Intervista a Jean-Claude Carriere - BFM2017

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Intervista a Jean-Claude Carrière

Bella di giorno

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a cura di Angelo Signorelli

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Ci può parlare della sua formazione, come uomo di cinema e, in particolare, come sceneggiatore?

Sono di origini modeste, figlio di piccoli contadini. Non c’era niente che mi destinasse alla scrittura, ma a nove anni ho vinto un concorso per una borsa di studio e i miei genitori hanno deciso di farmi studiare. Ho proseguito gli studi fini all’École Normale Supérieure, che è il livello più alto esistente in Francia, e mentre stavo ancora studiando ho incominciato a pubblicare libri. Il primo fu un romanzo. Poi l’editore Robert Laffont, che aveva un contratto con Jacques Tati per la pubblicazione di libri tratti da Les Vacances de M. Hulot e da Mon oncle, mi ha chiesto se fossi interessato a partecipare a un concorso con altri scrittori per la scrittura di quei libri, e l’ho vinto. Questo è stato il mio ingresso nel cinema, tramite Jacques Tati, e poi tramite l’incontro con Pierre Étaix, con cui ho incominciato a scrivere dei cortometraggi che abbiamo girato qualche anno dopo. Infatti appartengo alla generazione che ha fatto la guerra d’Algeria, quindi ho fatto il militare per ventinove mesi, due anni e mezzo. Insomma abbiamo incominciato molto tardi. Abbiamo fatto due cortometraggi, il secondo dei quali ha preso l’Oscar a Hollywood. Poi abbiamo fatto un lungometraggio, Le Soupirant, che ha avuto molto successo e ha vinto il Prix Louis-Delluc. Ho continuato a lavorare con Pierre per otto anni, fino a quando ho deciso di fare lo sceneggiatore e non il regista perché tenevo molto a continuare a pubblicare libri e a lavorare in teatro; se sei un regista non puoi fare nient’altro che dei film, invece io avevo voglia di utilizzare tutti i modi scrivere che sono stati inventati nel Ventesimo secolo: scrivere per la radio, per la televisione, per il cinema, eccetera. Quindi sono rimasto sceneggiatore, ho lavorato in teatro, e il resto si confonde con la storia della mia vita, non è successo niente di particolare se non, ogni giorno, un intenso lavoro.

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Quando c’è stato l’incontro con Luis Buñuel?

Buñuel l’ho incontrato molto presto: ho fatto i primi cortometraggi nel ‘61 e ho conosciuto Buñuel nel ‘63, quando cercava uno sceneggiatore francese che lavorasse con lui al Diario di una cameriera, il primo film che abbiamo fatto insieme. Il produttore mi ha mandato al Festival di Cannes perché lo incontrassi; abbiamo pranzato insieme, abbiamo parlato del progetto di

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adattamento e di molte altre cose, e otto giorni dopo ho saputo che sarei andato a Madrid a lavorare con lui. La nostra collaborazione è durata vent’anni, diciannove per la precisione, insomma abbiamo continuato a lavorare insieme, ed era lui a chiederlo, fin quasi alla sua morte. Abbiamo fatto sei film più un libro, Mon dernier soupir, pubblicato due anni prima che morisse.

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Vorremmo sapere qualcosa sulla preparazione di Bella di giorno.

Quando gli è stato proposto Bella di giorno, che è un adattamento del romanzo di Joseph Kessel, Buñuel ha esitato; lo spaventava il soggetto, l’idea che fosse troppo una storia di prostitute… Ho ancora alcune sue lunghe lettere sull’argomento. Alla fine si è deciso perché si era fatto un’altra idea del film. Abbiamo lavorato insieme come su qualsiasi altra sceneggiatura, cioè facendo almeno due o tre versioni diverse. Avevamo la sensazione, mentre scrivevamo, che la storia in sé — una borghese che al pomeriggio va in una casa di appuntamenti — fosse relativamente banale, quasi da romanzo dozzinale; anche i dialoghi erano scritti in modo quasi melodrammatico. Ma da parte nostra avevamo aggiunto delle visioni, dei day dreams della donna, e queste erano vere. Essendo due uomini, non ci sentivamo in grado di immaginare visioni erotiche femminili, quindi abbiamo chiesto di raccontarci delle fantasie erotiche ad alcune donne, a diversi tipi di donne; un mio amico giornalista, direttore di una rivista femminile, ha anche fatto un’inchiesta. Poi tra queste visioni abbiamo scelto quelle che ci piacevano di più, o che erano più cinematografiche. Di conseguenza, nel film, la storia in sé è relativamente artificiosa, quasi falsa, ma l’immaginario è vero. Abbiamo cercato proprio questo effetto-pendolo, più che altro. In Bella di giorno non si vede la punta di un seno, niente, non c’è nessuna pornografia, come ci si sarebbe potuto aspettare. Il successo del film, che persiste — abbiamo appena curato una versione restaurata —, probabilmente è legato a questo equivoco, e forse corrisponde a certi segreti femminili che noi uomini ignoriamo.

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Da dove viene la storia di Il fascino discreto della borghesia?

Per quanto riguarda Il fascino discreto della borghesia, che è venuto dopo Bella di giorno, si tratta di un soggetto originale, non è l’adattamento da un libro. Cercavamo una storia che si ripetesse, senza arrivare a


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una conclusione; dopo vari tentativi siamo arrivati alla storia di un gruppo di amici che cercano di mangiare insieme senza riuscirci, una serie di episodi: «Come non mangiare insieme». Ogni volta ci voleva qualcosa che fosse inaspettato ma anche verosimile, insomma, non un ippopotamo che spunta dal primo piano… Questo è sempre un punto delicato nei film di Buñuel, lui è come un equilibrista: non vuole cadere né nella normalità né nel fantastico comunemente inteso, cerca qualcosa che sta a metà strada. Lo stesso vale per Il fantasma della libertà; sono due film scritti uno dopo l’altro, entrambi con questa volontà di filmare qualcosa di un po’ strano ma che potrebbe essere vero. Tutto potrebbe essere vero. C’è una scena nel Fascino discreto della borghesia, quando entrano in un ristorante il cui padrone è morto, ma il personale dice «Potete cenare lo stesso», che qualche tempo dopo è successa davvero: quando un grande cuoco francese è morto nel suo ristorante, hanno messo il corpo nel ristorante e hanno mangiato intorno a lui. La realtà aveva raggiunto la finzione.

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Il fantasma della libertà va più decisamente verso il fantastico, per non dire il surreale.

Il fantasma della libertà va un po’ oltre Il fascino discreto… perché lì la storia non c’è proprio, nean-

C’è una scena nel Fascino discreto della borghesia, quando entrano in un ristorante il cui padrone è morto, ma il personale dice «Potete cenare lo stesso», che qualche tempo dopo è successa davvero: quando un grande cuoco francese è morto nel suo ristorante, hanno messo il corpo nel ristorante e hanno mangiato intorno a lui. La realtà aveva raggiunto la finzione.

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che quella di un gruppo di amici che vuole cenare insieme. È una serie di storie collegate ogni volta da un personaggio che passa da una storia all’altra. Per questo il film si chiama Il fantasma della libertà: è la libertà dell’artista che è solo un fantasma. Tra tutti i film che abbiamo fatto insieme, è quello in cui ci sono due o tre scene che amavamo in modo particolare, perché avevano raggiunto uno strano equilibrio tra l’immaginazione e la realtà. Era un film di cui ci piaceva parlare, in particolare della scena della bambina, che è persa e non persa… Era una cosa molto strana e difficile da scrivere. Per questo film, come per Il fascino discreto…, abbiamo scritto cinque versioni diverse della sceneggiatura. Un lavoro di anni. La storia della bambina doveva essere appena possibile, senza essere farsesca. Dopo, diversi genitori ci hanno detto: «È vero, molti bambini ci sono e al tempo stesso non ci sono». E questo era rappresentato nel film senza che noi ci avessimo mai pensato: sotto c’era una certa realtà. L’ultimo film è stato Quell’oscuro oggetto del desiderio, adattamento del romanzo La donna e il burattino di Pierre Louÿs. Louys aveva già progettato di fare un adattamento con Brigitte Bardot, ben prima che ci incontrassimo, ma il progetto non era andato in porto.

Come è nata la collaborazione con Volker Schlöndorff?

Volker l’ho conosciuto quando era assistente di Louis Malle per Viva Maria!, che avevamo girato in Messico, e siamo subito diventati amici. Poi, da assistente, è diventato regista e ha incominciato a fare film in Germania. I suoi primi film, come I turbamenti del giovane Törless, erano molto belli. Un giorno mi ha chiamato e mi ha detto che gli sarebbe piaciuto lavorare con me per Il tamburo di latta. Mi sono chiesto il perché, probabilmente perché su una storia così tedesca

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voleva che ci fosse lo sguardo di uno straniero, cosa che è sempre estremamente preziosa. Abbiamo incominciato a lavorare insieme alla sceneggiatura a Monaco, poi anche un po’ in Polonia. E poi abbiamo continuato a lavorare insieme. Adesso ha un appartamento dall’altra parte del cortile, ci vediamo molto spesso. Ha appena finito di girare un film negli Stati Uniti, che non ho ancora visto. È una persona a cui sono molto legato; ha molto talento, è molto serio e anche molto divertente. Parla francese come me, ha studiato in Francia, quindi non ho avuto nessun problema — il mio tedesco è piuttosto scarso, posso lavorare in inglese e in spagnolo, ma in tedesco mi riesce difficile.

E con Wajda?

Per Danton la situazione è analoga a quella del Tamburo di latta. Mi avevano già proposto dei film sulla Rivoluzione francese, un soggetto straordinario, naturalmente, con Louis Malle e altri registi francesi. Ma a me non interessava, perché due francesi, sulla Rivoluzione, hanno letto gli stessi libri, hanno gli stessi cliché, spesso le stesse reazioni. Invece Wajda portava lo sguardo di uno straniero, come me col Tamburo di latta. Quando me l’ha proposto, per me è stato subito evidente che dovevo farlo. Tra tutti i film che ho scritto, è tra i tre o quattro che preferisco. Erano ancora i tempi duri del comunismo, quelli del colpo di stato di Jaruzelsky in Polonia. Le condizioni di lavoro erano strane: per due mesi, durante la fase di scrittura, non mi è stato possibile andare in Polonia, era tutto chiuso, non potevamo neanche telefonarci. Poi abbiamo fatto diversi viaggi. Ma per me rimane un ricordo straordinario, tanto più che, siccome c’erano attori sia polacchi che francesi, avevamo deciso che tutti i personaggi intorno a Robespierre sarebbero stati polacchi, e quelli intorno a Danton, interpretato da Gérard Depardieu, sarebbero

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stati francesi, come Patrice Chéreau… Dunque dovevamo scrivere una sceneggiatura in cui io avevo deciso che ci sarebbe stata una scena sola tra Danton e Robespierre. Una sola. Si incontrano una volta sola, al ristorante. È una scena che dura quindici minuti, ma è l’unica. Era molto difficile perché l’attore polacco non capiva il francese. Abbiamo passato diversi week end a provarla, con i due attori, Wajda e il suo direttore della fotografia, nell’appartamento di Wajda a Parigi, prima di trovare il ritmo giusto per la scena e tutto quello che vi succede. Ma è una scena che trovo stupefacente. Così come la scena finale, quando durante il processo Danton perde la voce. È un fatto storico: ha davvero perso la voce. Molti sono convinti che sia una scelta di recitazione di Depardieu, ma Depardieu recita proprio Danton, e lo recita benissimo. Anche questa è una scena molto lunga — otto minuti — con tutte le comparse. Andrzej l’ha girata e alla fine della prima ripresa è successa una cosa che ho visto raramente al cinema: tutte le comparse hanno applaudito Gérard. Il direttore della fotografia ha obiettato: «Però a un certo punto è uscito dall’inquadratura, si è abbassato, la testa era…». Ma Andrzej ha detto: «No, non la rifacciamo. Va bene questa». L’abbiamo girata una volta sola. E Depardieu in quella scena è straordinario.

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Milou a maggio è una rivisitazione del Maggio francese a distanza di tempo.

Naturalmente, conoscevo Louis Malle da parecchio tempo. Ci siamo incontrati nel maggio 1968, eravamo tutti e due a Parigi. Lui era appena tornato dall’India, aveva la barba, ed era sbalordito nel cascare nel bel mezzo del maggio 1968, che abbiamo vissuto insieme. Quando abbiamo deciso di fare Milou a maggio erano passati dieci anni da quegli episodi; avevamo dei ricordi, ma dovevamo ricostruire, e l’idea era di non mostrare i fatti di Parigi ma gli echi che avevano suscitato in lontananza. Io avevo parenti e amici in provincia che ingigantivano quello che stava succedendo nella Capitale: «Parigi sta bruciando», «A Parigi c’è la rivoluzione»… Ma le cose non stavano così. Anche qui, il punto di vista dello “straniero”, o di chi è lontano, è spesso più interessante del punto di vista di chi è sul posto. Questa era l’idea di fondo del film.

Lei conosceva molto bene Marco Ferreri.

È molto difficile parlare in poche frasi di un personaggio complesso come Marco. Gli ero molto affezionato, lo trovavo molto affascinante e divertente. Parlava pochissimo.

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Io ero amico intimo di Marcello Mastroianni, per me era come un fratello, ci vedevamo molto spesso. Marcello diceva: «C’è una cosa di Marco che mi piace moltissimo: che non parla». Nell’ultimo periodo della loro vita, erano uguali: Marco andava a casa di Marcello, che viveva con Anna Maria Tatò, si sedevano l’uno accanto all’altro, guardavano la televisione, solo film sugli animali — perché degli uomini ne avevano fin sopra i capelli —, e si tenevano per mano. Potevano passare ore a guardare film sugli animali, mi è rimasta quest’immagine straordinaria. Con Marco era difficilissimo lavorare, perché appunto non parlava. Bisognava proporgli delle cose e lui diceva «Sì…», «Sì…», oppure «Eh!». E non diceva altro, davvero pochissimo, non faceva proposte, ogni tanto chiamava la moglie per chiederle se andava tutto bene: «Mah… Va bene, sì, tutto bene… Come stai?». Mi ricordo di aver passato delle settimane con lui a Roma, tutte le sere andavamo a cena al ristorante, sono ricordi meravigliosi. Con lui però ho lavorato su un film solo, La cagna. Ma faccio fatica a parlarne perché è un film che per me ancora oggi rimane molto misterioso. Ogni volta che parlavamo del film l’unica parola che gli venisse alle labbra era “bestialità”, e bisognava partire da lì per cercare di scoprire perché una donna si vuole comportare come una cagna con un uomo. Comunque era un personaggio estremamente interessante. Ogni tanto aveva improvvisi soprassalti di vivacità e allora si metteva a parlare in francese, cosa stranissima, straordinaria, poi tornava a tacere. Gli ero molto affezionato, lo trovavo pieno di fascino, molto intelligente, molto gentile. Molto buono. Ci sono alcuni suoi film che amo molto. Certo, ne ha fatti tanti, non li ho visti tutti; mi pare che con Marcello ne

abbia fatti diciassette, una cosa così. Il cinema francese e il cinema italiano hanno vissuto una lunga storia d’amore, una cosa meravigliosa, e io ci ero dentro in pieno. Erano i tempi d’oro delle produzioni italo-francesi; ogni volta che rivedo un film di Fellini penso: «Senza la coproduzione con la Francia, non sarebbe esistito». Sono stati venticinque o trent’anni magnifici, che si sono interrotti bruscamente e durante i quali per noi il cinema italiano era il primo al mondo, non esisteva niente di paragonabile. Ne abbiamo un grande rimpianto. Ci sono ancora dei bei film italiani, ma a quei tempi ce n’era uno al mese: una volta un Visconti, una volta un Antonioni, un’altra un Ferreri, un Fellini, oppure una commedia, Dino Risi, Monicelli… ci erano tutti molto familiari. C’erano anche molti attori francesi, come Bertrand Blier, che recitavano in film italiani. È un peccato, non so perché… Non si sa mai perché in un Paese, a un certo punto, succede una cosa, in un campo della cultura o in un altro, letteratura, pittura o cinema, e perché improvvisamente si interrompe. Non si sa.

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Per Peter Brook ha sceneggiato il Mahabharata, un’opera assolutamente monumentale.

Quella è la più grande avventura della mia vita, è stata sicuramente la sfida più impegnativa, la cosa più difficile che mi sia trovato a fare. Con Peter Brook ho lavorato trentaquattro anni, mi ha portato verso territori sempre più difficili, e adattare un poema epico indiano, che contiene tutta la cultura indiana, per il resto del mondo è stato davvero difficilissimo. Ci son voluti undici anni di lavoro, una cosa enorme. È un poema lungo quattordici volte la Bibbia, ma oltre a questo… non è semplicemente una Mahabharata

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storia: c’è dentro tutta l’India. C’è una frase nel Mahabharata che dice che tutto quello che si trova nel Mahabharata esiste in qualche altro luogo, e quello che non c’è non è da nessuna parte, inutile cercare. Quindi non si tratta solo di adattare un’opera, come si adatterebbe Cechov o Shakespeare, ma di adattare una civiltà intera. E questo presuppone una metamorfosi, un cambiamento di mentalità, che richiede anni. È una cosa che senti dentro di te. Senti quando sei ancora estraneo all’opera e la adatti solo tecnicamente; poi, a un certo punto, improvvisamente, riesci a penetrarvi.

Veniamo al rapporto con Miloš Forman.

Miloš è un regista dal talento immenso. Ci siamo conosciuti a New York, anzi ci siamo incontrati in Italia, a Spoleto, nel ‘66 o ‘67, a un festival che aveva organizzato un incontro tra cineasti cechi e francesi. Io ero lì con René Clair, Duvivier, Marguerite Duras e altri della nostra generazione, e lui con i giovani cineasti cechi. Era la seconda volta che usciva dalla Cecoslovacchia. Ci siamo conosciuti e ci siamo piaciuti molto. Due anni dopo è passato da Parigi e mi ha chiamato, io l’ho invitato a casa mia e siccome era completamente senza soldi l’ho ospitato a mangiare e a dormire e il giorno dopo l’ho portato con me negli studios in cui si stavano girando contemporaneamente due miei film, su due diversi set: Il ladro di Parigi di Louis Malle e Bella di giorno. Prima l’ho portato da Louis Malle e abbiamo parlato un po’, entrambi conoscevamo benissimo i film di Miloš. Poi lo porto sull’altro set e vado a dire a Buñuel: «C’è qui Miloš Forman»; «Chi?»; « Miloš Forman,

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sai, quello degli Amori di una bionda…»; «Ah, sì, benissimo». E lì Buñuel ha fatto una cosa incredibile, Miloš quando ci pensa ancora oggi ha le lacrime agli occhi: ha interrotto le riprese, ha preso Miloš e se l’è portato al bar per un’ora. È un episodio che Miloš racconta ancora con grande commozione. Lui aveva quel progetto di film da girare a New York, dove io l’ho raggiunto di ritorno dal Messico, era il ‘68 e siamo capitati nel bel mezzo del movimento hippy, il flower power. Eravamo alloggiati al Chelsea Hotel e abbiamo seguito tutto. Il ‘68 è stato un anno stravagante: ho incominciato a lavorare a New York, in aprile c’è stato l’assassinio di Martin Luther King, con le rivolte a Harlem. Miloš aveva un film selezionato al Festival di Cannes, quindi abbiamo preso la nave e siamo andati a Cannes, ma a Parigi scoppia la rivoluzione con gli studenti di Nanterre e il Festival viene interrotto. In qualche modo riusciamo a tornare a Parigi, dove la situazione per Miloš è del tutto incomprensibile. Mi diceva sempre: «Ma perché tanta energia per issare la bandiera rossa? Sarà così difficile, poi, tirarla giù!». Quando le cose si normalizzarono mi disse: «Andiamo nel posto più tranquillo del mondo: andiamo a Praga». Siamo andati a Praga e sono arrivati i carri armati russi! È stato un anno inverosimile. Alla fine dell’anno ci siamo ritrovati di nuovo a New York. Ma è stato davvero un anno folle. La grande storia ci impediva di scrivere la nostra piccola storia, c’era una coalizione di nazioni contro la nostra sceneggiatura: Taking Off, che è stato girato in seguito, nel gennaio del 1970.

Si tratta di una sceneggiatura a più mani.

Avevamo preso uno studente di vent’anni che doveva fornirci il gergo, che noi non conoscevamo. Poi John Guare è intervenuto alla fine con qualche frase. Ma la storia l’abbiamo costruita poco a poco prendendo spunto dalle cose che vedevamo e dalle persone che incontravamo.

A suo modo è un film sull’America, ma in cui Forman è ancora legato al cinema che faceva in Patria.

Taking Off è un film ceco, in cui si sente ancora l’attenzione all’osservazione, ai dettagli, al girare in scenari autentici… Al tempo stesso, entrambi eravamo ormai adulti, avevamo trentasette, trentotto anni. Insomma non avevamo proprio l’età dei giovani hippy, eravamo nel campo dei genitori, nella loro classe di età. Ecco perché il film è incentrato sui genitori, più che sulla ragazza in fuga. A New York abbiamo fatto esplorazioni straordinarie, per mesi abbiamo girato dappertutto, suonavamo alla

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porta di gente che non conoscevamo, dicendo: «Stiamo preparando un film. Per caso conoscete dei runaway kids?». E tutti avevano qualcosa da raccontarci. La sceneggiatura si è costruita così, poco a poco. Ho rivisto il film recentemente, è molto bello, mi piace molto. È ancora molto divertente. Due anni fa è stato proiettato al Festival di Angers, il pubblico era entusiasta. Come dicevo, entrambi eravamo padri di famiglia, non eravamo più dei giovani. Ma eravamo comunque abbastanza giovani da avere delle avventure… C’era però una regola assoluta, perché avevamo con noi un poliziotto americano in borghese, specializzato in problemi di droga, che ci diceva: «Fate quel che volete, ma attenti con le ragazze under age, insomma a non andare a letto con delle minorenni, di meno di diciotto anni. Su questo la legge americana non perdona». Quindi abbiamo fatto i bravi e ci siamo attenuti al nostro lavoro.

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Valmont è tratto da Le relazioni pericolose. Come avete deciso di adattare il romanzo epistolare di Laclos?

Valmont è un film che ritorna, ho presentato a Bologna la nuova versione. Per quanto riguarda la sceneggiatura, si trattava di un’opera di adattamento consueta, ma con la particolarità che Miloš l’aveva letto in ceco, io in francese, e che in inglese ci sono due versioni, due traduzioni abbastanza diverse tra loro. Quindi abbiamo lavorato sulle versioni inglesi, tenendo presente che non ci si doveva per forza attenere a quello che succede nel libro. Per esempio, nel rapporto di Valmont con Madame de Tourvel, l’idea che basti fare quello, questo e quest’altro per far cedere una donna è un’idea da ufficiale di artiglieria, la donna considerata come una fortezza… Noi non l’abbiamo mantenuta, e abbiamo cambiato anche alcune altre cose che quando il film è uscito hanno stupito, ma oggi funzionano benissimo. Perché il film oggi piace molto, dappertutto. L’altro film tratto dal romanzo, di cui non voglio dir male, era un adattamento molto fedele di una pièce scritta da Christopher Hampton che riprendeva esattamente Les Liaisons dangereuses. Noi ce ne siamo discostati. Per esempio alla fine, nel romanzo, il castigo di Madame

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de Merteuil è essere fischiata al suo ingresso in un teatro: oggi non ha nessun senso. Quindi abbiamo cambiato molte cose. A noi non bastava dire «Questi personaggi sono dei perversi», non vuol dire niente: sono perversi, e allora? Occorre trovare le vere motivazioni, non basta etichettare un personaggio come perverso per trovare la soluzione. Abbiamo scavato più in profondità, anche per Madame de Merteuil, che ne esce segretamente innamorata di Valmont, molto più di quanto non creda, così come Valmont è innamorato di Madame de Tourvel molto più di quanto non creda. Insomma ci sono sentimenti che ci si sforza di nascondere, ma esistono, sono palpabili.

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Su L’ultimo inquisitore sono piovute tante critiche, anche feroci.

Io sulle critiche non mi pronuncio, anzi sono il primo a farne. Una cosa mi è dispiaciuta, per L’ultimo inquisitore: che il film fosse girato in inglese. Un film ambientato in Spagna, interpretato da attori spagnoli, girato in inglese, mi era parso subito assurdo. Ho fatto tutto il possibile per impedirlo, ma, data la mentalità della produzione americana, non c’è stato niente da fare. Sul fronte della sceneggiatura, il film non è tanto male, è solido. Ma che Javier Bardem reciti in inglese, che Goya parli inglese, lo trovo assurdo. Esattamente lo stesso film, ma in spagnolo, sarebbe stato tutta un’altra cosa. Avrebbe una sua verità. L’idea alla base del film è che gli estremi si toccano, che si può andare da un estremo all’altro, cosa che vediamo tutti i giorni: che uno di estrema destra può simpatizzare con uno di estrema sinistra, o passare lui stesso, come, in qualche modo, il personaggio, dall’una all’altra, molto più facilmente di quanto farebbe uno che sta in mezzo… Sono cose che vediamo tutti i giorni, sotto elezioni in particolare… Alcuni critici hanno anche detto, di Valmont: è un melodramma. Certo che è un melodramma, ma è fatto apposta: quella è l’epoca del melodramma, l’epoca in cui il melodramma appare in Francia. Tutti i rivoluzionari sono appassionati di melodramma. Per cui è del tutto volontario che ci siano una figlia senza padre e altri elementi melodrammatici. Spesso i critici ti rimproverano esattamente quello hai voluto fare. È un malinteso. Uno dei tanti.

Lei ha lavorato anche con una persona eccentrica come Jesús Franco.

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Credo che abbia fatto duecentocinquanta film, una cosa così. Era un personaggio incredibile. Ogni tanto veniva a trovarmi e mi diceva: «Non ne posso più di fare quei film… Adesso io e te ne facciamo uno insieme, un bel film serio». Per esempio viene da me un venerdì, mi racconta una storia mica male e mi dice: «Lunedì parlo col produttore, martedì cominciamo a lavorare». Il lunedì lo chiamo e se n’è andato in Cina a fare un altro film o chissà dove. Era sempre così. Inafferrabile. Ma mi piaceva molto, era divertente, raccontava un sacco di storie. In Spagna ho anche lavorato con Fernando Trueba.

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Come è stata l’esperienza con Patrice Chéreau?

Le prime regie teatrali di Patrice per noi sono state uno shock: improvvisamente scoprivamo nel teatro delle possibilità per noi insospettate — parlo delle primissime, come La Dispute di Marivaux… Poi l’ho incontrato varie volte, ha aperto la scuola di recitazione a Nanterre, dove aveva assunto la direzione del teatro; ci conoscevamo bene e ci vedevamo abbastanza spesso. Un giorno mi ha chiesto di lavorare con lui. La scelta del soggetto mi aveva molto stupito. Credo avesse voglia di girare nella zona di Lione e, attraverso il film, di fare un ritratto un po’ cattivo della borghesia affaristica lionese. Lo interessava questo, oltre che fare un film — era il suo primo film. Io l’ho aiutato come ho potuto, nel film ci sono buone cose. Poi non abbiamo più lavorato insieme, ma ho continuato a frequentarlo fino alla sua morte, gli ero molto legato. Era uno molto secco, molto autoritario. Non era facile parlarci, voleva che le cose andassero molto spedite: sì, no, sì, no… Ma aveva molto talento. La sua morte ha rattristato molto tutti quelli che lo conoscevano. Fumava molto… Ed è morto, come Luc Bondy… come tanti che sono morti giovani.

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Lei è particolarmente legato al film Birth.

È un film che amo molto. Quando è uscito, commercialmente non ha avuto successo, ma la cosa sorprendente è che è diventato quel che si dice un film di culto, cioè un film che non ha funzionato, ma che lascia una traccia nei ricordi. Ovunque io vada, trovo ragazzi di diciottovent’anni che mi parlano di Birth, alcuni come di un film che li ha molto colpiti. Jonathan Glazer, da Londra, è venuto ad abitare proprio qui sopra, e lavoravamo qui insieme alla scrittura del film. Ovviamente l’abbiamo girato a New York. Alle dieci del mattino abbiamo portato la sceneggiatura a Nicole Kidman che alle quattro del pomeriggio del giorno stesso ha detto di sì, cosa molto rara. Quel film l’avevo veramente nel cuore, e ci sono ancora molto legato. Naturalmente c’è stata un’elaborazione della sceneggiatura, ma c’è qualcosa… Una volta ne avevo parlato con Nicole. Quella donna è certa che non incontrerà mai un amore forte come quello. Solo che tra i due ci sono vent’anni di differenza. Se lui fosse nato un po’ prima o lei un po’ dopo, sarebbe possibile, ma nell’amore è necessaria anche una coincidenza nel tempo, e in questo caso è semplicemente impossibile. È l’ostacolo più difficile da superare, il fatto che lui sia un bambino. Eppure l’amore che questo bambino ha per lei… non ne conoscerà mai un altro così. E lei lo sente. C’è un lunghissimo primo piano di lei in teatro in cui le passano sul viso tutti i suoi rimpianti, le sue speranze, le frustrazioni. Oltretutto appartiene a quella ricca borghesia americana un po’ chiusa… (Intervista raccolta a Parigi il 21 febbraio 2017 in occasione della retrospettiva di Bergamo Film Meeting dedicata a Jean-Claude Carrière; traduzione di Monica Corbani)

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