Dalle basse terre. Sergio Battarola, Giangi Pezzotti, Marco Rossi

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Quando l'arte ci ricongiunge con la spiritualità Beatrice Resmini Data di pubblicazione: 26 marzo 2018 www.linkedin.com

Ho avuto occasione di curare e presentare per il museo dove lavoro, il Museo Civico di Treviglio, una mostra dedicata a tre artisti geograficamente a me vicini e già conosciuti personalmente: Sergio Battarola, Giangi Pezzotti, Marco Rossi. La mostra, intitolata "Dalle basse terre" per mettere in evidenza la comunanza dei tre nonostante le differenze espressive, è stata per me motivo di meditare e valorizzare uno delle ragioni base del fare arte: la ricerca spirituale. Si può fare arte per molti motivi, il perché non sempre è discriminante per capire cosa arte e cosa non lo è. Ma sicuramente il legame tra l'atto artistico e la spiritualità è un legame profondo, atavico, è forse il primo vero significato e perché dell'arte stessa. I tre artisti presenti in mostra percorrono in questo senso la strada percorsa dall'umanità fin dalla sua origine e, nonostante la forte valenza individuale e personale del loro creare, la loro arte si inserisce in un discorso più collettivo sul perché dell'uomo. L’arte è nata con il definirsi dell’umanità stessa ed è stata associata fin dall’inizio ad una sfera della vita dell’uomo che più che reale è spirituale. Ovvero, non essendo reale e spirituale due contrapposizioni, l’arte ha spesso se non sempre dato voce e forma ai bisogni e alle credenze spirituali dell’uomo. L’arte è essa stessa una forma rituale perché durante il momento artistico l’uomo diventa creatore, si avvicina a quell’entità, qualunque essa sia, che ha dato origine al tutto. L’arte ha la valenza spirituale di una natività e soprattutto, per quanto figurativa, concreta e naturalistica possa essere, dà forma a concetti, quindi è sempre un tramite attraverso il quale l’astratto diviene concreto. L’arte è il mezzo privilegiato per rendere possibile ogni cosa, per trasformare in visibile l’invisibile, per esternare l’interiore, per ribaltare punti di vista. L’elemento spirituale è presente nelle ricerche di tutti e tre gli artisti che qui espongono. La forte spinta alla ricerca delle loro opere è uno degli elementi accumunanti, se pur declinata in esiti espressivi molto diversi. Sergio Battarola Sergio Battarola esprime in maniera molto terrosa, concreta e materiale le spinte spirituali che gli provengono dalla terra dalla quale proviene. Il legame con i materiali naturali, il legno in modo particolare, connotano il suo lavoro come un’arte fortemente terrena, fatta di scavi, di lavoro fisico, di strati materici corposi e testurizzati. Battarola dipinge, ma scolpisce anche, non tanto plasmando quanto scavando. È una scultura a levare, molto impegnativa, che richiede tempo, sforzo e un contatto pelle a pelle con la materia. Anche


nella sua pittura fa spesso utilizzo di colori bruni, cupi, con l’eccezione del rosso, colore vitale per eccellenza. Il rosso è il colore stesso del rito, di sacrifici primigeni e violenti. Sergio Battarola è anche un notevole disegnatore. A suo vantaggio possiede una forte espressività segnica che lui declina sia in chiave fortemente naturalistica sia in chiave più sintetica e immediata. Spesso supporto per i suoi disegni sono pergamene, materiale – come anche il legno – carico di una valenza vitale latente e di un calore intrinseco che le rendono la base ideale per i segni/disegni di Battarola. L’arte di Battarola è un’arte ancestrale, legata ai primordi dell’uomo, ai tempi del mito. I soggetti di molte opere di Sergio Battarola spaziano da antiche leggende classiche a temi biblici, ma centrale è il rapporto controverso tra la divinità e l’umanità. Un rapporto che altalena tra vicende di una violenza quasi disumana e momenti di dolcezza materna, rapporto fatto di vicinanza e allontanamenti, di rotture e riappacificazioni. Il rapporto tra divino e umano non necessariamente passa attraverso una religione; è in un certo senso pre-religioso: la ritualità appartiene all’uomo stesso prima ancora delle sovrapposizione culturale-religiosa che ha accompagnato l’evoluzione dell’umanità. D’altra parte il mito ignora lo spazio e il tempo, nei miti si annullano le differenze tra regni, generi e specie si disintegrano le barriere. Non vi è più differenza nemmeno tra mondo sensibile e invisibile. In questa esposizione Sergio Battarola mette in mostra uno dei suoi filoni di ricerca che maggiormente si colloca in questo tempo-non tempo tipico del mito: i “Fuochi sulle pianure”. Si tratta di una serie di oli e di disegni caratterizzati prima di tutto da un’ambientazione comune e ben conosciuta dal pittore: la pianura. La pianura diventa nelle sue opere un elemento altamente paradigmatico: è terra da coltivare, è campo scavato, è luogo di stanziamento. La pianura ancora vuota e incontaminata è il luogo ancora da tracciare, ma anche il luogo dove lo sguardo spazia. Le pianure di Sergio Battarola si accendono di fuochi che le connotano come luoghi rituali. Non conosciamo le origini di questi fuochi, non sappiamo chi li abbia generati, natura o uomo o divinità né perché. L’insieme della composizione però ci cala in un’atmosfera sacrale. Il fuoco infatti è prima di tutto un’energia che unisce terra e aria, con una forte spinta verticale e nello stesso tempo una propagazione orizzontale. Il fuoco è forza che trasforma, è un elemento che l’uomo può solo in parte contenere e gestire. Non a caso la capacità di governare il


fuoco è stata una delle grandi conquiste dell’umanità. Per tutte queste sue peculiarità è fortemente presente nelle celebrazioni rituali di ogni cultura. Nei suoi “Fuochi sulle pianure” Sergio Battarola non descrive una situazione ma evoca una contesto atemporale che emotivamente ci coinvolge, pur non riuscendo a decifrarlo, in maniera atavica e irrazionale con una sottile vena di tensione che si stempera nelle larghe vedute di queste pianure del tutto possibile. Giangi Pezzotti La spiritualità messa in campo da Giangi Pezzotti è di tutt’altro genere. Nelle sue opere campeggiano immagini nelle quali riconosciamo elementi provenienti da precise fedi e religioni. In realtà ogni elemento inserito da Pezzotti nelle proprie opere si riveste di una carica spirituale anche se non è simbolico. È quello che succede anche alle figure maschili o femminili che abitano le sue composizioni, che spesso si avvicinano a divenire immagini di idoli pur mantenendo la propria forte carica umana. Le figure infatti dialogano con tutti gli elementi in un’atmosfera sospesa, in un colloquio mitico perché del mito posseggono l’atemporalità. Anche gli spazi sono interiori. Le opere di Giangi Pezzotti sono un ribaltamento verso l’esterno di una ricerca spirituale percorsa da ogni uomo e donna. Se pure spesso i riferimenti alle altre culture sono puntuali – come per lo scarabeo egizio o la mano di Fatima – Giangi Pezzotti opera una ri-universalizzazione della spiritualità facendo convivere all’interno della stessa opera culture diverse. Siamo quindi davanti all’impossibilità di capire di chi sia quest’interiorità, a quale cultura appartenga l’individuo rappresentato, impossibilità dovuta alla consapevolezza dell’autore che la gnosi, cioè la ricerca della conoscenza, non appartiene a una cultura specifica ma all’intero genere umano che percorrendo strade diverse mira a raggiungere lo stesso grado di consapevolezza di sé e del mondo. Giangi Pezzotti ci invita a fare un viaggio a ritroso nel tempo fino al tempo in cui la distanza tra una cultura e un’altra non era così marcata, in cui la ricerca era ricerca dell’uomo, senza contrapposizioni, confronti o impliciti giudizi di superiorità. Il suo citare altre culture non ha nulla a che fare con l’eurocentrismo dell’arte primitivista. Giangi Pezzotti non cita altre


culture, cita l’uomo. Parlando di diverse spiritualità parla di una sola, la sua, stratificata, sfaccettata e multiforme come quella di ognuno di noi. Giangi Pezzotti lavora su diversi formati e con diverse tecniche. Passiamo da grandi oli dai colori timbrici e immediati a piccole opere grafiche nella quale la stratificazione di segni e elementi rispecchia la stratificazione di una vita intera. Come non esiste per Giangi Pezzotti alcuna divisione culturale e l’uomo è uomo, se pur con caratteristiche peculiari, così anche l’arte è arte nonostante si possa esprimere con strumenti diversi. Tra le sue tecniche artistiche infatti potremmo citare anche la musica esattamente coma la pittura. La musica è spesso presente nelle sue opere perché rappresentata attraverso l’immagine di diversi strumenti musicali, ma è anche uno degli esiti della sua ricerca artistica. Giangi Pezzotti è anche un musicista polistrumentista, non in secondo luogo, ma esattamente come è pittore. L’arte di Giangi Pezzotti si potrebbe sintetizzare nella contrapposizione dei termini poli e mono: Pezzotti è policulturale, poliespressivo, poliglotta, politeista e con il suo essere così multiforme mette in luce che in realtà il poli è uno sfaccettato e multiforme mono universo umano. La sua è un’interiorità cosmica, è la ricerca di tornare a quell’unico punto da cui tutto è cominciato e dilagato. Le sue opere sono opere eleganti, sospese, silenziose e profonde. Sono opere che emanano un forte rispetto per le molteplici espressioni culturali, da lui non banalmente utilizzate ma prima di tutto conosciute e approfondite, fatte proprie. Marco Rossi Terzo elemento di questo triskell artistico è Marco Rossi. Marco Rossi è un eccezionale disegnatore; anche quando si dedica a opere di grandi dimensioni lo fa con un’accuratezza grafica impressionante. Nella sua arte convivono elementi fortemente naturalistici, minuziosi fino alla scientificità, ed elementi solo accennati. Addirittura le sue figure umane passano dall’essere graficamente fotografiche nei corpi al perdere di connotazione nei volti. Sono immagini in movimento. Le sue opere sono frames di viaggi e come tutti sappiamo non tutto durante i nostri viaggi è a fuoco e soprattutto il nostro punto di messa a fuoco cambia in continuazione. Davanti alle sue opere percepiamo che


quello che stiamo osservando è un attimo, quell’attimo fermato e immortalato, che è nello stesso tempo un percorso in atto ma anche in potenza. Messo nero su bianco dalle opere di Marco Rossi – è davvero il caso di parlare di bianco e nero anche se sporadicamente fanno la loro comparsa altri colori – è lo spaesamento di un individuo che sta cercando il proprio posto in un mondo che troppo spesso non si ferma ad aspettare o almeno a cercare di capire. La ricerca di Marco Rossi contrappone velocità e bisogno di lentezza in una manifestazione di confusione nata dalla non reciprocità tra sentimenti interni e obbligo di relazione con l’esterno. Marco Rossi produce tanto, disegna in maniera compulsiva, lui stesso non si ferma nel vano tentativo di fermare il pensiero su carta. La contrapposizione tra continuo movimento e ricerca di stabilità è insita nelle sue stesse opere. Queste infatti, pur essendo necessariamente bloccate, quasi traballano, non per incapacità dell’artista che anzi le ancora con la propria abilità grafica. Forse più che traballano potremmo dire che vagano, in ambientazioni a volte suggerite – vediamo per esempio palazzi cittadini sul fondo, oppure alberi che suggeriscono un parco cittadino – a volte del tutto ignorate. La relazione tra lo spazio e l’individuo è una relazione spesso fatta di incomunicabilità. L’uomo è inserito in questi spazi che, anche laddove compiono elementi naturali, sono spazi fortemente artificiali. Sono gli spazi delle sovra-costruzioni mentali e relazionali che mettono a dura prova l’espressione autentica dell’individuo e la sua capacità di adattamento e di inserimento. Sono gli spazi del confronto a volte impietoso tra la propria sensibilità e la necessità di convenzionarsi a modelli precostituiti. Sono gli spazi dove il pensiero, volutamente lasciato libero di correre è invece costretto a deviare, a torcersi e scontrarsi perdendo letteralmente il filo. In questi spazi vengono messe a dura prova le convinzioni personali, i principi sui quali si fonda l’esistenza di ciascuno e come conseguenza i pensieri si moltiplicano, si frantumano e le definizioni, letterarie e grafiche, si rimettono in discussione. Velocità e lentezza, io e mondo, sentimenti e facciate. Contrapposizioni quotidiane che ognuno vive con la propria sensibilità ed esperienza e che Marco Rossi indaga in un flusso inarrestabile di segni e successioni. Anche Marco Rossi non si fa remore ad utilizzare tutto ciò che può essere a servizio della sua volontà comunicativa. Musica, disegno, video, pittura, parole. D’altra parte in un contesto di eterno e incessabile movimento non ha alcun senso parlare di confini perché i confini si sfaldano, non facciamo in tempo a capire di aver raggiunto un limite che il limite è già alle nostre spalle, una definizione che un attimo prima sembrava perfettamente calzante non basta già più a contenere tutto il significato.


La mostra Tre personalità molto diverse che dialogano in questa unica esposizione che a sua volta si è duplicata in due spazi, prima all'interno dei chiostri di Santa caterina di Finalborgo, ora (e fino al 15 aprile) nello spazio espositivo del Museo Civico di Treviglio. Una moltiplicazione di visibilità che risponde alla vera vocazione dell’arte, quella di comunicare, di essere un piccolo ma inestimabile tassello di un percorso umano condiviso, di sollevare domande e di suggerire risposte personali dal quale scaturisce il confronto, di creare momenti di relazione e di arricchimento. Per maggiori dettagli sulla mostra: https://www.facebook.com/events/136822657139331/


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