissimo tessuto connettivo. Oltre a una buona quantità di grasso. Questo ci porta a fare un ragionamento ben preciso e cioè cuocerlo nella finestra di idrolisi del collagene in modo che risulti molto tenero e burroso. INGREDIENTI • 1 cotechino fresco da 1 kg La cottura non poteva che non essere in sous vide: mettete il salsicciotto in un sacchetto e immergetelo in un bagno termostatico a 85°C per 4 ore. In questo modo il connettivo avrà tempo di sciogliersi a dovere. Una volta cotto, abbattetelo con acqua e ghiaccio e mettetelo in frigorifero. Dobbiamo affettarlo ben freddo, quando il collagene si sarà nuovamente soldificato. Prima di farlo, però, ripulitelo della gelatina e dello strutto di cui sarà inevitabilmente coperto. Quando avrete anche i contorni pronti, taglierete dei medaglioni non troppo spessi, direi non più di un paio di centimetri. Li passerete sulla piastra a calore feroce (su tutti i lati) per cauterizzare il prima possibile e creare Maillard. C’è tanto collagene sciolto e tanto grasso quindi la crosta sarà molto evidente.
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Ciò che dovete fare è abbinare una salsa dal tono acido per sgrassare il boccone. Uno sciroppo di amarene ci starebbe da Dio. Ma anche una Teriyaki, la salsa giapponese, preparata con la ricetta che segue.
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LA SALSA TERIYAKI La Teriyaki tradizionale di base è composta da 3 ingredienti: salsa di soia, mirin (un sake leggermente dolce) e zucchero. Può essere utilizzata come condimento, come marinata o come salsa di glassatura. Visto che la abbineremo ad un salume particolarmente sapido, il mio consiglio è di partire da una salsa di soia leggera, in modo che restringendosi non diventi troppo salata. Potete sostituirla con una riduzione di vino rosso o con una salsa di amarene. Oppure utilizzarne una confezionata di buona qualità. INGREDIENTI • 120 ml di sake • 120 ml di mirin • 120 ml di salsa di soia leggera • 60 gr di zucchero
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Mescolate tutti gli ingredienti in un pentolino, portate ad ebollizione e lasciate ridurre a fuoco lento. Quando avrà raggiunto la consistenza di uno sciroppo denso, spegnete il fuoco e versate la salsa in un contenitore sterilizzato. Si conserva in frigorifero per 2-3 settimane.
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LE LENTICCHIE
Le lenticchie sono tra i primissimi legumi a essere stati coltivati dall’uomo. Le prime tracce si fanno risalire alla Mezzaluna fertile e se ne trovano testimonianze anche nella Genesi, nel famoso episodio di Esaù che – cito – proprio per un piatto di lenticchie cedette il diritto di primogenitura al fratello Giacobbe.
Pare, si dice, che dall’antico Egitto partissero regolarmente navi cariche di lenticchie verso i porti greci e italici. Certo è che venivano apprezzate sia ad Atene che a Roma, tanto che l’autore latino Plinio il Vecchio, nella sua opera Naturalis Historia, le cita come alimento dal grande valore nutritivo e capace di infondere tranquillità nell’animo. Sembra addirittura che l’obelisco del colonnato di Piazza San Pietro a Roma (portato nella città eterna per volere dell’imperatore Caligola) abbia attraversato il Mediterraneo protetto da un gigantesco carico di lenticchie. Sin dal Rinascimento sono simbolo di prosperità e denaro, tanto da attribuire loro il potere di portare soldi, soprattutto se mangiate a Capodanno. Il motivo? Perché a parità di peso con altri legumi, le lenticchie sono molte di più. Nella cultura ebraica, invece, simboleggiano il ciclo della vita per via della loro forma rotonda.
La pianta e la produzione
La pianta ha uno stelo tra i 20 e i 70 cm con foglie alterne e composte. Fa dei fiori a corolla, bianchi o blu, riuniti in grappoli, mentre i frutti sono costituiti da baccelli piatti che contengono uno o due semi di dimensione e colore vari, dall’arancione al giallo, dal verde chiaro a tonalità più scure fino al bruno. Sono proprio questi semi la parte che mangiamo. Lo sapevate?
Le lenticchie in cucina La cucina regionale le vuole cotte in umido, abbinate alla pasta o come ingrediente principale di zuppe o minestre (soprattutto al Sud). Ma si abbinano ad ingredienti autunnali come zucca o funghi, con carni grasse – il cotechino appunto – o frutti di mare. Si acquistano secche e si devono conservare al buio, in un luogo fresco e asciutto. Nel caso di varietà dalla pelle sottile, o delle lenticchie rosse decorticate, non necessitano di ammollo prima della cottura.
Proprietà nutrizionali Di elevato valore nutrizionale (circa 300 calorie per 100 grammi) e dal bassissimo contenuto di grassi (1 grammo per 100 grammi), le lenticchie sono una buona fonte di carboidrati complessi, proteine e fibre. Contengono anche potassio, ferro e fosforo. Importante citare anche l’apporto di vitamine B1 e B2. Le lenticchie inoltre non contengono glutine, cosa che le rende particolarmente adatte per chi è affetto da celiachia. BBQ4All Magazine
Quel che si mangia sono i semi della Lens culinaris, della famiglia delle Fabaceae. È una pianta annuale, coltivata in diversi paesi in tutto il mondo, ma che non si trova praticamente più allo stato selvatico. Oltre che in Europa, principalmente nei paesi meridionali e orientali come Italia, Grecia e Cipro, la lenticchia si produce in Asia Minore e Centrale, nel Vicino Oriente, Canada e Australia. In Italia viene coltivata praticamente in tutte le regioni, con particolare cura in Sicilia, Abruzzo e Umbria. Si adatta
bene anche a zone semi-aride, terreni poco fertili, zone montane, e ha una buona resistenza agli attacchi dei parassiti. Inoltre è preziosa nella rotazione delle colture.
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Otto varietà italiane di lenticchie Non lasciatevi ingannare dall’apparenza, le lenticchie sono molto diverse tra loro.
LENTICCHIA DI CASTELLUCCIO DI NORCIA Coltivata lungo tutto l’altopiano di Castelluccio all’interno del Parco Nazionale dei Monti Sibillini, la lenticchia di Castelluccio di Norcia è caratterizzata soprattutto dalla grande varietà dei suoi colori e dalla forma rotonda ed appiattita. Dalla buccia estremamente sottile, ha untempo di bollitura di venti minuti e un’alta digeribilità. È perfetta consumata con le carni grassi e, naturalmente, con i salumi umbri. La fioritura della lenticchia di Castelluccio dà vita a uno spettacolo magnifico, che nulla ha da invidiare a quello della fioritura della lavanda in Provenza. LENTICCHIA DI ALTAMURA Si coltiva tra le piante di lino e cotone nello scenario delle Murge, ad Altamura (dove fanno il famoso pane, proprio lì). Questa varietà si caratterizza per le sue grandi dimensioni e il colore verdastro. Viene servita – tradizionalmente – in minestra con aglio, cipolla, sedano ed olio extravergine d’oliva.
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LENTICCHIA DI MORMANNO Ci spostiamo nel cuore del Parco Nazionale del Pollino dove – nel paese di Mormanno – si coltiva da secoli una varietà di lenticchia dal seme molto piccolo e dal colore che varia dal rosa al verdone. Si tratta di una lenticchia molto leggera, dalla buccia sottile cucinata soprattutto nella zuppa con abbondante peperoncino locale.
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LENTICCHIA DI SANTO STEFANO DI SESSANIO Coltivata a circa 1200 metri di altitudine all’interno del Parco Nazionale del Gran Sasso, secondo alcuni documenti addirittura dall’anno mille, la lenticchia di Santo Stefano di Sessanio si caratterizza per le sue dimensioni estremamente piccole e per la sua naturale sapidità. È l’ingrediente principale di zuppe con erbe, aglio ed olio extravergine d’oliva.
LENTICCHIA DI USTICA Si tratta di una delle lenticchie più piccole d’Italia. Coltivata su terreno lavico e di colore marrone scuro, la lenticchia isolana di Ustica è usata soprattutto per zuppe con ortaggi della zona e finocchietto selvatico, oltre che con la pasta. Dal sapore delicato, ha tempi di cottura molto rapidi. LENTICCHIA DI VILLALBA Il comune di Villalba, in Sicilia, è stato tra i principali produttori di lenticchie in Italia fino alla prima metà del Novecento. La varietà autoctona è a seme grande e le sue qualità nutrizionali sono straordinarie. Questa lenticchia infatti può contenere anche più di 10mg di ferro per 100 grammi di prodotto e possiede un ottimo tasso di proteine. Viene utilizzata soprattutto per le minestre. LENTICCHIA DI RASCINO Piccola e marroncina, la lenticchia di Rascino viene coltivata nella zona del Cicolano tra orchidee selvatiche e farro, al confine tra Lazio ed Abruzzo. Seminata ad aprile ed irrigata con le acque sorgive del parco della Peschiera, questa lenticchia è stata da sempre consumata dai pastori della zona, che la cuocevano nel latte e la servivano agli ammalati. Si tratta di una lenticchia piccola che necessita di ammollo ed è ottima per preparare zuppe col farro locale o col grano biancòla tipico di questo territorio. LENTICCHIA DI SOLETO Nel cuore della Grecìa Salentina dove i discendenti della Magna Grecia parlano ancora oggi un dialetto dorico (il griko), viene coltivata un’antichissima varietà di legumi molto simile ad una lenticchia chiamata vicia (al quale appartengono anche le fave). Anche se il colore nero e la consistenza rugosa possono far immaginare il contrario, si tratta di una varietà estremamente digeribile che prevede una cottura breve. È impiegata di solito per preparare minestre con olio extravergine d’oliva ed erbe locali.
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LE LENTICCHIE SCIENTIFICHE Ingredienti: • 500 g di lenticchie (verdi o rosse); • 1 cipolla; • 2 carote; • 1 costa di sedano; • 2 rametti di rosmarino fresco; • Sale q.b. • Pepe q.b.
Dovete cuocere le lenticchie in due batch: il primo sacchetto da 250 grammi lo immergete in sous vide a 85°C per 1 ora. Nel sacchetto dovrete versare dell’acqua, in volume il doppio rispetto alle lenticchie. E dovete aggiungere 1g di sale ogni 100g d’acqua. Non avrete bisogno di metterle a mollo e si cuoceranno perfettamente, non si staccherà nemmeno una buccia. Il secondo sacchetto, sempre da 250 grammi, lo fate cuocere a 90°C per 2 ore. Una volta cotte le lenticchie le frullate e le filtrate: dovete ottenere una purea, che andrà condita con le lenticchie cotte nell’altro sacchetto. A parte preparate una brunoise di carote, cipolla e sedano. Come se fosse un soffritto. Lo fate andare in padella con un rametto di rosmarino e quando è pronto lo aggiungete alla crema di lenticchie.
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Se preferite una crema più fluida, aggiungete acqua di cottura delle lenticche e calibrate la consistenza.
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La scienza della cottura delle patate
IL PURÈ
Tutto sull'amido
Le patate sono uno degli alimenti più versatili in cucina. Potete servirle cotte al forno, fritte, bollite, schiacciate, sono sempre buone. Il loro amido viene utilizzato per un sacco di cose, basta dare un'occhiata a qualche etichetta sui cibi confezionati. Non ci sono molti altri alimenti che riescono a raggiungere questi livelli di trasformismo. Avete mai fatto uno spuntino con le patatine fritte di broccoli, broccoli gratinati o broccoli bolliti?
Di cosa è fatta una patata? Per prima cosa, non ridete. Ormai le patate vengono coltivate in tutto il mondo, migliaia di anni fa erano un’esclusiva del Sud America. Parliamo di uno dei principali alimenti di base del pianeta, un ingrediente capace di sfamare come pochi ed apportare tanta energia. Come qualsiasi alimento vegetale, la patata è composta da acqua, circa l'80%. Il resto è costituito da carboidrati (18%), di cui la maggior parte amido (più dell’85%), poi un ciccinino di grasso e poche proteine, oltre a varie vitamine e minerali. Tra le cellule della patata troviamo molte sostanze pectiche (pectine) così come la cellulosa e l’emicellulosa, l’elemento che tiene tutto insieme. Ciò che distingue la patata da molti altri prodotti della terra è un'enorme quantità di amido. È l'amido che le conferisce la maggior parte delle sue proprietà funzionali.
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Cos'è l'amido (di patate)?
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L'amido è un carboidrato di grandi dimensioni e una fonte di energia molto comune in natura. È costituito da due tipi di molecole: amilosio e amilopectina. L'amilosio è una lunga catena più o meno
lineare di zuccheri glucidici, una molecola relativamente piccola rispetto all'amilopectina. L'amilopectina è una molecola grande e fortemente ramificata, molto più ingombrante dell'amilosio. L'amido si trova lungo tutta la patata sotto forma di granuli. Questi granuli possono essere abbastanza grandi (rispetto ad altri tipi di amido), fino a un decimo di millimetro. La forma dei granelli, se vista al microscopio, è in realtà abbastanza simile a quella della patata stessa. L’amido non è ovviamente un’esclusiva della patata, lo ritroviamo in vari alimenti come la farina o il mais. Ognuno di essi ha un tipo diverso di granulo, ma anche un diverso rapporto e un diverso contenuto di catene di amilosio e amilopectina. La fecola di patate, ad esempio, contiene catene di amilosio piuttosto lunghe.
Cosa succede quando si cuoce una patata? Il processo principale che avviene durante la cottura di una patata, indipendentemente dalla tecnica, è di base un aumento di temperatura. La fase inizierà riscaldando l'esterno e poi lentamente tutta la patata. Come con qualsiasi processo di trasferimento del calore, ci vuole un po' di tempo prima che l’intero tubero si riscaldi del tutto. Più piccoli sono i pezzi, però, più velocemente si riscalderà. Quel calore causerà poi varie reazioni chimiche, le tre più importanti sono: 1. Ammorbidimento della patata, la struttura cellulare si disfa, proprio come succede per le altre verdure. 2. L'amido “cuoce". 3. In alcuni casi (ad esempio con la frittura) la patata può prendere quel bel colore dorato e sviluppare sapori extra.
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Per semplificare, il calore dissolverà la 'colla' che tiene insieme le cellule e romperà le pareti delle cellule stesse. Questo porterà la patata a perdere la sua consistenza. L’acqua evaporerà e il tubero perderà il suo turgore. CUOCERE GLI AMIDI Quando si scalda una patata, le grandi quantità di amido contenute in essa vengono cotte. Come vi ho già detto prima, l'amido si trova nelle patate sotto forma per lo più di granuli e di amilosio libero. A temperatura ambiente, questo amido non si scioglie in acqua. Quando l’acqua viene riscaldata, invece, l'amido è in grado di dissolversi, i granuli la assorbono e si gonfiano. Sono proprio questi processi che rendono difficile la miscelazione dell’amido con l'acqua calda. A contatto col liquido, la superficie esterna dell’amido si gonfierà immediatamente e contemporaneamente si formeranno dei grumi. L'interno di questi grumi conterrà amido che non ha ancora assorbito acqua, che però non potrà più penetrare perché il guscio gelatinizzato glielo impedisce. Se avete mai provato fare la cioccolata calda con il latte bollente e l’amido, avrete senz’altro capito di cosa sto parlando. Durante il rigonfiamento di questi granuli, un po’ dell’amido verrà rilasciato. È per questo che quando bolliamo le patate l’acqua diventa torbida. Questo processo di rigonfiamento, scioglimento e anche fuoriuscita di amido è chiamato gelatinizzazione, un processo irreversibile che può avvenire solo in presenza di acqua. PATATE FARINOSE VS PATATE CEROSE La maggior parte di voi avrà sentito parlare della distinzione tra patate farinose e patate cerose, le prime più secche mentre le altre lasciano una sensazione più morbida in bocca.
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È TUTTA UNA QUESTIONE DI AMIDO Se una patata è farinosa o cerosa, tutto dipende dal tipo di amido di cui è fatta. Cosa le rende diverse, quindi? È interessante, ma i ricercatori non sembrano mettersi d’accordo su questa faccenda. Tutto dipende, almeno sembra, da una combinazione di amidi e dalla struttura della patata, dalle dimensioni delle cellule e come le cellule sono attaccate l'una all'altra. In generale, sembra che un più alto contenuto di amido dia patate più farinose, che tendono ad avere anche cellule più grandi e più “resistenti”. Per quanto riguarda le patate cerose, invece, pare che rilascino più facilmente l’amido.
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IL PURÈ PERFETTO
TUTTI I TRUCCHI
1. Utilizzare un passaverdure o uno schiacciapatate Passando le patate cotte attraverso un passaverdure o uno schiacciapatate si ottiene una consistenza liscia e setosa. Per preparare un purè cremoso dovete limitare la quantità di stress meccanico per evitare danni alla struttura della patata. Perché le patate diventano appiccicose, dite? L'appiccicosità si sviluppa quando si usa il mixer, quando si scuotono troppo le patate e si tira fuori l’amido. 2. Asciugare le patate prima di aggiungere il burro Dopo aver passato le patate attraverso un passaverdura o uno schiacciapatate è meglio asciugarle per qualche minuto. Dovete eliminare quanta più umidità possibile. L'acqua non è amica delle patate, poiché farà gonfiare i granuli di amido, li scomporrà e questi rilasceranno una parte del loro contenuto in essa. 3. Aggiungere abbastanza burro Vi siete mai chiesti perché il purè del ristorante è più buono del vostro? Perché gli chef hanno la manina pesante con il burro, e fanno bene! Provate ad usare il burro in un rapporto da 4:1 a 2:1 rispetto alle patate. Servirà anche a formare un film lipidico attorno ai granuli di amido, contrastando la formazione dei grumi. 4. Condire bene le patate con la dose adeguata di sale Il sale è importantissimo per esaltare i sapori. NOTE SULL'AMIDO NELLE PATATE:
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Repetita iuvant. I granuli di amido contengono due tipi di molecole: l’amilosio, che è lineare, e l'amilopectina, che è ramificata. Queste molecole di amido hanno la capacità di formare altre molecole appiccicose, gel o emulsioni. In acqua fredda l’amido non si dissolve: l'amilopectina è altamente insolubile in acqua, e l'amilosio è solubile solo in acqua ad una temperatura di circa 55°C.
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Quando immerse in acqua calda, le molecole d'acqua dissolvono le molecole di amilosio e modificano la struttura del granulo dell’amido causandone il rigonfiamento e la rottura. Delle patate bollite lasciate in acqua cominceranno a gelificare e aumenteranno di volume, diventando gonfie e acquose. Se il purè di patate risulterà acquoso, diventerà appiccicoso. Ecco perché è importante asciugare le patate. Quando le patate incontrano il latte, invece, l'amido reagisce in modo diverso. Purè di patate con latte, panna o burro, tutti contengono diversi tipi proteine della caseina. La caseina riduce le quantità di amilosio che fuoriescono dai granuli di amido, e limita anche il rigonfiamento dell'amido, il che comporta una consistenza più liscia e piacevole al palato. La caseina è un potente emulsionante e legante.
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IL PURÈ SCIENTIFICO
Gli ingredienti sono quelli classici, ma la tecnica prevede delle accortezze: •
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Utilizzo di sole patate vecchie, più “secche” delle patate nuove. A me piacciono le patate ratte, che hanno un naturale sapore nocciolato e una consistenza burrosissima. C’è chi utilizza esclusivamente patate a pasta bianca, più farinose delle altre e ricche di amido, e chi preferisce le patate rosse che hanno una polpa più soda. A prescindere dalla tipologia di tubero è consigliabile scegliere patate vecchie per scongiurare il rischio mastice. Cottura delle patate a secco. Sottovuoto o nella pentola di coccio apposita, proprio per evitare un ristagno di acqua e la formazione della colla per manifesti. Setacciamento. Le patate vanno prima schiacciate (o passate al passaverdure) e poi setacciate spatolandole in un setaccio di quelli circolari a maglie fini che si usano per la farina. Rapporto patata/grassi da 4:1 a 2:1
INGREDIENTI • 1 kg di patate vecchie (qui ho usato patate di montagna della Sila) • 250 gr di panna fresca* (o latte fresco intero) • 175 gr di burro di centrifuga • Noce moscata q.b. • Sale q.b.
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A scelta Parmigiano Reggiano 30 mesi
*Se utilizzate il latte, aumentate il peso del burro (minimo 250 grammi) Prendete le patate, pelatele e pesatele: devono essere 1 kg preciso, senza buccia. Tagliatele a cubetti di 2 cm per lato e mettetele in un sacchetto predisposto per il sottovuoto. Immergete in acqua a 90°C e fate cuocere per 90 minuti. Schiacciate le patate con uno schiacciapatate facendole cadere in una boule di pyrex (o un contenitore qualsiasi resistente al calore) scaldata in forno a 70°C. Le patate non devono raffreddarsi. Una volta schiacciate passatele al setaccio aiutandovi con una spatola o con un tarocco (quelle palette che si usano nella panificazione).
Tenete al caldo prima del servizio.
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Aggiungete il burro a pezzetti e mescolate con cura, poi trasferite il tutto in un pentolino, aggiungete la panna calda ed amalgamate con una spatola. Non lavorate troppo il purè o diventerà appiccicoso. Togliete dal fuoco, aggiungete la noce moscata, se vi piace, e salate in base al vostro gusto.
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L'ASSEMBLAGGIO DEL PIATTO
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l vostro cotechino è ben freddo, potete agilmente tagliarlo in fette (non meno di un 1,5 cm) e piastrarlo in stile teppanyaki, cioè su piastra rovente. Lo rigirate più volte fin quando i grassi disciolti non avranno veicolato una Maillard da urlo. Servite con il purè tiepido, se vi piace arricchite con del Parmigiano, la salsa Teriyaki (o una riduzione di vino rosso se preferite), le lenticchie in due consistenze e una spolveratina d’oro alimentare. L’oro sì che porta soldi, mica le lenticchie da sole. Non hanno nemmeno le braccia, come fanno poverine.
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o r u g u a Ti
ub on Natale e
o n n a n buo Lo Zio Gianfranco (Lo Cascio)