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Il governo di nessuno Susanna Turco

Foto: A. Casasoli / FotoA3 (2) pure anche quello dell’ex banchiere centrale è un timore in parte infondato.

Perché stavolta a governare, a trionfare, è il caos. Generato a partire da un fatto storico, e ormai assodato. Il partito che aveva vinto le elezioni - i Cinque stelle - non è mai riuscito a guidare il gioco, mai. Né all’inizio, quando il capo dello Stato Sergio Mattarella dovette avviare in penombra e per mesi una ricerca degna di una caccia alla volpe per trovare un capo del governo grillinizzabile. Né con le ultime mosse, visto che persino la scissione guidata da Luigi Di Maio - e in teoria una scissione è il momento massimo dell’orgoglio identitario di chi si scinde - è stata letta come invece guidata dai Palazzi, da Chigi, dal Colle: in una parola eterodiretta, pure quella. I Cinque stelle, caso unico nella storia d’Italia: primo partito in Parlamento, doveva sciogliere la vecchia politica, ha finito per sciogliere se stesso, diventando così un buco nero dentro al Parlamento. Un vortice capace di risucchiare nel nulla non solo il tonno, ma pure la scatoletta. «Le proposte di Draghi sono il nulla o un nulla relativo», ha detto in questi giorni una voce dal vortice di quel nulla, quella di Alberto Airola. Un quinquennio che ha visto dunque in qualche modo un trionfo dell’antipolitica, questo sì: ma anzitutto ai danni di chi la propugnò.

Erano partiti in più di trecento (330), i parlamentari grillini, di sicuro giovani e forse anche forti all’inizio della legislatura, il 23 marzo 2018. Dicevano: siamo diversi. Sono finiti, al momento di andare in stampa, a meno della metà: i 221 deputati sono diventati 105, i 109 senatori crollati a 62. Dicono, ora: siamo uguali. E la scissione record di Insieme per il futuro è solo un pezzo del tracollo. Il più importante, il più visibile, certo. Ma i Cinque stelle sono di fatto sfarinati in tanti gruppi e gruppetti, sono in altri partiti, hanno creato realtà parallele come quella di Sara Cunial e realtà aliene come quella di Italexit di Gianluigi Paragone. Tutt’altra storia, gli ultimi, dai primi che lasciarono il gruppo: senza riandare alla mirabile parabola di Andrea Mura, velista che nel luglio 2018 proclamò di essere più utile fuori dal Palazzo che dentro (e infatti se ne andò), sulla vicenda di Gregorio De Falco nell’inverno 2019 vi fu uno psicodramma che metteva in discussione l’intera politica pentastellata sull’immigrazione (era l’epoca dei decreti sicurezza e della nave Diciotti); e ancora per Paola Nugnes e la sua uscita, un anno e mezzo dopo le elezioni, era sorto il dibattito se cambiare gruppo le sarebbe davvero costato i centomila euro di penale minacciata da Casaleggio, alla faccia del mandato parlamentare senza vincolo. Adesso al Senato, più vasto del gruppo dimaiano che conta 10 senatori, vi è il mitologico gruppo dei 14 di Insieme per la Costituzione, guidato sempre da un ex grillino, Mattia Crucioli. Dentro vi è confluito quello che si può definire per iperbole il succo sgocciolato della scatoletta. Bastano i nomi ufficiali delle varie componenti del gruppo, la maggioranza delle quali di ascendenza grillina: Cal (acronimo per Costituzione, ambiente lavoro), P.C., Ancora Italia, Progetto Smart, Idv (quella lì) e Alternativa. Anche quest’ultima è una creatura doc: si tratta dell’ex “Alternativa c’è”, nome che raccolse

Mario Draghi. A destra, Luigi Di Maio quanti fra i Cinque stelle non vollero votare la fiducia al governo Draghi e che adesso, aggiornato, serve a segnalare forse che l’alternativa non c’è più.

Del resto anche un qualsiasi ordine è svanito. Proprio nel momento in cui nacque l’Alternativa (quella che «c’è»), nel febbraio 2021, a uscire dal Movimento era un suo simbolo - forse troppo politico - Alessandro Di Battista. Mentre a governare i Cinque stelle era Vito Crimi: il più preciso tra i tre capi che ha avuto il M5S, l’unico pronto ad applicare come si deve il meccanismo dell’espulsione (che infatti in quel caso comminò puntuale), il parlamentare ortogonale detto gerarca minore che era ritornato a guidare il Movimento dopo che s’era dimesso Luigi Di Maio, il più democristiano di tutti. L’ultimo barlume di ordine, Crimi, prima che arrivasse l’avvocato delle mezze misure, Giuseppe Conte: l’uomo capace di mettere insieme la fiducia e la sfiducia, il sì e il no, il governo, il non governo e il governicchio e di navigare così in un brodo che alla fine è fluido, no gender e quindi modernissimo, anche se politicamente fecondo quanto il numero in crollo di voti che tutti i sondaggisti gli prevedono. «Il Movimento deve recuperare voti fra i cittadini, non fra i peones che fra sei mesi spariranno nel nulla da cui vengono», è in effetti l’ultimo monito del gran consigliori Marco Travaglio. Un epitaffio abbastanza sorprendente, se si pensa che arriva da un, in teoria, amico dei Cinque stelle. Se questi sono gli amici, figuriamoci i nemici.

Tutto del resto si è capovolto. Chi voleva multare i cambi di casacca ha finito per incentivare i cambi di casacca, chi predicava l’attacco finale ai Palazzi ha finito per diventare il sostegno vitale del Palazzo: «Dimostreremo che politica si può fare in maniera differente», diceva Luigi Di Maio nella prima riunione grillina di questa legislatura, il 21 marzo 2018. I Cinque stelle «stanno generando instabilità e stanno sostanzialmente mettendo a repentaglio gli obiettivi che tentiamo di raggiungere come Paese», dice il 12 luglio 2022 il Di Maio cambiato, quello che ha indossato la cravatta del potere proprio nel momento in cui, lasciando la guida del M5S, se la toglieva simbolicamente dal collo.

«Non c’è la politica», dicono da Palazzo Chigi in questi giorni a precipizio. Non c’era nei giorni del Quirinale, quando nessun leader è riuscito a costruire una tessitura diversa dalla perpetuazione dell’esistente. Non c’è stata nei passaggi cruciali della legislatura: dal Papeete alla fine del governo Conte II. Lo stesso Draghi, del resto, è un tecnico: mai diventato politico.

Il vortice dell’antipolitica ha risucchiato il resto, creando una paradossale equilibrio. Non sapendo governare, il vasto mondo grillino si è fatto governare, infiltrare dal Palazzo. Da una parte ha fatto l’abitudine all’auto blu, alla pacatezza, allo sbiancamento dei denti, agli agii in genere. Dall’altra si è fatto innervare dal Palazzo e dalla sua capacità di perpetuare se stesso. Si è affidato cioè ai mandarini. Anzitutto al principe dei mandarini, Ugo Zampetti. Già potentissimo segretario generale della Camera, dal 2015 passato in uguale ruolo al Quirinale, Zampetti continua ad avere a cuore la stabilità delle istituzioni. E anzi, in questi giorni difficili, è balzato di nuovo come si ritrovi sotto gli occhi una specie di cordone di sicurezza fatto di personalità ragionevoli posate in ogni ganglio. Vi è, giusto per fare un esempio tra tanti, l’avvocato Francesco Fortuna: vincitore di concorso presso il segretariato generale della presidenza della Repubblica, nel luglio 2018 è stato comandato al ministero dello Sviluppo economico, guidato prima da Di Maio e poi da Stefano Patuanelli, ministro che ha poi seguito come capo di gabinetto anche all’Agricoltura. Un singolo caso che esemplifica quanti cuscinetti invisibili vi siano, attorno ai visibili e fragorosi tentativi di accrocco grillino. Tentativi di razionalità nel trionfo dell’irrazionale, mentre quella che una volta fu chiamata la «rivoluzione gentile» scolora tra le onde gravitazionali. Q

I 221 DEPUTATI GRILLINI SONO DIVENTATI 105, MENTRE I 109 SENATORI SI SONO RIDOTTI A 62, IN UN GROVIGLIO DI SIGLE

© RIPRODUZIONE RISERVATA Foto: Agf, Getty Images

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