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SUPPLEMENTO SETTIMANALE DE «IL MANIFESTO»
SABATO 7 GENNAIO 2012 ANNO 15 N. 1
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ALIAS 7 GENNAIO 2012
REGISTA
di LUCA CELADA NEW ORLEANS
●●●Fuori, la periferia di New Orleans cuoce in una afa pastosa; il cielo ha il colore del piombo. I condizonatori, al massimo, grondano acqua ma riescono a malapena a mantenere nel cavernoso teatro di posa, un clima simile a un brodo denso. Sarà anche per la piscina, circondata di riflettori che occupa gran parte del vano. Nell’acqua si muovono una mezza dozzina di sommozzatori con luci e cineprese subacque e ora si tuffa, completamente vestito, anche Sylvester Stallone. C’è da girare la scena della fuga fra le pallottole dalla palafitta nel bayou che di li a poco salterà in aria. Una scena clou cioè di Bullet to the Head un poliziottesco ironico adattato dalle graphic novel Le Tueur di Alexis Nolent, con una sceneggiatura di Alessandro Camon e in cui Stallone è un killer della mala costretto dalle circostanze a collaborare controvoglia con un giovane detective per dar la caccia a un capomafia. Un film che ha rischiato a più riprese di non vedere la luce, soprattutto in seguito alle «differenze creative» fra Stallone, intramontabile star con una carriera al quinto decennio, e il regista esordiente Wayne Kramer, quest’ultimo, non soprendentemente, il perdente nel diverbio. È stato Sly Stallone a chiedere che il progetto venisse in seguito affidato a Walter Hill, un regista «coetaneo» con cui negli anni ha rischiato a più riprese di collaborare senza che i progetti si concretizzassero. «Dopo il primo Rocky, ricorda l’attore. ricevetti una valanga di offerte, fra cui Driver di Walter. Ma all’epoca non capii quel copione così minimalista e invece
WALTER HILL Un sergente incallito di cinema
BIOGRAFIA ●●●Nato in California nel 1942, dopo studi di storia alla Michigan University inizia a lavorare nel cinema come aiuto regista di Peter Yates e sceneggiatore di film epocali come: Il caso Thomas Crown, Bullit, Getaway, L’agente speciale Mackintosh, Detective Harper acqua alla gola. Il suo esordio alla regia è L’eroe della strada (’75). Autentico fan di John Wayne, rifiuta di dirigerlo ne Il Pistolero per non vederlo morire in un film. Diventa famoso con Driver l’imprendibile (’78) e con I guerrieri della notte (’79). I cavalieri dalle lunghe ombre è un western, omaggio al suo maestro Sam Peckimpah, segue nell’81 I guerrieri della palude silenziosa. Scrive la sceneggiatura di Aliens scontro finale e dirige Danko con Arnold Schwarzenegger (’88), Johnny il bello con Mickey Rourke (’89), Ancora 48 ore (’90) con Eddie Murphy e Nick Nolte, I trasgressori, Geronimo, Wild Bill e varie serie tv. Nel 2000 ha diretto Supernova con lo pseudonimo di Thomas Lee, nel 2002 ha scritto e diretto Undisputed. con Wesley Snipes. La sua intensa attività di produttore comprende i film della serie Alien, Alien la clonazione, Aliens vs predator (1 e 2) . Il suo Bullet on the Heads con Sylvester Stallone e Christian Slater è ora in postproduzione ed è in fase di produzione il nuovo film, St Vincent.
decisi di fare F.I.S.T. con Jewison. Fu uno sbaglio. Qualche anno dopo si presentò l’occasione di 48 Ore e commisi il secondo sbaglio di non accettare nemmeno quella volta. Era ora di rimediare». Col film di Eddie Murphy e Nick Nolte, questo Bullet sembrerebbe sulla carta avere qualcosa in comune essendo imperniato sull’incongruo rapporto fra i due protagonisti, colleghi «per forza». La ragione, forse, per cui Stallone si è rivolto a Hill, (oltre al fatto che il produttore, Joel Silver, era stato un assistente in Guerrieri della Notte). Hill non firmava un film da Undisputed, che risale al 2002. Da allora il regista, collaboratore di John Huston, sceneggiatore di Getaway per Sam Peckimpah, produttore della serie Alien e regista di Guerrieri della Notte e Southern Comfort si è occupato di televisione firmando la miniserie western Broken Trail con Greta Scacchi, Robert Duvall e Thomas Hayden Church e lavorando come consulente alla serie, sempre western ma «iperrealista» della HBO, Deadwood. Un curriculum di cinema «maschile», popolato di duri, lottatori e perdenti nella vena come ha dichirataro lui stesso di Robert Aldrich, Anthony Mann, Don Siegel, Howard Hawks, Sam Fuller. E non soprende allora che Stallone l’abbia riesumato dal prematuro e ingrato dimenticatoio cui l’avava relegato Hollywood. «Per essere un grande allenatore», prosegue l’attore a proposito di Hill, «non è necessario essere stato un gran giocatore. Cercavo qualcuno dalla giusta sensibilità e soprattutto che potesse capire istintivamente un personaggio come questo che ha conosciuto il successo, ha perduto tutto e lotta per tornare. Hollywood è notoria per stroncare prematuramente le carriere soprattutto di chi ha il «difetto» di essere troppo anziano. Io invece credo che l’esperienza non abbia prezzo e ritengo che Walter sia un vecchio sergente incallito, come me. Abbiamo entrambi visto una buona dose di battaglie, fatto i nostri errori e ora sappiamo quello che funziona. «Dietro alla cinepresa con un occhio attento ai monitor Hill, ha effettivamente l’aspetto di un regista la cui calma e filosofia derivano anche dal pelo sullo stomaco necessario per
Nella foto, ritratto del regista Walter Hill
sopravvivere a Hollywood. «Guardate, dice, sono situazioni spiacevoli ma succede spessisimo. Se dovessi dirvi tutte le volte che è toccato a me venire rimosso da un mio film sarebbe un elenco di decine di film. Sono amico del regista originale e lo stimo ma ho subito accettato specialmente per l’opportunità di lavorare con Stallone che trovo la persona perfetta per questo materiale. Ho sempre sostentuto che 48 Ore non era un «buddy-picture» ma piuttosto il contrario, un film «anti-buddy». Il film è stato spesso imitato ma di solito sbagliando questo elemento. L’idea è che i due protagonisti sono il contrario di compari. Come in questo film che non è un dramma realista ma una narrativa compressa, una storia del tutto inverosimile ma si spera anche in qualche modo divertente e coinvolgente. Non so mai dire quanto sia originale un idea, di solito c’è sempre qualche antecedente. Non credo ci sia stato un film simile prodotto negli ultimi anni ma variazioni sul tema sicuramente si. Lo definirei il «pesce fuor d’acqua» o «due opposti messi insieme» ed è antico come il teatro greco e convenzionale come una commediaa di Neil Simon. La nostra è semplicemente una ultima variazione. ●A proposito di variazioni molti hanno ravvisato in «Drive», presentato quest’anno a Cannes, una marcata somiglianza al suo «The Driver». Non ho visto quel film ma se per caso qualcuno è stato influenzato da qualcosa che ho fatto 35 anni fa, lo considero un complimento, è perfettamente legittimo. Innanzitutto sono io il primo a dire che le storie originali non esistono. Siamo tutti post-omerici, tutti interconnessi e sulle spalle di chi ci ha preceduto, credo sia sbagliata l’idea che essere creativi significhi essere straordinariamente originali. Fammi vedere un film e ti dirò quali l’hanno preceduto; quando ero più giovane si sottolineava spesso il mio nesso con Peckimpah con cui avevo lavorato, oggi questo si scrive meno, semmai si citano altri registi. Io mi limito a dire che è tutto corretto, è sciocco presumere di non essere influenzati da altri. Peckimpah era ovviamente influenzato da Kurosawa, Kurosawa da John Ford, Ford da D.W. Griffith e Griffith da Charles Dickens. Non mi metto in quella catena dico semplicemente che siamo tutti connessi. ●Dove si collocherebbe allora? Di solito vengo definito un regista d’azione. Naturalmente amo i film di genere ma credo anche che sia necessario contribuire elementi originali, sovvertire la formula in qualche maniera. È finito il tempo dei film di genere che sono semplicemente fedeli alle regole tradizionali; quelle storie sono state raccontate e riraccontate molto bene; ora lavoriamo in una Hollywood «post-classica» e siamo tenuti a fare di più, portare al pubblico delle letture non tradizionali. ●Hollywood e? ancora il centro del cinema americano? Hollywood è molto cambiata dai tempi in cui ho cominciato io, ma già allora era cambiata molto dai tempi in cui avevano cominciato gli «anziani» dei miei tempi. Detto questo è chiaro che sono sempre alla ricerca di giovani perché il mantra è di puntare sempre al pubblico giovanile. Negli anni ’70 in genere un regista aveva più controllo, è difficile generalizzare e ogni film è un caso a parte, ma direi che il sistema non aveva la struttura commerciale che c’è oggi e questo significava più libertà soprattutto nella scelta degli argomenti. Oggi è quasi impossibile girare un dramma senza in qualche modo doverlo vendere ai ragazzi. L’ultimo mio film risale ormai al 2002, Undisputed. Da allora mi sono occupato di un paio di grandi progetti televisivi, non che non abbia continuato a cercare di far film, ci sono stati divesi progetti «indie» che alla fine non hanno quagliato anche se ci siamo andati vicini. Forse mi è rimasta la reputazione di regista da studio. ●Come trova lavorare con Sylvester Stallone? Dopo queste settimane al lavoro quotidiano con lui mi sento di dire che come attore è sia molto bravo che
«Siamo tutti post-omerici», tutti sulle spalle di chi ci ha preceduto. Io ero spesso collegato a Peckimpah che era influenzato da Kurosawa...
molto sottovalutato. È più di un bravo attore è una star e lo è da 35 anni. I bravi attori sono rari ma le vere stelle sono uniche. Il cinema ha cent’anni e se dovessimo fare una lista di perosnaggi iconici di quel secolo, come Mary Pickford o John Wayne, Gary Cooper, Jack Nicholson, Paul Newman, Steve McQueen, Stallone è uno di questi, se l’è guadagnato. Lui e il pubblico hanno una grande vicendevole infatuazione, è una delle figure più riconoscuute sul pianeta. E i registi amano le star; raccontiamo storie attraverso gli attori e un attore che riesca a comunicare con un numero enorme di persone è un dono per ogni regista. ●Lui la chiama un «sergente incallito del cinema» che vuol dire? Sì insomma non siamo principianti nessuno dei due. Ho girato il mio primo film (L’Eroe della Strada con Charles Bronson ndr) proprio qui a New Orleans nell’autunno del ’74, lui oltre alla carriera di attore ha diretto anche 10 film. Io sono nato come sceneggiatore, ho anche prodotto diversi film anche se non è proprio il mio forte. Credo che ogni regista porti con sé tracce della propria esperienza nel cinema; un regista che è stato scenografo in qualche modo rimarrà sempre un po’ scenografo. Sly in fondo è un attore e anche nel suo approccio alla regia fondamentalmente rimane tale: un attore che ha deciso di scrivere e di dirigere. Per quanto mi riguarda ero e sono uno scrittore. È un po’ che siamo in giro tutti e due e quindi ci apprezziamo a vicenda, l’eperienza crea una sorta di intesa. È un tipo che mi piace molto, è un buon tifoso e gli piace girare un film, il processo: venire sul set, il trucco, l’azione ●Lei ha affermato che sotto sotto i suoi film sono tutti western. Cosa intende? La metafora del western forse ormai è un po’ logora ma quello che intendevo è che un film richiede una certa separazione dalla realtà. I miei film più creativamente riusciti sono quelli che hanno costruito un loro mondo interiore. Sono delle astrazioni, dal concetto «teatrale» che finiscono per esser una sorta di dibattito sul proprio universo morale. E questo trovo sia vero di molti western; in un western è più apparente perché sono film «storici», o comunque in costume anche se chiaramente come tutti sanno il west del cinema è lontano un milione di miglia da quello che era il vero west americano. ●Allo stesso tempo non disedgna la commedia? Sono un grande ammiratore di Buster Keaton, uno che diceva che nelle commedie bisogna prima crere il personaggio poi metterlo in una situazione e lasciare che la combinazione produca il buffo, senza intenzionalmente a far ridere. È la situazione che deve essere buffa. Il modo in cui tutti ci dibattiamo nelle nostre vite è buffo in un certo senso teatrale.
ALIAS 7 GENNAIO 2012
GAME DESIGNER
GERENZA
KEN LEVINE
Il Manifesto direttore responsabile: Norma Rangeri vicedirettore: Angelo Mastrandrea Ritratto di Ken Levine e immagine da «Bioshock Infinite»
La cotruzione di un mondo coerente in tutti i dettagli è il segreto di un buon videogioco: così trasforma le utopie del sogno americano in incubi
renderla convincente, che ci sia stato un tempo in cui negli Stati Uniti tutto fosse perfetto e non ci fosse nessun problema, in cui ci fosse armonia tra persone e architettura. Che ci sia stato davvero un tempo, durante il passaggio tra il XIX e il XX secolo, in cui ogni cosa era bella e eccezionale. Un tempo che in realtà non è mai esistito.
di FEDERICO ERCOLE
●Sembra che gli uccelli abbiano un ruolo determinante in «Bioshock Infinite», la loro presenza è così rilevante che ci ricorda qualcosa di «The Birds» di Hitchcock. Quando si vuole ricreare un ambiente, sia esso sottomarino o aereo, dobbiamo sfruttare ogni immagine disponibile che sia connessa ad essi. E quando pensiamo al cielo dobbiamo chiederci: chi abita il cielo? Nel primo Bioshock vedevamo tanti pesci di ogni tipo muoversi all’esterno e Big Daddy appare proprio come qualcosa che appartiene al fondo del mare, con la sua tuta che rimanda a quella di un palombaro. Quindi per quello che riguarda la città dei cieli, Columbia, abbiamo disegnato molti uccelli. C’è questa creatura, il Song Bird, che appare come un volatile strano e gigantesco. Un mio amico mi disse che se Big Daddy sembra un dio degli abissi il Song Bird deve essere come il dio dei cieli. Quest’idea mi ha colpito profondamente e ci ho messo un anno per elaborarla e realizzarla nella sua forma conclusiva.
●●●Bioshock Infinite è il terzo episodio di una serie unica dove visioni, racconto, storia, architettura e simbolismo offrono un’esperienza di gioco che fa leva sul pensiero critico e sull’etica di chi la vive. Dalle profondità degli abissi dei primi due episodi all’alto dei cieli, dalla metropoli sottomarina metafora del fallimento del capitalismo e dell’individualismo, ad una città celeste che rimanda all’«eccezionalismo americano», un’ottimistica e iper-nazionalista corrente di pensiero che sfiorò l’America del Nord tra la fine dell’ottocento e l’inizio del novecento. Anche a Columbia, l’ambiziosa metropoli volante in cui si svolge Bioshock Infinite, le cose vanno storte, come nella subacquea Rapture. Non sarebbe un gioco di Ken Levine se le utopie del sogno americano non degenerassero in incubi terrificanti quanto memorabili e appassionanti da giocare. Ken Levine, maestro e filosofo dei videogame, ha risposto ad alcune nostre domande. ●Cosa ci può dire a proposito dell’arte di raccontare una storia nei videogiochi? Quello che è davvero importante in un videogioco per narrare una storia è creare prima di tutto un mondo coerente. Possediamo strumenti diversi da altre forme d’arte, come musica e letteratura, che usano parole e suoni. Noi dobbiamo, e possiamo farlo molto bene, costruire un mondo complesso e dettagliato, inventare un universo fondato sulla visione che avviluppi il giocatore, coinvolgendolo dentro di esso. Se non cogliamo quest’opportunità, se non usiamo l’ambiente del gioco per raccontare una storia, non possiamo che fallire. Sarebbe come trascurare uno dei maggiori punti di forza offerti dai videogame. In Bioshock abbiamo fatto in modo che si possa apprendere la maggior parte dell’intreccio narrativo soltanto guardandosi attorno e perlustrando gli scenari. Quando ci si muove dentro Rapture, la città sottomarina del primo e del secondo episodio, ci sono momenti in cui, solo con l’osservazione, sembra di essere dentro la mente contorta del miliardario Andrew Ryan, che l’ha creata, vengono immediatamente trasmessi i concetti e le utopie che sono le fondamenta del nostro racconto. Anche Columbia, la metropoli aerea di Bioshock Infinite, appare subito come l’espressione di un’idea, il simbolo di quella tensione all’iperbole, la spinta verso l’eccezionale, che inebriò gli Stati Uniti verso la fine dell’800. ●L’architettura è un elemento molto importante nei giochi di Bioshock, vi siete ispirati a stili o correnti esistenti? Il nostro art director, Nate Wells, è un osservatore molto attento degli elementi architettonici. Guidava un gruppo di persone incaricate, ad esempio, di osservare e studiare le maniglie dei portoni di un edificio. Abbiamo estrapolato numerosi dettagli dalla realtà. Credo che molti videogiochi falliscano nel raccontare una storia proprio perché non colgono l’opportunità di trarre ispirazione dal mondo che ci circonda, non dobbiamo dimenticarci che se narriamo una vicenda la maggior parte di essa scaturisce proprio dallo spazio fisico
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BIOGRAFIA ●●●Ken Levine è nato il primo settembre del 1966 in New Jersey, Stati Uniti. Dopo essersi trasferito a Los Angeles per iniziare una carriera nel cinema - ha scritto due sceneggiature è entrato nel mondo dei videogiochi con i Looking Glass Studios dove ha lavorato con Doug Church al leggendario «Thief: The Dark Project». Nel 1997 Levine lascia la Looking Glass per fondare la sua attuale compagnia, la Irrational Games, per cui crea «System Shock 2», che nel 1999 è acclamato dalla critica. Dopo anni di lavorazione nel 2007 esce «Bioshock», universalmente riconosciuto come un capolavoro che ridefinisce l’arte di raccontare una storia nei videogame e vincitore di numerosi prestigiosi premi. Per il successo di «Bioshock» il sito Gameinformer nomina Levine «narratore del decennio». Dopo «Bioshock 2», che ci riporta nella città subacquea di Rapture del primo episodio, Levine ha lavorato a «Bioshock Infinite» che varia set e linea temporale dei primi due episodi per trasportarci nel 1912, in una città sospesa nel cielo chiamata Columbia, ovvero il nome alternativo e «femminile» degli Stati Uniti e creata per essere un esempio della grandezza e perfezione americana. «Bioshock Infinite» uscirà nel corso del 2012. (f.e.)
e reale in cui questa è concepita. Nel primo Bioshock abbiamo cercato di evitare l’impressione di muoverci in un tempo e in un luogo che non sono esistiti veramente, anche se si tratta di una realtà alternativa a quella della fine degli anni sessanta in America, così idealizzai la città di New York come l’ho vissuta nella mia infanzia, quando mi recavo al Rockfeller Center e restavo ad ammirare, quasi in trance, le sue architetture. Con Bioshock Infinite abbiamo voluto restituire l’idea, e
Columbia, metropoli celeste
●Qual è il suo rapporto con il cinema? Sono sempre stato un appassionato di cinema. Sono stato fortunato perché i miei genitori, fin da quando ero piccolo, mi hanno portato a vedere grandi film. Per esempio ho visto Il Padrino di Coppola quando avevo circa sette anni. Ho visto Apocalypse Now, i film di Kubrick...Sono opere che mi hanno davvero ispirato e che amo molto. Sono stato anche influenzato da Star Trek. Amo alcuni lungometraggi, soprattutto i primi, dei fratelli Coen e Il Crocevia della Morte è uno dei miei film preferiti in assoluto. Guardare molto cinema mi fa capire quanto sia diverso dai videogiochi, anche se ci sono momenti unici e rari in cui questi si assomigliano. I videogiochi mi ricordano di più i serial, non solo perché condividono lo stesso luogo, la televisione. Inoltre, come nei videogame, le serie raccontano storie molto lunghe. Adoro programmi come Mad Men, Breaking Bad, i Soprano. Mi piace che possiedano tutto il tempo necessario per narrare delle storie. ●Gioca con i videogame? Certamente! E li amo davvero. Se non fosse così, visto che sono il mio lavoro, sarebbe come se fossi un regista che non va al cinema o che non lo ama. Ci vuole passione per fare bene le cose. Adesso sto giocando a Skyrim, splendido, ma sta creando una specie di buco nella mia vita. È davvero un mondo alternativo. Ho finito Uncharted 3 e Gears of War 3, entrambi notevoli. ●Dark Souls? I colleghi del mio studio lo adorano. L’ho provato ma è davvero difficile, continuavo a morire. Però mi attrae e credo che durante le vacanze natalizie mi ci applicherò come merita. ●Cosa ne pensa del mondo contemporaneo? Sono influenzato dalle mie letture. Studio la storia, leggo tanti libri che analizzano criticamente il passato. Per questo del presente poco mi sorprende: la storia si ripete. Lo vedete anche da quello che è successo nel vostro paese. Non possiamo prevedere il futuro, ma è importante riflettere sul passato per evitare il ripresentarsi di grandi errori.
Alias a cura di Roberto Silvestri Francesco Adinolfi (Ultrasuoni), Matteo Patrono (Ultrasport) con Massimo De Feo, Roberto Peciola, Silvana Silvestri redazione: via A. Bargoni, 8 00153 - Roma Info: ULTRAVISTA e ULTRASUONI fax 0668719573 tel. 0668719549 e 0668719545 email: redazione@ilmanifesto.it web: http://www.ilmanifesto.it impaginazione: ab&c - Roma tel. 0668308613 ricerca iconografica: il manifesto concessionaria di pubblicitá: Poster Pubblicità s.r.l. sede legale: via A. Bargoni, 8 tel. 0668896911 fax 0658179764 e-mail: poster@poster-pr.it sede Milano viale Gran Sasso 2 20131 Milano tel. 02 4953339.2.3.4 fax 02 49533395 tariffe in euro delle inserzioni pubblicitarie: Pagina 30.450,00 (320 x 455) Mezza pagina 16.800,00 (319 x 198) Colonna 11.085,00 (104 x 452) Piede di pagina 7.058,00 (320 x 85) Quadrotto 2.578,00 (104 x 85) posizioni speciali: Finestra prima pagina 4.100,00 (65 x 88) IV copertina 46.437,00 (320 x 455) stampa: LITOSUD Srl via Carlo Pesenti 130, Roma LITOSUD Srl via Aldo Moro 4 20060 Pessano con Bornago (Mi) diffusione e contabilità, rivendite e abbonamenti: REDS Rete Europea distribuzione e servizi: viale Bastioni Michelangelo 5/a 00192 Roma tel. 0639745482 Fax. 0639762130 abbonamento ad Alias: euro 70,00 annuale versamenti sul c/cn.708016 intestato a Il Manifesto via A. Bargoni, 8 00153 Roma specificando la causale
In copertina una scena da «This Girl Friday» (1940) di Howard Hawks con Cary Grant e Rosalind Russell
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ALIAS 7 GENNAIO 2012
ARTISTA E FILMMAKER
ROBERT BREER (A cura di Gianluca Pulsoni)
●●●L’11 Agosto di quest’anno moriva lo statunitese Robert Breer. Artista e filmmaker, all’opera tra gli Stati Uniti e la vecchia Europa (Parigi), dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, in un momento storico che ha dato le basi a molte delle trasformazioni culturali ed estetiche che tutt’ora viviamo. Come per tutti i veri innovatori, per Breer parlano le opere e nello specifico, i film: Recreation (1956); Jamestown Baloos (1957); Blazes (1961); 69 (1969) e tante altre gemme di cinema sperimentale. Era radicale nel suo lavoro, come ha raccontato Pip Chodorov nel suo bellissimo Free Radicals, tra le ultime testimonianze in ordine di tempo che si hanno di lui. Allo stesso Chodorov, tra i primi a segnalarne la scomparsa sul forum di autori sperimentali, FrameWorks (a questo link si va al necrologio, https://mailman-mail5.webfaction.c om/pipermail/frameworks/2011-Au gust/004842.html), dobbiamo il regalo che qui di seguito si offre, una sua intervista del 2003 a Breer. Il testo è desunto da una registrazione audiovideo, la trascrizione è stata poi soggetta, per motivi di spazio, a una riduzione significativa, mantenendo però intatto il senso di tutto il discorso. Ovviamente, a Pip Chodorov vanno i più sentiti ringraziamenti.
¶¶¶ di PIP CHODOROV
●Quando sei arrivato a Parigi, avevi già studiato arte? Ho studiato arte a Stanford. Sono stato cacciato per il fatto di fare quadri astratti, in quel periodo i professori lì erano comunisti. Arnautov era stato l’assistente di Diego Riviera; Mandelowitz, l’altro artista insegnante, era un pittore vicino al realismo sociale e ce n’era poi un terzo che era un pittore realista. Ci portarono a San Francisco dove vidi una mostra di Mondrian che mi cambiò totalmente, così che al ritorno dipinsi un quadro astratto. Fu trovato poggiato contro il muro in un’aula. A tutti fu domandato chi l’avesse realizzato e io, timidamente, alzai la mano. Arnautov allora mi invitò nel suo ufficio, sedetti e mi disse che non avrebbe potuto insegnarmi se avessi continuato in quel modo; la stessa cosa me la ripeterono gli altri insegnanti così che io, effettivamente, dovetti abbandonare tutti i loro corsi. Conoscevo allora il sopraintendente del dipartimento d’arte della facoltà umanistica e lui venne a conoscenza del mio caso. Mi offrì uno spazio; quello era poi il mio ultimo anno e lui mi disse che tutto quello che dovevo fare era dipingere. Poi io dovetti iscrivermi ad un altro corso in cui non ero molto portato. Ad ogni modo, il resto del tempo lo passai solamente dipingendo. Mi laureai a metà anno perché ero stato fuori con l’esercito e poi ritornai. Ricevetti un telegramma in cui si diceva che avevo vinto il premio annuale di pittura di Stanford, un riconoscimento molto generoso. Il tutto ammontava a centocinquanta dollari. Un amico mi disse che sarei potuto arrivare a Parigi con quella cifra, su una nave per studenti, ci avrei impiegato dieci giorni. Avevo la laurea e non sapevo cosa avrei poi fatto, pensavo di trasferirmi a New York e lui mi disse, «allora vieni con me, andremo a Parigi». Ero stato nell’esercito per due anni, avevo un GI bill1 così che una volta arrivato mi sarei arruolato. Era la primavera del 1949 e dieci giorni più tardi ero già al porto di Cherbourg. Fu un grande shock vedere i danni della guerra: ero stato nell’esercito ma non oltreoceano e quella fu la mia prima cognizione della guerra, una
Scomparso l’11 agosto 2011, Breer è ricordato da Pip Chodorov nel suo «Free Radicals» con una delle ultime interviste rilasciate, come sempre inaspettate, dense e divertenti come i suoi film esperienza devastante. Prendemmo allora un treno per Parigi e sulla strada vedemmo tutte quelle città della Normandia che erano state colpite e distrutte. Fu terribile. ●Perché sei rimasto a Parigi? All’inizio, non sapevo davvero cosa fare. Noi stavamo in quello che ora è la Gare D’Orsay, io avevo una stanza in un enorme hotel. Ricordo una volta che stavamo mangiando quando un tizio entrò vestito da clown. Era un altro GI, ci parlammo e lui ci raccontò di Montparnasse e, siccome io non sapevo davvero dove fosse la scena artistica parigina decidemmo alla fine di andarci. Poi però l’amico con cui ero seguì la scia di altri Statunitensi che conoscevo, entrò a lavorare alla ECA, dedita alla cooperazione e amministrazione economica e alla ricostruzione per il processo di pace. Quella banca aveva una reputazione assai migliore di qualunque altra ai giorni nostri. Andai così da solo a Montparnasse e quel giorno mi registrai presso un hotel in rue de la Grande Chaumière e, con lo stipendio dal mio GI bill, mi iscrissi all’Accademia Grande Chaumière. Mio Dio, ero abbagliato da Parigi. L’America era il Paese moralista dove mangi male e io ero arrivato in un altro Paese dove
invece per 50 centesimi potevi mangiare piatti incredibili, e – altro fatto scioccante – vedere le persone baciarsi per strada durante il giorno. Dopo essere stato lì un anno fui preso dalla galleria Denise René dove conobbi artisti di ogni nazionalità. Io ero l’unico statunitense lì e il messaggio che c’era, fare arte astratta, sembrava il futuro. Ho incontrato anche persone come Arp e Le Corbusier e da tutti ero considerato la giovane mascotte americana. Dopo un po’ lasciai la Grande Chaumière e andai a stare nell’hotel dall’altra parte della strada. E inoltre, per capriccio, mi iscrissi in un’altra scuola per studiare scultura con
Ossip Zadkine, un artista franco-rumeno. Una volta mi disse che avevo bisogno di lavorare sull’anatomia e che avrei dovuto studiare nel pomeriggio degli stampi in gesso della statuaria greca, per poi successivamente realizzare il relativo modello pittorico. Non volevo seguire questa prassi, ero stato al college per quattro anni a dipingere modelli e pensavo che la mia conoscenza dell’anatomia umana fosse dannatamente buona, così dissi che non potevo, perché ero occupato nel pomeriggio. Al che mi domandò: «cosa fai nel pomeriggio?» E io dissi, «be’, dipingo». A quel punto lui: «be’, non puoi farlo – devi decidere, dipingerai o farai lo scultore. Non puoi essere entrambi». E così decisi, lasciai la sua classe in men che non si dica. Altre persone che conobbi furono Man Ray e il suo sodale, Marchel Duchamp. Col primo avevo molte amicizie in comune, così organizzai una serata dove gli mostrai i miei film e lui mostrò a me i suoi e, ovviamente, mi ritrovai imbarazzato a costatare che molta della mia ricerca lui l’aveva già superata: era chiaro a prescindere che fosse un precursore. Duchamp lo presuasi a venire da me a vedere un mio film che misi nervosamente nel
proiettore e mostrai sotto sopra così che poi dovetti scusarmi. Lui, comunque, era molto gentile, mentre Man Ray era più burbero e musone. Furono dunque loro i primi pionieri, così come Vasarely, con cui passai molto tempo assieme. Assieme, nel 1955, misero su una mostra alla Denise René per la quale, dato che allora il film non era considerato come forma d’arte «accettabile», feci un piccolo libro di immagini che se sfogliate velocemente producevano l’illusione di movimento. ●A quel tempo eri considerato più un pittore o un filmmaker? Probabilmente non ero considerato un pittore. Avevo molti quadri esposti in un paio di mostre. Denise René rimase comunque impressionata e interessata dopo che feci Form Phases 4, ma in quel momento, era il 1954, ruppi con lei, poi mi sposai ed ebbi cambiamenti radicali nella mia vita. Capitò una personale dei miei quadri al museo di Bruxelles dove pure mostrai Form Phases 4 per la prima volta e, per quello che potrei dire, nessuno era molto interessato ai quadri, ma il film ebbe una grande accoglienza. Venni recensito dal critico cinematografico Paul Devais e il film fu mostrato in un programma assieme ad Aurora di Murnau, furono messi insieme in un piccolo catalogo con una recensione. Improvvisamente, ero sulla pista e per un lungo periodo successivo, ebbi questa carriera schizofrenica. Decisi allora che avrei fatto di più. Una volta compresa a pieno la meccanica filmica, cominciai a chiedermi come radicalizzarla ed è
Un pioniere delle immagini
BIOGRAFIA ●●●Robert Breer (Detroit 1926, Tucson 2011), artista e regista tra i fondatori dell’avanguardia americana, inizia a usare la macchina da presa a Parigi dove si trasferì dopo essersi diplomato in pittura a Stanford. Il suo primo film «Form Phases» (’52) è stato girato in 16mm. «Images by images» è formato da 240 immagini una diversa dall’altra e, congiungendo l’inizio con la fine, può essere vista all’infinito. L’idea è scoprire sempre diverse dimensioni visuali e cancellare ogni elemento psicologico e narrativo, nella stessa direzione artistica presa da Stan Brakhage e Gregory Markopoulos. Dal ’56 la sua produzione prende forma con linee dipinte che assumono divertenti e inaspettate soluzioni: «A man and his dog out for ait» (’57), «Inner and outer space» (’60), «Blazes» (’61) con cento figure diverse in 4 mila fotogrammi, «First Fight» (’64). Dal ’63 al ’69 sviluppa un linguaggio sempre più complesso. «69» è appunto un film come un punto di arrivo della sua tecnica. Della sua produzione di sculture parla come di «disegni», opere fluttuanti o, come i rug, tappeti in movimento. È stato il primo artista i cui film siano stati esposti nelle gallerie d’arte. Nell’87 ha ricevuto dall’American Film Institute il Maya Deren Award.
così che sono arrivato ai primi lavori come Form Phases 1&2 nel 1952 e Recreation, qualche anno dopo. A quel tempo pensavo che la maggior parte dell’animazione fosse di bassa qualità, ma poi scoprii eccezioni come Emil Cohl. Venni paragonato a lui da qualcuno. Devo supporre che iniziai a fare film perché li vedevo, e questo è certo dopo il primo astratto di Hans Richter, la prima volta che un artista si cimentava col materiale filmico come fosse pittura. Lui, Viking Eggeling e tutte queste persone erano veri artisti e provarono a fare film, in un modo o nell’altro. In passato ho dipinto tele astratte, cercando l’accordo di forme geometriche ispirate da Mondrian, per esprimere qualcosa che avesse forza plastica e qualità emozionali senza alcun rimando al mondo esterno e a quel punto, con tutte quelle composizioni, cominciai a interrogrami se ce ne fosse stata una realmente superiore all’altra e se forse la quantità di queste suggerisse possibilità di variazioni in qualche modo continue. Così pensai che il modo per saperlo fosse farne il libro già menzionato, unendo immagini astratte che sembravano come i miei dipinti e poi decidendo di vedere se registrare il tutto in un film, evitando nello stile chi m’aveva preceduto, perché speravo anche di venirne fuori con qualcosa di nuovo ma probabilmente, essendo pigro per ricerche e quant’altro, cominciai a fare questi primi film non con la giusta cura. E così pensai che forse sì, non era giusto che io facessi allo stesso tempo film e quadri. Persino John Cage lo diceva: devi dedicarti al futuro. Persino con tutto il suo anarchismo ebbe questa sensazione. Era abbastanza nell’aria e avrei perciò preso quella via. Filmare. Avevo una mezza idea di come essere radicale con i film, cominciai a pensare a come attaccare la regolare continuità della registrazione del movimento, verificare cosa sarebbe successo, dato che non c’è di solito un cambiamento d’immagini 24 volte al secondo tale da rompere totalmente il flusso piuttosto che renderlo più facile. Insomma, era un esperimento alla cieca nello spirito di una sperimentazione, fare qualcosa di diverso dall’ «apparato» e dalla sua necessità narrativa. Così feci il film in loop cambiando deliberatamente il tipo di immagine 24 volte al secondo e il loop stesso era praticamente lungo abbastanza per passare attraverso il proiettore e ripetersi. Era di 10 piedi e le 24 volte al secondo avrebbero quindi comportato 240 fotogrammi differenti. Così ci volle del lavoro per filmare 240 fotogrammi, ognuno radicalmente differente dal precedente. Ecco, Recreation. ●Dicci di più. La base di tutto era il cambiamento radicale fra fotogrammi; allo stesso tempo venni anche a conoscenza
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ATTORE che c’è in un intervallo di tempo una evoluzione del film che è il risultato di qualcuno che sta di fronte allo schermo per una certa durata, cominciando a vedere cose che non aveva visto la prima volta, come se ci fosse una naturale evoluzione della forma. Tutto questo era forse soggettivo, in quanto relativo allo spettatore, perciò cominciai a pensare a come anticipare la cosa, anche creando una struttura ritmica, un torrente di immagini nella forma di piccoli episodi; carta sgualcita che gradualmente si apre, facendo scaturire da lì un’altra animazione continua: abbastanza per impostare un contrasto con un materiale d’impatto, così che non si bruciasse tutto da sé. Ero perlomeno capace di sviluppare una struttura nattativa – penso alla condensazione del ritmo col contenuto – e il contenuto, in dosi maggiori o minori, dipendeva da come lo sentivo al riguardo. Questo divenne il mio stile personale nel quale pensavo che avrei potuto esprimermi in modi differenti. ●Come fu percepito? Quando fu proiettato? Be’, la prima volta che mostrai Recreation in un cine-club a Parigi ero con Agnès Varda e il suo Opéra Mouffle, il suo genere di film, girato in rue Mouffetard dove c’era un mercato e lei mescolò quello con le immagini della sua gravidanza e così via. È un film poetico più convenzionale del mio: lei lo mostrò e io mostrai Recreation. Lei fu accolta molto caldamente, il mio film causò un bel po’ di sbigottimento. La gente mi accusò di rovinare la vista e cose del genere. Però il direttore del cine-club pensò che il mio lavoro fosse tuttavia interessante e mi chiese di mostrare i miei film in un altro cine-club, al festival annuale del sindacato delle poste. Così ci andai. C’erano 500 postini e un grande auditorium, dove mostravano allo stesso tempo regolari filmini 8mm delle loro vacanze. Sai, molti di loro erano del tipo home movies e quel direttore pensò che i miei film li avrebbero svegliati un po’. Mi mandarono sul palco, spiegai cosa stavo facendo e poi mostrai Recreation e Jamestown Baloos. Ora, in Jamestown ho preso in giro Napoleone, così che quando il film finì e mi invitarono di nuovo sul palco, venne fuori che mi dovetti difendere perché attaccato dal pubblico per non avevo mostrato alcun rispetto nei confronti del personaggio storico; allo stesso tempo, quando mostrai il film al night club di Pierre Prévert e suo fratello, La Fontaine des Quatre Saisons, nei quartieri residenziali, all’entrata trovai una figura in compensato di Napoleone che stava con la mano, invece che nella camicia, infilata nei pantaloni. Era chiaro, la maggior parte dei Francesi, patriottici o no, potevano prendersi gioco di Napoleone, ma a me non era permesso. Mia moglie fu anche guardata in cagnesco dalle mogli presenti e io venni considerato un inaccettabile americano, radicale e arrogante. Quella fu la ricezione del film. Ma sai, in seguito poco a poco venne accettato. Certo, c’è da dire che poche cose sembravano come i miei film a quel tempo. Molte volte mi hanno pure dato la responsabilità dell’origine dei jump cuts, qualche volta in modo positivo, altre in modo negativo, ma con questo iniziò in assoluto un nuovo modo di fare film. Ricordo per esempio quei fratelli comici, gli Smothers, che assunsero un tale per fare un film di fotogrammi singoli e ci misero su della musica tremenda, trattando l’intera cosa come uno scherzo, indirizzato a un pubblico di massa, rendendomi molto infelice per un uso del genere delle mie intuizioni; oppure un giovane professionista nell’animazione, che nel tempo libero con una 35mm filmava mucchi di fotogrammi discontinui, che si fece ricevere dal direttore di un cinema di Montparnasse dove passavano miei film per mostrargli il suo lavoro e sapere se avrebbe potuto essere proiettato, essendo simile al mio. Il direttore gli disse, «Perché dovrei mostrarlo? Breer l’ha già fatto e le sue opere sono divertenti!». Il poveretto allora venne da me, lo presi a simpatia. In ogni caso, non ho mai voluto essere considerato importante, ho provato
NINETTO DAVOLI
Nella pagina a sinistra: una delle sculture «fluttuanti» che Robert Breer iniziò a creare negli anni ’60. Sotto, un suo recente ritratto.
solo a sviluppare uno stile espressivo, per me stesso. ●Quando vennero i galleggianti e le sculture? Sentivo che solo una galleria d’arte fosse il posto dove potevo essere capito. Nei cinema le nostre cose non sarebbero state mostrate eccetto che dopo mezzanotte tanto che allora mi legai a Jonas Mekas, all’Anthology Film Archives. Rimaneva però il fatto che volevo entrare nelle gallerie d’arte, non volevo essere ostacolato nel fare film. E l’idea delle sculture che si muovono lentamente fu una di quelle cose dove per me, tutto si unì. ●Come mettevi in relazione i film veloci con le sculture? Velocizzando l’animazione e rendendo le sculture più lente? Il mio progetto come artista è rompere l’ordine con un movimento lento o apparentemente stabile, verso una totale libertà di movimento per sfidare l’effetto attuale di un immaginario dato a priori. L’intera idea era quella d’avere sculture che non solo venissero fuori dalle loro basi di cemento ma anche che fossero ben piantate a terra e che iniziassero a muoversi da sé. Questo mi sembrava un grande, eroico passo avanti dalla nascita delle «presentazioni fisse», verso un limite ambiguo della pratica che mi interessava. La stessa cosa in senso opposto coi film, lavorando contro la coerente evoluzione dell’immagine in movimento che non offre nessuna curva costruttiva allo sviluppo visuale. Perciò, in un caso dovevo spezzare molto rapidamente i movimenti regolari in relazione al contorno; in un altro invece, una immagine fissa doveva svilupparsi lentamente, come fosse stata statica fino a che uno non l’avesse riguardata ancora e con reazione sorpresa, avesse visto quanto fosse effettivamente libera. Sembrano vie opposte l’un l’altra, ma entrambe servono la stessa funzione: assumere il dato e gettarlo via. Volevo essere radicale in modo molto cosciente. ●Sembra che in quel periodo le persone collaboravano molto di più tra loro. Fu così? Sembrava così. Quando arrivai a Parigi, la scena Pop Art stava iniziando e io mi vedevo con tutti gli artisti Pop benché non ne facessi parte e non ne sarei diventato uno. Non vivevo in America e mi piaceva questo e quando per esempio c’era in giro la pittura astratta di un Donald Judd dicevo, bene, è stato già fatto 20 anni fa e lui l’ha scoperta solo ora. C’era molto sciovinismo fra gli Americani e io sentivo che avevo visto e fatto tutto quello. Però mi capivo con Bob Rauchenberg e collaborai con lui e questo cambiò molto del mio comportamento, inoltre Kurt Schwhitters era il mio eroe e conobbi poi altri artisti europei, altri pittori, e immaginai che questo andare indietro avrebbe riportato tutti verso la pittura Dada, cioè al periodo di Arp. Perché fare ancora quello? Ma non fui abbastanza veritiero nella mia visione d’insieme dato che la Pop Art era qualcosa di necessario per gli Stati Uniti e tutti loro, gli artisti Pop, divennero miei amici, anche se non ho mai compreso la loro arte. ●Perché no? La Pop Art? Perché appunto la sentivo vicina al Dadaismo e lo dissi ai Dadaisti che conoscevo, gli artisti Fluxus. Alla fine poi, alcuni come Don Judd e Vasarely erano andati nel loro lavoro verso un’arte più astratta, ma la mia idea di trasformare in film l’astrazione che loro stavano scoprendo era vista come qualcosa di non pertinente con ciò che volevano fare. SEGUE A PAGINA 6
Un ritratto di Ninetto Davoli
di GABRIELLE LUCANTONIO
●●●Ninetto Davoli è una leggenda del cinema italiano. Il 2011 ci ha permesso di ritrovarlo a teatro in Albergo rosso di Pierpaolo Palladino, con una regia di Federico Vigorito, prima al Teatro Roma nella capitale poi al teatro Moderno di Latina. Riprenderà questo spettacolo dal 31 gennaio al 19 febbraio 2012 al teatro della Cometa a Roma. L'anno appena trascorso ci ha anche permesso di rivederlo a cinema in Tutti al mare di Matteo Cerami. Evochiamo con lui alcuni punti della sua carriera:
BIOGRAFIA ●●●Ninetto Davoli, all'anagrafe Giovanni Davoli, è nato a San Pietro a Maida (Catanzaro) l'11 ottobre 1948. Scoperto da Pierpaolo Pasolini, ha girato con lui «Uccellaci e uccellini» (1966), l'episodio «La Terre vista dalla Luna» di «Le streghe» (1967), «Edipo Re» (1967), l'episodio «Che cosa sono le nuvole?» di «Capriccio all'italiana» (1968), «Teorema» (1968), l'episodio «La sequenza del fiore di carta» di «Amore e rabbia» (1969), «Porcile» (1969), «Il Decameron» (1971), «I racconti di Canterbury» (1972) e «Il fiore delle mille e una notte» (1974). Al di fuori di Pasolini, ha lavorato con molti registi come Bernardo Bertolucci in «Partner» (1968), Giuliano Montaldo in «L'Agnese va a morire» (1976), Carlo Lizzani in «Requiescant» (1966), Elio Petri in «Le buone notizie» (1979) o Marco Martani in «Cemento armato» (2007). Ha realizzato un lungo sodalizio con Sergio Citti, dal 1970 al 1996 («Ostia», «Storie scellerate», «Casotto», «Il minestrone» (che doveva intitolarsi «La fame» ma la Rai censurò il titolo come troppo depressivo), l'episodio «I Ladri» di «Sogni e bisogni» e «I magi randagi»). Specializzato in ruoli brillanti, Davoli ottiene ottimi risultati in ruoli drammatici come in «Uno su due» (2006) di Eugenio Capuccio. Senza dimenticare una celebre pubblicità di biscotti negli anni ’70.
●A che punto il cinema degli anni sessanta e settanta è diverso da quello che si realizza oggi ? E' palese. Nel senso che prima c'erano Pasolini, Fellini, Antonioni, Citti, Bertolucci e molti altri ancora. C'erano soprattutto dei registi di grandissima qualità. Oggi, ce ne sono pochi. Probabilmente, non gli si dà la possibilità di esprimersi al meglio. Un Pasolini o un Fellini oggi non avrebbe sicuramente potuto realizzare i film che ammiriamo ancora. Prima si faceva un racconto realistico, adesso si fa un cinema di comodo, convenzionale. Chi ama un certo tipo di cinema, non è attratto da quello che si fa oggi. ●Quale film di Pasolini preferisce? Ho un debole per il mio primo film con lui Uccellacci e Uccellini (1966). Anche se avevo fatto un'apparizione nel Vangelo secondo Matteo nel 1964. Pasolini mi ha permesso di esordire davvero come coprotagonista in un film, insieme a Totò, che era uno dei miei idoli. Non volevo farlo, non mi sentivo all'altezza. Però Pasolini mi disse che il mio lavoro sarebbe stato soprattutto di andare in giro con Totò e che per questo mi avrebbero pagato due milioni di lire! Mi pagavano per passeggiare con Totò? Mi sembrava una cosa talmente assurda. Ovviamente ho accettato. Avevo l'impressione di vivere in un sogno che diventava realtà. Ho poi ritrovato Totò in Che cosa sono le nuvole?, un episodio di Capriccio all’italiana (1967). C'era in quel film una poesia estrema, meravigliosa. Totò mi diceva che avevo un bel viso d'attore, ma che dovevo studiare. Ci siamo rivisti in La terra vista dalla Luna, un episodio del film collettivo Le streghe (1967). E poi, tra i film di Pasolini, nei quali non ho recitato, c'è La ricotta (1963), che considero un capolavoro assoluto. ●Lei simboleggiava lo «spirito» delle borgate romane nel cinema di Pasolini... Pasolini ha incontrato Franco Citti a Roma che gli ha fatto conoscere la borgata romana. Pierpaolo é stato sedotto da questo mondo e ha realizzato Accattone (1961) e Mamma Roma (1962). Poi anch'io l'ho conosciuto. In me ha trovato una guida, una persona giusta, come lo erano Franco e soprattutto Sergio Citti. Diciamo che è stato uno scambio di culture. All'epoca, si poteva creare un racconto realista, la vita che si poteva rappresentare era diversa. C'erano personaggi come il mio, «Ninetto», che era un ragazzo innocente, furbacchione, simpatico, gioioso... E’ attraverso noi che Pasolini ha restituito lo spirito delle borgate romane. Ci vivevamo tutti come in una grande famiglia, tutti conoscevano tutti. Si lasciavano le chiavi sulla porta, non c'erano problemi. Adesso, non si può più fare, è troppo pericoloso. All'epoca, si sentivano i profumi delle cose, dei piatti che cucinavano i vicini di casa. C'era armonia, c'era gioia... ●Il suo personaggio si ritrovava
LEGGENDE ■ IL RITORNO
amarezza.
La leggerezza delle borgate non esiste più
●Ha lavorato in un musical trasmesso in Rai nel 1979, con musiche scritte da Antonello Venditti, «Addavenì (quer giorno e quella sera)», dove lei cantava pure... Si, a dire il vero, avevo già cantato in una serie di spot pubblicitari, «Le canzoni alla Gigetto», che sono andati in onda dal 1972 al 1983... Sono stonato ma mi piace. Quando mi hanno contattato per fare questo musical, nel quale avrei dovuto cantare, ho subito detto: «Ma io non so cantare!». Mi hanno insegnato fino a dove arrivare con le note, con la voce. Ho studiato. Il giorno dell'incisione poi è andata bene.
Una carriera tra cinema e teatro, da Pasolini a Carmelo Bene. «Pierpaolo mi offrì due milioni per passeggiare con Totò, il mio idolo. Che assurdità...» anche in film che non erano di Pasolini. Spesso era utilizzato come un caratterista... Adesso il caratterista non esiste più. Adesso o sei il protagonista o fai una piccola parte. Ma non ci sono più neppure gli attori che potrebbero diventarlo. Nel cinema che si fa oggi, non è possibile. Prima in ogni scena c'era un'atmosfera particolare, tutti i personaggi erano costruiti. Se una cosa non veniva bene, si rifaceva, ancora e ancora, fino alla perfezione. Oggi, la prima è buona. Il cinema e la televisione sono diventati delle industrie. L'arte non esiste più. Si fa un film in tre settimane, mentre una volta si giravano in sette, otto o dieci settimane. Adesso devono fare il
prodotto, devono affrettarsi, perché sanno quando andrà in onda ancora prima di realizzare il film. ●I personaggi che lei impersonava in quegli anni non sarebbero più proponibili oggi? Il «Ninetto» che esisteva allora, al cinema, non può più esistere. Oggi i ragazzi che abitano nelle borgate romane non sono più innocenti, gioiosi e spiritosi. Questo mondo è completamente cambiato. Adesso hanno una specie di autodifesa. Sono aggressivi, cupi, non sono simpatici, stanno sempre sulla difensiva, ma questo non fa parte davvero del loro carattere. E' la vita che li ha portati a diventare così, non è colpa loro. Non hanno più la leggerezza e la semplicità che aveva allora il tipo che rappresentavo io. Il consumismo ha portato a questo. Pasolini in un certo modo lo aveva previsto.... Ho un po' ripreso questo personaggio, ma invecchiato, nel film di Eugenio Cappuccio Uno Su due (2006). Ho vinto diversi premi, come attore non protagonista: il Ciak d'oro, il Nastro d'argento e sono stato nominato ai David di Donatello. Mi hanno dato il premio L.A.R.A. - Libera Associazione Rappresentanti di Artisti – come migliore attore alla «Festa del cinema» di Roma, dove il film è stato presentato. Il mio personaggio era una specie di «Ninetto» maturato, che era dolce ma con un tocco di nostalgia e di
●Lei ha fatto anche molto teatro. Ho lavorato dai miei esordi con i più grandi. Ho avuto la fortuna di esordire a teatro con Carmelo Bene e Luca Ronconi. Due mostri sacri. Nel 2011, ho lavorato in L'Albergo rosso di Pierpaolo Palladino e lo riprenderò a febbraio. Si svolge a Roma nel 1936, quando Mussolini spianò Spina di Borgo per costruire Via della Conciliazione. C'erano delle persone che ci vivevano e ci lavoravano, improvvisamente vennero sbarracate e tante famiglie si ritrovarono a disagio, non avendo più casa nè lavoro. Mi diverto a fare teatro. C'è un rapporto diretto con il pubblico e ogni sera è un debutto. ●Nel 2011 è uscito nelle sale «Tutti al mare» di Matteo Cerami, che molti critici hanno paragonato a «Casotto» (1977) di Sergio Citti... Probabilmente perché lei era nei due film ed entrambi si svolgono al mare, l'estate, in un capannone... La gente ha ovviamente paragonato i due film, ma i due mondi rappresentati sono completamente diversi. Le spiagge degli anni settanta non hanno nulla a che vedere con quelle attuali. Adesso c'è l'extracomunitario che non era presente prima. Oggi, tutto è falso e il film di Cerami lascia un retrogusto amaro che l’altro non aveva.
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BREER DA PAGINA 5
ATTORE
TONI SERVILLO Così accaddero spesso situazioni buffe in cui miei film tipo 69 venivano ben recensiti sui giornali di critica cinematografica, ma non nelle pagine di riviste d’arte. Ricordo poi che Oldenberg e io lavorammo su un film assieme e lui volle inserirci le mie sculture in movimento. Voleva delle basi per un uovo fritto così da muoverlo sul pavimento e io mi sentivo come fossi stato assunto perché era, in quel tempo, un artista di grande successo e non volevo essere assorbito da qualcosa che lui avrebbe trasformato in un semplice espediente. Ecco quindi, nella scena dell’arte conoscevo tutti questi celebri artisti Pop. Ero pure con una buona, costosa galleria, ma loro non potevano vendere la mia roba: troppo fragile e non sembrava proprio integrata, in quella «scena». Ebbi comunque alcune buone critiche e dell’attenzione. Al MoMa finì un mio grande galleggiante, nel 1970, dopo la fiera mondiale che facemmo in Giappone. Era in compagnia piuttosto buona; con Picasso, Goethe, Mirò e Henry Moore. Le mie sculture moventi sarebbero andate in giro. Ero qualcuno, ma quel tipo di arte era marginale comparata a quella Pop e commercialmente, non feci fortuna nel modo in cui quegli artisti la fecero, diventando multimilionari come Oldenberg e compagnia. Solo ora finalmente sto ottenendo del riconoscimento. Sono lontano dal diventare un multimilionario, ma la mia attività nei film e nella scultura si sta unendo e mi sono permesso di fare entrambe le cose ed essere la stessa persona e, finalmente, ho vissuto abbastanza a lungo per farlo accadere. Tutto questo sembra la ripetizione di quello che visse il mio vecchio, troppo d’avanguardia per il suo tempo. Lui inventò l’Ariflow Chrysler nel 1928. La Chrysler Corporation aveva giusto cominciato ad esistere e lui era uno dei tre ingegneri della Chrysler automobile. La sua ispirazione venne fuori un giorno guidando fino a una spiaggia dove stavamo l’estate in Michigan: mise fuori dal finestrino la mano e iniziò a giocare col vento che soffiava e capì quanto avesse effetto sulla sua mano; vide tre corvi vicini in volo e come fossero aerodinamici e graziosi nel vento. Quei tre corvi gli sembrarono come aeroplani che atterravano su un campo, aeroplani militari e questa cosa lo fece realmente interessare alla aerodinamicità delle auto. Appena approfondì ulteriormente la cosa, intuì che l’automobile convenzionale era più aerodinamica andando indietro che in avanti: la mise in una galleria del vento per provarlo e convinse Walter Chrysler a collaudare la costruzione di quell’auto estremamente radicale e aerodinamica. Uscì nel 1934, ’35 e ’36, ma le prime auto, sebbene stupende per l’aspetto ingegneristico, non furono pronte per la produzione finale perché erano a telaio monoscocca, così dovettero rivedere delle cose. Quelle prime auto avevano difetti spettacolari, mancanze e qualsiasi altra cosa tanto che il feedback con tutte le compagnie rivali fu che quelle auto erano «sperimentali», non serie. La classe media ci credette e non le comprò, ma a ottant’anni, prima di morire, il mio vecchio ebbe la rivincita, avendo scoperto un Airflow club da cui ancora ora ricevo il loro bollettino ogni mese, con proprietari fanatici di queste vecchie auto degli anni ‘30 rispolverate per ogni raduno. Lui comunque mantenne il lavoro alla Chrysler, ma fu messo ai margini per il fallimento di quel modello. Ecco, immagino allora che o si respingono i propri genitori o provi a connetterti in qualche modo con loro e la tua origine. La mia origine coinvolge loro, assieme agli artisti d’avanguardia che hanno fatto film; inoltre, mi piace l’idea di un certo tipo di continuità con il cambiamento radicale, così ho provato ad avere il meglio da entrambi quei mondi. (traduzione di Gianluca Pulsoni).
di ALBERTO CASTELLANO
●●●Toni Servillo è in questo momento non solo uno degli attori italiani della sua generazione più richiesti e apprezzati dal pubblico e dalla critica, ma è anche un artista in qualche modo emblematico di quelle potenzialità dello spettacolo nazionale, risorse recitative, duttilità multimediale, rigore professionale riconducibili a un modello americano – ma anche francese per restare in Europa – spesso da noi citato e invidiato. Il suo percorso artistico infatti è un po’ paradigmatico della possibilità che esiste anche in Italia di fare cinema, teatro, televisione, radio, reading e altro con la stessa intensità, lo stesso rigore, le stesse opzioni morali, insomma di ritagliarsi da attore una cifra quasi autoriale se si accoppiano – come nel caso di Servillo – talento e lucidità di sguardo, doti naturali e studio costante, caratteristiche espressive e scelte coraggiose, entusiasmo inesauribile e impegno civile, grande tecnica e tensione morale. Si può senza svendersi o meglio «vendere l’anima (artistica)» al ricatto televisivo, alle fiction ruffiane di moda, al cinema commerciale più sbracato. Dalla sua amata Caserta (ma è nato ad Afragola) dove si è formato artisticamente quando da giovane muoveva i primi passi con il Teatro Studio, Servillo oggi è proiettato in una dimensione che lo vede girare con i suoi spettacoli i teatri di mezza Europa e i suoi film venduti all’estero e partecipare a Festival internazionali. E nella sua amata Caserta è rimasto a vivere con la famiglia andando controcorrente rispetto al clichè del divo all’italiana che ‘deve’ vivere a Roma. Anche quando si parla del lavoro dell’/sull’attore, di modello recitativo, di pratica attoriale, l’esperienza di Servillo sfugge a qualsiasi rigida griglia teorica, perché lui in realtà oscilla tra Stanislavskij e Brecht, tra l’attore classico che interpreta Molière e Goldoni e l’asciuttezza e l’essenzialità di Eduardo, il suo unico, dichiarato modello di riferimento, tra la trasformazione fisica e la voglia di abbandonarsi alla forza della parola poetica, si muove con disinvoltura tra l’adesione psicofisica ai personaggi cinematografici che l’hanno reso popolare (il Tony Pisapia di L’uomo in più, il Titta Di Girolamo di Le conseguenze dell’amore, l’Andreotti di Il Divo, il Gorbaciof dell’omonimo film su tutti) e l’effetto straniante del finto direttore d’orchestra (coscienza critica) dell’adorniano Sconcerto. In questo periodo Servillo si divide freneticamente tra set, palcoscenici e postazioni per letture poetiche ma non per questo perde la tranquillità nella conversazione e l’equilibrio nell’esposizione di concetti artistici e morali, l’equilibrio di un attore di grande spessore intellettuale, unico (almeno nel panorama italiano contemporaneo) per come sa sposare successo e qualità, feeling con un pubblico ampio e coerenza di percorso.
PERSONAGGI ■ UN SUCCESSO LUNGO TRENT’ANNI
Una questione di stile Venti film in venti anni, una intensa attività teatrale, la regia di opere: l’attore più premiato del nuovo cinema italiano è ora sul set di Anghelopoulos che lo folgorò con «La recita»
●Da «Morte di un matematico napoletano» del 1992 a «Il gioiellino» uscito quest’anno, tu hai girato poco meno di 20 film in un arco di 20 anni. Una bella media
BIOGRAFIA ●●●Regista e attore campano, Toni Servillo è nato ad Afragola nel 1959, fratello del musicista e cantante Peppe Servillo, leader della Piccola Orchestra Avion Travel. Fonda il Teatro Studio di Caserta e nell’86 si avvicina al gruppo Falso Movimento e quindi al regista Mario Martone, con il quale dà vita ai Teatri Uniti. E a Martone deve il suo debutto cinematografico nel ’92 con «Morte di un matematico napoletano» al quale seguiranno «Rasoi», «Teatro di guerra» e «Noi credevamo». Continua comunque a preferire il teatro partecipando a spettacoli come «Ha da passà 'a nuttata» e «L'impero della ghisa», entrambi di Leo de Berardinis, incanta il pubblico con «Sabato, domenica e lunedì» (2005) di Eduardo, passa al Teatro dei Mutamenti di Antonio Neiwiller. Con Antonio Capuano è nei «Vesuviani» e in «Luna Rossa», protagonista con Paolo Sorrentino per «L'uomo in più», «Le conseguenze dell'amore», «Il divo», «Gomorra» di Matteo Garrone, «Lascia perdere, Johnny!» di Fabrizio Bentivoglio, «Gorbaciof» di Stefano Incerti, «Una vita tranquilla» di Claudio Cupellini, «Il gioiellino» di Andrea Molaioli dopo «La ragazza del lago». Ha diretto numerose opere liriche come «Il marito disperato» di Cimarosa, il «Fidelio» di Beethoven per il San Carlo di Napoli e «Boris Godunov» di Musorgskij per il Sao Carlos di Lisbona.
Ritratto di Toni Servillo
considerando la tua intensa attività teatrale. Sì, negli ultimi anni ho lavorato molto nel cinema, nel 2010 sono usciti addirittura quattro film dei quali sono protagonista. Per ora riesco a dividermi tra cinema e teatro senza penalizzare nessuna delle due forme espressive. In questo periodo, ad esempio, sto portando ancora in giro Sconcerto, il 15 di novembre ho debuttato a Napoli con il recital poetico Toni Servillo legge Napoli nel quale leggo brani di poeti e scrittori di ieri e di oggi (Viviani, Eduardo, Russo, Di Giacomo, Moscato, Borrelli, De Giovanni, Montesano) che ho portato in giro per l’Italia, ho da poco finito di girare un film e a dicembre ho cominciato una nuova avventura cinematografica. ●Di quali film si tratta? È stato il figlio, il primo film diretto da Daniele Ciprì da solo, cioè senza Maresco. Protagonista della storia tratta dal romanzo dello scrittore palermitano Roberto Alajmo, è la famiglia Ciraulo, la classica famiglia allargata di poveri cristi che vivono in condizioni di grande disagio. Il capofamiglia Nicola, interpretato da me, ha due figli di 8 e 20 anni e si arrangia raccogliendo e vendendo ferro vecchio abbandonato in fabbriche dismesse. Un giorno in seguito a un incidente con un tram nelle strade del centro, la sua bambina resta uccisa e dopo qualche tempo l’uomo scopre che lo stato risarcisce con ingenti somme le famiglie vittime di omicidi anche colposi e così la famiglia si trova improvvisamente a vivere una condizione di benessere. Da questo momento il film racconta la metamorfosi di questo nucleo e in particolare mette a fuoco la ‘miseria della ricchezza’. Tra qualche mese poi avrò il piacere e l’onore di girare un film con un grande maestro come Anghelopulos il quale dopo aver visto Il Divo, mi ha cercato per propormi il ruolo del protagonista nel suo nuovo film ambientato in Grecia. Il regista greco, si sa, ha sempre avuto un buon rapporto con il cinema italiano sia in termini di coproduzioni che per la scelta di alcuni attori come Mastroianni e Volontè. Ci siamo incontrati sul set di Ciprì in Puglia e ci siamo subito intesi per un rapporto professionale. Sono stato ad Atene per incontrare i colleghi greci e per conoscere i luoghi del set che saranno prevalentemente il porto del Pireo. Al centro della storia c’è il conflittuale rapporto tra un uomo che vive con l’immigrazione clandestina e sua figlia appassionata di teatro che frequenta una compagnia della città che sta provando L’opera da tre soldi di Brecht. C’è insomma un conflitto culturale e generazionale che naturalmente è anche uno spaccato del dramma economico che la Grecia sta vivendo, ci sono anche molte scene di massa. ●Lavorare con Anghelopulos è un gratificante riconoscimento artistico. Sicuramente, per me poi ha un sapore particolare perché non avrei mai immaginato da giovane che un giorno sarei stato scelto da uno dei miei autori preferiti. 30 anni fa nella prima fase di Teatri Uniti vedevo e studiavo con Mario Martone e Angelo Curti La recita, un capolavoro che all’epoca folgorò parecchi intellettuali e uomini di cinema e teatro. Per me è anche il riconoscimento di una scelta culturale precisa, di un percorso artistico ed esistenziale al tempo stesso, che affonda le radici proprio in quell’esperienza culturale di gruppo che s’impose per la rottura di certi schemi obsoleti e per l’originalità di un’angolazione interdisciplinare, eravamo animati da una curiosità a 360 gradi per il cinema, il teatro, le arti figurative, la scrittura che affrontavamo con la teoria e la pratica. Esordire quindi nel cinema con Morte di un matematico napoletano, che fu anche l’esordio cinematografico di Martone, con un grande del teatro
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REGISTA
MOURAD BEN CHEIKH come Carlo Cecchi fu quindi per me un passaggio naturale dal palcoscenico allo schermo. Quell’esperienza formativa fece si che noi tutti potessimo rimanere fedeli a un proprio stile. ●Che cos’è per te lo stile? Lo stile per me è la capacità che ha un artista di veicolare una posizione morale chiara. Non mi sono mai sentito un prestatore d’opera, un attore per tutte le stagioni, non ho mai separato la prestazione attoriale dalla tensione etico-politica e sotto questo aspetto i miei modelli sono stati Volontè e Eduardo. Per questo non ho mai voluto fare televisione, anche in fiction decenti, film o serie, per le quali pure ho avuto tante proposte. È chiaro che sono scelte radicali, estreme che spesso ti possono relegare in una nicchia, ma quando come nel mio caso si ha anche la fortuna di accoppiare qualità e popolarità, messaggio etico e riconoscibilità immediata si possono raggiungere pubblici diversi. E questo è l’ideale. ●A parte Martone con il quale hai lavorato molto nei primi anni ’90 per poi farti dirigere di nuovo nel recente «Noi credevamo», l’autore al quale devi sicuramente molto è Paolo Sorrentino, anche perché grazi ai suoi film sei diventato uno dei volti più popolari del cinema italiano. Non c’è dubbio. I film che ho fatto con lui, L’uomo in più, Le conseguenze dell’amore e Il Divo, hanno auto un grande successo di pubblico e di critica e sono stati accolti con entusiasmo nelle sale e nei Festival di mezzo mondo. Con Paolo si è creato subito un rapporto speciale, una sintonia intellettuale e artistica particolare, un’alchimia sul set che vantano solo alcuni binomi regista-attore storici nel cinema. Quando lavoro con Paolo sento come principio sottile il fatto che il regista quasi mi mandi avanti, a testimoniare zone che lui non riesce ad esprimere proprio per il ruolo che ricopre, che è quello di essere e rimanere nascosto. Quando mi è stato proposto di portare in televisione Sabato, domenica e lunedì del quale sono stato interprete e regista a teatro, ho voluto che fosse diretto da Sorrentino che ha fatto un lavoro egregio. ●Dopo il mezzo televisivo il tuo teatro ora incontra anche quello cinematografico con «394», il documentario su «Trilogia della villeggiatura» di Goldoni che hai messo in scena con successo. Il documentario di Massimiliano Pacifico prodotto da Teatri Uniti e dal Piccolo Teatro di Milano, presentato al Torino Film Festival, ricostruisce le tappe della lunga tournée dello spettacolo che tocca, tra le tante città, Berlino, Mosca, Parigi, New York, Madrid, Istanbul. Non è solo un film sul teatro, sugli attori, sulla recitazione, ma anche il vivace racconto di un’esperienza speciale, attraverso un confronto intenso e talvolta divertente con luoghi, culture e stili di vita diversi. Q●uali sono i tuoi autori e attori preferiti? Amo molto alcuni maestri dell’Est come Tarkovskij, Kieslowski, Sokurov e poi Rossellini, De Sica, Truffaut. Come attori ce ne sono tanti ma su tutti De Niro e Al Pacino. ●L’Italia di oggi è messa abbastanza male. Nel campo dello spettacolo e della cultura poi la situazione è drammatica. Sono reduce da Sarajevo dove ho fatto Sconcerto con l’orchestra sinfonica locale. Mi hanno raccontato che durante i quattro anni di assedio gli orchestrali non hanno mai saltato una prova, non hanno mai chiuso i teatri e la Biblioteca centrale. Il nostro paese non è in guerra ma lo scenario culturale è peggiore. Si continuano ad aprire centri commerciali e multiplex e a chiudere le vecchie sale, i piccoli teatri e i luoghi della cultura.
Ritratto di Mourad Ben Cheikh
Andato via dall’Italia che ormai «cammina all’indietro», torna nel suo paese ricco di fermenti da registrare come una delle più importanti «sfide»
capito che tra tutti i partiti progressisti il Pole democratique moderniste rischiava di non portare all’assemblea neppure un costituente… Dal mio collegio, infatti, è venuto fuori l’unico rappresentate del Pdm all’assemblea. ●Giorni fa, sul quotidiano La Stampa, una stagista tunisina presso Women e-News, Hajer Naili, ha raccontato le sue preoccupazioni in merito all’affermarsi alle prossime elezioni legislative del partito Ennahda, paventando la perdita di alcuni diritti delle donne acquisiti con il Codice dello statuto personale tunisino del 1956: l’aborto e il divorzio, per esempio. In sostanza, c’è il rischio di una perdita della laicità che ha fatto della Tunisia uno dei paesi più occidentalizzati, quanto a diritti e consuetudini, tra i paesi nordafricani musulmani? Occorre sicuramente essere vigili e poi, occorre anche riconoscere che non esiste una laicità assoluta, «alla francese». In queste ore in cui l’assemblea costituente tunisina ha iniziato i suoi lavori si discute già se togliere la parola islam dal I articolo della Costituzione, proprio in funzione della paura di cui parla Hajer Naili. Uno stato religioso, una teocrazia, non ha bisogno della parola per fondare il suo diritto sulla religione o la sharia, come uno stato laico non risolverebbe il problema del pericolo religioso stralciando dalla costituzione la parola islam. La democrazia è un gioco in cui si rilancia più di una volta: non bastano le elezioni, conta cosa fai fare o impedisci di fare a quegli eletti.
di CHIARA ORGANTINI
●●●Ha lasciato l’Italia nel 2005 dopo avervi vissuto a lungo, in aperto contrasto con il suo produttore-protettore Fandango che gli rifiutò un «ottimo» soggetto cinematografico perché riteneva il suo sguardo da regista «troppo televisivo». Mourad Ben Cheikh, all’epoca autore di reportage per il programma Rai, Sfide, oggi regista del documentario sulla rivolta in Tunisia Plus jamais peur – già a Cannes –, è approdato con il suo ultimo lavoro all’International Film Festival India di Goa, conclusosi il 3 dicembre, ed è stato ospite al Dubai International Film Festival. A poco più di un mese dalle elezioni tunisine nell’era post-Ben Alì, Ben Cheick, che incontriamo al MedFilm Festival, torna a fare il punto sulla situazione nel suo paese e non solo. ●Tutto ebbe inizio quando la Fandango le rifiutò quella sceneggiatura che riteneva a dir poco «ottima».. Quell’episodio mi si offrì per riflettere sull’Italia. Il disagio non era solo per il rifiuto, poco convincente, da parte del produttore con cui avevo lavorato per anni, ma per la situazione paradossale che si viveva: la pigrizia degli italiani aveva offerto il fianco alle soluzioni chiavi in mano. Berlusconi, il non eleggibile, non solo continuava a illudere tutti ed a stare al potere ma la gente, l’opposizione, la maggior parte della classe politica italiana aveva smesso di creare alternative, di opporsi, di avere coraggio; esattamente come mancava di coraggio la Fandango. ●Con le proteste degli ultimi mesi e la contestazione sotto il Quirinale al momento delle dimissioni di Berlusconi, non crede che gli italiani abbiano smesso di essere pigri? C’è un detto in Tunisia che dice: Se vai sempre all’indietro, ad un certo punto la schiena dell’asino finisce. Questo è quello che è successo a voi: avete semplicemente finito la schiena. ●E lei intanto ha passato gli ultimi anni in Tunisia, assistendo al crollo di un regime grazie ad una delle rivolte più decisive della primavera araba.. Quel poco che potevo fare nel mio paese, quando decisi di tornare in Tunisia, sarebbe stato comunque più utile di tutto quello che potevo fare in Italia, anche se c’era ancora la dittatura nel 2005 e, ad attendermi al mio ritorno, c’era già un inetto funzionario del governo che aveva tentato di estorcere informazioni da mia madre. Dall’anno del mio rientro al gennaio scorso, quando Ben Alì è fuggito dalla Tunisia grazie alla rivolta, non c’è stato un crescendo, un evolversi, la percezione che qualcosa stesse cambiando. Nessuno ha mai capito, anticipando le cose, che stesse per iniziare un nuovo corso, il quale – intendiamoci – è una rivoluzione appena iniziata. ●Ma le elezioni tunisine per eleggere i rappresentanti
IL DOCUMENTARIO ■ PLUS JAMAIS PEUR
Dalla Tunisia per dire ad alta voce «mai più paura» dell’assemblea costituente dimostrano che il paese ha già compiuto dei passi importanti verso la democrazia. Pochi giorni fa, l’ex ministro dell’interno del regime di Ben Alì ha dichiarato in un’audizione pubblica che il grande fratello che spiava i tunisini e creava il clima di terrore –
BIOGRAFIA ●●●Nato il 29 gennaio 1964 a Tunisi. Dopo aver frequentato l’Istituto d’Arte a Tunisi e l’Università a Bologna, nel ’97 realizza i documentari «La memoria sognata» e «Il cinema dei paesi arabi, registi a confronto». Nel ’98 dirige quindici episodi per Fondeq el-ghalla, dal ’99 al 2001 diversi reportage per «Sfide» (Rai3), nel 2002 spot pubblicitari. Il suo primo cortometraggio è del 2003, «Le Pâtre des étoiles» premio al Festival di Cartagine (migliore sceneggiatura), nel 2004 la serie «Storia nel Mediterraneo», nel 2007 «Mare Nostrum», nel 2008 «Djenné» e «Bobo-Dioulasso» per Al Jazeera. Nel 2011 «Plus jamais peur» sulla rivoluzione tunisina è presentato in proiezione speciale a Cannes.
proprio come raccontato da una dei protagonisti di Plus jamais peur (l’avvocato Radhia Nasraoui, ndr) era, in realtà, composto da diverse entità, con diverse funzioni e dislocato in più sedi. In sostanza esistevano almeno tre grandi fratelli ed uno era all’interno della sede dell’ex partito di governo. Direi che questo è uno dei primi passi verso la democrazia: la conoscenza di come il potere controllava i cittadini. ●Dalle elezioni di ottobre è emersa la vittoria del partito di ispirazione islamista, Ennahda. Come la valuta? Per cinquant’anni, anche prima di Ben Alì, la Tunisia è rimasta bloccata dentro la stessa immagine: un’identica fotografia che raccontava le forze al potere, immutabili. Ennahda è stato un partito messo al bando sotto il regime di Ben Alì, ed è normale che alla prima consultazione popolare irrompesse sulla scena politica. Un po’ come la Democrazia Cristiana sotto il fascismo e poi vincitrice delle prime elezioni del dopoguerra italiano. ●Ennahda però ha modificato la
sua fisionomia per rendersi più appetibile agli elettori, tanto da definirsi partito di «sola» ispirazione religiosa, quando invece è chiara la matrice islamista. La vittoria di un partito come Ennahda si spiega con la disunione tra i partiti di sinistra al momento delle elezioni: Ettakatol, il PdP (Partito progressista democratico), il Pdm (Pole democratique moderniste). Essi hanno svolto una compagna elettorale solo a favore dei già convinti, mentre Ennahda ha pescato tra tutti, ampliando la propria base. E ora, dopo non aver dialogato tra loro, i partiti di sinistra non dialogano neppure con Ennahda: né per una politica comune né per la spartizione delle poltrone. ●Forse è un bene che non partecipino alla spartizione del potere.. Quando ti ritiri dal gioco democratico è in ogni caso un disastro. Poco importa a cosa ti sottrai, è importante invece che non ci sia chiusura. ●Lei per chi ha votato? Non glielo dirò. Dirò soltanto che ho deciso la mattina stessa quando ho
●Le donne rivestono un ruolo importante nel suo «Plus jamais peur»: l’avvocato Radhia Nasraoui, la blogger Lina Ben Mhenni, la moglie del terzo protagonista, il giornalista Karem Charif. Che ruolo hanno le donne in Tunisia? La paura di cui parlava Hajer Naili è comprensibile ma può essere annullata dalla loro sola forza. Le donne in Tunisia, come si vede anche nel documentario, sono il pilastro del paese, forse molto più che in altri paesi mediterranei. Lavorano, decidono e vengono rispettate per questo. E quando non riescono a contare è un danno per tutto il paese. Lina Ben Mhenni, ad esempio, che ho incontrato prima e dopo le elezioni, ha deciso di non votare. Le ho detto che ha fatto male e doppiamente: in quanto donna che non si è fatta valere con il voto e in quanto cittadina che ha sostenuto la rivoluzione. L’urna elettorale, se continueremo a partecipare agli appuntamenti di voto, si trasformerà nell’urna funeraria del regime di Ben Alì. La fine del regime sarà sancita solo con l’elezione di un nuovo governo. ●Cosa si aspetta nei prossimi mesi in Tunisia, vedendo anche quanto accade nei paesi vicini, dove la rivoluzione non è altrettanto conclusa? Il problema non sarà solo riuscire a votare e far votare. Esiste, ossimoricamente parlando, un vuoto identitario. Ed è un vuoto che coinvolge tutto il mondo. E gli occidentali lo sentiranno di più dopo che sarà passata la tempesta della crisi mondiale. In Tunisia, la vittoria all’assemblea costituente di Ennahda, come anche il buon riscontro dei Fratelli musulmani in Egitto, testimonia la stessa difficoltà: gli islamisti forniscono risposte ideologiche alle persone nell’illusione che questo possa colmare il vuoto identitario. Tutto quel che sta accadendo ci costringe a «ripensarci». La malattia del mondo è come la malattia di Lina: è prodotta dal suo stesso corpo. E può imprigionarci.
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ALIAS 7 GENNAIO 2012
GRAPHIC NOVELIST
SABRINA JONES di MATTEO GUARNACCIA
●●●In un’altra epoca Sabrina Jones, sarebbe stata una blues(wo)man, una battagliera agit prop sulle strade d’America, magari a fianco di Joe Hill e Emma Goldman. Oggi, lei non canta né arringa le masse, ma ha trovato un mezzo altrettanto efficace per fare «propaganda» radicale: la narrazione a fumetti. Una bella prova della sua verve comunicativa è Isadora Duncan, una biografia disegnata, dedicata alla celebre pioniera della danza moderna, pubblicata in questi giorni dalla NdA Press. ●Qual è il tuo background artistico? Quando studiavo belle arti, l’elezione di Reagan mi ha segnato. Quell’evento segnava la fine di un’era di liberalismo progressista in cui ero cresciuta e in cui speravo di continuare a vivere da adulta. Ho iniziato ad aggiungere elementi politici ai miei dipinti, poi mi sono avvicinata ad altri artisti impegnati politicamente che cercavano di resistere alla svolta a destra in atto nel paese. Il mio lavoro con le Carnival Knowledge, un gruppo di artiste femministe, attirò l’attenzione dell’animatore della rivista World War 3, Seth Tobocman. Sono passata dalla pittura ai comics - credo di essere un caso unico - perché una rivista di fumetti sentiva il bisogno di aggiungere un punto di vista femminista ai suoi contenuti! ●Come mai hai scelto di raccontare una figura come Isadora? Lei è stata una delle mie prime eroine femministe. Ho scoperto le sue memorie tra i libri di mia nonna. Mi ha colpito la sua ambizione smisurata, il suo modo di intendere l’arte senza compromessi, il suo rifiuto di venir limitata sia come artista che si esprimeva attraverso la danza, sia come donna. La cosa più stupefacente è il suo rifiuto del matrimonio. Questo le ha dato la libertà di portare avanti la sua ricerca artistica e di amare. ●Quanto Isadora era un personaggio costruito e quanto lei ne era cosciente? Certo, Isadora ha creato un personaggio che riflettesse i suoi ideali. Ma questo non significa che lei non fosse autentica in quello che faceva. Lei credeva così fermamente nella sua mitologia da renderla reale. Impersonava la liberazione che voleva promuovere. O per metterla in modo più cinico, la sua promozione della libertà era un modo per razionalizzare i suoi desideri. Lei ha creato il suo personaggio di «nuova donna», un essere allo stesso tempo forte e romantico, creatore e musa. Anche se ha tratto ispirazione e goduto di appoggi in Europa, era cosciente di rappresentare la «Nuova Donna americana», e considerava questa figura come una delle cose che l’America poteva offrire al mondo, in quanto giovane nazione capace di cambiamenti dinamici. Ironicamente il suo lavoro ha trovato un pubblico più ricettivo nelle sofisticate sale da concerto europee che nella sua terra natale. ●Considerata l'esperienza di Isadora, come giudichi l'impegno sociale/politico di una «celebrity»? Le «celebrities» e i personaggi della cultura possono fare qualcosa che la politica da sola non può fare. Possono cambiare la cultura, mentre la politica non riesce ad andare oltre l’attitudine culturale del proprio tempo. Isadora era due volte all’avanguardia. Era la cheerleader di cause radicali come il nascente sistema sovietico, o per la campagna per la liberazione di Sacco e Vanzetti. L’altro aspetto, in cui forse ha avuto più successo, è quello di aver incarnato una vita di liberazione personale. Qualcuno potrebbe aggrottare la fronte di fronte ad alcuni suoi commportamenti autoindulgenti. Eppure mentre pasteggiava a champagne, riusciva a
In pagina: le illustrazioni di «Isadora» e il ritratto di Sabrina Jones
Dalla pittura al fumetto, la scenografa del Saturday Night Live e la biografia di un’artista che cambiò l’immagine della donna americana sedurre le sue amicizie benestanti per farsi sponsorizzare le scuole gratuite per bambini poveri. Alle critiche amava rispondere con una frase di Walt Withman: «Mi contraddico? Ebbene sì, mi contraddico!». ●In che cosa pensi sia stata diversa da donne simbolo della sua epoca come Mata Hari, Bella Otero, Cléo de Mérode? Oltre al suo ruolo simbolico, Isadora ha lasciato una chiara eredità nella danza moderna. Quello che allora sembrava un semplice interludio, scenografico e stuzzicante, con lei è divenuto un veicolo per drammi, passioni e idee. La nomea, ben
BIOGRAFIA ●●●Sabrina Jones è nata e cresciuta a Philadelphia. Si trasferisce a New York negli anni ottanta per studiare pittura al Pratt Institute. Preoccupata per gli attacchi contro l’aborto e i diritti delle donne innescati dall’ascesa di Ronald Reagan, si unisce al gruppo di artiste femministe «Carnival Knowledge». E’ qui che la nota il direttore della rivista underground «World War 3 Illustrated», Seth Tobocman, che le propone di disegnare una striscia di fumetti dedicata all’universo femminile. Negli anni novanta Sabrina fonda «Girltalk», un’antologia di comics autobiografici sulle donne, quindi nel 2005 dà alle stampe «Wobbies! A graphic history of the industrial workers of the world», un fumetto storico incentrato sul mondo del lavoro. Seguono negli anni altri libri illustrati come «Mixed Signals» fino al successo di «Isadora Duncan, a Graphic Biography» pubblicato in America nel 2008. Pittrice, scrittrice e illustratrice, Sabrina lavora da sempre anche come scenografa a teatro, al cinema e in televisione («Saturday Night Live»). Vive a Brooklyn con lo scrittore Steve Stern e due gatti.
Isadora, la ragazzaccia che rivoluzionò la danza
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BAND LEADER
PENGUIN CAFE meritata, di ragazzaccia giramondo non può cancellare il fatto che lei è stata un’artista seria, capace di rivoluzionare la sua forma d’arte offrendo spunti che le generazioni successive hanno saputo elaborare, vedi Martha Graham o Mark Morris. ●Come spieghi l'avversione di Isadora per i ritmi «negroidi» del jazz e per le danze ispirate da quei ritmi? Come mai non si è mai interessata alla «liberazione» del corpo espressa dall'arte afroamericana? Questo è uno dei suoi limiti. Il limite della sua modernità, è il non aver saputo riconoscere il significato della cultura afroamericana. A sua discolpa va detto che il fiorire della scena culturale di Harlem, era appena agli inizi quando lei morì. Certo c’è un innegabile tono razzista nel suo rifiuto del jazz ma dobbiamo considerare la questione estetica del periodo in cui viveva. La sensibilità di Isadora era olistica e cercava di integrare la natura con gli ideali classici, mentre il jazz celebrava la frammentazione e le dissonanze della vita urbana moderna. In un certo senso erano gli ideali del liberty contrapposti al cubismo. Per quanto riguarda il sesso, non rifiutava affatto l’erotismo, lo considerava un’importante espressione della vita e dell’amore. Non apprezzava il fatto che i ballerini di jazz riducessero il sesso ad una mera faccenda fisica, lei voleva elevarlo ad un livello spirituale, come nelle celebrazioni in onore di Dioniso che erano all’origine del teatro e della danza greci. ●Qual è l'eredità di Isadora per le donne di oggi? É stata una pioniera in molte scelte che oggi sono ritenute scontate, come vestirsi con abiti comodi, aver figli al di fuori del matrimonio. Qualcuno lo aveva fatto prima di lei, ma Isadora mostrava alle altre donne che potevano rivendicare con orgoglio e senza vergogna le loro scelte. Le ballerine del suo tempo spesso erano delle mantenute, una casta di prostitute per le classi alte. Lei ha scelto i suoi amanti spinta solo da una pulsione romantica, spesso erano artisti spiantati, più poveri di lei. ●Sembra che insegnare la danza al popolo sia stato un obiettivo comune a molte donne progressiste agli inizi del 900; hai mai sentito parlare di Giuseppina Morlacchi, una ballerina della Scala, amica di Buffalo Bill che, dopo una vita avventurosa tra Europa e Stati Uniti, aprì una scuola gratuita per operaie nel Massachussets? No, ma mi sembra un’ottima storia
«Isadora Duncan è stata una pioniera del femminismo, prima di lei le ballerine erano delle prostitute. Ho scoperto le sue memorie tra i libri di mia nonna»
da illustrare. L’idea di offrire cultura alla classe lavoratrice era parte del movimento «Settlement» di New York. Da giovane, Eleanor Roosevelt insegnava danza alle immigrate del Lower East Side. Negli Usa offriamo programmi gratuiti di istruzione artistica solo ai bambini di certe comunità, e il loro finanziamento è sempre problematico, perchè l’educazione pubblica da noi è mirata solo ad aumentare il punteggio nei test. Qualsiasi altra cosa è considerata una frivolezza. Isadora considerava l’arte e la bellezza come cose fondamentali per l’umanità e quindi un diritto per tutti. ●Com’è cambiato il puritanesimo della società americana dai tempi di Isadora? Esteriormente sembra che tutto sia cambiato. Le immagini sessuali sono ovunque, servono a vendere qualsiasi cosa. I bambini si vestono e parlano con un’atttudine più apertamente sessuale, grazie alla pubblicità, ai media e all’industria della moda. Eppure gran parte degli americani pretende che i nostri politici conducano la loro vita secondo valori familiari tradizionali. I repubblicani usano questioni «morali» come l’aborto e il matrimonio gay come cortina fumogena per centralizzare il potere e arricchire le élite corporative. Spesso puritanesimo è sinonimo di repressione sessuale, ma porta in sé anche un’eredità di idealismo vitale per la creatività. L’ethos che porta a creare una città su una collina è vivo oggi come lo era ai tempi di Isadora. Lei è andata troppo avanti per l’America e ha dovuto emigrare anche se le sue motivazioni sono le stesse di ogni sognatore americano. ●Cosa pensi del movimento Occupy Wall Street? È la cosa più promettente dall’elezione di Obama. È un grande movimento di base e non penso che ci deluderà così in fretta come ha fatto lui. Nell’uso della creatività e nello stile, mi ricorda un po’ Act-Up, che negli anni ’90 con la sua conoscenza dei media ha trasformato la protesta e ottenuto risultati tangibili. Occupy è ancora più ambizioso e capillare. Come anima liberal ho avuto la sfortuna di diventare grande all’alba di un’era conservatrice, e sono invidiosa di questi ragazzi che stanno crescendo sull’onda di questa sacrosanta ribellione. Amo la sua non violenza, le costruzioni comunitarie, i cerchi di tamburi, le danzatrici dipinte col seno nudo, l’ esuberanza nelle improvvisazioni. Per tutta la mia vita da adulta, ho visto i ricchi diventare ancora più ricchi e la classe media e i poveri avere sempre meno, ma se lo dicevi in giro ti si creava il vuoto intorno. La nazione yuppie ha trionfato quando ha convinto gli americani ad identificarsi con la gente che li stava derubando. Occupy Wall Street ha sollevato il velo e i ragazzini non ci credono più. ●Lavori per Saturday Night Live… I miei fumetti sono artistici, politici e non commerciali, quindi per vivere faccio la scenografa. Lavoro con una squadra di una dozzina di artisti, per tv, cinema o teatro. Saturday Night Live è una vacanza da ogni decisione creativa, eseguo quello che mi viene richesto. Disegnare è un lavoro che ti tiene isolata nel tuo studio, quindi lavorare con altre persone in tv è salutare per la mia vita sociale.
MUSICA ■ IL GRUPPO HA DA POCO PUBBLICATO L’ALBUM «A MATTER OF LIFE»
Il caos esotico del pinguino Arthur Jeffes porta avanti la magnifica e svaporata storia dell’«Orchestra», inventata nel 1977 da suo padre Simon. Tra mondi sonori colorati e feste alle pendici del Monte Amiata di GUIDO FESTINESE
●●●Il tutto nacque come una visione, all'inizio degli anni Settanta: un caffé dove tutto è strano ma incredibilmente confortevole, e un'orchestra di pinguini suona una musica impossibile da classificare ma curiosamente familiare. La visione di Simon Jeffes, scomparso nel 1997 dopo ventiquattro anni di Penguin Cafe Orchestra è ora nelle mani del figlio Arthur. C'è un nuovo disco, A Matter of Life, e la voglia consapevole di portare avanti la svaporata, magnifica storia dell'orchestra–pinguina. ●Quando ha deciso che sarebbe diventato anche lei musicista? Non l’ho deciso, ma esattamente nel senso che non ho deciso di essere neppure qualcosa d’altro. Nel momento in cui abbiamo, più o meno per caso, iniziato questa avventura della nuova Penguin Cafe
ho scoperto che era molto più divertente e realizzante di qualsiasi altra cosa avessi fatto prima. A quel punto, capirete, avevo poca scelta! ●Perché ha accorciato il nome in Penguin Cafe? Uh, questo è stato un tormento per tanto tempo. Abbiamo iniziato come ’Musica dal Penguin Cafe’, ma era troppo lungo, e la gente comunque continuava a chiamarci Penguin Cafe Orchestra. Alla fine m’è venuto in mente che chiamarci Penguin Cafe era un buon modo per comunicare che non siamo esattamente quelli, ma che siamo musicisti sinceramente attaccati alle idee scaturite dall’energia creativa di mio padre. Quindi: non nominare il gruppo «originario», ma solo il cuore concettuale dell’idea. Sperando che abbia un senso! ●Come s’è posto rispetto al problema di trovare musicisti
BIOGRAFIA ●●●Penguin Cafe Orchestra pubblicò il primo disco nel 1976, lo stesso anno in cui si formava in Inghilterra l'antitesi secca al rock paludato e imbolsito, i Clash. Loro nulla sapevano (come i punk rocker!) di note ingessate e magniloquenti, ma non per questo cercavano conforto in brani da tre-accordi-tre, secondo lo spirito di quella che poi sarebbe stata «venduta» come l'autenticità del rock. Penguin Cafe Orchestra fu, da subito, la creatura ineffabile, complessa e ribelle di Simon Jeffes. Un musicista classico stufo di regole rigide e pentagrammi fossili, da un lato, e di facili ovvietà da rock senza spessore, dall'altro. Primo concerto importante nel 1977, a supporto dei teutonici Kraftwerk, praticamente l'antitesi del «Caffé Pinguinesco», e poi via, con una carriera riassunta in otto dischi di studio, il primo prodotto da Brian Eno, un paio di lavori dal vivo, centinaia di concerti fatti di grazia e svaporatezza fuori da ogni tempo reale. Simon Jeffes se n'è andato nel 1997. Il testimone l'ha raccolto, circa dieci anni dopo, il figlio Arthur, polistrumentista, cresciuto letteralmente avvolto nel suono «Penguin». Allo scorcio del 2011 il nuovo disco, «A Matter of Life»: in copertina un bambino che abbraccia un pinguino. (g.fe.)
adatti al suono «penguin»? È stato molto naturale e simpaticamente caotico. Nel 2008 è arrivata la richiesta di alcuni amici che vivono alle pendici del Monte Amiata in Toscana di fare qualcosa per il loro piccolo festival, m’è venuto in mente di suonare qualche pezzo di mio padre. E a quel punto un sacco di gente ci ha chiesto di suonare alle loro feste di Natale, a Londra! Così il fiocco di neve è diventato valanga. Si potrebbe quindi dire che le origini del nuovo capitolo Penguin sono italiane... ●Ascoltando «A Matter of Life»
In alto la Penguin Cafe, sotto il leader della formazione inglese Arthur Jeffes, figlio di Simon, fondatore della storica Penguin Cafe Orchestra
quasi ogni pezzo potrebbe sembrare di pugno di suo padre. Ci spiega quand’è che un pezzo in fieri diventa un pezzo adatto alla Penguin Cafe? Credo di aver già detto di un piacevole caos che sembra dar colore a ogni cosa che facciamo. Stessa cosa quando si scrive: mi piace che le cose si propongano da sole mentre stiamo suonando tutt’altro. A volte è questione di mesi di lavoro, a volte nascono già finiti. Un pezzo è «da Penguin» se è impossibile incasellarlo in un genere. ●Tornerete a suonare in Italia? Beh, all’inizio è andata così. E poi sono venuto a Roma da piccolissimo, ad ascoltare la Penguin che suonava nel giardino di un bellissimo palazzo nobiliare decaduto. A Milano abbiamo suonato nel 2009, ed è stato il primo concerto fuori dall’Inghilterra, almeno ufficialmente... ●La musica di suo padre Simon rivela un talento visionario e pionieristico, anni prima della cosiddetta «world music». Ora però basta un «click» su Internet, e puoi trovare di tutto. Eppure la musica della Penguin è ancora straordinariamente fresca. Sono d’accordo. La cosa bella nella musica di mio padre è che prendeva idee musicali da un altrove esotico e le esplorava, ma con l’intento di creare emozioni musicali, non «geografiche». Questa è una delle ragioni della freschezza. ●Quali sono i suoi «dischi da isola deserta», a parte la smisurata collezione di suo padre? Professor Longhair, Wim Mertens e Philip Glass. Non mi stancano mai. ●Ha già scritto nuovo materiale? Il prossimo disco uscirà a nome Sundog, io al piano e Oli Langforsd al violino. In un certo senso Sundog è il banco di prova per nuove musiche della Penguin Cafe, è un posto per sperimentare idee per il Cafe senza metterne in pericolo il delicato equilibrio. ●Qual è la musica più «pinguinesca» che abbia ascoltato di recente? Pubblicità e colonne sonore usano musiche in cui l’influenza di mio padre è molto evidente, oppure appena evidente, ma comunque reale. Mi piacciono entrambe, non nominerò nessuno per non creare imbarazzi! ●Sente mai il peso del nome «Penguin Cafe»? La libertà è il rovescio della medaglia della cautela. È spesso istinto, ma so davvero quando qualcosa è sbagliato. Quindi: libertà in quei limiti. E diventa una cosa bellissima.
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ALIAS 7 GENNAIO 2012
FOTOGRAFO
KENRO IZU di MANUELA DE LEONARDIS
●●●Lucca, 26 novembre 2011. Fotografie silenziose inquadrano luoghi che sfidano il tempo. Monumenti creati dall’uomo per dare senso al quotidiano. La celebrazione del divino passa attraverso la monumentalità terrena, che è affermazione dell’uomo stesso, del suo ingegno, delle sue doti creative, della sfida di gravità. E’ dalla fine degli anni Settanta che Kenro Izu (Osaka 1949, vive a New York) porta avanti la ricerca che ha chiamato Sacred Places. Un work in progress che coniuga la professione di fotografo alla passione di viaggiatore. Ospite d’onore del Lucca Photo Fest 2011, Izu si muove con discrezione tra le fotografie della mostra Passage through Asia nelle sale affrescate di Palazzo Ducale (fino al 29 gennaio 2012). Un percorso che inizia con l’immagine della piramide a gradoni di Saqqara, scattata nel ’79 durante il suo primo viaggio in Egitto, per procedere sulle rive del Gange, in mezzo alla sabbia morbida della Siria e della Giordania, nella giungla della Cambogia, nel paesaggio lunare di Kailash in Tibet. «In Giappone ho fotografato i templi buddisti - spiega lui - ma sono molto disturbato da come molti dei luoghi più famosi siano diventati turistici, quindi fonte di business, mettendo in secondo piano l’aspetto legato alla sacralità. Per questo ho iniziato ad interessarmi ai luoghi di culto shintoisti, religione precedente a quella buddista. Si trovano in zone diverse del paese, soprattutto in montagna. Per il momento sto facendo una ricerca, con l’idea di andare per un anno a fotografarli». ●Lei inizia a studiare fotografia a Iwakuni nel 1963, proseguendo gli studi alla Nihon University di Tokyo. Cosa l’ha spinto a scegliere la professione di fotografo? Quando ero studente universitario, guardando alcune riviste americane che parlavano dello scenario newyorkese della fotografia, mi ha colpito il fatto che diversamente dal Giappone di allora, dove c’era solo la fotografia di ritratto, quella commerciale e il fotogiornalismo, si parlasse del concetto di fotografia come forma d’arte. Così ho iniziato ad interessarmi a questa nuova visione. Nello stesso tempo ho deciso che volevo vedere con i miei occhi il dipartimento di fotografia del MoMa, che era stato inaugurato con la mostra Family of Man di Steichen, e visitare gallerie esclusivamente dedicate alla fotografia, come la Witkin Gallery, la Light Gallery. Era tutto nuovo per me, così ho interrotto gli studi e sono andato a New York. Pensavo di rimanerci per due o tre mesi, ma era tutto così eccitante per un ragazzo di vent’anni che da allora vivo ancora lì. ●A New York trova subito lavoro come assistente nello studio del fotografo Ken Morrie, poi come fotografo di moda, prima di aprire il suo studio nel 1974. Quali erano per un fotografo le potenzialità di New York rispetto a Tokyo? C’era una totale apertura nei confronti della fotografia, mentre allora a Tokyo le porte per accedere alla professione di fotografo erano molto strette e canoniche. A New York tutti potevano avere uno spazio più o meno grande. Io ero un giovane giapponese che parlava pochissimo l’inglese, ma sono comunque riuscito ad avere il mio piccolo spazio per poter crescere e dimostrare quello che sapevo fare. Se oggi sono un fotografo che espone nei musei è anche grazie alle opportunità che New York mi ha dato in quegli anni. Ad esempio, la mia prima fotografia fu capita da Howard Greenberg, quando vide il mio lavoro in occasione del premio per una residenza al Woodstock Photography Center. Qualche mese dopo Greenberg mi chiamò chiedendomi di fare una mostra nella sua nuova galleria, ma avevo una sola fotografia!
LUCCA ■ «PASSAGE THROUGH ASIA»
La sacralità del mondo in uno scatto. Da Saqqara a Kailash E’ nato a Osaka, vive a New York, viaggia ovunque alla ricerca di luoghi che sfidino il tempo. «In una piramide egizia o nel tempio di Angkor Wat, ciò che è sacro è la mia personale visione del luogo» BIOGRAFIA ●●●Kenro Izu (Osaka 1949). Nel 1970 si trasferisce a New York dove apre il suo studio nel 1974. Lavora nel campo della fotografia pubblicitaria soprattutto di gioielli e oggetti preziosi. Nel ’79, dopo il primo viaggio in Egitto, ha inizio la serie «Sacred Places». Nel ’95 crea l’organizzazione no-profit «Friends Without A Border» http://www.fwab.org/ che nel ’99 apre l’Angkor Hospital for Children, ospedale pediatrico in cui sono stati curati gratuitamente, fino ad oggi, 650mila bambini. Nel 2004 consegue il Lucie Awards’ Visionary Photographer e con «Passage through Asia» il Lucca Photo Award 2011. Tra le sue ultime pubblicazioni: Kenro Izu: A Thirty Year Retrospective (Nazraeli Press 2009), Bhutan sacred within (Nazraeli Press 2007), Kenro Izu: Blue (Howard Greenberg Gallery 2004), Passage to Angkor (Channel Photographic 2003), Sacred Places (Arena Editions 2001), Light over sacred places of Asia (K’MoPA 2001), Kenro Izu: Still Life (Arena Editions 1998).
Mi disse che non c’era problema, perché occorreva almeno un anno per aprire lo spazio, avrei dovuto fare 15/20 foto e lui mi avrebbe dato una parete. Fu la mia prima esposizione. ●Il suo lavoro affronta principalmente tre tematiche: i luoghi sacri immersi nella natura, lo «still-life umano» e la fotografia pubblicitaria - è specializzato in gioielli - che è quella che, probabilmente, le consente di avere la libertà di portare avanti la sua ricerca nei due campi precedenti. Come riesce a conciliare questi generi così diversi? Il tema dei luoghi sacri nella natura e quello dello «still-life umano» per me appartengono allo stesso tema, sono espressioni della vita. Che sia la vita di milioni di anni delle pietre di una piramide, quella di una settimana di un fiore o di cinquant’anni, o magari ottanta, di un uomo è lo stesso. La fotografia di gioielli, che eseguo su commissione, è uno strumento per finanziare i miei progetti. Questo mi permette di viaggiare, andando in Egitto, in Scozia, nell’Isola di Pasqua... Ora posso esporre i miei lavori e vendere le mie fotografie, ma all’inizio è stata una forma d’investimento su me stesso. ●C’è un grandissimo rigore nel suo sguardo e una forma quasi maniacale di perfezionismo, mi riferisco al suo primo viaggio in Egitto, nel 1979, durante il quale scattò con la Leica circa mille negativi su pellicola 35mm, ma rimase soddisfatto solo di una fotografia, quella che inquadra la piramide di Saqqara. Non mi considero un perfezionista, anche se sono in molti a pensarlo, soprattutto per quanto riguarda gli aspetti tecnici della fotografia. Basta chiedere a mia moglie, per capire che non lo sono! Non mi piace avere un solo punto di vista, piuttosto preferisco essere aperto a quello degli altri, in particolare al lavoro dei giovani artisti, che mi permette di crescere. L’immagine di Saqqara non è importante solo perché fu l’unica fotografia a piacermi. Quella foto
Due fotografie di Kenro Izu dalla mostra «Passage through Asia» (Indonesia e, in alto, Tailandia. Sopra il fotografo ritratto da Manuela De Leonardis
dall’atmosfera misteriosa mi fece capire quale fosse il tipo di ricerca che mi interessava fare, ovvero la vita millenaria delle pietre. Mi orientò verso il mio futuro di fotografo.
andare a scoprire luoghi nuovi. Oggi, invece, l’approccio è completamente diverso. Personalmente non condivido il fatto che tutti i fotografi si considerino artisti.
mia figlia, allora, aveva dieci anni, la stessa età di quella bambina. Come può un padre vedere sua figlia morire, perché non ha i soldi per pagare l’ospedale?
●C’è un che di romanticamente anacronistico nell’essere un fotografo-viaggiatore che ha attraversato il mondo alla ricerca di luoghi legati alla spiritualità con dei tempi più diluiti rispetto all’idea del viaggio usa-e-getta. Lei inoltre pubblica i suoi «appunti di viaggio» insieme alla fotografie e utilizza il pesante banco ottico di grande formato (35x50) con negativi su lastra da stampare a contatto... Se pensiamo a fotografi del XIX secolo come Francis Frith e Samuel Bourne, che giravano per luoghi in cui sono stato anche io e si dovevano caricare pesanti attrezzature con le lastre di vetro che dovevano sensibilizzare in camera oscura, per poi scattare le immagini immediatamente, allora io sono moderno! Ho una grande ammirazione per quei fotografi-esploratori ottocenteschi che osservavano e documentavano la realtà. Il movente era la curiosità di
●La fotografia può essere strumento di denuncia e di impegno umanitario. Nel 1993 visitando il tempio di Angkor, in Cambogia, vedendo da vicino la realtà dei tantissimi bambini sfigurati dalle mine, decise di fondare un’organizzazione no-profit, «Friends without a Border», che nel 1999 ha aperto l’Angkor Hospital for Children... La prima cosa che ho visto e che mi ha scioccato, sono stati i bambini vittime delle mine antiuomo. Mine che, semmai, dovrebbero stare nei campi di battaglia, invece tutti i villaggi in Cambogia ne sono disseminati, come lo è anche il sito di Angkor Wat, simbolo della nazione, raffigurato persino nella bandiera. Così l’anno successivo, quando sono tornato lì, ho chiesto alla mia guida di portarmi nell’ospedale locale per vedere che tipo di attrezzature avevano per curare i bambini. Ma non esisteva alcun reparto di pediatria, perché tutti i medici erano stati uccisi da Pol Pot, e quelli che si erano salvati erano scappati in Francia o in altri paesi. Mentre ero in ospedale e parlavo col padre di una malata, la bambina è morta davanti ai miei occhi. La famiglia non aveva i soldi per curarla: avevano impiegato due giorni per arrivare in ospedale, pagando un camion per il trasporto ma poiché non avevano altri soldi, il dottore non l’aveva neanche voluta visitare. Anche io sono un padre e
●Pensa che si possa parlare di meditazione in relazione alla sua opera? Sembra, infatti, che lo scatto sia sempre preceduto da una sorta di profondo raccoglimento, che le permette di avere una visione «ordinata» in cui non c’è traccia di imprevisto. Sono buddista, ma non sono praticante. Non mi dedico alla meditazione, perché non mi piace alcun aspetto formale della religione. E’ vero, però, che quando vedo il soggetto per la prima volta, mi fermo e faccio il vuoto nei miei pensieri, mi concentro per cercare di diventare sensibile alla più piccola variazione che ci può essere nella natura: la brezza del vento, l’ombra di una nuvola che arriva… E’ come per gli uccelli che se ne stanno tranquilli su un albero e poi, un momento dopo, anche se apparentemente non succede nulla, volano via. Magari c’è un pericolo, oppure semplicemente quello è il momento di partire. Per me è lo stesso, alcune volte mi viene la pelle d’oca, è un istante in cui colgo un qualcosa di speciale. Quello è il momento dello scatto. Questo
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REGISTA approccio mi permette di far diventare ogni luogo il mio luogo, altrimenti non avrebbe senso andare a fotografare le piramidi, Stonehenge o Angkor Wat. Monumenti che sono stati già fotografati da tutti, inclusi i più grandi maestri della fotografia, e continuano ad essere fotografati. E’ questo il significato di Sacred Places. Ciò che è sacro non è la sacralità in generale, ma la mia personale visione del luogo. ●Una volta che sente il momento, quanto tempo intercorre tra l’inquadratura e lo scatto? Può avvenire molto velocemente in un tempo di quindici minuti, che è quello che mi occorre per montare tutta l’attrezzatura. Ma spesso passano alcuni giorni, come nel caso della fotografia di Machu Picchu. Monto il treppiedi e posso trascorrere anche un’intera giornata senza che succeda nulla, allora prendo le misure e mi segno il punto esatto in cui va messo il treppiedi e me ne vado a dormire. Torno il giorno dopo, sto lì dall’alba al tramonto, seduto accanto all’apparecchio, mangio e aspetto che la composizione sia perfetta, e magari solo il terzo giorno scatto la fotografia. ●Parliamo della tecnica di stampa al platino e palladio, di cui è un grande esperto, procedimento in cui l’emulsione viene stesa direttamente sulla carta. Questo tipo di stampa opaca riesce a rendere in maniera straordinaria le varie sfumature dei toni, lasciando affiorare tutti i dettagli dell’immagine in maniera molto morbida. E’ stato proprio vedendo una stampa al platino di Paul Strand, nel 1983, che ha deciso di mettere in pratica questa tecnica ordinando un apparecchio realizzato dalla Deardoff. Quali sono le potenzialità e i limiti della stampa al platino e palladio? Le potenzialità sono sicuramente che la stampa al platino e palladio ha una gamma infinita di toni, ed è il miglior modo per rappresentare la sacralità dei luoghi che fotografo. Per me è come se questa sacralità si depositasse sulla pellicola nel momento in cui ho preso la foto. Se si proietta l’immagine, ingrandendola, dal negativo alla carta passa tutta l’aria di New York. Invece fare una stampa a contatto da un negativo grande, significa che la sacralità che c’è sulla pellicola si trasferisce direttamente sulla carta, senza che cambi nulla. Quanto alla difficoltà di una tecnica come questa, è che non posso fotografare l’istante, perché non c’è il tempo di farlo. Uno svantaggio che, in realtà, voglio trasformare nell’opposto, nel senso che visto che tutto il materiale è molto costoso e ingombrante, per un viaggio posso portare con me solo un centinaio di lastre. Ogni scatto, perciò, è straordinariamente prezioso. Devo studiare molto bene il soggetto, quindi questo processo molto lento mi porta ad essere molto più selettivo.
DUŠAN MAKAVEJEV di ELFI REITER
●●●Si diverte a parlare del suo cinema, come un tempo si divertiva a farlo: Dusan Makavejev, 79 anni, era ospite per qualche giorno dell’Österreichisches Filmmuseum nel mese di aprile 2011 per la prima retrospettiva completa della sua opera mai vista prima in Austria. Per l’occasione l’istituzione austriaca ha fatto restaurare alcuni titoli in pessime condizioni, soprattutto alcuni dei primi cortometraggi, che si sono potuti ammirare nei loro colori originali (in particolare Slikovoica pcelara, che in italiano significa Album dell’apicoltore, dove grazie alle immagini dipinte sulle arnie si rivisita in modo originale la storia antica delle terre balcaniche). Tre titoli invece erano stati curati personalmente dal suo autore con l’aggiunta di nuove musiche di Zoran Simjanovic, tra cui il primo che aveva suscitato scandalo a Belgrado, Somenicima ne treba verovati ossia Non ti fidare dei monumenti (1958), dove l’erotismo fa a gara col culto delle personalità politiche. Prontamente censurato, come Parada girato quattro anni dopo. Vedere i suoi primi lavori realizzati a partire dal 1955 secondo il classico iter di un cineasta in un paese a regime socialista (dai corti si passava ai documentari per poi entrare nella produzione di film di finzione), fa comprendere le radici del suo humour nero ma anche della grande capacità di analisi della società politica contemporanea. I suoi film, visti col senno del poi, benché ambientati in situazioni e tempi ben determinati, quella della guerra fredda e della sua fine, emanano tuttora profondità di spirito e feroci analisi dei comportamenti umani a largo raggio. A partire dal più famoso (e meno visto forse) WR-I misteri dell’organismo, film saggio, collage, commedia nera, musical, documentario realizzato nel 1971, in cui il tema si fa linguaggio, il privato si fa pubblico, il pubblico si fa politica, nel pieno rispetto della liberazione sessuale in atto negli anni sessanta poggiando sulle teorie di Wilhelm Reich, egli stesso perseguito dal nazismo prima e dal maccartismo poi, una volta emigrato negli Usa. Il film sprizza energia in tutte le direzioni culminando nel parallelo tra i regimi dittatoriali in virtù di un altro parallelo (più generale) tra potere e virilità, sottolineato dal magnifico collage sonoro-musicale a firma di Bojana Marjian, sua compagna di lavoro e di vita. Non stupisce se l’allora capo dello stato jugoslavo Tito lo censurò e mandò il suo autore ai «lavori forzati all’estero», come ama dire lo stesso Makavejev che dal 1972 visse in giro per il mondo per riuscire a realizzare i successivi non meno sarcastici in co-produzione internazionale: Sweet Movie, Montenegro Tango, Coca-Cola Kid, per citare i più noti, indagando rispettivamente ancora il mondo del sesso, della repressione sessuale e degli emigrati e infine quello delle multinazionali liberiste, non venendo mai meno al suo spirito anarchico, creando satire mordenti e oltrepassando liberamente qualsiasi schema di riferimento cinematografico. «Di fatto non ho mai smesso di fare documentari, evidenziando la realtà per far riflettere sulla realtà», ha precisato Makavejev durante la presentazione a Vienna, dove lo abbiamo incontrato parlando soprattutto del primo periodo a Belgrado. ●Bandito per tanti anni dalla Jugoslavia, quali furono le impressioni, o meglio i ricordi, una volta tornato dopo il 1988, anno in cui le fu annullato il divieto di entrare nel suo paese natale? Può sembrare strano ma i ricordi che più mi assalivano erano molto più indietro nel tempo: mi vedevo ragazzino che si aggirava nelle strade del quartiere dove abitavamo nel periodo della seconda guerra mondiale. Quando si usciva dai rifugi poteva capitare di vedere scenari che oggi si direbbero da film horror:
BIOGRAFIA ●●●Nato a Belgrado il 1 ottobre del 1932, Dusan Makavejev, dopo la laurea in psicologia diventa un esponente di spicco del «cinema nero» tra liberazione sessuale e critica ai risvolti autoritari e burocratici del suo paese, già censurato a partire dai suoi documentari «Non bisogna credere ai monumenti» e «La parata» e con film come «L'uomo non è un uccello» (1965), «Un affare di cuore» (1967), «Verginità indifesa» (1968) premio della giuria a Berlino, un vero maestro nell’assemblare materiali diversi con risultati beffardi. Diventa uno dei più conosciuti autori jugoslavi della sua generazione anche grazie a «W.R. I misteri dell'organismo» (1971), il film proibito in Jugoslavia che segue le tracce di Wilhelm Reich. Ha vissuto e insegnato all’estero (Usa, Svezia) e ha realizzato con produzioni internazionali film come «Sweet Movie - Dolce film» (1974), «Montenegro Tango» (1881) sulla repressione sessuale, «Coca Cola Kid (1985 girato in Australia). Torna in Europa nell’88 con «Manifesto» (produzione Usa) e arriva in Germania per girare un film sul Muro, ma il Muro cade e nasce «Il gorilla fa il bagno a mezzanotte» (1992). «Hole in the Soul» del ’94, documentario prodotto dalla Bbc è una riflessione sulla dissoluzione della Jugoslavia e la sua vita da «apolide».
Dusan Makavejev a Vienna in occasione della retrospettiva che gli ha dedicato l’Österreichisches Filmmuseum nell’aprile 2011
CINEMA ■ EROS DA BELGRADO
Il geniale maestro del lato oscuro persone smembrate, i cui pezzi erano seminati per terra. Poteva capitare che passando si scorgeva un braccio sul terreno, una mano, e ora che ci ripenso, quelle immagini si erano talmente iscritte nella mia memoria che più tardi, quando avevo cominciato a fare i miei film, vi erano entrati a far parte come elementi scenici. Spesso mi si chiedeva il significato di ciò che si presentava come assurdo o grottesco, ma erano reminiscenze del mio passato. Come si fa a dimenticare tali violenze? Le avevo inserite in alcune scene di miei film senza rendermi conto che si imponevano direttamente dal mio vissuto di allora… ●Il motivo per cui fu bandito era l’ormai mitico «WR-I misteri dell’organismo» del 1971. Vista l’impopolarità delle teorie sulla liberazione sessuale di Wilhelm Reich, dove aveva trovato il suo libro? In biblioteca, all’università, c’era una sezione dedicata al marxismo dialettico e la psicanalisi, e là l’ho trovato. Credo di essere stato l’unico ad averlo letto. Ricordo che c’era una introduzione scritta da un segretario del partito, successivamente morto in un ospedale psichiatrico. Mi avevano molto incuriosito e stimolato gli scritti di Reich, e una volta saputo che lui fu costretto a emigrare negli Usa avevo
deciso di seguirne le tracce con un documentario. Cercavo altri testi, anche di Erich Fromm nelle biblioteche americane ma li avevano già tolti dagli scaffali in seguito all’epurazione dei testi libertari negli anni cinquanta. Uno dei motivi era forse che ci vivevano soltanto cattolici irlandesi e inglesi capaci di leggere unicamente identificandovisi e quindi si erano spaventati davanti a un immaginario sessuale. E cos’hanno fatto? Hanno bruciato ben sei tomi di preziosi scritti di Reich! ●Ci può raccontare qualcosa delle attività al Kinoklub di Belgrado, fucina della nouvelle vague jugoslava negli anni sessanta meglio nota come «onda nera»? L’avevamo creato in un gruppo di studenti universitari, tutti amanti del cinema per guardare i film che ci piacevano e fare noi stessi i nostri primi esperimenti pratici molto underground. Invitammo Henri Langlois della Cinémathèque Française che ci portava alcuni film clandestinamente che noi vedevamo altrettanto clandestinamente nel corso di proiezioni notturne attorno alle quali si erano sempre alimentate interessantissime discussioni su cinema e politica. Erano i tempi d’oro a Belgrado, quelli! ●Parliamo un po’ di quei corti, in
cui s’intravvede l’ampio paradigma della dimensione grottesca che regnava nel mondo superburocratico della ex Jugoslavia socialista di Tito, ivi descritto con grande sense of humour e ironia. Ho sempre pensato che fare cinema in fondo è un gioco: si gioca coi personaggi, con la storia, con le scene scritte nella sceneggiatura in cui ho da sempre inserito gli elementi che via via si presentavano nelle giornate delle riprese, cambiando scene, montaggio e musiche. In Pecat (t.l. Timbro) per esempio un uomo morto si ricorda di tutti i timbri di cui aveva bisogno nel corso della sua vita, e in Pedagoska bajka (t.l. fiaba educativa) ho ripreso la storia di Biancaneve facendone la prima versione socialista, appellandomi a ciò che aveva scritto il giovane Marx: «i diversi filosofi hanno solo interpretato il mondo, l’importante è cambiarlo». ●Un punto fermo, quello di stimolare il cambiamento, che fa da perno centrale a molti altri film a seguire, sin dai corti come «Parada» e «Sto je to radnicki sovjet» (t.l. Che cos’è un consiglio aziendale?), in cui si individuano parecchie note critico-sovversive acute e ben metaforizzate nei confronti del regime censorio. Della parata tipica del Primo Maggio ho voluto mostrare il «fuori campo» per cogliere il tipico spirito «fuori campo», mentre nel secondo ho semplicemente raccontato ciò che si voleva che facessero i consigli aziendali: lottare per i diritti degli operai. ●In «Dole plotovi» (t.l. Abbasso gli steccati) vediamo i bambini giocare dentro i cortili delle case chiuse da muri, una veduta dall’alto sottolinea quella divisione angosciante, finché scatta in loro lo stimolo per oltrepassarli. Una visione del futuro crollo del muro più simbolico, quello di Berlino? È interessante che questo film girato per un’associazione a favore di spazi di gioco all’interno dei vari blocchi di case popolari susciti le più diverse interpretazioni. Ricordo che al festival
Rappresentante del «cinema nero» jugoslavo dei ’60, con la specialità di toccare gli argomenti più censurati, dal sesso alla burocrazia di Oberhausen il pubblico era in delirio per questo piccolo film, a mio avviso molto ingenuo, in cui loro invece avevano visto un saggio visivo contro i mostri architettonici che andavano imponendosi un po’ ovunque negli anni sessanta. Certo, in ogni film ci sono elementi visionari, spesso involontari, ma mi diverto a dire che lo sapevo… ●Nuovi progetti? Per ora rifletto molto sul linguaggio cinematografico. Un film è fatto principalmente di cut (i tagli di montaggio), di 24 fotogrammi di luce e 24 fotogrammi di buio, per cui un lungometraggio che dura più o meno due ore ci fa passare ben un’ora al buio! Quel tempo passato al buio serve a elaborare nel nostro cervello tutte le informazioni visive ricevute nel tempo di luce, e al contempo si entra in contatto anche con il nostro buio, con tutte quelle parti dark della nostra anima. Ora invece, con le nuove tecnologie c’è un fluire ininterrotto di pixel nelle versioni digitali, non c’è più il buio che si alterna alla luce, bensì una continua informazione. Il silenzio visivo non c’è e quindi viene a mancare il tempo necessario per elaborare tutto ciò che si incamera. Col risultato che non si ricorda nulla! Vorrei vorrei brevettare questa intuizione.
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ATTORE
LEO GULLOTTA doppiaggio è una grande scuola, non è affatto un lavoro secondario, al contrario estremamente arricchente, ti mette alla prova. Non solo sono riconoscente a questa esperienza ma addirittura sostengo che dovrebbe far parte del bagaglio di ogni attore.
di ALDO COLONNA
●●●Questa intervista è durata ore. Iniziata fuori dal ristorante dove c'eravamo dati appuntamento (il 19 marzo 2011), continuata durante il pranzo e terminata durante la passeggiata che ne è seguita. A parte la piacevolezza dell'incontro con un amico, l'intervista è stata contenuta per ovvi motivi di spazio, nulla togliendo però alla sua consistenza.
●Cabarettista, doppiatore, imitatore, attore di teatro, attore di cinema. Qual'è il genere che più ti si confa? Sarò banale ma è come chiedere a una mamma qual'è il figlio che le piace di più. Ti posso dire che l'approccio è il medesimo: ti accosti ad ogni esperienza artistica sempre con grande professionalità. E questo atteggiamento rende importante ciascuna di queste esperienze.
●Leo Gullotta, le origini. Come sei diventato attore? Per caso, per curiosità. Ultimo di sei figli, mio padre pasticciere, mia madre casalinga, ho avuto la fortuna di aver avuto dei genitori che mi hanno fatto studiare. Un equilibrio familiare eccellente, cresciuto con principi saldi, quelli di rispettare gli altri, di ascoltare le ragioni degli altri, di non dare mai giudizi affrettati né inutili, con diritti e doveri. Sono un ex-insegnante di disegno e storia dell'arte che non ha mai praticato. Ero un ragazzino curioso e per un insieme di circostanze strane, ed anche incredibili, mi sono trovato già a 14 anni ad essere un attore professionista dello Stabile di Catania. Ho avuto la fortuna di incontrare sulla mia strada quel meraviglioso socialista che è stato Mario Giusti, il direttore. Mi sono trovato a lavorare con dei grandi come Turi Ferro e Salvo Randone. Poi ci sarebbero stati gli incontri con Sciascia e Camilleri. Per 10 anni ho fatto fino a 9 commedie l'anno, protagonista e co-protagonista. Ho imparato cos'è la disciplina, il rigore, ho imparato a spaziare con ogni tipo di testo. Ho fatto i cine-panettoni ed il cinema d'autore, ho fatto la radio e film che hanno raccontato la memoria. ●Hai mai avuto un punto di riferimento, cominciando la carriera, un attore di cinema o di teatro che ti ha insegnato molto, anche indirettamente? Non posso non pensare agli inizi e a quanto ho imparato da Turi Ferro e Randone; soprattutto da adolescenti si è come spugne ed io ho «assorbito» acqua da questi maestri. Ma debbo ricordare un incontro che mi ha cambiato: quello con Giuseppe Fava, un poeta che ha pagato con la vita la sua lotta alla mafia. Ricordo di lui, tra le moltissime altre cose, quello che era una specie di manifesto. «Se non si è disposti a lottare che senso ha essere vivi?». ●Secondo te, qual’è il più grande attore di teatro di tutti i tempi? Non si può fare una classifica. Il parterre è così ricco che finiremmo per fare torto a qualcuno se esprimessimo un solo nome. ●Qual’è la pièce che meriterebbe di restare in una teca ideale, per i posteri, come scrittura e come rappresentazione? Come avrai capito, sono contrario alle categorie. Anche in questo caso debbo risponderti che non posso fare un solo titolo. Mi vien fatto però di pensare ai classici, in generale: Pirandello, Shakespeare. Sto parlando di autori che hanno costruito storie e drammi tali da diventare immortali. Sto parlando di scrittori che conoscevano i tempi del teatro, sapevano come introdurre una battuta, come introdurre un personaggio. Sai, se stessimo tutto il giorno a parlarne uscirebbe fuori una lista infinita che cozzerebbe comunque, ancora una volta, contro il criterio di unicità. ●Qual’è la situazione del teatro oggi? Quella di tagli indiscriminati, di non attenzione per la cultura da parte di chi ci governa perché sostanzialmente coloro che ci governano sono degli ignoranti. Sarebbe il momento di ribellarsi, con la storia che abbiamo alle spalle, a questa specie di diktat che disprezza la cultura.
●L'esperienza artistica cui sei in assoluto più legato? Sicuramente Scugnizzi di Nanni Loy che parlava di disagio giovanile, di carcere minorile, di droga, un film amatissimo dal pubblico. Lavorare con Nanni era un grandissimo piacere. Come uomo, come regista. Era coinvolgente non solo con gli attori ma anche con il macchinista, l'elettricista, le maestranze tutte. C'era in lui il desiderio di condividere il progetto con la troupe intera. Un'altra esperienza irripetibile rimane per me Nuovo cinema Paradiso, vissuta in questo paesino della Sicilia in cima a un cocuzzolo per oltre tre mesi. Permettimi di fare qui un omaggio a Cannavale indicato con abitudine tutta italiota buon «caratterista»: che minchiata! Ci sono buoni attori e cattivi attori. Fu quella comunque un'esperienza irripetibile. Emozionante fu la lavorazione di Un uomo per bene sul caso Tortora. Ho attraversato e vissuto sulla mia pelle l'ingiustizia che ebbe a patire Enzo: avere a che fare quasi quotidianamente con le figlie fu lancinante.
UNA STELLA ■ CARRIERA TRA CINEMA E TEATRO
Un comunista della scena «Sono un ex insegnante di storia dell’arte che non ha mai praticato ma ho contribuito a portare la Cgil a Catania e ho sempre pagato di persona la mia libertà sessuale. Punto su Niki Vendola» BIOGRAFIA ●●●Leo Gullotta nasce a Catania nel 1946. La sua prima fiction televisiva fu «Mastro don Gesualdo» nel ’64. Anni dopo farà parte della Compagnia del Bagaglino con la storica macchietta della signora Leonida. Non rinnega partecipazioni a pellicole di intrattenimento popolare portate in auge da Edwige Fenech ma è «Cafè Express» di Nanni Loy (1980) la svolta della sua carriera, seguito da «Spaghetti House» a fianco di Nino Manfredi e «Mi manda Picone» (1983, Nastro d'Argento come miglior attore non protagonista) in un vero e proprio sodalizio con il regista di «Candid kamera». «Il camorrista» dell'esordiente Tornatore, «Un uomo perbene», «Vajont» e «Nuovo Cinema Paradiso» sono lesuccessive delle tappe di un cursus honorum sterminato. Cabarettista, doppiatore, imitatore, interprete di pubblicità, Gullotta ha da sempre alternato partecipazioni a film d'evasione con quelli d'autore e di forte impegno sociale. Attore eclettico e di grande eleganza si distingue per una lunga militanza teatrale, interprete raffinato del teatro pirandelliano. Nel 2010 gli è stato conferito il Premio Flaiano come miglior attore teatrale; stesso premio gli era stato riconosciuto nel '95 come miglior attore televisivo. Non ha mai fatto mistero della sua militanza politica al fianco di Rifondazione Comunista e contro Berlusconi. (a.c.)
●Perché è cosi difficile, per un autore esordiente, emergere? Sai, negli anni '50 e '60 sono sorti molti autori italiani, allora giovani. Oggi - ma non conosco ovviamente tutti i singoli casi - molti autori scrivono per raccontarsi e non per raccontare. Un discorso solipsista quasi. Ti sembrerà una storia obsoleta ma moltissimi classici sembrano scritti ieri, la loro attualità è di tutta evidenza. E i teatri sono pieni di giovani. ●Hai doppiato Joe Pesci e Roman Polanski. Pochi sanno che hai doppiato anche il mammut Manny della saga dell'«Era glaciale». E' stata un'esperienza divertente? Assolutamente sì! Quella del
●Che cosa vuol dire oggi essere comunisti? Lotta per l'acquisizione dei diritti, per il consolidamento della democrazia, per la difesa della libertà: cose che appartengono alla filosofia comunista ma, più propriamente, alla Storia. Che poi la Storia cambi è un altro discorso. Ci sono valori irripetibili che altri indirizzi politici hanno dismesso. Oggi si fa molta fatica a parlare di diritti e di doveri. Sono stato tra quelli che portarono la CGIL a Catania e ne sono orgoglioso. Essere comunista è nel mio personale Dna. Non so se ha ancora un senso esserlo, sicuramente essere comunisti vuol dire essere persone perbene. ●Se in questo paese fossimo di nuovo costretti alla macchia, a tornare sulle montagne, saresti anche tu della partita? Senza alcun dubbio. Sarò sempre della partita. Sono tutt'oggi un uomo incazzato ma libero. Ti rende libero, ad esempio, il fatto di non volere pagamenti in nero. Anche se questa sembra oggi un'idea un po' démodé. Oggi - e lo sai meglio di me visto il lavoro che fai - ci tocca vivere in un sultanato ma ciò che è peggio è che tutti, o la maggior parte, fanno finta di non vedere. Io ho sempre pagato di persona, anche la mia libertà sessuale. ●Vedi all'orizzonte un personaggio politico dell'opposizione che possa impersonare meglio il ruolo di leader della riscossa? O non esiste? Sì, e ci credo anche, sto parlando di Niki Vendola. Rappresenta tutto ciò che un uomo politico dovrebbe avere. A differenza dei vecchi nomi e dei vecchi balletti. ●Come ti raffronti con la recente immigrazione forzata dai paesi del Maghreb? Questo è un Paese che ha scarsa memoria. Io che ti parlo sono stato un immigrato, o emigrante. Mi sono spostato laddove c'erano maggiori possibilità. La cosa che più mi fa schifo è respingere persone prima
ancora di conoscerle, senza sapere ad esempio se hanno i requisisti o meno per l'asilo politico. Questa è la politica della Lega che tende a dividere più che ad unire. ●Sei credente? Qual’è la tua posizione sul crocifisso esposto negli uffici pubblici? Non sono credente anche se ho un enorme rispetto per chi lo è. I simboli religiosi appartengano a chi crede. Mi pare ovvio che spazi comuni, abitati da tutti, non possano riportarne alcuno e non mi riferisco solo al crocifisso. ●Quali sono, secondo te, le armi per combattere le mafie? Stando in prima fila come fa Don Ciotti, ad esempio, e con lui moltissime altre persone impegnate e magari meno note. E come si può non ricordare Falcone e Borsellino, Livatino, ancora Giuseppe Fava, tutte persone che hanno perso la vita per la causa di cui avevano fatto una ragione di vita. Si combatte con la verità, non con la finzione, non come coloro che su fatti così eclatanti che scardinano dalle radici la convivenza civile hanno avuto tentennamenti. ●Mi parli un momento dello scherzo becero della tigre a «Scherzi a Parte»? Uno scherzo e come tale andava preso. E fu ricordato non per lo scherzo in sé, ma per il cinismo che lo aveva concepito. La tigre era completamente rincoglionita, «iniezionata». Non lo seppi subito, me lo fecero sapere quando videro che stavo per svenire. ●Ti lasciano in un'isola deserta. Quali sono i tre libri che porteresti con te? E i tre film, qualora avessi anche un lettore dvd? I Viceré di De Roberto; Il piccolo Principe di Saint-Exupéry e poi titoli di saggistica... ma no, pensandoci bene porterei i romanzi di Camilleri perché Camilleri recupera un linguaggio, ci trovi il piacere del racconto e le note di questa terra antica fatta di meticciamenti dovuti alle invasioni. Venendo alla domanda sui film, mi consenti di «portare» degli autori al posto di titoli specifici? Bene. Primo Orson Welles perché ha inventato un linguaggio cinematografico; secondo Francesco Rosi per il suo prepotente impegno, terzo Lubitsch, il padre della commedia. ●Adozione di figli da parte di una coppia omosessuale. Che ne pensi? Tutto il bene possibile. A parte la pruderie della Chiesa e dei benpensanti penso a dei bambini che cercano un affetto perché qualcuno glielo ha tolto. Penso che il bambino non faccia differenze di genere quanto all'affetto che gli può venire da un umano. Magari quello stesso bambino è stato maltrattato e abbandonato o, peggio, molestato da una donna. ●Che musica ascolti? E, in un ipotetico isolamento sull'isola, quali brani -classica e leggerasalveresti? A me piace tutta la musica. Amo molto il jazz, amo molto le melodie, le grandi orchestre degli anni Venti e Trenta, mi piace molto Frank Sinatra. Tu porti sempre l'esempio dell'isola deserta, fammi pensare...va be', le canzoni cantate da Mina che ha due palle grosse come una casa anche per le scelte di vita che ha fatto; Rossini sicuramente; poi sicuramente Mozart e Bach. ●Regalami un ricordo finale. L'arena che frequentavo da bambinetto dove non mi volevano far entrare appunto perché ero piccolo e allora mi mettevo la giacchetta del pigiama per sembrare più ometto. L'arena dove ho visto Ben Hur, I 10 Comandamenti, dove ho visto cos'era il colore assistendo alla visione della Maja Desnuda con una indimenticabile Ava Gardner.
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JAZZISTA
AB BAARS
Il sassofonista e clarinettista olandese ha pubblicato un cofanetto con cinque album che raccolgono l’originale percorso sonoro del suo trio
MUSICA ■ UNA CARRIERA LUNGA VENT’ANNI
Radicalismo in perfetto equilibrio Tre immagini del sassofonista olandese Ab Baars, in basso con il trio che porta il suo nome
jazz olandese? Credo di sì, anche perché lavoro ancora con Melgenberg, con Han Bennink, Marteen Altena che, a suo tempo, avevano suonato con gente come Dexter Gordon, Eric Dolphy, Anthony Braxton o Lucky Thompson. Ogni volta che mi esibisco con loro è come se mi dessero un po’ della loro storia e per me è anche un modo per sviluppare le loro idee musicali. ●Olandese, nonostante una parentesi italiana… Sì, io e la mia compagna abbiamo abitato a Roma per un anno e mezzo nel 1999, poi siamo ancora tornati nella capitale e ad Anzio, per affittare una casetta per qualche mese e vivere in Italia ‘la dolce vita’ imparando per strada, prendendo lezioni dal popolo.
di GUIDO MICHELONE
●●●20 Years 1991-2011 è il titolo di un cofanetto (cinque cd) che, prodotto dalla Wig Label di Amsterdam, raccoglie l’intera discografia di una band olandese formata da Ab Baars (sassofoni, clarinetto), Wilbert De Joode (contrabbasso), Martin Van Duynhoiven (batteria): 3900 Carol Court (1992), A Free Step (1999), Songs (2001), Party at The Bimhuis (2003), Gawky Stride (2011) sono i titoli di un percorso originale, coerente, rigoroso che in breve proietta il mini-ensemble nel radicalismo europeo della ricerca sonora, con i Paesi Bassi ferventi protagonisti sin dagli anni Sessanta. Ab nato nel 1955 nella piccola Brunette, formatosi musicalmente ad Eindhoven e a Rotterdam è artista poliedrico in grado di spaziare da Duke Ellington a James Carter, verso continue sperimentazioni, come egli stesso spiega in perfetto italiano, premettendo che il manifesto è il suo giornale preferito... ●Scelta coraggiosa pubblicare un cofanetto di cinque album di free jazz... È per festeggiare i vent’anni del Trio e perché era impossibile acquistare tre dei cinque dischi, ormai fuori catalogo. Qui si tratta di lanciare uno sguardo storico ma anche esprimere qualcosa di nuovo: nel cofanetto infatti c’è un cd inedito con registrazioni recenti per far ascoltare un ulteriore sviluppo del trio. ●In cosa consiste questo sviluppo? Siamo più liberi, abbiamo trovato un equilibrio, tre musicisti, tre voci strumentali, tre modi di suonare per sviluppare un’idea su temi che ho scritto io oppure che risultano libere improvvisazioni. All’inizio, vent’anni fa, era molto più difficile spiegare a Wilbert e Martin le mie idee sui brani che componevo, idee che erano rivoluzionarie anche per me. Ma tra parlare, suonare, provare abbiamo via via trovato un colore, una lingua su cui proseguire, anche grazie ai grandi musicisti ospitati come Roswell Rudd, Steve Lacy, Misha Mengelberg, i chitarristi degli Ex, quartetti classici e molti altri ancora. Grazie a loro sono nate lingue e colori molto particolari. ●Ti senti, in tal modo, un continuatore della moderna scena
●Cosa prevale nel sound dell’Ab Baars Trio? Senza dubbio l’improvvisazione. Ma per me è importante scrivere brani, comporli in una maniera in cui si lascia molta libertà ai musicisti; l’ho appreso da Mengelberg, che ha sempre composto brani cortissimi, quasi senza fine, molto aperti; e questo cerco di fare anche per il mio trio. Dico sempre che sarebbe possibile scrivere la musica su una cartolina, ossia molto chiara e corta. ●Perché hai optato per un trio pianoless? Forse dopo aver sentito il bel trio di John Carter con John Lindberg al contrabbasso e Eric Watson alla batteria, ma in precedenza avevo ascoltato gli storici ellepì di Sonny Rollins in trio Way Out West, Freedom Suite, Live at Village Vanguard; ti dico che c’è una libertà in questa combinazione molto differente da quella in quartetto, perché senza piano c’è più spazio: è un suono molto ‘classico’ il mio trio e con soli tre jazzisti c’è appunto posto per tutti. ●Altre fonti ispirative? Ornette Coleman ha scritto cose molto interessanti sul suonare senza piano, parlando della libertà. Senza piano non ci sono strumenti con accordi e per lui era fondamentale fuggire dalla musica tradizionalista. ●Com’è la situazione musicale oggi in Olanda? Ora c’è una grande crisi, perché il governo di destra, con un partito xenofobo, ha deciso di tagliare il sistema di sussidi per tutta l’arte, con la scusa che non sarebbe importante e che dobbiamo risparmiare; e quindi chiudono i rubinetti a musei e orchestre. C’è un taglio di duecento milioni di euro per le arti: il sistema dei sussidi era iniziato negli anni Sessanta con il jazz di Breuker e Mengelberg, i quali avevano capito l’importanza di relazionarsi al sistema politico per potersi dedicare seriamente alle musiche d’avanguardia. Anche i jazz club stanno chiudendo perché non hanno abbastanza soldi; per loro non è possibile programmare solo free jazz, ma devono fare anche musica popolare, meno avventurosa. In Olanda per musicisti, scrittori, ballerini, coreografi, pittori era possibile avere uno stipendio per quattro anni, un sussidio fisso, con la
BIOGRAFIA
possibilità di sviluppare molte idee, e questo l’hanno tagliato; adesso è quasi impossibile lavorare per quattro anni a un progetto senza soldi; lo può fare la Royal Concertgebouw Orchestra, ma per piccole situazioni o per i gruppi più sperimentali è veramente arduo. Anche nelle scuole pubbliche sono state tagliate le lezioni di musica, i concerti per bambini e le visite ai musei; è un grande scandalo! ●Chiudiamo almeno in bellezza: tuoi progetti futuri? Un lavoro chiamato Invisible Blow, espressione del gergo pugilistico, dove ogni boxeur ha paura dell’invisibile inaspettato ’blow’ perché andrebbe kappaò: la boxe come metafora della vita.
●●●Ab Baars, tra i massimi rappresentanti del nuovo jazz olandese, nasce a Magrette nel 1955 e a soli quindici anni si mette in luce come sassofonista della Philips March Band di Eindhoven. Dal 1976 al 1981 approfondisce lo studio dello strumento con il maestro Leo Van Oostyrom al Conservatorio di Rotterdam e nel 1989, dal Ministero della Cultura, ottiene una borsa di studio per lavorare a Los Angeles con il compositore e polistrumentista John Carter. Il 13 aprile 1991 esordisce con il Trio al Bimhuis di Amsterdam e da allora diventa un referente fondamentale per le musiche improvvisate anche con il Duo Baars-Henneman e nella ICP Orchestra. Dal 2005, dopo il sax tenore e il clarinetto, Baars impara a suonare il shakuhachi (flauto di bambù giapponese) sotto la guida di Kees Kort, Christopher Blasdel e Takeo Yamashiro. Tantissime le collaborazioni prestigiose con esponenti del jazz, del rock, dell’avanguardia internazionale: lo stesso John Carter, Anthony Braxton, François Houle, George Lewis, Michael Moore, Sunny Murray, Cecil Taylor, Roger Turner, Ken Vandermark, Veryan Weston, Michiyo Yagi, il gruppo rock dei Sonic Youth, i poeti H.C. ten Berge e Diane Régimbald, e la Katie Duck’s Magpie Company per la danza. (g.mic.)
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REGISTA
TOSHI FIJIWARA di MATTEO BOSCAROL
●●●Toshifumi Fujiwara è un regista giapponese attivo nel campo del documentario. Nato a Yokohama, cresciuto fra Tokyo e Parigi, ha studiato a Los Angeles. Anche nella sua produzione filmica ha continuato ad incrociare culture e spazi diversi, fin dal suo esordio Independence (2001) o nei successivi We Can't Go Home Again (Berlinale 2006 e premio CinemAvvenire a Pesaro nel 2006) e Fence (2008). Il suo ultimo lavoro, No Man's Zone, è uno dei documentari più interessanti, almeno fra quelli usciti fino ad ora, che riflettono sul disastro che ha colpito il Giappone lo scorso 11 marzo. Un documentario che partendo dalle immagini girate dentro i 20 km attorno alla centrale nucleare di Fukushima, si sviluppa come un'intelligente riflessione sull'(assenza) di significato che le immagini di distruzione hanno ormai assunto nella società contemporanea. Così infatti si apre il documentario, che sarà presente quest'anno alla Berlinale. «Le immagini di distruzione sono sempre molto difficili da digerire, quando ce le troviamo davanti ci disperiamo per trovare un indizio che ci aiuti a capire, a decodificare e a misurare la grandezza del danno, forse come scusa per coprire la nostra segreta fascinazione per tali immagini. Diventano degli stimolanti, spesso consumate come droga, oggi siamo semplicemente diventati dipendenti da tutte le immagini di distruzione». ●In questi ultimi dieci mesi, il disastro che ha colpito il Giappone ha dato il là alla realizzazione di molti documentari. «No Man's Zone» è un saggio visivo sull'impatto che le immagini di distruzione hanno nella società contemporanea? Sì ma è qualcosa che naturalmente era dentro di me ben prima del disastro e che è maturato lentamente. ●Vedendo il film si percepisce quasi la presenza di due documentari compresenti, uno con il materiale grezzo delle immagini e delle interviste fatte sul luogo, l'altro più riflessivo e formato dalla narrazione e dal frame filosofico che fin dalle prime scene apre il suo lavoro. Abbiamo provato a creare due livelli di proposito, una delle ragioni è che il film è una coproduzione franco-nipponica con regista e cameraman giapponesi ma montaggio francese. Quindi ho pensato, perchè non avere due livelli in modo da incorporare una certa distanza nel contesto del filmato? In origine avevamo pensato ad una voce francese per la narrazione ed il testo era assai differente da quello che poi abbiamo scelto, doveva essere più una sorta di fiction, le parole scambiate attraverso e-mail dal regista giapponese e da una donna francese. Per far questo abbiamo collaborato con degli scrittori francesi ma non sono riusciti a rendere bene ciò che volevo, doveva essere una presa di posizione critica anche verso l'atteggiamento francese, ma invece ne è venuto fuori qualcosa di disgustosamente colonialista. Ho deciso allora di riscrivere completamente la narrazione. ●In questo modo il documentario può funzionare ed assumere una posizione critica anche verso il pubblico non giapponese. Se la copertura mediatica giapponese può essere aspramente criticata, è altrettanto vero che quella internazionale, in certi casi, ha brillato per disinformazione, specialmente quella italiana poi, la peggiore di tutte... Questo è in qualche modo vero anche per il Giappone, pensi che il
GIAPPONE ■ «NO MAN’S ZONE»
Dipendenza da distruzione Il disastro nucleare di Fukushima rivissuto attraverso un documentario che indaga il rapporto tra immagini e tragedia. «Da Tokyo tutti vogliono guardare ma nessuno si sente responsabile» movimento anti-nucleare nipponico si sta rivelando essere contro la gente di Fukushima... ●Nel film c'è una scena in cui la videocamera segue un'anziana signora che passeggia e parla nel suo giardino. Mi ha fatto venire in mente «Heta Buraku» di Shinsuke Ogawa. Grazie per il complimento, se è così dipende forse dal fatto che il mio cameraman, Kato Takanobu, ha lavorato con la Ogawa Pro ed è stato uno dei suoi ultimi collaboratori. È stato importante averlo con me perchè avendo lavorato e vissuto con Ogawa a Yamagata (prefettura che si trova a nord-est di Fukushima) sapeva molto bene come filmare i campi di riso e altri dettagli della vita di campagna. ●Nella stessa scena attraverso i ricordi della signora si percepisce un senso del tempo più ampio, cicli storici e naturali che si spingono fino al periodo immediatamente successivo alla Seconda Guerra Mondiale. Direi ancora più indietro nel tempo, uno dei ricordi della signora riguarda infatti il periodo in cui la zona era rinomata per la produzione della seta. Questo ci porta quindi a prima della guerra, quando la produzione della seta era la prima esportazione del Giappone. Di solito in questo tipo di documentari si tende a focalizzare l'attenzione sulle immagini di distruzione, quello che abbiamo provato a suggerire con il nostro lavoro è che ciò che è stato distrutto e ciò che le persone hanno perso è qualcosa di molto più importante. ●Che cosa l'ha spinta ad andare a filmare nella «no man's zone» ad appena un mese dal disastro? Ero disgustato dal modo in cui le immagini televisive venivano presentate. La tv non ci mostrava come le persone del posto erano solite vivere, non dava loro la possibilità di comunicare davvero.
BIOGRAFIA ●●●È nato il 23 luglio 1970 a Yokohama (Giappone), è cresciuto e ha studiato a Tokio, a Parigi (dal ’77 all’81) a Los Angeles ((1992-1993). Ha studiato alla Waseda University e all’University Southerm of California, ha lavorato come critico cinematografico fino al 1995. Ha diretto il suo primo documentario, «Independence: Around the Film ’Kedma’, a Film by Amos Gitai» nel 2002, con Amos Gitai e il direttore della fotografia Giorgos Arvanitis. Il suo film sperimentale «We Can’t Go Home Again» è stato premiato a Berlino nel 2006. «No Man’s Zone» documenta il disastro che ha colpito il Giappone a marzo 2011. È montatore, direttore della fotografia e spesso anche produttore dei suoi film. È stato interprete di «We Can’t Go Home Again» (2006), «La pluie des prunes» (2007), «Inju, la bête dans l'ombre» (2008).
La vita lassù è così diversa da quella dei giornalisti e per di più le immagini erano presentate senza un decente lavoro di montaggio. Una delle mie intenzioni era quindi quella di realizzare un film che fosse nettamente diverso da quello che di solito viene mostrato in televisione, girato frettolosamente e nervosamente con una videocamera a mano. Girare nel modo più pulito possibile è stata una delle mie priorità, per questo quando possibile abbiamo sempre usato un treppiedi. Gia da prima odiavo molti documentari contemporanei perchè le loro riprese non sono belle e sono girati senza cura, così anche se abbiamo girato in soli dieci giorni abbiamo provato a farlo nel miglior
Ritratto di Toshi Fushjiwara
modo possibile. È stato molto importante anche il fatto di aver avuto un ottimo montaggio, opera della francese Isabelle Ingold. ●E la voce della narrazione della compagna di Atom Egoyan, Arsinée Khanjian... La sua voce è incredibile, lei è armena ma è cresciuta in Libano e le sue lingue madri sono l'arabo ed il francese, poi però diciasettenne si è trasferita in Québec. Mi piace la sua voce perchè non è completamente madrelingua inglese (la narrazione è in inglese) e quindi non è facile identificare la nazionalità della sua voce. ●È partito con il suo cameraman ed un assistente, vero? Sì, in queste occasioni è sempre meglio essere in pochi anche sapendo il disturbo che le troupe televisive recano ovunque... ●Come hanno reagito le persone che ha incontrato? Non vestendo nessun tipo di protezione, maschere o tute protettive varie, la gente del luogo si è comportata come è insito nella loro tradizione sempre molto ospitale, in modo estremamente gentile come avrebbe fatto verso qualunque altro visitatore. In più non siamo andati in giro a fare stupide domande del tipo: «cosa ne pensi di questo? Qual è la tua opinione di quest' altro?». ●La problematica di come avvicinare le persone afflitte dai disastri è un punto cruciale dell'arte documentaria. Durante l'ultimo Yamagata Documentary Film Festival c'è stato un dibattito proprio su questo. C’ero anch'io al dibattito. Penso che il problema più grosso in questi documentari sia che si focalizzano sulla figura del regista che visita queste zone e non necessariamente sulle persone e sui luoghi in questione. Il problema generale è che molti registi sono andati nel Tohoku ma hanno realizzato dei film sul loro stato confusionale e sul loro panico mentale, dimenticando di fare dei documentari sui danni del terremoto e sulle persone direttamente colpite dalla tragedia. Sono troppo concentrati e inconsciamente ossessionati da loro stessi. Allo stesso tempo ho notato che addirittura il pubblico qui a Tokyo, vedendo come i registi stessi siano confusi, trova un certo conforto nel guardare questo tipo di lavori. Trovo questa tendenza assai problematica nel suo essere troppo masturbatoria: ci si dimentica la funzione originale del cinema, quella cioè di essere qualcosa di aperto atto a creare legami e connessioni. In simili circostanze dovremmo essere dei mezzi per creare un ponte fra coloro che sono colpiti dalla tragedia e noi che non lo siamo. Questa è una delle ragioni per cui abbiamo provato a realizzare No Man's Zone come un testo filmico aperto, invece di condividere le esperienze personali del regista, volevamo piuttosto che fosse l'opera stessa a porre delle domande dirette al pubblico. Naturalmente avendo il mio cameraman lavorato con Ogawa e avendo girato io stesso un lavoro su Tsuchimoto sono stato influenzato da una diversa generazione di documentaristi, in qualche modo ho saltato la generazione del «private documentary». ●Come Kawase Naomi per esempio Ammiro Kawase ed i suoi lavori, lei fa parte più o meno della mia generazione ma noi due facciamo due cose diverse e va bene così. Si potrebbe dire che realizzo dei documentari come negli anni sessanta, eccetto che non c'è più politica al loro interno, le politiche di sinistra si sono completamente e
rapidamente disintegrate dopo i settanta. ●Lei pensa che il disastro dell'11 marzo cambierà qualcosa nel cinema? Secondo me dovrebbe ma non ho visto ancora dei grandi cambiamenti. Però c'è da dire che sono passati solo 9 mesi. La cosa sicura è che dobbiamo cercare di fare qualcosa di diverso da quello che stavamo facendo prima. In verità prima del terremoto stavo lavorando ad un altro film ma ora non sono sicuro che valga la pena di completarlo, è qualcosa che riguarda il Giappone prima dell'11 marzo... ●È un periodo diverso, in qualche modo è come un periodo post-bellico. Dovremmo considerare l'11 marzo importante quanto il 15 agosto 1945 (data del discorso radiofonico con cui l'imperatore Hirohito comunicava la resa del Giappone, ndr). ●Alcuni mesi fa Sion Sono mi disse che nella tragedia il disastro ha portato qualcosa di positivo, perchè ha improvvisamente scoperchiato moltissime problematiche che affliggono la società giapponese. Ne è un esempio il rapporto fra campagna e metropoli, cioè fra Tohoku e Tokyo. Non potrei essere più d'accordo, qui a Tokyo noi viviamo come dei parassiti alle spalle delle zone del nord. In No Man's Zone viene ripetuto molte volte che le centrali nucleari nel Tohoku sono presenti da quarant'anni e ciò che è ancora più grave è che anche adesso a 9 mesi dal terremoto la gente di Tokyo non vuole ammettere che noi siamo i veri responsabili. ●Anche ora (l'intervista è stata condotta durante il periodo natalizio) qui nella capitale è come se non fosse successo nulla. Durante il TokyoFilmEx una signora di Fukushima presente fra il pubblico è rimasta sorpresa quando, dopo aver visto il film, ha camminato fuori dal teatro nelle strade illuminate a pieno regime con le decorazioni natalizie. ●Ci può dire qualcosa sulla musica che ha usato? È composta e suonata da un musicista di free jazz americano che da anni vive in Francia, Barre Phillips con cui avevo già lavorato in passato. Lo abbiamo scelto perchè musicista non giapponese, uno dei migliori in circolazione, e anche perchè non è eccessivamente caro e neanche troppo commerciale. La cosa curiosa è che ha registrato la musica in una cappella cattolica del sud della Francia e in No Man's Zone ci sono molti elementi tradizionali giapponesi con immagini di Budda e piccole divinità, mi sembra una cosa interessante. In questo modo la musica e anche la narrazione possono forse suggerire qualcosa di universale, anche per questo non ho voluto fare io la parte narrata ma darla a qualcun altro, altrimenti sarebbe diventato un documentario sulla mia esperienza. ●Ma questo incidente nucleare pone delle enormi e tremende domande a tutti noi e alla nostra civilità, su come ci relazioniamo con la natura e con l'universo e come percepiamo la nostra vita. In realtà dobbiamo pensare anche agli aspetti filosofici e addirittura a quelli religiosi di tutto ciò. Verso la fine del film viene detto che il Giappone, avendo adottato la civiltà occidentale, ha accettato la sua idea secondo la quale la natura esiste per noi, per servire gli essere umani. Questo è in realtà un concetto molto cristiano, nemmeno giudaico o islamico: è una fede particolare del cristianesimo dire che Dio ha creato tutto per noi.
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COMPOSITORE
FRANCESCO DE MASI
Nella foto grande il compositore Francesco De Masi. In alto a sinistra la locandina del film «Arizona Colt», in basso a destra Franco e Ciccio in «Per un pugno nell’occhio»
BIOGRAFIA ●●●Francesco De Masi è nato a Roma l'11 gennaio 1930 ed è morto nella stessa città il 6 novembre 2005. Nel 1955, dopo aver frequentato con successo le più importanti orchestre italiane e internazionali, ha iniziato a comporre per il cinema. La sua carriera lo ha portato ad affrontare tutti i generi cinematografici, dal film storico ai polizieschi, dagli spaghetti western ai documentari, ai film d'autore. Ha lavorato con registi del calibro di Sergio Citti, Folco Quilici, Miklós Jancsó, Mauro Bolognini, Vatroslav Mimica, Michele Lupo, Enzo G. Castellari, Riccardo Freda, Camillo Mastrocinque, Fernando Cerchio, Mario Cajano, Lucio Fulci, Steve Carver e tanti altri. Nel 1968, De Masi ha vinto la rassegna per giovani direttori d'orchestra indetta dalla Rai e da allora ha svolto anche un'intensa attività concertistica. Dal 1973 ha insegnato «esercitazioni orchestrali» al conservatorio di San Pietro a Majella di Napoli, poi «direzione d'orchestra» al conservatorio di Santa Cecilia a Roma. Ha registrato numerosi dischi con musiche di Luigi Boccherini, Mozart, Honegger, Chausson, Beethoven, Ciakovskj, Carl Nielsen e di tanti altri grandi compositori della storia della musica.... (g.lu.)
di GABRIELLE LUCANTONIO
●●●«Quando lavorano alle colonne sonore, molti realizzano prima tutti i temi collegati a un personaggio e poi quelli collegati a un altro, senza considerare l'ordine del racconto. Il maestro Lavagnino voleva che si scrivessero i diversi brani, dal brano numero 1 fino al numero 39 o 45 (o quanti servivano nel film), seguendo l'ordine cronologico del film. Bisognava ricordarsi quali sonorità si erano lasciate nel brano precedente, in modo da riprendere consequenzialmente. Bisognava dare una coerenza narrativa alla musica, tenendo anche conto dei diversi rumori che c'erano nel film». Questo raccontava Francesco De Masi in un'intervista concessa alla televisione spagnola inserita in un documentario alla sua memoria realizzato dal figlio Filippo (il film non ha ancora un titolo, ma sarà abbinato all'ultimo cd della serie sulle soundtrack western di De Masi, pubblicata dalla Beat Records). Una professionalità e un modo di lavorare che si ritrovano nelle oltre 300 colonne sonore composte durante la sua lunga carriera. Ma andiamo per ordine: Francesco de Masi era nato a Roma l'11 Gennaio del 1930, dopo la maturità classica aveva studiato composizione al conservatorio San Pietro a Majella di Napoli con Achille Longo, e il corno, sotto la guida di Domenico Ceccarossi. Secondo il suo unico figlio, Filippo: «Mio padre ha cominciato la sua carriera di musicista suonando il corno in una banda. Perché il corno e non un qualsiasi altro strumento? A lui sarebbe piaciuto il pianoforte (...) ma al momento di entrare in conservatorio era già grandicello, e lo studio del piano richiede moltissimi anni, troppi. Achille Longo, suo zio, gli suggerì di intraprendere gli studi, più brevi, di uno strumento a fiato». Dopo aver frequentato le più importanti orchestre italiane e internazionali (ha lavorato a lungo con la prestigiosa orchestra Scarlatti di Napoli) ed essere diventato il primo esecutore di «corno jazz» nella storia della musica, si è dedicato alla direzione d'orchestra, perfezionandosi all'Accademia Chigiana di Siena. Ma non si è accontentato e ha voluto imparare anche altre tecniche musicali. «Stimolato da una gigantesca volontà di emergere, utilizzando i soldi guadagnati con la Scarlatti, andò a Siena per seguire il corso del più grande compositore di musica per film: Angelo Francesco Lavagnino. Quest'ultimo notò subito che papà aveva una marcia in più e poco dopo lo assunse come assistente personale», racconta Filippo. «Mi ha offerto di essere il suo assistente e di essere il responsabile delle musiche della ’Astra cinematografica’. Bisognava
MUSICA ■ NELLA SUA CARRIERA OLTRE TRECENTO SOUNDTRACK
Anatomia di un western Il figlio dell’artista scomparso nel 2005, Filippo, ha realizzato un film sulla figura del padre. Sarà abbinato all’ultimo cd che la Beat Records ha dedicato alla sue moltissime colonne sonore
realizzare le musiche di una decina di documentari e Lavagnino non aveva il tempo per farle Sono quindi stato incaricato di comporre quele colonne sonore. Tra questi c'era Gauguin (1957) di Folco Quilici, che, presentato alla Mostra del cinema di Venezia, fu molto gradito dai critici. Cosi quando Quilici preparò Dagli
Appennini alle Ande, mi chiese di scriverne la musica, e mi portò con lui in Argentina perché mi documentassi sulla cultura musicale locale... Da lì ho iniziato a lavorare regolarmente per il cinema», sosteneva Francesco De Masi nella già citata intervista per la televisione spagnola. Collaborerà, tra tanti altri, con registi del calibro di Sergio Citti (Ostia nel 1970, Storie scellerate nel 1973, Mortacci nel 1989, Fratella e sorello nel 2004), Michele Lupo (La vendetta di Spartacus nel 1964, Arizona Colt nel 1966, Concerto per una pistola solista nel 1970), Lucio Fulci (Lo squartatore di New York nel 1982) o Enzo G. Castellari ( Vado, l'ammazzo e torno nel 1967, Ammazzali tutti e torna solo nel 1968, Ettore lo fusto nel 1972 ). De Masi è stato uno dei più prolifici compositori di musiche per i cosiddetti spaghetti western, ma mentre molti dei suoi colleghi preferirono seguire la scia di Ennio Morricone, egli riuscì a ritagliarsi una propria identità, avendo infatti realizzato le sue prime colonne sonore per film western ancor prima dell'avvento di C'era una volta il west, nel 1968. «Ho scritto le musiche dei due primi western realizzati in Italia. Mi sono ispirato allo stile musicale dei film western americani, alle colonne sonore composte da Dimitri Tiomkin (Duello al sole per King Vidor o Mezzogiorno di fuoco per Fred Zinneman). Non ha niente a che vedere con quelle dei film di Leone. In fondo al mio sentire ci sono sempre state le sonorità dell'epopea del film western americano», ebbe a dichiarare una volta lo stesso De Masi. Ma le sue soundtrack per gli spaghetti western non erano solo questo. Amava aggiungere ad alcuni temi anche un tocco «pop», e questo soprattutto quando collaborava con il cantante Raoul, famoso per il suo lavoro in film come Quindici forche per un assassino (1968) di Nunzio Malasomma o Il momento di uccidere (1968) di Giuliano Carmineo. Nel 1968, De Masi ha vinto la rassegna per giovani direttori d'orchestra indetta dalla Rai e da allora ha svolto anche un'intensa attività concertistica. Dal 1973 ha insegnato «esercitazioni orchestrali» al conservatorio di San Pietro a Majella di Napoli, poi «direzione d'orchestra» al conservatorio di Santa Cecilia a Roma. È morto a Roma il 6 novembre del 2005 all'età di 75 anni.
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ALIAS 7 GENNAIO 2012
POETESSA
ALDA MERINI di BEATRICE CASSINA
●●●Lo scorso 21 marzo (giorno che sarebbe stato il suo ottantesimo compleanno) è stata inaugurata a Milano, in via Magolfa 32, la nuova casa-replica di Alda Merini. Elegantemente e forse un po’ asetticamente chiamata Casa Museo, non regala tuttavia la possibilità di respirare l’atmosfera della vera casa di Ripa di porta Ticinese, in cui la poetessa scriveva, fumava, intratteneva gli amici suonando un pezzo di Traviata. No, proprio no. Le case sono l’anima di chi le abita, gli specchi di chi le vive e consuma, di chi le coccola e, anche, le tratta male, le rompe e poi le aggiusta. Oggi la casa di Alda Merini proprio non c’è più, anche se il suo ricordo resta sicuramente nelle sue parole, nei suoi scritti e anche nelle immagini di alcuni film documentario. Dalla poetessa milanese, che viveva nel minuscolo bilocale sui Navigli, (ottenuto grazie alla legge Bacchelli), il disordine era sovrano e a volte, diceva lei stessa, i portacenere non servivano perché… le sigarette poteva spegnerle sul pavimento in graniglia. Di fianco al suo fido compagno, il pianoforte, sul tavolo c’erano sempre ritagli di giornale e regali di amici e ammiratori, da una sciarpa di seta a un sacchetto di castagne che spesso lei stessa, a sua volta, regalava a nuovi visitatori e ammiratori e ammiratrici. C’erano, in quella casa, le sue unghie laccate di un rosso sempre un po’ rovinato, c’era il suo rossetto sgargiante, i suoi tanti umori, a volte allegri, altre volte infastiditi e insofferenti. Lo si capiva subito, di che umore era, perché, forse senza volerlo, era sempre trasparente. Nel giugno 2004 eravamo andati a trovarla e in questo modo si era raccontata. Con gli occhi illuminati da un sorriso malinconico, apre la porta di casa mentre si sistema i capelli con una mano. Le labbra dipinte di rosso si accendono sulla pelle chiara, che ricorda quella di un’antica bambola di ceramica. Nel caldo pomeriggio d’estate indossa una vestaglia chiara e leggera. Alda Merini vive in Ripa di porta Ticinese a Milano. Sulla porta del piccolo bilocale il suo nome appare in piccolo, per lasciare spazio alla targa di ottone con cui ricorda l’amico e confidente Vanni Scheiwiller, l’«uomo che volò troppo alto…». Il corridoio d’entrata è stretto. A sinistra la camera da letto, di fronte una cucina strettissima, a destra un minuscolo soggiorno in cui la luce entra da un’unica e piccola finestra. Sul tavolo di legno scuro sono appoggiati regali, riviste, ritagli, una borsa di tante mode fa che oggi torna nelle vetrine dei negozi. Un piccolo frigorifero è abbandonato di fianco al pianoforte Bentley. Il disordine è coerente, quasi fosse disegnato e preparato su misura da un grande architetto. Non ci sono libri alle pareti. «Li ho regalati tutti… non ci stavano». Campeggiano invece sui muri le sue foto, la sua vita, poster di Totò e Marlon Brando, di Catherine Hepburn in Vacanze Romane. «Ho sempre sognato essere come lei. Prendere la Vespa, e girare libera per la città. Essere nessuno», dice con voce un po’ sognante. La verità, e forse i disagi che stanno dietro queste parole, sono difficili da immaginare. Ma le labbra si piegano in un sorriso soddisfatto. Sembra voler dire che, a quella libertà, ancora non ha rinunciato. Discussa, raccontata in mille modi diversi attraverso lenti di sguardi e opinioni che si completano e contraddicono di continuo, la settantatreenne poetessa, amata da Salvatore Quasimodo e Giorgio Manganelli, premiata a Roma, nel dicembre 2003, dal Presidente della Repubblica con la Medaglia d’Oro, e proposta per il Premio Nobel dal Pen Club nel 2001, ha una voce morbida ma sempre ferma e sicura. Nonostante abbia passato molti anni in manicomio, è una donna di grande
UN INCONTRO ■ PASSIONE, POETICA, MISTICISMO, CARNALITÀ
Il mio nome è nessuno Incontrata nella sua «vera casa» di Ripa di Porta Ticinese, nel giugno del 2004, tra pianoforte amici e doni, torna con la sua sorridente presenza a rammentare il calore della scrittura FILMOGRAFIA ●●●Alda Merini è stata una sorta di musa per molti artisti e, nei suoi ultimi anni di vita, a lei sono stati dedicati cortometraggi e film. Cosimo Damiano Damato, «Alda Merini Una Donna Sul Palcoscenico» (prodotto da Angelo Tumminelli), è un film documentario presentato a Venezia (Giornate degli Autori) proprio nel 2009 l’anno della sua scomparsa. Damato l’ha raccontata attraverso le sue parole, risate, i tanti toni di voce e passione. L’ha seguita in quella piccola abitazione di Ripa di Porta Ticinese, seduta intorno a quel tavolo, su quella sedia. Quella sulla sinistra, contro il muro. Nel documentario canta, legge e scherza, diventa triste, torna a sorridere. Alcuni brani sono letti da Mariangela Melato e, questa intervista, sarebbe stata la sua ultima. Lo scorso anno, in ricordo del primo anniversario dalla sua scomparsa, l’amico Arnoldo Mondadori ha pubblicato con Frassinelli il libro e Dvd «Eternamente Vivo», una testimonianza che spiega il suo intuito poetico: «Prima della scrittura hanno valore le mie mani, i miei occhi, il mio cuore e persino la mia disperazione, e quando scrivo tutto è già compiuto, il mio corpo ha già scritto la sua apologia e persino il mio tradimento». Nel 2007 Simone Cristicchi, indagando il mondo della follia, aveva prodotto, con la regia di Alberto Puliafito, «Dall’altra parte del Cancello». (b.c.)
forza, immensamente allegra e arrabbiata, piena di contraddizioni, geniale, lucida e acuta, generosa di gesti che rappresentano grandi doni: così la descrivono alcuni dei suoi amici – gli editori Arnoldo Mondadori (Frassinelli - pronipote dell’editore omonimo) e Alberto Casiraghi, il giornalista Vittorio Borelli, Monsignor Gianfranco Ravasi (prefetto della Biblioteca Ambrosiana, oggi arcivescovo e presidente del Pontificio Consiglio della Cultura). Già, i suoi doni. Doni particolarissimi. Dal 1951, quando due sue liriche venivano inserite dal futuro amico Vanni Scheiwiller nel volume Poetesse del Novecento su suggerimento di Eugenio Montale e Luisa Spaziani, ha scritto e pubblicato moltissimo. Ma esiste anche una poetica silenziosa che non arriverà mai nelle librerie o nelle biblioteche, e resterà gelosamente conservata in un cassetto della scrivania di qualche amico. «Regala poesie perché ha bisogno di dare. Nessuno purtroppo riuscirà mai a conoscere e quantificare la sua produzione», racconta Alberto Casiraghi editore di Pulcinoelefante. E, mentre Vittorio Borelli ricorda quando, rispondendo al telefono, la voce di Alda Merini gli chiedeva se poteva dettargli una poesia dedicata a sua moglie, Monsignor Ravasi riconosce in lei la
«rarissima dimostrazione della felicità nel dare». Semplice e imprendibile, è sempre riuscita a colorare la vita con l’ottimismo. «Ci può sempre essere un problema più grande… Io sono stata in manicomio, come posso preoccuparmi?». Era stata internata a soli sedici anni presso la clinica Villa Turro. A trentaquattro entrava nel manicomio Paolo Pini, da cui sarebbe definitivamente uscita nel 1972, a quarantun anni. Periodi alterni di lucidità e follia, si sarebbero protratti fino al 1979. Reduce da un’operazione al femore destro, e camminando con il bastone, prima di sedersi sulla sedia di fianco al pianoforte, chiede di poter mostrare, orgogliosa, la cicatrice, fiera che i medici si siano compiaciuti della rapida guarigione. «È come un ricamo, no?», dice ridendo. Mentre Lina Wertmüller sta pensando a un film sulla sua vita da un po’, e qualche importante editore ha ripetutamente mostrato l’interesse per un’autobiografia, lei resta dubbiosa. Poi si ferma con lo sguardo pensieroso e, mentre le mani dallo smalto rovinato giocano come sempre con un grande anello dalle mille perline luccicanti, aggiunge un po’ ironica: «Forse quando avrò un po’ di tempo…». Il primo testo nel quale racconta in prosa brani della sua vita fu, nel 1985, L'altra verità - Diario di una diversa.
L’esperienza dell’internamento assume qui toni di devastante realismo, ma una vera autobiografia non è mai stata scritta. È stata una vita complessa, non facilmente trasferibile su fogli di carta in prosa. Raccontarla sarebbe come limitare e frenare un’esistenza che non si è mai fermata, rischiando di perdere le tante sue voci, contraddizioni, meraviglie, sofferenze. E, quella vita, del resto, è già raccontata nelle poesie. Nonostante il dolore per la separazione dalle quattro figlie nei suoi anni di manicomio, i 46 elettroshock, una vita ricca di amori e di abbandoni, riesce comunque a sorridere. «La vita è stata buona con me. Ho avuto buoni compagni, buoni mariti. Ho incontrato persone generose». Ha imparato a scaldare il gelo del suo dolore, della sua solitudine e della sua malattia con la scrittura. «Da sola vivo bene. Non mi manca nulla. E, anche in manicomio, alla fine, sono stata bene. Non ero nessuno. Quando mi hanno chiesto perché non avevo detto che scrivevo dice abbozzando una risata - ho risposto: ‘Non sono mica matta!’. La poesia era tutta mia». Scrivere era il rifugio segreto, unico luogo nel quale sentirsi protetta. Così infatti aveva scritto in La volpe e il sipario (1997): «La mia poesia è alacre come il fuoco, / trascorre tra le
mie dita come un rosario. / Non prego perché sono un poeta della sventura / che tace, a volte, le doglie di un parto dentro le ore, / sono il poeta che grida e che gioca con le sue grida, / sono il poeta che canta e non trova parole, / sono la paglia arida sopra cui batte il suono, / sono la ninna nanna che fa piangere i figli, / sono la vanagloria che si lascia cadere, / il manto di metallo di una lunga preghiera / del passato cordoglio che non vede la luce». Poesia, necessaria e naturale come il respiro. «Mi fanno ridere quelli che si stupiscono che uno scriva, solo perché loro non sono capaci. Quelli che dicono che non possono scrivere neanche tre righe… Io dico: meno male!», e sbuffa, con un tono che sfiora l’insofferenza. Le poesie nascono in primo luogo da una necessità. «Se canti il tuo amore, il tuo dolore, non lo fai certo per qualcun altro. Lo fai per te stessa. Il poeta è l’unico che sente in modo vero, canta l’amore e lo innalza. La forza della poesia è persuasione». Passando le mani nella collana di corallo rosa, aggiunge, con una voce che sembra non aver bisogno di essere ascoltata: «la poesia è un accadimento, ispirazione della realtà. Quando bussa è come gli amici, come qualcuno a cui vuoi molto bene. Sei felice e, anche se stanca, …se la poesia bussa, devi lasciarla parlare». Quando allora si presenta alla porta, Alda Merini risponde e, da quelle chiamate che rasentano il mistico, nascono le sue liriche. L’attimo della creazione è istantaneo, quasi inatteso. «Non mi metto mica a tavolino e decido che: adesso scrivo una poesia. Arriva e basta!». A volte scrive, a volte alza il telefono. «Spesso - ha raccontato Arnoldo Mondadori - mi chiama e dal suo respiro capisco che deve dettarmi una poesia. Ovunque io sia, devo essere pronto con una penna in mano. Dopo un silenzio interrotto solo da un respiro carico di emozione, dice ‘scrivi’. Ci sono momenti in cui Alda sembra un fiume in piena, un medium poetico attraverso cui deve passare una voce misteriosa. Condivide con me momenti al limite del mistico. I suoi libri nascono così». Monsignor Ravasi, che ha scritto le introduzioni per tre suoi libri - Corpo d’amore, Magnificat e il Poema della Croce -, parla infatti di «quel linguaggio poetico e mistico tipico di Santa Teresa d’Avila. Alda Merini usa, per parlare dell’esperienza religiosa, le sfumature dell’eros, della sensualità, dell’innamoramento». La sua grande produttività poetica si genera nel rapporto magico con l’immagine di Maria, a cui si ispira moltissimo. «Si identificava con Maria - spiega il religioso - come donna, madre e vergine, attratta dall’aspetto di freschezza che appartiene alla verginità. E veste il dolore, come Maria si veste dei panni del Cristo sofferente». Le immagini religiose di Maria e Cristo appartengono alla sua ricerca poetica di donna, mistica, poetessa. Proprio nella perenne ricerca di una sua personale religiosità, si è rivolta a monsignor Ravasi. «Il desiderio di ricostruire i suoi orizzonti spirituali l’ha portata da me. Ci siamo visti solo un paio di volte, ma c’è stata da subito una bellissima amicizia, una ricerca che ci avvicina, un legame affidato a percorsi paralleli. Aveva bisogno non tanto e non solo di un ecclesiastico, ma di una guida. Viveva in una dimensione di ascesi e di rigore teologico e ideologico. Aveva, forse ha sempre avuto, paura di pronunciare eresie ma nella sua grande libertà di espressione è riuscita a mantenere una grande devozione». Molti l’hanno definita geniale. Spegnendo la sigaretta per terra, dice che spesso lo fa anche sul materasso. Sorridendo, ricorda il lavoro con Milva, che ha cantato, nel disco Sono nata il 21 a primavera (Nar International), le poesie dal libro Terra Santa, scritto nel 1979 e che ha vinto il premio Librex Montale nel 1993. «Milva ha una voce superba», ha cominciato a dire, ma poi s’era subito interrotta con un’altra risata, ricordando la prima volta che la cantante le aveva fatto visita. «In casa c’era un buon profumo. Milva mi ha chiesto a cosa fosse dovuto. Avevo lavato i pavimenti con il Vermouth…!». Alda Merini ha un particolare humor, scanzonato, ironico, distaccato e, con Arnoldo
Ritratto di Alda Merini
Mondadori, sta pensando a un libro umoristico. «Alda ha sempre avuto un lato comico e surreale veramente straordinario. Si prende in giro, abbattendo qualsiasi cosa per poi ricostruirla. Ma deve essere innamorata e nutrire le sue creazioni con la passione. Ha un fuoco vivo dentro di sé ed è come se avesse sempre vent’anni. È una magica commistione di Eros, passione, poetica, misticismo e carnalità. Quando non ha amore su cui investire, comincia a spegnersi». Ogni giorno le visite di amici o di semplici ammiratori le portano un po’ dell’amore di cui ha bisogno. Nonostante a volte si lamenti di essere stanca e non avere voglia di vedere nessuno, gli amici e gli altri rappresentano un elemento di passione fondamentale nella sua vita. Carlo delle Piane, arrivato un pomeriggio d’autunno con amici comuni, dopo avere cantato e suonato con lei, l’aveva salutata ringraziandola e dicendole che era da molto tempo che sperava di incontrarla. Un sorriso sereno di bimba le si è disegnato sulle labbra. Accendendo una nuova sigaretta, mentre si alza per cercare una Coca Cola in frigorifero, risponde al telefono. Un amico l’avvisa che oggi, su un quotidiano, è uscita una pagina tutta dedicata a lei. Tenta di mascherare la soddisfazione, ma non ci riesce. Forse perché è poetessa, forse perché è semplicemente Alda Merini, ma ha sicuramente il dono di amplificare ogni sensazione: felicità, gioia, amore, dolore, anche la rabbia, raggiungono i picchi più alti. Camaleontica, trasforma invettive in risate, litigi o semplici interviste in musica al pianoforte. A volte cambia discorso con assoluta naturalezza, quasi che frammenti di ricordi che non vogliono perdersi conquistassero la sua attenzione. «È caleidoscopio, costante nell’assoluta mutevolezza. Credo che una sua caratteristica sia una sorta di meta-razionalità. Alda Merini sta al di sopra delle trame della logica formale, mette in crisi la razionalità e ne utilizza gli stessi tasselli per costruire una nuova grammatica e articolare un nuovo discorso», spiega monsignor Ravasi. A volte sembra dura, a volte si protegge. Non ha mai apprezzato intrusioni nella sua vita privata. Forse qualcuno gliele aveva già imposte in passato. L’importante è che si senta a suo agio e si fidi del suo interlocutore. Sembra restia nell’affrontare la sua relazione con Quasimodo, ma poi ne parla come una giovane studentessa parla di un grande maestro, per il quale ha sempre nutrito molto rispetto. «Si andava da Quasimodo per far conoscere i propri versi, per avere un giudizio estetico. Se poi la giovane era molto attraente….», e lascia che le parole si spengano in un silenzio singolarmente esplicito. A Quasimodo daveva dedicato le due liriche ne Il volume del Canto e qui, meglio che altrove, trova spazio il racconto di un amore unito alla condivisione della ricerca poetica. «Padre che fosti a me, grande poeta, bene ricordo la tua cetra viva e le tue dita bianche affusolate che varcavano il solco del mio seno. E io ricordo tutto, le bufere i venti aperti e quella confusione che trovava la nostra poesia. Parlavamo il linguaggio dei poeti casto, accorato senza delusioni o eravamo delusi di noi stessi poveri, confinati nello spazio come astronauti sulla stessa luna Gli occhi si allontanano in silenziosi ricordi». «Ora devo riposare», ha detto con fermezza, quasi avesse bisogno di stare sola e pensare ad altro. Mentre la saluto, mi chiede se posso portarle un caffè dal bar sotto casa. «E anche quel giornale». Sì, quello che oggi le ha dedicato una pagina intera. Mi vuole dare i soldi, e mi mette in mano 50 Euro. Chiede: «Basteranno?».