BBQ4All Magazine numero 27 - Marzo 2021

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N°27/ANNO 3 - MARZO 2021

L'EDITORIALE DI GIANFRANCO LO CASCIO

I pregiudizi più diffusi sulla cottura sottovuoto RICETTE

BACK TO THE GRILLS!

Fiori di cipolla, BBQ Bacon Wrapped Onion Bomb, Gamja-hotdog, Pasta 'ncasciata, Spicy Grilled BBQ Pork, Sasiccia in crosta, The Ultimate Burger, Pizza con cornicione ripieno di pulled pork, Patate Hasselback, Torta Sacher ARTE BIANCA

La pita

FROM ZERO TO HERO

Sfatiamo i miti del barbecue DE GUSTIBUS

L'Aged Wagyu

LA RICETTA SCIENTIFICA

Lo spezzatino


Direttore Editoriale Rossella Neiadin

Redattore Capo Michela Bongiorni

Redazione

Enio Berton Virgilio Brunetti Tommaso Buccafurri Nunzia Clemente Roberto Dal Bosco Tommaso Di Gregorio Salvatore Di Mento Luca Gallozza Marco Gerometta Mariangela Ibba Gianfranco Lo Cascio Riccardo Meniconi Giovanni Minelli Emiliano Nencioni Elena Ninotti Stefania Pompele Andrea Spaggiari Alessandro Trezzi Carlo Trono Paolo Tucci Caterina Vianello Alberto Zonghetti

Realizzazione Grafica

Impaginazione Carlo Trono Illustrazioni di Eleonora Castagna e Ozzy Bellesi Fotografie di Rossella Neiadin, Luca Gallozza, Tommaso Buccafurri, Elisa Giuli, Emiliano Nencioni

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IN DI Rubriche

Editoriale - I pregiudizi più diffusi sulla cottura sottovuoto

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Portftolio - La cucina al fuoco dall'Homo erectus al barbecue

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The Chemical Griller - Ad ognuno la sua padella

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Ricette

Fiori di cipolla

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BBQ Bacon Wrapped Onion Bomb

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Gamja-hotdog 29 Pasta 'ncasciata

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Spicy Grilled BBQ Pork

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Salsiccia in crosta

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The Ultimate Burger

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Pizza con cornicione ripieno di pulled pork

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Patate Hasselback

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Torta Sacher

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Approfondimenti Arte Bianca - La pita

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Across the pond - No BBQ, no Tailgate party!

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L'Arte Casearia - Il raclette

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De Gustibus - Aged Wagyu

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Mâitre Pâtissier - 10 oggetti indispensabili per la pasticceria casalinga

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Il ristorante Acquerello e la sua ricetta del kimchi

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From Zero to Hero - Sfatiamo i miti del barbecue

87

La ricetta scientifica - Lo spezzatino

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Seguo - Bello, ma lo fanno anche da uomo?

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Da Zero a Sotto Vuoto lezioni di cucina parte III

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I pregiudizi più diffusi

Editoriale di Gianfranco Lo Cascio

cottura sottovuoto sulla

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egli ultimi cinque anni la cucina sous vide - per i più chic o sottovuoto per mia zia - già prezzemolina nei ristoranti stellati, ha preso piede anche nei tinelli di casa. Questo grazie a nuovi giocattoli sempre più accessibili ed economici, ai camei nei film, e alla pubblicazione di opere innovative come la serie Modernist Cuisine e quel libro eccezionale che è Under Pressure di Thomas Keller. Ma, nonostante l'enorme popolarità di questa strabiliante tecnica di culinaria, la cottura sottovuoto è ancora afflitta e vessata da diversi pregiudizi. Di seguito proverò a sfatare i falsi miti che circondano il sous vide e le sue applicazioni in cucina. Siete pronti? Prima di addentrarci nel ginepraio delle falsità da annegare nel bagno termostatico, chiariamo una cosa: sous vide non significa bollire il cibo in un sacchetto di plastica. I cibi da scaldare in acqua, come il riso confezionato e i piatti pronti, prevedono di portare l'acqua ad ebollizione e poi immergere la pietanza confezionata sottovuoto nel liquido, per riscaldarla, non cuocerla. Con il sous vide, invece, il punto è proprio quello di cuocere il cibo delicatamente, ben al di sotto del punto di ebollizione. Stiamo riscaldando l’acqua ad una temperatura che corrisponde alla temperatura interna ideale dell’alimento - mai più calda, e certamente mai bollente! L'idea che sous vide significhi bollire il cibo in un sacchetto è una stupidaggine che persiste e fonte di confusione, ma - dillo ai tuoi amici ostativi - che non è vero.

Ok, ma devo pur sempre comprare una termocircolatore a immersione, e quello costa. È vero che le persone che cucinano regolarmente sous vide spesso scelgono di investire una discreta somma di denaro in un termocircolatore ad immersione, vedi Anova et similia. Negli ultimi anni, tuttavia, sono stati immessi sul mercato un certo numero di modelli piuttosto economici e per uso domestico. E se vuoi fare solo una prova, puoi improvvisare un setup sous vide con nient'altro che una pentola, un fornello, un termometro digitale e alcuni sacchetti di plastica (te l’ho spiegato bene nei numeri di Gennaio e Febbraio del BBQ4All Magazine).

Ho capito, non ho bisogno di spendere soldi. Questo non cambia il fatto che non è sicuro cucinare il cibo nei sacchetti di plastica.

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"Sous vide" significa "sotto vuoto", quindi se voglio provarlo, devo comprare una macchina costosissima per tirare fuori l’aria dai sacchetti.

Sì, "sous vide" in francese significa "sotto vuoto”, e su questo non ci piove. Ma è un termine che può disorientare. Tornando alla questione, non hai bisogno di un aggeggio lussuoso per creare il sottovuoto - o anche di uno economico da battaglia - per cucinare con successo il cibo in acqua a bassa temperatura. Per iniziare con il sous vide, i normali sacchetti stile ziplock andranno benissimo e per alcune applicazioni sono preferibili ai sacchetti sottovuoto. Usa il metodo del dislocamento dell'acqua (aggancia il sacchetto al lato della vostra pentola e immergetelo nel bagno termostatico, usa l'acqua per spingere fuori l'aria che circonda i vostri pezzi di carne, pesce o verdura) per rimuovere l'aria dai sacchetti, poi inizia a cucinare.

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Io il sous vide lo uso quasi tutti i giorni. E ci cucino serenamente e in totale sicurezza. Onestamente, è molto più pericoloso mangiare cibo preparato da mani sbagliate in posti sporchi che usare i sacchetti di polipropilene. Come riporta il Ministero della Salute, le malattie di origine alimentare sono causate principalmente dalla manipolazione del cibo in ambienti non igienizzati. Il sous vide, al contrario, riduce drasticamente il rischio di contaminazione. Secondo le ultime ricerche, le plastiche adeguate e più sicure sono il polietilene ad alta densità per alimenti, il polietilene a bassa densità e il polipropilene. Praticamente tutti i sacchetti sous vide sono fatti di queste plastiche. Lo strato interno di quasi tutte le bustine per sous vide è in polietilene, e anche la maggior parte dei sacchetti di marca per la conservazione degli alimenti e degli involucri di plastica sono fatti di polietilene.

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Ora, altri materiali plastici che possono trovarsi nella tua cucina, come gli involucri di plastica economici e sfusi (ancora comunemente fatti di cloruro di polivinile o cloruro di polivinilidene), possono contenere plastificanti dannosi, che riescono a penetrare nei cibi grassi come il formaggio e la carne. Io vi sconsiglio categoricamente di usarli. Le preoccupazioni riguardo al cibo esposto a queste materie plastiche a temperature più alte sono più che legittime - quando metti nel microonde il cibo avvolto nella plastica, per esempio. Credo che valga la pena spendere qualche centesimo in più e scegliere sacchetti affidabili, conosciuti e di marca.

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Detto questo, la scienza e l’industria vanno avanti, di pari passo. Ricordi quando le uova erano considerate il male sulla terra? O quando i biscotti integrali a basso contenuto di grassi e di zucchero dovevano aiutarci a perdere peso? Questa settimana il vino rosso e il caffè fanno bene, ma magari tra un


Ma perché devo imparare l’ennesima tecnica di cottura solo per preparare solo bistecche, pesce e pollo? Le persone che non hanno familiarità con il sous vide spesso pensano che sia utile solo per cucinare la carne. Ma ti garantisco che puoi prepararci qualsiasi cosa, persino il dolce!

Okay, mi hai quasi convinto: questo sous vide mi sembra un buon compromesso per quando ho molto tempo a disposizione, ma per l cucina di tutti i giorni, il mio fidato vecchio forno è molto più efficiente. Spesso si adopera il termocircolatore ad immersione quando si vuole dare ai tagli duri il trattamento low&slow, ma ti assicuro che puoi preparare anche il purè di patate in 45 minuti netti e cucinare pesce, bistecche e pollo in meno di un'ora. E tieni sempre a mente, invece di fare la guardia al forno, sperando che il petto di pollo non si trasformi in una suola di scarpa vecchia, puoi lasciare che il cibo cuocia per buona parte incustodito, sicuro del fatto che i risultati saranno gli stessi ogni volta, e lasciandoti del tempo libero per concentrarti su altre cose. Come, ad esempio, quello che cucinerai dopo.

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mese viene pubblicato un nuovo studio, che potrebbe dimostrare l'esatto contrario. Dalle padelle antiaderenti ai cibi in scatola, tutti gli strumenti e i cibi confezionati sono stati messi in discussione, a turno. E alla fine della fiera, possiamo sapere solo ciò che conosciamo. E sappiamo che amiamo mangiare carne, pesce, frutti di mare e verdure - tutti cibi sani e freschi - cucinati a temperatura controllate, per tirare fuori da ogni alimento un sapore fantastico e una consistenza perfetta. Adoro la prevedibilità e la semplicità del sous vide e mi piacerebbe che questo mio entusiasmo contagiasse anche te. E se ti sembra ancora strano utilizzare la plastica, non temere, puoi sempre utilizzare dei barattoli di vetro resistente al calore. Naturalmente, non posso garantirti che sarà sempre facile cucinare in totale sicurezza. Ma quello che ti posso assicurare è che, considerati i dati scientifici in nostro possesso, l'utilizzo di sacchetti di alta qualità e la loro corretta manipolazione minimizzi i potenziali rischi di beccarsi un malanno. Dopotutto, i mangioni avventurosi conoscono bene le possibili insidie che potrebbero celarsi nella conchiglia di un'ostrica, nel sushi, o in certi formaggi per palati coraggiosi. Gli spinaci crudi sono tutt'altro che sicuri da mangiare e, che ti piaccia o no, potresti correre un rischio anche addentando un succulento hamburger da fast-food.

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Ho letto un sacco di informazioni contrastanti sulla correlazione tra temperature del sous vide e gli agenti patogeni alimentari. Me la spieghi meglio? Certamente. Gli agenti patogeni alimentari non si moltiplicano mai sopra i 52°C; al contrario, “muoiono” lentamente. E più alta è la temperatura, più velocemente si levano dai piedi. Tutti gli agenti patogeni alimentari conosciuti iniziano a disattivarsi sopra una certa temperatura massima: alcuni sopra i 43°C, altri sopra i 45°C, quasi tutti sopra i 50°C e, infine, uno tosto che resiste fino a 52°C. La maggior parte si sviluppa più velocemente tra i 30°C e un po' al di sotto della loro temperatura massima. Quando cucini a temperature inferiori a 52°C - il tonno, per esempio, dà il suo meglio a 43°C - mantieni un tempo di cottura di una o due ore, mai meno; questo limiterà lo sviluppo degli agenti patogeni e impedirà al pesce di diventare molliccio.

Dovrei preoccuparmi a lasciare il cibo nel bagno termostatico per troppo tempo?

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Buone notizie: puoi tenere il cibo nella finestra di sicurezza - 52°C - per tutto il tempo che vuoi. Questo, amico mio, significa che puoi trasformare radicalmente la consistenza del cibo - per esempio, puoi cuocere una coscia d'agnello a 64°C per 16 ore, ottenendo una carne così tenera che i tuoi commensali penseranno che sei diventato un alchimista.

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NOTA: Quando devi cuocere la carne per molte ore, opta per temperature tra 55°C e 80°C.


Parlami del botulismo. Per buona parte, il botulismo diventa è un problema quando stai conservando del cibo. Questo significa che non è un rischio da tenere in considerazione se si sta servendo un piatto cucinato sotto vuoto, al momento.

Ora ho capito. E allora cosa devo sapere se voglio conservare il cibo cucinato sous vide? Puoi preparare il cibo sous vide giorni, settimane e anche mesi in anticipo, ma farlo in modo sicuro richiede un po' di lavoro extra. Per prima cosa,

ovviamente, devi cuocere l’alimento fino a quando non avrai sterminato tutti gli agenti patogeni. Poi, devi raffreddarlo in un bagno di ghiaccio (metà acqua e metà ghiaccio) fino a quando il cibo non si è raffreddato completamente. Dopodiché, la pietanza dovrebbe essere refrigerata o congelato: quanto può durare dipende dalla temperatura a cui la tieni. Il tocco finale è quello di riscaldare il sacchetto in un bagno d'acqua che sia alla temperatura alla quale l’hai cucinato o inferiore (questo riscaldamento richiede un bel po' di tempo). Sebbene ci siano occasioni in cui vale la pena cucinare sous vide in anticipo, questa tecnica dà il suo meglio quando si prepara un piatto che verrà gustato poco dopo la cottura.

Gianfranco Lo Cascio

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La cucina al fuoco dall'Homo erectus al barbecue Portfolio gastronomico/01 a cura di Alberto Zonghetti Illustrazioni di Eleonora Castagna Dimentichiamo per un attimo tutte le nostre amate e sofisticate strumentazioni per cuocere la carne: dispositivi, pentolame, termometri, accessori vari; chiudiamo gli occhi e immaginiamo di trovarci all’interno di un bosco.

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Vedete la radura? Ecco, preparate un bel fuoco. Sul lastrone di pietra, quello più a nord, il giovane cinghiale è già stato scuoiato ed eviscerato; il palo per infilzare la bestia deve essere appuntito accuratamente, con lentezza, seduti su un tronco tagliato mentre attendete la formazione della brace. L’aria fresca della foresta vi accarezza la pelle mentre il mutevole guizzare delle fiamme sembra ipnotizzarvi, ed il calore vi abbraccia. Ma il brivido sale prepotentemente dentro di voi quando la carne appoggiata sopra i tizzoni ardenti inizia a sfrigolare, a cambiare colore, a diffondere l’inebriante aroma di fumo e grasso…

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Riaprite gli occhi, dimenticate (e perdonatemi) le numerose imprecisioni ed inesattezze di questa breve visione, iniziamo un nuovo percorso seguendo le parole guida di oggi: fuoco e cucina. Se avete seguito le indicazioni che vi ho proposto sopra, avrete probabilmente percepito “il richiamo della foresta”: primitivo, selvaggio, arcaico. La carne al fuoco ha un che di primordiale, è un rito carnivoro che celebra tutti i sensi ed amplifica le nostre percezioni; è un momento che possiamo pensare come alla naturale conclusione di una battuta di caccia. Ammettiamolo, ogni tanto abbiamo nostalgia di rimanere soli, noi e il fuoco, a guardarci negli occhi, immersi nella natura; per sentirci come Prometeo che rubò il fuoco a Zeus e lo donò agli uomini. E la carne cruda, da posare sopra le braci dopo aver domato le fiamme, per riacquistare il senso primordiale della cottura. Come nella preistoria. Lo so che a questo punto tutti hanno almeno due domande: veramente, quando è nato il barbecue? Ma, soprattutto, da cosa deriva l’etimologia di questa parola?

LA LEGGENDA DEL BARBECUE Dici barbecue e pensi inevitabilmente agli Stati Uniti: nell’immaginario collettivo tutte le case del “sogno americano”


hanno il giardino che ospita un dispositivo di cottura di qualsiasi tipo; il cinema e la televisione ci hanno abituato all’idea che ad ogni weekend amici e vicini si riuniscono per un rituale momento di convivio da trascorrere attorno al fuoco. A questo si aggancia un altro luogo comune: negli States non c’è una dignitosa tradizione culinaria – mica sono come noi italiani -; però sono bravi con il fuoco, peccato per tutte quelle salse immangiabili… Insomma, il termine barbecue parrebbe derivare, quasi come conseguenza, dalla tradizione statunitense: del resto, sanno cucinare solo in quel modo… Ma sarà proprio così? L’ipotesi principale, avvalorata anche dall’Enciclopedia Treccani, smentisce però la nostra precedente riflessione. La parola barbecue sarebbe legata ai primi esploratori che, nel XVI secolo, arrivarono in America Centrale, nei Caraibi. Essi videro che il popolo locale, chiamato Taino, usava una tecnica di cottura delle carni che consentiva una conservazione a lungo termine, nonostante il poco favorevole clima locale. Consisteva nel disporre il cibo sopra un graticcio di legna sospeso sopra uno strato di braci di legna: pesci, tartarughe, lucertole, alligatori, serpenti, ratti, rane, uccelli, a volte anche cervi e tacchini… ma anche cani. Alcune testimonianze alludono al fatto che tali dispositivi fossero utilizzati anche per carne… umana! Ma il capitolo cannibalismo, per quanto antropologicamente interessante, credo che esuli dalle pagine del nostro amato Magazine.

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La cottura era lenta, e lo scopo d e l l a “griglia” era quello di tenere la carne distante dal suolo e dalla contaminazione di insetti

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ed altri animali terrestri; mentre il fumo avrebbe allontanato insetti volanti e contribuito alla lunga conservazione degli alimenti. La popolazione locale chiamava questi graticci – che pare venissero usati anche per dormire – con un termine che gli spagnoli recepirono come “barbacoa”. I conquistatori, tornati in Europa, diffusero tale metodo di cottura e questa nuova parola con una grammatica più o meno simile in tutte le lingue. Nel 1697 in Gran Bretagna il termine barbecue è citato per indicare una piattaforma su cui dormire, ma nel 1733 la parola è già usata per indicare una riunione sociale all'aria aperta dedicata alla grigliatura della carne. Nel 1769 George Washington annota nel suo diario di essere andato ad Alexandria per partecipare ad un "barbecue". Il viaggio della parola “Un babracot” così scrisse

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l’esploratore e botanico inglese Sir Everard Ferdinand im Thurn nel 1883, “è un impalcatura di bastoncini verdi costruita sopra un fuoco e su cui viene distesa la carne”. Il viaggio della parola “barbecue”, parte dunque dall’America Centrale, torna in Europa e, assieme ai colonizzatori, ritorna in America. La pronuncia del termine, dunque, suonerebbe all’incirca così: "bàrbecu".

DALLA BARBA ALLA CODA La seconda ipotesi riguarda sempre il Nuovo Mondo, ma coinvolge gli esploratori francesi, i quali si trovarono a gustare una capra intera cotta nelle stesse modalità che abbiamo già descritto nella prima ipotesi. La mangiarono “de la barbe a la queue", dalla barba alla coda, da cui, per contrazione,

nasce il termine "barbecue". In questo caso l’accento, come da tradizione francofona, andrebbe inevitabilmente (e forse un po’ spocchiosamente) sulla lettera finale: "barbechiù".

IL PRIMO BARBECUE: UN MILIONE DI ANNI FA? Dop o aver risp osto alla domanda relativa all’etimologia, dobbiamo tornare indietro di molte migliaia di anni. Infatti l’invenzione del barbecue è più vecchio dell’homo sapiens e gli antropologi pensano addirittura che sia stata la padronanza del fuoco a modificare in modo permanente il nostro percorso evolutivo; è questo legame primordiale che ci fa ancora amare la cottura alla fiamma. Fu l’Homo erectus, l’ominide appena prima dell’uomo di


Neanderthal, che assaggiò per la prima volta la carne cotta. Come possiamo immaginare questa scoperta da parte dei primi protoumani? Qualcuno pensa ad un evento casuale: un incendio boschivo, i nasi dei primitivi attratti da un profumo particolarmente seducente, la corsa interrotta da qualcuno che inciampava sulla carcassa carbonizzata di un cinghiale e si sporcava le mani con la miscela magica di proteine calde, grasso fuso e collagene untuoso della carne arrosto. Poi il divorare la carcassa fino a raschiare le ossa, gemendo e scuotendo la testa, mentre gli aromi sensuali facevano sorridere le narici e i sapori pieni facevano piangere la bocca.

Un altro team di archeologi capitanato da Francesco Berna, studioso italiano della Boston University, ipotizza che già un milione di anni fa

i nostri progenitori usavano il fuoco e, forse, lo facevano per cuocere i loro alimenti. Infatti studiando alcune antichissime tracce di materiali carbonizzati - piccoli resti di ossa e vegetali, rinvenuti nel sito sudafricano di Wonderwerk, si è capito tali residui sono stati bruciati in loco, e non trasportati da acqua o vento. Fuoco primordiale, non scaturito da autocombustione. Ciò significa forse – rimane ancora da dimostrare ma ai ricercatori sembra plausibile che questi esemplari di Homo erectus finalizzassero l’uso del fuoco alla cottura dei cibi. Questa ipotesi consentirebbe di retrodatare di almeno 300.000 anni l’epoca in cui gli ominidi hanno cominciato a padroneggiare la tecnologia del fuoco e, soprattutto, a ‘umanizzare’ la propria dieta. Sì, perché proprio questo aspetto è molto importante: cucinare rende più facile estrarre energia dal cibo. Ciò significava che

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Forse un po’ esagerata come ricostruzione, ma può rendere l’idea della straordinaria scoperta.

Dal punto di vista della ricerca scientifica, credo sia importante citare due eventi. Nel 2007 gli scienziati israeliani d e l l ’ U n i ve r s i t à d i H a i fa scoprirono prove che i primi esseri umani che vivevano nell’area intorno al monte Carmelo, circa 200.000 anni fa, erano seri esperti sul barbecue. Dalle analisi delle ossa e degli strumenti di lavoro, sembra che questi primi cacciatori preferissero animali grandi e maturi, che fornissero ricchi tagli di carne: gli antenati di bovini, cervi e cinghiali. Studiando le bruciature intorno alle giunture e i segni di raschiatura sulle ossa, sono state trovate prove che questi abitanti delle caverne sapevano cucinare.

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c’erano più calorie disponibili per i cervelli più grandi, il che naturalmente era un vantaggio evolutivo. Ci è voluto molto meno tempo per mangiare, lasciando tempo per cacciare, socializzare e formare tribù e comunità, e procreare. Hanno imparato rapidamente che il cibo aveva un sapore migliore se era tenuto sopra o a lato del fuoco. E i primi attrezzi? Come afferma lo storico del barbecue Dr. Howard L. Taylor, erano quasi certamente “una forchetta di legno o uno spiedo per tenere la carne sopra il fuoco”; ma a causa del materiale deperibile di cui erano fatti, difficilmente ne troveremo testimonianze integre.

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I PRIMI PIT MASTER: UNA RIVELAZIONE SCOTTANTE

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Tremino i maschi Alfa, quelli che si elettrizzano al solo pensiero di dominare il fuoco e la fame dall’alto del loro “manico” e della loro mascolinità. Quelli che ritengono fuoco, griglia, spiedi e derivati “roba da uomini”; che durante la settimana non entrano nemmeno in cucina ma, di fronte al barbecue, credono ad un’inevitabile inversione dei ruoli. Mi tocca darvi una cocente delusione. Si, per certi versi è vero ed innegabile che la nostra storia alimentare ha posto la donna al centro della cucina domestica, ma per nostra immensa fortuna negli ultimi decenni il ruolo in cucina si è sganciato dal sesso di appartenenza (infatti in casa sono il detentore del potere assoluto tra i fornelli). Torniamo, però, alla preistoria: dopo la scoperta della cottura al fuoco, l’evoluzione ha favorito i tratti che hanno aumentato la capacità degli ominidi di cacciare e mangiare carne cotta. Hanno imparato a addomesticare i cani per aiutarli con la caccia e ad organizzare per ruoli la loro struttura tribale e familiare. Gli uomini diventarono cacciatori e le donne si specializzarono nel preparare e cucinare i cibi. Se l’alimento principale era la carna cotta al fuoco, la conclusione è netta e incontrovertibile: i primi pitmaster erano donne!


FUMO, FUOCO E FIAMME I nostri uomini primitivi, una volta presa dimestichezza con il fuoco, iniziarono a costruire delle rastrelliere di bastoni verdi per tenere il cibo sopra le fiamme. Impararono che, lasciando bruciare i tronchi fino a diventare carbonella, la gestione della temperatura era più semplice da regolare e il sapore della carne risultava migliore. Ma non finisce qui: scoprirono che i cibi esposti lentamente al fumo non solo risultavano più saporiti ma, elemento fondamentale nelle epoche senza refrigeratori, si conservavano più a lungo. Ora sappiamo che questo accade per diversi motivi: perché ci sono composti antimicrobici nel fumo; perché il fumo allontana mosche ed insetti volanti; e perché l’affu-

micatura disidrata i cibi, mentre i batteri necessitano di umidità per proliferare. Affumicatura, asciugatura e salatura della carne erano strategie intelligenti per conservare gli alimenti deperibili e gestire al meglio le risorse alimentari, che potevano essere trasportate in caso di spostamento o migrazione verso altre zone. A questo punto troviamo un passaggio di grande importanza: a partire già dal 3.000 avanti Cristo, l’evoluzione dei costumi e delle usanze porterà l’uomo a considerare la cottura al fuoco come qualcosa che andava oltre la semplice necessità di nutrizione. Un vero e proprio rito.

UN RITO DIVINO Qualche settimana fa mia figlia, durante lo studio della religione ebraica (frequenta la scuola media – o secondaria

di primo grado se vi piace di più), mi chiese: “Senti, ma gli Ebrei, che sacrificavano a Dio tutti questi animali, poi la carne la mangiavano o no?”. Con risoluta autorevolezza paterna risposi: ” Certo, una buona parte sicuramente, mica buttavano via tutta quell’abbondanza!”. Del resto, lavorando da vent’anni nel mondo dell’arte ho una discreta conoscenza della Bibbia; ma, pungolato dal dubbio, andai a controllare. Avevo ragione, per fortuna; ma scoprii anche elementi aggiuntivi molto interessanti. II libro dell’Esodo, al capitolo 27, ci sono informazioni dettagliate per la costruzione degli altari sacrificali, che a pensarci bene sembrano proprio dei barbecue. Costruito in legno di acacia, di forma quadrangolare con lato di circa 2 metri, alto un metro e mezzo, l’altare presentava un rivestimento in rame e ad

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esso erano agganciati tutti gli accessori: vaschette raccogli cenere, palette, vasi per l’aspersione, forchette e bracieri. Una graticola di rame, lavorata a rete, sotto cui erano il fuoco e le braci, incastrata tra i lati dell’altare, serviva per appoggiare le offerte da bruciare. Non aveva ruote, ma stanghe ai lati per poter essere trasportato. Al capitolo 29 ci sono istruzioni su come preparare il sacrificio di un giovane toro e due montoni: “Prenderai poi uno degli arieti; Aronne e i suoi figli poseranno le mani sulla sua testa. Immolerai l'ariete, ne raccoglierai il sangue e lo spargerai intorno all'altare. Dividerai in pezzi l'ariete, ne laverai le viscere e le zampe e le disporrai sui quarti e sulla testa. Allora farai bruciare sull'altare tutto l'ariete. È un olocausto in onore del Signore, un profumo gradito, un'offerta consumata dal fuoco in onore del Signore” (Es 29, 15-18). L’offerta più importante dedicata a Dio sembra essere proprio il fumo profumato dell’arrostitura: il grasso migliore era posto infatti sull’altare e offerto al Signore. Agli officianti del sacrificio e ai collaboratori era permesso mangiare buona parte delle carni sacrificate.

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Il primo capitolo del Levitico inizia addirittura come fosse un testo di cucina: fornisce le istruzioni per macellare e preparare offerte da bruciare sull’altare: un toro, tortore, piccioni, pecore, capre, frutta, mais e pane, nonché le leggi per mangiare kosher, cioè secondo i dettami della religione ebraica; dettami seguiti ancora oggi da gran parte della comunità sparsa nel mondo. Ovviamente si trattava di animali senza difetto: Dio gradiva la carne di qualità! Ultima nota: gli eventi descritti nella Bibbia sono collocabili intorno al 1.200 avanti Cristo, oltre tremila anni fa.

UN RITO DI CONVIVIALITA’ Nel nono libro dell’Iliade, i greci hanno un grosso problema (ricordate il film “Troy”? Se non l’avete visto non vi siete persi nulla, a meno che non siate fan dell’epidermide di Brad Pitt): Achille, il loro eroe invincibile, ha litigato con Agamennone, il capo della Spedizione contro Troia. Senza il suo apporto non avranno speranze di vittoria. Quale migliore tentativo di riconciliazione può essere migliore di un banchetto al fuoco?


Allora [Achille] mise un grosso tavolo davanti al focolare, ci mise sopra un dorso di pecora e un altro di grassa capra, poi la schiena di un maialetto, tutta piena di lardo. Li teneva fermi Automedonte: il divino Achille tagliava; sminuzzò per bene la carne e la infilava sugli spiedi. Il figlio di Menezio, pari a un Dio, accese un grande fuoco; e quando il fuoco finì di ardere e la fiamma si spense, Achille spianò la brace, vi posò sopra gli spiedi e, appoggiandoli sugli alari, cosparse il sale divino; terminò di arrostirla e la rovesciò su piatti di legno. Patroclo allora prese il pane e lo distribuì sulla mensa, dentro i canestri di vimini: Achille spartì la carne. Iliade, IX, 206-217

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In verità il tentativo di riappacificare i due litiganti fallirà. Ma la descrizione di Omero è suadente, lussuriosa mette l’acquolina in bocca. Anche nella celebre Odissea, scritta dallo stesso autore, troviamo nel terzo Libro (vv. 460-468) una magnifica procedura di cottura al fuoco di una vacca: le cosce ricoperte di grasso e avvolta dalle interiora, gli altri pezzi infilati negli spiedi. In entrambi i casi Omero, le cui opere risalgono all’VIII secolo avanti Cristo, considera il banchetto che include la cottura al fuoco come l’emblema del convivio, dell’ospitalità.

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NOI E IL BARBECUE Voi come la pensate? La cottura al fuoco equivale alla formula “amicizia + condivisione + divertimento + bevute”? Siete soggetti al “richiamo della foresta” ogni tanto? O fate parte della famiglia dei “griller” cittadini iper tecnologici? Da parte mia, vorrei dedicare all’arte del barbecue molto più tempo, ma al momento non riesco; lavoro e famiglia assorbono gran parte del mio tempo, e la cottura al fuoco necessita di eliminare l’orologio e gli impegni. Ma appena posso mi dedico con piacere all’antica pratica, tanto che un paio di volte all’anno con una decina di amici, tutti uomini, ci regaliamo una giornata intera all’insegna della complice convivialità (senza figli, moglie, problemi di lavoro…); casa di campagna semidiroccata, fuoco, carne, birra, tanta birra.

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Il richiamo ancestrale lo abbiamo sentito quanto abbiamo provato a preparare la Cochinita Pibil, secondo il metodo Yucatan: cottura in una fossa

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scavata nel terreno con fatica e sudore (era luglio!), con la carne di maiale adeguatamente ridotta a spezzatino, marinata, avvolta in foglie di banano e adagiate sulle braci, ottenute rigorosamente con legna raccolta in loco. Per aumentare l’effetto di affumicatura pensammo di coprire la buca con una cassa di legno trovata nella cantina dell’abitazione. In un momento di distrazione la copertura si incendiò creando delle fiamme non proprio semplici da gestire. Tutto finì al meglio, salvammo anche la carne che risultò commestibile e anche gradevole. Ma il brivido di domare il fuoco rimane immortale nella nostra memoria. Per questo credo che la dimensione del rito primordiale e conviviale sia una componente molto forte del fascino che il barbecue esercita. Forse è l'immagine di una dimensione solidale che da sempre accompagna la vita degli uomini. Il rito della sopravvivenza, del resto, non si celebra da soli.


The Chemical Griller a cura di Virgilio Brunetti

Ad ognuno la sua: quale padella scegliere e perché. UNA GUIDA COMPLETA SUI TIPI DI PADELLE ESISTENTI E I RISPETTIVI MATERIALI DI FABBRICA

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Sono sicuro che molti di voi sono dei grandi appassionati di cucina; alcuni tra voi sono anche professionisti, ma quanti – davvero – coltivano la una vera e propria ossessione per stoviglie e posate? Vi vedo, sapete? Vi vedo, con il vostro arsenale nella vostra bella cucina, così simile ad una versione gourmet della Batcaverna. So di non essere solo. Il sottoscritto è un fanatico di pentole, tegami e coltelli: letteralmente, li adoro. Posseggo diverse skillets in ghisa, un paio di lionesi in ferro pesante; addirittura del wok ne posseggo tre versioni: ghisa, acciaio e ferro blu. Passiamo ai tegami: ne ho in alluminio spesso, quelli di mia nonna, una casseruola in rame stagnato, ho addirittura una pesciera. La provenienza fa parecchio anche nel possedere pentolame, che pensate, che sia finita qui? Da buon salentino, posseggo nel mio arsenale le tradizionali pignate in ceramica per la cottura dei legumi al fuoco, le tajine, un paio di Duch oven in ghisa e una casseruola in ghisa vetrificata della storica ed iconica marca francese. Da qualche parte ho anche diversi pezzi in acciaio inox e alluminio teflonato.

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Ripercorrere la storia di tegami, pentolame, utensili vari può essere complicato. Ci proviamo insieme, anche perché ripercorrere questo tipo di storia significa praticamente passare in rassegna la storia dell’uomo da un certo punto in poi. In principio fu l’argilla. L’utilizzo

dell’argilla per realizzare dei contenitori in grado di contenere i cibi con la finalità sia di conservarli che di cucinarli risale all’epoca in cui l’uomo iniziò ad abbandonare la vita nomade e a vivere all’interno di villaggi. Ciò accade in un momento preciso della Preistoria ovvero, l’Età del Rame, periodo interme dio tra il Neolitico e l’Età del

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Bronzo durante i quali l’uomo conobbe grandi e importanti trasformazioni sociali, tecnologiche ed economiche. La tecnologia del fuoco era già ad un livello sufficientemente avanzato, perché gli uomini quest’epoca potessero sviluppare la metallurgia ma anche i primi rilevanti esempi di cottura in contenitori dedicati forni: la cottura dei cibi diventa cucina. Lo sviluppo di tecniche metallurgiche più avanzate segnano i checkpoints fondamentali nello sviluppo della tecnologia umana nella preistoria. L’età del ferro è caratterizzata appunto dalla transizione bronzo e ferro nella produzione di utensili da lavoro, cucina e armi. La svolta fu data dalla capacità degli artigiani del metallo di fabbricare forni che sviluppavano temperature sufficientemente alte da fondere i minerali ferrosi ed ottenere una matrice a grezza, una sorta di spugna, che poi veniva successivamente battuta, purificata dalle scorie, forgiata e temprata per ottenere strumenti in acciaio. Ceramica, bronzo, ferro, rimangono per secoli i materiali più comuni per la fabbricazione di strumenti di cucina. Bisogna aspettare il rinascimento perché compaiano le pentole in rame, destinate a restare largamente in uso fino al XIX secolo. Nel 1700 si produssero anche esemplari in argento, evidentemente destinati alle cucine più ricche. Invece bisognerà aspettare addirittura la fine del 1800 perché l’alluminio diventi metallo disponibile mentre par la produzione di massa di oggetti comuni serviranno altri 40 anni.

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L’acciaio inox è un altro materiale iconico legato alla fabbricazione di pentolame; sebbene l’acciaio inossidabile sia già prodotto nei primi del Novecento, la produzione di massa di pentolame in questo materiale dovrà aspettare ancora qualche decennio. Pentole, padelle, t e g a m i casseruole hanno utilizzi e scopi ben precisi in cucina ma se parliamo di cotture da contatto, in assenza di acqua e

ad alta temperatura, il dispositivo più adatto sarà una skillet ovvero una padella con manico lungo con bordi medio-bassi. Ma perché scegliere un materiale piuttosto che un altro? Quali sono più adatti e performanti per la cottura ad alte temperature? La risposta più esauriente ci arriva da un articolo scientifico edito dalla rivista Food Studies: Thermodynamic Analysis of Skillet Materials Using Infrared Thermography: A Step toward a More Sustainable Food System. Gli autori, Ramsdell & Ramsdell, descrivono una serie di esperimenti realizzati mediante analisi di immagini in infrarosso ottenute con la tecnica termografia IR di otto diversi materiali comunemente utilizzati per la fabbricazione di padelle (skillets): ghisa nuova e antica, ghisa vetrificata, ferro pesante e leggero, alluminio, rame, acciaio inossidabile. Nello studio tali materiali vengono indagati comparando le caratteristiche di conducibilità, capacità termica ed emissività e la massa; questi risultati vengono ulteriormente


analizzati in base alle caratteristiche “non termiche” dei materiali quali costo, longevità, facilità d’uso, reattività del materiale. I risultati di questo studio non sono sorprendenti ma comunque invitano a riflettere su alcune comuni convinzioni rispetto ai materiali utilizzati per produrre pentolame, Prima di addentrarci ed analizzare i risultati di questo studio, vorrei passare in rassegna insieme a voi i principali ACCIAIO Gli acciai usati per produrre pentole sono di solito acciai inossidabili, ovvero leghe cromo-nichel a cui sono aggiunti altri elementi come titanio e molibdeno al fine di migliorare la resistenza alla corrosione. L’acciaio inossidabile più conosciuto e usato è l’inox 18/10: questa sigla significa che contiene il 18% di cromo e il 10% di nichel. Le pentole d’acciaio sono adatte soprattutto per cotture che sfruttano l’acqua come mezzo di trasmissione del calore. Gli acciai inox sono caratterizzati da un’eccellente resistenza e durezza. Hanno però scarsa conduttività termica, che causa surriscaldamenti delle superfici a diretto contatto con la fiamma e la conseguente bruciatura del cibo.

ALLUMINIO L’alluminio è un metallo leggero con elevata conducibilità termica. Tanto più una pentola di alluminio è spessa, tanto più la sua qualità è elevata. Un elevato spessore infatti permette una distribuzione uniforme del calore e riduce la possibilità di formazione di punti di surriscaldamento. Inoltre, dato che l’alluminio si dilata quando è esposto ad alte temperature, l’elevato spessore impedisce al metallo di deformarsi, mantenendo invece un fondo planare. Da studi scientifici è emerso che l’alluminio è un metallo idoneo al contatto con gli alimenti; tuttavia è consigliato evitarne il contatto prolungato con cibi acidi o ricchi di sale a temperatura ambiente. Non è adatto al lavaggio in lavastoviglie e, come l’acciaio, ha lo svantaggio che il cibo tende ad aderire facilmente alle pareti delle pentole durante la cottura, bruciandosi. GHISA La ghisa è un materiale piuttosto economico che trattiene bene il calore, lo diffonde lentamente e lo distribuisce in modo uniforme con qualunque fonte di calore. Il pentolame fabbricato in ghisa viene ottenuto per stampaggio della ghisa stessa. Un dispositivo di cottura in ghisa per essere efficace deve essere spesso e di conseguenza pesante. Un’altra caratteristica di questa lega è che dura ma fragile inoltre si ossida abbastanza facilmente quindi richiede una manutenzione sistematica. La ghisa per sé non ha caratteristiche superficiali tali da essere antiaderente, deve essere preventivamente trattata con un processo detto seasoning che permette di depositare strati di grassi polimerizzarti che danno un buon effetto antiaderente ai cibi in cottura e passivano la superfice impedendo l’ossidazione. Il trattamento non è stabile va ripetuto ed è sensibile a sostanze acide. BBQ4All Magazine

GHISA VETRIFICATA O SMALTATA Alcune famose aziende francesi vantano una ormai lunga ed esclusiva tecnologia per la vetrificazione della ghisa. I prodotti così trattati sono

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esteticamente molto gradevoli, alcuni tipi di smaltature sono veramente molto stabili, le differenze, l’affidabilità le potete apprezzare su un prodotto Staub o Le Creuset confrontato con uno simile comprato in IKEA. La qualità del trattamento superficiale determina il costo di questi dispositivi; tutte le smaltature patiscono sempre gli shock termici e meccanici, e possono sche ggiarsi esponendo la ghisa all’ossidazione. Il rivestimento non garantisce il potere antiaderente, ma ne facilita sicuramente la pulizia e le rende immuni a qualsiasi processo di ossidazione o altra aggressione chimica.

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FERRO Il ferro è un materiale economico con scarsa conducibilità termica, fattore che potrete capire sia determinante nella scelta di un utensile per la cottura. Il ferro, insieme alla ghisa, è il materiale migliore per ottenere una reazione di Maillard perfetta. Purtroppo al contatto con l’acqua arrugginisce molto facilmente e molto rapidamente. Le pentole in ferro come quelle in ghisa devono essere pretrattate al fine di ottenere un seasoning superficiale di olii polimerizzati che proteggono il metallo dall’ossidazione e gli danno buone caratteristiche di antiaderenza. Le skillets in ferro pesante sono chiamate generalmente pentole lionesi ma a rafforzare il loro legame con la cucina d’oltralpe partecipa anche uno storico produttore sinonimo stesso di pentola in ferro ovvero De Buyer.

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RAME Il rame è il miglior conduttore termico dopo l’argento e questa caratteristica lo rende il metallo più nobile per la realizzazione di tutte le stoviglie da cucina. Tuttavia è un materiale molto costoso e, come per la ghisa, gli utensili realizzati con questo metallo sono pesanti e poco maneggevoli. Non è idoneo al contatto con gli alimenti e di solito viene ricoperto

internamente con uno strato di stagno: le pentole così ottenute sono molto durature nel tempo, oltre ad avere un bellissimo effetto visivo. FINALMENTE, LO STUDIO Ritorniamo allo studio di cui prima: dopo le doverose premesse, ora avrete sicuramente più facilità nel capirlo. Lo studio di Ramsdell & Ramsdell mediante indagine termografica IR rivela come quasi in tutti i casi ghisa e ferro siano i materiali migliori per le cotture da contatto

mentre gli altri si prestano bene a cotture più generiche ed in presenza di acqua. Ovviamente l’analisi suggerisce come lo spessore delle padelle e la finitura superficiale siano fattori determinanti della qualità dei dispositivi. Se vi state chiedendo se sia meglio il ferro o la ghisa, gli autori fanno una logica deduzione. Osservano infatti come skillets del diametro di 24 cm iniziano ad essere piuttosto pesanti e con diametri superiori diventano assolutamente scomode. Secondo l’analisi termografica, il ferro avere performance non migliori ma simili alla ghisa tuttavia ha maggiore leggerezza e quindi migliore maneggiabilità. Inoltre, dovrete comunque utilizzare una deposizione strato su strato di grassi polimerizzati… tradotto, il vostro seasoning. Ciò non esclude, comunque, la manutenzione certosina degli utensili a vostra disposizione. Questa è una condizione necessaria innanzitutto per sfruttare a meglio la “mercanzia” in dotazione, nonché di mantenerla quanto più a lungo possibile. Pronti a spadellare come se non ci fosse un domani? Via!


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CIPOLLE ...fioriranno

A noi, non fanno mica piangere!

Se qualcuno ruba un fiore per te, sotto sotto c’è… I più nostalgici ricorderanno bene questo spot pubblicitario degli anni ‘80 di un noto deodorante, dove la signora in questione si vedeva recapitare una rosa da un ragazzotto che l’aveva rubata per lei, inebriato dal suo profumo dopo averla incrociata per caso. Ebbene, è ora di superare questo banale stereotipo secondo il quale la donna si scioglie per una rosellina. Andiamo oltre, pur restando sul floreale: regalate (o regalatevi) un fiore… sì, ma di cipolla!

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Bloomin’Onion è proprio il nome della ricetta che stiamo per presentarvi e che, ne siamo sicuri, molte donne preferiranno alle rose. Almeno, le donne dotate di buon gusto. Questa ricetta viene anche chiamata Awesome Blossom a seconda del ristorante o della città statunitense che la ospita e la cucina. Conosciamo anche l’inventore di questa preparazione: si tratta di Tim Gannon, ovvero uno dei quattro fondatori dell’Outback Steakhouse, il cui primo locale è stato aperto nel sud della Florida nella seconda metà degli anni ‘80. Nato e cresciuto a Fort Lauderdale (città dove risiede la nostra Elena Ninotti, colei che cura la rubrica Across the Pond che potete leggere più avanti, ndr), Gannon ha inventato prima la ricetta per la Bloomin ’Onion e poi è stato tra i co-fondatori dell’Outback Steakhouse a Tampa nel 1988. Questo delizioso fiore di cipolla fritta è una ricetta gustosa, a basso costo, goduriosa e sorprendente.

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Ha avuto fin da subito, insomma, tutte le caratteristiche per avere un glorioso successo; ed infatti così è stato. Per tanto tempo questo piatto è stato uno dei più grandi misteri della vita (un po’ come il Triangolo delle Bermuda o chi ha ucciso Laura Palmer?), che ha tenuto col fiato sospeso milioni di persone. Per anni, il processo alla base della creazione di questo antipasto è stato tenuto segreto al pubblico e, quindi, le domande senza risposta su come prepararselo in casa erano più o meno all’ordine del giorno. Il primo Fiore è stato servito per la prima volta nel ristorante principale di Tampa; oggi, uno su quattro antipasti ordinati all'Outback è il Bloomin’Onion. Le colossali cipolle fritte erano originariamente tagliate a mano, ma ora una macchina speciale chiamata Gloria viene utilizzata per trasformarle in modo efficiente in bellissime fioriture con più di 200 petali. Grazie a Gloria, milioni e milioni di fiori sono stati serviti nei ristoranti Outback, nonostante il fatto che nel 2008 Men's Health lo abbia definito il Peggior Antipasto d’America, poiché un singolo fiore di cipolla con condimento contiene circa 1954 calorie. Insomma, chiamarlo antipasto è coraggioso, in effetti. Se riuscirete a mangiare qualcosa dopo, sappiatelo: sarete i nostri eroi. In realtà i nostri fiori saranno più piccoli rispetto al mastodontico originale. Diciamo che faremo dei fiorellini, quindi si ridurranno le calorie. Il che he vi permetterà di consumarle o di offrirle ai vostri ospiti con meno sensi di colpa. Scegliete delle cipolle ramate di grandi dimensioni: questo vi faciliterà il compito nel tagliare gli spicchi e ne favorirà lo stacco dei petali, che ognuno poi andrà a pucciare nella salsa di accompagnamento. Bene, armatevi dunque di un coltello affilato, di una friggitrice e di una buona birra, ma anche due: una per l'attesa e una per degustare i vostri fiori.

INGREDIENTI 4 persone

per la salsa di accompagnamento 2 cucchiai di maionese 1 cucchiaio di ketchup mezzo cucchiaino di paprika mezzo cucchiaino di sale mezzo cucchiaino di origano un pizzico di pepe nero macinato un pizzico di peperoncino di Cayenna per la pastella un uovo mezzo bicchiere di latte mezzo bicchiere di birra per le cipolle 4 cipolle ramate grandi olio di semi di arachidi per friggere q.b. 5/6 cucchiai di farina 00 un cucchiaio di pangrattato mezzo cucchiaio di sale mezzo cucchiaino di peperoncino di Cayenna mezzo cucchiaino di paprika mezzo cucchiaino di pepe nero mezzo cucchiaino di origano mezzo cucchiaino di cumino mezzo cucchiaino di timo un cucchiaino di Montreal Steak

PREPARAZIONE 1. Mescolate bene tutti gli ingredienti formando la salsa; mantenetela poi coperta in frigorifero fino al servizio. 2. Formate la pastella sbattendo le uova, per poi unirle con un frustino insieme alla birra e al latte. 3. Mescolate bene anche tutti gli ingredienti per l’infarinatura.

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4. Prendete la cipolla, tagliate la parte superiore per un paio di centimetri e rimuovete la buccia esterna; tagliate appena appena la parte inferiore.

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5. Con un coltello molto affilato, affettate la cipolla più volte al centro per creare i petali, senza andare fino in fondo (prima 4 tagli, poi altri 4 facendo attenzione con questi ultimi, in modo da ottenere 16 fette). A questo punto con una leggera pressione aprite i petali.

6. Mettete a bollire dell’acqua in una casseruola, e in un’altra vicina mettete acqua ghiacciata: immergere la cipolla per circa 1-2 minuti nell’acqua bollente e poi subito in quella ghiacciata, in questo modo i petali resteranno separati. 7. Immergere per bene la cipolla nel composto di uovo, latte e birra e poi nella ciotola con la farina e spezie, poi ripetete il procedimento. Mettete a scaldare l’olio fino ad una temperatura di 175°C assicurandosi di usarne abbastanza da ricoprire l’intera cipolla. Friggete per 10 minuti o finché quest’ultima non risulterà dorata. Appoggiatela su carta assorbente. 8. Servite con la salsa di accompagnamento in modo da immergervi leggermente la punta dei petali e gustarsi questa preparazione, di sicuro effetto, in compagnia. E tutti vissero felici e contenti, profumati con fiorellini di cipolla.


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Bionda! Sei una bomba!

BBQ BACON WRAPPED

ONION BOMB

Facciamo un esperimento insieme, vi va? Chiudete gli occhi. Immaginate una cosa gastronomicamente lussuriosa. Anzi, facciamo così: vi do un suggerimento. Immaginate una grande polpetta. Una lussuriosa polpetta di formaggio. Immaginate questa polpetta ripiena di formaggio racchiusa in una cipolla. Come? Sì, in una cipolla. E poi immaginate la polpetta nella cipolla avvolta da pancetta. E poi, ancora, immaginate il tutto spennellato con salsa barbecue. Sì: è una delle cose più laide e goduriose che avrete l’opportunità di mangiare. Ma perché limitarsi solo a immaginarle, quando possiamo cucinarle e, soprattutto, mangiarle? Stiamo parlando di un appetizer perfetto, facile da realizzare e talmente apprezzato che non si corre davvero il rischio di vederlo avanzare sul tavolo. Inoltre, state sicuri che intratterrà i vostri ospiti durante le lunghe cotture al bbq. Immaginate di avere un pulled pork da terminare: non vi staranno inutilmente intorno, saranno troppo presi da queste bombe. Niente più zombie affamati a darvi fastidio. Un fantastico gioco di consistenze: l’esterno glassato e croccante lascia spazio ad un cuore grondante di formaggio cheddar.

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A farla da padrone nella scelta della materia prima sono sicuramente i burger Blue Ox USA Black Angus del nostro Megastore, che contengono il giusto bilanciamento tra parte grassa e parta magra in modo da garantire un risultato praticamente perfetto.

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Il guscio della cipolla dorata, in cottura, ci regalerà delle note dolci e rotonde che andranno ad equalizzare il sapido del bacon e del cheddar. Nulla vieta, nel caso non ne troviate una tipologia di buona qualità, di sostituire il cheddar con un buon formaggio a pasta dura e con carattere deciso. Pensate di prepararne, che so, dieci? Fate venti, ad occhi chiusi: è un finger food che va via come caramelle.


INGREDIENTI 4 persone

per 18-20 onion bomb 800 g di Burger Blue Ox USA Black Angus 100 g di pane grattugiato un uovo 100 g di salsa barbecue 20 g di senape di Digione 2 cucchiaini di Sal’s Seasoning Ultimate SPOG Salsa worchester q.b. 150 g di cheddar 20 fettine di bacon 2-3 cipolle dorate.b. per la salsa barbecue: 100 g di ketchup 100 g di aceto di mele 30 g di zucchero di canna un cucchiaio di salsa worchestershire mezzo cucchiaio di peperoncino mezzo cucchiaio di cumino mezzo cucchiaino di sale mezzo cucchiaino di pepe nero 25 g di miele, marmellata o sciroppo d’acero

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PREPARAZIONE 1. Mescolate tutti gli ingredienti in un una pentola (tranne la marmellata o lo sciroppo o il miele) e fate cuocere giusto il tempo di farli amalgamare bene. 2. Spegnete il fuoco e aggiungete la parte sciropposa scelta. È ideale farla riposare almeno un giorno in frigo così da dare il tempo giusto per la maturazione. 3. In una bowl capiente amalgamate gli hamburger con l’uovo, il pangrattato, 30 g di salsa barbecue, la senape, lo SPOG e la salsa Worchester. Impastate fino a che il composto non risulti omogeneo e sodo. 4. Porzionate l’impasto in quenelle da 30/40 g circa e farcite ogni porzione con un cubetto di cheddar. Per dare la forma al meglio, fate roteare l’impasto fino a dargli una forma tondeggiante. 5. Pulite le cipolle, mettete da parte la testa e la parte inferiore e separare gli strati avendo cura di mantenere ogni falda il più integra possibile. Per farlo, praticate un taglio in maniera longitudinale alla cipolla fino a meta. Gli strati esterni molto grandi andranno ritagliati e modellati per contenere la porzione, quelli intermedi saranno praticamente già pronti mentre quelli più interni si potranno riutilizzare per un’altra ricetta. 6. Inserite ogni porzione nella falda di cipolla, come fosse un guscio sferico, e avvolgete quest’ultima nel bacon sia in senso trasversale che longitudinale. 7. Fermate con uno stuzzicadenti la fetta di bacon, in maniera tale che rimanga in forma durante la cottura. 8. Stabilizzare il vostro dispositivo sui 160°C/170°C e predisponetelo per una cottura indiretta.

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9. Volendo si può scegliere di affumicare le polpette con essenze come ciliegio o melo, a coperchio chiuso ovviamente.

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10. Appena il bacon sarà diventato croccante, spennellate ogni bombetta con la restante salsa barbecue e cuocete fino ai 70°C/72°C. 11. Gustatele super calde e ancora filanti.


GAMJA-HOTDOG da oggi gli farete la festa! Ogni street food che si rispetti deve onorare senza alcun dubbio tre parametri fondamentali: deve essere grasso, deve essere ciccioso e deve indurre una salivazione incontrollata. Oggi vogliamo presentarvi il re del cibo di strada coreano: se il corn dog vi era sembrato già abbastanza calorico, questo farà fare un triplo salto mortale sulla sedia al vostro dietologo. E forse anche al cardiologo. Stiamo parlando di un würstel avvolto da una pastella croccante fatta di patatine fritte! In coreano lo chiamano Gamja-hotdog, ed è simile alla versione americana ma senza la pastella di farina di mais. I venditori ambulanti della Corea vendono molti tipi di hot dog da passeggio. Alcuni di loro hanno il formaggio all'interno, alcuni hanno sia il würstel che il formaggio, alcune varianti possono anche essere avvolte con bacon, purè di patate o alghe, ma questa versione ha piccoli pezzi di patate incorporati nella pastella.

per 12 gamja-hotdog

6 würstel Franks BLUE OX 2 patate 400 g di farina 00 350 g di acqua un cucchiaino di lievito secco 300 g di pangrattato (o pane panko) sale q.b 1 l di olio di semi di arachidi Per la maionese allo scalogno fritto: 20 g di scalogno 100 g di olio di semi di girasole 24 g di succo di limone un uovo sale q.b. pepe bianco q.b. Per il ketchup al chipotle: 150 g ketchup un peperoncino chipotle acqua calda q.b. sale q.b. pepe nero q.b.

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Il gamja-hotdog, con il suo Korean Sounding, è molto diffuso a Koreatown, Los Angeles, sia tra i coreani che tra gli americani. Sul nostro Magazine troverete la ricetta infallibile per i Gamja-hotdog. Da oggi, i vostri bambini li ameranno e anche gli adulti si faranno conquistare facilmente dalla bontà di questa preparazione. Ma come diamine si mangiano queste diavolerie iper caloriche, irrinunciabili? Generalmente, in Corea, vengono serviti con dello zucchero (si,avete capito bene, zucchero semolato), col ketchup – di solito usato come principale condimento - e con senape gialla, come succede con i classici hot dog. Noi abbineremo invece due salse un po’ diverse, perché come sempre vogliamo elaborare ogni ricetta a modo nostro: faremo una maionese allo scalogno fritto e un ketchup… sì, ma piccante. Alla morbidezza del würstel e della pastella si contrappone l’involucro croccante di patatine fritte e pangrattato, da abbinare ad un bancale della vostra birra ghiacciata preferita. Relax totale. Potete sostituire il pangrattato con il panko o insaporirlo con semi e spezie di vostro gradimento (magari scegliendo qualche rub piccante della linea Sal’s Seasoning). Sono perfetti da gustare davanti alla tv sul divano, guardando una partita tra amici o il vostro film preferito.

INGREDIENTI

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PREPARAZIONE 1. Il giorno prima preparate le salse, così da avere il tempo di farle maturare in frigo. 2. Per la maionese allo scalogno fritto mettete l’olio e lo scalogno a julienne in un pentolino e portatelo a 80°C/90°C per circa 20 minuti. 3. Alzate la temperatura a 110°C/120°C e cuocete fino a che lo scalogno non risulti dorato e croccante. 4. Scolate su carta assorbente e tenete da parte l’olio, che una volta freddo verrà usato per montare la maionese. 5. Nel bicchiere di un mixer a immersione unite l’uovo, lo scalogno fritto, il sale e il pepe. Frullate fino a dissolvere lo scalogno e montate aggiungendo l’olio a filo. 6. Una volta ottenuta una maionese soda e compatta, aggiungete il succo di limone e aggiustare di sale e pepe. 7. Per il ketchup al peperoncino chipotle reidratate in acqua calda il peperoncino, poi strizzatelo e frullatelo con il ketchup prima di aggiustare di sale e pepe. 8. Preparate la pastella per gli hot dog in una bowl mescolando la farina, l’acqua tiepida, il lievito e il sale e lasciate riposare fino al raddoppio del volume. 9. Tagliate le patate in cubetti di 1 cm per lato e sbianchitele per circa 2/3 minuti. Scolatele, asciugatele e cospargetele di farina. 10. In un vassoio capiente sistemate in ordine da sinistra verso destra il contenitore con la pastella, le patate tagliate a cubetti e infine il pangrattato, così sarà più agevole e veloce il processo di panatura.

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11. Al raddoppio della pastella intingete ogni würstel Franks Blue Ox, tagliato a metà e infilzato con uno spiedino in bambù, nella pastella. Passatelo poi velocemente nelle patate e infine nel pane, avendo cura di pressare per bene così da sigillare l’hot dog.

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12. Friggete in olio abbondante a 160°C/170° C per circa 7/8 minuti. La pastella deve avere il tempo giusto per cuocersi e prendere una doratura omogenea. 13. Servite caldissimi.


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Piovono polpette... sulla

PASTA 'NCASCIATA a modo nostro.

“L’acqua bolliva, calò la pasta. Squillò il telefono, ebbe un momento d’esitazione, incerto se rispondere o no. Temeva una telefonata lunga, che magari non era facilmente troncabile e che avrebbe messo a rischio il punto giusto di cottura della pasta. Sarebbe stata una catastrofe sprecare la salsa corallina con un piatto di pasta scotta. Decise di non rispondere. Anzi, per evitare che gli squilli gli turbassero la serenità di spirito indispensabile per gustare a fondo la salsetta, staccò la spina.”

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Così il maestro Camilleri descriveva in uno dei suoi libri il viscerale amore del commissario Montalbano per il cibo. Un momento di privacy e di intimità che non andava turbato per non rovinare il risultato finale. Negli anni, e nel corso delle sue innumerevoli avventure, il commissario Montalbano ci ha permesso di conoscere più a fondo la Sicilia. Ci ha fatto innamorare dei paesaggi mozzafiato descritti, ci ha permesso di comprendere più a fondo la sicilianità; ovviamente, ci ha ingolosito con gli innumerevoli manicaretti che questa terra ha da offrire. Tra le pietanze più citate e amate dal commissario è doveroso citare le arancine, il falso magro, la caponata. Tutti piatti che i lettori più affezionati del magazine ormai conoscono e che sapranno cucinare magistralmente. Una pietanza che però non è ancora stata citata dalla redazione del Magazine, molto amata dai redattori tutti (è dal nostro commissario preferito) è la pasta ‘ncasciata (o ‘ncaciata). Si tratta del piatto che la fedele Adelina prepara al commissario in occasione della grandi feste.

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La pietanza nasce infatti come preparazione della domenica, o delle feste in generale. In particolare, nel messinese, si suole cucinarlo per ferragosto. Il nome, quantomeno particolare, sembrerebbe avere due possibili origini. Una prima teoria afferma che derivi dal tegame che veniva usato per cuocerla. Questa pentola in terracotta veniva posta sulle braci e fatta cuocere sul fuoco vivo. Quindi il nome ‘ncasciata sarebbe traducibile abbrustolita, bruciacchiata all’interno del tegame. Una seconda teoria invece deriverebbe dalla presenza del caciocavallo: la presenza del cacio avrebbe portato all’utilizzo del termine ‘ncaciata.

Nessuna delle due teorie ha reali fondamenti storici, però entrambe mettono in evidenza due importanti criteri sulla preparazione: la pasta deve essere cotta in un tegame, che sia su braci o in forno poco cambia ed è importante che è che sia ben abbrustolita. In tempi più antichi infatti si era soliti utilizzare il forno a legna in cui precedentemente era stato cotto il pane. L’altro importantissimo dettaglio è l’utilizzo del caciocavallo. Parmigiano e grana sono arrivati solamente con il finire del secolo scorso. Fra le numerose varianti d’altronde abbiamo ormai imparato a capire quanto sia difficile parlare di una vera, sola e unica versione delle ricette, specie se siciliane, specie se presentano tanti ingredienti come questa- la messinese in passato prevedeva un ragù preparato con polpettine di manzo, pollo e fegatini. Con il sugo si condiva la pasta e i pezzi di carne venivano serviti a parte come secondo piatto. Oggi a Messina la pasta ‘ncasciata si condisce rigorosamente con un ragù di carne. Noi ci siamo presi qualche libertà e, intraprendenti e un po’ incoscienti come siamo, abbiamo pensato di farla a modo nostro, ispirandoci alla versione messinese e creando un ragù di polpette per condire la nostra pasta al forno, affumicandola anche un po’ nel kettle. Al posto quindi del salame e del prosciutto cotto, sulla nostra pasta goduriosa sono piovute deliziose polpettine al sugo. Non ci resta che darvi la ricetta della pasta ‘ncasciata… sì, ma a modo nostro.


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PREPARAZIONE 1. Preparate il ragù di polpette: mescolate insieme i due macinati e la salsiccia, aggiungete un uovo, il Parmigiano, sale e pepe, e due spicchi d’aglio tritati finemente. Formate delle polpettine grosse quanto una noce e poi friggetele in olio extravergine di oliva, toglietele dal fuoco e lasciatele scolare. 2. Nello stesso olio dove avete fritto le polpette mette a soffriggere sedano, carota e cipolla tritati finemente, poi aggiungete la passata di pomodoro, il sale, il pepe, qualche foglia di basilico anch’essa tritata, e lasciate andare il sugo per qualche minuto. 3. Aggiungete a questo punto le polpettine, chiudete con un coperchio e lasciate cuocere a fuoco lento per un’oretta circa, finché il sugo non sarà ben rappreso. 4. Mondate la melanzana e tagliatela a tocchetti non troppo piccoli. Metteteli in uno scolapasta e cospargeteli con sale grosso. Lasciateli riposare per 1 ora perché perdano l’acqua di vegetazione. 5. Nel frattempo preparate le uova sode e quando saranno tiepide sgusciatele e tagliatele a pezzi. 6. Trascorsa l’ora di riposo sciacquate brevemente le melanzane, strizzatele bene e tamponatele con carta da cucina. Infarinatele leggermente e friggetele in padella fino a quando non saranno belle dorate. Scolatele bene e trasferitele su un piatto ricoperto con carta da cucina per eliminare l’unto in eccesso. Tenetele da parte. 7. 7. Cuocete la pasta in acqua bollente salata portandola a metà cottura. Scolatela e trasferitela in una ciotola. 8. Aggiungete il ragù di polpette nella ciotola con la pasta. Mescolate bene e unite le melanzane fritte, quindi il caciocavallo a dadini. Aggiungete anche le uova sode a pezzetti e amalgamate. Condite il tutto con un po’ di olio extravergine di oliva. 9. Accendete una ciminiera di carbone e settate il vostro dispositivo per una cottura indiretta a 180°C 10. Ungete una pirofila e cospargetela di pangrattato. Distribuitevi all’interno la pasta, cospargete con altro pangrattato e con il pecorino grattugiato.

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11. Cuocete ora nel kettle per 20-25 minuti affumicando con qualche petalo di legno aromatico, se vi aggrada.

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12. Lasciate riposare qualche minuto per fare assestare la pasta, quindi servite

INGREDIENTI 4 persone

Per il ragù di polpette: 250 g di macinato di manzo 250 g di macinato di maiale 50 g di Parmigiano Reggiano grattugiato un uovo una salsiccia un gambo di sedano mezza cipolla mezza carota uno spicchio d’aglio qualche foglia di basilico 500 g di passata di pomodoro olio extravergine di oliva q.b. sale e pepe q.b. Per la pasta al forno: 400 g di pasta, formato corto una melanzana grossa olio di semi di arachide q.b. farina q.b. pangrattato q.b. 200 g di caciocavallo 2 uova 100 g di pecorino grattugiato olio extravergine di oliva q.b.


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SPICY GRILLED BBQ PORK

Tutto quello che dovete sapere sulle nostre braciole con alto tasso erotico! a cura di Michela Bongiorni Quanti nomi abbiamo per descrivere queste belle fette di maiale con osso? Bistecche, bistecchine, braciole, bracioline o anche costatelle. Sulle tavole degli italiani, da Nord a Sud, quasi ogni famiglia la chiama in un modo differente. … ed ogni grigliatore alle prime armi almeno una volta l’ha cotta in maniera deludente: ed eccoci nel piatto letteralmente delle lamiere dure, stoppacciose, bruciacchiate o ancora prive di carattere, grigiastre e senza attrattiva.

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Sappiamo tutti che, quando si parla di cuocere la carne alla maniera classica sulla griglia, il maiale non possa essere servito al sangue, ma nemmeno rosato, perché è fortemente sconsigliato dal punto di vista della sicurezza alimentare. E noi alla sicurezza alimentare ci teniamo tantissimo, viene prima di tutto il resto. La carne di maiale deve essere servita ad almeno 73°C al cuore, consigliano le linee guida dell’Istituto Superiore di Sanità. Cosa significa 73°C al cuore? Questo, purtroppo, si traduce spesso in una braciola ben cotta e dura sotto i denti, senza crosticina e asciutta. Come avete letto sul numero di Luglio 2020 del Magazine, la temperatura ideale affinché una bistecca di maiale sia morbida e succulenta, ma comunque cotta, è di circa 60°C.

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Beh, allora come conciliamo la sicurezza alimentare al gusto? La ricetta scientifica dello Zio vi illustra tutti i passaggi necessari per essere sazi ed in salute. Noi oggi passeremo per una via più “facile”, e sicuramente meno scientifica, ma che garantisce un buon risultato: prepareremo una marinatura che ci consentirà di ammorbidire la ciccia e successivamente, dato che ottenere una buona reazione di Maillard con la carne di maiale è più difficile perché povera di zuccheri riducenti, faremo un po’ i furbi e andremo ad inumidire con la stessa marinatura le nostre bracioline rendendole belle da vedere, saporite ed anche un po’ piccantine.

Forse i puristi storceranno un po’ il nasino perché, anche in questo caso come spesso avviene con le bistecche di manzo, faremo una cottura combinata fra forno e griglia, ma è un passaggio necessario: i bimbi buoni che seguiranno le indicazioni senza fiatare si troveranno a mordere una ciccia paradisiaca. E i cattivi? Che perdano pure i denti a cercare di masticare il MordiMordiCheMaiSiConsuma (semicit.) Per gli ipocondriaci, però, voglio riassumere ciò che lo Zio ha scritto nel suo articolo sul Magazine di luglio 2020: è vero che le linee guida sulla sicurezza alimentare consigliano di cuocere la carne di maiale ad alte temperature perché potenzialmente contaminata da Trichinella spiralis, ma negli ultimi anni i vari miglioramenti nell’allevamento e nella successiva lavorazione della carne suina nei Paesi sviluppati hanno praticamente eliminato la contaminazione dal maledetto verme cilindrico; inoltre, la maggior parte della carne in commercio viene abbattuta per uccidere il parassita, che comunque si elimina facilmente cuocendo la carne per un periodo relativamente lungo a bassa temperatura. Insomma, fidatevi. Piuttosto, preoccupatevi di resistere voi alle alte temperature… quelle date dalla piccantezza dei condimenti. Abbiamo scelto come accompagnamento una preparazione tunisina, la salsa harissa. Di solito viene utilizzata soprattutto per accompagnare piatti come il kebab o il cous cous. Il nome deriva dall’arabo harasa che significa pestare, ridurre in poltiglia. L’harissa è a base di peperone rosso e peperoncino, aromatizzata con spezie come aglio, cumino e coriandolo. Può essere più o meno piccante a seconda della quantità dei peperoncini utilizzati. Noi le daremo anche una nota affumicata perché utilizzeremo dei peperoni cotti in ember roasting. Poi, dato che non ci accontentiamo, useremo anche


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uno dei Rub piccanti della linea Sal’s Seasoning per condire le nostre bistecche e… farvi letteralmente andare a fuoco. Scaldate le griglie, ragazze e ragazzi: prepariamo insieme queste braciole vietate ai minori.

INGREDIENTI 4 persone

4 braciole di maiale con osso sale e pepe q.b. prezzemolo tritato q.b. Sal’s Seasoning Ancho Habanero Chili MEX a piacere per la marinata: 300 g di salsa bbq il succo di un limone due cucchiai di olio extravergine d’oliva un cucchiaino di salsa Worcester per la salsa Harissa: 2 peperoni rossi un cucchiaino di semi di coriandolo un cucchiaino di semi di cumino un cucchiaino di semi di finocchio 3 cucchiai di olio d'oliva mezza cipolla rossa 4 spicchi d'aglio 5 cucchiai di succo di limone spremuto 5 peperoncini rossi piccanti passati al mortaio un cucchiaio di concentrato di pomodoro

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sale q.b.

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Preparazione:

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1. Il giorno prima: predisponete il vostro dispositivo per una cottura a contatto diretto con le braci, e posizionate i peperoni sul carbone, girandoli dall’altra parte dopo qualche minuto. Non servirà molto tempo prima che si ammorbidiscano e la buccia si annerisca. Chiudete i peperoni ancora caldi in un sacchetto di plastica per alimenti dove per effetto del vapore la buccia bruciata si staccherà automaticamente in 10 minuti, dopodiché spellateli eliminando i semi, tagliateli a listarelle e teneteli da parte. 2. In una padella tostate i semi di coriandolo, di cumino e di finocchio per qualche minuto, poi trasferiteli in un macinino per spezie o in un mortaio e polverizzateli (per saltare questo passaggio, potete usare già le spezie in polvere). 3. Soffriggete la cipolla, l’aglio e il peperoncino a pezzetti con un cucchiaio di olio extravergine d’oliva e lasciate andare finché tutto non sarà perfettamente morbido e dorato. Aggiungete infine il concentrato di pomodoro e aggiustate di sale. 4. Trasferite tutti gli ingredienti, peperoni compresi, in un mixer e frullateli tutti insieme, aggiungendo l’olio a filo. Aggiustate eventualmente di sale, poi ponete la salsa in frigo per farla riposare bene. 5. Sempre il giorno prima, preparate la marinata mescolando insieme la salsa bbq, il succo del limone, la salsa Worcester e l’olio. Poi tenetene da parte due cucchiai e nel resto della marinata immergete le braciole di maiale, chiuse in un contenitore che metterete in frigo per l’intera notte. 6. Il giorno successivo, togliete le braciole dal frigo, asciugatele un po’ dall’eccesso di marinata e ponetele in forno ventilato a circa 60°C per almeno due ore. Devono asciugarsi ma non cuocere. Una volta trascorso questo tempo, predisponete il vostro dispositivo per una cottura diretta, attendete che la griglia sia ben calda e poi spennellate le braciole con un po’ di marinata che vi eravate tenuti da parte. Cauterizzate a questo punto le vostre braciole, facendo attenzione a non stracuocerle (al cuore non dovrebbero superare i 62°C). 7. Togliete le braciole dalla griglia, spolverizzatele con un po’ di sale e di rub Ancho Habanero Chili MEX a piacere; se volete anche un po’ di prezzemolo tritato. Servitele calde insieme alla salsa harissa.

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ALLA SALSICCIA

NON SI DICE MAI DI NO!

... e se c'è qualcuno che sostiene il contrario: NON-FIDATEVI! Vi ricordate qual è la prima regola del GLC Club? Esatto, sappiamo che siete preparati: mai bucare le salsicce. La cosa è ormai talmente nota che è perfino nato un neologismo per identificare il griller inesperto, definito spesso bucasalsicce da quelli più scafati. Confidiamo che in pochi anni possa entrare nel dizionario Devoto Oli. Probabilmente, è destino che in questo numero venga messa a dura prova la pazienza dello Zio, perché anche in questo caso, come in quello dell’hamburger che troverete a qualche pagina di distanza andremo, ahimè, a sbudellare le salsicce come se non ci fosse un domani. Ma anche in questo caso esiste una spiegazione ragionevole. Zio, perdonaci. Ne varrà la pena.

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Per questa ricetta utilizzeremo l’impasto di vari tipi di salsicce; come sapete, ogni regione d’Italia ne ha almeno un paio di tipologie, ma la nostra scelta è ricaduta su due: una con un impasto fresco e l’altra con uno stagionato e affumicato, in modo da conferire al nostro piatto un sapore forte e allo stesso tempo succulento. Chiaramente, potete benissimo associare anche un impasto piccante, utilizzando ad esempio le Chorizo Pork Sausages del BBQ4ALL Megastore.

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Tecnicamente, quindi, non possiamo definirci bucasalsicce, perché di fatto non le bucheremo, ma le useremo per creare un impasto da cuocere in crosta. Questo è un secondo piatto che non rivela subito il suo contenuto peccaminoso, poiché avvolto dalla friabile pasta sfoglia. Si può preparare anche in forno, ma dato che vogliamo togliere un po’ di polvere accumulata nel nostro dispositivo

durante il lungo Inverno, noi la prepareremo accendendo il carbone, magari aggiungendo una nota di affumicatura di legno di faggio. La temperatura al cuore dell’impasto che andremo a cuocere è sempre quella di 82°C e la preparazione non ci porterà via tanto tempo, poiché il settaggio del kettle sarà su una temperatura decisamente elevata, sui 220°C. Il nostro obiettivo è quello di ottenere un panetto croccante, rifinito con dei semi di sesamo, al cui interno scopriremo il gustoso e inebriante ripieno. Il profumo avvolgerà letteralmente tutti coloro che si siederanno alla vostra tavola e, fetta dopo fetta, nel piatto di servizio resteranno solo le briciole. All’interno non può mancare un bel po’ di cipolla tritata, parecchio formaggio e un mix di spezie che conferiranno un sapore davvero strong. La salsa di accompagnamento donerà al piatto una nota agrodolce: useremo infatti una salsa chutney agli agrumi. Si tratta di una salsa (di solito piccante) dalla consistenza densa usata come condimento nella cucina indiana e pakistana. Il cui nome deriva dal verbo indiano catna, lett. leccare. Ne esistono moltissime tipologie, a seconda del mix di spezie, frutta e/o ortaggi che si usano. Può essere dolce o salata, a base di yogurt, limone o aceto. Molto diffusa è quella fatta col mango, ma si può preparare con molti altri ingredienti diversi, dalle mele alle albicocche, dalla menta al cocco. La versione agli agrumi si sposa benissimo con la grassezza dell’impasto contenuto nelle nostre sfoglie. Andiamo a vedere come si prepara questo delizioso e rifocillante secondo piatto.


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Preparazione:

INGREDIENTI 4 persone

per il ripieno 500 g di impasto di salsiccia (metà affumicata a freddo/ metà fresca) mezza cipolla grande o una piccola un cucchiaino di Timo mezzo cucchiaino di Sal’s Seasoning Montreal Steak Rub mezzo cucchiaino di Sal’s Seasoning Smoky Chipotle Chili mezzo cucchiaino di Sal’s Seasoning Memphis Dry Rub un cucchiaio di Grana Padano grattugiato per la salsa chutney: 500 g di mandarini cinesi 500 g di zucchero mezzo l di acqua un cucchiaino di peperoncino piccante essiccato mezzo bicchiere di vino nero per completare un rotolo di pasta sfoglia un tuorlo d’uovo mezzo cucchiaio di semi di sesamo un cucchiaino di senape.

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1. Tagliate a spicchi i mandarini cinesi e metteteli a bagno in acqua, facendo il ricambio con acqua fresca per due o tre volte (togliendo in questo modo il sapore troppo amaro dagli agrumi). 2. Mettete mezzo litro di acqua in un pentolino insieme allo zucchero e ai mandarini, tenete il fuoco basso e lasciate caramellare; otterrete così una marmellata dal gusto leggermente amaro). 3. Aggiungete il vino e il peperoncino piccante e fate ridurre la salsa. 4. Togliete le salsicce dai budelli e mischiate per bene i due impasti, unendo la cipolla tritata, il formaggio, il timo, le spezie di BBQ4ALL e un po’ di chutney. 5. Stendete la pasta sfoglia e tagliatela a metà longitudinalmente (in maniera da ottenere 2 fogli). 6. Spennellateli all’interno con della senape e mettete al centro il ripieno di salsiccia. A questo punto arrotolate la pasta sfoglia sul ripieno, sigillando per bene i bordi. 7. Spennellate del tuorlo d’uovo sulla parte superiore e cospargetelo con un po’ di semi di sesamo. Poi create dei tagli distanziati tra loro sulla parte superiore. 8. P r e r i s c a l d a r e i l vo s t r o dispositivo sui 220°C, posizionando della carta forno dalla parte opposta delle braci. Appoggiate i rotoli ripieni sulla carta forno, chiudete il coperchio e cuocete per circa 20 minuti, facendo attenzione a non farli bruciare. 9. Tagliateli a fette e serviteli con l’accompagnamento della salsa chutney piccante agli agrumi.

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hT e te a m i lU t

r e g r uB un panino... in carne

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a cura di Michela Bongiorni

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24 Giugno 2020: Gianfranco Lo Cascio scrive un post sul Facebook sui panini mangiati nei vari locali in giro per il mondo. Testualmente: “(…) quando assemblate panini a montagnella lo fate per me o mi avete scambiato. per un ippopotamo seduto al tavolo? Ma come vi viene in mente? Ma poi perché? Cosa dovrei fare? Come lo mangio? Devo andare in iper estensione mandibolare e far vedere le mie otturazioni alla signora del tavolo di fronte? Ma non ci arrivate che è impossibile da mangiare senza spataccarlo e farlo diventare una poltiglia inguardabile?” Ben consci di questa dichiarazione lapidaria, in redazione ci siamo guardati negli occhi e ci siamo detti: e mo’ chi glielo dice che abbiamo fatto un panino mostruoso?

doppio hamburger, per sfidarvi a mangiarlo tutto senza stramazzare al suolo. Nulla vieta, in realtà, che possiate comunque servirlo dividendolo in due comodi burger da consumare in modo più confortevole. Per il resto, abbiamo rispettato le regole dello Zio, a parte quella dell’altezza: questo panino non ha milioni di ingredienti dentro, non ha decine di salse abbinate in modo discutibile, non presenta fette di bacon o di altro salume messe di taglio praticamente impossibili da mordere a meno che non si abbiano i denti affilati come una katana (cit.), ad ogni morso si sentono tutti i singoli elementi e il pane non si disfa in mano. In pratica, volevamo solo stupirvi con effetti speciali e fotografare una cosa che vi facesse dire mmmmaaaaamma miiiiaaaa! Secondo me, ci siamo riusciti.

Ok, ok: niente panico, possiamo spiegare. In quel famoso post lo Zio parlava di serate fuori, di signore o signorine ben vestite per una cena in dolce compagnia che non avrebbero nessuna voglia di macchiarsi il vestitino alla moda addentando un panino alto sei metri, di disagio nel mangiare fuori casa una pietanza onestamente inaffrontabile.

Bando alle ciance: non abbiamo resistito alla tentazione di proporvi il panino con

Dici hamburger, corrono poi in gran carriera le patatine fritte. Ma un panino del genere non poteva accontentarsi di una porzione di sempliciotti bastoncini croccanti e salati. Quindi noi le abbiamo rinforzate un po’, grigliando due salsicce e mettendole sopra a coprire, con un velo di salsa bbq. Insomma sì, la salsiccia è il contorno. Ora che sapete cosa vi aspetta, non vi resta che cominciare ad accendere il carbone e a preparare le vostre griglie, seguendo pedissequamente la ricetta step by step.

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MA! C’è sempre un ma dietro l’angolo. Noi, con questa ricetta, ci rivolgiamo a voi, o poveri griller chiusi in lockdown o semi lockdown da oltre quattro mesi, che avete voglia di cuocervi un hamburger e di mangiarvelo spatasciati sul divano in tuta e ciabatte, con birra e rutto libero. Non ci siamo quindi posti il problema del galateo, che invece è d’obbligo rispettare quando si esce a cena fuori. A meno che non siate Csaba Della Zorza, quando siete a casa vostra sicuramente siete più sciolti e meno attenti alla patacca sulla felpa. Avete accesso ai tovaglioli in enorme quantità, potete assumere posizioni improbabili addentando qualcosa e avete la possibilità di farvi la doccia immediatamente. E poi, noi siamo del partito macchia sulla maglia is sexy. Se ben portata.

Andando nello specifico, siamo tornati alle origini per questo Hamburger dei Campioni: niente padella, piastre o ammennicoli vari ma solo fuoco e griglia. La carne eccezionale dei nostri Burger Blue Ox fa da sola buona parte del lavoro. Poi, dato che per noi non esiste hamburger senza bacon e cipolle, ma dato che dovevamo pur rispettare la famosa regola che chiameremo non sono una katana, abbiamo creato una composta di cipolle caramellate CON bacon dentro, in piccoli pezzettini croccanti. ‘Na roba dietetica con tanto grasso e burro. Abbiamo poi inserito una sola salsa per sgrassare un po’, un formaggio fondente, due foglie di insalata e due fette di pomodoro (giusto perché le verdure sono importanti in una dieta bilanciata – *emoticon che ride*).

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Preparazione:

INGREDIENTI

per 2 persone incoscienti o 4 normali per i panini due bun per hamburger (o quattro) quattro hamburger Blue Ox USA Black Angus burro q.b. insalata a piacere qualche fettina di pomodoro qualche fetta di provola affumicata Per la composta di cipolle al bacon: due cipolle rosse 150 g di bacon tagliato a dadini burro q.b. mezzo bicchiere di aceto di mele sale e pepe q.b. Per la maionese allo yogurt: 60 g di tuorli, tiepidi 150 ml di olio di semi di girasole 150 ml di olio extravergine di oliva 10 ml di succo di limone 10 ml di aceto di vino bianco 3 g di sale 1 g di pepe un cucchiaio di yogurt greco Per il contorno: mezzo kg di patate a pasta gialla due salsicce Pork Sausege Cheddar Jalapeno salsa bbq q.b. sale e pepe q.b.

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olio di semi di arachidi q.b.

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1. Cominciate dalla maionese: sbattete i tuorli e versate lentamente l’olio, aiutandovi con uno squeezer nel quale avrete mescolato quello di semi e quello d’oliva. Continuate a sbattere con regolarità. A un certo punto, inglobando aria, il composto diventerà denso e sarà il momento di aggiungere limone, aceto, sale e pepe. Una volta formata la maionese, aggiungete il cucchiaio di yogurt greco, aggiustando eventualmente di sale, e mescolate il tutto con cura. Tenetela in frigo. 2. Passate poi alla composta di cipolle: in un pentolino tostate bene il bacon- senza aggiungere altro grasso- finché non risulterà ben dorato e croccante; a quel punto affettate le cipolle grossolanamente, aggiungetele al bacon insieme a una noce di burro, salate e pepate, poi coprite e fate cuocere a fuoco lento per 40 minuti circa. Aggiungete quindi un po’ di aceto di mele e continuate la cottura a fuoco un po’ più vivace e senza coperchio finché le cipolle non risulteranno morbidissime e di un bel color nocciola, leggermente caramellate. 3. Accendete il vostro dispositivo e predisponetelo per una cottura indiretta, stabilizzandolo alla temperatura di circa 150°C. Appoggiate le salsicce sulla griglia dalla parte opposta dei carboni, chiudete il coperchio e cuocete per circa 30-40 minuti o comunque finché non raggiungeranno il grado di cottura desiderato. Una volta cotte tenetele in caldo. 4. Nel frattempo dedicatevi alle patatine fritte: pelate e tagliate a bastoncino i tuberi, poi lavateli con acqua corrente e infine teneteli in una ciotola con acqua fredda. Lasciateli quindi asciugare bene su un telo di cotone poi scaldate l’olio a circa 150°C e friggeteli per 5 minuti; toglieteli dal fuoco, scolatele bene su un foglio di carta assorbente e riponeteli in congelatore per circa 5 minuti: quando i bastoncini saranno completamente freddi, procedete alla seconda frittura con olio a 180°C/190°C. Fateli dorare, poi toglieteli dall’olio, metteteli su un foglio assorbente. Salate e pepate, poi tagliate le salsicce a rondelle e appoggiatele sulle patate fritte; condite infine con la salsa bbq. Il contorno è pronto. 5. Mentre aspettate di fare la seconda frittura alle patatine, cuocete l’hamburger in cottura diretta sulla griglia ben calda, avendo cura di ungerlo leggermente. Fate attenzione che non si alzino le fiammate, e giratelo spesso finché non avrà raggiunto il grado di cottura desiderato: a quel punto prendete la composta di cipolle, adagiatene un cucchiaio su ogni hamburger, poi coprite con le fette di formaggio, spostate l’hamburger in cottura indiretta e chiudete il coperchio affinché il formaggio si sciolga. Nel frattempo avrete anche preparato il pane: se volete il panino a due piani, tagliate il bun in tre strati, imburrateli e tostateli mentre cuocete l’hamburger, altrimenti tagliate il panino in due, imburrate le due metà e tostatele alla maniera classica. 6. Siete pronti per assemblare il panino: se avete optato per quello a due piani, mettete sul fondo una dose generosa di maionese, poi un po’ di insalata, la ciccia con la composta di cipolle e il formaggio fuso, coprite con lo strato intermedio di pane tostato, poi di nuovo la maionese, l’hamburger con composta di cipolle e formaggio, infine qualche fettina di pomodoro. Se invece volete panini umanamente più affrontabili, farciteli allo stesso modo ma formando un solo strato; poi serviteli caldi e con il loro contornino.


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Pulled pork, cheddar, droga rossa.

ZITTI E BUONI DAVANTI ALLA

PIZZA COI CORNICIONI... RIPIENI !

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È

È di questi giorni la diatriba USA vs Italia, che riguarda uno dei capisaldi della nostra cucina: la pizza. Da un tweet sulla pagina ufficiale della città di Chicago parte quella che poi diventa polemica. Il governatore di Chicago dichiara: “siamo fieri di essere la capitale della pizza nel mondo”; segue un ulteriore cinguettio del Governatore del New Jersey che, anche in questo caso, proclama la sua città la capitale della pizza nel mondo. Tutto questo nel giorno del World Pizza Day.

Per la realizzazione di questa pizza non ci limiteremo a darvi una ricetta, ma vi insegneremo il metodo per realizzarla, in modo da farvi capire i vari passaggi e mettervi in condizioni di riparare a errori per migliorarne la riuscita, volta per volta. Le fasi del metodo principalmente sono 6: impasto, puntata, staglio, appretto, stesura e cottura. Tra queste, altrettanto importanti sono le fasi di riposo e quella del topping, ovvero della farcitura.

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Dato che l’Unesco nel 2017 ha dichiarato l’arte del pizzaiolo napoletano patrimonio dell’umanità, potete capire il caos che si è scaturito dopo quei tweet. Per la maggior parte dei napoletani due cose vengono prima di tutto: Maradona e la pizza; e ovviamente in molti non hanno perso l’occasione per dare risposte piccate e simpatiche, suggerendo agli americani di ordinare l’unica vera buona pizza al mondo, facendosela arrivare direttamente da Napoli. Sarà perché siamo italiani, o forse perché siamo temerari, ma ci siamo voluti mettere in mezzo alla questione proponendovi una versione nostra, realizzando una bella pizza col cornicione ripieno, tanto in voga negli ultimi anni, farcita però con ingredienti dell’american bbq. Giusto per farli stare tutti zitti e buoni (cit.). Sul mondo della pizza c’è da dire tanto e noi stessi abbiamo affrontato l’argomento più volte in questo Magazine. Oggi realizzeremo una versione tonda. Una Napoletana? No. Una napoletana è tonda, ma una tonda non è necessariamente napoletana.

Quest’ultima, detta anche verace, ha caratteristiche specifiche sia nel metodo di preparazione che nella cottura. Necessita di un forno che permetta di raggiungere tra i 400°C e i 500°C circa, che cuocia tra i 60 e i 90 secondi e che abbia specifiche caratteristiche. Il risultato da ottenere prevede un impasto molto elastico in stesura, grazie ad una fase ampia di appretto che permetta al panetto di rilassarsi a dovere, e che da cotto permetta di avere un prodotto morbido e leggero, ripiegabile su stesso e con quasi assenza di croccantezza. Deve inoltre avere una maculatura superficiale, con cornicione bel rilevabile e rialzato, e base sottile centrale ricoperta da farcitura. Su tutto, ciò che più potrebbe essere di ostacolo è la cottura, per via di quei 400°C minimi che sono impossibili da raggiungere in un forno casalingo. Soprattutto perché è un elemento fondamentale per definire una napoletana. Ovvieremo anche a questo, spiegandovi il metodo e fornendovi comunque una variante per realizzare una tonda NON napoletana.

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L’IMPASTO E’ la fase più importante dell’intera realizzazione. Una partenza fatta male si ripercuoterà inevitabilmente su tutte le fasi successive. E’ in questa fase che si forma la maglia glutinica e che gli enzimi iniziano le proprie azioni. La proteasi favorisce l’idrolisi delle proteine. Le amilasi scindono la molecola dell’amido. Poi lipasi, isomerasi, maltasi e zimasi fanno il resto, trasformando lipidi, zuccheri, maltosio e dando vita alla fermentazione alcolica. Quindi diciamo pure che qui si dà vita al tutto.

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Iniziamo sempre dalla farina, perché dobbiamo conoscere il suo potere di assorbimento e in base a questo aggiungere la giusta quantità d’acqua. Viceversa sarebbe solo fare a caso e non secondo regole precise, aggiungendo farina sino al completo assorbimento. Oltretutto, per via dell’azione degli enzimi, la farina deve avere il tempo di far partire le reazioni chimiche e ciò non sarebbe possibile se inserissimo tutta l’acqua in una volta sola. Questo metodo poteva avere un senso cento anni fa, quando non c’era la necessità di fare valutazioni tecniche o confrontare la qualità di prodotti diversi; e quando, soprattutto, si cucinava per sfamarsi senza troppe pretese a livello organolettico. Ora le farine escono dalla molitura con caratteristiche specifiche e differenti tra loro ed ognuna di esse ha una reazione diversa rispetto all’assorbimento dell’acqua. Questo dunque è il motivo per cui si inizia dalla farina e non dall’acqua. Ora che lo sapete, potete iniziare a versare la vostra quantità di farina nella ciotola o in planetaria. Consideriamo, per comodità, un chilogrammo di farina e lavoriamo sulle quantità percentuali degli altri ingredienti. Questo vi favorirà qualora vogliate ricalcolare le dosi.

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aggira intorno ai 250°C/280 °C di un forno casalingo. Tralasciando dunque l’utilizzo di forni professionali, possiamo dire con certezza che un’alta idratazione se non gestita nei modi dovuti in tutte le fasi di lavorazione (impasto, maturazione e appretto), non permette al prodotto di asciugare la propria struttura, con la conseguenza di un prodotto finale umido, che non sviluppa in maniera corretta e che tenderà a mantenere una parte cruda al suo interno con conseguente mancanza di scioglievolezza al morso. Avete presente le chewing gum? Questo non vuol dire che non è possibile effettuare anche idratazioni più spinte, con consapevolezza e gestione degli impasti e delle farine. Ma non è il nostro caso. Noi la facciamo semplice e ci attestiamo su un risultato ottenibile da tutti. Con l’esperienza voi stessi potrete sperimentare altro ed uscire dalla comfort-zone. Da qui partiamo con le dosi di acqua, lievito e sale per circa sei pizze. Impasto diretto circa 12h • 1 kg di farina 00 / tipo 1 (290/310W) • 650 g di acqua (65%) • 25 g di sale (2,5-2,8%) • 6/12 g Lievito di birra fresco (6 g estate / 12 g inverno) Farina Vi consigliamo di utilizzare un ottimo prodotto che riesca ad assorbire bene l’acqua, che riporti sull’etichetta una percentuale di proteine tra 11,5-12,5% che corrispondono alla forza indicata nelle dosi. Queste vi permetteranno di avere un grado adeguato di tenacità e di elasticità dell’impasto.

Per quanto riguarda l’idratazione, per agevolare la buona riuscita della vostra pizza, ci attestiamo sul 65%. Questa è l’idratazione classica di una napoletana, ma è anche il valore di partenza per l’idratazione di una tonda in teglia cotta in forno casalingo. Non servono iper idratazioni per la riuscita di una buona pizza. I motivi principali sono due: il tempo e la temperatura.

Acqua E’ l’ingrediente fondamentale per la panificazione. I suoi sali minerali e le sue caratteristiche organolettiche contribuiscono e aiutano la formazione del glutine e aumentano la rigidità dell’impasto. La sua percentuale, come già accennato, varia da un 60% ad un 70% di norma, ma si arriva anche ad idratazioni spinte che su certi prodotti vanno a toccare un'idratazione dell'80%

Se nella pizza napoletana abbiamo una temperatura di cottura molto alta in un tempo molto ridotto, nella pizza tonda in teglia abbiamo tempi abbastanza lunghi (circa 10/15 minuti), e una temperatura che si

Altro punto fondamentale è la temperatura. Per una buona gestione dell’impasto, l’acqua deve avere una temperatura variabile a seconda di altri fattori che andranno ad influire sull’impasto: la temperatura


ambiente, quella della farina, la temperatura che produrrà la macchina impastatrice o il nostro braccio. Il tutto affinché l’impasto finito non superi i 24°C. Pertanto l’acqua dovrà essere freddissima d’estate e non superare i 20°C d’inverno. Una regola empirica che vi permette di regolare la temperatura dell’acqua sulla base di altre temperature fisse è la regola del 70, secondo la quale la somma delle tre temperature (ambiente, farina, e acqua) debba dare 70 come valore finale. Da qui se ne deduce che conoscendo le temperature di farina e aria, per sottrazione abbiamo il valore di quanto deve essere la temperatura dell’acqua. Sale Anche questo ingrediente è importantissimo ai fini dell’impasto. Agisce sulle proteine e sulla formazione del glutine, donando stabilità e resistenza all’impasto. Però è un nemico del lievito, in quanto ne ritarda l’attivazione e ne distrugge le cellule. Infatti in fase di impasto è sempre consigliato l’inserimento dei due prodotti in tempi diversi l’uno dall’altro. Altra caratteristica importante del sale è quella di agire sulla colorazione della crosta, poiché permette di formare più maltosio. Possiamo variare la sua quantità nelle percentuali riportate sopra, ricordandoci che il sale apporta umidità all’impasto.

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Lievito Infine il lievito. Ci sarebbe da parlare per giorni di questo ingrediente. Diciamo che si divide in 3 tipologie: • Lievito di birra • Lievito secco disidratato • Lievito naturale o pasta madre. Noi ci soffermeremo unicamente sul lievito di birra, che è di più facile attivazione e utilizzo. Qualora però ci trovassimo senza lievito di birra, potremmo utilizzare il secco, facendolo rinvenire in acqua tiepida sui 28°C circa, con l’aggiunta di poco zucchero. Le quantità da utilizzare in caso di lievito secco sono in proporzione di 1:3 rispetto al lievito fresco. Per capirci, 3 grammi di lievito fresco corrispondono a 1 grammo di lievito secco disidratato.

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IL PROCEDIMENTO IMPASTAMENTO Per una esecuzione a regola d’arte, sarebbe il caso di fare un passo indietro e dire che l’impastamento ha inizio con una linea degli ingredienti già pesati e disponibili davanti a voi prima di effettuare le operazioni. Detto questo, potete decidere di impastare a mano o a macchina mediante l’ausilio di planetarie o macchine professionali. Versate tutta la farina e iniziate ad impastare aggiungendo da prima il lievito e successivamente l’acqua sino ai 2/3 del totale, pian piano e man mano che la farina l’assorbe. Quando l’impasto avrà assorbito i 2/3 di acqua, inserite il sale e continuate a impastare, aggiungendo a filo la restante acqua. Continuate così sino alla formazione della maglia glutinica e all’assorbimento completo dell’acqua. Se la vostra farina fa difficoltà ad assorbirla, potete fare un fermo macchina di 10/15 minuti per agevolare l’azione del glutine. Una volta terminato l’impasto, fatelo riposare per 15 minuti, in una ciotola o su un piano, coperto. Trascorso il tempo, iniziate il primo giro di pieghe. Ripiegate su se stesso il panetto per 3-4 volte e lasciate riposare per 10/ 15 minuti sul piano di lavoro senza coprire. Servirà ad asciugarlo bene. Ripetete successivamente questa operazione, fino a che non avrete un panetto liscio e asciutto e che non collassi su se stesso. PUNTATA Prendete un contenitore abbastanza capiente che possa contenere 3 volte il volume del vostro impasto. Ungetelo leggermente,ponetevi il panetto a riposare per 2/3 ore a temperatura ambiente (20°C-24°C), e chiudetelo ermeticamente. In questa fase, l’impasto avrà modo di sviluppare e crescere grazie all’azione dei lieviti, stabilizzando la maglia glutinica.

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STAGLIO Trascorso il tempo di puntata dell’impasto e dopo che la sua massa avrà quasi raddoppiato, rovesciate il contenitore su un piano. Fate un giro di pieghe e lasciate riposare, coperto, per almeno 15 minuti. Ora procedete allo staglio, ovvero alla formazione dei panetti. Dovrete realizzare delle pizze tonde, quindi dividete i panetti in pezzature da 250/300 g ciascuno. Chiudete i panetti su se stessi, facendo un giro di pieghe, e metteteli in un contenitore o cassetta di lievitazione, affiancandoli senza attaccarli l’uno all’altro.

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APPRETTO In questa fase, che durerà sei ore, si ha una ridistribuzione dei lieviti, dovuta alla manipolazione dell’impasto. È qui


che si verifica l’ultima lievitazione. Durante l’appretto la maglia glutinica si rinforza e permette successivamente al panetto di rilassarsi contribuendo ad un’estensibilità maggiore nella fase successiva. STESURA Passate le sei ore di appretto, si passa alla fase di stesura. Ribaltate ogni panetto su un bel mucchio di farina di semola. Ricopritene la superficie e iniziate a premere delicatamente dal basso verso l’alto. Con l’ultima falange delle dita spostate i gas contenuti nel panetto, allargandolo in maniera circolare. Allargate fino ad un diametro di circa 33 cm. Lasciate un bordo bello largo, che vi servirà in seguito. FARCITURA E COTTURA Qui viene il bello, perché in questa fase affronteremo la farcitura della pizza, la parte più golosa di tutto il processo, quella dove viene fuori la creatività di ognuno di noi. Abbiamo pensato a qualcosa di speciale per voi, in versione BBQ. La pizza che vi proporremo sarà con cornicione ripieno di pulled pork BBQ4All del Megastore e con Cheddar di qualità, una base al pomodoro, qualche pachino droga rossa, delle cime di rapa ripassate in padella e delle quenelle di nduja al cucchiaino. Il tutto spolverato da un ottimo Smoke Chipotle Chili della linea Sal’s Seasoning. Niente di più laido. Quindi, procuratevi dal Megastore una porzione di pork affumicato in tutta regola. Rigeneratelo, pullatelo e tenetelo da parte. Prendete il cheddar, riducetelo a tocchetti e tenete anche questo da parte. Lavate, pulite e cuocete al vapore le cime di rapa per 10 minuti. Ripassatele quindi in padella, con olio, aglio fresco, e due o tre acciughe fatte sciogliere in cottura. Preparate la vostra drogarossa (sul sito di BBQ4All trovate la ricetta per questi strepitosi pomodorini). Avrete bisogno anche dei pomodori pelati. Ci siamo, iniziamo a preriscaldare il forno di casa alla massima temperatura. Dai 250°C ai 280°C in modalità statico.

Siete pronti per la cottura. Adagiate la teglia nella parte inferiore del forno, a contatto con il piano. Lasciate cuore almeno 9 minuti o finché la base non sarà dorata e si riuscirà, alzandola con una paletta da cucina, a tenerla dritta senza che ceda. Finita questa prima fase di cottura, togliete la pizza dal forno per il tempo sufficiente a inserire le cime di rapa e qualche pomodorino droga rossa. Rimettete in forno ancora qualche minuto nella parte superiore della griglia, vicino al grill per completare la cottura superficiale. Quindi togliete e rifinite con piccole quenelle di nduja sulla superficie calda, che si scioglieranno al contatto, rilasciando aromi e sapori all’interno della pizza e nell’aria. Spolverate leggermente con lo Smoke Chipotle Chili. Lasciate la vostra pizza per qualche minuto su una griglia, per permettere l’evaporazione dell’umidità in eccesso. Ora potete tagliare e servire. La domanda che ci poniamo tutti, dopo aver realizzato la nostra pizza è sempre la stessa. Avrà le caratteristiche giuste per una pizza tonda? Bella domanda da porsi. Se la vostra pizza regge al taglio e non vi scarica tutto il condimento nel piatto, avrete già raggiunto un buon risultato. Se al morso avrete qualcosa che assomiglia più a un cuscino fragrante e leggero piuttosto che ad un chewingum, tenace e per nulla piacevole, allora l’obiettivo sarà raggiunto, avrete un bel cerchio di acqua, farina e poco altro, che si gonfia sotto il calore costante in maniera uniforme e che al taglio presenta una struttura quasi eterea, ”sparendo” piacevolmente un morso dietro l’altro. Non vi resta che affiancarle un’ottima birra, ma non disdegnate un buon rosso.

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Dopo aver allargato la pizza, rovesciatela sul vostro braccio e scuotetela dalla semola in eccesso, quindi, con l’ausilio di una pala, portatela all’interno di una teglia di ferro blu, precedentemente unta d’olio. Iniziate a farcire partendo dal bordo:fate una corona intorno al perimetro, ricordandovi di lasciare almeno 1 cm di bordo esterno che vi servirà per chiudere il

cornicione. Successivamente, distribuite il cheddar a tocchetti sul pulled pork. Fatto questo, con delicatezza, ripiegate il bordo su se stesso dall’esterno verso l’interno, per chiuderlo e creare un anello ripieno. Quando avete chiuso tutto il bordo, potete passare alla stesura del pomodoro. Versatene al centro un cucchiaio e mezzo e stendetelo in maniera uniforme e circolare. L’ideale è un pomodoro pelato da schiacciare a mano e lasciare un po’ rustico sulla pizza.

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HASSELBACK una patata a senso unico

(Disclaimer necessario: questa parte dell’articolo è stata censurata a causa delle ovvie e scontate battute sulle patate svedesi alle quali il simpatico redattore, redarguito con severo cipiglio e parole di disapprovazione, si era lasciato andare facendosi prendere un po’ troppo la mano n.d.r.) L’argomento del giorno è il nostro tubero preferito. Parliamo di patate, per la precisione patate Hasselback, un piatto caratteristico svedese nato circa tre secoli fa nell’isola di Djurgården, al centro di Stoccolma, nell’omonimo ristorante. Si tratta di piatto piuttosto semplice che ha come ingrediente principale, e pressoché unico, la patata. Più comfort di così. La particolarità di questa preparazione, diventata nel tempo un classico della cucina svedese e un ottimo contorno internazionale, è dovuta al taglio del tubero. Esso deve subire una precottura che lo renda, successivamente, morbido internamente e croccante all’esterno. Vedremo tra poco questi passaggi, ora concentriamoci sulla patata. Come sapete, ne esistono diverse varietà. Ognuna di esse ha caratteristiche e conformazione diverse. In questo caso sicuramente non potremo utilizzare una patata novella, di fresca raccolta e solitamente di pezzatura minuta, poi ché abbiamo bisogno di un calibro leggermente più grosso, a causa della lavorazione che andremo ad effettuare.

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Considerando che le cultivar di patate sono molto simili tra loro, vediamo di distinguerle in tre tipologie differenti che le raggruppano in maniera più esaustiva: a pasta bianca, a pasta gialla e rosse a pasta gialla.

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PATATE A PASTA BIANCA Tra quelle a pasta bianca spiccano le Kennebec e le Majestic, hanno una polpa chiara e farinosa e già quest’ultima caratteristica ci fa capire che non sono adatte alla nostra preparazione, poiché il prodotto deve rimanere integro a fine cottura, senza sfaldarsi.

Ottime sicuramente per contorni o sformati, per preparare gnocchi e dolci, sono anche particolarmente indicate per il purè perché ci permettono di non incorrere nella formazione di grossi grumi. PATATE A PASTA GIALLA Quelle a pasta gialla, per esempio Monnalisa, Agata, Liseta, Vivaldi, Primura, Almera, presentano una colorazione più intensa rispetto alla pasta bianca, dovuta alla maggiore concentrazione di beta caroteni, peraltro molto importanti per il nostro organismo. Questi tuberi hanno una polpa molto compatta, e tendono a non sfarinarsi. Poco utilizzabili per le preparazioni descritte poco sopra, sono patate ottime da friggere e da fare al forno. Perfette da lessare, perché etengono egregiamente la cottura, grazi alla loro compattezza. PATATE ROSSE A PASTA GIALLA Saltiamo a pie’ pari le patate dolci americane ed arriviamo alle patate rosse a pasta gialla. Anch’esse sono molto compatte e apprezzate nelle cucine di alto livello, perché ricche di sostanze nutritive. Ricordiamo che appartegono a questo gruppo quella IGP Rossa di Colfiorito e quella Rossa di Cetica. Da questa analisi veloce, si può facilmente intuire che sia le patate rosse sia quelle a pasta gialla, più facili da reperire, possono andar bene per la nostra preparazione svedese. Come dicevamo prima, la particolarità della patata Hasselback sta proprio nel taglio che potremmo definire a fisarmonica. Viene lamellata per tutta la sua lunghezza con dei tagli verticali e ravvicinati, al punto da renderla sfogliabile come fosse un piccolo libro. Vedremo poco più avanti il procedimento passo per passo. La versione originale prevede pochi condimenti: burro, sale e un trito di erbe aromatiche (timo, salvia, rosmarino). Noi, come sempre accade, l’abbiamo reinterpretata a modo nostro.


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Preparazione:

INGREDIENTI 4 persone

4 patate a pasta gialla di media grandezza 50 g di burro chiarificato 50 g di pangrattato 30 g di Parmigiano Reggiano 8 fette di bacon 200 g provola fresca sale q.b. pepe nero q.b. erbe aromatiche (timo, rosmarino, salvia) q.b. Lime Pepper della linea Sal’s Seasoning Steak Booster q.b.

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il vostro rub preferito della linea Sal’s Seasoning (facoltativo) q.b.

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1. Tagliate una fetta sottile dal lato lungo di ogni patata e create una base d’appoggio per tenerle ferme sulla teglia 2. Munitevi di uno spiedo di metallo. Non consigliamo il legno perché, se la patata è molto compatta, farete fatica sia ad infilarlo che a sfilarlo, con la possibilità che si si spezzi e vi rimangano tracce di legno all’interno del tubero. Infilatelo per il lungo a circa un cm sopra la base della patata, trapassandola interamente. 3. Ora, appoggiando la patata su un piano, tagliate perpendicolarmente la patata in tante fettine sottili, incidendo sino ad arrivare allo spiedo, per tutta la sua lunghezza. 4. Ora immergete le patate in acqua fredda, per cercare di sfogliarle leggermente e far perdere loro l’amido. Questo vi permetterà di aprire i tagli in maniera semplice per poterle condire facilmente. 5. Dopo aver lasciato per mezz’ora le patate in acqua fredda, toglietele e scolatele, asciugandole al meglio che potete senza rompere le sottili fette. 6. Appoggiatele su una teglia ricoperta da carta forno. Sciogliete in un tegamino il burro chiarificato, unite le erbe aromatiche tritate finemente e spennellate le patate, cercando di irrorarle al meglio tra le fettine. 7. Preparate una sabbia con pane grattugiato, parmigiano reggiano, sale e pepe nero. Spolveratela abbondantemente sopra le patate, cercando di farla penetrare anche all’interno delle fettine. 8. Preparate il forno o il vostro dispositivo per una cottura indiretta. Mediamente cuoceranno per circa un’ora, a seconda delle dimensioni delle patate ad una temperatura di 200°C. 9. Nel frattempo preparate le fette di bacon. Dividete in tre parti ogni fettina e piastratele sino a renderle croccanti. Lasciate assorbire l’unto su carta assorbente e tenetele da parte. 10. Quando le patate saranno ben dorate e con la crosticina croccante, provvedete a far fondere il formaggio in una padella e versatelo pian piano su ogni singola patata, cercando di farlo filtrare tra le fette. Ora inserite le fettine di bacon tra le fette, mettendone sei pezzi per ogni patata. 11. Spolverate il tutto con il vostro rub preferito della linea Sal’s Seasoning GLC TOP SELECTION. Noi consigliamo un mix di Dallas e Smoke Chipotle Chily. Unite anche qualche cristallo di Lime Pepper della linea Sal’s Seasoning Steak Booster. 12. Siete pronti a servire a tavola, accompagnandole volendo con verdurine croccanti e con una porzione salsa a base di senape.


TORTA SACHER Sì, ma non per fighetti!

Sulla Sachertorte negli anni sono stati spesi fiumi di parole, sono state formulate un’infinità di congetture e consumate quantità spropositate di latte, di farina, di cioccolato, di uova e di confettura di albicocche nel vano tentativo di riprodurre la ricetta segreta. La maggioranza di noi crede che basti ordinarla in pasticceria per assaporarla, mentre in realtà tutte le torte rivestite con glassa al cioccolato e decorate con la leziosa scritta in corsivo Sacher, che vediamo esposte nelle vetrine delle pasticcerie sparse nel mondo, sono delle imitazioni per quanto spesso di altissima qualità. L’unica originale Sachertorte viene preparata dai pasticceri dell’Hotel Sacher (catena alberghiera di lusso, presente a Vienna, Salisburgo, Innsbruck e Graz) e servita all’interno dei loro Cafè. La ricetta, che sembra prevedere 34 passaggi e l’uso di tre tipi di cioccolato per la glassa, oltre a chissà quali altri misteri, è custodita gelosamente nella cassaforte dell’albergo viennese (fondato da Edward, figlio dell’ideatore Franz Sacher). I pochissimi dipendenti che ne conoscono la preparazione hanno firmato un contratto di segretezza in cui si impegnano a non rivelarla a terzi. A Bolzano abbiamo la fortuna di avere l’unico punto vendita in tutta Europa in cui si possono acquistare i prodotti originali dell’Hotel Sacher di Vienna: si tratta del punto Sacher Shop. Chiunque di voi sia passato da quelle parti, dunque, sa benissimo che la versione originale spesso ha veramente poco a che fare con le torte vendute nelle pasticcerie nostrane.

Il trionfo del cioccolato tanto conteso nasce nel Luglio del 1832 durante la stagione viennese, su esplicita richiesta del principe Metternich, diplomatico e politico austriaco, che il giorno stesso della cena da lui organizzata scese in cucina chiedendo la creazione di un nuovo dessert, tanto buono da non farlo sfigurate. Ad accontentare la richiesta del padrone di casa, rendendo di fatto il banchetto un successone, fu il giovane apprendista cuoco Franz Sacher, da cui la torta prende il nome stesso. Il dolce fu perfezionato nella forma che conosciamo oggi dal primogenito Edward nella pasticceria Demel, dove svolse l’apprendistato. Ma la golosa creazione conobbe la fama quando divenne la specialità di punta dell’Hotel Sacher, fondato dallo stesso giovane nel 1876. Quando l’hotel incontrò delle difficoltà economiche, poco prima della vendita, il nipote di Franz Sacher inizio a lavorare da Demel e di fatto cedette loro la ricetta del nonno. In seguito, i nuovi proprietari della struttura alberghiera vollero avvalersi in esclusiva del marchio perché la Sacher era una specialità del loro cafè e loro ne erano anche i principali fornitori. Di fronte alla paura di un danno economico ebbe inizio la disputa legale finita come ben sappiamo. Ma quindi le centinaia di versioni che abbiamo assaggiato fino ad ora, fatte da pasticceri anche molto famosi, sono da considerarsi non omologabili? Vi stiamo forse dicendo: non chiamatele Sacher? Giammai. Se ci conoscete un po’, sapete che abbiamo fatto della battaglia contro i gastrofighetti una delle nostre missioni. Forse non riuscirete ad ammetterlo, ma lo facciamo noi per voi: in certi casi le varianti sono perfino più buone dell’originale, che qualche golosone esperto di dolci giudicherebbe un po’ troppo asciutta (tant’è che a Vienna è imperativo consumarla con la panna montata che aiuta un po’ a bagnare il boccone). Ovviamente grandi maestri pasticceri come Iginio Massari e Ernst Knam ne hanno fatto una loro versione. La nostra sarà quella per i NON fighetti.

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In realtà sembra che una buona parte dei viennesi consideri migliore la Sacher prodotta dalla storica pasticceria Demel, famosa per aver addolcito la vita della corte imperiale Asburgica con le proprie creazioni, dove lo strato di confettura è posto sotto la glassa, mentre i maestri pasticceri dell’Hotel lo pongono al centro. Entrambi si sono contesi la proprietà del marchio “Original Sacher Torte” attraverso una battaglia legale durata quasi trent’anni (1938-1963). Per concludere la disputa infinita, le parti arrivarono ad un accordo extragiudiziale: l’Hotel Sacher avrebbe posto sulle proprie torte un sigillo di cioccolato rotondo con impressa la dicitura “Original Sacher Torte”, mentre a Demel fu concesso di mettere sulle

torte un sigillo triangolare, sempre in cioccolato, riportante la scritta “Eduard Sacher Torte”. E così, tutti vissero felici e contenti.

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Quelli non così esperti, non così precisi, non così fissati ma che vogliono fare comunque una bella figura. Quella che andiamo a proporvi è una ricetta estremamente semplificata che non aspira alla perfezione estetica, ma all’appagamento dei sensi del vero goloso. Abbiamo pensato che su un numero così carico di calorie, anche il dolce volesse la sua parte e non potesse essere da meno. Rispettando il galateo del vero griller potrete mangiare la torta con le mani e leccarvi le dita sporche di glassa, sognando le prossime grigliate con gli amici, perché torneremo presto a farle.

INGREDIENTI 6 persone

500 g di albicocche sbucciate e private del nocciolo 370 g di zucchero semolato 30 g di zucchero a velo il succo di mezzo limone 90 g di burro (più burro per la teglia) 4 uova 90 g di farina 00 (più la farina per la teglia) una bustina di vanillina 300 g di cioccolato fondente di buona qualità

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130 ml di panna fresca per dolci

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Preparazione:

1. Partiamo dalla confettura. Lavate le albicocche, sbucciatele privandole anche del nocciolo e tagliatele in dadini molto piccoli: la vostra confettura non deve avere pezzi grossi. 2. Mettete la frutta in un pentolino, aggiungete 250 g di zucchero, il succo di mezzo limone e mescolate bene. Cuocete la frutta su un fuoco medio alto per circa mezz’ora, avendo cura di girarla spesso. Quando avrà ottenuto la tipica consistenza gelatinosa toglietela dal fuoco e lasciatela raffreddare completamente. 3. Passiamo alla base del dolce. Sciogliete 100 g di cioccolato fondente spezzettato grossolanamente con 2 cucchiai di panna a bagnomaria. Appena sarà sciolto togliete il tutto dal fuoco e lasciate raffreddare. 4. Prendete una ciotola capiente e con le fruste elettriche montate lo zucchero a velo con il burro tagliato a dadini. Ottenuto un bel composto spumoso, aggiungete i tuorli, il cioccolato fuso, la farina setacciata e la bustina di vanillina. Importante: prima di aggiungere un nuovo ingrediente, il precedente deve essere amalgamato perfettamente al resto. 5. Montate a neve gli albumi con 120 g di zucchero semolato e incorporateli nell’impasto mescolando delicatamente dal basso verso l’alto. 6. Imburrate la teglia e poi spolverate con la farina, togliendo l’eccesso; versate il composto ed infornate a 170°C forno statico per 30-35 minuti. 7. Una volta pronta la torta, (verificate sempre la cottura infilando uno stecchino nella parte centrale, se il legno è asciutto ci siamo), sformatela subito e mettetela a raffreddare sottosopra su una griglia. Infatti la base diventerà la parte superiore della nostra Sacher. 8. Una volta fredda, dividetela in due (orizzontalmente), farcite con la confettura senza esagerare e chiudete con l’altro strato. 9. Rivestite con un velo di confettura di albicocche la parte superiore del dolce e il bordo. 10. Arriva il momento della glassa. Prima di tutto, tritate il cioccolato restante finemente con un coltello. Riscaldate la panna su un fuoco medio alto e quando arriva al bollore toglietela dal calore e aggiungete il cioccolato. Mescolate di continuo fino a che non si è completamente sciolto. 11. Appoggiate la torta su una griglia, con sotto un recipiente per recuperare il cioccolato e versate la glassa sulla torta. Con l’aiuto di una spatola distribuitela bene su tutta la superficie. 12. Preparate un cono con la carta forno, riempendolo del cioccolato caduto, poi chiudete. Tagliate la punta con una forbice e scrivete Sacher, imitando l’originale (ma non troppo, siamo pur sempre NON fighetti). 13. Riponete la torta in frigo 15 minuti solo per far rapprendere la glassa; infatti si conserva benissimo a temperatura ambiente.


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L'Arte Bianca a cura di Alessandro Trezzi illustrazioni di Ozzy Bellesi

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in dalla notte dei tempi, c’è un gesto che ha sempre accomunato il mondo intero, un gesto del quale sono follemente innamorato: avvolgere della carne in un pane basso, anzi che dico, bassissimo. Se ci pensate è una cosa meravigliosa, poetica ed affascinante: interi continenti uniti da una tradizione gastronomica condivisa. Non solo, la stessa cosa si può dire di una delle specialità più celebri dell’odierno street food, e che nei secoli ha fatto il giro del mondo mutando, entrando di diritto nelle diverse culture toccate; lo shawarma libanese, il kebab turco, il gyros greco e il pastor messicano tracciano una linea tra Asia, Europa e America definendo i paradigmi di uno dei piatti più amati della Terra. Del resto potete davvero dire di non amare alla follia della succulenta carne speziata, succulenta, tagliata sottile e avvolta nel vostro pane basso preferito insieme a salse e verdure croccanti?

La cultura dello spiedo verticale Diamo a Cesare quel che è di Cesare: sappiamo benissimo quanto sia facile, con l’avvento delle mode, far ricadere un’intera famiglia di prodotti nel baratro del low cost – low quality; pensate al sushi all you can eat, al cibo cinese e al kebab, la cui immagine nel nostro paese è spesso quella di un piatto da hangover senza infamia e senza lode, la classica pietanza da mangiare per riempire lo stomaco, non certo per godere.

Pita o khubz? Si lo so cosa state per dirmi, tradizionalisti che non siete altro. “Il vero kebab si mangia con il pane arabo, e con nient’altro”. Ebbene, abbiamo in realtà appena visto quanto la cultura del magico spiedo rotante assuma diverse sfaccettature a seconda del territorio, degli usi e dei costumi locali, quindi spiegatemi un po’ perché dovremmo limitarci dal fare ciò che riteniamo più giusto, soprattutto in casa nostra. Ma tralasciando i tradizionalismi, ciò che conta per me è la sostanza e il risultato finale, che devono servire ad un unico scopo: trovare il pane basso definitivo per raccogliere qualsiasi vostra preparazione spiedinata, pullata o dadolata. Chiariamoci, con quel pane potrete poi farci quel che vi pare, ma sarà sempre un’esperienza atomica, ve lo posso garantire. Ma arriviamoci con calma e per definizione; abbiamo già lavorato su tortillas e tacos in un numero dedicato del Magazine, quindi li escluderemo dal contesto in quanto vanno a costruire un piatto completo dal carattere differente. Escludiamo anche il naan, su cui lavoreremo con tutta probabilità in futuro, anche qui per scopi diversi. A darsi battaglia rimangono pita e khubz; analizziamoli brevemente insieme. La pita è un pane piatto, rotondo, a base di farina di

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In realtà, i veri kebab, gyros e pastor sono delle esperienze gastronomiche illustri di tutto rispetto. Vi basti pensare alla loro enorme diffusione nei paesi dotati di forte influenza islamica, come la penisola ellenica, l’Albania, il Messico e la Germania. Eh già, perché spesso si dimentica che il concetto “moderno” di kebab nacque e si sviluppò proprio a Berlino tra il 1971 e il 1972, ad opera di due immigrati turchi: Mehmet Aygün e Kadir Nurman. Furono proprio loro in quel periodo a rivoluzionare il mondo con due idee geniali; mentre Mehmet decise di usare il kebab (che in turco sta per “grigliato, arrostito”) per farcire i panini e concorrere al currywurst, Kadir ebbe l’intuizione di cambiare lo spiedo su cui cuocevano la carne ponendolo in verticale per recuperare la carne in maniera più agile. Era nato il döner (in turco “rotante”) kebab che tutti noi conosciamo.

Un piatto che ha origini ben radicate, derivanti dalla lontana Persia; leggenda narra che i soldati persiani erano soliti cuocere le carni di montone sulle loro spade in epoca medievale. Si trattava di pezzi non particolarmente grandi, un’usanza curiosa ma necessaria per le truppe che dovevano spostarsi spesso e velocemente, e che consentiva di utilizzare meno combustibile possibile. Da quello stesso concetto nacque poi l’odierno e celebre shish kebab, oggi servito con riso, pane naan o pane azzimo. Del resto che companatico sarebbe senza pane? Come dice Aralyn Beaumont nel bellissimo libro “Il tuo cibo è il mio cibo”, “Ovunque viaggiate su questa terra, trovate la carne (o un’altra fonte di proteine base) avvolta nell’amido, e gente che fa la coda per comprarla”. Quindi diamoci da fare, e troviamo un nostro pane Nerd per avvolgere qualsiasi delizia cotta al barbecue.

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grano, che possiamo immaginare come un ibrido ben riuscito tra pane, piada e focaccia, lievemente croccante da un lato, morbido dall’altro. Il khubz (o khobez) è il nome libanese per intendere il pane arabo, un pane basso schiacciato, tradizionalmente poco cotto, che in forno si gonfia lasciando una naturale tasca nella quale racchiudere gli ingredienti. Una tradizione senz’altro di tutto rispetto, ma che nel nostro essere nerd appassionati di pani e di sapori ci porta ad un’inevitabile problema di fondo: quella tasca vuota, senza un minimo accenno di mollica, una volta riempita di quintalate di ingredienti risulterà completamente assente per le nostre papille gustative, fungendo all’unico scopo di mero contenitore. Ma sapete qual è la cosa più divertente? Se fate gonfiare una pita in forno, ottenete un pane arabo. Se non fate gonfiare un khubz, ottenete una pita. Per cui, di fatto, stiamo parlando della stessa identica cosa, solo cotta in maniera differente; per chiara associazione visiva lavoreremo sul primo concetto, e mettiamoci per una volta il cuore in pace davanti ad inutili campanilismi. Ma quindi perché arrotoleremo la carne? Perché per me, che ho nel DNA anni di test e studi su pizze, focacce e pani bassi in generale, giocare con una pita di nuova generazione risulta ben più divertente e soprattutto di grande soddisfazione. E se ancora non siete convinti seguitemi, vi assicuro che da oggi in poi non cucinerete più nient’altro per accompagnare i vostri barbecue quotidiani.

La pita

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Più di quattromila anni fa in Mesopotamia si preparava un impasto modellato come un disco basso e schiacciato, con poca mollica; la stessa preparazione si trasferì poi in Grecia con il nome di pita (tradizionalmente chiamata “pitta”), poi diffusa nel resto del mediterraneo. La stessa pizza e la piadina devono il loro nome e la loro origine a questa preparazione del vicino oriente, dimenticata per molto tempo e oggi riscoperta grazie alla già menzionata diffusione del kebab in Europa. Ora come sempre, da bravi nerd panificatori, focalizziamoci sul risultato finale che vogliamo ottenere e arriviamoci passo dopo passo.

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Ci serve una sorta di piadina più spessa e dal

diametro inferiore, morbida e che si possa arrotolare mantenendo la forma senza problemi; dobbiamo, di fatto, trovare un perfetto compromesso tra una consistenza piacevolissima e scioglievole al morso, una gran tenuta che permetta di racchiudere la farcia fino all’ultimo morso, e soprattutto l’immancabile sapore all’impasto che dovrà accompagnare la carne conferendo identità al vostro panificato. Come lavorare su questa idea? Semplice, ci rifaremo alla definizione a grandi linee che abbiamo conferito alla pita nel paragrafo precedente, e che ripetiamo: un ibrido ben riuscito tra pane, piada e focaccia, lievemente croccante da un lato, morbido dall’altro. Per cui costruire un nuovo metodo per la Pita Nerd è apparentemente facile: impasteremo come se stessimo facendo una focaccia, stenderemo come se stessimo stendendo una piadina, e cuoceremo il tutto come se fosse un pane arabo o un naan. Si, sono sicuro di avervi incuriosito. Proviamo a dare corpo all’idea insieme, passo dopo passo.

L'impasto Impasto della focaccia quindi, ma che focaccia? Siamo abituati a consigliare 0 e 00 per molliche soffici, leggere e asciutte senza ostacoli nella formazione del glutine. E tuttavia, abbiamo già affermato quanto fosse importante per una Pita Nerd avere un suo carattere, un suo bel sapore rustico e acceso che contrasti l’incredibile farcia. Per altro dovremo stendere tutto in maniera sottile con il mattarello, quindi non datevi troppa pena: con il processo giusto e i miei consigli non avrete nessun problema nel creare il vostro bellissimo disco di pasta. Come lavoriamo quindi? Scegliamo un mix di farine di grano tenero di tipo 1 e 2 macinate a pietra lavica, allo scopo di mantenere comunque una grandissima leggerezza e sofficità della poca ma presente mollica, ma al tempo stesso di mediare con umidità e grandissimo profumo. Niente olio, non ci serve, né per la consistenza né per il sapore; tutto ciò di cui avremo bisogno ce lo daranno le ore di riposo, la maturazione, le farine selezionate e la cottura millimetrica. Nell’impasto l’olio ha la funzione di qualsiasi altro grasso: se usato almeno intorno al 6-8% sul peso della farina rende l’impasto più estensibile, malleabile


e, avvolgendo le bolle di anidride carbonica che si formano durante la lievitazione, le stabilizza. L’alveolatura diventa così più omogenea e la struttura della mollica molto soffice. E tuttavia, in concomitanza con l’evoluzione dei prodotti moderni e della ricerca di una leggerezza sempre più accentuata, il suo utilizzo può essere tralasciato senza particolari conseguenze. Ma poi chiariamoci, dovremo buttar dentro alla nostra pita dosi generose di carne, salse e verdure, è preferibile quindi non esagerare con l’apporto di grassi per evitare di appesantire eccessivamente (e inutilmente) l’esperienza. Come già anticipato, saranno le reazioni enzimatiche che avvengono durante la maturazione a conferire tutti gli aromi di cui il nostro impasto necessita per essere sul serio nerd come lo intendiamo noi.

La cottura

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Per una pita profumata, con esterno croccante da un lato e morbido dall’altro, possiamo usare metodi di cottura diversi. Tradizionalmente la pita viene cotta in padella, una per volta, girandola spesso fino a cottura ultimata. Dal mio punto di vista questa metodologia porta a grandissimi limitazioni tecniche, in particolar

modo sul risultato finale: anzitutto ci mettete 6 anni per finirle tutte, rischiando per altro di far seccare le prime se non opportunamente conservate, ma soprattutto faticherete parecchio a cuocerle uniformemente soprattutto all’interno, considerando che la pita (a differenza di una piadina o di una tortilla) avrà uno spessore più elevato. Per cui niente padella per voi, si va di forno. Si lo so, non è tradizionale, ma non importa: è e rimane il metodo migliore per garantire un risultato degno. Per lavorare come si deve, la soluzione migliore è disporre di una superficie refrattaria che grazie all’inerzia termica vi consenta generare una spinta dal basso equilibrata e costante, ottenendo una pita asciutta, sviluppata, con la base croccante ma soprattutto uniforme. Soprattutto, questa operazione vi consentirà di sfornare e infornare nuovamente senza sosta, grazie alla sua naturale capacità di mantenere la temperatura per parecchio tempo. Nel caso in cui non disponiate di una pietra refrattaria, potete usare una teglia rovesciata che andrà opportunamente riscaldata insieme al forno; si tratta di una soluzione meno efficace perché il metallo disperde rapidamente il calore, ma è comunque un ottimo compromesso in mancanza di altro.

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IMPASTAMENTO

L’impasto è molto semplice e può essere realizzato facilmente a mano o in una classica planetaria. Sciogliete il lievito nell’acqua, dopodiché aggiungetene l’80% circa alle farine che avrete precedentemente miscelato in una ciotola o nella vasca della vostra impastatrice. Una volta ottenuta una certa consistenza versate il sale e l’acqua rimanente a filo, sempre aspettando che la dose precedente venga completamente assorbita. Ottenuta una massa liscia e asciutta, a una temperatura di circa 21°C/22°C, datele una forma tonda e riponetela in un contenitore ermetico stretto e dai bordi alti, che ne possa contenere almeno il triplo in volume. Abbiate sempre l’accortezza di ungere lo stesso recipiente e l’impasto di olio per evitare la formazione dell’odiata crosta.

PUNTATA

Lasciate partire la lievitazione a temperatura ambiente per circa 1 ora, dopodiché riponete il contenitore in frigorifero per 18-24 ore a 6°C, in modo da consentire alla maturazione di compiere il suo corso.

INGREDIENTI

per circa 30 pani pita 700 g di farina di grano tenero di tipo 1 (270-280 W); 300 g di farina di grano tenero di tipo 2 (270-280 W); 600 g di acqua fredda; 15 g di lievito di birra fresco; 20 g di sale fino o integrale;

STAGLIO, FORMATURA E APPRETTO

Trascorso il tempo richiesto dalla puntata, togliete l’impasto dal frigorifero e porzionatelo in porzioni da 50 g l’una, formando delle palline perfettamente chiuse e lisce, che andranno poi riposte a 26°C/28°C in una cassetta per alimenti con chiusura ermetica per circa 2 ore, o fino al raddoppio. In questo modo recupererete l’estensibilità persa durante la lavorazione e terminerete la lievitazione, raggiungendo il volume finale necessario.

STESURA E FARCITURA

Spolverate leggermente i panetti con della semola da entrambi i lati e allargate ogni panetto usando il mattarello, formando dei dischi di pasta larghi circa 20 cm e spessi qualche millimetro, per ottenere uno strato omogeneo e privo di gas della prima lievitazione. Il disco sarà molto malleabile, quasi “plastico”, e uniforme in tutta la sezione; bucatelo con una forchetta o una spatola per evitare un effetto “carasau”, ovvero che il glutine si strappi e che il vostro prodotto si gonfi come un palloncino. Oliate leggermente la pita sulla parte superiore (quella che non andrà a contatto con il supporto) e preparatevi all’ultimo, magico step.

COTTURA

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Stabilizzate il forno tra i 250°C e i 270°C (ove possibile) avendo cura di riscaldare insieme la pietra refrattaria (riposta su una griglia da forno) o la teglia rovesciata. Potete poi prelevare la griglia con la pietra o la teglia e adagiarli sul banco da lavoro, in modo da adagiare i dischi in maniera più agile. Con una pala in legno (o con le mani se avete appoggiato pietra/ teglia sul piano) posizionate i dischi sul supporto di cottura e rimettete il tutto in forno in modalità statica e nella parte centrale. La pita andrà mantenuta sempre da un solo lato, senza esser girata, in modo da diversificare le consistenze come già accennato. Quando

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risulterà ben bruna nella parte inferiore e dorata in quella superiore, sfornatela e fatela raffreddare sulla solita griglia rialzata, in modo che la condensi non rovini la spettacolare consistenza appena ottenuta. Prima del servizio datele una leggera riscaldata su una piastra o a 180 °C nel forno stesso, pochi minuti per far riprendere il tepore, dopodiché date sfoggio alla fantasia e farcitele come meglio credete.

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Qualche idea? Realizzate un gyros con fette di coppa di maiale marinate con succo d’arancia, olio e il vostro migliore pork rub, infilzatele sullo spiedo e cuocetele al barbecue, conferendo un’immancabile nota affumicata con del ciliegio.

Farcite la vostra pita con la carne affettata, cipolle, peperoni e indivia cotte in ember roasting e della salsa tzatziki, rigorosamente posta come ultimo livello per fare da collante e mantenervi il rotolo ben saldo. Altro? Realizzate il vostro miglior brisket o delle stupende e goliardiche beef ribs, tagliate delle piccole burnt ends e adagiatele sulla pita insieme a carote, zucchine, germogli di soia e pak-choi saltati nella wok e sfumati con salsa di soia; un tocco di maionese leggera miscelata con aceto di mele e zenzero e il gioco è fatto. Forza, la pita BBQ4All aspetta soltanto voi!


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DAGLI STATES

Across the Pond a cura di Elena Ninotti

No BBQ, no Tailgate party!

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i sono resa conto solo oggi, nel mettermi alla scrivania per il nuovo articolo del Magazine, che forse varrebbe la pena dire due parole su chi sono io. Sono Elena, vivo in Florida e ogni mese cerco di raccontarvi un pezzetto della vita in USA, dove vivo e lavoro ormai da un bel pezzo. Posso dire di conoscerli bene, eppure gli States sono ogni giorno una nuova scoperta, una nuova tradizione. Cambiamento, allo stato puro. Questo ci aiuta anche a capire che non tutti gli americani hanno le stesse abitudini. Gli States sono circa il doppio dell’Europa; sarebbe sciocco pensare che tutti facciano le stesse cose, allo stesso modo poi. Esistono stati densamente popolati, con una mentalità progressista, ed esistono quelli basati su una economia rurale, con una densità abitativa di 2 persone per km2. Con questi presupposti, è abbastanza ovvio che le abitudini sociali di un avvocato della Grande Mela non siano uguali a quelle di un rancher del Montana. Come vi dicevo, io vivo in Florida e, ovviamente, posso portarvi la mia visione di cosa significa vivere qui, giusto 50 km a nord di Miami, in un posto dove la temperatura scende sotto i 15°C solo una decina di giorni l’anno, mentre supera i 35°C per buona parte del tempo restante. Il South Florida è una terra di confine e, come tutti i territori di questo tipo, risente dell’influenza dei moltissimi immigrati che, negli anni, si sono trasferiti qui, in cerca di fortuna oppure, semplicemente, in fuga da regimi politici che non abbracciavano. Se i latini (cioè le persone provenienti dal centro America) sono tra i più presenti tutto l’anno, da ottobre ad aprile, invece, c’è un’altra comunità che si trasferisce a passare l’inverno da queste parti: gli snowbird. Ovvero, i ricchi americani degli Stati del Nord o canadesi, che vengono a passare i rigidi mesi invernali in un clima più mite. Ognuna di queste comunità porta con sé la propria cultura, fatta di abitudini, cibi e profumi, ma tutte hanno una caratteristica comune: quella di cercare di godere il più possibile del clima caldo e della vita all’aria aperta. Perché, diciamocelo, qui si può fare grilling 365 giorni l’anno (stagione degli uragani permettendo). Sì, lo so che state scalpitando e vorreste raggiungermi. Vi capisco. Vi dirò di più: qui, nessuno si tira indietro. Tutti i parchi pubblici sono dotati di aree ristoro con bracieri, tavoli e panche. Il Paradiso del griller. Qualunque compleanno di qualsiasi bambino finisce con la cottura alla brace di hamburger o würstel, e l’amore degli americani per le grigliate raggiunge livelli da veri professionisti. Ogni occasione, anche una partita di football, è buona per portarsi dietro il proprio Weber Genesis, per dare vita a un Tailgate party. BBQ4All Magazine

Quando si parla di Tailgate party, dobbiamo intendere eventi sociali che si svolgono attorno al bagagliaio (tailgate) di un’auto, nelle ore precedenti o successive a una partita sportiva, un car show o un concerto. Per evitare di

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arrivare troppo tardi o rimanere imbottigliati nel traffico, i supporter delle varie squadre arrivano molto presto e occupano il tempo mangiando e bevendo. Non aspettatevi una cosa tristissima, seduti sull’asfalto con un panino, perché qui sono davvero molto organizzati. Intanto, quasi tutti possiedono (almeno) un truck, ossia un pick-up. Il quale diventa davvero comodo quando si deve trasportare una ghiacciaia e un grill a gas, o addirittura uno smoker. Senza contare, ovviamente, le tende, le sedie, i tavoli per apparecchiare e mangiare in compagnia. Non è strano vedere anche spillatori per la birra, macchine per il ghiaccio, blender per i cocktail e, ovviamente, un generatore per far funzionare tutto, mica sono sprovveduti da queste parti! Contrariamente a quello che succederebbe in Italia, non si è rivali finché la partita non comincia. Questo significa che al Tailgate party tutti sono benvenuti e a tutti viene offerto del cibo, anche se si è della squadra avversaria.

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Se il tailgating è parte principale dei raduni prepartita, certamente non è l’unico caso in cui gruppi di persone ben organizzate si radunano per un pranzo all’aperto. La classica giornata in spiaggia, ad esempio, prevede tutta la stessa organizzazione che abbiamo visto precedentemente. I parchi con accesso al mare sono dotati di aree ristoro di tutto rispetto, con padiglioni, tavoli, corrente elettrica, bracieri a carbone e cesti per la spazzatura. Neanche una gita in barca ferma l’americano dal grigliare. Qui sono facilmente disponibili dei dispositivi a gas portatili, da inserire nei fori porta canna del pozzetto, che permettono di arrostire hamburger, wurstel e quanto necessario per uno spuntino in mare. Una cosa che non mancherà mai, in ognuno di questi eventi, sarà la musica a palla. Perché nessun americano o latino-americano che si rispetti esce mai di casa senza la propria cassa personale, che è di dimensione variabile tra una bottiglia da 2 litri e una cassetta per la frutta. A voi lascio le conclusioni sul livello di “rumore” che queste installazioni possano produrre.

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In pieno stile Tailgate, vi lascio due ricette da abbinare alla ciccia grigliata, facilmente trasportabili e di sicuro successo, anche in previsione di un barbecue primaverile

MAC&CHEESE

Ingredienti per 8-10 persone: 500 g di pasta corta/ una lattina di latte evaporato (o 400 ml di un mix al 50% di panna liquida e latte intero)/ 2 grosse uova/ un cucchiaino di salsa piccante (a vostro gusto)/ un cucchiaino di senape in polvere (o una punta di senape normale)/ 500 g di formaggio cheddar grattugiato/ 250 g di American Cheese grattuggiato (o fontina, asiago, casera, taleggio senza crosta)/ un cucchiaio di Maizena/ 115 g di burro tagliato in 4 pezzi/ pangrattato (opzionale) tostato i padella con 20 g di burro Preparazione: 1. Cuocete la pasta decisamente al dente, scolate e lasciate asciugare intanto che preparate la salsa. 2. Mescolate latte, salsa piccante, senape, e uova in una ciotola. 3. In un’altra ciotola, mescolate il formaggio grattato con l’amido di mais. Rimettete la pasta nella pentola, e, a calore basso, aggiungete il burro, un pezzo alla volta, mescolando finché non sarà sciolto. 4. Aggiungete il mix di latte e quello di formaggio, mescolando costantemente, finché il formaggio non sarà ben fuso e ricoprirà, cremoso, la pasta. Fate attenzione affinché il calore resti sempre sotto la temperatura di ebollizione. 5. Assaggiate, regolate di sale e eventualmente aggiungete un po’ di salsa piccante; versate in un contenitore adatto al trasporto. 6. Coprite con pangrattato tostato con un cubetto di burro, oppure, passate in forno sotto il grill per qualche minuto Non è necessario servire bollente, anzi, molto spesso viene mangiato a temperatura ambiente. Varianti: potete aggiungere broccoli e cavolfiore, oppure prosciutto cotto e piselli. Non è un piatto light, le dosi sopra sono almeno per 8-10 persone. Contrariamente a quanto siamo abituati a pensare noi, si tratta di un contorno! Questo significa che non se ne deve mangiare una fondina, ma di solito accompagna la grigliata servito con un porzionatore da gelato, quindi attorno ai 50/80 g a porzione.


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POTATO SALAD

Ingredienti per 8-10 persone: 2 kg di patate farinose, tagliate a cubetti di 2,5 cm per lato/ sale grosso q.b./ 50 g di zucchero/ 6 cucchiai di aceto di riso/ 3 gambi di sedano tritati/ una cipolla rossa fresca media, tritata/ 4 cipollotti freschi, solo le parti verdi tritate finemente, o, in alternativa, erba cipollina/ una manciata di prezzemolo tritato (opzionale)/ 4 cetriolini marinati agrodolci, tipo tedeschi (opzionali)/ 2 cucchiai di senape con i grani/ 250 g di maionese/ pepe q.b.

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Preparazione: 1. Mettete 2 litri di acqua in una pentola capiente, aggiungete le patate, 2 cucchiai di sale, 2 cucchiai di zucchero e 2 cucchiai di aceto; portate a ebollizione a fuoco alto. 2. Abbassate la fiamma e cuocete, mescolando di tanto in tanto, fino a quando le patate non saranno completamente tenere, circa 10 minuti. 3. Scolate le patate e trasferitele su un’ampia teglia in uno strato uniforme, quindi cospargete con altri 2 cucchiai di aceto. Lasciate raffreddare a temperatura ambiente, circa 30 minuti. 4. Mescolate in una grande ciotola i 2 cucchiai rimanenti di zucchero, i 2 cucchiai rimanenti di aceto, il sedano, la cipolla, il verde del cipollotto, la senape e la maionese. Se decidete di usarli, aggiungete anche prezzemolo e sottaceti tritati. 5. Mescolate con una spatola di gomma o una frusta per amalgamare. Incorporare le patate e aggiustare di sale e pepe. Non preoccupatevi se parte delle patate si sbricioleranno, questo

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contribuirà alla cremosità della salsa. 6. Coprite e lasciate riposare in frigorifero per almeno 1 ora, e fino a 3 giorni, prima di servire. Note • Cuocere in acqua salata e acidulata, invece di aromatizzare alla fine, permette di avere bocconi che hanno assorbito gli aromi fino all’interno. L’uso di aceto nell’acqua, inoltre, riduce l’effetto della pectina, la quale rassoda, favorendo invece lo sbriciolamento degli amidi. • Nonostante la presenza di zucchero, patata e maionese, è un’insalata molto fresca che si accompagna bene a grigliate di carne o di pesce • Se non avete aceto di riso, è possibile usa anche quello di mele. Io non amo quello di vino, lo trovo troppo invadente. Se vi piace dare un gusto più accentuato, potete comunque usarlo. Quello di riso, tuttavia, è perfetto per non sovrastare gli altri sapori.


Il raclette Ad un allevatore di montagna due cose sicuramente non mancano: formaggio e patate. Questi sono i protagonisti della raclette, piatto iconico originario del Canton Vallese, celebre ormai in tutta Europa. Oggi trova posto anche nei menù invernali nel nostro arco alpino e spesso, il grill da raclette, fa bella mostra di sé nelle sale dei ristoranti, diventando sinonimo di buon mangiare e convivialità. Si tratta di una preparazione nota sin dal Medioevo e all’epoca, la superficie di taglio del formaggio veniva scaldata vicino al fuoco e la parte fondente veniva raschiata per condire del pane, le patate arrivarono qualche secolo dopo. Proviamo a conoscere meglio l’omonimo formaggio, che va declinato al maschile e quindi avremo IL raclette, poi non perdiamo l’occasione per vedere insieme come cimentarci nella sua produzione. Identikit di un raclette Il raclette di norma si presenta in forme dai 5 ai 7 chilogrammi, con scalzo dritto di circa 10-12 centimetri. Il colore della crosta va dal bruno

L'Arte Casearia a cura di Giovanni Minelli

Il formaggio che non deve mai mancare per... la raclette

al rossiccio, colorazione tipica delle croste lavate, ad opera del Brevibacterium linens. Come si può intuire dalla forma, bassa e larga, stiamo parlando di un formaggio pressato in fascera. Inoltre, si tratta di un formaggio semicotto e semiduro, la pasta di norma paglierina scarica presenta un’occhiatura di media dimensione, poco presente ma ben distribuita. La sua caratteristica principale vi è a dir poco nota: si fonde con enorme facilità. Di norma, si consuma entro i tre mesi di maturazione. Come si fa il raclette A differenza de gli altri formaggi che abbiamo fatto finora, avremo bisogno di una fascera. Come si può vedere dalle fotografie si tratta di una forma senza fondo che può essere stretta facendo scorrere il gattello (quel tassello di legno nel quale passa il cordino). In pratica la pressatura, come per molte altre tipologie di formaggi dell’arco alpino, avviene sia sulle facce sia sullo scalzo.

Ipotizzando la resa media del 10% avremo bisogno di 50 litri di latte per ottenere una forma da 5 chilogrammi, dunque avremo bisogno anche di un bel pentolone per contenerli. Utilizzeremo caglio liquido di vitello 1:10000 e fermenti mesofili, i soliti Lactobacillus bulgaricus e Streptococcus thermophilus. Avremo anche bisogno della tela di lino per l’estrazione della cagliata e per la successiva pressatura in fascera.

Come sempre, l’occorrente: • una pentola abbastanza grande per i 50 litri di latte • un termometro per alimenti • un coltello • una frusta • una fascera • dei pesi • una tavola di legno o un tagliere che copra la fascera • un pHmetro o delle cartine tornasole • una siringa per dosare il caglio • tela di lino

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E gli ingredienti: • 50 litri di latte intero, fresco pastorizzato o crudo da distributore automatico • caglio liquido di vitello 17,5 ml, 1:10000 • fermenti mesofili • sale e acqua per la salamoia

Avendo premura di sistemare i lembi della tela, posizionate tutto nella fascera e cominciate a stringerla finché la massa non superi di almeno un paio di centimetri i suoi bordi. A questo punto ci posizioniamo sopra la tavola di legno con dei pesi, almeno 2,5 kg per ogni chilogrammo di formaggio. Dopo 30 minuti togliamo i pesi, apriamo la fascera e liberiamo il formaggio prima di effettuare la seconda pressatura che avverrà in maniera un po’ diversa dalla prima.

Come sempre partiamo con il latte in caldaia e lo portiamo alla temperatura di 34°C/36°C. Aggiungiamo i fermenti mesofili e, lentamente, teniamo in agitazione il latte per 30 minuti. Sempre nell’intervallo di temperatura 34°C/36° C aggiungiamo 17,5 ml di caglio, o comunque 3,5 ml ogni 10 litri di latte. La cagliata dopo 30 minuti sarà pronta per il taglio e procederemo realizzando dei cubi 10x10 centimetri. Dopo 5 minuti di sosta procederemo con il secondo taglio per arrivare alla dimensione della nocciola. Iniziamo la semicottura, che sarà e dovrà essere molto lenta, l’obiettivo è raggiungere la temperatura di 42°C in 30 minuti.

Se fino a questo momento cagliata e tela erano nella fascera ora solo il formaggio sarà all’interno, mentre la tela rimarrà esterna. Sul piano di lavoro stendiamo la tela, immaginiamola come le pagine del Magazine che stiamo leggendo, al centro della pagina di sinistra posizioniamo la fascera con dentro il formaggio e la stringiamo, ci passiamo sopra la pagina di destra e a questo punto sopra riposizioniamo la tavola di legno, o il tagliere, e di nuovo sopra il peso, che questa volta aumenterà fino ad almeno 3 kg per ogni chilogrammo di formaggio. Dopo 2 ore liberiamo il formaggio dalla tela e dalla fascera per lasciarlo a temperatura ambiente per 12 ore.

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Durante la semicottura terremo in agitazione, lenta e costante, il latte, alternando, se necessario, momenti di fiamma accesa a momenti di fiamma spenta. A questo punto attendiamo 10 minuti nei quali la massa cagliata si depositerà sul fondo.

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Cominciamo a togliere il siero in eccesso con il mestolo fino a lasciarne una quantità che lambisca la massa depositata sul fondo e dopo altri 20 minuti estraiamo la cagliata con la tela. Mi raccomando vivamente di non lavare la tela con detersivi profumati o ammorbidente se non volete un formaggio al sapor di sapone.

A questo punto possiamo procedere con la salatura in salamoia come avevamo già fatto con il Monterey Jack nel numero di Luglio 2020 del Magazine. Vediamo le caratteristiche di questa salamoia: la temperatura rimane in ogni caso di 15°C, pH 5,1 e per la concentrazione


di sale stiamo sui 180 grammi per litro d’acqua. Il rapporto acqua/ formaggio è sempre 4:1 quindi per i nostri 5 kg di formaggio utilizziamo 20 litri d’acqua. Anche in questo caso per portare la salamoia al pH desiderato ci aggiungiamo del siero fino a raggiungere l’obiettivo. Lasciamo il formaggio in salamoia per 24 ore, lo giriamo e poi altre 24 ore a prendere sale. A questo punto possiamo estrarlo dalla salamoia, metterlo a sgocciolare e farlo asciugare per poi metterlo a maturare, dai 60 ai 90 giorni ad una temperatura di circa 12 gradi e umidità relativa dell’85%. Ricapitolando: 00:00 aggiungo al latte a 34°C i fermenti mesofili 00:30 aggiungo al latte 17,5 ml di caglio 01:00 taglio 10x10 cm 01:05 taglio a nocciola e inizio la semicottura agitando lentamente 01:35 raggiungo la temperatura di 42°C e lascio depositare la cagliata 01:45 tolgo il siero in eccesso e attendo 02:05 estraggo la cagliata e la metto a pressare in fascera 02:35 rivolto il formaggio e continuo la pressatura 04:35 libero il formaggio e lo lascio a temperatura ambiente 16:35 immergo il formaggio nella salamoia 40:35 rivolto il formaggio nella salamoia 64:35 estraggo il formaggio dalla salamoia e lo lascio asciugare

Per ottenere la caratteristica colorazione rossastra, tipica delle croste lavate, occorre procedere con delle spugnature: al comparire delle prime muffe le rimuoveremo utilizzando una spugna imbevuta di salamoia. Questa operazione verrà ripetuta almeno una volta alla settimana e comunque sempre alla comparsa di eventuali muffe. Siete pronti a fare Monsieur raclette per Madame raclette? processo non è dei più veloci, ma seguendolo dettagliatamente non commetterete errori. Come sempre, aspetto di vedere le vostre creazioni nella nostra community Facebook Gastronomicamente.

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Vecchia Wagyu...

sta bene nel piatto

Conosciamo la Mother Wagyu, altrimenti detta Aged Wagyu. De Gustibus a cura di Paolo Tucci

Bentornati nel nostro piccolo salotto di rarità alimentari. Oggi vi voglio presentare una cosa totalmente nuova, ma per fare ciò ho bisogno che voi vi sleghiate dai canoni occidentali per abbracciare quelli orientali. Parliamo di Aged Wagyu, altrimenti detta Mother Wagyu. Il nome è sibillino, può trarre in inganno. Per questo vi chiedo di rivedere alcuni vostri concetti, ad esempio quelli che date per assodato. In particolare, dovrete rivedere il vostro concetto di frollatura della carne.

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Per noi occidentali, solitamente la frollatura – e le carni aged, invecchiate – consiste nel far sostare la carcassa dell’animale ad una temperatura controllata per un certo lasso di tempo, affinché si attivino quanto più possibili reazioni enzimatiche di proteolisi. Queste reazioni modificano il sapore, il gusto della nostra carne, arricchendolo e donando profondità e persistenza aromatica.

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Per quanto riguarda l’Oriente, la faccenda è un bel po’ diversa: quindi prendiamo questo concetto e chiudiamolo in un cassetto, per ora non ci serve. Certamente: in Giappone praticano il dry aging, ma ora non è quello che andremo a guardare da vicino, parlando di Aged Wagyu. Perché i giapponesi non “invecchiano” la carne dopo aver macellato l’animale… ma invecchiano la vacca da viva!

Dicevamo Aged Wagyu, quindi: letteralmente tradotto “Wagyu invecchiato”, ma chiamata anche Mother Wagyu per delle caratteristiche che vedremo poi. Iniziamo a collocarle nello spazio e nel tempo: sono vacche giapponesi, che hanno partorito e che hanno dai tre ai dieci anni. C’è qualcosa che non torna, almeno secondo i nostri canoni occidentali (non è facile sbarazzarsene e vi comprendo): vacca che ha partorito, invecchiata, con più di tre anni. Vi aiuto ad entrare di più nella dinamica. Solitamente, nel nostro mondo occidentale, una vacca – dopo aver partorito un certo numero di volte – è pronta per andare al macello. La sua funzione biologica finisce lì, dopo aver generato per il proseguimento della specie, dopodiché inizia la sua funzione “alimentare” per noi umani. Per quanto riguarda l’Aged Wagyu, l’animale di partenza è sicuramente molto diverso da quello solitamente a noi destinato. Parliamo di bovini dalla genetica 100% Wagyu giapponese, un abisso rispetto a quelli presenti in qualsiasi allevamento occidentale. Il Wagyu solitamente si colloca, a buon diritto, nella fascia altissima e pregiata dei consumi di carne; esiste però l’Aged Wagyu, che ci viene in soccorso con un prezzo più consono al mercato occidentale e con delle sfumature di gusto davvero interessanti. Dopo aver concluso il loro ciclo riproduttivo, le vacche destinate a diventare Aged Wagyu non vengono macellate, bensì


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destinate ad un programma particolare di re-feed, cioè di re-ingrasso, totalmente diverso rispetto alla Wagyu tradizionale. Questa è, a dir poco, una trovata geniale: si ottiene così una carne con un rapporto qualità-prezzo sensazionale, mettendo sul piatto un’esperienza gastronomica apparentemente meno ricca di grassi ma ugualmente generosa e stimolante in termini di umami, grazie alla lunga permanenza con alimentazione ad hoc per il reingrasso. Ogni animale ha una storia diversa, un’alimentazione diversa studiata su misura. Per quanto dura questo processo? Parecchi anni, con alcune Mother wagyu che possono arrivare fino a 100 mesi di permanenza totale nella fattoria. Questo porta ad avere una concentrazione di sapore più ricca, una infiltrazione di grasso leggermente inferiore ad una Wagyu A5, un punto di fusione del grasso leggermente più alto. Il sapore è a dir poco esplosivo. L’Aged Wagyu o Mother Wagyu ha una sua peculiarità, un sapore avvolgente, unico e distinto rispetto a carni australiane o americane. Come viene alimentato l’Aged Wagyu? Partiamo dall’orzo, dal riso, dalla crusca,fino ad arrivare al mais,

paglia di lino e particolari grani fermentati utili al microbiota dell’animale. Solo 1200 animali al momento sono stati selezionati per diventare Aged Wagyu, unico modo per poter seguire ogni capo con la precisione e dedizione che contraddistingue la cultura giapponese. Così come ogni essere umano ha una storia differente, in maniera del tutto speculare è così per gli animali. Il pedigree degli animali è studiato con la lente d’ingrandimento. L’alimentazione agisce ed interagisce di concerto con la genetica dell’animale.

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Come abbinare l’Aged Wagyu? Bisogna ricordare che il punto di grasso sarà meno pervasivo, a favore dell’umami. Quindi, dovremo giocare poco sul bilanciamento grasso/acidità, concentrandoci principalmente su contorni golosi e non smettendo mai di sperimentare nuovi abbinamenti, anche arditi, che possano avvicinare questa pietanza squisita alle tavole occidentali.

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Mâitre Pâtissier - il nostro corso di pasticceria a cura del Maestro Pasticciere Pasquale Bevilacqua

oggetti indispensabili per iniziare la propria avventura di pasticceria casalinga FONDAMENTI DI PASTICCERIA: PRIMA PUNTATA

Pasquale Bevilacqua, insieme a suo padre Giuseppe, conduce con successo la Pasticceria Mamma Grazia di Nocera Superiore, Salerno. Maestro pasticciere della nouvelle vague campana, si destreggia abilmente tra il mantenimento della tradizione classica campana di alta qualità ed altissime lievitazioni, di ispirazione italiana e francese. I grandi lievitati delle feste, con firma Pasquale e Giuseppe Bevilacqua, portano ogni anno a casa molti premi nelle rispettive categorie con prevedibili sold out.

“L’arte di preparare dolci è molto più che saper eseguire ricette alla perfezione: è un vero e proprio gesto d’amore.” Il famoso Ernst Knam, pasticciere di gran valore e famoso volto televisivo, ha sicuramente ragione: condivido con onore della mia categoria – quella dei pasticcieri – e mi permetto di aggiungere un’altra cosa: la pasticceria è scienza, tanto quanto tutto il resto del mondo culinario. E questo piace ai lettori del Magazine, giusto? Come ogni scienza, avremo bisogno di strumentazioni adatte anche se si tratta banalmente di “giocare” in casa, sul tavolo della cucina, nella nostra taverna. Dovremo essere bravi nel dosare l’emotività irrinunciabile del dolce “del cuore” e la scientificità data dallo studio. Unendo queste due cose – la ricetta del cuore magari trasmessa da mammà + tutti i miglioramenti del caso – avremo un dolce perfetto. Vi accompagnerò passo dopo passo in questa rubrica dedicata ai fondamenti di pasticceria: essendo lettori di questo Magazine, ben sapete che il cuore (cioè il dosare e verificare ricette “a sentimento”) può essere soltanto l’avvio di una ricetta perfetta. Il resto è fatto dallo studio certosino.

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Per questo motivo – prima di iniziare a studiare – vi farò una breve disamina dei dieci oggetti indispensabili per iniziare la propria avventura di pasticceria casalinga.

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Leccapentola (detta anche marisa): il primo attrezzo che vi consiglio è quello che vi accompagnerà in diverse fasi della preparazione del vostro dolce, fino alla decorazione finale. Si tratta solitamente di una spatolina in silicone adatta al contatto con gli alimenti. La si può usare per emulsionare una crema in pentola, per recuperare panna o altro dalla nostra ciotola, per trasferirla altrove oppure per creare effetti decorativi ad onda sulla superficie di una torta. Termometro digitale: il termometro digitale ad oggi è I-N-D-I-S-P-E-N-S-A-B-I-L-E anche nelle preparazioni casalinghe, incluse le preparazioni di pasticceria. Il termometro sarà un amico insostituibile sia per verificare temperature positive ma anche temperature negative. L’esempio più pratico di utilizzo di un termometro digitale è la possibilità (anzi: la necessità). Se poi ci si vuole cimentare nell’arte della cioccolateria, il termometro sarà indispensabile nelle operazioni di temperaggio. Altri esempi pratici dell’utilizzo di un termometro (in cui sicuramente, voi novelli pasticcieri, vi ritroverete) sono la realizzazione di una crema inglese alla vaniglia ad esempio, per la quale occorre una temperatura precisa di 38°C, per ottenere una Bavarese delicata. Frustino: utile ed inseparabile amico. Vi occorrerà per montare la panna, emulsionare la crema, oppure renderla sottile.

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Carta forno: parliamo di qualcosa di vostra conoscenza, vista la vostra pratica in cucina. In pasticceria è decisamente importanti sia nelle preparazioni basic che in quelle più avanzate. Pan di Spagna, pastafrolla, pastasfoglia: la carta forno ci sarà utile nel processo di doratura e soprattutto eviterà che la parte grassa si attacchi sulle teglie, evitando spiacevoli sorprese nella fase di raffreddamento.

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Sac à poche: dovete decorare una torta? Nessun problema: la sac à poche vi renderà artisti. Si tratta in pratica di un sacchetto triangolare a punta, ove la punta viene “tagliata” e diventa una bocchetta decorativa. La sac à poche può essere di diversi materiali e non mancano quelle “autoprodotte” in casa al momento del bisogno

Setaccio a maglie fini o medie: il setaccio è utile per eliminare grumi ed imperfezioni nella farina, come ad esempio durante la realizzazione di un Pan di Spagna; o ancora, occorre per decorare un delizioso dolce con zucchero a velo, in questo caso avrete per forza bisogno del setaccio a maglie fini. Spatola: utile per livellare e rendere uniforme la superficie di una torta, per il temperaggio del cioccolato ove si necessita di un movimento continuo di questa materia sul banco, oppure per effettuare il decoro di un dolce dove la spatola è necessaria per una specifica tecnica. Coltello a lama liscia: parlare con gli adepti di BBQ4All di coltelli potrebbe sembrare superfluo e invece è quanto di più pertinente possibile, perché i coltelli servono anche in pasticceria. Quello a lama liscia soprattutto occorre per lavori di precisione, come intagli di un decoro in cioccolato o il taglio preciso di un frutto. Inoltre, ci occorrerà nel taglio di alcune preparazioni, come il taglio del pastello per la pasta da cornetto. Bilancia o bilancino di precisione: elemento di base nella pasticceria, indispensabile per la realizzazione di un prodotto di qualità e con solide basi scientifiche, come vogliamo che sia. Il bilancino di precisione è necessario per dosare le grammature piccole, come le spezie o ancora la vaniglia e il sale, caratterizzanti del nostro dolce e che necessitano di dosature molto precise perché vanno ad incidere sul carattere del nostro dolce. Alcuni esempi: la dosatura della cannella nella farcitura di una sfogliatella, o ancora la vaniglia Bourbon in una crema inglese per una mousse. Frullatore ad immersione: necessario per emulsioni, come in una crema che deve essere resa ancora più sottile al palato, oppure per rendere così sottile un confit di frutta da sciogliersi sulla lingua come zucchero nel caffè. Necessario usarlo nella fase finale della realizzazione di una glassa a specchio per eliminare eventuali bolle d’aria e per evitare separazione di acqua al suo interno nella fase di stoccaggio della nostra torta, portando così ad una veloce opacizzazione della glassa.


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Ristoranti:

Acquerello di Fagnano Olona e la sua ricetta del

kimchi a cura di Paolo Tucci

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In Italia, esistono moltissime realtà premiate dalla Guida Michelin. Se proprio dobbiamo dirla tutta, da una punta all’altra dello Stivale sono ben pochi i luoghi che non sono stati battuti o ancora riconosciuti dalla Guida. Quelli che valgono, s’intende. E in questi luoghi, si trova un po’ di tutto: la Michelin ha cercato di fare un percorso coerente con la storia del nostro Paese; primeggia senza dubbio la cucina classica italiana contemporanea, ma non mancano i ristoranti che propongono sperimentazioni nel solco della tradizione.

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Insomma, quello che vogliamo dire è che se si è open minded, ci si diverte, a provare stellati Michelin. Ovviamente, bisogna avere i cordoni della borsa ben disponibili: ma se siete da queste parti, lo Zio vi ha ben istruito. La qualità ed il talento sono cose che si pagano. Raramente, si resta delusi, se ci si rivolge a professionisti riconosciuti del settore. C’è un caso più unico che raro in Italia, riguardo le tavole Michelin: parliamo del Ristorante Acquerello, in quel di Fagnano Olona, in provincia di Milano. Silvio Salmoiraghi e Choi Cheolhyeok è una coppia ben conosciuta dagli amanti di un certo tipo di cucina, cioè quella che si definisce cucina italiana contemporanea. Alla base, c’è un grande rispetto delle materie prime, sia che provengano dal territorio d’origine, sia di altre regioni; su queste materie prime, inizia il ragionamento culinario e gastronomico. Defilato rispetto ai mass media, Silvio

Salmoiraghi è un tutt’uno con la ricerca gastronomica ed i fornelli. La cucina è segnata principalmente da quattro Paesi, a diverse latitudini: Italia, Francia, Korea e Giappone. Due in Europa, due in Asia: due roccaforti agli antipodi, ma che nella cucina di Salmoiraghi e Cheolhyeok riescono ad accompagnarsi e a creare un’unica identità che ha il sapore del futuro gastronomico… perché d’altronde, chi di voi immagina un futuro uguale ad ora? Il futuro sarà per forza diverso; Silvio, poi, ce lo fa immaginare anche migliore. In esclusiva per i lettori del Magazine BBQ4All, avremo tra le nostre pagine una ricetta pregiata, e ci auguriamo possiate cimentarvi per riprodurre tra le vostre mura domestiche e per portare un po’ di “modernità” tra le vostre cucine tradizionali. Parliamo del rinomato Kimchi Acquerello di Choi Cheolhyeok. Si tratta di uno dei piatti iconici del ristorante; ci sentiamo molto fieri di avere la ricetta in esclusiva e ringraziamo Silvio e Choi per la gentilissima concessione. Speriamo di esserne all’altezza nel riprodurla!


KIMCHI ACQUERELLO

di Choi Cheolhyeok

Ingredienti: 3,5 kg cavolo cinese (porre sotto sale grosso e utilizzare dopo 5 ore)/ 1 daikon intero (tagliare a bastoncini lunghezza 5-6 cm)/ 80 gr cipollotti (tagliare a bastoncini lunghezza 5 -6 cm)

Ingredienti: 30 g farina di riso glutinoso/ 250 g acqua a temperatura ambiente Preparazione: 1. Incorporate la farina di riso e l’acqua, mescolate energicamente con la frusta per evitare la formazione di grumi; nel frattempo portare a bollore. 2. Otterrete così una crema di riso; spegnete subito e fate raffreddare. BBQ4All Magazine

Preparazione: 1. Lavate il cavolo cinese asciugandolo con un canovaccio o torcione, tagliatelo a metà, cospargetelo di sale grosso strofinando per far penetrare il sale tra le foglie, mettetelo in una bastardella/ ciotola sotto un piatto e appoggiate un peso (va benissimo anche una pentola colma d’acqua) e lasciatelo due ore a scolare. 2. Lavate e pulite la parte verde dei cipollotti e tagliate a bastoncini.

CREMA DI RISO ACQUERELLO

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SALSA KIMCHI ACQUERELLO

Ingredienti: 2 cup polvere peperoncino coreano/ ½ cup gamberetti fermentati sotto sale/ ½ cup salsa di pesce coreana/ ¼ cup succo concentrato di prugne/ ¼ cup cipolla frullata/ 30 g aglio tritato/ 10 g zenzero tritato/ ½ cup pera frullata Preparazione: 1. Mescolare insieme la salsa e la crema di riso. 2. Mescolare la salsa piccante così ottenuta con daikon tagliato e cipollotti tagliati. Distribuire il composto tra le foglie di cavolo e coprire il cavolo con la salsa rimasta. 3. 2/3 giorni nel fermentatore ed è pronto.

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Una volta pronto potete mangiarlo crudo, saltato, bollito o come contorno con riso bianco al vapore o come utilizzarlo come ripieno. La salsa rimanente può essere usata anche in preparazioni bbq per chi gradisce un tocco più orientale ai propri lavori. Ad esempio, potete accompagnarlo a delle ribs.

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BBQ4All: FROM ZERO TO HERO Capitolo III - a cura di Emiliano Nencioni

Myth busting

Sfatiamo i miti del barbecue punto per punto

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ino a pochi anni fa, e sovente ancora oggi in replica, era possibile vedere in un TV un divertentissimo show: MythBusters, un programma di divulgazione scientifica in cui i conduttori Adam Savage e Jamie HynemanIl mettevano alla prova leggende e miti urbani. Poco più di 40 minuti conditi con scienza, fine umorismo, un po’ di sagacia, esplosioni e detonazioni come se non ci fosse un domani. Insomma, un programma adatto a tutta la famiglia Con un po’ di immaginazione, possiamo tranquillamente fare un parallelismo tra le leggende urbane e i miti del barbecue. Oggi proviamo a sfatare alcuni tra quelli più comuni, che tutti gli amanti dell’american bbq hanno sentito almeno una volta. Ci sono alcune convinzioni dure a morire (5 minuti sull’osso, il sale solo dopo la cottura, mi raccomando la fettina bella magra!) che possono seriamente ostacolare il progredire e il migliorarsi. Riuscire a distinguere in maniera precisa e accurata fatti inventati da realtà scientifiche è ciò che distingue il bucasalsicce della domenica dal perfetto grill master.

Mito 1: la conversione del collagene, lo scioglimento del grasso o la denaturazione delle proteine provocano “lo stallo”.

La frustrazione di ogni grigliatore inesperto (e non solo) è lo stallo. Questo fenomeno lo si può osservare dopo circa una o due ore dall’inizio della cottura: la temperatura interna del pezzo di carne rimane ferma - a volte scende anche un po’ - e provoca parecchio panico in coloro che devono servire il pasto alla famiglia o agli amici e vedono avvinarsi pericolosamente l’ora del servizio. Ogni pitmaster ha la sua teoria, che di solito coinvolge la conversione del collagene. ovvero la reazione in cui il calore e l’acqua sciolgono le molecole di collagene in gelatina. Alcuni credono che invece sia lo scioglimento del grasso il responsabile dello stallo. In altri casi la denaturazione delle proteine viene additata come responsabile. Sebbene sia vero che tutti questi processi richiedono energia termica, nessuno di essi ne richiede abbastanza da causare lo stallo. In realtà il colpevole è un fenomeno noto come raffreddamento evaporativo. Questo processo dissipa enormi quantità di calore e interrompe l’aumento di temperatura interna nella carne. Fondamentalmente, la carne suda: l’umidità evapora e raffredda la superficie della carne, rallentando la cottura.

Mito 2: usare chunk e chips di legno immerse in liquidi saporiti (birra, vino, whiskey) renderà più saporita la carne.

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La maggior parte di questi liquidi di ammollo nei quali immergiamo il legno reagiscono, se riscaldati, per formare vapori che hanno una composizione completamente diversa. Immergere quindi chunks o chips in un liquido ridurrà la velocità combustione e danneggerà la qualità del fumo. Entrambe le reazioni, sicuramente, non lo renderanno più saporito.

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Mito 3: smoke ring = sapore.

Lo smoke ring è forse una delle perversioni più ricercate tra i grillers. Appena sotto il bark ci si aspetta di vedere uno strato di carne dal colore rosa, tratto distintivo, secondo molti, di un barbecue ben fatto. Questo variazione cromatica della carne è il risultato della reazione che avviene tra la mioglobina (una proteina globulare) e i gas della combustione (protossido di azoto e monossido di carbonio). Il risultato di questa reazione chimica è chiaramente visibile ma non apporta sapore alla carne. Ciò non significa che non sia importante, infatti previene l’irrancidimento derivante dallo sviluppo e dallo stabilizzarsi della tonalità rosa della mioglobina. E poi, sicuramente rende il pezzo di ciccia più bello alla vista.

Mito 4: le membrane nel cibo bloccano la penetrazione del sapore.

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Le membrane biologiche possono bloccare alcuni liquidi, ma i vapori le attraversano dissolvendosi nella carne umida sottostante. Alcuni pitmaster insistono per rimuovere la membrana nelle costolette di maiale prima di cuocerle; altri non prenderebbero mai in considerazione una cosa del genere. La scelta è soggettiva, ma la presenza di membrane non impedirà al fumo, o al sapore, di penetrare nella carne.

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Mito 5: il fumo di qualità proviene solo da pezzi solidi di legno: la segatura e il pellet dovrebbero essere evitati. Si possono ottenere ottimi risultati usando segatura e il pellet per affumicare il cibo. Il problema eventualmente può sorgere qualora venga chiusa eccessivamente la canna fumaria. Scarseggiando l’apporto di ossigeno si avrà una combustione incompleta e la conseguenza sarà un fumo di scarsa qualità.

Mito 6: i catrami e le goccioline d’olio nel fumo creano una skin e cambiano il colore nel cibo.

Sia il sapore che il colore delle carni affumicate derivano tra le reazioni tra il cibo e le sostanze volatili gassose presenti nel fumo (non il fumo osservabile a occhio nudo, che è già una combinazione tra goccioline liquide e solidi fuligginosi). Una scintillante pellicola è il risultato dato da una combinazione di resine create quando i carbonili e i fenoli nel vapore interagiscono con proteine, zuccheri e amidi sulla superficie del cibo, non dai catrami e dalle goccioline di olio che possono cadere sul cibo. Ma cosa è esattamente questa pellicola? Quando le proteine della carne sotto le spezie si legano e si aggregano, formano un complessa matrice legata di composti chiamati polimeri che


formano uno strato chiamato skin (pellicola sulla superficie) appena sotto la crosta di spezie. La skin è solitamente spessa meno di un millimetro, come ad esempio l’etichetta sopra una lattina. Una volta che i polimeri si sono formati, sono permanenti e il loro legame non può essere sciolto. In effetti, nei locali del Southern Barbecue senza fronzoli, dove i pitmaster usano solo sale sulle costine low&slow, il bark è talmente ridotto da essere assimilabile alla skin. Questo potrebbe rappresentare una complicazione perché la skin può diventare dura se non c’è sufficiente rub e se l’umidità nella camera di cottura e troppo bassa. Farlo bene è un’arte.

Mito 7: più la carne è grassa maggiore sarà il sapore di affumicato che si otterrà.

Mito 8: solo i cibi crudi possono assorbire il sapore.

Questo mito probabilmente è nato a causa del case-hardening (indurimento della skin), una conseguenza legata ad un’affumicatura errata. A causa di ciò sul cibo si sviluppa una skin indurita che blocca la penetrazione del sapore. Tuttavia, finché la superficie del cibo è umida, i vapori aromatici continueranno a essere assorbiti per poi diffondersi nel cibo. La dimostrazione di questo fenomeno è ad esempio osservabile nei cibi che vengono precotti sottovuoto. Una volta sul barbecue riescono comunque ad assorbire il fumo.

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Il contenuto di grassi nella carne e nei frutti di mare ha un forte impatto sulla capacità di assorbimento del sapore proveniente dal fumo sul cibo. Questo è dovuto al fatto che i fenoli saporiti nel

fumo aderiscono più facilmente al tessuto adiposo. Il grasso nel cibo quindi raccogli aromi che sarebbero meno evidenti (o in alcuni casi del tutto assenti) se non fosse presente. Di contro però un eccesso di grasso sulla superficie impedirà ai sapori di penetrare nella carne e diffondersi uniformemente su di essa.

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La ricetta scientifica a cura di Gianfranco Lo Cascio

Lo spezzatino

Certo che è incredibile.. Cosa?

Pensavo a quanto è difficile oggi mangiare dell'ottima carne in umido. Brasato, spezzatino, stracotto. Mi ricordo da bambino, alla domenica, quando andavo da nonna, c'era un profumo che invadeva casa e non vedevi l'ora di sederti a tavola per mangiare. Che fame mi veniva. E le tagliatelle al ragù. Eh si, anche quelle. Ma il profumo dello spezzatino, non so perché, resta quello che più manca. Era complesso, rotondo. Poi quando lo mangiavi sentivi questa carne sciogliersi in bocca. Il sugo era denso, non so che intrugli facesse lei. Saranno state le patate o forse le carote, non so. Resta che quel sugo era denso, brillante, potente. Forse perché da bambino gli odori e i sapori ti restano più impressi ma ti giuro, senza campanilismo, che uno spezzatino buono così non l'ho mai mangiato. Si si, ti capisco. Io ho lo stesso ricordo ma con il ragù. Nonna mi faceva sempre pucciare un po' di pane nel tegame ma di nascosto altrimenti mamma si arrabbiava. Che buono quel ragù. Ma raccontami di questo spezzatino, mi hai incuriosito. Come lo faceva? Ma che ne so. Ricordo bene che c'erano le patate e le carote tagliate a cubettoni grossi. Avevano un colore scuro, erano morbide ma integre, tenere al punto giusto. La carne non la tagliava a pezzi. Mamma lo faceva così. Nonna te la metteva nel piatto a fette, poi metteva le verdure attorno e le bagnava con questo sugo denso. Io raccoglievo il sugo con le patate ma anche col pane.

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Da noi c'era quasi sempre la polenta.

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Eh ma qui non si usava. Nessuno la cucinava mai. Ma c'era il pane di grano duro, quello bello tosto. Lo inzuppavi che era una meraviglia. Quello che mi ricordo era la carne. Buona, tenera. Ogni tanto arrivava qualche pezzo di cartilagine ma era talmente morbida che mi piaceva masticarla. Anche qualche pezzetto di grasso. Ma poco, il grosso lo toglieva sempre. Il pane lo scaldava con cura in forno prima di metterlo a tavola. Anche quello, che profumo. Mamma, mentre te la racconto sto sbavando, riesco a sentire di nuovo quegli odori che sentivo a tavola.


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Ma quindi dovresti conoscere la sua ricetta. Perché non te la fai a casa. Ma in realtà non è mai saltata fuori. E poi come faccio, mica ho tempo di star lì a cuocere per ore. Ci ho provato qualche volta ma non viene mai come quello lì. Quello di Nonna era sempre uguale, sempre perfetto, sempre lui. Beh ma guarda che le tecniche per farlo esistono, basta imparare quelle e con qualche tentativo si riesce eh. Come ti dicevo, io avevo una predilezione per il ragù di Nonna. Ho imparato a farlo e tutte le volte mi viene uguale. Te lo giuro, mi fa tornare bambino. Quanto me lo godo quando lo preparo.

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Mi hai fatto ritornare la voglia di fare lo spezzatino. Cos'è che devo fare per avere lo stesso risultato secondo te?

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Ma guarda, non è così complicato. Per prima cosa ti servono dei tagli “di scarto”. Li fai tostare, in tegame o in forno, finché diventano scuri. Poi fai un soffritto di sedano, carote, cipolla e patate tagliate a cubettini, aggiungi un po' di vino rosso e con un cucchiaio di legno stacchi dal fondo tutti gli umori rappresi. Lasci evaporare il vino, aggiungi un po' di brodo e fai cuocere finché i ritagli di carne non si sfaldano. Aggiungendo acqua se serve.

E poi? Che ne faccio dei ritagli? Eh, aspetta, ti sto spiegando. Quando vedi che il fondo è bello scuro e marrone lo filtri e togli tutti i ritagli di carne, ma la verdura no, la frulli. Il fondo lo tieni da parte per dopo. Ma che carne devo farmi dare dal macellaio? Per i ritagli ti fai dare un po' di ossa, cartilagini, carnetta, roba che non può vendere insomma. La userai per il fondo. Per la ciccia vera e propria puoi chiedere del biancostato o un reale o la punta di petto. Anche il garretto volendo, viene molto potente però. E poi? E poi prendi un altro tegame, aggiungi la carne tagliata come preferisci e la fai rosolare bene, inteso che deve colorarsi, fare una bella crosta. Questa crosta è il prodotto delle Reazioni di Maillard e sono quelle reazioni secondo cui proteine e zuccheri riducenti, quando sottoposti a calore, formano molecole profumatissime e gustosissime. Pensa alla crosta del pane, alla pelle del pollo arrosto. Ecco, tutte Reazioni di Maillard. Questo è il momento in cui lo Zio interrompe il racconto per approfondire il primo step. Vi prometto che poi riprendiamo col dialogo.


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LE REAZIONI DI MAILLARD C

he non sono le faccine che il dott. Maillard sceglierebbe per i vostri post su Facebook. Parliamo di reazioni, che avvengono in tre fasi separate, fra gli zuccheri riducenti e gli amminoacidi. Ma affacciamoci per un istante sul passato. Louis Camille Maillard è un medico francese nato nel 1878. Dopo la maturità, conferitagli a sedici anni, si laureò a soli diciannove anni in Scienze. E credetemi quando vi dico che non aveva proprio niente a che fare con la cucina: studiava le malattie dei reni. Fu proprio durante le sue ricerche in campo medico che scoprì alcune reazioni tra zuccheri e amminoacidi, che da lui prendono l’altisonante nome. Sfortunatamente, però, le sue ricerche furono sepolte dall’oblio fino alla Seconda Guerra Mondiale, quando alcuni ufficiali dell’esercito americano cercarono di capire perché il cibo disidratato dei soldati si scurisse con il tempo. Ma in cosa consistono queste reazioni? Scaldandosi, gli zuccheri detti riducenti e gli amminoacidi contenuti nella carne si legano e creano centinaia di nuove molecole, perdono acqua e producono immine (il gruppo aldeidico o chetonico dello zucchero e il gruppo amminico dell'amminoacido formano un ponte tra i due composti organici, dando luogo quindi a nuovi composti). Continuando a scaldarsi, il legame fra zuccheri e amminoacidi degenera, la perdita d’acqua accelera e l’insieme forma i composti di Amadori e di Heyns. Segue la degradazione di Strecker che produce composti scuri e aromi caratteristici.

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Detto con parole più semplici? Le Reazioni di Maillard si traducono nei profumini della bistecca dorata, del pollo arrosto e della crosticina croccante del pane.

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Contrariamente a quello che si sente dire spesso, le Reazioni di Maillard iniziano a prodursi già a temperatura ambiente, molto lentamente, senza cottura. E ritorniamo alla faccenda dei soldati di cui sopra.


Prendiamo il prosciutto crudo: avete presente quando, tenuto all’aria, si scurisce? Quel cambiamento cromatico è dovuto, fra le tante cose, alle Reazioni di Maillard. Quando il calore aumenta, le reazioni si moltiplicano: la temperatura aumenta di 10°C? Le reazioni si moltiplicano per 100. Passando dai 20°C della temperatura ambiente ai 130°C dell’esterno della bistecca, il numero di reazioni si moltiplica di 10 trilioni. Incredibile vero? Quando la carne si è un po’ asciugata e la temperatura esterna supera i 130°C, le reazioni avvengono molto velocemente. A 180°C (mi riferisco alla temperatura della carne e non della padella o del forno) queste reazioni lasciano il posto alla pirolisi. La carne si brucia insomma. Cosa succede quando si adagia un pezzo di carne di manzo su una piastra rovente? Con il calore, zuccheri e amminoacidi si legano, ma la reazione è invisibile a occhio nudo. Il legame inizia a perdere acqua, ve ne accorgete quando inizia a risalire quel leggero fumicciatolo bianco. Con l’aumentare della temperatura, l’acqua continua ad evaporare e il fumo bianco aumenta.

1. CALORE Innanzitutto, serve calore, molto calore: per innescare rapidamente le prime reazioni servono una padella, una piastra o un grill ad almeno 180°C. 2. GRASSO Servono zuccheri, amminoacidi e acqua, tutti già presenti nella carne. Ma se si aggiunge un elemento grasso, si aumenta la trasmissione di calore e quindi la rapidità delle reazioni. È per questo motivo che una carne unta si rosola molto meglio, più velocemente e in modo molto più uniforme rispetto a una carne non unta. 3. ASCIUGARE, ASCIUGARE, ASCIUGARE! La carne contiene fra il 70% e l’80% d’acqua mentre le reazioni di Maillard si producono in modo più efficace quando l’acqua contenuta nella carne è fra il 30% e il 60%. Perciò, ecco due cose importanti da fare: asciugare la carne con della carta assorbente prima di cuocerla oppure togliere la carne dal frigorifero con largo anticipo e asciugarla in forno. Ma riprendiamo con il racconto.

Dopo aver ottenuto la crosticina croccante, prendi i tuoi pezzetti di carne rosolata e mettili in un sacchetto, sottovuoto. Imposti la temperatura e lasci andare. In questo momento la carne inizierà a rilasciare liquidi dentro al sacchetto. Questo accade perché il calore fa contrarre le fibre e questa contrazione fa espellere i liquidi. Ma a te va bene perché te li ritrovi comunque nel piatto. E le patate quando le metto? Le patate le cuoci in un sacchetto a parte. Cominciano a perdere struttura quando superano i 90°C di temperatura. Anche la carne inizia ad intenerirsi a quella temperatura. Perché avviene l'idrolisi del collagene cioè il tessuto connettivo che prima rendeva la carne dura adesso è diventata gelatina. Ed è quella che genera la succulenza che ti piace tanto, quel gusto rotondo, pieno, succoso. Ma pensa te. Ecco cos'era. Esatto. Facciamo una pausa in modalità Alberto Angela.

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I profumi cominciano a pervadere la cucina. Il lato della carne a contatto con la piastra comincia a cambiare colore, da rosso ad ambrato. Col tempo l’esterno si fa più scuro e marroncino.

Reazioni di Maillard: cosa bisogna fare per favorirle

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IDROLISI DEL COLLAGENE

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l collagene è strutturato come una corda: all’inizio ci sono 3 fili attorcigliati insieme. Poi si arrotolano insieme più gruppi di fili attorcigliati, e poi ancora più gruppi di fili e così via, fino a ottenere una corda resistentissima. Una volta assemblate, le corde formano una guaina che circonda le fibre della carne, per tenerle incollate. Questa guaina circonda le fibre ma anche i fasci di fibre muscolari, i fasci dei fasci e così via, fino a circondare l’intero muscolo. Scaldandosi, le guaine di collagene si restringono, si contraggono ed espellono i succhi contenuti nelle fibre.

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A 60°C - Il collagene si irrigidisce ma non si contrae ancora. Espelle pochi succhi. A 68°C - Quanto più si alza la temperatura, tanto più si contrae. A 100°C - Quanto più si contrae, tanto più le fibre espellono una grande quantità di liquidi.

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Quando il collagene è sottile e poco resistente, una cottura breve è sufficiente per scioglierlo e rendere la carne tenera. Al contrario, quando è spesso e

coriaceo è necessaria una cottura lunga in un ambiente molto umido per riuscire a scioglierlo. Si trasforma allora in una gelatina che assorbe l’acqua. Risultato: la carne ritorna succosa. È per questa ragione che anche con una cottura molto lunga le carni dure rimangono morbide. TAGLI TENERI VS TAGLI DURI Ci sono muscoli che lavorano molto e altri un po’ pigri, che lavorano meno. Non hanno tutti la stessa struttura e questa è la ragione principale che determina le carni tenere e le carni dure. UNA QUESTIONE DI GRANA Avete già sentito parlare della grana della carne? I professionisti si esprimono così per definire la struttura e la dimensione delle fibre, cioè la tessitura. Quanto più un muscolo è sottoposto a sforzi prolungati e/o sostenuti, tanto più le sue fibre sono spesse e corte. Al contrario, quanto più un muscolo è pigro, tanto più le sue fibre sono lunghe e sottili. Le fibre spesse dei muscoli lavoratori sono molto, molto più dure da masticare rispetto alle fibre dei muscoli pigri.


Questa è la ragione principale della durezza o della tenerezza della carne. Muscolo pigro = grana fine Muscolo lavoratore = grana grossa Grana fine = collagene sottile = carne tenera Grana grossa = collagene spesso = carne dura IL COLLAGENE, ANCORA E SEMPRE LUI… Le fibre dei muscoli pigri sono avvolte da un collagene sottile e tenero, mentre quelle dei muscoli attivi sono avvolte da un collagene spesso e duro. Ecco perché si adottano cotture brevi o lunghe a seconda che le carni siano tenere o dure. CARNI DURE Si definiscono dure le carni che contengono molto collagene, come quelle per il bollito o lo spezzatino, per l’appunto. Per renderle tenere, occorre sciogliere il collagene, azione che si produce a partire da una temperatura di 65°C. In realtà, accade una cosa buffa: la carne si scalda e perde dell’acqua; anche il collagene si scioglie e si trasforma in gelatina. E ta-dà! Ecco che accade la magia! La gelatina, come una carta assorbente, riassorbe l’acqua. Insomma, in poche parole, durante la cottura dello spezzatino la carne si asciuga e poi riassorbe l’acqua che ha perso, ritornando succosa. Incredibile, no? 1. La carne si scalda, perde dell’acqua, si asciuga e il collagene si scioglie. 2. Sciogliendosi, il collagene si trasforma in gelatina. 3. La gelatina assorbe l’acqua che la carne aveva perso. E si ottiene una carne morbidissima e scioglievole.

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CARNI TENERE... CHE TENERE DEVONO RESTARE Ottenere carni tenere sarebbe semplice se risultassero tutte “al sangue” o ben cotte alla stessa temperatura. Madre Natura però ci ha smantellato un po’ i cabbasisi. Affinché un pezzo di ciccia resti succoso, alcune proteine devono modificarsi, altre no, altrimenti la carne diventa dura come una mensola IKEA. Per semplificare, è necessario che la miosina si denaturi (cioè cambi la struttura proteica) ma anche che l’actina non si modifichi troppo. E le temperature a cui avvengono questi cambiamenti sono diversi per ogni animale. Per quanto riguarda il manzo, l’actina si denatura dai 65°C ai 75°C, mentre la miosina si denatura dai 50°C ai 60°C.

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Ma ritorniamo all’amabile dialogo pregno di amarcord.

Ma con quel fondo di prima? Che ci devo fare? Quando vedi che la carne è ben tenera e le patate sono della consistenza giusta, togli carne e patate dai sacchetti, metti tutto in un tegame e versa il fondo. Poi sciogli un cucchiaio di amido di mais in un bicchiere d'acqua fredda e mescola bene. Che sia fredda però, altrimenti ti vengono i grumi. Quando tutto è a bollore versa poco alla volta la miscela di acqua e amido e vedrai che il sugo inizierà ad addensarsi. Ma posso metterci anche le carote? Nonna lo faceva con patate e carote. A volte ci trovavo anche del sedano. Certo ci puoi mettere quello che vuoi, anche cipolle. Ma l'amido a che serve? L'amido ha la capacità di far gelatinizzare i liquidi. Ecco perché il sugo di tua nonna era così denso: usava l'amido. A partire dai 75°C l'amido fa gelatinizzare il liquido di cottura e lo addensa creando questa salsa brillante e viscosa. Il racconto si interrompe di nuovo, ma giuro che è l’ultima volta!

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COSA SONO GLI AMIDI

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LA STRUTTURA L’amido è un polisaccaride costituito da lunghe catene di molecole di glucosio collegate tra loro sotto forma di amilosio (che è composto principalmente da molecole lineari) o amilopectina (le cui molecole sono altamente ramificate). Le proporzioni di amilosio e amilopectina che si trovano negli amidi variano a seconda della fonte vegetale dell’amido, ma la maggior parte di essi contiene circa il 75% di amilopectina e il 25% di amilosio. È il contenuto di amilosio variabile a causare differenze di consistenza negli alimen-


ti: amidi e fecole con livelli più alti di amilosio tendono a gelificare, mentre quelli con un contenuto più elevato di amilopectina ci daranno un prodotto “gommoso”. Amido

Amilosio %

Amilopectina %

Patata

21

79

Tapioca

17

83

Mais

28

72

Mais "ceroso"

0

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LE CARATTERISTICHE DEGLI AMIDI Gli amidi subiscono quattro processi: gelatinizzazione, gelificazione, che è la formazione del gel, retrogradazione e destrinizzazione. Sono queste capacità che li rendono così preziosi nella preparazione dei cibi, anche se alcuni sono più utili di altri. La concentrazione di amilopectina e amilosio determinano e fissano il range di temperature entro i quali questi fenomeni hanno luogo. Tipologia di amido

Temperatura critica

Caratteristiche dell'amido cotto

Radici e tuberi (patate e tapioca)

56°C - 70°C

Viscoso, pasta semitrasparente, gel poco stabile

Cereali (mais, sorgo, riso, frumento)

62°C - 75°C

Viscoso, pasta opaca, gel stabile

Ibridi cerosi (mais e sorgo)

63°C - 74°C

Molto denso, pasta chiara, resistente alla gelificazione in fase di raffreddamento

Ibridi ad alto contenuto di amilosio (mais)

100°C - 160°C

Rigido, pasta opaca, gel molto stabile

FATTORI CHE INFLUENZANO LA GELATINIZZAZIONE La gelatinizzazione dipende da diversi fattori: quantità d’acqua, temperatura, tempi di cottura, agitazione e presenza di acidi, zuccheri, grassi e proteine. Acqua Deve essere disponibile in quantità sufficiente per l'assorbimento da parte dell'amido. La percentuale di liquido necessaria dipende dalle concentrazioni di amilosio e amilopectina nell'amido. Quando si preparano alimenti amidacei come i cereali o la pasta, l’acqua non viene aggiunta solo per coprire l’alimento, ma anche per consentire l’evaporazione e l’espansione in termini di volume. Temperatura Gli amidi non si dissolvono in acqua fredda o a temperatura ambiente. Nei liquidi riscaldati, i granuli di amido si gonfiano e scoppiano, rilasciando più particelle di amido nel liquido. L'intervallo di temperatura entro il quale la gelatinizzazione può verificarsi varia a seconda del tipo di amido. L'ispessimento inizia di solito a circa 60°C. Alcuni amidi derivati da radici, come la tapioca, hanno alte concentrazioni di amilopectina, e questo innesca l'ispessimento a temperature più basse. La maggior parte degli amidi gelatinizza quando la temperatura raggiunge i 56°C-75°C. Più grandi sono i granuli di

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LA GELATINIZZAZIONE Avviene quando i granuli di amido vengono riscaldati all’interno di un liquido. L’acqua, il latte o il brodo sale di temperatura, i legami di idrogeno che tengono insieme l’amido si indeboliscono, permettendo alla parte acquosa di penetrare nelle molecole di amido, causandone il rigonfiamento fino al raggiungimento del picco di densità. I granuli di amido si idratano progressivamente, gonfiandosi e perdendo la struttura cristallina, amilosio e amilopectina entrano in soluzione con l'acqua, formando legami con essa, di conseguenza l’acqua in forma libera diminuisce e la viscosità della soluzione aumenta. Per capire questo concetto, immaginate di avere una piscina piena di acqua e di palloncini vuoti: si potrà ancora nuotare in mezzo ai palloncini, ma se li gonfiamo con l'acqua della piscina, il liquido nel quale possiamo nuotare verrà intrappolato, e se il numero di questi è sufficiente, ci troveremo nell'impossibilità di sguazzare perché non ci sarà più acqua in forma libera. Così, se scaldiamo una quantità sufficiente di granuli d'amido in un litro di latte, quando questi si saranno gonfiati avranno sottratto gran parte dell'acqua libera, che si sarà trasformata in una soluzione densa e viscosa. L'aumento del volume e della “gommosità” associato alla gelatinizzazione cambia radicalmente la consistenza di molti alimenti. Pasta, riso, avena, patate e la mag-

gior parte delle salse, minestre e budini sono molto diversi in termini di consistenza prima e dopo la cottura.

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amido (vedi quelli della patata) più gelatinizzeranno a temperature più basse, mentre i granuli più piccoli, come quelli del grano, gelatinizzeranno a temperature più elevate. Tempi di cottura Il riscaldamento oltre la temperatura di gelatinizzazione riduce la viscosità. I granuli di amido si rompono quando il riscaldamento continuo sollecita i legami che li tengono insieme. L’agitazione È necessario mescolare durante la formazione precoce della pasta di amido o della miscela di amido gelatinizzante al fine di garantire una consistenza uniforme e di evitare la formazione di grumi. Un rimescolamento continuo o troppo energico, tuttavia, provoca la rottura prematura dei granuli di amido, con il risultato di una pasta di amido scivolosa e meno viscosa. Questo vale anche per l’utilizzo del frullatore ad immersione o del colino.

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Acidi Gli acidi, come il succo di limone, il vino e l'aceto, indeboliscono la capacità degli amidi di addensarsi. In particolare, un pH inferiore a 4,0 diminuisce la viscosità di un gel di amido. Tenetelo presente quando lavorate con le riduzioni di vino.

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Zuccheri Lo zucchero compete con l'amido per l'acqua disponibile, ritarda l'insorgenza della gelatinizzazione e rende necessaria una temperatura di esercizio maggiore. Gli zuccheri che hanno più impatto, in ordine

da minimo a massimo, sono: fruttosio, glucosio, lattosio e saccarosio. Altri fattori che contribuiscono al rallentamento della gelatinizzazione causata dagli zuccheri sono il ridotto rigonfiamento granulare e le ridotte interazioni amido-zucchero e amido-acqua. Grassi/Proteine I grassi o le proteine ritardano la gelatinizzazione poiché rivestono con una “patina” i granuli di amido e gli impediscono di assorbire l’acqua. LA GELIFICAZIONE La gelatinizzazione deve avvenire prima della fase successiva, la formazione del gel, chiamata anche gelificazione. Una pasta di amido fluido è un sol, mentre una pasta semisolida è nota come gel. Non tutti gli amidi gelificano, ma tra quelli che lo fanno, il gel si forma dopo che il sol gelatinizzato è stato raffreddato, di solito a meno di 38°C. La formazione del gel dipende dalla presenza di un livello sufficiente di molecole di amilosio, perché l'amilosio gelificherà e l'amilopectina no. Le molecole di amilosio lineari formano legami forti, mentre le molecole di amilopectina altamente ramificate formano legami troppo deboli per contribuire alla densità del prodotto finale. I legami che si formano tra le molecole di amilosio creano una rete tridimensionale che intrappola l'acqua e aumenta la rigidità della massa d’amido. LA RETROGRADAZIONE Quando l'amido gelatinizzato si raffredda, avviene un fenomeno chiamato retrogradazione (o ricristallizzazione) dell'amido, un processo che tende a far tornare l'amido in una configurazione simile (sebbene mai identica, la gelatinizzazione è un processo irreversibile) a quella iniziale. Quello che avviene con la retrogradazione è un riarrangiamento delle catene di amilosio e amilopectina, con conseguente esclusione di una parte dell'acqua che era stata inglobata dalla struttura. La retrogradazione è un processo reversibile, nel senso che fornendo calore al prodotto l'amido gelatinizza nuovamente. LA DESTRINIZZAZIONE Un altro processo caratteristico degli amidi è la destrinizzazione, che si traduce in un aumento della dolcezza. L’effetto collaterale è che gli amidi destrinizzati perdono molto del loro potere addensante poiché sono stati scomposti in unità più piccole; quindi, è necessario più amido per addensare la salsa se la farina è stata rosolata con un grasso (vedi roux bruno per esempio). COSTRUZIONE DI UNA SALSA: L’AGENTE ADDENSANTE Quello più utilizzato è senz’altro la farina di frumento, specialmente in Nord America e in Europa, mentre nei paesi asiatici si fa largo utilizzo di amido di riso o mais. Gli amidi pre-gelatinizzati o istantanei accelerano il processo poiché si addensano immediatamente e a freddo, ma preferisco parlarne in un’altra occasione perché sono difficili da reperire. Uno dei primi passi nella preparazione di una salsa è quello di aggiungere un addensante amidaceo sotto forma di roux, beurre manié (pomata di burro e farina 1:1), o roux freddo (mix di acqua e farina).


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LO SPEZZATINO SCIENTIFICO Ingredienti per 8 persone Per la carne • 1,5 kg di flap meat/top blade/chuck roll/brisket/boneless beef ribs (Io ho usato flap meat di Wagyu F1 grado di marezzatura 5+ Crimson Crest del Megastore) • olio extravergine di oliva q.b.

LO SPEZZATINO

Ci sono le verdure, c’è la carne e c’è il suo fondo di cottura. Questi tre elementi verranno ancora divisi.

Per il fondo • 500 g di chuck roll (potete usare ritagli, ossa, cartilagini) (Io ho usato chuck roll di Wagyu F1 3+ Crimson Crest) • 1 cipolla (60 g) • 2 carote (60 g) • 30 g di sedano • 2 foglie di alloro • 2 rametti di rosmarino • 2 spicchi d’aglio • 2 bacche di ginepro • 1 chiodo di garofano • 150 ml di vino rosso • 1 l di brodo di carne o pollo • 1 cucchiaio di triplo concentrato di pomodoro • amido di mais q.b.

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Per le verdure (ogni sottogruppo indica il contenuto della singola busta) • 200 g di carote • 25 g di burro • 3 rametti di timo • sale e pepe q.b.

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• • •

60 g di sedano olio extravergine di oliva q.b. sale e pepe q.b.

• • •

250 g piselli freschi o surgelati olio extravergine di oliva q.b. sale e pepe q.b.

• •

1 cipolla (rossa, bianca o dorata) sale q.b.

• • •

1 kg patate a pasta gialla 100 g di burro sale q.b.

Per la finitura • Pane tostato o polenta grigliata

01. LE VERDURE

Cuoceremo separatamente le carote, il sedano, le cipolle, le patate e i piselli.


03. LA CARNE

Cuoceremo la carne, prima tostandola e poi aggiungendo le verdure e il brodo.

02. IL FONDO

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Prepareremo il fondo con carni ricche di connettivo, perché contiene un elemento importante che darà un gusto esplosivo alla preparazione.

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01. LE VERDURE LA CIPOLLA

Qui niente sous vide. Non so se vi è mai capitato, ma se cuocete la cipolla sottovuoto rischiate di far scoppiare il sacchetto a causa dei gas che sviluppa in cottura. In questo caso userete il forno. Cuocete la cipolla intera a 230°C fin quando non si bruciacchia all’esterno e diventa morbida all’interno (65°C al cuore). Sfogliate i petali come se fosse un fiore e mettete da parte.

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LE PATATE

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Sous vide a 90°C per 80 minuti. Tagliate le patate (pelate) a cubetti e aggiungete due noci di burro e un pizzico di sale. Lasciate raffreddare e mettete da parte


I PISELLI

Sous vide a 84°C per 60 minuti. Solito cucchiaio di olio extravergine e pizzico di sale e pepe. Cuoceteli per un’ora, raffreddate con acqua e ghiaccio e lasciate in frigo.

IL SEDANO

Sous vide a 84°C per 60 minuti. Pelate le coste di sedano con un pelapatate per rimuovere i filamenti. Tagliatelo della stessa dimensione delle carote. Aggiungete un cucchiaio d’olio e un pizzico di sale e pepe. Cuocetelo per un’ora. Poi raffreddate con acqua e ghiaccio e conservatelo in frigo senza aprire il sacchetto.

LE CAROTE

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Un suggerimento utile: per piselli, sedano e carote potrete ottimizzare i tempi usando tre sacchetti nello stesso bagno termostatico, durante la stessa ora di cottura.

Sous vide a 84°C per 60 minuti. Tagliate le carote a cubetti non troppo piccoli, due o tre centimetri di lato. Nel sacchetto aggiungete un pezzetto di burro, rametti di timo, delle dimensioni di un pollice. Un pizzico di sale e pepe. Tenete il sacchetto nel bagno termostatico per un’ora. Poi raffreddatelo immediatamente con acqua e ghiaccio e conservatelo in frigo, senza aprirlo

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02. IL FONDO Riducete la carne in pezzi o recuperate dei ritagli, ungete con olio extravergine di oliva e tostate a temperatura infernale, in padella o in forno a 230°C. Una volta formata la crosta brunita, aggiungete una mirepoix di sedano, carota, cipolla, bagnate con il vino e lasciate ridurre (oppure versatelo nella teglia e trasferite tutto in un tegame con la dadolata di verdure), aggiungendo un cucchiaio di triplo concentrato di pomodoro, per colorare un po’ il sughetto. Dealcolate (il calore farà evaporare la parte alcolica) e fate ridurre della metà. Raffreddate il più velocemente possibile e filtrate, rimuovendo tutta la carne. Raccogliete il liquido e le verdure che saranno rimaste intrappolate nel colino e frullate con il mixer ad immersione. Mettete da parte.

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03. LA CARNE

Ovviamente vi do i parametri da tenere in considerazione per la mia carne, perché è la mia e la conosco come le mie tasche di manzo. La mia prima scelta è la flap meat (bavetta grande), poi il top blade (cappello del prete). Va bene il chuck roll (reale). Vanno bene le beef ribs (biancostato). Va bene il brisket (punta di petto). Decidete voi. Se serve, eliminate il grasso in eccesso e tagliate la carne a cubi da 3cm per lato. Asciugatela bene. Spalmate di olio e scatenate una massiccia reazione di Maillard cuocendo in forno preriscaldato, con il grill sparato a 230°C e posizionando la teglia al centro del forno. Lasciate lo sportello leggermente aperto per permettere al vapore di fuoriuscire. Oppure tostatela in padella o perché no, friggetela! Ormai sapete come funziona, vero? La reazione di Maillard è quella reazione chimico-fisica che si manifesta quando proteine e zuccheri riducenti, in totale assenza di acqua, vengono esposti ad una fonte di calore. Queste molecole si riallineano e formano nuove molecole, non esistenti in natura, molto profumate, gustose e dal colore ambrato. E come otteniamo una crosta di cauterizzazione perfetta? 1. In totale assenza di umidità. 2. A temperatura della superficie di contatto di almeno 140°C. 3. In presenza di zuccheri riducenti. Ce l’avete tutte e tre.

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Con ogni probabilità, la carne inizierà a buttar fuori dei liquidi. Non buttateli via ma toglieteli dalla teglia; per i motivi che ho già spiegato sopra. Versate il liquido nel tegame con il fondo attraverso un colino. Aggiungerà sapore. A queste punto non vi resta che rigirare i cubetti di carne e lasciar rosolare l’altro lato, sempre a 230°C, a grill andante. Vi starete chiedendo il perché del forno. Ebbene, rosolando la ciccia in pentola si sarebbe sviluppato un grande quantitativo di vapore, che avrebbe sicuramente lessato la carne.

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Mettete i pezzi di carne belli arruscati in un sacchetto e preriscaldate il sous vide a 75°C. Quando sarà arrivato a temperatura, immergete il sacchetto della carne e cuocete per 4 ore. Avete più tempo a disposizione? Cuocete a 65°C per 24 ore.


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Una volta pronta la carne, rimettetela nel tegame con i succhi che vi ritroverete nel sacchetto e con il fondo di cottura. Fate ridurre a fuoco moderato finché non vela il cucchiaio. Dovrà essere molto viscoso. Fidatevi perché ci sarà dentro tutto il connettivo rilasciato dalla carne che tenderà a gelificare. Quando il fondo sarà pronto potrete assemblare gli elementi. Aggiungete le patate, i petali di la cipolla e tutte le verdure preventivamente scolate dal loro liquido prodotto nel sacchetto. Mescolate e amalgamate bene. A questo punto preparate una miscela di acqua e amido di mais, a saturazione. In parole povere prendete un bicchiere d’acqua fredda e aggiungete l’amido, agitate e continuate ad aggiungere la polvere fin quando non si deposita sul fondo. Aggiungete la miscela nel tegame, un cucchiaio alla volta, aspettate che raggiunga i 75°C: a quel punto comincerà a gelatinizzare e ad addensare la salsa. Spegnete quando il sughino avrà raggiunto la consistenza che vi piace. Servite con delle fette spesse di pane tostato o con della polenta appena grigliata.

Ma quante ne sai! Spettacolo. E alla fine? E alla fine niente, lo servi e lo mangi così. Grazie mille. Mi hai fatto una lezione di cucina pazzesca. Posso tornare ad assaporare lo spezzatino di mia Nonna. Non so come ringraziarti, sei davvero un amico! Ringrazia tua Nonna.

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Gianfranco Lo Cascio

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Bello, ma lo fanno anche da uomo?

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Seguo a cura di Emiliano Nencioni

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La lampada filosofica (particolare) Renè Magritte


Scusate, ve lo scrivo subito senza neanche un elegante e giornalistico cappello introduttivo, proprio a bruciapelo: bisognerebbe fare uno sforzo e far sparire quest’espressione. Siete stati bravi: ce l’avete fatta a dimenticare “ciaone proprio”, avete relegato la terribile “<qualcosa> ne abbiamo??” a pochi sparuti utenti demodè, ignari del continuo divenire del mondo attorno a loro, e persino “chiedo per un amico” non viene quasi più usata come invincibile catalizzatore di risate, ma come elemento parodistico per sottolineare l’intento volontariamente cringe (altra parola di cui liberarci non appena ci metteremo d’accordo per un decente sostituto italiano) dell’intervento. Per cui, le potenzialità le avete - come vi dicevano alle medie usando una pietosa bugia - è che vi impegnate troppo poco. Ho cercato, per dovere di cronaca, di risalire alle origini di questo tormentone seriale, pensando che, come spesso succede, fosse un ricalco infinito di qualche uscita comica particolarmente apprezzata in una cerchia ristretta: giusto per fare un esempio “ciaone proprio” fu lanciato, in un trailer cinematografico, da una incolpevole Caterina Guzzanti. La ricerca mi ha alquanto deluso, non portandomi a risultati certi: la via più plausibile è quella di una trasmissione indisturbata, un rimpallo continuo fra i canali degli appassionati di birre, frequentemente tormentati da un notevole tasso di machismo: “la birra piccola la fanno anche da uomo?”. Disponibili, per i più pigri, meme già confezionati, non di altissima qualità. Non sono rimasto soddisfatto: non “torna”. Sicuramente le radici sono da cercarsi in qualche critica contro un capo d’abbigliamento, magari mossa in un film comico: ammetto di aver inizialmente ipotizzato di trovare qualcosa nella filmografia di Checco Zalone, ma non ho avuto fortuna. Se qualcuno di voi lettori ha una buona pista da seguire, me lo faccia subito sapere contattandomi attraverso i soliti canali.

“Ok”, dice l’utente consapevole e con pensiero critico, puntando l’ossuto indice accusatore, “ma per quale motivo dovremmo smettere di usare una frase così versatile, ìlare, che si adatta ad ogni occasione, riducendo di un buon 70% il nostro repertorio di simpatia preconfezionata?” Dovere esplicitare il motivo un po’ mi amareggia, un po’ mi stanca, un po’ sinceramente mi mette in difficoltà, come quando bisogna spiegare ad un bambino concetti come il tempo, la morte, il fuorigioco, il numero di Avogadro. Davvero siete così a disagio con la vostra percezione di mascolinità da voler rimarcare che una cosa, un bene, un oggetto, un servizio, esista specificatamente “da uomo”? Qualsiasi cosa ricordi una dimensione più delicata, meno assertiva, più attenta alle necessità altrui, appare ad alcuni “poco da uomo”: alcuni esempi famosi possono essere il monopattino elettrico, la sigaretta elettronica, la birra piccola, i pantaloni con l’orlo eccessivamente alto. “Molto da uomo” sembra configurarsi, da una veloce ricerca, il menefreghismo, la mancanza di attenzioni verso l’ambiente o le minoranze, l’”ignoranza” (in questo contesto intesa come genuina rozzezza e mancanza di scrupoli) e una serie di atteggiamenti satelliti tipici da sitcom americana dei primi anni 60. Non si capisce poi perché tutto questo sia da uomo, molto da uomo, francamente: io personalmente posso dire di non riconoscermi dentro questo incasellamento, ognuno farà le proprie valutazioni personali. “Quindi”, ripete sempre quel tizio con l’indice ossuto di poco sopra, “ci dici perché non dovremmo usare ‘sta frase, o no?” In definitiva, no. Per due motivi: per prima cosa, chi ha bisogno di una spiegazione molto probabilmente non capirebbe comunque il senso della necessità

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Perché usate questa frase? Perché siete misogini, sciovinisti, bombardati di testosterone? No, assolutamente no, neanche per idea. Sicuramente non i lettori (siamo a nove secondo le ultime statistiche) di questa rubrica,

vi avrei esasperato e fatto sentire inadeguati molto, molto prima di questo numero. Lo fate per il solito motivo: perché “si fa”, perché lo avete visto fare dagli avatar digitali dei vostri micro-eroi sui social, dei quali cercate costantemente approvazione; perché omologarsi, ricalcare e adeguarsi fa immancabilmente placare quella fame di sentirsi parte dell’InGroup.

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di questa rinuncia, non lo percepirebbe, non abbraccerebbe completamente il senso della presa di posizione. In secondo luogo, perché alla fine non ho nessuna intenzione di dirvi cosa fare, non sono una persona da “seguire” (tralasciando l’assonanza con il titolo della rubrica) e non voglio creare nessun microscopico ingroup. Mi basterebbe solo instillare un minimo di consapevolezza, affinché questa ed altre espressioni subdolamente offensive fossero usate, se non ci si vuol rinunciare, con un minimo di cognizione di causa. Esatto, proprio così: si usa “perché si usa”: Per imitazione, spesso con nessuna o pochissima volontà di nuocere o screditare qualcuno. Ne ho le prove: svariate volte, lamentandomi dell’uscita poco felice, mi sono visto rispondere “ma lo dico solo come una battuta fra noi, lo diciamo sempre”, “ma quel tizio lo scrive e riceve vagonate di like” e ovviamente il passepartout della vita digitale “ma fattela una risata ogni tanto”. Ancora una volta non siete i cattivi dei fumetti, entità malvagie per il gusto del malvagio. In media siamo tutte persone molto normali e ordinarie. Le cose si fanno tanto per fare, e pazienza se qualcuno si risente o decide di eclissarsi per il forte disagio provato.

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Siete avatar digitali. Rappresentazioni di voi stessi non esattamente fedeli al vero, spesso molto distaccate dall’essere biologico in quanto ad atteggiamenti e sicumera. Ogni piattaforma ha un suo avatar: vi siete creati un personaggio profondo e riflessivo per Instagram, uno ligio e impeccabile per LinkedIn, uno spietato, battagliero e cinico per Facebook, e non mi addentro in ulteriori precisazioni per ovvi motivi. Dovete portare avanti il personaggio, lo facciamo tutti, è capibile. Passando sempre più tempo online, colpevole anche il lockdown oltre all’innegabile progresso, la situazione si configura in maniera pericolosamente schizofrenogena, e lo sforzo di “apparire pur non essendo” si fa sempre più lampante e palpabile. É una crisi tecnoesistenziale. Per apparire al meglio su Instagram o per avere più engagement su YouTube ci sono guide chilometriche: corsi e tutorial infiniti, masterclass, tomi da leggere capaci di rivaleggiare con il testo d’esame di Diritto

Privato. Tutto è attraente, studiato per catturare, patinato, psicologicamente avvincente, e chi non si adegua al format è penalizzato e condannato all’oblio delle venti views al mese. Ovviamente questo crea una gigantesca casa degli specchi, dove per ore e ore di navigazione giornaliera riceviamo immagini distorte, ingigantite, ritagliate ad arte per offrire, al posto della consueta realtà, una rappresentazione iperreale. Il vero, l’esistente nel piano della realtà, diventa una noia terribile, quindi impersoniamo. E siamo tutti una versione on steroids di quello che saremmo se solo non avessimo i nostri freni e le nostre paure, le nostre insicurezze e debolezze. Occhio però che a volte debolezze e insicurezze sono il nostro miglior salvagente per impedirci di essere quello che non siamo strutturati ad essere, o ad apparire. Dovreste solo capire, o più che capire esperire il fastidio che talvolta date. Che talvolta diamo. Tutti, nessuno escluso, capita anche ai benintenzionati. “Si fa per scherzare” non esclude che la cosa dia fastidio, offenda, secchi, stufi, irriti, in moltissime occasioni di cui, beninteso, la sconsiderata “lo fanno anche da uomo” funge solo come esempio e capro espiatorio. Chi non è cattivo volontariamente è solo fastidioso inconsapevole. Dice cose, scrive cose, e non capisce quanto stia irritando o adombrando il prossimo. Ed ecco che ancora una volta giunge a noi in aiuto la deflagrante sconquassante e megatonica arma della disapprovazione, micidiale presso qualsiasi avatar digitale in piena crisi tecnoesistenziale. Niente commenti, niente like, niente strizzatine d’occhio o gomitate complici. Solo “smetti”. “Hahaha ma che signorine che siete, lo fanno anche da uomo? Ridete tutti con me!” Smetti. “ma… due risate…” Smetti.

Emiliano Nencioni


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CLUB

Diretta m e n t e da lla co m m u n i ty di ma e s t ri d i ba rbecue pi ù grande d’I tali a, nasce i l prest i gi oso club c h e ti offre la possi bi li tà di avere: a ccesso p ri or i tar i o al meg astore, dove pot ra i fa re ra zzi e m ent re tutt i gli a lt ri “ sono i n coda ” ; u na p rogra m ma zi o n e i n telli g en te dei tu oi acq u i sti gra zi e a l c re di to m e nsi le prepa gato (scegli tu quanto); u n coa c h pr i vato c h e ti g u i derà n e l fa rt i vi ve re l’ e s p eri enza

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co n la pre p arazi one dei tuoi pi att i ; e molto altro an cora. . . Av ra i tu tto qu es to s o lo s e ti i s c r i vi s u bito a l MEG ASTOR E CLUB, l’uni co luogo ri servato a u na c e rc hia r i s t re tta d i a s pi ra n t i gri ll ma s t e r c he desi dera no a pprendere pi ù velocement e e nel modo p iù accurato possi bi le, la s ubli m e a rt e del gri ll. Pu oi di si scri vert i quando vuoi e i l tu o c red i to sarà sempre di s pon i bi le.

collegat i a

H T T PS : / / C LU B M E G ASTO R E . B BQ 4 A L L. I T e c h i e di i n formazi oni pi ù detta gli at e, pr i ma c h e i coac h fi ni sca no e le i scri zi oni chi uda no.


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