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Storia della Canapa La canapa
PARTE SECONDA La canapa a chiare lettere
Liza Binelli
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La Roma dell'impero augusteo, quella Roma che vedeva nascere l'ara pacis e, conosceva un lungo periodo di pace è la patria di tutti i vizi, virtù, religioni, riti esoterici, credenze magiche e abitudini dei popoli conquistati. Le sostanze inebrianti occupano logicamente un posto rilevante nella corte imperiale, nei festini degli aristocratici e nelle pozioni dei vari maghi - sacerdoti delle più misteriche religioni. Virgilio parla di: papaveri impregnati del sonno del Lete (il fiume dell'oblio).
Nella sua “Storia Naturale” Plinio, invece, descrive gli effetti medici del papavero, mentre Dioscoride afferma che l'uso della canapa: “Fa venire davanti agli occhi fantasmi e illusioni piacevoli e gradevoli”.
E da Roma, spostandoci verso il Medio Oriente troviamo gli arabi che appresero l’utilizzo della canapa dall’India, dalla Persia e dalla letteratura greca ed introdussero tale sostanza nella loro articolata farmacopea e nell’armamentario delle piante dispensatrici di voluttà ed evasione.
La canapa era tenuta in grandissima considerazione.
Hashish in arabo significa erba, anzi, è l’erba per eccellenza, come se l’attività psicotropa della pianta costituisse la chiave complessiva dell’intero regno vegetale.
Sebbene mai esplicitamente menzionata, la canapa è protagonista della vicenda leggendaria di “Hassan-i Sabbah” e della feroce setta dei suoi assassini, narrata da Marco Polo nel “Milione”, una storia che ha stimolato per secoli l’immaginario occidentale, soprattutto quello dell’epoca romantica. Numerose ed antiche sono le varianti narrative di questo racconto.
Il primo resoconto testuale ci viene dalla “Chronica Slavorum” dell’abate Arnoldo di Lubecca, nel XII secolo. Arnoldo racconta che l’imam Hassan, infallibile ed onnipotente capo della città fortezza di Alamut, si serviva dell’hashish per arruolare i giovani e renderli privi di qualsiasi volontà e assolutamente dipendenti da lui, in modo tale, da spingerli nelle imprese più pericolose, compreso l’omicidio. Il termine “assassini”, con cui s'indicavano in Europa i componenti di questo devotissimo corpo armato di vendicatori, derivava dall’arabo hashishen, cioè dediti all’erba. Hassan, infatti dava loro l’hashish per indurre estasi e visioni fantastiche e, armandoli di pugnale, prometteva che quelle gioie sarebbero diventate eterne, se essi avessero obbedito ai suoi ordini.
Nella versione di Marco Polo, invece, il “Vecchio della montagna” aveva realizzato in una valle tra due montagne: «Lo più bello giardino e ‘l più grande del mondo»; fedele riproduzione terrena dell’aldilà maomettano. Qui venivano fatti svegliare, dopo un sonno estatico provocato con un'erba, i sicari scelti per le missioni delittuose. Si faceva loro credere che quello fosse il vero paradiso di Allah, e che avrebbero potuto viverci per sempre, se solo avessero messo in pratica i comandi del “Vecchio”.
Passano i secoli e nella letteratura si trova traccia della cannabis, o almeno sembra, nel “Decameron” di Giovanni Boccaccio. Il riferimento all’erba è presente nell’ottava novella della terza giornata usata, sembra, per plagiare gli assassini. Un abate, per intrattenersi con la moglie, faceva qui bere all’ingenuo marito, Ferondo, una pozione fatta con «una polvere di maravigliosa virtù, la quale nelle parti di levante avuta avea da un gran principe...».
Piuttosto, il primo dettagliato resoconto europeo sull’uso e sulle proprietà della canapa è di François Rabelais. Nel “Gargantua” compare, infatti una minuziosa descrizione «dell’erba chiamata Pantagruelion», che testimonia come lo scrittore doveva avere una grande familiarità con tale pianta. Ciò dipendeva dagli studi di medicina fatti dal Rabelais, ricordiamo che egli è stato il primo a tradurre in francese le opere di Ippocrate e Galeno, ma anche dal fatto che il padre, Antoine, coltivasse la canapa nei suoi possedimenti in Turenna (un'antica provincia francese situata nel bacino della Loira).
Ma oltre al già citato Club dei mangatori di hashish (di cui ho ampiamente discusso sul numero scorso), c'era anche un altro celebre cenacolo di estimatori d'oppio, quello di cui era capo indiscusso il medico Jacques Joseph Moreau de Tours (1804–1884). Il primo dottore a compiere uno studio sistematico sugli effetti delle droghe sul sistema nervoso centrale, e ad analizzare e catalogare scientificamente le proprie osservazioni.
In questo club l’hashish era usato “sperimentalmente”, per indagare la follia dal di dentro.
Moreau de Tours aveva provato per la prima volta l’hashish nel 1837, nel corso di uno dei suoi frequenti viaggi in Oriente ed era diventato subito mentore infaticabile della nuova droga nell’ambiente medico. Dopo un lungo tragitto durato fino al 1840, scoprì gli effetti del fumo di hashish, e cominciò a studiarli al fine di comprendere il rapporto tra pazzia e sogni, che secondo Moreau sarebbero forme analoghe di delirio.
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Egli scrive nel 1845 un saggio “Du haschisch et de l’aliénation”, in cui dedica oltre cento pagine all’analisi degli effetti fisici e psicologici dell’hashish, soffermandosi con cura puntigliosa sulle anomalie delle funzioni psichiche che la resina della canapa provocava.
A Theophile Gautier, invece, si devono dei reportage sulle pratiche dei cenacoli dei fumatori d’hashish che descrivono minuziosamente le sensazioni e le allucinazioni provocate dalla droga che Moreau de Tours gli aveva procurato. Non fa mistero degli effetti benefici della canapa come anche delle sue controindicazioni. Prima il kif, l’estasi, l'agognata liberazione dall’io e dal corpo, le visioni fantastiche straordinariamente dilatate nel tempo. Ma subito dopo l’incubo, la disperazione e l’angoscia, una gelida pietrificazione delle membra e della volontà, la malefica trasfigurazione dei compagni della tossica avventura, da comiche maschere strabordanti di irrefrenabile riso, in personaggi dalle fattezze deformi e dai modi terrificanti.
Infine, il decadimento nell’incoscienza, prima del risveglio della ragione.
Gautier prendeva, quindi una posizione critica nei confronti dei molti sostenitori dell’uso delle droghe a fini creativi. Nei “Récits fantastiques”, egli rivendicava l’autonomia e l’autosufficienza dell’artista nel processo creativo, affermando che il vero letterato, non gradisce che la sua mente subisca l’influenza di un qualsiasi agente, in quanto ad esso bastano i suoi sogni naturali.
L'autore de “I tre moschettieri” ovvero Alexandre Dumas padre, dette un notevole contributo all’affermazione del fascino esotico dell’hashish nella cultura francese con il celebre passaggio nel “Conte di Montecristo” in cui racconta l’esperienza di Franz d’Epinay. «Il suo corpo sembrava acquisire una leggerezza immateriale - scrive Dumas - la mente s’illuminava in modo straordinario, i sensi sembravano raddoppiare le loro facoltà; l’orizzonte si dilatava sempre più, ma non già quell’orizzonte cupo su cui planava un vago terrore, e che aveva contemplato prima di addormentrasi, bensì un orizzonte blu, trasparente, vasto, con tutto ciò che il mare ha d’azzurro, con tutti gli splendori del sole, con tutti i profumi della brezza […] Seguì un sogno di voluttà incessante, un amore senza tregua, come quelli promessi dal Profeta agli eletti».
Infine, appartengono sempre all'Ottocento due opere italiane a cura dei chimici: Giovanni Polli e Carlo Erba. (fine ultima e seconda parte)