da Arte ad Arte

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Da Arte ad Arte Spazio Finardi novembre - dicembre 2019

Con il patrocinio di

Treviglio piazza Giuseppe Garibaldi, 10

Progetto grafico radicistudio.eu

Curatore Luigi Radici

Copyright delle immagini © gli artisti © Aldebaran Editions - Rovato - Bs

Testo critico Beatrice Resmini

ISBN 978-88-942127-5-4

Allestimento Paolo Taiocchi

www.aldebaraneditions.com

ST E FA N O B O M BA RD I E R I M A N U E L B O N FA N T I M A R I O C RE S C I GIULIANOGIUSSANIFELICEMARTINELLI GIANGIPEZZOTTILUIGIRADICI MARCOROSSI

T E STO C R I T I CO A C U R A D I

B E AT R I C E R E S M I N I


Da Arte ad Arte Beatrice Resmini

L’

occasione di questa esposizione nasce da un cambiamento radicale, da un da… a… Da negozio di arredamento a spazio espositivo temporaneo, da una vita dedicata al lavoro commerciale a un momento di condivisione fortemente voluto da Graziano Finardi per omaggiare la città che per più di trent’anni ha accolto la sua vita lavorativa. I cambiamenti sono momenti da significare, sono le tappe che marcano in maniera più o meno radicale la vita di ciascuno, sono il carburante della nostra incessante evoluzione. L’arte si è trovata fin dalle origini ad essere testimone di cambiamenti, strumento con il quale l’uomo ha conferito, o meglio, ha fissato il valore di questi. L’arte è spesso stata la voce che precocemente e a volte in modo assordante ha annunciato i grandi mutamenti della storia. Il cambiamento che questa esposizione vuole sottolineare è certo un cambiamento che riguarda la vita personale di Graziano Finardi, ma di fatto è anche un cambiamento che riguarda la città di Treviglio. La posizione predominante degli spazi commerciali e la qualità dell’offerta hanno fatto sì che l’attività di Finardi divenisse negli anni un punto di riferimento per il centro città.

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Nello stesso tempo questo ultimo cambiamento si inserisce in una storia millenaria di passaggi che parte proprio dalla struttura stessa del negozio. Forse non tutti sanno che Treviglio ha una storia secolare e autorevole, posta in una terra che per secoli ha rappresentato il confine tra diverse dominazioni eppure orgogliosamente autonoma, nel limite del possibile, e ricca. Treviglio - chiamata nel Medioevo Trivilium Grassum, Treviglio ricca, opulente, a sottolineare l’alto livello raggiunto da questo piccolo centro - ha avuto origine alla caduta dell’Impero Romano per necessità di difesa delle tre comunità rurali che occupavano questa zona abitando tre villae. Cosa c’entra questo con il motivo di questa esposizione? Gli spazi espositivi di Finardi sono inseriti in uno degli edifici storici più antichi della città, il primissimo recinto difensivo fortificato costruito dagli abitanti delle villae, conosciuto nelle fonti scritte come Castrum vetus. Certo l’aspetto attuale non suggerisce né un’origine così antica né una funzione così militare, eppure i muri, le strutture che ancora oggi si possono intravedere sotto gli strati che man mano, gradualmente, si sono accumulati nei secoli, sono quelle antichi e fondanti della città stessa.

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Da arte ad arte assume allora un significato più ampio, che supera quello della attuale esposizione. Questi spazi hanno vissuto di passaggi da arte ad arte, da mestiere a mestiere, da utilizzo a utilizzo, seguendo lo sviluppo della comunità di Treviglio, rimanendo, modificati sì, ma sempre presenti, stabili, al centro di questa città, a servizio della collettività. Da locali di utilizzo pubblico a botteghe private, da locali di ristorazione a spazi espositivi, queste sale rispecchiano l’operosità di una città ma anche l’operosità del singolo. Finardi si inserisce in questa tradizione quasi inconsapevolmente ma altrettanto significativamente, segnando un cambiamento, obbligando a una rivalutazione degli spazi e delle funzioni. Da arte ad arte significa quindi un passaggio da mestiere a mestiere, ma vuole essere anche uno stimolo ad un interrogativo più ampio: cosa sia l’arte e cosa non lo sia. Si tratta infatti di un’esposizione collettiva apparentemente schizzofrenica, che presenta artisti di diversa natura sia per tecniche utilizzate, sia per esiti espressivi, sia per urgenze comunicative. Il percorso di ognuno è autonomo da quello degli altri artisti presenti in mostra. Non si tratta di un gruppo unitario sotto alcun punto di vista. Il fattore che li unisce oggi qui è proprio l’aver accettato la proposta di sottolineare il valore di uno spazio attraverso l’esposizione delle proprie opere. In fondo ciò che questi artisti in parte condividono è la visione di un’arte che non sia solo espressione personale, ma che abbia il valore di uno strumento collettivo, di aggregazione, di espressione sociale, di riqualificazione, di elevazione culturale. Un’arte che sia contemporaneamente manifestazione di una collettività attraverso l’operato del singolo e strumento di auto indagine di quella stessa collettività.

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Non è facile affrontare il confronto, la coabitazione nei medesimi spazi di linguaggi diversi. E il confronto in questa esposizione è doppio: avviene non solo perché i diversi artisti condividono la location espositiva, ma anche perché si è voluto mantenere il legame con la storia del negozio Finardi esponendo anche alcuni pezzi di arredamento che esprimo i più alti esiti di design dell’ultimo secolo. E qui siamo invitati a porci nuovamente quella domanda accennata prima: dove sta il confine tra arte e non arte? Esiste un confine? Dove si colloca il design? Argomento spinoso e altamente dibattuto questo. Il fattore determinante che fa scatenare il dibattito non è tanto la funzione dell’oggetto. Percorrendo a ritroso la storia dell’arte troviamo esempi copiosi di come quelli che oggi consideriamo senza alcun’ombra di dubbio artisti, cioè produttori di arte, abbiano realizzato altissimi esempi di arte veicolati da oggetti di arredamento, precorrendo in un certo senso il concetto di design. Per citare alcuni esempi tra i più famosi: il Tondo Doni 1, splendida opera di Michelangelo raffigurante una Sacra Famiglia con san Giovannino, modernissimo nella scelta iconografica e profondamente significativo dal punto di vista iconologico, era di fatto un desco da parto, cioè un vassoio che veniva utilizzato per porgere il cibo alla neomamma, tipico dono di nozze beneaugurante del Rinascimento. Altro magnifico esempio è la Saliera di Francesco I 2 realizzata da Benvenuto Cellini, altissima espressione del gusto manieristico 1

Sacra famiglia, Michelangelo Buonarroti, 1503-1504, tempera grassa su tavola, Uffizi, Firenze.

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Saliera di Francesco I, Benvenuto Cellini, 1540-1543, ebano, oro e smalto, Kunsthistorisches Museum, Vienna

trasposto in un’opera in bilico tra orificeria e scultura. Il problema non è quindi la funzione; i dubbi e i dibattiti cominciano a fiorire nel momento in cui la produzione non è più artigianale ma industriale, quando da pezzo unico l’opera diventa seriale, potenzialmente riproducibile in infiniti pezzi, e quando il lavoro manuale dell’artista è sostituito dal lavoro meccanico. Un esempio mirabile di questo dibattito è rappresentato dall’opera critica L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, una riflessione di Walter Benjamin pubblicata per la prima volta nel 1936. Prima di questo scritto e dopo questo scritto, che rimane una pietra miliare, si è dibattuto e discusso di questo tema in lungo e in largo. Oggi forse siamo giunti a un punto in cui la questione è sdoganata perché l’evoluzione tecnica mai come negli ultimi cento anni ha messo a disposizione degli artisti un bacino di strumenti, tecniche, materiali per produrre arte tale che il discrimine non può più essere localizzato nella tecnica quanto nel progetto, nel valore conferito al risultato. Ecco quindi che questa esposizione è un concentrato di stimoli visivi, concettuali ed anche emotivi, a partire dal forte affetto verso questo luogo e questi spazi che ha spinto Graziano Finardi a voler omaggiare la città di un evento artistico di altissima qualità. D’altra parte l’altissima qualità è il trait d’union di ciò che da decenni viene esposto in queste sale, che siano pezzi di design o opere d’arte, o di fatto entrambe le cose. Che l’arte debba necessariamente essere un valore da condividere è un dato di fatto dell’operato di Stefano Bombardieri. Le sue opere, spesso monumentali, non esistono per essere viste da pochi eletti in luoghi solitamente deputati alla trasmissione artistica, ma per investire con la propria potente monumentalità l’ignaro passante, che si trova suo malgrado coinvolto in un dialogo con l’artista, che prima di lui è forse stato suo malgrado agganciato da un particolare che, a contatto con l’interiorità e la sensibilità tipica di fare arte, si è trasformato fino a diventare opera. L’esigenza da cui Bombardieri parte per fare arte è un’esigenza personale, intima. Le sue opere non sono manifesti, non hanno ca-

rattere didascalico, non sono rivestiti di una ricercata valenza sociale. Ma spesso le soluzioni che ognuno trova al proprio essere la mondo diventano stimoli anche per la collettività, e questo frequentemente avviene attraverso l’arte. La monumentalità non è il solo gancio espressi-

vo che fa sentire il pubblico coinvolto dalle, e a volte nelle, opere di Bombardieri. L’accentuato realismo è un veicolo altrettanto efficace per farci fermare. Il realismo può essere altrettanto espressivo della deformazione nel momento in cui le forme, è vero, non sono manipolate, ma i contesti e le relazioni tra gli elementi sì. E in questo senso si inserisce la scultura di Bombardieri. La decontestualizzazione degli oggetti e degli animali protagonisti – apparentemente – delle sue opere non è solo una decontestualizzazione spaziale – trovare qui ciò che è originario di altri paesi, trovare appeso ciò che solitamente immaginiamo ben piantato a terra, trovare corpi leggeri che trascinano corpi colossali. È prima di tutto una decontestualizzazione funzionale, sostanziale. E spesso ricalca in maniera visiva ribaltamenti di valori e priorità a cui assistiamo quotidianamente nelle società moderna, di cui gli artefici siamo noi e non l’artista, che rischiano purtroppo di divenire permanenti e ben poco giocosi.

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potenzialità della nuova creazione. L’atto dell’artista è un invito alla società a saper trovare i semi per un continuo rinnovamento, per la trasformazione da distruzione a costruzione.

Manuel Bonfanti concentra nella pittura la sua ricerca artistica. Assodato questo, nient’altro è in realtà univoco nel suo fare arte. Bonfanti ha esplorato, ed esplora, i diversi esiti espressivi che la pittura permette, passando da lineari e pulite tele pop ad espressionistiche figurazioni, proponendoci potenti paesaggi monocromatici o altrettanto potenti agglomerati timbrici. Tutto dipende dal contesto. Le sue opere sono site specific non solo in quanto pensate per uno spazio, ma più ampiamente in quanto pensate per un determinato contesto. Nello stesso tempo le sue opere sono creazioni che hanno l’intento di farci superare il nostro troppo spesso “site specific” modo di pensare alla ricerca di quei germi di universalità che la creazione artistica può mettere in evidenza. Perché l’arte è creazione e di conseguenza ciò che l’artista immette nel mondo non è la rappresentazione della realtà ma è esso stesso realtà, in grado di modificare un contesto, uno sguardo, un pensiero. L’arte ha anche la capacità di rendere visibile tutto ciò che permea la nostra realtà su diversi livelli che non siano quelli meramente fisici: le relazioni, i frammenti di passato, i progetti per il futuro, esistenze che concretamente fanno parte della nostra vita anche se in maniera non tangibile. Particelle che riempiono l’aria. Perché neppure il vuoto è mai davvero vuoto, ma contiene già i semi della prossima possibile creazione. Bonfanti ha avuto modo di vivere luoghi che hanno visto la distruzione, ma che dalla distruzione hanno saputo attingere la forza e la

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Mario Cresci è la manifestazione più immediata dell’assoluta mancanza di necessità di divisione e gerarchizzazione tra diversi linguaggi artistici. L’arte è uno strumento di intermediazione tra l’uomo e il mondo, e in questo senso ogni strumento ha il medesimo valore nel momento in cui il suo utilizzo ha come risultato l’elevazione dell’oggetto quotidiano a una consapevolezza maggiore. Per quanto Mario Cresci abbia scelto la fotografia come proprio mezzo espressivo privilegiato, la tradizione e la modernità convivono nelle sue opere. La compenetrazione di linguaggi artistici tradizionali e mo-

derni in esiti compositivi efficaci ed espressivi è possibile grazie all’importanza che Mario Cresci conferisce alla fase della progettazione, momento gestazionale della creazione artistica. Le opere di Mario Cresci emanano fortemente il concetto della necessaria attualità dell’arte: se l’arte non parlasse all’attualità non risponderebbe alla propria vocazione

primaria di comunicazione. Per poter essere attuale, comunicativa, efficace, non può prescindere dalla tradizione perché è attraverso la tradizione che si sono consolidati quei canoni comunicativi tuttora efficaci che certo sono soggetti a costante adeguamento alle moderne necessità della società ma che continuano a rappresentare la base solida dell’arte. Cardine di questa costante riattualizzazione della tradizione non è solo l’artista, ma è in egual modo lo spettatore, che attraverso il proprio filtro di lettura riconduce opere antiche, distanti nel tempo, nella sfera dell’imminente. Per Mario Cresci la creazione artistica è relazione, sia nel momento in cui l’artista mette mano a un nuovo progetto e prende quindi in considerazione il chi, il dove, il perché di questo nuovo progetto, sia nel perdurare nel tempo dell’opera, nella stratificazione cronologica delle relazioni che l’opera intreccia con le persone che ne vengono in contatto. Tradizione, attualità, relazione, centralità dell’artista non come singolo, bensì come esponente di una collettività ugualmente presente nell’atto artistico, una collettività che ha bisogno dell’arte per potersi evolvere, ed evolvere verso il bello, verso l’alto, verso una sempre maggior consapevolezza della propria potenzialità sono alcuni dei temi cardine delle opere di Mario Cresci. Le sculture di Giuliano Giussani si muovono in bilico tra astrazione e naturalismo, anzi, in un certo senso con le proprie forme neutralizzano questa solo apparente contraddizione. Le relazioni tra le forme, le proporzioni tra gli spazi, frutto apparentemente di un lavoro matematico, rispondono in realtà ad un’attenta osservazione della realtà. Di fatto la geometria non è scienza astratta ma scheletro della natura e in questo senso Giuliano Giussani la fa entrare nella propria arte, non come imposizione esterna, ma come preesistenza. La natura è messa in mostra nell’utilizzo del materiale, legno o pietra, lasciato a vista, neutro, la cui cromia naturale è esaltata dalle forme che Giuliano Giussani o in alcuni casi rafforzata dall’aggiunta di pochi colori fondamentali quali

il bianco, il bruno più o meno chiaro del legno. Le forme, a volte apparentemente di una pura geometria a volte riferimenti più puntuali a elementi zoomorfi o fitomorfi, sono pretesto per mettere in risalto la meravigliosa ed eccezionale armonia di forme di cui siamo circondati. Allo stesso modo la relazione tra elementi diversi nelle composizioni più complesse suggerisce quella stratificazione che naturalmente avviene nei processi di metamorfosi naturali. Pensiamo per esempio alle immagini delle carene delle navi incrostate di teredini, stratificazioni che raccontano di viaggi, ma anche del trascorrere del tempo e dell’inarrestabile avanzare della vita naturale anche lad-

dove l’uomo sembra aver preso il sopravvento. Anche l’uomo è indagato e poi restituito sotto forma di armonia naturale, di equilibrio della forma, di contrapposizioni e contrappunti, sia che si tratti di una figura solitaria, sia, ancora di più, quando sono due le figure che si intersecano, si abbracciano, si sostengono. Che si tratti di composizioni geometriche, di rimandi a forme naturali o umane, le sculture di Giussani vivono di un’intrinseca dualità, di spinte contrapposte che si esaltano a vicenda e si compensano, a volte rese attraverso

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la compresenza di più elementi, a volte nell’associazione di diverse direzioni che animano la stessa struttura in un dinamismo esplosivo trattenuto. Felice Martinelli ci conduce sulla soglia del baratro. Le sue opere, che potremmo definire bassorilievi, attingono alla forza spaziale della tridimensionalità e nello stesso tempo si permeano della valenza segnica della bidimensionalità. Ogni singolo piano che compone l’opera vive di vuoti e di pieni, di salite e di discese, di abissi e di vette. La stratificazione di diversi piani centuplica la percezione di trovarsi quasi all’interno di un labirinto che si sviluppa sopra, sotto, tutto intorno a noi. Si verifica poi un certo cortocircuito percettivo nel momento in cui i vuoti e i pieni modificano la loro forma, la loro ampiezza se noi spettatori modifichiamo il nostro punto di vista perché la relazione tra i diversi strati muta a seconda della frontalità o meno del nostro sguardo. Ecco allora che i vuoti si riempiono grazie all’intravedersi della superficie sottostante, o al contrario zone che parevano percettivamente stabili si aprono in abissi al nostro cambio di direzione.

Nelle opere di Felice Martinelli convivono stabilità e provvisorietà: stabilità dal momento che Martinelli è perfettamente in grado di calibrare i volumi e gli spazi, la leggerezza e la solidità in composizioni stabili, giocando con elementi che percettivamente si completano e stabilizzano

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a vicenda. Provvisorietà perché di fatto la stabilità si sfalda davanti ai nostri occhi nel movimento in cui il nostro sguardo abbandona la posizione di sicurezza data dal punto di vista frontale: le relazioni tra i piani, e di conseguenza, tra i volumi e gli spazi, si modificano e con esse si modifica la percezione che abbiamo dello spazio-opera. Gli scorci che si generano nell’interazione tra piani sono un invito a percorrere, anche solo con lo sguardo, questi spazi, di voltare gli angoli, di scoprire i bui anfratti sempre in bilico sul vuoto. Siamo in un certo senso di fronte a infinite scale di Escher destrutturate. Anche in questo incessante invito al movimento sta la forte carica vitale delle opere di Martinelli. Opere che sono viaggi esse stesse, ma che soprattutto ci suggeriscono che non si comprende nulla fino in fondo, mai, ma che lo spostamento del punto di vista, un nuovo modo di vedere, uno stimolo che proviene dell’esterno, possono modificare la nostra percezione e amplificare la nostra comprensione dell’intorno. Le opere di Giangi Pezzotti riverberano di un’essenzialità che parla universalmente ed empaticamente allo spirito di ciascuno. Sotto lo strato della razionalizzazione, oltre il livello della conoscenza, raggiungiamo con Pezzotti la sfera della percezione intuitiva. Non sono necessarie molte parole, ma pochi e lapidari termini che fanno da contrappunto alle immagini sanciscono quella sintesi spirituale che sta alla base della ricerca di Pezzotti. L’essenziale è presente nella scelta dei colori puri, timbrici, risonanti. È presente nel reiterarsi di poche immagini ricorrenti, che si rivestono di significati spirituali universali. Essenziale è sinonimo di sostanziale. Perché è alla sostanza che Giangi Pezzotti punta, la sostanza stessa del cammino umano, il risultato di quella ricerca di senso che da sempre ha caratterizzato ogni società umana e che ogni gruppo culturale ha intrapreso a modo proprio, con i propri strumenti, con la propria spiritualità. Giangi Pezzotti attinge alle ricerche spirituali di diversi popoli, conosciute nel corso della propria vita, approfondite, sviscerate e condivise. Non fa però l’errore di confondere il mezzo con

il fine. Le singole differenti religioni non sono il fine della ricerca dell’uomo, ma lo strumento che l’uomo utilizza per questa stessa ricerca. Come ogni strumento non esiste il giusto o lo sbagliato, ma l’efficace e il non efficace e ci sono immagini che in diverse culture, in diversi percorsi, hanno rivestito importanza universale. Ecco che Pezzotti appoggia la propria ricerca a queste immagini, liberandole però dal vincolo religioso, dalla necessità enciclopedica di essere abbinate a un popolo, a una provenienza, per riportarle sulla sfera dell’immediatezza, dell’universalità, della spiritualità più pura, quella condivisa, quella che non è strumento di differenziazione tra diverse umanità ma di unione di ogni popolo in un unico cammino umano. La casa, la figura orante, la sacralità del ventre femminile, l’antro, le anfore, sono solo alcuni degli elementi presenti nelle opere di Pezzotti. Sono però anche elementi presenti nell’arte più antica, quella che ancora manifestamente era strumento di spiritualità, quell’arte che non rispondeva alle logiche del commercio, della decorazione, della committenza privata, ma si connotava come pura manifestazione della sfera divina condivisa dall’intera comunità umana che la produceva, espressione non del singolo ma dell’intera società.

L’ironia tagliente di Luigi Radici si manifesta in opere leggere, lievi, divertenti, capaci però di lasciarci senza parole quando ne comprendiamo l’intrinseca denuncia dell’assurdità di tanti luoghi comuni e frasi fatte su cui erroneamente basiamo le nostre scelte e la nostra vita. L’ironia di Luigi Radici non mira però a darci una chiave di lettura pessimistica della vita. Al contrario ci aiuta a comprendere come spesso siamo noi stessi ad imporci limiti inesistenti, ostacoli creati dalle nostre false convinzioni, muri di “no”, di “devi” che ci occludono lo sguardo. La vita offre molte più strade, molti più colori, molte più possibilità di quante noi stessi ce ne concediamo. Ecco allora che Luigi Radici compone una varietà di elementi sulle proprie superfici con un sapiente gioco di equilibri cromatici e segnici. Un singolo elemento può essere stimolo per cento, mille pensieri e creazioni, può trasformarsi nella mente creativa di Radici in altro. Spesso gli oggetti presenti nelle opere di Luigi Radici sono sineddoche di situazioni complesse, sono una parte che però significano il tutto. Luigi Radici padroneggia alla perfezione diverse tecniche grafiche, che spesso fa convivere nella stessa opera. Questo gli permette di raggiungere risultati puliti ed eleganti, nei quali il perfetto equilibrio di

forme, colori, texture, pieni e vuoti, contribuisce a suggerirci un approccio vivace alla lettura dell’opera. Siamo invitati a porci con apertura mentale e soprattutto curiosità, non tanto verso l’opera quanto verso la nostra stessa vita. I titoli compongono l’opera esattamente come la parte grafica e

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con essa si mettono in relazione con la stessa vibrante ironia. Ciò che rimane allo spettatore di fronte alle opere di Luigi Radici è l’impressione che esista un modo più positivo, più pieno e più ricco di vedere la realtà, rispetto all’unico punto di vista a cui solitamente ci affidiamo, che le strade vanno scelte e percorse non solo con la mente, ma con l’empatia che solo un coinvolgimento totale di noi stessi, dei nostri sensi, dei nostri sentimenti permette. La forte componente grafica, supportata da un’eccezionale capacità segnica e da una produttività che se pur manuale raggiunge numeri quasi industriali, caratterizza le opere di Marco Rossi. La velocità di realizzazione, ben riscontrabile soprattutto nei piccoli taccuini, rispecchia la velocità del pensiero interiore, l’inarrestabilità della riflessione. Lo stream of consciousness che in arte si è manifestato sotto diverse forme, da quella letteraria a quella pittorica, rispecchia la sempre maggior consapevolezza dell’importanza della sfera psichica nella vita quotidiana acquisita a partire dagli inizi del Novecento e lo strumento che Marco Rossi sceglie per esprimenre graficamente il proprio pensiero. Presenza costante nelle composizioni di Marco Rossi è la figura umana; la sua rappresentazione oscilla da esiti altamente realistici a sagome appena accennate. Gli atteggiamenti stessi di queste figure altalenano tra una sfrontata e solo apparente sicurezza di sé, all’accasciamento frutto di un disaggio sociale realmente percepito. Gli ambienti, laddove presenti, sono spesso solo suggeriti e in ogni caso alieni, algidi, scevri di qualunque calore umano. Non si tratta di un’accusa alla società quanto di un mettere in risalto come la debolezza del singolo sia di fatto la vera unica ricchezza che accomuna tutti gli individui, che siano più o meno capaci di cammuffarlo, che rendere gli uomini diversi da qualunque altra specie vivente. La capacità di interrogarsi, la vulnerabilità ai dubbi, la percezione della propria inadeguatezza, sono allo stesso tempo debolezza e forza dell’uomo. La realtà che quasi senza rispetto supera i confini dell’individuo e lo invade, ne costituisce necessariamente però il tessuto fondante. Le parole che irrompono in questi spazi intimi, che siano scritte o stampate, disturba-

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no ma nello stesso tempo rafforzano il legame, inesorabile e inevitabile, tra singolo e contesto. Marco Rossi disegna, dipinge, trasforma i propri disegni in video. Utilizza i grandi formati quasi come decantazione delle realizzazioni più affollate a cui assistiamo nei piccoli formati. È in grado di esaltare la forza del vuoto così come la forza del sovraffollamento, in composizioni nelle quali il colore emerge raramente e discretamente. Al cospetto dei suoi personaggi, il disagio è quasi più percepibile nelle figure vestite, goffamente mascherate da giacche formali, che nei nudi che mettono in primo piano le proprie ferite senza vergogna. Ferite che ci mettono quasi più a nostro agio perché appartengono a tutti, come a tutti appartiene la difficoltà di vestire gli abiti che la società ci impone e l’inesorabilità del dover trovare un posto nel mondo.

Da arte ad arte è un concentrato di stimoli sia nel contenitore che nel contenuto. Nata come omaggio, questa esposizione non può che essere percepita come tale perché non è così frequente trovare occasioni che ci mettano a contatto con tanti significativi nomi dell’arte contemporanea, che ci invitino a porci in maniera critica e costruttiva nei confronti di un tema, quello dell’arte, che permea in maniera più completa di quanto possiamo immaginare la nostra vita, come singoli individui e come comunità.

Artisti&Opere


Stefano Bombardieri Nasce nel 1968 a Brescia. Accanto alla realizzazione di sculture figurative, in prevalenza di grandi dimensioni, crea opere legate all’arte povera, all’arte concettuale e alla video-installazione. La sua ricerca artistica si sviluppa sulla riflessione, non senza suggestioni filosofiche, di alcuni temi, quali il tempo e la sua percezione, l’esperienza del dolore nella cultura occidentale, l’uomo e il senso dell’esistenza. Il suo lavoro parte dalla realtà tangibile per giungere a mondi interiori, universi fantastici. A partire dagli anni Novanta espone in spazi pubblici e gallerie, prediligendo il dialogo tra opera e spazio urbano. Tra le sue installazioni si ricordano quelle collocate nel centro di Ferrara, a Faenza, a Bologna, a Saint Tropez e a Posdam. A Pietrasanta presenta nel 2009 la sua personale The animals count down. Partecipa alla 52° e alla 54° Biennale di Venezia. Lavora tra Italia, Francia, Germania , Svizzera, Inghilterra, Grecia, Libano, USA.

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Il peso del tempo sospeso/ rinoceronte

Compressione

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Gorilla 723 Trottola

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@ph.PaoloBiava

Manuel Bonfanti Nasce a Bergamo nel 1974, dove vive e lavora. Si diploma presso l’ Accademia di Belle Arti di Brera a Milano. Studia fashion design durante il progetto Erasmus allo Jyuvaskila Politechnik in Finlandia, dove approfondisce gli studi sull’ architetto Alvar Aalto studiando nella sua città natale. Espone regolarmente in spazi pubblici e privati, nazionali e internazionali, è presente in moltissime collezioni private. La sua ricerca si muove inizialmente tra i linguaggi pop ed espressionisti, che lo portano ad interessarsi alla fenomenologia dell’invisibile, dell’ apparente vuoto nello spazio, come luogo di respiro spirituale. La serie “Air space” dal linguaggio astratto dell’informale, lascia recenti spiragli ad accenni di paesaggistica. Le sue opere sono esposte permanenti presso il Centro Congressi Giovanni XXIII di Bergamo. Segnaliamo le prestigiose esposizioni: • 2010, presso il National Cultural Center di Kazan, Federazione Russa • 2013, presso l’ Istituto Italiano di Cultura a Praga, in Repubblica Ceca • 2017, presso la sala d’ onore del Museo Diocesano Adriano Bernareggi di Bergamo. È l’ ideatore e curatore dello spazio permanente, “The Tube One”, presso l’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo.

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Air space 2019 Tecnica mista su tela, 50x60 cm

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Air space 2019 Tecnica mista su tela, 120x120 cm

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Air space 2018 Tecnica mista su tela, 110x72 cm

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Mario Cresci Fin dagli anni ‘70 è autore di opere eclettiche caratterizzate da una libertà di ricerca che attraversa il disegno, la fotografia, il video, l’installazione, il site specific. È tra primi autori in Italia ad applicare la cultura del progetto coniugandola a una sperimentazione sui linguaggi visivi. Nel 2004 realizza la sua prima antologica “Le case della fotografia. 1966-2004” alla GAM di Torino, mentre nel 2017 riassume i suoi cinquanta anni di attività artistica nella mostra “La fotografia del No. 1964-2016” alla GAMeC di Bergamo. Dal 2010 al 2012 realizza il progetto “Forse Fotografia: Attraverso l’arte; Attraverso la traccia; Attraverso l’umano” con una mostra itinerante nei musei di Bologna, Roma, Matera e pubblica per i tipi Allemandi Edizioni l’omonimo catalogo, un volume ricco di testi critici e immagini sul suo lavoro. Partecipa alla Biennale d’Arte di Venezia negli anni ‘71, ‘79, nel ‘93 in “Muri di carta. Fotografia e paesaggio dopo le avanguardie”. Dal ‘74 alcune sue fotografie fanno parte della collezione del MOMA di New York. Molti lavori sono raccolti in diverse collezioni d’arte e fotografia contemporanea di note collezioni museali permanenti. Insegna all’Università ISIA di Urbino e alla FMAV di Modena. Vive e lavora a Bergamo.

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Dalla serie “Attraverso l’arte” Bologna 2010 Stampa giclée Fine Art su carta cotone Courtesy Archivio Cresci; Pinacoteca Nazionale di Bologna

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“La Contessa di Castiglione”, dalla serie “I rivolti” Bergamo 2013 Stampa giclée Fine Art su carta cotone piegata a mano Courtesy Archivio Cresci

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Giuliano Giussani Nasce nel 1957 a Fara Gera d’Adda (BG), manifesta fin da giovane età l’interesse per l’arte ed in particolare per la scultura, una passione che cresce e si sviluppa con gli studi all’Accademia di Belle Arti Giacomo Carrara di Bergamo. Le esperienze di vita e di lavoro, i viaggi e le letture, contribuiscono alla maturazione dell’uomo e dell’artista, confermando la scultura quale linguaggio espressivo di un cammino esistenziale in continua ricerca ed evoluzione. Ha esposto e partecipato a simposi internazionali e residenze d’artista in Italia, Svizzera, Francia, Olanda, Austria, Spagna , Albania, Finlandia, Israele,Turchia, Giappone, Nuova Zelanda, Corea, Cina, Egitto, India, Uruguay, Lussemburgo. Nel 1997 ha ricevuto il primo premio al simposio internazionale di scultura “Fukuhara Gakuen” a Kitakyushu City in Giappone.

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Accordo 2003 Pietra, 25x17x15 cm

Evoluzione 2019 Legno, 25x7x4 cm

Evoluzione 2019 Legno e colore acrilico, 33x8x8 cm

Evoluzione 2019 Legno, 31x7x7 cm

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Gemini 2011 Legno, 20x21x6 cm

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Torsione 2015 Legno, 25,5x11,5x7 cm

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Felice Martinelli Nasce nel 1962 a Coccaglio (Brescia), dove vive e lavora. Nel 1988 si diploma in Pittura presso l’Accademia di Belle Arti Brera in Milano dove insegna ad oggi dall’anno accademico 1991/92. La genesi del suo lavoro si sviluppa dall’approfondimento di cicli consistenti e approfonditi: dalle Vulcaniche 1987/89 e Anatomiche 1989/91 alle recenti Cosmiche, Voragini e monoliti in ferro titolati Standing Black, Mantra, Strong e gli ultimi Apotropaici. Si occupa della progettazione di opere site specific in contesti architettonici e paesaggistici, tra le quali: Grande Bocca, 1999, Cazzago S. Martino (Bs); la monumentale stele Genetic Sound (2005) realizzata per Toora Group; Cosmica per il Comune di Rudiano (Bs); New Gate 2000, Dream Team a Milano; Crash, site specific, 2011; Mare Serpens 2012 e Jungle Wall, site specific Casa Balotelli, 2013, Brescia; Grande Nuvola in Casa Stallinger, 2014, a Gargnano (Bs), Trittico 2012 e Felix, Portale 2016 e nuovo ingresso sezione Codici miniati Museo Diocesano, Brescia. Numerose le monografie ne descivono il percorso operativo: tra le ultime: “Quasi Ombra”, (Agora35 Ed. 2014) a cura di Cristina Muccioli per la mostra di sculture in ferro, cementi e disegni tenuta presso la Fondazione Morcelli/Repossi in Chiari.

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Apotropaico (Noli Me Tangere)

Apotropaico (Noli Me Tangere)

2019 Materico su corpo ligneo, 50 x 50 x 20 cm ca.

2019 Materico su corpo ligneo, 50 x 50 x 20 cm ca.

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Apotropaico (Noli Me Tangere)

Apotropaico (Noli Me Tangere)

2019 Materico su corpo ligneo, 50 x 50 x 20 cm ca..

2019 Materico su corpo ligneo, 50 x 50 x 20 cm ca.

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Giangi Pezzotti Pittore – incisore – compositore di sonori Nasce a Crema nel 1963 e si diploma al Liceo Artistico di Brera a Milano. Ha frequentato, dal 1983, l’Accademia Carrara di Bergamo e, successivamente, l’Accademia di Belle Arti di Brera, a Milano. Pittore e incisore, esegue in parallelo composizioni musicali, utilizzando propri temi sonori che accompagnano le ambientazioni delle proprie opere. È presente dal 1983 con continuità sulla scena espositiva nazionale e internazionale (India, Stati Uniti, Serbia, Macedonia, Francia, Giappone). Collabora attraverso la calcografia a edizioni di pregio, in tiratura limitata, accostando il proprio lavoro a testi di scrittori e poeti. Per sua formazione occidentale, le caratteristiche del segno assumono valenze autonome, attraverso una spiccata sensibilità per le manifestazioni spirituali dell’uomo, si è volto a una assidua esplorazione delle forme simboliche di varie culture. Nascono da qui associazioni e contrasti, che propiziano nuove letture. Nell’unità dell’immagine e nella sua “quadratura” si rivelano altre direzioni di senso, e un dettato intimo e sensitivo, portato per esprimersi in forma di trame e orditi, che esaltano elementi decorativi, riproponendo inediti aspetti del significato.

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Mente

2017 Carta intelata, 50x70 cm

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Cibo e riparo

2012 Pigmento su tela, 160x130 cm

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Nut

2019 Calcografia, 32x29 cm

Senza titolo

2014 Calcografia, 22,5x20,5 cm

Pasto 1

2010 Pigmento su tela, 150x150 cm

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Luigi Radici Nasce nel 1954 a Castelli Calepio (Bg) dove vive e lavora. Un’esperienza lavorativa in una tipografia lo stimola, nel 1972, a iscriversi e quindi diplomarsi all’Accademia “Giacomo Carrara” di Belle Arti di Bergamo, dove dal 1986 al ‘91 è chiamato come docente di tecniche e composizione pittorica, e in seguito di tecniche calcografiche speciali. Esperienze nel campo musicale e pratica nella grafica di comunicazione lo aiutano a sviluppare un linguaggio ironico, mai banale, denso di poesia. È costantemente presente nel campo delle arti visive con mostre personali e partecipando a esposizioni collettive di pittura, scultura e grafica.

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Dalla serie “Lavami, mia cara�

2018 Tecnica mista su cartoncino ondulato, 68x84 cm (ca. cad.)

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Dalla serie “Sette uova”

2017 Tecnica mista su carta, 27,5x17,5 (ca. cad.)

Non me ne vergogno affatto (remix) 2014 Tecnica mista su carta Hahnemühle, 156x75 cm

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Marco Rossi Nato a Treviglio ( BG ) nel 1987. Ha frequentato il Liceo Artistico di Bergamo e l’Accademia di Brera a Milano dove si è laureato nel 2013 nel corso di Pittura. Negli anni partecipa a collettive ed allestisce personali in diverse città Italiane. Nel 2012 vince il “Premio Nazionale delle Arti” alla Pinacoteca Albertina di Torino. Vive e lavora a Calcio ( BG ).

[...] Il lavoro di Rossi è strettamente legato al disegno, che gli permette di registrare un flusso di coscienza nel quale si intrecciano corpi, presenze, scritte, spazi e paesaggi. Questi disegni spesso vengono raccolti in quaderni trasformati in raccoglitori di immagini, oppure ingranditi e lasciati liberi di disperdersi altrove [...]

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Cherry lips

2019 Acrilico su carta su tela, 30 x40 cm (cad.)

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Honest mistake

2015 - 2019 Disegni, quaderni, oggetti d’archivio, plexiglass, 100 x 100 cm

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Studio per animazione

2018 Veduta dell'installazione, dimensioni ambientali

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