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Basta maggioranze innaturali colloquio con L. Zanda di Carlo Tecce 28 Lui padre nobile, lei vecchia Loredana Lipperini 34 Donbass, terra a pezzi per cui morire Sabato Angieri

ranza, che quasi sempre si esprime con le parole d’ordine della propaganda del Cremlino, che crede che le bombe siano lanciate dall’esercito ucraino sul proprio territorio, che l’acqua sia dirottata verso le città dell’ovest e gli aiuti umanitari spediti altrove. Si tratta degli stessi che attendono l’arrivo dei soldati russi perché sperano di poter tornare a vivere in pace e sono persone emotivamente a pezzi. Riuscivano a rimanere impassibili di fronte al cielo che sembrava essersi rotto sopra le loro teste ma, bisognerebbe chiedersi, che costo ha quest’indifferenza? Il pianto, la paura, i tic nervosi, gli scoppi di risa improvvisi sono solo alcuni dei segni più superficiali dell’enorme carico emotivo e psicologico del quale l’invasione russa ha gravato la popolazione locale. A Siversk, qualche tempo fa, ho incontrato Sasha, un anziano che ogni giorno alla stessa ora indossava i guanti e iniziava a tagliare la legna per la brace come se fosse un lavoro. Guardava l’orologio in continuazione e si fermava a intervalli prestabiliti, dando l’impressione che si sentisse controllato da un caposquadra. La prima volta ho pensato che lo facesse per far ridere le signore che stavano sedute sotto la tettoia del palazzo fuori dai rifugi, poi invece, quando si è arrabbiato con un altro vicino che l’aveva interrotto durante il “turno” ho capito che era serio. Valentina, una delle signore, si è messa a piangere silenziosamente mentre i due uomini litigavano e mi ha detto: «Bisogna trovare il modo di passare il tempo, altrimenti impazzisci».

Negli stessi cortili c’è chi condanna l’invasione e l’operato di Putin pur non riuscendo a rinchiudere tutti i russi nel calderone dei nemici giurati; sono la maggioranza e non riescono a spiegarsi come un popolo «fratello» abbia potuto iniziare una guerra così

Un residente cammina di fronte a un edificio di appartamenti distrutto in un attacco militare, a Kramatorsk

I MILITARI DI KIEV CHIAMANO “MOSKALÌ” I LOCALI. E LORO, VITTIME DEL FUOCO INCROCIATO, MARCANO LE DISTANZE DICENDO DI NON CAPIRE L’ACCENTO

violenta. Alcuni la vivono come una sorta di pugnalata alla schiena e anche questo è difficile da interiorizzare. Rendersi conto che l’ex-madre poi diventata fratello maggiore ora è il carnefice non è una consapevolezza che si accetta dal giorno alla notte, ma, almeno in questo, le bombe aiutano catalizzando i ragionamenti. In altri termini, esistono delle sfumature che, per fortuna, a cinque mesi dall’inizio della guerra, resistono alla barbarie del dualismo bellico.

Anche per questo tra i militari ucraini e civili del Donbass c’è diffidenza. Molti dei soldati che vengono dall’ovest o dalle regioni centrali sanno già che si troveranno a dover combattere in una terra che li accoglie con freddezza, in mezzo ai moskalì (uno dei dispregiativi con i quali gli ucraini chiamano i russi). «Guarda che posto dimenticato da Dio», diceva Dima, un tenente dei Carpazi di stanza nei pressi di Izyum: «Non c’è nulla di bello, né montagne né mare, solo questo caldo opprimente e le zanzare in mezzo a tutta quella gente che ci vorrebbe morti».

Persone in attesa di ricevere i pacchi con gli aiuti umanitari a Kramatorsk. Al centro, un edificio civile distrutto da un missile a Bakhmut Per Dima e i suoi commilitoni dell’ovest, i civili del Donbass sono ignoranti, poco affidabili e spesso li chiamano «zombie» perché «hanno il cervello imbottito di propaganda russa». Tuttavia, a riprova ulteriore dell’importanza delle sfumature, Dima ha dato ordine che l’ospedale militare da campo fosse aperto anche ai civili: «Dove diavolo dovrebbero andare altrimenti quando hanno bisogno di un medico?». Dal canto loro, i civili dicono di «non capire l’accento» di quei soldati, che, per chi conosce la campagna, è una sentenza dai mille significati, e temono costantemente che gli si possa sequestrare la macchina o altro in virtù della legge marziale; ma dal medico militare c’è un viavai costante.

Un altro elemento che ha creato forte discordia tra l’esercito e i residenti deriva da una necessità tattica. Non potendo rischiare di essere individuati dai nemici, gli artiglieri di Kiev sparano da una posizione e poi si nascondono in mezzo ai palazzi, sotto gli alberi delle vie periferiche, nei capannoni agricoli. Per i difensori, è una strategia efficace, la stessa, ad esempio, che gli ha permesso di resistere a Lyman così a lungo, ma i civili vedono solo che dopo il passaggio delle truppe ucraine i russi bombardano e colpiscono le loro case. Inoltre, da quando l’esercito di Mosca ha occupato le città di Rubizhne, Lysychansk e Popasna, le distanze da coprire si sono ridotte significativamente e i bombardamenti sulle città ancora in mano ucraina sono effettuati con armamenti desueti, vecchi mortai dell’epoca sovietica,

fondi di magazzino stipati in qualche armeria nelle regioni lontane dell’enorme territorio russo. Armi molto meno accurate di quelle contemporanee, spesso colpiscono fuori bersaglio, creando scompiglio e devastazione tra i residenti e lasciando sul campo molte vittime casuali.

Possibile che neanche tutto ciò basti a convincere una persona a lasciare questa terra martoriata?

Fuori Soledar, l’anziana Alina raccontava di dover rimanere per suo figlio che a breve sarebbe stato richiamato, non poteva permettere che a sera l’uomo trovasse una casa vuota. Suo figlio, senza farsi sentire, replicava che non poteva lasciarla lì da sola e che sarebbe stato impossibile staccarla dalla casa che si era sudata lavorando nelle ferrovie. Tale interdipendenza è abbastanza comune in Donbass, i giovani dicono di non poter abbandonare gli anziani e questi ultimi sentono di non aver nessun altro posto se non la propria comunità.

Eppure, tutti sanno che a breve l’esercito russo riprenderà la sua avanzata verso Slovjansk e Kramatorsk, le due città più importanti della regione di Donetsk e le prossime fortezze designate. Sono settimane che qui si ammassano uomini e mezzi, da quando la ritirata da Severodonetsk era già in corso ufficiosamente. Ora i soldati ucraini dicono di essere pronti: «No pasaran», come piace dire a molti citando il motto del Fronte popolare spagnolo impegnato nella lotta ai franchisti durante la guerra civile. Mi sono sempre chiesto se pronunciando quella frase (spesso alzando il pugno chiuso) abbiano contezza del fatto che chi gridava quelle parole nel ’36 faceva parte di una coalizione con una forte componente comunista e nella quale l’Unione Sovietica, il nemico di oggi, aveva un ruolo di primo piano. È impossibile intavolare una discussione così nel breve spazio di un controllo documenti o di una sigaretta davanti a uno dei pochi chioschi aperti. Ma è significativo notare che l’Ucraina di oggi è un coacervo di sentimenti di ribellione all’oppressore, storicamente anti-autoritari, di nazionalismo esasperato, agli antipodi, di parole d’ordine prese dalle varie lotte di resistenza dell’ultimo secolo e di ardore patriottico ottocentesco. Il tutto filtrato dalla cultura di massa e reso inoffensivo all’occorrenza. Un mondo in cui resistono, tuttavia, nutrite sacche di popolazione legate a un’epoca ormai tramontata, che in questa complessità faticano a ritrovarsi e, anzi, ne hanno paura. È questa la casa della quale si diceva all’inizio, la sicurezza data dai luoghi consueti, accanto ai vicini di una vita, ai parenti più anziani e a quelli visti crescere. La stessa familiarità che crea la paura dell’ignoto, di un mondo diventato troppo grande per chi è nato più di mezzo secolo fa o di un Paese sconosciuto per chi non è mai neanche andato in gita a Dnipro. Alcune di queste persone si attaccano alla tradizione, impersonificata dalla Russia, altri solo al luogo geografico percepito come unica certezza in un momento storico in cui, letteralmente, tutto intorno crolla. Q

Un soldato ucraino della 95a Brigata d'assalto aereo fuma accanto a un veicolo blindato prima di proseguire verso la prima linea vicino alla città di Kramatorsk

impiego dei nostri militari all’estero, il futuro L’ della Nato e il modello di difesa europeo, sotto l’urgenza della guerra in Ucraina. Smessi i panni di commissario per l’emergenza Covid-19, il generale Francesco Paolo Figliuolo, già comandante Nato nei Balcani, è da sette mesi il comandante operativo di vertice interforze, il Covi, presso l’aeroporto militare di Centocelle, a Roma.

Generale, praticamente, passa tutto da qui?

«Il comando è prerogativa del capo di stato maggiore della Difesa, che normalmente lo esercita tramite il comandante del Covi a cui è affidata la pianificazione, il coordinamento e la direzione delle operazioni militari interforze svolte sia in Italia che all’estero e non solo sui tre domini classici - terra, mare, aria - ma anche su quelli cibernetico e spaziale».

Qual è, al momento, il nostro impegno di pace fuori dai confini?

«Quasi seimila donne e uomini delle forze armate e dell’arma dei carabinieri sono impiegati all’estero in 38 missioni e operazioni, in 21 diversi Paesi, sotto l’egida delle Nazioni Unite, della Nato, dell’Unione Europea o nell’ambito di quelle che vengono chiamate “Coalitions of the willing”, letteralmente, “Coalizioni dei volenterosi”. Siamo nei Balcani, in Kosovo con “Joint Enterprise” e in Bosnia Erzegovina con “Althea” . Contribuiamo al rafforzamento del fianco est della Nato con la missione “Baltic Guardian” in Lettonia, nell’ambito dell’ eFP, Enhanced forward presence. Di recente si sono concluse le operazioni di vigilanza aerea e air policing in Islanda e Romania, con i nostri velivoli F-35 e F2000 dell’Aeronautica militare e sta iniziando un’analoga missione in Polonia. In Medio Oriente siamo in Iraq, dove a maggio scorso abbiamo assunto il comando della missione Nato. In Libano, partecipiamo alla missione Unifil sotto egida Onu, con più di mille caschi blu dell’Esercito, il contingente più numeroso dopo l’Indonesia. In Africa operiamo con una missione bilaterale per supportare lo sviluppo delle Forze di sicurezza del Niger, nella missione europea in Sahel per la formazione delle forze armate locali, nella missione bilaterale in Libia, a Gibuti e in Somalia».

E c’è poi l’impegno della Marina militare.

«Le nostre navi controllano le acque del Mediterraneo con l’operazione “Irini”, quelle del golfo di Aden con l’operazione “Atalanta”, in funzione di anti-pirateria, e siamo presenti anche nel Golfo di Guinea e nell’O-

Giancarlo ceano Atlantico».

Capozzoli Altri impieghi in vista?

Giornalista «Pochi giorni fa il ministro della Difesa Lo-

renzo Guerini ha annunciato che il Parlamento sarà chiamato a decidere sull’avvio di altre due missioni, una in Ungheria, l’altra in Bulgaria, rivolte a rafforzare ulteriormente il fianco est dell’alleanza atlantica».

Al vertice Nato a Madrid il segretario generale Jens Stoltenberg ha parlato di scelte epocali. È davvero così? Siamo a un punto di non ritorno?

«Per usare le stesse parole del Segretario Stoltenberg, si tratta di un summit svoltosi “in tempo di guerra” che, tra l’altro, ha dato il via libera a due nazioni, la Svezia e la Finlandia, fino a ieri neutrali, di entrare a far parte dell’alleanza atlantica. E il ministro Guerini, parlando di momento storico, ha detto che sono state prese decisioni che assicureranno la nostra difesa collettiva negli anni a venire».

La guerra in Ucraina ha imposto un radicale ripensamento?

«Il conflitto sta inevitabilmente portando la Nato, e dunque anche l’Italia, a cambiare la sua postura sul fianco est, rafforzando la presenza di uomini e mezzi nei Paesi alleati dell’Europa orientale. Stoltenberg ha parlato di un incremento di soldati da 40.000 a 300.000, il più grande dispiegamento militare Nato in Europa dei tempi della Guerra Fredda. La Difesa italiana, come ha recentemente dichiarato il presidente Mario Draghi, contribuirà con il dispiegamento di un’ulteriore forza di duemila uomini tra Bulgaria e Romania e altri ottomila saranno in stato di prontezza in territorio nazionale. Ma anche grazie all’Italia è stato ribadito l’impegno per il fianco sud della Nato in Medio Oriente, Nord Africa e Sahel. È stata rimarcata l’importanza che il “Mediterraneo allargato” riveste non solo per gli interessi strategici dell’Italia, ma anche dell’alleanza atlantica».

Cambiano i numeri, ma, soprattutto l’approccio strategico?

«Lo scenario che si è aperto è quello di una rinnovata contrapposizione tra blocchi. Adesso quello che abbiamo di fronte è un avversario di tipo convenzionale, il cosiddetto confronto “peer to peer”. Un attore, però, con cui dobbiamo interloquire e confrontarci, non soltanto sul piano militare, ma anzitutto su quello politico e diplomatico. Dobbiamo assolutamente scongiurare, con una postura ferma e credibile, qualunque tipo di escalation della forza e arrivare al più presto a una cessazione del conflitto».

L’impegno sul fianco est non avrà ripercussioni sulle altre aree, Mediterraneo e Balcani?

«A maggio il ministro della Difesa ha emanato una direttiva sulla strategia di sicurezza e difesa per il “Mediterraneo allargato”, che include delle aree di importanza strategica per l’Italia e che versano ancora in condizioni di instabilità. Par“BISOGNA DIMOSTRARE NEI FATTI, IN NOME DI VALORI COMUNI, LA SOLIDARIETÀ A UN POPOLO AGGREDITO. L’OBIETTIVO È LA PACE, NON UN ACCORDO IMPOSTO”

Soldati italiani impegnati nella missione in Afghanistan

lo della Libia, del Libano o del Sahel, dove si registra ancora una forte presenza di gruppi terroristici e di organizzazioni criminali transnazionali dedite alla tratta di esseri umani. Le crisi regionali sono sempre interconnesse e gli effetti del conflitto russo-ucraino possono manifestarsi anche in quest’area. Abbiamo assistito negli ultimi mesi all’ingresso nel Mediterraneo di ben diciotto navi e alcuni sommergibili della flotta della Federazione Russa. Per non parlare poi dell’influenza “maligna” delle compagnie private militari, come il noto gruppo filorusso “Wagner”. Questo per dire che dobbiamo continuare a preservare la nostra sicurezza a 360 gradi».

Il Covi ha anche la responsabilità sulle armi che stiamo inviando all’Ucraina?

«Sulla base delle direttive di governo e Parlamento, l’Italia si è impegnata a fornire assistenza umanitaria, finanziaria ed economica e a cedere apparati e strumenti militari che consentano all’Ucraina di difendersi legittimamente e proteggere la sua popolazione da un’aggressione militare violenta e ingiustificata. Un sostegno che, come ha sostenuto il ministro Guerini, è dovuto in virtù delle responsabilità che abbiamo nei confronti di un popolo aggredito e in nome dei comuni valori di civiltà in cui crediamo fermamente. La solidarietà va dimostrata con i fatti: continueremo a sostenere l’Ucraina con il supporto all’assistenza umanitaria e l’invio di armamenti per giungere a un negoziato che non sia imposto dai russi e che possa essere accettato da entrambe le parti».

Il vertice di Madrid ha portato all’approvazione del nuovo Strategic concept della Nato, ma sul tema della difesa comune e della creazione di un esercito europeo, quali passi si stanno facendo?

«Il tema della difesa comune europea è un argomento in primis politico e poi tecnico-militare, ma è stato raggiunto un traguardo importante, con la conclusione dei lavori della Bussola strategica. Credo che un ulteriore traguardo sia la costruzione dell’ambiente della difesa europea complementare alla Nato e che dovrà servire a contribuire alla protezione dei nostri valori fondanti e delle nostre istituzioni democratiche. Dobbiamo concentrarci su quei settori che consentiranno all’Europa di operare con maggiore prontezza e, se necessario, anche in autonomia. Certamente attraverso l'istituzione di una credibile capacità europea di dispiegamento rapido di forze (Eu Rapid deployment capacity), ma anche potenziando la cooperazione industriale e, sul piano dottrinale, procedendo nel definire le strategie a livello di Unione Europea in tutti i domini delle operazioni militari: in quelli tradizionali –vale a dire terrestre, marittimo e aereo – e in quelli di “nuova concezione”, ovvero il dominio spaziale e cyber».

C’è però chi contesta l’aumento delle cosiddette spese militari sino alla soglia del 2% del Pil.

«Per molto e troppo tempo le forze armate hanno sofferto di una certa scarsità e soprattutto incertezza delle risorse sul piano degli investimenti. Alle donne e agli uomini che servono il Paese ogni giorno lontano dalle luci della ribalta dobbiamo garantire il massimo della sicurezza in operazione. Penso alla difesa aerea, soprattutto a media gittata, ai sistemi di sorveglianza e acquisizione obiettivi, all’incremento della digitalizzazione e guerra elettronica, al potenziamento delle capacità satellitari e della sorveglianza marittima e aerea, alle piattaforme corazzate e ai sistemi di fuoco a lunga gittata con relative scorte di munizionamento. Avere materiali e mezzi consentirà inoltre al nostro Paese di continuare a rivestire un ruolo da protagonista nell’ambito dell’alleanza atlantica e nella costruzione della Difesa europea». Q

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“IL RAFFORZAMENTO DEL FIANCO EST È UNA PRIORITÀ MA L’ITALIA HA UN INTERESSE STRATEGICO ALLA SICUREZZA DEL MEDITERRANEO ALLARGATO”

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