Emilio Sereni L’origine dei paesaggi della Grande Liguria Due inediti dei primi anni Cinquanta a cura di Carlo A. Gemignani
Volume realizzato con il contributo di
Cura redazionale di Gabriella Bonini Editing e Grafica Emiliana Zigatti Copyright Š DICEMBRE 2017 ISTITUTO ALCIDE CERVI - BIBLIOTECA ARCHIVIO EMILIO SERENI via Fratelli Cervi, 9 42043 Gattatico (RE) tel. 0522 678356 - fax 0522 477491 biblioteca-archivio@emiliosereni.it www.istitutocervi.it ISBN 978-88-941999-6-3 I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore.
stampato su carta certificata
a Massimo Quaini 1941 -2017
Indice
Prefazione di Mauro Agnoletti Sereni e il paesaggio storico...............................................................................7 Carlo Alberto Gemignani Genti e paesaggio liguri negli scritti di Sereni dei primi anni Cinquanta........................................................................19 Il “cantiere ligure” di Emilio Sereni (1949-1951).................................23 Le origini del “problema paesaggio” .....................................................33 Bibliografia................................................................................................41 Nota redazionale.......................................................................................43 Emilio Sereni Il paesaggio geologico........................................................................................45 1. Arretratezza e preistoria ligure...........................................................49 2. Lingua e paesaggio...............................................................................54 3. Nomenclatura della montagna...........................................................60 4. Rilievo geologico e paesaggio montano............................................88 5. Basi e formanti nella nomenclatura geologica: lo sviluppo stadiale.............................................................................114 6. La natura del suolo e l’occupazione umana......................................123 7. La terra, la pietra, la storia..................................................................132 8. Idronimi e meteore. Acqua e cielo nella Liguria antica..................186 9. «I monti sun eggi»...............................................................................200 Il paesaggio vegetale.........................................................................................205 Postfazione di Gabriella Bonini La Biblioteca Archivio di Emilio Sereni.........................................................219
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Sereni e il paesaggio storico Mauro Agnoletti
La pubblicazione di questi due inediti di Emilio Sereni offre l’opportunità di osservare come in questi ultimi anni la modernità della sua opera sembri in qualche modo rinnovarsi e andare oltre i tradizionali ambiti storiografici, intrecciandosi con nuovi percorsi che riguardano la tutela del paesaggio, dell’ambiente e il modello di sviluppo del territorio rurale. Si tratta di un fenomeno recente che ha a che fare con una riflessione in corso sulla sostenibilità dello sviluppo, ma che affonda le sue radici nella storia del nostro paesaggio. Dare conto di tutte le interrelazioni che legano in modo transdisciplinare il paesaggio, inteso come sviluppo storico dei processi sociali, economici e ambientali, che ne hanno determinato l’odierna struttura e il suo rapporto con la società, è un compito particolarmente difficile. Si tratta però di un tentativo a cui non vogliamo sottrarci, accettando il rischio di risultare insufficienti, anche per cercare di porre questi scritti inediti curati da Carlo Alberto Gemignani in una luce diversa, rispetto alle riflessioni che periodicamente sono apparse sulla vita e sull’opera di Sereni. Sarebbe infatti riduttivo ritenere estranea a un dibattito su Sereni una riflessione su come la cultura di un paese, la sua politica e sue le leggi si siano poste rispetto ai temi trattati nelle sue opere. Una parte della modernità delle opere di Sereni è data dal fatto che il paesaggio rurale di cui egli parla non è solo rinvenibile nelle fonti da lui investigate, ma è in parte ancora oggi presente in tante parti del paese. Si tratta di un fenomeno attribuibile a quello sfasamento fra serie storiche e serie logiche, spiegato dall’antropologo francese Leroi Gourhan per la storia delle tecniche. A fronte di progressi avvenuti secondo successioni temporali legate alla storia delle innovazioni tecnologiche, nel paesaggio troviamo ancora forme caratterizzate da una persistenza storica plurisecolare, legate a funzioni biologiche e produttive più o meno immutate, caratterizzate da una lenta evoluzione. La semplice operazione di potatura di un olivo, o il taglio di un bosco, che hanno mantenuto inalterata la motivazione produttiva, sono realizzate spesso con modalità ed attrezzature che 7
per secoli non hanno subito modifiche, conservando così le forme del paesaggio, mentre in altre l’intervento di nuove tecnologie le ha profondamente modificate. Grazie a questo sfasamento, i paesaggi descritti da Sereni sono ancora studiabili dallo storico che, oltre a considerare documenti di archivio e testi a stampa, voglia osservare dal vero l’oggetto di studio. Allo stesso tempo tali paesaggi forniscono altrettanti modelli su cui misurare gli effetti delle politiche di tutela e di sviluppo del territorio rurale. Sebbene i due titoli possano ingannare, i due saggi proposti in questo volume sono figli della stessa visione. Anche nel paesaggio geologico, in cui si parla esplicitamente del suo processo di umanizzazione, l’idea di un uomo che imprime le forme alla base naturale e la continua relazione con il processo di civilizzazione, rafforzano la prospettiva offerta da Sereni riguardo alla comprensione del rapporto fra la cultura e ciò che consideriamo naturale. Il panorama dell’Italia preromana offerto nei suoi scritti conferma un’Italia intensamente coltivata, prima ancora della progressiva estensione dell’agricoltura avvenuta nel periodo repubblicano, interessando sempre di più anche i boschi. Si tratta di una forte impronta antropica che subisce un regresso nel basso impero, poi amplificata dalle dominazioni barbariche e nell’alto medioevo, a cui segue una inversione di tendenza con la rinascita dell’agricoltura in età comunale. Non è casuale che la più nota ed efficace rappresentazione del “bel paesaggio italiano” sia considerata l’allegoria del buon governo del territorio, affresco realizzato da Ambrogio Lorenzetti nel 1337-38, da leggersi sempre in parallelo con quella del “cattivo governo del territorio”, presente nello stesso palazzo pubblico di Siena, chiaramente rivolto a rappresentare le devastazioni dovute alle guerre e il ritorno della natura selvaggia, in opposizione al paesaggio ordinato frutto del buon governo. Si tratta dello stesso paesaggio coltivato che viaggiatori quali Michel De Montaigne nel 1485 osservano durante il loro soggiorno in Italia. Si tratta di una linea interpretativa abbastanza coerente e condivisa da una folta schiera di intellettuali e borghesi, da Stendhal a Goethe, da Dickens a Lear, che visitano l’Italia, almeno fino ai primi decenni del diciannovesimo secolo, il cosiddetto “Grand Tour”. Sono descrizioni spesso minuziose, che colgono non solo i caratteri distintivi del paesaggio agrario e forestale, ma che pongono l’Italia sicuramente come modello di un paesaggio che in gran parte assomma due fondamentali qualità: l’utilità produttiva e la bellezza. Questa lettura del nostro paese, che gli scritti di Sereni sostanzialmente ripropongono al lettore, subisce una significativa interruzione durante il diciannovesimo secolo. Si può cogliere meglio il mutamento in corso osservando ciò che avviene nel settore forestale. Questo era fino ad allora dominato dalla cultura forestale tedesca, che dalle meisterschule degli Jagër, il corpo dei cacciatori 8
che gestiva le grandi foreste della nobiltà feudale germanica, aveva da tempo mutato i suoi obiettivi consegnando ai cameralisti, il corpo degli amministratori, la gestione forestale, ormai indirizzata verso la produzione di legname e uno sfruttamento delle foreste orientato alla massimizzazione del reddito. Questa impostazione viene messa in discussione dal movimento rivolto al ritorno alla natura che attraversa l’Europa, inizialmente per merito di forestali come Gayer, Biollet e Gournaud, ma che viene promossa da intellettuali come Thoreau negli Stati Uniti, considerato il vero precursore della conservazione della natura, ma soprattutto da un altro statunitense, John Perkins Marsh. Marsh fu ambasciatore degli USA in Italia per venticinque anni e morirà a Vallombrosa nel 1864, un luogo molto significativo, sede dell’omonimo monastero vallombrosano, ordine minore benedettino e della prima scuola forestale italiana fondata nel 1869. Marsh scrive in quegli anni il suo testo più famoso, Man and Nature, considerato oggi un pietra miliare dell’ambientalismo, dagli storici dell’ambiente. Il libro tratta essenzialmente del degrado della natura operato dall’uomo. Il titolo inizialmente proposto all’editore era Man. The disturber of nature harmony. All’editore Charles Scribers, che chiedeva se non pensava che invece l’uomo operasse in armonia con la natura, Marsh risponde semplicemente: no. Si tratta di un personaggio politicamente molto influente, che partecipa attivamente al dibattito sulle prime leggi forestali nazionali e che in discontinuità con i viaggiatori dei secoli precedenti non esalta in modo particolare il paesaggio coltivato che caratterizzava l’Italia, ma al contrario sottolinea la distruzione dei boschi e l’esigenza di riforestare. Con l’inizio del secolo ventesimo, si ha il progressivo affermarsi delle scienze ecologiche, grazie a Clemens e alla sua famosa teoria del “climax” nel 1916, passando poi da Tansley che definisce il termine ecosistema, a cui seguono nel secondo dopo guerra altri studiosi statunitensi quali Odum e Witthaker che portano al definitivo affermarsi delle scienze ecologiche, sostenuti da autori come Aldo Leopold e Rachel Carson, la quale mette definitivamente in luce gli aspetti negativi dell’opera dell’uomo in campo agricolo. La teoria del climax, prendendo come punto di riferimento ideale per un ecosistema in equilibrio i boschi naturali di alto fusto, verso cui la gestione ecologica dovrebbe tendere, assegna inevitabilmente un ruolo negativo ad altre forme di gestione di valore storico quali quelle descritte da Sereni. Una importante eccezione a queste visioni, sicuramente minoritaria, è rappresentata dal geografo americano Carl Sauer che nel 1925 definisce i paesaggi culturali, spiegando come essi siano il risultato dell’opera dell’uomo, considerato l’agente modificatore della base naturale. Si tratta di una definizione simile a quella presente nella storia del paesaggio agrario “le forme impresse dall’uomo alla base naturale..”, ma della quale non si trovano accenni nelle opere di Sereni.
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La nascita dell’ecologia e l’idea di degrado di un ideale stato naturale operata dall’uomo, benché in parte motivata da effettivi fenomeni a scala planetaria che caratterizzano il cosiddetto “secolo breve”, presentano un doppio approccio, scientifico e di pensiero, che relega in una posizione marginale, nel migliore dei casi, il paesaggio coltivato che contraddistingueva sia l’immagine dell’Italia nel mondo, sia l’assieme dei valori associati all’agricoltura. Si inizia così una lenta sostituzione dei punti di riferimento scientifici e di pensiero rappresentati dal paesaggio agricolo. L’inizio del ventesimo secolo è anche il periodo storico in cui l’azione di tutela si sviluppa nei corpi dello Stato e prende forma attraverso numerosi interventi legislativi. Il periodo è segnato dal passaggio da una visione liberista, che aveva caratterizzato le politiche ambientali dello Stato post unitario, rivolta a limitare l’intervento pubblico in materia di sistemazione dei bacini montani e rimboschimento, ad un più forte intervento statale. Dalla legge forestale del 1877 e da quella sui rimboschimenti del 1883, che vedeva solo una compartecipazione dello Stato in termini economici, assieme ai comuni e ai consorzi di rimboschimento, si passa alla istituzione della Azienda di Stato delle Foreste Demaniali nel 1910 ad opera del Presidente del Consiglio Luigi Luzzatti. La legge afferma il ruolo prioritario dello Stato nella difesa del paesaggio montano e nella gestione del patrimonio forestale. Nel primo dopoguerra il tema della tutela, associato alla gestione attiva del bosco, trova accoglimento nella legge del 1923, ancora oggi uno dei pilastri fondamentali del nostro ordinamento giuridico. Questa legge opera, attraverso l’imposizione del vincolo idrogeologico che tutela tutti i boschi e attraverso l’attivazione dei piani di gestione forestale rivolti alla loro utilizzazione economica. L’evoluzione concettuale e normativa si completa con la legge sulla Bonifica integrale del 1933 proposta da Arrigo Serpieri nella quale si cerca di risolvere ed integrare il dualismo fra le necessità della popolazioni di montagna, in particolare quelle legate al pascolo, con quelle del mantenimento del bosco per assicurare la sicurezza delle pianure e la regolazione idraulica dei bacini montani. Siamo negli anni in cui lo sforzo dello Stato di rimboschire le montagne e tutelare i nuovi boschi ottiene scarso successo con poche decine di migliaia di ettari rimboschiti dal 1877 al 1910 e l’istituzione di una milizia forestale durante il fascismo, per perseguire con le armi il tentativo delle popolazioni montane di opporsi alle politiche di rimboschimento che, all’inizio del secondo conflitto mondiale, arriveranno ad appena 192.000 ha. Siamo ancora nel periodo che vede una vera “migrazione” della popolazione verso le montagne, sulle quali da cinque milioni si passa ad otto milioni di residenti e in cui i “debbi” e i “ronchi” citati da Sereni sono tecniche largamente utilizzate per la messa a coltura dei terreni. Testimoni di questo processo di “agrarizzazione” della montagna sono i dati catastali che spiegano come in soli 1000 ettari di terreni 10
nell’Appennino settentrionale si possano trovare fino a 80 usi del suolo diversi, con varietà di paesaggio spesso superiore a quanto riscontrabile nelle pianure. È in questo fondamentale periodo storico che fa la sua apparizione anche il tema della tutela del paesaggio e dei beni culturali, prima con le legge proposta da Benedetto Croce nel 1922 e poi con la legge Bottai del 1939. La difesa del paesaggio presente nella Costituzione della Repubblica di Weimar nel 1919 influenza sicuramente Benedetto Croce, anche se al riguardo la legge non andava oltre la protezione delle “bellezze panoramiche”. Combinando un testo di legge permeato da una visione naturalistica con l’interpretazione del paesaggio come “quadro naturale” della legge Bottai e della legge 1497, sempre del 1939, dalla quale scaturisce il concetto di vincolo paesaggistico a cui ancora oggi fa riferimento una buona parte della normativa di tutela, non si può non osservare il mancato riconoscimento della natura sociale ed economica del paesaggio. D’altra parte, a quale corrente di studio avrebbero potuto rivolgersi filosofi come Croce, o personalità come Bottai, ministro dell’educazione nazionale del tempo, per proporre una visione diversa? Mancava evidentemente una reale considerazione del valore del paesaggio rurale maturata se non dalla storia nazionale, almeno attraverso la lettura dei resoconti del Grand Tour. La storia dell’arte, che tanto stava a cuore a Croce, non aveva suscitato approfondimenti legati ai paesaggi agrari raffigurati da Lorenzetti, Gozzoli, Leonardo, Botticelli, o Cima da Conegliano. D’altra parte nella Cappella di Gozzoli in Palazzo Medici Riccardi fino ad alcuni anni fa nella ricca letteratura sulla sua Cavalcata dei Magi mancava del tutto la narrazione dello straordinario paesaggio agrario rappresentato dall’autore. Come Sereni stesso spiega nella sua introduzione alla storia del paesaggio rurale, in quel periodo i riferimenti storiografici potevano trovarsi al di fuori dell’Italia, nella scuola francese delle Annales e negli scritti di Marc Bloch, ma certo questi non fornivano alcuna lettura del paesaggio agrario in chiave di tutela. Erano l’ambiente e la natura l’oggetto principale della tutela, come dimostrano le leggi citate e la nascita dei primi parchi nazionali fra il 1921 e il 1935. Nel secondo dopoguerra, dove si collocano la maggior parte degli scritti più noti, l’ambiente storiografico italiano è ancora poco interessato al paesaggio agrario. Al di là delle Annales, forse nella Forst Geschichte e nella Wald Geschichte proposta da Von Hornstein nel 1951, troviamo, in particolare nella seconda, una considerazione delle relazioni fra attività antropiche e bosco che possono in qualche modo avvicinarsi al modello interpretativo sereniano, ma che pare difficile affiancare anche ai lavori di Duby e Braudel. È in questi anni che in Italia inizia lo spopolamento delle campagne, più repentino nella montagna appenninica, che porterà nel giro di qualche decennio alla perdita di importanza economica dell’agricoltura ed alla crescita delle classi 11
operaie e della borghesia cittadina. Sereni è testimone del processo in corso, ma forse non ne coglie pienamente alcuni degli effetti. Uno dei risultati è il successo delle politiche di rimboschimento, grazie alla legge sulla montagna del 1952 proposta da Amintore Fanfani, che con circa 800.000 di rimboschimenti realizzati nei decenni successivi impone finalmente un paesaggio di stato sul precedente paesaggio sociale, sostanzialmente per il venire meno delle esigenze primarie delle popolazioni montane ormai scese verso la pianura. La nuova migrazione verso le città si riflette in modo decisivo sulla percezione del paesaggio e dell’ambiente della popolazione; nascono movimenti ambientalisti di chiara matrice urbana, espressione di fenomeni ormai globali che porteranno alla marginalizzazione delle classi contadine. Dal punto di vista delle politiche di tutela, i decenni del dopoguerra, con le attività del Club di Roma, la Stockholm Declaration del 1972, seguita dal Brundtland report del 1987, segnano ormai l’affermarsi del concetto di sostenibilità sempre più rivolto alla conservazione della natura e dell’ecosistema. La stessa convenzione UNESCO del 1971, punta alla protezione dei valori naturali e culturali, ma i secondi sono solo abbinati a monumenti, non al paesaggio rurale. Non casualmente il paesaggio appare solo nel documento operativo Agenda 21, prodotto durante la conferenza delle Nazioni Unite su Environment and Development del 1992. I paesaggi culturali, vengono anch’essi inseriti nella convenzione UNESCO nel 1992, ma non c’è traccia della parola agricoltura nella definizione delle tre categorie UNESCO in cui vengono classificati e in cui attualmente sono ospitati i paesaggi agricoli. In ambito storico, mentre la storia ambientale sviluppatasi in nord America ed in nord Europa negli anni ’90 propone con forza la visione degradazionista, riguardo agli effetti dell’opera dell’uomo sull’ambiente, solo approcci quali l’ecologia storica e quanto scritto sui paesaggi tradizionali dal Mark Antrop nel 1997 possono proporsi come una alternativa a tali visioni, assieme al lavoro del botanico inglese Oliver Rackham. Antrop descrive i paesaggi tradizionali come quei paesaggi che sono presenti in un determinato territorio da lungo tempo, anche molti secoli, e che risultano stabilizzati o evolvono molto lentamente nel tempo; ad essi Antrop assegna un ruolo ed un significato storico. In Italia, in questi anni, sono soprattutto le ricerche del gruppo di Diego Moreno a Genova, per quanto riguarda la storia dell’agricoltura e dell’ambiente, e di Piero Piussi a Firenze per la storia forestale che riprendono l’eredità di Sereni con numerosi articoli sulla rivista Quaderni Storici a testimoniare l’attenzione a nuove fonti e metodi della ricerca storica. Come però scrivono Moreno e Raggio nel numero 100 dei Quaderni, pubblicato nel 1999, l’eredità di Sereni è considerata come “minore” proprio perché nessuna delle sue intuizioni di ricerca aveva avuto un grande seguito fino ad allora. 12
Trasferendo queste riflessioni dalla ricerca agli strumenti di tutela di quel periodo, il giudizio degli autori non può che essere confermato. A livello europeo non vi sono iniziative sul paesaggio, la direttiva Habitat del 1992 impone invece l’identificazione e la salvaguardia degli habitat naturali in tutto il territorio Europeo e l’Italia si è subito adeguata all’idea di rintracciare habitat naturali, scientificamente quasi inesistenti in un paesaggio antropizzato da secoli, portando oggi al 20% la quota di territorio rurale protetta e gestita come “naturale”. Il decreto Galasso del 1985 ed il testo unico del 1999 sulla tutela dei beni paesaggistici ed ambientali estendono la conservazione di tutto ciò che viene definito come “beni tutelati per legge” anche agli aspetti naturali. Quindi, oltre a ville, giardini palazzi e alle “bellezze panoramiche considerate come quadri”, già tutelati, l’articolo 146 include ora anche le cime delle montagne, i fiumi, le coste, le foreste, le aree protette. Non sorprende che il risultato di tale visione statica del paesaggio, in particolare per i boschi, si applichi automaticamente alla riforestazione che avviene sui terreni agricoli e sui pascoli abbandonati che, una volta riguadagnati al bosco per l’evoluzione naturale, sono sigillati dal sistema dei vincoli. Un aspetto interessante, se pensiamo che dal dopoguerra a oggi, lungi dall’andare incontro ai fenomeni di desertificazione o deforestazione spesso annunciati, i boschi italiani sono passati da quattro a quasi dodici milioni di ettari, mentre sono stati abbandonati circa dieci milioni di ettari di aree coltivate. La mancanza di qualsiasi tipo di preoccupazione da parte degli organismi di tutela per questi effetti della normativa, assieme ad una opinione pubblica sostanzialmente urbana, dominata da una percezione positiva del processo di riforestazione, è del tutto coerente con le dinamiche storiche fin qui descritte e con l’assenza dell’insegnamento di Sereni nella cultura degli estensori delle leggi. Si tratta di una disgregazione del paesaggio rurale non più operata dalle invasioni barbariche, ma dai cambiamenti socioeconomici e dalla perdita di memoria storica circa l’identità culturale del nostro paese. Non diverso, peraltro, è l’approccio dal testo del 2004, noto come Codice dei Beni Culturali nel quale le stesse categorie sono riproposte senza alcun accenno ai paesaggio rurali, salvo nell’articolo 149 dove si afferma che le attività agro-silvopastorali che non comportano alterazione dello stato dei luoghi non richiedono autorizzazione paesaggistica. Una sorta di eccezione, o meglio un’esenzione dalla burocrazia autorizzativa, offerta ad attività che in realtà sono state alla base della costruzione del 90% del paesaggio italiano. L’assenza di tale categoria, o di un’attenzione per il paesaggio rurale come prodotto della cultura agricola, si riflette perfettamente nelle interpretazioni del codice da parte di alcune Soprintendenze ,come avvenuto in Sardegna pochi anni fa. Alla ripresa della ceduazione dei boschi nell’area del Marganai, sottoposta a vincolo paesaggistico, la competente soprintendenza ha infatti reagito inviando una notifica di infrazione al codice, tramite le forze dell’ordine, per l’evidente trasformazione permanente dello stato dei 13
luoghi apportata dai tagli. Ignorando, volutamente o meno, che il bosco vincolato era un ceduo già al momento dell’imposizione del vincolo e che la ceduazione non elimina il bosco, ma opera un periodico prelievo della produzione legnosa, oltre ad essere la forma storicamente più diffusa di gestione forestale nel nostro paese. Appare quindi logico come l’unico grande tema che ha unito in questi anni gli strumenti di tutela, gli ambientalisti, i beni culturali e la fascia di popolazione più attenta a questi problemi, sia il consumo di suolo. La riduzione del consumo di suolo e la conservazione della natura sembrano infatti condensare al loro interno tutti i problemi del paesaggio italiano. D’altra parte, tutelare un paesaggio rurale vedendolo come risultato di processi economici e sociali, secondo l’insegnamento di Sereni, richiederebbe il superamento del concetto del vincolo e l’assunzione della responsabilità di intervenire sul modello di sviluppo. Nonostante questo quadro piuttosto pessimista sul recepimento dell’eredità di Sereni, negli ultimi anni si assiste allo sviluppo di iniziative che stanno lentamente modificando la situazione e non poteva non essere l’agricoltura il luogo in cui tale cambiamento doveva e poteva iniziare. Con il Piano Strategico di Sviluppo Rurale 2007-13 viene infatti introdotto per la prima volta nella storia dell’Italia repubblicana il paesaggio come obiettivo del modello di sviluppo agricolo del paese. La riflessione che ha portato a tale scelta ha a che fare con la mancanza di competitività della nostra agricoltura, che evidenzia il fallimento della visione industrialista degli anni 60’ e 70’. L’arrivo della globalizzazione ha infatti messo fuori mercato il tentativo di puntare solo su produzioni basate su bassi costi e alta produttività unitaria, rendendo chiaro come la nuova frontiera, forse l’unico ambito di competitività rimasto all’Italia, sia la qualità. Tale obiettivo può dirsi in parte raggiunto tramite il grande sviluppo delle denominazioni di origine e del biologico di cui l’Italia detiene il primato, ma ha avuto come effetto collaterale lo stravolgimento degli assetti paesaggistici, come nel caso di molte DOCG del vino. La sola qualità organolettica non è più sufficiente ad affermarsi sui mercati se non abbinata alla qualità del paesaggio e alla valorizzazione turistica delle aree rurali. Una operazione del genere doveva poi trovare nell’ambito ambientale modelli diversi che proponessero l’agricoltura come perno di un nuovo modello di biodiversità, definibile come bioculturale, risultato della coevoluzione storica fra ambiente e uomo. Questo pone l’agricoltore al centro del sistema e non più come un fattore di disturbo rispetto alle specie vegetali e animali più consone a territori realmente naturali e non modellati dalla storia. Le dotazioni finanziarie delle politiche agricole sono oggi sufficienti a fare accadere molte cose nel territorio rurale, oltre a valere quote pari ad oltre il 25% del valore della produzione lorda dell’agricoltura. Le trasformazioni indotte dai diversi 14
tipi di contributo offerto dalla PAC hanno portato a sensibili trasformazioni nel paesaggio rurale; il problema, quindi, non è la mancanza di risorse, ma piuttosto la individuazione di modelli di paesaggio adeguati a rispondere alle nuove visioni e alle nuove esigenze. Sicuramente non possono essere i paesaggi industriali e ancor meno quelli risultanti dai processi di abbandono e rinaturalizzazione i modelli presi a riferimento, ma piuttosto quelli legati all’identità culturale delle tante e diverse zone agricole del paese. In questo senso il riferimento ai paesaggi definibili come tradizionali o storici è sembrata la scelta migliore da proporre alle regioni italiane. Il risultato dello sforzo operato dal piano, giudicato con la valutazione dell’inserimento del paesaggio nei programmi di sviluppo rurale regionale, è stato però insoddisfacente. L’impressione complessiva è la mancanza di una conoscenza dei caratteri identitari dei paesaggi agricoli, forestali e pastorali, presenti nelle varie regioni d’Italia, quindi di una carenza culturale. Sono questi sostanzialmente i motivi che hanno portato alla necessità di avviare un’indagine per la realizzazione del Catalogo Nazionale dei Paesaggi rurali storici, un lavoro scientifico rivolto all’identificazione di diverse tipologie di paesaggio storico presenti in tutte le regioni italiane: centoventi sono i paesaggi individuati distribuiti in tutte le regioni. Il punto di partenza, come riferimento per l’indagine, non poteva infatti essere che il lavoro di Sereni, al quale idealmente ci si voleva riallacciare creando una continuità con la sua opera. L’alberata tosco-umbro-marchigiana, la vite ad alberello, i pascoli arborati, insieme a tanti altri paesaggi descritti nella storia del paesaggio agrario, hanno rappresentato alcune delle ispirazioni principali per i ricercatori. Quell’indagine è oggi stata trasferita nel Registro nazionale dei paesaggi rurali di interesse storico e delle pratiche agricole tradizionali, istituito tramite un decreto del Ministero delle Politiche Agricole, che al momento attuale vede iscritte dodici paesaggi, ma che ha suscitato l’interesse di più di cento fra comuni ed associazioni. Come ulteriore risultato della istituzione del Registro e di una nuova visione che vede nella conservazione del paesaggio rurale storico un elemento importante per la qualità della vita, l’ISTAT ha inserito il grado di conservazione dei paesaggi storici ma, soprattutto, il grado di abbandono dell’agricoltura, fra gli indicatori del benessere della popolazione. Si tratta di una novità che consegna al paesaggio un nuovo ruolo nella società e che segna il tentativo di superare il conetto di PIL per valutare il benessere. L’azione dell’ISTAT a ben vedere ha avuto anche il merito di tentare di andare oltre il significato che oggi si assegna alla percezione del paesaggio. La Convenzione Europea del Paesaggio, portata alla firma nell’anno 2000 a Firenze e le cui indicazioni sono state incorporate sia nel codice dei beni culturali sia negli indirizzi sul paesaggio delle politiche agricole, definisce il paesaggio come una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione 15
di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni. Si tratta di un testo che, se ha il merito di assegnare a un processo democratico il compito di definire il paesaggio e la sua tutela, è chiaramente legato alla percezione di una popolazione che oggi per il 95% vive in aree urbane. Ciò significa che i cittadini italiani, a cui la Convenzione assegna il ruolo principale, sono in maggioranza ormai lontani dal territorio rurale e dall’agricoltura. Al contrario, i mezzi di informazione e la forte impronta ambientale delle politiche di tutela hanno contribuito a sviluppare una percezione che porta a considerare come “natura” quello che invece è un prodotto culturale. In questo senso il lavoro di Sereni, anche se in parte trasferito nelle politiche, è ancora un messaggio compreso da una minoranza di pubblico e di amministratori. Un lento cambiamento è comunque osservabile anche in organismi quali le Nazioni Unite. Il nuovo programma FAO sulla conservazione del paesaggio agrario denominato GIAHS (Globally Important Agricultural Heritage Systems), rispetto all’UNESCO, è decisamente orientato alla conservazione della cultura agricola, delle pratiche agricole tradizionali e della diversità bioculturale. Sebbene l’Italia sia recentemente entrata come paese partner del programma, è sintomatico che il paese più importante per lo sviluppo di questa nuova visione sia la Cina e che grazie ad essa ed al Giappone i siti agricoli iscritti fino ad oggi nel programma siano quarantasette, poco meno dei paesaggi culturali dell’UNESCO. La novità di questo programma è sicuramente l’intenzione di conservare i paesaggi agricoli tradizionali e l’approccio di Sereni è particolarmente utile alla comprensione di gran parte dei valori associati al programma. Anche nell’ambito della Convenzione per la Biologica delle Nazioni Unite, sia il settore delle conoscenze tradizionali, sia l’attività del programma comune fra CBD e UNESCO sui legami fra diversità biologica e culturale, hanno aperto la strada alla dichiarazione di Firenze sulla diversità bioculturale. Questa propone un esplicito richiamo al territorio rurale europeo visto come un prodotto bioculturale e quindi anche come un modello di biodiversità associato alle pratiche agricole di lungo periodo. Significativo, in tale contesto, appare poi la presentazione, all’interno dell’ultima conferenza sul clima di Bonn del 2017, dei paesaggi tradizionali e dei paesaggi storici italiani. In tale occasione essi sono stati presentati come esempi che rispondono all’esigenza di contribuire alla mitigazione e all’adattamento ai cambiamenti climatici, di cui è fatto oggetto tutto il settore agricolo da tempo considerato come uno dei maggiori responsabili del riscaldamento del clima. Si tratta, anche in questo caso, di un significativo cambiamento di atteggiamento dell’UNCFCC, le cui implicazioni future sono ancora da capire, ma che portano una nuova attenzione allo studio di questi sistemi, anche da parte delle discipline scientifiche. Il problema è comprendere sistemi agricoli non formalizzati all’interno dei testi scientifici, ma di cui sono depositarie le popolazioni locali, necessariamente da studiare anche attraverso l’indagine storica. 16
In questi ultimi anni altri strumenti di governo del territorio come i Piani Paesaggistici, che tutte le regioni devono realizzare in osservanza al Codice dei Beni Culturali, rappresentano un altro ambito dove sperimentare questo nuovo approccio. Il caso della Toscana, dove è stato realizzato il primo piano paesaggistico, è piuttosto esemplare dell’evoluzione in atto. Mentre la lettura del territorio agricolo è stata piuttosto approfondita, prendendo atto delle pratiche agricole e dei paesaggi storici, la lettura del paesaggio forestale è rimasta carente rispetto alla sua matrice storica. Tipiche conseguenze di questo problema, solo a titolo di esempio, sono le descrizioni delle macchie di arbusti delle coste toscane. La loro genesi è stata ben spiegata da Sereni che le ha legate alle pratiche del fuoco e del pascolo, il cui uso era quasi sempre destinato alla produzione di fascine per le fornaci da mattoni, calce, pane ecc., tramite ceduazioni a turno breve. Nel piano toscano sono invece state interpretate come cenosi naturali da sottoporre a conservazione integrale. Si tratta di un problema non solo italiano, ma che si ripropone a scala internazionale anche nel piano di azione forestale europeo. Curiosamente, rispetto ai tre pilastri internazionali della gestione forestale sostenibile, ecologico, economico e socioculturale, il terzo pilastro è rimasto quasi completamente disatteso, anche in un paese come il nostro. Si tratta di un ambito ancora molto difficile da affrontare, anche se la nuova legge forestale in qualche modo accenna a tali valenze. Certamente l’eredità di Sereni non è ancora riuscita a promuovere risultati significativi per il paesaggio forestale rispetto al paesaggio agricolo, il quale rappresenta ancora una frontiera da conquistare. In conclusione, considerando nel loro complesso gli scritti di Sereni, alla luce degli sviluppi degli ultimi anni, possiamo osservare che il loro contributo è andato oltre la sola conoscenza del paesaggio agrario e la valorizzazione del ruolo dell’agricoltura nella storia del paese. Se infatti Cesare De Seta nella Storia d’Italia di Einaudi ricorda che la geografia della nostra penisola ci ha costretto ad essere una nazione prima ancora delle sue vicende storiche, sicuramente è l’agricoltura l’attività economica che in modo più pervasivo e persistente ha modellato la penisola, fornendo un denominatore comune a gran parte della popolazione. Oggi il paesaggio agrario storico viene lentamente riconosciuto, almeno da una parte delle politiche nazionali, come un valore economico, culturale e sociale, un esito a cui forse Emilio Sereni stesso non aveva pensato.
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Introduzione Carlo A. Gemignani
Genti e paesaggio liguri negli scritti di Sereni dei primi anni Cinquanta Il paesaggio geologico e Il paesaggio vegetale sono i titoli che Emilio Sereni (Roma, 3 agosto 1907 – 20 marzo 1977)1 attribuisce a due dattiloscritti rimasti inediti dedicati alla ricerca delle tracce linguistiche che, «all’epoca della conquista e della romanizzazione», ancora testimoniavano antichissime relazioni produttive formatesi fra comunità umane originarie e ambiente naturale. Questa ricerca si svolge in un’area specifica: la «grande Liguria» protostorica, una regione dai confini molto dilatati (l’attuale regione fino a Nizza, comprendente gran parte della Provenza, della Lombardia e del Piemonte, l’Appennino ligure-emiliano, quello lombardo, le Alpi Apuane e la Lunigiana)2 già definita da una significativa catena 1 Per un inquadramento biografico della complessa figura umana, politica e scientifica di Emilio Sereni rimando alle note curate da Giorgio Vecchio sul sito dell’Istituto Alcide CerviBiblioteca-archivo “Emilio Sereni” (http://www.istitutocervi.it/2014/03/18/emilio-sereni/) e al saggio di Massimo Quaini (2011b) curato in occasione del cinquantenario dell’opera più famosa pubblicata da Sereni: Storia del paesaggio agrario italiano (1961). Per ricostruire seppur sommariamente le vicende biografiche dell’autore negli anni riconducibili alla stesura dei testi che qui ci interessano, un significativo aiuto mi è stato fornito Anna Sereni, che ringrazio sentitamente, durante i colloqui avuti sia telematicamente sia dal vivo e grazie al testo dell’intervento da lei presentato in occasione della Summer school Emilio Sereni 2017: Paesaggio, patrimonio culturale e turismo (http://www.istitutocervi.it/2017/01/17/summer-school-emiliosereni-2017-paesaggio-patrimonio-culturale-e-turismo/). A Giorgio Vecchio vanno i miei ringraziamenti per le preziose informazioni fornitemi, anche riguardo l’analisi delle agende personali di Emilio, ancora in parte conservate in famiglia. Ringrazio Giovanna Bosman della Fondazione Gramsci per l’aiuto nella consultazione e riproduzione delle fonti romane. Paolo Rinoldi e Luca Di Sabatino per la revisione delle parti più strettamente linguistiche dei due inediti. A Luisa Rossi devo il consueto grazie per la verifica globale del lavoro e i preziosi consigli scientifici. Un sentito ringraziamento va a Gabriella Bonini e Emiliana Zigatti che mi hanno affiancato in tutte le fasi del lavoro, compresa la cura editoriale del volume. 2 Maggi (2004, p. 35), ricorda come oggi «il termine “grande Liguria” vuole indicare l’area che 19
di studi in base a criteri storico-geografici, legati alla presenza etnica dei liguri e dei celto-liguri e delle tracce delle strutture comunitarie da essi elaborate ancora distinguibili, attraverso un’attenta analisi delle fonti linguistiche, toponomastiche, bibliografiche, iconografiche, archeologiche e di terreno, all’interno del “processo di territorializzazione” romano3. La grande Liguria sarà anche protagonista di uno dei saggi più complessi ed eruditi dello storico del paesaggio e delle istituzioni agrarie: Comunità rurali nell’Italia antica, pubblicato nel 1955 ma già in fase notevolmente avanzata nel 19514. Questo volume riporta la trascrizione integrale dei due testi citati in apertura, oggi conservati in originale a Roma presso la Fondazione Gramsci, all’interno della sezione intitolata Scritti Liguria dell’archivio Sereni5. Il primo (Il paesaggio geologico) è composto da 214 pagine comprendenti anche 402 note. Il secondo (Il paesaggio geologico), molto più incompleto, da sole 21 pagine e 34 note. Numerose fra queste risultano indicate dall’esponente ma sono prive di testo. Particolare degno di nota è il fatto che Sereni, spesso in prossimità di una nota incompleta, ha inerito appunti scritti a mano (purtroppo non sempre riconducibili puntualmente alle note stesse) sul retro di piccoli fogli a strappo di un calendario del 1951. Entrambi i saggi sono stati rivisti in più punti dall’autore che ha provveduto ad aggiungere a mano le numerose citazioni dai testi greci classici, a correggere i refusi, ad aggiungere parole per meglio precisare i concetti espressi. I riferimenti bibliografici più recenti, elementi utili per la datazione del lavoro, si attestano al 1950. l’archeologia delinea come “protoligure” nella seconda parte dell’età del Bronzo (oltre alla “piccola Liguria” attuale, almeno la Provenza, il Piemonte a sud del Po, l’Appennino ligure-lombardotosco-emiliano), perciò di estensione geografica più ristretta di quella intesa da Sereni». 3 Sul “ligurismo” si veda Grendi, 1996, pp. 45-50, 61-66 e 77-95; Raggio, 2004; Piccioli, 2007; Quaini, 2007. 4 L’8 ottobre del 1951 il volume è completo. Ce lo ricorda lo stesso Sereni in una nota della sua agenda (Vecchio, 2015, p. 10) e in una lettera scritta a Giulio Einaudi il 10 ottobre dello stesso anno (Giardina, 1996, p. 695, n. 7; Sereni, 2011, pp. 202-205). 5 Esistono due “archivi Sereni”, il primo, dedicato alla conservazione dei materiali riconducibili prevalentemente al “Sereni storico” (compresa la ricchissima biblioteca), si trova custodito nella sede dell’Istituto Cervi a Praticello di Gattatico (RE), all’interno della Biblioteca-Archivio Emilio Sereni; il secondo, quello del “Sereni politico”, che riguarda in massima parte (ma non completamente) la documentazione relativa all’attività di dirigente del PCI e di parlamentare, è affidato alla custodia dell’Istituto Gramsci di Roma. Qui la famiglia ha continuato a versare materiali ben oltre la morte dello studioso, avvenuta nel 1977. La separazione è concettualmente artificiosa. Qualsiasi ricerca su Sereni impone la frequentazione di entrambe le sedi di conservazione. Infatti è nell’archivio romano che ritroviamo fonti preziose per ricostruire il complicato percorso scientifico ed editoriale del “Sereni storico”, soprattutto quelle legate alla genesi delle due opere più corpose: Comunità rurali nell’Italia antica e Storia del paesaggio agrario italiano. 20
Il paesaggio geologico e Il paesaggio vegetale sono collegabili anche ad altri dattiloscritti mai pubblicati (cfr. tab. 1), esito di un più vasto “cantiere” scientifico attivato da Sereni attorno al tema storico del rapporto città-campagna, Tutti rivelano come lo stesso saggio sulle Comunità rurali nell’Italia antica non nasca «come si potrebbe intendere dalle dichiarazioni dell’autore, come parte di un ciclo concepito originariamente come tale, ma da svolgimenti dell’indagine e da successivi spostamenti del fulcro di interesse» (Giardina, 1996, p. 698). I due dattiloscritti in oggetto sono identificabili come capitoli di una più corposa e incompleta monografia e, come si evince, ad es., dalle pp. 89, 306, 318, 437, 439, 440 di Comunità rurali, sarebbero dovuti confluire in un volume autonomo intitolato Genti e paesaggio nella Liguria antica; quest’ultimo avrebbe avuto come oggetto specifico lo studio dei processi di “addomesticazione” dell’ambiente naturale della grande Liguria ai fini di un suo progressivo utilizzo agricolo e produttivo6. Grazie alle brillanti intuizioni e alla straordinaria conoscenza delle fonti, anche con i testi qui trascritti, Emilio Sereni ha indicato agli studiosi contemporanei (non solo archeologi, storici, urbanisti, naturalisti e geografi, ma anche linguisti, anctichisti, esperti di toponomastica, storici del marxismo) interessanti piste di ricerca che meritano una futura fase di verifica critica in base ai diversi campi di interesse disciplinare.
6 «Il volume sulle comunità rurali era considerato dall’autore la prima parte di un “ciclo” composto da tre opere: alla prima, avrebbero dovuto immediatamente far seguito Le tecniche agricole comunitarie e Genti e paesaggio nella Liguria antica. Nelle Comunità rurali i rinvii a questi due volumi sono molto frequenti e si precisa che essi sono “di prossima pubblicazione”, ma non furono mai pubblicati» (Giardina, 1996, p. 697). 21
Titolo del dattiloscritto
Descrizione
Il paesaggio geologico; Il paesaggio vegetale
Si tratta di un dattiloscritto senza titolo generale, composto dai due capitoli indicati, il primo di 214 pagine, il secondo di 21. I riferimenti bibliografici più recenti si attestano al 1950. L’ultima pagina del secondo capitolo contiene l’inizio di un paragrafo intitolato Vita e tecniche forestali. Come si evince ad es. dalle pp. 89, 306, 318, 437, 439, 440, di Comunità rurali nell’Italia antica (e passim nello stesso volume), nel 1955 Sereni concepiva ormai questi testi come parte di un volume autonomo indicato con il titolo Genti e paesaggio nella Liguria antica.
Tecniche forestali pastorali e agricole nella Liguria antica
Composto da 122 pagine. Anche in questo caso i riferimenti bibliografici più recenti si fermano al 1950 e, sempre facendo riferimento a Comunità rurali nell’Italia antica si deduce, come per il testo precedente, che nel 1955 Sereni concepiva ormai questo scritto come un volume autonomo intitolato Le tecniche agricole comunitarie. Lo stesso saggio è stato da Sereni parzialmente aggiornato e ha originato il successivo Vita e tecniche forestali nella Liguria antica.
Vita e tecniche forestali nella Liguria antica
Composto da 171 pagine complessive, fino a pag. 100 (p. 42 nell’originale, perché le pagine contenenti le note sono da Sereni identificate con lettere dell’alfabeto) risulta essere una versione ampliata e aggiornata del precedente. La parte successiva (numerata in originale da p. 34) riprende le pagine corrispondenti del precedente. Nel rielaborare quest’ultimo Sereni decise di trattare la materia in due scritti separati: uno sulle tecniche forestali e uno su quelle agricole e pastorali (corrispondente alla restante materia di Tecniche forestali pastorali e agricole nella Liguria antica). I riferimenti bibliografici più recenti si attestano al 1955. Nel testo si rinvia a un lavoro su Tecniche agricole e pastorali nella Liguria antica di cui non si ritrova traccia e che quasi certamente non venne intrapreso come lavoro autonomo. Il testo è stato pubblicato da A. Giardina nel 1997 (cfr. Sereni, 1997)
Tab. 1 – Dattiloscritti conservati presso la Fondazione Gramsci, Archivio Sereni, Faldone denominato “Scritti Liguria” (da Giardina, 1996)
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Il “cantiere ligure” di Emilio Sereni (1949-1951) Grazie anche al rinnovato interesse seguito al Convegno La storia del paesaggio agrario italiano di Emilio Sereni cinquant’anni dopo (Gattatico, RE, Istituto Alcide Cervi, 10-12 novembre 2011), possiamo oggi contare, oltre che sui materiali d’archivio, su alcuni recenti saggi che ci permettono di contestualizzare meglio, inscrivendolo in momenti precisi della vicenda umana di Sereni (non solo strettamente scientifica e politica), questo vero e proprio “cantiere”. Si rivelano interessanti innanzitutto le lettere spedite o ricevute da Sereni negli anni 19491951, una selezione delle quali è stata pubblicata a cura di Emanuele Bernardi (Sereni, 2011); i “taccuini”, cioè le agendine tascabili scritte a intervalli regolari dal primo dopoguerra fino alla morte7; il Diario (Sereni, 2015) nel quale ritroviamo riflessioni più intime e famigliari. Questi materiali rivelano la meticolosità di Sereni nell’annotare ogni aspetto della propria esistenza, una volontà di conservare la propria memoria che si concretizzerà poi negli archivi e nella ricca biblioteca che ci ha lasciato. Quello indicato si rivela essere un periodo complesso per Sereni, segnato da ritmi di lavoro molto intensi, viaggi spasmodici a causa dell’impegno politicoparlamentare e quello direttivo nel Comitato mondiale per la pace; sono anche gli anni funestati dalla malattia e dalla morte della moglie Xenia «“Marina” nella lotta clandestina e “Loletta” nell’intimità famigliare» (27 gennaio 1952) e dai gravi problemi cardiaci che lo costrinsero al ricovero nella casa di cura sovietica di Barvikha (Vecchio, 2015, pp. 7-11). Incrociando le informazioni provenienti dalla lettura della corrispondenza con quelle delle agende personali siamo oggi in grado, con una buona precisione, di mappare la rete dei soggetti con i quali, a partire dal 1949, Sereni instaura un rapporto finalizzato a concretizzare in un testo pubblicabile l’enorme mole di studio prodotta intorno alle comunità liguri antiche8. Le relazioni si formano tanto in campo editoriale (rapporti con Felice Balbo9, 7 Lettere e agende, tranne quella del 1952 rimasta alla famiglia, sono depositate presso la Fondazione Gramsci, Fondo Sereni. 8 Per comprendere la quantità di materiale testuale e di appunti manoscritti accumulati da Sereni intorno al tema delle comunità rurali protoliguri dalla fine della Seconda guerra mondiale basta sfogliare le numerose schedine bibliografiche e i faldoni dell’Archivio Sereni del Cervi nella sezione Note e appunti, nella quale ritroviamo corposi fascicoli individuati da titoli quali Ligures I e Ligures II, Celtoligures, Liguria, Compascua, Debbio ecc. 9 Torino, 1 gennaio 1914 – Roma, 3 febbraio 1964. Balbo, importante voce della cultura italiana della prima metà del Novecento, collaborava attivamente con casa Einaudi già da prima della guerra. Grazie a questo legame stringerà rapporti di lavoro e amicizia con Leone e Natalia Ginzburg, Cesare Pavese, Elio Vittorini. 23
Giulio Einaudi10, Paolo Serini11) quanto in campo scientifico. Quest’ultimo contesto rivela un panorama sociale piuttosto vasto che lega a Sereni a corrispondenti più strettamente accademici (Laviosa Zambotti, Ubaldo Formentini, Nino Lamboglia) e ai i più eterogenei fornitori di dati statistici, agronomici e del materiale iconografico contemporaneo che lo studioso intende confrontare con le fonti antiche: politici locali, tecnici, compagni di partito. Si tratta dello stesso metodo di lavoro che lo studioso impiegherà nella Storia del paesaggio agrario italiano del 1961. È interessante ripercorrere la costruzione di questa rete seguendo il filo cronologico della corrispondenza stessa. Il 9 maggio 1949 Sereni risponde a Luigi Bulferetti (1915-1992), allora direttore del Museo nazionale del Risorgimento, che gli prospettava la partecipazione a una miscellanea finalizzata alla redazione di un manuale di storia d’Italia Nel periodo attuale, io sto lavorando particolarmente a un lavoro, molto grosso, su “Città e campagne nell’Italia antica”. Ci sto lavorando da vari anni, e come puoi immaginare ne avrò ancora per un pezzetto: si tratta di una rielaborazione dal nostro punto di vista, di un immenso materiale archeologico, linguistico, delle fonti storiografiche greco-latine, senza contare l’immensa bibliografia successiva. Al tempo stesso sto rielaborando e sviluppando i miei lavori (che sono andati perduti) su “Classi e lotte di classe nelle campagne italiane” nel periodo della decomposizione del feudalesimo. Come vedi, non mi manca la carne al fuoco, tanto più se si tenga conto che ho parecchie altre cose da fare. Riesco, per fortuna, a lavorare molto, rubando tempo al sonno (Sereni, 2011, p. 154).
Da questo momento Sereni intesse più operativamente contatti con specialisti in materia di archeologia, agronomia, botanica, storia, etnografia. Lo studioso richiede l’invio di materiale, si informa sul proseguo delle ricerche delle quali ha notizia, chiede ragguagli, pianifica incontri. La prima figura che incontriamo (lettera datata 8 agosto 1849) è quella dell’archeologo Pietro Barocelli (1887-1981), ispettore poi soprintendente alle Antichità di Piemonte e Liguria, pioniere dell’archeologia rupestre e autore di numerosi saggi sull’insediamento ligure nel periodo della dominazione romana (Libarna, Albintimilium). Sereni è in interessato soprattutto ai lavori di Barocelli sulle epigrafi latine e sulle incisioni rupestri di Monte Bego12. 10 Sui rapporti tra Sereni ed Einaudi si veda Mangoni, 1999, pp. 618-619; Id., 2011, p. 6. 11 Vicenza, 1899 – Torino, 14 febbraio 1965. Francesista italiano, membro del Comitato di Liberazione Nazionale e collaboratore dell’editrice Einaudi. 12 Sereni, 2011, p. 160, n. 292. Su Barocelli, indicato nella missiva come Soprintendente 24
Datata 14 ottobre 1949 è invece la richiesta di una serie dettagliata di informazioni e dati indirizzata agli ispettori provinciali dell’agricoltura delle quattro provincie liguri (Oreste Fanciulli a Imperia, Mario Cacciatore a Savona, Ernesto Mastrorilli a Spezia, Giuseppe Radaelli a Genova) e di quella di Cuneo (Emanuele Ferraris)13. Questa missiva risulta particolarmente significativa perché consente di individuare, oltre all’area geografica di interesse, una prima griglia concettuale all’interno della quale Sereni intende collocare, secondo un personale “paradigma della traccia”, i materiali scientifici più recenti (i «residui storici dei metodi di coltura più antichi» e «i residui delle forme di cultura e tecniche primitive») ed estrarre le fonti utili ad analizzare: le tecniche agrarie e gli strumenti agricoli utilizzati in Liguria; l’agricoltura transumante; la nomenclatura delle specie selvatiche e forestali (poi sviluppate autonomamente in Vita e tecniche forestali della Liguria antica, cfr. tab. 1). Discorso a parte merita poi la pratica del debbio, il fuoco controllato utilizzato per mettere a coltura aree boschive o a vegetazione rada e arbustiva, analizzata poi da Sereni – oltre che in Comunità rurali – in un saggio pubblicato sulle Memorie dell’Accademia Lunigianese Giovanni Capellini (Sereni, 1953) e nel lavoro apparso postumo in Terra nuova e buoi rossi (Sereni, 1981): Sto lavorando ad una ricerca sulla storia agraria della Liguria, e particolarmente della Liguria Antica, romana e pre-romana. All’infuori delle fonti storiche epigrafiche, archivistiche, attribuisco una particolare importanza, in questa ricerca, ai residui storici dei metodi di coltura più antichi nella Liguria medievale e moderna. Mi interessano perciò particolarmente i seguenti dati: dati storici, tecnici, fotografici sul debbio nelle province liguri o adiacenti. dati analoghi sulle tecniche agrarie e sugli strumenti agricoli delle province liguri o adiacenti dati analoghi sull’agricoltura transumante, alpeggio dati analoghi sull’economia forestale dati analoghi sulla flora e sulla fauna spontanea delle province liguri, con particolare riguardo ai nomi dialettali delle piante e degli animali. Per tutti questi dati, il materiale che m’interessa è specialmente quello che si riferisce ai residui delle forme di cultura e tecniche primitive. I materiali dei comizi agrari o delle cattedre ambulanti nei primi decenni successivi all’Unità mi interessano perciò particolarmente; e così pure, eventualmente, pubblicazioni a stampa di epoca precedente all’Unità (Sereni, 2011 p. 160 e n. 294). al museo Preistorico Etnografico di Avezzano, vedi Arcà, 2012 e in generale il numero monografico dei Quaderni della Soprintendenza Archeologica del Piemonte, nota 27, 2012. 13 1883-1974. Agronomo, docente universitario, deputato della Democrazia Cristiana nella I e II Legislatura della Repubblica. 25
Sereni conclude la lettera facendo riferimento a un «mio sopralluogo in Liguria» viaggio, come vedremo, effettivamente compiuto, in fasi diverse. Sarà proprio Fanciulli a mettere in contatto Sereni con Mario Calvino (18751951) che risponde da Sanremo il 15 novembre 1949 Siccome io sono stato il primo Direttore della Cattedra Ambulante di Agricoltura di Imperia e fondai nel 1901 la prima rivista agricola (“L’agricoltura ligure” organo della Cattedra stessa) penso che in tale mia antica pubblicazione che certamente troverà nella camera dei deputati – Lei potrà trovare alcuni dati di quelli che la interessano. A parte le invio un mio lavoro sulla Floricoltura, che scrissi per la Monografia della Provincia di Imperia, nel 1935. Quando lei verrà nei nostri paesi – e dovrebbe venire presto – non dimentichi di avvisarmi e di visitare la nostra Stazione sperimentale. Avrò molte cose da dirle. Sono il padre di Italo Calvino, un giovane che è all’Unità di Torino e con l’Editore Giulio Einaudi. Con cordiali saluti (Sereni, 2011, p. 164).
Il 13 gennaio 1950 Sereni è all’Università di Firenze dove tiene una conferenza intitolata Linguistica e cultura materiale nella storiografia sovietica contemporanea – tema e riferimenti metodologici che ritroveremo sviluppati in tutti i testi del periodo – alla presenza dei glottologi Giacomo Devoto (1897-1974) e Carlo Battisti (1882-1977). Il 23 gennaio scrive un brevissimo resoconto della stessa a Cesare Luporini (1909-1993): «quel che è interessante è che per la prima volta, credo, in un ambiente di questo genere, le posizioni marxiste sono state discusse con la sensazione, da parte degli interessati, che l’idealismo poteva mantenersi sulla difensiva» (Sereni, 2011, pp. 169-170). Il 28 gennaio 1950 Nino Lamboglia (1912-1977)14 scrive a Sereni dicendosi lieto di accettarlo tra i soci dell’Istituto Internazionale di Studi Liguri e lo invita a presentare una relazione sul tema “La Comunità agricola primitiva in ambiente ligure” in occasione del I Congresso Internazionale di Studi Liguri (Monaco, Bordighera, Genova, 10-17 aprile 1950). Sereni risponde da Roma il 7 febbraio 1950 chiedendo a Lamboglia di segnalargli eventuale bibliografia relativa ad aspetti linguistici liguri, alla storia degli attrezzi agricoli, alle figurazioni del Monte Bego e più generali notizie su documentazione archeologica recente anche relativa ad «aree marginali». Questa lettera ci consente pure di documentare più precisamente le fasi di stesura de Il paesaggio geolico/Il paesaggio vegetale 14 Su Lamboglia, il metodo storico-archeologico da lui adottato e il peso nella sua ricerca del tema dell’ethnos ligure si veda Grendi, 1996, pp. 88-95. Per la rivista dell’Istituto da lui presieduto Sereni pubblicherà il saggio La comunità rurale e i suoi confini nella Liguria antica (Sereni, 1954). 26
Ho quasi terminato, intanto, la stesura di un capitolo del volume, che si riferisce al paesaggio geologico della Liguria antica, studiato, attraverso dati archeologici e linguistici, nel suo rapporto con l’attività umana. Inizierò nei prossimi giorni la stesura del capitolo seguente, sul paesaggio vegetale, studiato dal medesimo punto di vista; ed è già avanzata la raccolta del materiale sul paesaggio agrario e sull’economia di raccolta. Ho avuto occasione recentemente di accennare a questo lavoro al prof. Battisti e al prof. Devoto, in una recente mia visita a Firenze, dove, al Circolo linguistico dell’Università, sono stato invitato a dare una informazione sulla nuova scuola linguistica sovietica. Mi permetterà, nel caso di una mia visita all’Istituto, di sottoporLe la prima parte del mio lavoro, per il quale mi sarà preziosa la Sua critica (Sereni in Gemignani 2011, pp. 141-142). Il 29 aprile 1950 Sereni 2011, pp. 175-176 scrive a Ubaldo Formentini (1880-1958)15 Egregio Professore, il dott. Prosperi, Sindaco di La Spezia, mi ha fatto pervenire gli estratti dei Suoi lavori, di cui Ella ha voluto così gentilmente inviarmi copia. Li conoscevo già tutti, e li ho largamente utilizzati (specie quello su “Pievi e conciliaboli”) in un lavoro al quale mi sono accinto da vari anni, sull’agricoltura della Liguria preromana; ma come Ella sa per la sua esperienza di studioso, mi è di grande aiuto averne copia disponibile che non sia quella del prestito di biblioteca. Così pure mi hanno particolarmente interessato i Suoi lavori apparsi in “Studi etruschi” e “Studi liguri”, di cui già posseggo le collezioni, e specie quelli su “Tular eguale confine” e sulla Tavola di Veleia. Le sarei grato se Ella potesse dirmi come posso trovare in commercio la Sua “Forma reipubblicae Veleiatis” [sic], che pure ha una grande importanza per le mie ricerche. Mi scusi, professore, se La importuno ancora ma confido nella sua gentilezza e nella passione che Ella mette al progresso di studi, ai quali Ella ha dato un contributo così importante. I miei impegni politici mi obbligano d’altra parte a dedicarmi alle mie ricerche scientifiche nelle ore avanzate della notte... quando le biblioteche son chiuse, ciò che mi obbliga ad avere in casa le opere di più frequente consultazione. Il mio lavoro, che verrà pubblicato dalla Casa Editrice Einaudi, partendo dalla Tavola di Polcevera cerca di situare i rapporti agrari che da essa risultano in un quadro più generale della Liguria preromana. In un primo capitolo (“Il paesaggio geologico”) la ricerca è volta, specie attraverso lo studio della toponomastica e della geonomastica, nonché attraverso quello dei relitti lessicali, a chiarire i rapporti dell’antica umanità ligure col monte, con la [spiaggia] coi fiumi, con le paludi. Nel capitolo seguente (“Il paesaggio vegetale”) un’analoga ricerca è volta allo studio delle formazioni vegetali caratteristiche dell’area ligure 15 Su Formentini e la “storia topografica” da lui praticata cfr. Grendi, 1996, pp. 81-88. 27
cis- e transalpina. In un terzo capitolo (“L’economia di raccolta, la caccia, la pesca”) l’ambientamento dei rapporti agrari della Liguria preromana vorrebbe essere completato con lo studio delle tecniche alimentari preagricole. Questo primo volume, di cui è già avanzata la stesura, col sottotitolo “L’uomo e il passaggio” sarà seguito da altri due, coi titoli “Le tecniche” e “Le genti”, per i quali la raccolta del materiale è già assai avanzata. Accanto ai materiali linguistici, ho tentato la più larga utilizzazione dei materiali storiografici, archeologici, folcloristici. Credo che potrà interessare gli studiosi italiani il ricorso, nella mia ricerca, alle nuove metodologie ed alle ricerche sviluppate negli ultimi anni in studi del genere in Unione Sovietica, e generalmente poco noti al pubblico italiano (Sereni, 2011, pp. 175-176).
Formentini risponde dalla Spezia il 6 maggio 1950 Onorevole Senatore Dispongo di diverse copie del mio art. “Forma Reip. Veleiatium” e posso offrirgliene un esemplare che spedisco a parte insieme con qualche altro lavoretto interessante sulla storia delle istituzioni agrarie della Liguria nell’Antichità e nell’Alto Medio Evo. Le sono grato delle notizie che ha voluto comunicarmi sul suo prossimo volume che sarà accolto con profondo interesse e con vivo compiacimento da tutti coloro che come me hanno a cuore il progresso degli studi liguri e che, conoscendo i saggi raccolti nel suo volume: Il capitalismo nelle campagne, hanno ragione di confidare nelle felici novità del suo metodo, nella drammatica efficacia della sua veduta storiografica (Sereni, 2011, pp. 177).
Il 17 luglio 1950 da Fondo di Trento, arriva una lettera di Pia Virginia Laviosa Zambotti (1898-1965) (Sereni, 2011, pp. 186-187), allora libera docente di Paletnologia all’Università di Milano, contattata per conto di Sereni da Giannino Degani16. La Zambotti si dice onorata dell’interessamento di Sereni per i suoi studi e invia alcuni estratti recenti. Sereni citerà spesso i lavori dell’archeologa trentina sulla pre- e protostoria, in particolare quelli sugli antichi agricoltori liguri (1943) e sui petroglifi di Monte Bego (1939) ma senza trascurare le opere di più ampio respiro come Origini e diffusione della civiltà (1947) e Le più antiche culture agricole europee (1948). Nella risposta alla Zambotti del 25 luglio 1950 (Sereni, 2011, pp. 186-187), Sereni parla in maniera esplicita del tema al centro dei due inediti qui presentati: ricostruire i rapporti tra l’antica comunità ligure e il paesaggio geologico, vegetale, agrario attraverso i relitti lessicali e toponomastici
16 1900-1977, scrittore, giornalista e pubblicista reggiano, già redattore dell’Unità di Milano. 28
Sto lavorando da vari anni ad uno studio sulle comunità rurali della Liguria antica che prende spunto da un’analisi della Sententia minuciorum, ma che si allarga alle altre fonti archeologiche, epigrafiche, letterarie e linguistiche. Ho già iniziato e condotto a buon punto la stesura del I° volume di quest’opera, nel quale mi diffondo particolarmente sui rapporti fra l’antica umanità ligure e il paesaggio geologico, vegetale, agrario, quali essi ci si rivelano attraverso i relitti lessicali e toponomastici (Sereni, 2011, pp. 186).
Sereni lamenta poi la mancanza di bibliografia in merito alla «documentazione archeologica nel settore più specificatamente tecnico-agricolo», in particolare sugli strumenti agricoli (scarsa, a parte qualche sporadico lavoro sugli aratri e i falcetti in bronzo), ragione principale che lo costringe a limitarsi al materiale linguistico (Sereni, 2011, p. 186). Di ritorno a Roma (19 settembre 1950) dopo uno dei numerosi viaggi all’estero intrapresi nel periodo, Sereni trova sulla scrivania un saggio sulla civiltà di Golasecca speditogli dalla Zambotti. Le risponde per dirle come le proprie ricerche confermino «la relativa stasi della cultura agricola della Liguria nei secoli immediatamente precedenti alla conquista [romana]; anche se espressioni come quella di “arretratezza litica” usate da altri valorosi ricercatori, come il Bernabò Brea, mi appaiono forse un po’ troppo drastiche» (Sereni, 2011, pp. 188-189). Di questo tema troviamo traccia nel paragrafo 1 de Il paesaggio geologico, intitolato Arretratezza e preistoria ligure. Da questo momento in poi avviene verosimilmente il principale fra i numerosi “cambiamenti di rotta” ricordati in apertura. Il progetto dei tre volumi citati nella lettera a Formentini del 29 aprile 1950 (L’uomo e il passaggio, Le tecniche e Le genti) viene abbandonato e Sereni avvia il percorso che lo porta a dichiarare conclusa, l’8 ottobre del 1951 (cfr. nota 4) la stesura di Comunità rurali nell’Italia antica. Ce lo ricorda lui stesso in una lettera a Formentini scritta il 21 agosto del 1951, nella quale Sereni invita lo studioso lunigianese ad un incontro culturale ligureprovenzale previsto a Nizza per l’1 e 2 settembre dello stesso anno17 So bene, se non altro come socio “spettatore” dell’Istituto di Studi Liguri, quanto questa importante istituzione abbia già fatto in questo senso [il miglioramento dei rapporti culturali e di pace tra Liguria e Provenza e in generale tra Francia e Italia N.d.R.], specie nel corso dell’ultimo anno, su un piano più specificatamente tecnico-culturale. Ma è sembrato opportuno, ai promotori 17 Si tratta del Convegno franco-italiano sui problemi della pace e della cultura che vide, tra gli altri intervenuti, la partecipazione di Italo Calvino. Il resoconto dello stesso si ritrova nell’articolo di Guido Seborga (1909-1990) Due giorni a Nizza, pubblicato sull’Avanti, il 5 settembre. 29
dell’incontro, allargare l’irradiazione di questi rapporti culturali e amichevoli da un piano più propriamente tecnico a una sfera d’interessi culturali e umani più larga. Si vorrebbe tuttavia che gli interessi e la proficua attività dell’Istituto trovassero un riflesso e la espressione nel corso dell’incontro. In questo senso è stato avvicinato il Prof. Lamboglia, del quale non conosco ancora la risposta; ma io ho suggerito agli amici francesi e italiani che nessuno meglio di Lei potrebbe, da parte italiana, rappresentare ed esprimere una continuità di interessi e di rapporti culturali amichevoli fra Liguria e Provenza; ed essi mi hanno pregato di officiarLa, perché Ella voglia dare la Sua adesione all’incontro e intervenirvi con un breve rapporto, su argomento di Sua scelta, a proposito dei rapporti culturali tra Liguria e Provenza, nell’antichità o nell’Evo Medio. Il rapporto dovrebbe essere contenuto (dato il numero previsto degli interventi e la varietà dei loro temi) in cinque cartelle dattiloscritte, e dovrebbe avere un tono non strettamente tecnico, ma più largamente culturale, in quanto sarebbe rivolto a un più largo pubblico di uomini di cultura, con interessi non esclusivamente storiografici. [...] Mi scusi, professore, se Le sembro e sono importuno ma ho tanto riflettuto sui Suoi scritti, ne ho così largamente profittato nel mio lavoro, ho sentito aleggiare in essi un così vivo spirito di umanità, che ho pensato di non trovarLa estraneo all’idea dei promotori dell’incontro. Ho finito in questi giorni la stesura del volume, di cui le avevo parlato, su le “Comunità rurali nella Liguria antica”. Ne è venuto fuori un lavoro di grossa mole, che in questi giorni consegno all’editore Einaudi; al tempo stesso sono arrivato a buon punto con la raccolta di materiale e in parte con la stesura di due volumi che seguiranno, rispettivamente su “Genti e Paesaggio nella Liguria antica” e su “Le tecniche agricole comunitarie”. I volumi, come già Le scrissi, toccano e svolgono temi da Lei così acutamente impostati, particolarmente per quanto riguarda le forme dell’aggruppamento etnico dei conciliabula, i rapporti tra pieve e pagus, i problemi dei confini tra i pagi ecc. Potrà forse interessarLa l’uso degli scritti dei Gromatici che ho fatto nella mia ricerca, per l’interpretazione della Sententia Minuciorum, per quanto riguarda la natura e la pertinenza dell’ager publicus e dell’ager compascuus. Le conclusioni a cui giungo per questa via costituiscono, in un certo senso, una conciliazione fra certe tesi da Lei proposte e quelle accolte dal Bognetti. Spero di poterLe sottoporre il mio volume in bozze, e di poter approfittare ancora dei Suoi consigli (Sereni, 2011, pp. 198-200).
In conclusione del percorso delineato, Sereni si rivolge al direttore del catasto genovese (lettera del 3 ottobre 1951; Sereni, 2011, p. 201-202; Gemignani, 2011, pp. 143-144) per reperire cartografia, relativa in particolare al territorio di Langasco (Genova), utile a circoscrivere “nell’attualità” il dominio dei langenses ricodato nella Sententia Minuciorum e soprattutto – con un’ipotesi di continuità che oggi ci appare 30
quanto meno ardita ma che andrebbe meglio studiata nella sua origine – per «poter dare al lettore un’idea visiva di certi aspetti del paesaggio agrario ligure» (terre divise in piccole parcelle irregolari, ricavate dal bosco, divise da confini e da siepi). Sereni aggiunge alla richiesta una precisazione significativa: correda la lettera di uno “schema” e di alcune foto «riproducenti una delle colline della Val Polcevera». Le fotografie sicuramente facevano parte della serie realizzata da Sereni durante alcuni viaggi in Liguria compiuti fra l’agosto e l’ottobre del 1951. Oggi esse sono conservate presso l’Istituto Cervi18 e pongono all’attenzione il rapporto di Sereni con la fotografia, quindi con le evidenze visive e l’osservazione di terreno (cfr. figg. 1-5). Di queste “escursioni liguri” troviamo notizia nell’agenda del 195119, dalla quale risulta un viaggio in treno sul percorso Losanna (dove era ricoverata Xenia)Milano-Genova-Nizza, compiuto il 30 agosto. Domenica 2 settembre Sereni è infatti a Nizza e partecipa con Ubaldo Formentini al citato incontro ligur-provenzale (lettera del 21 agosto, cfr., Sereni, 2011, pp. 198-200) e annota sull’agenda: «con prof. Formentini su Liguria»; lunedì 3 si sposta da Nizza a Genova sempre in compagnia di Formentini; nel pomeriggio ha infatti in programma un incontro sul tema della pace; in serata rientra a Roma. Alla data del 21 settembre, quando ripassa da Genova in automobile per recarsi a Torino annota: «Fotografie per mio libro». Si tratta certamente delle immagini della Val Polcevera citate nella lettera al direttore del catasto, realizzate durante alcune soste compiute lungo il percorso della camionale Genova-Serravalle20. Sereni tornerà ancora in Liguria nell’ottobre (fra sabato 13 e lunedì 15), partendo da Savona, in auto, in compagnia di Giovanni Serbandini (Bini)21 per recarsi a Imperia dove terrà un discorso al Convegno provinciale del Movimento Partigiani della Pace. Nell’occasione annota «con Natta in macchina per valle di Arroscia – Albenga»22. Sul posto realizza altre immagini fotografiche relative soprattutto alla ricrescita del bosco dopo l’incendio e alla sua destinazione colturale23. 18 Biblioteca-Archivio Emilio Sereni, Fondo Sereni, Illustrazioni storia agraria, busta 17. In particolare molte immagini relative a Langasco, e in generale alla Val Polcevera si ritrovano in buste denominate Paesaggio agricolo ligure e il marrelo e Torrente Secca – Marrelo. 19 Fondazione Gramsci, Fondo Sereni, b. Agende. 20 Queste immagini sono al centro di una ricerca di prossima pubblicazione condotta da chi scrive in collaborazione con Nicola Gabellieri. 21 Giovanni Serbandini, detto Bini (Chiavari, 16 agosto 1912 – Lavagna, 23 marzo 1999), partigiano, dal 1945 al 1958 direttore dell’edizione genovese de l’Unità, deputato comunista. 22 Alessandro Natta (Oneglia, 7 gennaio 1918 – Imperia, 23 maggio 2001), deputato poi segretario del PCI. 23 Biblioteca-Archivio Emilio Sereni, Fondo Sereni, Illustrazioni storia agraria, busta 17, Paesaggio agricolo ligure e il marrelo; Paesaggio vegetale ligure. 31
Sulla pratica fotografica nella ricerca di Emilio Sereni qualche indicazione in più proviene dai documenti rimasti nell’archivio famigliare dove sono ancora conservati un paio di rullini “sperimentali”, risalenti al 1951, a testimonianza del fatto che l’interesse per le capacità documentarie della fotografia vada fatto risalire proprio a quell’anno. Questi rullini si distinguono dal resto dell’archivio fotografico per il piccolo formato e la presenza sul retro di annotazioni (autografe di Sereni) che riguardano i filtri adottati, gli orari dello scatto e, nella quasi totalità dei casi, il nome dei luoghi rappresentati. Sereni ha fotografato soprattutto oggetti presenti in casa (soprammobili, il ritratto di Stalin appeso nel suo studio di viale XXI aprile a Roma ecc.), alcuni scorci dei dintorni della clinica Cecil di Losanna in cui era ricoverata Xenia; Rimasco in Val Sermenza (tappa dell’ultima vacanza con la moglie); Villa Bianchi Bandinelli di Gaggiano e una piccola serie di scatti di un “terreno rosso”, fotografato con vari filtri ed esposizioni (senza però alcuna indicazione di luogo) 24.
24 Ringrazio Anna Sereni per queste informazioni. 32
Le origini del “problema paesaggio” Letti come tessere del più grande “cantiere” precedentemente evocato, anche Il paesaggio geologico e Il paesaggio vegetale testimoniano il tentativo di far convergere in un’unica ricerca storia, linguistica, etnografia, archeologia e geografia, in quello che è «il più originale e anche irripetibile contrassegno» della ricerca sereniana (Quaini 2013, p. 7)25. Affrontando il tema delle origini del rapporto dell’uomo con il paesaggio, in fasi che addirittura precedono l’appropriazione produttiva di quest’ultimo, i due testi si collocano come una sorta di “base cronologica” rispetto a Vita e tecniche forestali nella Liguria antica (Sereni, 1997), Comunità rurali nell’Italia antica (Sereni, 1955) e Storia del paesaggio agrario italiano (Sereni, 1961), e si rivelano utili per meglio definire come progressivamente si configura, nel pensiero dello studioso romano, il “problema paesaggio” (Quaini, 1997): come cioè il tema che rende ancora estremamente attuale la sua eredità scientifica ha preso forma nella sua complessità, nelle diverse declinazioni concettuali che esso assume, nelle fonti utili alla sua ricostruzione e nella sua valenza strategica di “ponte” fra discipline diverse nei metodi e nei campi di studio. “Problema” perché, se il nucleo irrinunciabile e funzionale dell’eredità di Emilio Sereni è costituito dall’«uso critico di una pluralità di fonti storiche», uno dei risultati ormai classici del suo progetto storiografico è costituito proprio da una nozione – quella di “paesaggio agrario” – che Diego Moreno e Osvaldo Raggio (1999) consideravano «equivoca» perché fondata sulla «dicotomia tra “paesaggio naturale” e “paesaggio agrario”» e sull’interpretazione del primo termine come «dato ambientale». Categorie che, sempre secondo questi autori, si devono al peso di due “scuole interpretative” che lungamente hanno segnato il panorama storico e geografico italiano del Novecento: l’«antropogeografia tardo ottocentesca» riflessa nei lavori dei geografi attivi tra le due guerre, da cui deriverebbe la concezione sereniana di paesaggio agrario come «quella forma che l’uomo, nel corso ed ai fini delle sue attività produttive agricole, coscientemente e sistematicamente imprime al paesaggio naturale», (Raggio e Moreno, 1999, pp. 98-99), e la stagione storiografica del «positivismo naturalistico» (Ivi, p. 91), riconducibile al tema della ricerca dell’ethnos ligure sulle fonti archeologiche e nei “relitti linguistici”, influenzato dai 25 Già Edoardo Volterra (1955) aveva parlato di «metodi non ancora usati» e di «elementi finora trascurati», riferendosi alle pagine di Comunità rurali nell’Italia antica. Nuove sollecitazioni che saranno raccolte molto più tardi dalla ricerca geo-storica accademica: la costruzione di una serie documentaria, lo studio di tecniche e pratiche, l’utilizzo di reperti materiali posti sullo stesso piano probatorio delle fonti scritte, il ricorso sistematico alla toponomastica e ai dati botanici e vegetazionali, oltre a qualche spunto sull’uso consapevole (non solo evocativo) delle fonti iconografiche che sarà poi messo a punto da Sereni in Storia del paesaggio agrario italiano. 33
lavori di Nino Lamboglia, Ubaldo Formentini, Giandomenico Serra (1885-1958)26 e delle rispettive “scuole” (Grendi, 1996, pp. 77-95). Il peso di questa matrice si rivelerebbe ben più consistente rispetto a quello della “storia rurale” inaugurata metodologicamente da Marc Bloch27. Sul tema della dicotomia paesaggio naturale/paesaggio agrario, Massimo Quaini (1974, pp. 32-71) ha messo in evidenza come, nel pensiero di Marx ed Engels – dalla lettura dei quali Sereni dichiara sempre di muovere, ogni volta che si trova alle prese con un problema scientifico28 – proprio la distinzione tra pratiche “umane” e processi “naturali” venga superata nel nome di una storia unitaria (la prassi umana è ricompresa nella natura in quanto l’uomo è parte della natura e con essa costituisce “la realtà” nel suo insieme), e come la questione sia particolarmente trattata nei Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, in particolare nel capitolo dedicato a Le forme che precedono la produzione capitalistica29. Testi che Sereni considera infatti un punto di riferimento fondamentale per la fondazione di una storiografia marxista del paesaggio agrario. Forse lo storico romano avrebbe potuto più chiaramente delineare il paesaggio “naturale” come “deposito di materiali” per il lavoro umano, in quanto anch’esso «momento della prassi umana» storicamente determinato30? 26 Docente di lingua e letteratura italiana a Cluj, poi di glottologia a Cagliari (1939) e Napoli (1953). 27 Nonostante Les caractères originaux de l’histoire rurale française, nell’edizione del 1952 (la prima edizione è del 1931), sia uno fra i testi più fittamente annotati fra quelli presenti nella biblioteca sereniana al Cervi, Moreno e Raggio sottolineano come, nell’Introduzione a Comunità rurali nell’Italia antica, il riferimento a Bloch vada «unicamente al problema del sostrato antico, una metafora di carattere geologico e linguistico». Resta comunque da stabilire se l’edizione del 1952 dei Caractères originaux, uscita un anno dopo (seguendo le parole dello stesso Sereni) la stesura definitiva del volume, sia quella di principale riferimento per lo studioso romano. Ciò spiegherebbe un’influenza maggiore della stessa nella composizione della Storia del paesaggio agrario italiano rispetto a quella registrata nella costruzione del “cantiere ligure”. 28 È lui stesso a dichiarare fedeltà ad una regola di base: organizzare il lavoro «secondo un preciso piano», che ha origine «dalla lettura di determinate opere classiche del marxismo leninismo [...] ristudiate sotto quel determinato angolo visuale e quel determinato interesse» che il contesto scientifico (e/o politico) imponeva. Cfr.: Biblioteca-Archivio Emilio Sereni, Fondo Sereni, Corrispondenza scientifica, Come studio (risposta alla domanda). Per giornale murale cellula appartato Direz. P., 18 novembre 1948, dattiloscritto. 29 Sereni cita questo saggio nelle tre versioni, russa, tedesca, e italiana, rispettivamente del 1940, 1953 e 1955 (la seconda e la terza conservate al Cervi e fittamente annotate e sottolineate), all’interno della bibliografia e nel testo di Comunità rurali nell’Italia antica. 30 A testimonianza ulteriore dell’interesse per lo studio degli inediti, Sereni chiarisce questo punto nel paragrafo intitolato La terra, la pietra, la storia de Il paesaggio geologico: 34
Un aiuto se non per sciogliere, almeno per dettagliare meglio questo nodo scientifico, può venire proprio dalla lettura dei due inediti sereniani (si vedano ad esempio pp 54-55) i quali, posti sullo stesso piano dei lavori editi, possono offrire finalmente un quadro più completo nel rilevare la sintesi (e gli elementi in conflitto) operata da Sereni, soprattutto tra la matrice marx-engelsiana (i riferimenti alla storiografia rurale di Bloch in effetti mancano), la concezione “antropogeografica” e/o “biogeografica” del paesaggio31, il peso interpretativo delle analisi linguistiche basate sulla ricerca del «sostrato». Ne Il paesaggio vegetale, ad esempio, si riscontrano alcune tesi di base che rispondono in parte alla domanda su dove vadano puntualmente ricercate le radici della definizione di paesaggio agrario. Le troviamo ad esempio nella distinzione fra “formazioni primitive”, “formazioni naturali”, e “formazioni agricole”32 che rimandano alla biogeografia di Emmanuelle De Martonne, il cui nome ritorna poi « Proprio perché, come scrive Lenin, “la coscienza umana non riflette soltanto, ma crea un mondo obiettivo”; proprio per questo l’accento dell’espressione linguistica, il suo rilievo maggiore, si ritrova non tanto in un passivo riflesso della realtà ambiente, o magari degli appetiti del soggetto pensante e parlante (“il frutto” o “la radice” commestibile ecc.); bensì in un interesse attivo, in un riflesso operante, accentrato attorno al lavoro e allo strumento del lavoro; che è d’altronde – come giustamente rileva Marx – il più immediato oggetto d’interesse umano. Quando si prescinda da forme primitive e pure di una economia di raccolto, di una umanità ancora tutta animale “l’oggetto, del quale immediatamente il lavoratore si impossessa, non è 1’oggetto, bensì lo strumento di lavoro”. Ciò che si trova in Natura diviene così un organo della sua attività, un organo che egli viene ad aggiungere ai propri organi corporei: che prolunga, a dispetto della Bibbia, la sua struttura naturale. La terra, così com’è la sua originaria cambusa, è anche il suo originario arsenale di strumenti di lavoro» (Il paesaggio geologico, p. 134). 31 Tenendo anche in conto che, per un agronomo di formazione come Sereni, la conoscenza approfondita dei dati e dei concetti elaborati dalla geografia più strettamente fisica e dalla geologia restano un orizzonte col quale inevitabilmente fare i conti e trarre sollecitazioni scientifiche per delineare un quadro co-evolutivo coerente che coinvolge umanità e contesto naturale (Ferretti, 2014, p. 154). 32 Secondo Sereni (Il paesaggio vegetale, nota 25) le “formazioni naturali” vanno distinte da quelle “primitive”, termine «largamente impiegato in biogeografia ad indicare quelle associazioni vegetali che non hanno subito l’opera dell’uomo», intendendole come «quelle associazioni vegetali che, avendo o no subito una modificazione in conseguenza di attività umane, non l’hanno comunque subita in forma sistematica, finalistica e pianificata. Anche l’uomo, come tutti gli altri animali, in quanto raccoglitore, in quanto cacciatore, in quanto pastore, induce nel paesaggio vegetale delle trasformazioni, indipendenti da un suo piano e da un suo cosciente finalismo». Oggi la riflessione sugli effetti storici diretti e indiretti delle attività umane sull’ambiente ha potuto specificare più correttamente questa definizione e sappiamo che nei sistemi geografico-ambientali concreti, «oggetti e spazi “storici”», una condizione di “naturalità” «si è perduta almeno dal Paleolitico, come è noto a qualsiasi paleoecologo» (Cevasco e Tigrino, 2008, p. 208) 35
in Comunità rurali – per la successione foresta-selva minore-macchia boschivamagra prateria/pendice brulla dovuta alla pratica antropica del fuoco controllato (Ferretti, 2014, p. 152) – e, in seguito, nella Guida bibliografica alla Storia del paesaggio agrario italiano recentemente pubblicata (Gemignani, 2016). Da queste distinzioni emerge una definizione più complessa del concetto di paesaggio vegetale – il quale solo molto più tardi verrà incorporato nel “paesaggio rurale” (Quaini, 2011b, p. 29) – che rende significativo il precoce tentativo di articolazione contenuto nell’analisi sereniana. Un altro tema che emerge dai testi è il nesso di dipendenza che lega da subito il “paesaggio” e la “formazione economico-sociale” (in quanto formazione storica “strutturata”, caratterizzata cioè da un “sistema di rapporti necessari”) che “lo produce”, oltre al problema delle articolazioni locali e dinamiche di quest’ultima33. Sappiamo che all’elaborazione di un approfondimento teorico su questa nozione marxiana Sereni dedicherà molto spazio dopo gli affondi analitici costituiti da Il capitalismo nelle campagne (1947) e Comunità rurali e come il tema sarà ripreso con rinnovata consapevolezza teorica più tardi34. Qui la chiarificazione del concetto 33 I testi editi e inediti che compongono il “cantiere ligure” dei primi anni Cinquanta sono infatti al centro dell’affascinante «interpretazione globale del Sereni storico», avanzata sempre da Giardina (1996, Id., 2004). Il nodo che l’intera opera storiografica sereniana pone oggi a noi sul piano epistemologico sarebbe la difficoltà, se non l’impossibilità, di coniugare armonicamente «il plurale e il singolare». Tema che chiama in causa il rapporto tra scale di analisi storico-geografiche diverse e l’elaborazione di regole logiche che devono condurre a quel momento necessario individuato da Sereni nel «lavoro di sintesi che, superata la fase analitica, sbalza dalle pagine morte del libro la figura viva, individuale, attiva della persona e del fatto storico» (Sereni,1968, p. XI). 34 Nell’introduzione alla seconda edizione de Il capitalismo nelle campagne (18601900) (Sereni, 1968, prima ed. 1947) lo studioso romano ha potuto conoscere i Quaderni dal carcere di Gramsci (pubblicati per la prima volta fra il 1948 e il 1951) e può quindi distinguere l’angolo visuale di quest’ultimo – orientato all’approfondimento del rapporto fra strutture e sovrastrutture (ideologiche, politiche ecc.) nel quadro di un determinato “blocco storico” – dal proprio. Quest’ultimo è finalizzato piuttosto a mettere in evidenza i rapporti fra strutture e processo storico (genesi, evoluzione, transizione), in una lettura che si vorrebbe quindi non meccanicistica ma senza che ciò sacrifichi la validità dell’ipotesi dell’esistenza, e della conseguente ricerca, di «leggi storiche», senza quindi cadere «inevitabilmente, nella supina idolatria del fatto storico in quanto fatto» (Sereni, 1968, pp. XX-XXI). È un argomento che nel 1968, quindi a posteriori, Sereni riconosce di aver trattato già dagli anni immediatamente precedenti il secondo conflitto mondiale (Ivi, p. VII), nell’analisi dei processi che hanno investito rapporti ormai storicamente consolidati che strutturano la dialettica “di lunga durata” tra città e campagna (p. XIII), gli stessi che Sereni ha poi analizzato analiticamente fra il 1948 e il 1951, puntando la lente sulla formazione delle comunità territoriali liguri. Le istanze teoriche alla base di queste opere verranno poi riconsiderate criticamente più tardi, in un noto saggio pubblicato sui Quaderni della rivista Critica Marxista (Sereni, 1970). Lavoro che sarà destinato a suscitare 36
sembra trovarsi in una fase già molto compiuta nel pensiero di Sereni. Per determinare le “fasi stadiali” in cui collocare i liguri in base a questa teoria, Sereni confronta la sua prospettiva con le più recenti acquisizioni dell’archeologia, espresse nei lavori di Laviosa Zambotti e Luigi Bernabò Brea (1910-1999)35, sostenendo come l’arretratezza dei liguri antichi affermata da quest’ultimo sulla base dei ritrovamenti, ed espressa dal fatto che «industrie neo-eneolitiche della pietra si mantengono vivaci sino alla epoca della conquista romana» lasci in ombra un elemento essenziale, quale è quello di una differenziazione in atto: che – già nell’età del bronzo – porta territori come quello degl’Ingauni a un livello di sviluppo economico indubbiamente più avanzato. Su questa differenziazione giustamente insiste il Lamboglia, nel brano già citato [Storia di Genova. Dalle origini al tempo nostro, Garzanti, Milano, 1941, vol. I, pp. 55-56, N.d.R.], e a più riprese nei suoi scritti. Ed egli coglie un dato essenziale al nostro assunto, quando rileva «il marcato adattamento» delle varie genti liguri alla varietà dei suoli e del clima. «Arretratezza neolitica» – se così si vuol chiamare – e «marcato adattamento alla varietà delle condizioni naturali» sono due termini inscindibili di un medesimo binomio: esprimono le condizioni di un’umanità, che per l’arretrato grado di sviluppo dei suoi strumenti e delle sue forze produttive è ancora strettamente legata ad un ambiente e ad un’economia naturale (Il paesaggio geologico, p. 53)36.
Roberto Maggi, scrive che Sereni «ebbe scarsa opportunità di avvalersi delle fonti archeologiche» soprattutto «perché fino agli ultimi decenni del XX secolo l’archeologia si occupava solo marginalmente delle trasformazioni del territorio» e prosegue, riferendosi ai lavori di Bernabò Brea alle Arene Candide: «eppure, ironicamente, un lavoro pioneristico, che avrebbe potuto offrire dati significativi, prese il via nel 1939 proprio in quella Liguria a cui Emilio Sereni dedicò tanto lavoro» (Maggi, 2004, p. 35). In realtà, come si evince ad esempio dal paragrafo un largo dibattito coinvolgendo alcuni tra i maggiori storici italiani di ispirazione marxista (Badaloni, Gerrattana, La Grassa, Luporini, Prestipino). Sul tema si sofferma Tommaso Redolfi Riva che ricorda come lo studioso volga «il proprio sguardo direttamente ai processi di transizione. L’implicito teorico al quale Sereni sembra rimandare è quello del rapporto tra teoria e storia, tra modello sincronico di analisi e divenire storico. Il problema è infatti esplicitamente ricondotto a quello dell’adozione di concetti statici per lo studio di realtà che di per sé sono dinamiche». (Redolfi Riva, 2009, p. 112). 35 All’archeologo genovese e ai suoi lavori è dedicato il sito web: http://www. luigibernabobrea.it/. 36 Sarebbe interessante, alla luce di questo brano, indagare il diverso atteggiamento scientifico che Sereni nutriva nei confronti del metodo archeologico adottato da Lamboglia e quello di Bernabò Brea. Per un primo confronto vedi Gandolfi, 2003. 37
su Rilievo geologico e paesaggio montano (pp. 88-113) Sereni conosce gli studi più recenti sull’evoluzione della tecnologia primitiva (cfr. anche nota 209) mentre il primo paragrafo de Il paesaggio geologico, intitolato Arretratezza e preistoria ligure in cui viene citato il lavoro su Gli scavi nella Caverna delle Arene Candide (Bordighera, Istituto di Studi Liguri, 1946)37 dimostrano come lo stesso Sereni sia a conoscenza dei lavori di Bernabò Brea e ne discuta i dati archeologici, non però ancora nella prospettiva di una “archeologia ambientale” che si andava in quegli anni affermando38 ma verso un orizzonte nel quale i dati “di sito” servono solo per confermare l’esistenza di «leggi storiche» e per definire sistemi di rapporti economico-sociali di valore più universale39 che peso effettivo queste realtà geologiche [la pietra, il monte, il fiume, la palude] avevano nella vita quotidiana delle popolazioni liguri, nella loro economia e nella loro coscienza sociale? Attraverso la varietà delle situazioni e dei rapporti locali, qual è 1’elemento decisivo nei rapporti fra i liguri e il paesaggio geologico, quello che esprime ciò che è essenziale, a questo riguardo, per la formazione sociale cui essi appartengono? E come si afferma dapprima, nei confronti di questo paesaggio, quella attività umana, che finirà per trasformarlo, per incidere profondamente su di esso, per umanizzarlo? (Il paesaggio geologico, p. 53)
Non a caso la fonte privilegiata scelta per l’analisi è «il materiale linguistico», il solo «che abbia un carattere meno casuale». Dei Relitti geonomastici, toponomastici e lessicali a Sereni interessa il carattere storico insito nel loro «conservativismo», non tanto la loro «storia individuale» (cfr. pp. 54-57) né la determinazione del particolare strato o gruppo linguistico cui essi appartengono. Quel che ci interessa, per il nostro assunto, è – per così dire – una considerazione complessiva, statistica, vorremmo dire, del loro peso; c’importa di sapere che, quale che fosse la loro origine e la loro antichità, all’epoca della conquista e della romanizzazione linguistica della Liguria, quei dati termini erano ancora vitali nelle parlate delle tribù liguri, e vitali di un tale vigore, da aver potuto resistere alla sopraffazione del latino, così da impregnarlo di sé e di riacquistare in esso, e poi nelle parlate romanze, nuova capacità di vita e di espansione (Il paesaggio geologico, p. 57).
37 Si vedano anche le molte voci relative a lavori di Bernabò Brea nella bibliografia di Comunità rurali nell’Italia antica. 38 Sul tema si veda Maggi, 2015, pp. 13-18. 39 Cfr. precedenti note 33 e 34. 38
Il «processo di denominazione» che dalla sfera geologica passa a quella zoologica e vegetale si configura «storicamente e logicamente, come un primo momento del rapporto che, attraverso il linguaggio, si stabilisce tra l’uomo e il paesaggio». Nell’affrontare lo studio dei rapporti delle popolazioni della Liguria preromana con il paesaggio geologico, la realtà geografica che assume il rilievo principale è quella della montagna, che definisce come elemento ricorrente una regione verticale, «tutta monti e sassi» specchio di una realtà naturale, geologica, che qui ancora, in Liguria, pur dopo lunghi millenni di storia umana, ci apparirà massiccia e corpulenta, con tutto il peso delle sue montagne, l’asprezza delle sue rocce, l’impeto dei suoi torrenti, che l’uomo non sa ancora, comincia appena ad asservire alla sua umanità. Poco o nulla, ancora, nel paesaggio, sembra esser mutato, da quando una Natura cieca e muta svolgeva il ritmo delle sue stagioni in un quadro non illuminato dalla coscienza umana (Il paesaggio geologico, p. 55).
Nonostante questa apparente staticità “naturale”, abitualmente associata alla realtà geologica della montagna e ai suoi tempi tutto è mutato, perché questa coscienza, una società umana, da millenni ormai è germogliata in quel paesaggio, si è svolta in forme ancor segrete, ma non per questo meno effettive; e le tribù degli uomini, che si aggirano fra quei monti, fra quelle rocce, fra quei torrenti, nel loro linguaggio già denominano e dominano quella Natura, che essi ancora appena scalfiscono con le loro tecniche (Il paesaggio geologico, p. 55).
Tutto è storia quindi, anche quel «potente fattore di differenziazione fra gruppi umani, anche vicinissimi» che è il «confine naturale» risulta essere «una categoria geografica, che non saprebbe non esser soggetta ad uno sviluppo storico». «I monti sun eggi» (i monti sono vecchi), concude Sereni con una formula che sarà poi ripresa in Terra nuova e buoi rossi (Sereni, 1981, p. 16) ed è oggi al centro del primo capitolo di un recente e fondamentale volume sull’archeologia e la storia del paesaggio ligure che molto riflette sulle intuizioni sereniane (Maggi, 2015); sono vecchi «non solo per la loro antichissima ossatura geologica», non solo «perché una così antica e permanente consuetudine» ha lasciato molte tracce nel linguaggio umano, ma anche perché le millenarie vicende che li hanno interessati – rendendoli “nudi” per l’uso silvo-pastorale intenso che ne ha scoperto «la calvizie» – hanno agito sulla stessa composizione ecologica delle formazioni vegetali che li abitano e che oggi siamo chiamati a difendere nel nome dei principi della sostenibilità. 39
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Nota redazionale I dattiloscritti sono stati rivisti dal loro autore che, oltre a correggere a mano refusi e imprecisioni, ha aggiunto i testi scritti in alfabeto greco antico. Si è cercato di ridurre al minimo l’opera redazionale, correggendo i rari refusi (compresi quelli nella numerazione delle note) e le altrettanto rare imprecisioni. Le parti del testo che in originale si presentavano sottolineate sono state rese in corsivo. Per i criteri di presentazione di etimi ed esiti e delle forme dialettali e loro traduzione si è scelta la forma grafica: etimo e/o forma dialettale in corsivo = esiti e/o traduzione della forma dialettale tra virgolette a sergente. Per le citazioni sono state mantenute le abbreviazioni adottate in originale da Sereni, nonché la forma da lui scelta per le trascrizioni e, in generale, per la citazione di autori e titoli in lingua straniera.
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Il paesaggio geologico
Poseidonio di Apamèa, il maestro della scuola stoica di Rodi, che verso la fine del II secolo a.C. percorse la Gallia Narbonense, e poi la Liguria, ci ha lasciato, del paesaggio ligure, una immagine che, dopo di lui, Diodoro Siculo1 e Strabone2 hanno ripreso dal suo racconto. Con intelligenza di storico e con genio di artista, la configurazione geologica stessa della regione egli la coglie non già nella sua immobile indifferenza; ce la presenta invece così come – in un rapporto attivo con l’uomo – essa diviene materia ed elemento di storia. Vivi, quasi sbalzati nella roccia madre, ci appaiono così i Liguri di Poseidonio, «che arano e zappano una terra dura, o piuttosto vi cavan pietre»3. L’espressione greca, che Poseidonio qui usa per la sua immagine, è quella, tecnica, dei cavatori di pietre delle latomie; e nessun’altra meglio di questa, certo, poteva attagliarsi al paesaggio geologico di una regione tutta monti e sassi. Anche della civile Marsiglia, poco dopo, Strabone4 ci parlerà come di una città sita in un paesaggio roccioso, che inquadra il suo porto; e l’immagine del monte e della pietra si ripete con insistenza a proposito dei Liguri, nelle fonti antiche, non solo quando si parla di Alpi e di passi montani, ma anche nella descrizione di un litorale sul quale, dal porto di Monaco all’Etruria, pendono «rocce precìpiti di alti monti, che lasciano lungo il mare solo uno stretto passaggio»5. Fin dal primo contatto del mondo egeo con la Liguria, del resto, questa caratteristica del paesaggio sembra aver vivamente impressionato navigatori e 1 Diod.Sic. IV, 20. 2 Strab. IV, 1, 7. 3 «...τραχεῖαν γῆν ἀροῦντες καὶ σκάπτοντες, μᾶλλον δὲ λατομοῦγτες»: Poseidonio in:
Fragm. Hist. Graec., vol. III, p. 275, fragm. n. 54. 4 Strab. IV, 1, 4. 5 Strab. IV, 6, 2.
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coloni greci: cui pure, dalla terra nativa, non doveva essere ignoto un quadro di monti e di pietre. Nel mito di Ercole, sulle cui orme si erano aperte alla civiltà greca le porte dell’accidente mediterraneo, questi navigatori ci hanno lasciato le loro impressioni di terre prima sconosciute; e tutto quanto, in esso, si riferisce alla Liguria, è – ancora una volta – immagine di monte e di pietra. Sulla via dall’Iberia all’Italia, è con la barbara gente dei Liguri che Ercole si scontra; ed essa «ha le sue sedi sui passaggi delle Alpi»6. Ai piedi dell’Alpe si combatte la mitica battaglia coi Liguri, che doveva aprire ad Ercole le porte dell’Italia, e nella quale certo si commemorano le lotte, che mercanti e coloni greci dovettero (e dovevano ancora in più tarda età) combattere per aprire ai traffici i passaggi delle Alpi, tenuti da genti barbare e bellicose. Ma è caratteristico il fatto che, anche in questi miti, l’immagine del sasso e della roccia si ripete non solo là, dove si parla di monti e di passaggi alpini. Già nel V secolo a.C., assai prima, che Dionisio mettesse per iscritto l’antico mito di Ercole, Eschilo lo raccoglie nel suo Prometeo liberato. Di quest’opera, perduta, si è conservato, per l’appunto, un frammento, nel quale Prometeo, descrivendo ad Ercole la via dal Caucaso alle Esperidi, gli predice lo scontro coi liguri. Non si parla, qui, d’Alpi o di monti: il campo della battaglia sostenuta da Ercole contro i barbari è localizzato nel delta del Rodano, nella piana della Crau, su di un terreno che Prometeo stesso designa ad Ercole come molle7, forse ancora paludoso. Eppure, anche in questa localizzazione si ritrova, proprio, il motivo sempre ricorrente del sasso e della pietra. L’immaginazione dei primi navigatori e coloni greci aveva dovuto esser colpita da questo strano paesaggio della Crau, ove il suolo tenace era tutto cosparso di ciottoli rotondeggianti, grossi come un pugno e sinanche quanto una testa di cavallo. Si tratta dell’innesto del cono detritico della Durance nel delta pliocenico del Rodano; ma del singolare fenomeno (delle cui origini avevano discettato Aristotele e Poseidonio, ed ancora discuteva Strabone)8, il mito di Ercole dava una spiegazione, che si ricollegava all’incontro coi Liguri. Mentre stava per esser sopraffatto dal loro numero, diceva il mito raccolto da Eschilo, l’eroe, che dal suolo molle e tenace non poteva svellere pietre a sua difesa, era stato soccorso dal padre Zeus; da una nube questi aveva fatto piovere i sassi rotondi, dei quali Ercole aveva potuto servirsi per mettere in fuga le schiere dei Liguri. Non aveva mancato di rilevare Poseidonio9, nel suo più maturo razionalismo, che sarebbe stato più semplice, per Zeus, scaricare la nube di sassi addirittura sui Liguri, senza obbligar Ercole a scagliarli. Ma quel che qui ci interessa è proprio, nel 6 Dion. Halic. I, 41. 7 «μαλϑακός»: Eschilo ap. Strab. IV, 1, 7. 8 Strab. IV, 1, 7. 9 Poseidonio ap. Strab. IV. 1, 7. 46
mito, questa insistenza sul sasso e sulla roccia; sul lancio dei sassi, anzi, diciamolo pure, da parte di Ercole. Sovente, ancora, i primi navigatori e coloni greci dovevano aver visto i Liguri usar rocce e pietre come armi di difesa e d’offesa. Cesare in persona doveva, in epoca di tanto più tarda, sperimentar l’efficacia di questa armi, quando i Liguri Salassii, dall’alto delle loro rocce, riversarono una pioggia di massi e di pietre sul suo esercito10. E qui, la ricorrenza già rilevata del motivo della pietra, del monte, della roccia nelle figurazioni della Liguria antica assume già un significato più profondo e più preciso; non e più solo quella di un dato geologico o geografico, ma investe l’antica umanità stessa dei Liguri. Non per nulla dal territorio dei Liguri s’irradiano i maggiori complessi montani dell’Italia, della Francia, della Svizzera odierne: le Alpi, gli Appennini, le Cevenne, il Giura. Non per nulla dalle loro parlate ci è stata probabilmente trasmessa la denominazione attuale stessa di questi complessi, e fors’anche quella delle Ardenne, Ancora all’epoca della conquista romana, di fronte all’invasore i liguri sempre di nuovo si rifugiano sulla montagna, «antica sede dei loro maggiori»11; e là dove, l’origine del nome delle tribù liguri si discopre alla nostra indagine etimologica, essa sovente ci riporta alla nomenclatura della montagna12. Sul culto ligure delle rocce e delle cime montane, torneremo più avanti; ma anche qui, non si tratta solo di dati geologici o geografici, e neppur solo di atteggiamenti umani, che siano da questi dati immediatamente legati e condizionati. Nel rilievo, che il monte e la pietra assumono in tutta la vita, oltre che nel paesaggio della Liguria antica, quel che è decisivo è, anche dopo la prima colonizzazione greca, e sino alla vigilia della conquista romana, una relativa arretratezza dello sviluppo civile. Questo non è ancor giunto, in realtà, a tagliar del tutto il cordone ombelicale, che ancora lega le popolazioni liguri alla natura, al paesaggio e ad un’economia naturale; e proprio per questo il paesaggio geologico – vedremo più avanti che non si tratta solo della pietra e del monte – assume nella vita della Liguria antica un rilievo così notevole, che non si saprebbe ritrovare nella pur petrosa e montuosa Ellade sua contemporanea, col suo paesaggio già tutto umanizzato dall’espandersi di una vita cittadina e civile. Di una vita civile (nel senso etimologico della parola), di fatto, 10 Strab. IV, 6, 7. 11 «...montem, antiquata sedem majorum suorum»: Liv. XXXIX, 32. 12 Così il nome della tribù ligure degli Albici è quasi certamente legato alla radice ligure di alba ed Alpi; quello dell’importante popolo degli Intemelii alla base mel, che ha anch’essa II significato di «monte». Da altre basi liguri, alpine o celtiche dello stesso senso prendono probabilmente il loro nome le tribù, dei Brigantii, dei Segobrigi, dei Taurini, dei Tebavii; mentre dal celtico nantu = «valle» prendono nome i Nantuati. In altri casi, come per i Graioceli, la seconda parte del nome composto (cel, legato al latino col- ere, in-q-il-inus) sembra precisare la sede montana della tribù o del popolo. 47
prima dell’allargarsi dell’influenza di Roma, nella Liguria antica si può parlare solo in un senso assai relativo, e per zone piuttosto ristrette, irradiate attorno a Marsiglia e, più debolmente, attorno a Genova e pochi altri centri minori.
Fig. 1, Emilio Sereni, “Marrelo” nella Val Polcevera, settembre 1951, fotografia, cm 9x6, Fondo Sereni, Illustrazioni storia agraria, b. 17.
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1. Arretratezza e preistoria ligure Vero è che, sul litorale ligure – una delle zone di meglio documentato e di più antico popolamento della Penisola – l’uomo si era insediato dalle epoche più remote della preistoria. Ma assai prima della conquista romana, la relativa precocità del paleolitico ligure ed una ancor florida cultura della pietra levigata si erano venute cristallizzando in una stagnazione ritardataria della vita regionale13. Lasciamo la parola – per la documentazione archeologica di questa nostra affermazione, che non saprebbe essere di nostra competenza – ad uno specialista della stratigrafia ligure: «la cultura che ora si afferma – scrive il Bernabò Brea, l’autore dei più precisi scavi nella famosa caverna dalle Arene Candide a Finale Marina – sarà quella che, non ostante assimilazione di elementi nuovi, parziale perdita degli elementi vecchi, lenta trasformazione dovuta a contatti con nuove civiltà e alle esigenze dei tempi nuovi, perdurerà in Liguria fino all’avvento della civiltà romana»14. Si tratta qui di quella cultura che la Laviosa Zambotti ha chiamato la «civiltà di Lagozza», e che ella ha studiato non solo nell’omonima stazione di Lagozza di Besnate, ma anche all’Isolino e in altre stazioni palafitticole del lago di Varese15, mostrandone i legami con le culture delle caverne meridionali francesi e del Camp di Chassey, nonché col neolitico lacustre del lago di Neuchatel (“civiltà di Cortaillod”); ed essa sembra estendersi, nell’eneolitico, a tutta l’Italia settentrionale (che vien più nettamente differenziandosi da quella peninsulare), alla Francia meridionale ed a parte della Svizzera16. Una cultura, comunque, in cui le industrie neolitiche della pietra levigata continuano a fiorire, se pur talora in forme nuove, sino alla vigilia della conquista romana17. 13 Vedi, per una sommaria documentazione sui ritrovamenti, sulle caratteristiche e sui problemi del paleolitico ligure, Patroni: Preistoria, vol. I, p. 61 sgg. e passim; Marc R. Sauter: Préhistoire de la Méditerrànée: Palèolilithique, Mésolithique, Paris, Bayot 1948, p. 27 sgg; Lamboglia in: Storia di Genova, vol. I, p. 5 sgg. Per le caratteristiche razziali dell’uomo fossile in Liguria (tipo Cro-Magnon e negroide), cfr. Marcellin Boule: Les homines fossile, Paris, Masson 1946, p. 298 sgg. Per le nuove ricerche stratigrafiche nella caverna delle Arene Candide, v. L. Bernabò Brea: Gli scavi nella Caverna delle Arene Candide, Bordighera, Istituto di Studi Liguri, 1946. 14 Bernabò Brea, op. cit., p. 203. 15 P. Laviosa Zambotti: La ceramica della Lagozza e la civiltà palafitticola italiana vista nei suoi rapporti con le civiltà mediterranee ed europee, in Bollettino di Paletnologia Italiana, 1939, III e IV; Idem, Civiltà palafitticola Lombarda e civiltà ai Golasecca, in Rivista Archeologica di Como, 1939; Idem, Le più antiche culture agricole europee, Messina, Principato, 1943, passim. 16 Bernabò Brea, op. cit., pp. 304-309. 17 Bernabò Brea, op. cit., pp. 327-328. 49
Non nascondiamo la nostra perplessità di profani di fronte a certe tendenze degli specialisti ad inferire analogie di culture, influssi di civiltà (o addirittura migrazioni di genti) sulla base di ricerche quasi esclusivamente orientate al confronto di forme e decorazioni ceramiche. Su tale confronto si è più spesso concentrata, in Occidente, l’indagine e l’elaborazione delle dottrine archeologiche negli ultimi decenni; e questa nostra perplessità dobbiamo esprimerla anche a proposito di alcune conclusioni che la Laviosa Zambotti e il Bernabò Brea sembrano trarre dalle loro importanti ricerche. Senza per nulla diminuire il valore di elaborazioni del genere, condotte sovente, come nel caso in esame, con profonda dottrina, e talora con geniale acutezza, lo storiografo è portato a richiedere alla competenza dello specialista una più attenta considerazione ed una più approfondita elaborazione di altri elementi della tecnica primitiva, e particolarmente di quelli che si riferiscono alla fondamentale struttura produttiva della società (strumenti di caccia, di pesca, agricoli ecc.), troppo spesso trascurati in Occidente anche dai migliori ricercatori delle nuove scuole18. 18 Già Marx rilevava, in un passo famoso, come lo studio degli strumenti di lavoro di società scomparse abbia, per il giudizio storico sulle rispettive formazioni sociali, la stessa importanza che lo studio della struttura dei relitti ossei ha per la conoscenza di specie animali oggi estinte. Ma – egli aggiungeva – «fra gli strumenti di lavoro stessi, gli strumenti di lavoro meccanici, il cui complesso può esser designato come il sistema osseo e muscolare della produzione, hanno – per la caratterizzazione di una data epoca della produzione sociale – un’importanza assai più decisiva di quel che non avvenga per quegli strumenti di lavoro, che servono solo da recipienti, e il cui complesso può essere genericamente designato come sistema vascolare della produzione; ad es. tubi, botti, canestri, brocche eec. Solo nella fabbricazione chimica questi acquistano una funzione più notevole» (Marx, Das Capital, vol. I, cap. 5., p. 188). Bisogna riconoscere che, fra i ricercatori delle vecchie scuole, dal Pigorini al Brizio al Déchelette, questa giusta preoccupazione nell’orientamento fondamentale delle ricerche e delle elaborazioni era più viva che fra molti delle nuove. Ancor oggi, è spesso ai loro lavori, se pure per altro verso invecchiati, che deve rivolgersi lo studioso, il quale voglia trovar la documentazione archeologica della fondamentale “struttura ossea” delle società primitive. È caratteristica, così, la scarsa frequenza, nella più recente letteratura archeologica, di studi speciali sulle qualità dinamiche, e meccaniche in genere, degli strumenti dell’uomo preistorico, agricoli od altri che siano. Abbiamo dovuto dolerci sovente, nel corso di questa nostra ricerca, della deficienza in proposito di studi di specialisti. Per questi studi, essenziali per il chiarimento di tutta una serie di problemi delle culture primitive, e di quelle agricole in particolare, solo in Unione Sovietica, per quanto ci risulta, esistono Istituti e riviste specialmente attrezzate. Tanto maggior rilievo meritano, in queste condizioni, atteggiamenti e considerazioni quali quelle che il Patroni, ad es., fa a proposito delle tecniche e degli strumenti paleolitici e neolitici, e particolarmente a proposito dell’effetto dinamico dell’immanicatura ad angolo degli strumenti nel neolitico. Cfr. Patroni, op. cit., vol. I, p. 177 sgg. Poca parte, invece, hanno ricerche e considerazioni del genere, ed anche quelle più ovvie sui reperti di semi, frutti, strumenti agricoli, resti di pasti, nel volume già citato della Laviosa Zambotti, che pur direttamente si riferisce alle più antiche culture agricole. Ci auguriamo che questa valente ricercatrice possa ella stessa, con la sua ben nota 50
Le nostre perplessità e le conseguenti nostre riserve, comunque, se si riferiscono ad alcune delle più lontane conclusioni, che la Laviosa Zambotti e il Bernabò Brea hanno tratto dalle loro ricerche, non toccano per nulla il loro valore sostanziale ai fini del nostro assunto. Quel che qui ci interessa, è la tarda persistenza di industrie litiche nella regione ligure; e questa resta largamente documentata – pur se non sempre sufficientemente approfondita – anche e proprio dalle ricerche di questi egregi studiosi. Non ci diffonderemo pertanto sul dibattito – che non sarebbe d’altronde di nostra competenza – sorto tra il Bernabò Brea e la Laviosa Zambotti a proposito di una eventuale influenza della civiltà tipo Polada sulla cultura della Liguria propria19. Quel che può considerarsi assodato dalle più recenti ricerche è il fatto che, nell’età del bronzo, il processo di frazionamento territoriale della cultura italiana, già avanzato con l’avvento della “civiltà di Lagozza”, si sviluppa ulteriormente, con la differenziazione dell’Italia settentrionale stessa in due diverse province culturali. Mentre, infatti, nella parte occidentale della Valle Padana, in Liguria, e forse anche nella Toscana settentrionale, la cultura della Lagozza seguita ininterrotta una sua lenta evoluzione, nella Bassa Valle Padana essa viene cancellata dall’avvento di nuove culture, nelle quali le industrie del rame, poi quelle del bronzo e del ferro, hanno ben altro rilievo20. Dal punto di vista dei reperti di documenti della cultura materiale, le due province così formatesi continueranno a mantenersi ben distinte fino all’invasione gallica, e – almeno per quanto riguarda la Liguria marittima – fino alla conquista romana.
competenza, colmare questa lacuna. I suoi studi sulla civiltà di Golasecca mostrano come ella sappia valutare l’importanza di altre tecniche, più direttamente legate allo strumento meccanico, là dove queste si presentano con maggior rilievo. Ma anche il materiale della “civiltà di Lagozza”, e particolarmente quello illustrato dall’egregia ricercatrice, sembra offrire possibilità notevoli in questo senso, non ancora affrontate dalla sua competenza. Nello stesso senso da noi indicato, a proposito della mancanza di una forma rudimentale d’aratro in Italia, elemento «che il libro della Laviosa non sfrutta a fondo», fa un rilievo il Devoto, nella sua importante recensione al volume già citato su Le più antiche culture agricole europee, in St. Etr., vol. XVIII, p. 565. Le rilevate tendenze, dominanti nelle nuove scuole in Occidente, sembrano d’altronde inserirsi nel più ampio quadro di un orientamento formalistico, che sì può riscontrare in tutti i campi della scienza nella più recente fase d’involuzione della società capitalistica. A questo orientamento formalistico hanno largamente reagito, anche nel campo archeologico, le nuove scuole scientifiche sovietiche. Si veda, ad es., in Vopr. Ist., 1949, n. 2, p. 20 sgg., la rassegna di Udaltsov sul problema delle origini slave, e la sua polemica contro la sopravvalutazione della «ceramica a cordicelle» nella considerazione dei problemi delle origini indoeuropee. 19 Bernabò Brea, op. cit., p. 319. 20 Bernabò Brea, op. cit., pp. 303-310. 51
Anche al di là delle Alpi, d’altronde, nella Francia meridionale – come aveva già rilevato il Déchelette – l’età del bronzo segna un periodo di differenziazione fra le regioni site rispettivamente al di là e al di qua del Rodano21. Queste ultime sono quelle in cui più tardi, come al di qua delle Alpi, verrà con maggior precisione rivelandosi 1’ethnos ligure, e alle quali pertanto si allarga la nostra ricerca. Qui, forse, la stagnazione caratteristica nell’età del bronzo per la Liguria cisalpina non è così accentuata; assai più numerosi sono, tra le Alpi e il Rodano, i reperti metallici riferibili a quest’epoca22. Ma più in generale – rileva giustamente il Lamboglia, in una sua efficace rassegna critica delle nostre nozioni sulla Liguria preistorica – non è da pensare che, nell’età del bronzo, il territorio che sarà quello della Liguria e dei Liguri protostorici presenti un’unità di facies archeologiche. «Anzi […] se qualche cosa la paletnologia è già in grado di rivelare, è l’assenza di una vera unità civile e il frazionarsi della vita locale in una serie di zone staccate e indipendenti, aventi per unica legge di sviluppo un marcato adattamento alle condizioni del suolo e del clima e alle possibilità di sfruttamento e di comunicazione di questa o quella regione»23. Fin nell’età del ferro, d’altronde, e già in epoca protostorica, la caratteristica qui accennata dal Lamboglia conserverà, come vedremo, gran parte del suo valore: anche se, nella “Grande Liguria” protostorica, le zone periferiche verranno subendo più larghe e dirette influenze esterne, che spegneranno le tradizioni neo-eneolitiche della “civiltà di Lagozza”, vinte ormai dall’affermarsi delle nuove e ben più avanzate tecniche delle industrie metalliche. Ma in vaste zone di rifugio, che si allargano a buona parte della Liguria marittima, queste tradizioni delle industrie neo-eneolitiche della pietra si mantengono vivaci sino alla epoca della conquista romana. Diamo, ancora una volta, la parola al Bernabò Brea: «L’uso dell’industria litica in Liguria fino alla tarda età del ferro, forse fino alla conquista romana, attestatoci dai rinvenimenti delle Arene Candide, è anche confermato dalla presenza di numerosi strumenti di selce e diaspro, fra cui una tipica cuspide a ritocco bifacciale e di accette e scalpelli di pietra verde levigata nella stazione all’aperto dei Praxelli di Rossiglione [...] attribuibile alle fasi avanzate della civiltà di Golasecca […] tolta la sola necropoli di Genova [...] gli altri rinvenimenti indicano, per questa regione, una povertà e una rozzezza assai maggiore nei confronti della civiltà che si è svolta sulle rive del Ticino e del Comasco, già assai povera in confronto delle contemporanee civiltà della rimanente Italia settentrionale e centrale [...]. Nell’età del ferro [...] la scarsissima importanza che il metallo sembra rivestire nell’economia 21 Déchelette, Age du bronze, pp. 12-13. 22 Tra questi, caratteristici i falcetti di bronzo. Cfr. Déchelette, op. cit., p. 13 e p. 266 sgg. 23 Lamboglia in Storia di Genova, vol. I, pp. 55-56. 52
delle popolazioni liguri di quel tempo, e il perdurare presso di essa dell’industria litica, ormai ovunque abbandonata, ci dimostra come la Liguria non partecipi al progresso della civiltà, ma perduri in uno stadio culturale che potrebbe essere definito neolitico, anche quando il rimanente d’Italia è ormai in piena età storica»24. Può darsi che il giudizio dato qui dal Bernabò Brea sulla arretratezza neolitica della Liguria sia espresso in una formula eccessivamente drastica. Essa va intesa, evidentemente, cum grano salis. Sulla persistenza delle industrie litiche sino alla vigilia della conquista romana, comunque, le sue sono costatazioni di fatti, che trovano una conferma nella scarsezza dei reperti metallici in tutta la Liguria. Ci sembra, piuttosto, che il giudizio del Bernabò Brea, a parte la sua drasticità, lasci in ombra un elemento essenziale, quale è quello di una differenziazione in atto: che – già nell’età del bronzo – porta territori come quello degl’Ingauni a un livello di sviluppo economico indubbiamente più avanzato. Su questa differenziazione giustamente insiste il Lamboglia, nel brano già citato, e a più riprese nei suoi scritti. Ed egli coglie un dato essenziale al nostro assunto, quando rileva «il marcato adattamento» delle varie genti liguri alla varietà dei suoli e del clima. «Arretratezza neolitica» – se così si vuol chiamare – e «marcato adattamento alla varietà delle condizioni naturali» sono due termini inscindibili di un medesimo binomio: esprimono le condizioni di un’umanità, che per l’arretrato grado di sviluppo dei suoi strumenti e delle sue forze produttive è ancora strettamente legata ad un ambiente e ad un’economia naturale. Né può meravigliare che, per questa umanità, il sasso, il monte, il fiume, la foresta – il paesaggio geologico ed il paesaggio vegetale – acquistino un rilievo, che non saprebbero conservare nella vita dell’uomo civile, stretto tra le mura della città, o comunque liberato da un legame di dipendenza quasi animale nei confronti della natura, del suo paesaggio, delle sue forze. Quali documenti sono oggi a nostra disposizione, per precisare questo rapporto fra le popolazioni liguri, alla vigilia della conquista romana, e il paesaggio geologico, la pietra, il monte, il fiume, la palude? I reperti archeologici ci mostrano, ancora in tarda età, la pietra servir da materia prima per la fabbricazione di strumenti in Liguria; i documenti storici ci additano sovente il monte come sede di quelle tribù. Ma che peso effettivo queste realtà geologiche avevano nella vita quotidiana delle popolazioni liguri, nella loro economia e nella loro coscienza sociale? Attraverso la varietà delle situazioni e dei rapporti locali, qual è 1’elemento decisivo nei rapporti fra i liguri e il paesaggio geologico, quello che esprime ciò che è essenziale, a questo riguardo, per la formazione sociale cui essi appartengono? E come si afferma dapprima, nei confronti di questo paesaggio, quella attività umana, che finirà per trasformarlo, per incidere profondamente su di esso, per umanizzarlo?
24 Bernabò Brea, op. cit., pp. 327-328. 53
2. Lingua e paesaggio A questi interrogativi, non potrebbero fornirci una risposta solo i reperti archeologici, che non possono d’altronde sfuggire ad una certa casualità. Essi ci offrono, con la documentazione della persistenza sino a tarda età dell’industria litica in Liguria, il quadro tecnico generale, nel quale i rapporti tra l’uomo e il paesaggio geologico vengono conformandosi nella regione, ancora alla vigilia della conquista romana. Un quadro ancora generico di arretratezza tecnica, di cui non siamo certo portati a sottovalutare l’importanza; ma una precisazione ulteriore di questo quadro, ai fini che qui ci interessano, ce la può fornire solo una documentazione, che abbia un carattere meno casuale; e che, d’altra parte – in quanto intrinseca, come la tecnica stessa, al processo dei rapporti tra l’uomo e il paesaggio geologico – sia capace di darci, di questi rapporti, un quadro caratteristico per il complesso di quella data formazione sociale, epurato da tutto quanto è solo particolare, casuale, non essenziale. In una fase storica come quella in esame, in cui – come ce lo dimostra l’arretratezza delle tecniche – la capacità dell’uomo di incidere materialmente sul paesaggio geologico è ancora relativamente ristretta, dato il basso livello di sviluppo delle forze produttive sociali, assume un particolare rilievo, nella nostra documentazione, il materiale linguistico: nel quale, anche nelle fasi sociali più arretrate, si esprime – non foss’altro che con la denominazione di monti, fiumi e scoscendimenti del terreno – un rapporto già attivo dell’uomo col paesaggio geologico: ancora solo formale e impotente, se si vuole, ma già una prima presa di possesso ed umanizzazione di questo paesaggio, e altamente significativa per la raffigurazione più precisa di una data formazione sociale25. In ogni 25 Su questo valore della denominazione, in quanto rapporto attivo dell’uomo nei confronti della Natura, le considerazioni più profonde e più pregne di significato – che meriterebbero di essere sviluppate e ulteriormente precisate – restano forse ancora quelle che Polibio fa, a proposito delle spedizioni di Annibale, nel III libro delle sue Storie. «Ma – scrive Polibio – affinché, per mancanza di conoscenza dei luoghi, la nostra narrazione non divenga del tutto oscura, bisogna esporre donde sia partito Annibale, quanti e quali luoghi abbia, attraversato, e in quali regioni d’Italia sia pervenuto. Si devono dire non solo le denominazioni dei luoghi, dei fiumi, delle città (Ῥητέον δ’οὐκ αὐτὰς τὰς ὀνομασίας τῶν τόπων), come fanno alcuni scrittori, i quali pensano che ciò sia del tutto sufficiente per la conoscenza e la chiarezza. Io credo che, per i luoghi noti, non poco, ma moltissimo contribuisca a farli ricordare il presentarne i nomi (ἡ τῶν ὀνομάτων παράϑεσις): per i luoghi sconosciuti, invece, la semplice esposizione dei nomi ha lo stesso valore di voci senza senso e di parole vane (ταῖς τῶν ὀνομάτων παράϑεοις). Non potendo, infatti, la mente appoggiarsi a nulla, né potendo riferire le parole ad alcun oggetto noto (Τῆς γὰρ διανοίας ἐπ’οὐδὲν ἀπερειδομένης, οὐδὲ δυναμένης), l’esposizione diviene confusa e vaga. Dobbiamo perciò mostrare la maniera per cui si possa, parlando di cose sconosciute, guidare in qualche modo gli uditori a cognizioni reali e note. Ora la prima e maggior nozione, comune a tutti gli uomini, è la divisione e l’ordine del mondo che ci circonda, per cui tutti, per quanto di scarsa cultura, conosciamo l’Oriente, 1’Occidente, il Meridione ed il Settentrione. La 54
società primitiva, che non abbia ancor del tutto tagliato il cordone ombelicale che la lega ad un paesaggio e ad un’economia naturale, il linguaggio è più che mai – secondo che, genialmente, scriveva Engels – la forma nella quale «la Natura raggiunge la coscienza di se stessa»26: e questa parola va qui intesa non già in un senso idealistico e metafisico, ma nel suo senso più letterale e immediato: perché davvero l’uomo, in cui questa coscienza si è accesa, è ancora esso stesso Natura, e tutto impegnato in una realtà naturale. «Qui come ovunque – ha scritto Marx – l’identità di Natura e uomo ci si manifesta in ciò, che il rapporto limitato (bornierte) degli uomini con la Natura condiziona la limitatezza dei loro rapporti reciproci; così come, viceversa, la limitatezza dei loro rapporti reciproci condiziona la limitatezza dei loro rapporti con la Natura, proprio perché questa è appena modificata storicamente...»27. Una Natura, una realtà naturale, geologica, che qui ancora, in Liguria, pur dopo lunghi millenni di storia umana, ci apparirà massiccia e corpulenta, con tutto il peso delle sue montagne, l’asprezza delle sue rocce, l’impeto dei suoi torrenti, che l’uomo non sa ancora, comincia appena ad asservire alla sua umanità. Poco o nulla, ancora, nel paesaggio, sembra esser mutato, da quando una Natura cieca e muta svolgeva il ritmo delle sue stagioni in un quadro non illuminato dalla coscienza umana; eppure tutto è mutato, perché questa coscienza, una società umana, da millenni ormai è germogliata in quel paesaggio, si è svolta in forme ancor segrete, ma non per questo meno effettive; e le tribù degli uomini, che si aggirano fra quei monti, fra quelle rocce, fra quei torrenti, nel loro linguaggio già denominano e dominano quella Natura, che essi ancora appena scalfiscono con le loro tecniche. Tribù di uomini, una società, con un loro linguaggio; e la lingua – ha scritto, ancora, Marx – «è la coscienza reale, pratica, in quanto esiste anche per gli altri uomini, e così anche per me stesso; e la lingua sorge, come la coscienza, solo dal bisogno, dalla necessità della relazione con altri uomini. Là dove esiste una relazione, là essa esiste per me: la bestia “non ha relazioni” con nulla (verhält sich zu Nichts); più in generale, non ha relazioni. Per la bestia, la sua relazione con altri non esiste in quanto relazione»28. seconda cognizione è quella per cui, a ciascuna delle quattro predette divisioni, assegnamo i vari luoghi della terra; e riferendo sempre, col pensiero, ciò che diciamo a qualcuna delle suddeette divisioni, ci rifacciamo, anche per luoghi sconosciuti, a nozioni note e famigliari» (Polibio, Hist. III, 36). Sulle ultime considerazioni, svolte in questa pagina di Polibio, si confrontino le profonde osservazioni di Gramsci in Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, Torino, Einaudi, 1948, pp. 143 sg., a proposito del carattere storico dei concetti di Occidente ed Oriente. 26 F. Engels in Dialektik der Natur, MEGA, t., Sonderausgabe, p. 493. 27 In K. Marx e F. Engels, Die Deutsche Ideologie, in MEGA t., Erste Abteilung V Band, p. 20. 28 Ibidem, p. 20. 55
Nelle società primitive, certo, questa capacità e questa coscienza di relazione è sovente ancora «semplice coscienza del più immediato ambiente sensibile, e del limitato rapporto con altre persone e cose all’infuori dell’individuo che divien cosciente»; è, anzitutto, «coscienza della Natura, che si presenta dapprima all’uomo come una forza assolutamente estranea, onnipotente, inattaccabile, nei confronti della quale 1’uomo sì comporta in maniera puramente animale, dalla quale egli si lascia impressionare come la bestia; è, così, una coscienza ancor puramente animale della Natura (religione naturale)»29. È proprio di questa fase che c’interessa di sorprendere le manifestazioni residue tra le popolazioni della Liguria, alla vigilia della conquista romana: per misurarne e pesarne, nel linguaggio, il grado di sviluppo raggiunto nei rapporti – di dominio o di asservimento che siano – col paesaggio naturale, geologico. Qui l’atteggiamento dello storiografo è, e dev’essere necessariamente, diverso da quello del linguista – come da quello, dell’antropologo, dell’archeologo, del naturalista – che gli forniscono la materia e gli strumenti essenziali della sua ricerca. Ognuna di queste scienze – che sono anch’esse, e non potrebbero non essere, scienze storiche – deve necessariamente rivolgersi al particolare, alla storia di quella data lingua e di quella data parola, di quel dato reperto craniologico o ceramico, di quella data specie o formazione vegetale, che essa deve riuscire ad inquadrare in un sistema coerente di nozioni universali, relative al proprio specifico obietto. Per lo storiografo, invece, l’oggetto specifico della ricerca non potrebbe essere né il particolare né l’universale: è 1’individuo storico, quella data formazione sociale, di cui si tratta di individuare i contenuti, i rapporti, le forme, le intrinseche leggi di sviluppo, evitando il duplice scoglio di un astratto sociologismo – che pretenda forzare la realtà del processo storico nel letto di Procuste di schemi preconcetti – e di un agnostico empirismo, che rinunci al compito proprio di ogni scienza, la ricerca delle uniformità, delle leggi intrinseche a quel dato processo30. Nel caso che qui ci interessa, 1’abbiamo già detto, una documentazione particolarmente importante ai nostri fini ci è offerta dalla linguistica storica. Ma abbiamo voluto subito avvertire come il modo, in cui noi ci apprestiamo ad utilizzarne i risultati, sia necessariamente diverso da quello consueto per il linguista. Per il linguista, così, di fronte a un relitto – epigrafico, toponomastico o lessicale che sia – delle parlate delle tribù che abitavano la Liguria preromana, il compito che si pone è quello di ricercare a quale strato linguistico (“mediterraneo”, ligure, celtico ecc.) esso appartenga, come la sua evoluzione fonetica e semantica s’inquadri o si combini in questo o quel gruppo, ne esprima le vicende e le successive 29 Ibidem, p. 20. 30 Fondamentale, per l’impostazione metodologica qui appena accennata, e per il concetto, di «formazione sociale», il brano di Lenin in Opere complete, IV ed. russa, vol. I, p. 122 sgg. 56
stratificazioni e frammistioni. La scuola italiana ha elaborato in proposito tutta una valida metodologia, che ha permesso di raggiungere risultati notevoli nei più vari campi. Basti ricordare, come brillante esempio di elaborazione e di applicazione di questa metodologia, le ricerche del Bertoldi sulle vicende e sugli incroci del celtico verna e del latino alnus31. Il Bertoldi è forse stato, d’altronde, fra i linguisti italiani, di quelli che hanno più continuamente insistito sulla necessità di condurre anche queste ricerche più propriamente linguistiche all’infuori di un puro formalismo fonetico o morfologico, ma sempre in stretto legame con lo studio della realtà e della cultura materiale che nella data lingua si esprime. Avremo sovente occasione, nelle pagine che seguono, di far ricorso ai risultati delle ricerche del Bertoldi e di altri linguisti della scuola italiana, che con la loro specifica competenza ci offrono un materiale insostituibile per il nostro studio. Ma l’utilizzazione di questi materiali sarà necessariamente, da parte nostra, diversa da quella caratteristica per una ricerca più propriamente linguistica. Il Bertoldi stesso, d’altronde, a proposito delle ricerche del Wagner sulla lingua come specchio della vita agricola della Sardegna32, ha giustamente rilevato la diversità fra la ricerca più propriamente linguistica e quella in cui il «procedimento ricostruttivo è stato esteso a tutte le “cose e parole” in uso entro un ambito culturalmente unitario, in modo da ottenere un quadro organico di una cultura regionale in tutte le sue forme più tipiche espresse dalla parola»33. È questo secondo metodo, appunto, quello più atto a fornirci il quadro dei rapporti tra le popolazioni della Liguria preromana e il paesaggio naturale, geologico e vegetale. Relitti geonomastici, toponomastici e lessicali delle parlate della Liguria preromana concorrono qui in egual misura a fornirci la documentazione necessaria; e quel che qui ci interessa, non è tanto la storia individuale di questi singoli relitti, né la determinazione del particolare strato o gruppo linguistico cui essi appartengono. Quel che ci interessa, per il nostro assunto, è – per così dire – una considerazione complessiva, statistica, vorremmo dire, del loro peso; c’importa di sapere che, quale che fosse la loro origine e la loro antichità, all’epoca della conquista e della romanizzazione linguistica della Liguria, quei dati termini erano ancora vitali nelle parlate delle tribù liguri, e vitali di un tale vigore, da aver potuto resistere alla sopraffazione del latino, così da impregnarlo di sé e di riacquistare in esso, e poi nelle parlate romanze, nuova capacità di vita e di espansione. Il processo concreto, col quale questo o quel termine è riuscito a sopravvivere di contro a quello latino e ad inserirsi nelle parlate romanze, c’interessa qui meno del fatto, 31 Bertoldi in Silloge Ascoli, p. 490 sgg. 32 M.L. Wagrier, Das Ländliche Leben Sardiniens im Spiegel der Sprache, Hedelberg, 1921. 33 Bertoldi, La parola quale testimone ecc., pp. 86-88. 57
diciamo così, statistico, della sopravvivenza di tutto un gruppo di termini lessicali, relativi a una data realtà naturale o sociale; proprio queste sopravvivenze di gruppi intieri di termini lessicali varranno a documentar meglio il peso e la parte, che la realtà ad essi corrispondente già aveva nella vita delle popolazioni della Liguria preromana: sicché, ad esprimerla, queste popolazioni han continuato, anche dopo la romanizzazione, ad usare termini derivati da quelli delle loro parlate originarie, e non dal latino. Questo non ci esimerà, in singoli casi, dal ricercare perché, anche fra termini dello stesso gruppo, alcuni si siano trasmessi alle parlate romanze dalle parlate prelatine, ed altri no. Tipico è, in proposito, il caso già citato del celtico verna = «ontano», che ha numerosi continuatori nelle parlate romanze dell’area ligure; mentre, per un’altra essenza forestale di non minore importanza tecnica e commerciale, dominano assolutamente, nell’area medesima, i continuatori del latino robur = «rovere»34. In questo caso, lo studio delle utilizzazioni tecniche e delle vicende commerciali rispettive delle due essenze legnose ci permette di individuare il motivo di questa disparità di trattamento; ma anche là dove ciò non riesca possibile, la considerazione complessiva di un gruppo di termini, e della proporzione che tra di essi è rappresentata dai relitti prelatini, potrà permetterci di giungere a conclusioni importanti ai nostri fini. Non possiamo naturalmente escludere, in questa considerazione globale di gruppi di termini, l’influenza di una circolazione e di una produttività dei relitti che si svolga, temporalmente, al di là dei limiti, entro i quali si è svolta la romanizzazione linguistica della Liguria. Cercheremo, nei singoli casi, di eliminare questa fonte di errore, utilizzando i dati ottenuti dai linguisti con le loro ricerche in proposito. Ma anche là dove questa fonte di errore non si riuscisse ad eliminare nel caso singolo, proprio la considerazione globale di tutto un gruppo di termini ci sembra venga a diminuirne l’influenza sulle nostre conclusioni; mentre persino la circolazione di un relitto linguistico prelatino dalla Provenza al Piemonte, putacaso, in epoca di non troppo posteriore a quella della romanizzazione, presenta ai nostri fini un interesse che non è da sottovalutare. Un’altra considerazione preliminare ci resta da svolgere, a proposito dei relitti geonomastici e toponomastici. I linguisti hanno sovente sottolineato il carattere conservativo di questi nomi, che a preferenza di altri termini lessicali vengono trasmessi da una stratificazione linguistica alla successiva35. Si tratta di un dato 34 Cfr. in proposito Bertoldi in Silloge Ascoli, p. 519 sg., e, più avanti, in questo nostro scritto, il capitolo su Il paesaggio vegetale. 35 Cfr. ad esempio, in proposito, Solmsen, Indogermanische Eigennamen, p. 42 sgg.; Dauzat, Noms de lieux, p. 71 e passim; Dauzat, Toponymie, p. 74 e passim; P. Skok: Toponomastica, v. s. v. in Encicl. Ital., vol. XXXIV. p. 7 sgg.; S.B. Veselovskii, Toponimika na službe u istorii (La toponomastica al servizio della storia)., in Istorč. zapiski, 1945, n. 17, p. 24 sgg.; Colella, Topon. pugliese, p. 5 e 93. Anche l’attenzione degli storiografi è stata da tempo rivolta 58
di fatto, che può oggi considerarsi senz’altro provato attraverso numerosissime ricerche speciali. Ma quello su cui vorremmo attirare particolarmente l’attenzione del lettore, è il carattere storico di questo conservativismo dei toponimi, e specie dei termini geonomastici: carattere che non sempre ci sembra sia stato posto nel dovuto rilievo. Il fatto stesso del conservativismo non è, cioè, un fatto soprastorico; non potrebbe manifestarsi nelle stesse forme e nella stessa misura in una società primitiva, in cui le popolazioni conducono una vita nomade o seminomade, ed in un’altra, in cui esse si siano già stabilmente insediate; e ancor maggiore è questa diversità tra due ambienti o due epoche storiche, caratterizzate rispettivamente da un legame ancora immediato con l’ambiente naturale o, invece, da una evoluta vita cittadina, che escluda gli strati decisivi della popolazione da un tale legame. Quest’ultima considerazione può sembrare ovvia, ma abbiamo creduto necessario accennarla, perché anch’essa può offrirci utili elementi per la caratterizzazione dei rapporti tra le popolazioni della Liguria alla vigilia della conquista romana e il paesaggio naturale, geologico. Non ci soffermeremo, per contro, ad approfondire 1’esame delle condizioni, nelle quali si è sviluppata la simbiosi linguistica celto-ligure, e poi la romanizzazione della Liguria. Per questo rimandiamo senz’altro il lettore agli scritti degli specialisti, e particolarmente a quelli del Terracini e del Bertoldi, i quali hanno svolto in proposito considerazioni, che ci sembrano decisive36. Passeremo pertanto senz’altro, dopo questa breve premessa metodologica – che avremo l’occasione di precisare nel corso stesso dell’esposizione – all’oggetto più specifico della nostra ricerca: cominciando lo studio dei rapporti delle popolazioni della Liguria preromana con il paesaggio geologico da quella realtà, geografica della montagna, che già ci è apparsa come dominante nella vita di queste popolazioni.
all’importanza che il conservativismo dei toponimi, e specie degli oroidronimi, acquista per le loro ricerche. Cfr. in proposito, già nella seconda metà dell’800, gli studi del Flechia, Di alcune forme dei nomi locali dell’Italia superiore, in Memorie Accad. Torino, Scienze storiche, II serie, 27 (1873), p. 275 sgg. e 332 sgg., e del D’Arbois de Jubainville, Recherches ecc., che hanno aperto la via, in particolare, alle ricerche di toponomastica ligure e celto-ligure, in rapporto con gli studi sull’estensione territoriale di queste popolazioni in epoca preromana. Così pure, più. tardi, tra gli altri, il Pais di cui cfr. lo scritto Tradizioni antiche e toponomastica moderna, in Italia antica, 1922, p. 31 sgg. 36 Cfr. Terracini, Spigolature liguri e Bertoldi, Arcaismi e innovazioni margine del dominio celtico, in Silloge Ascoli; del Bertoldi stesso, lo scritto su La colonizzazione latina della Gallia, in Colonizzazioni, e molti altri suoi studi, nei quali i proclami in esame sono affrontati con profonda dottrina e con acume spesso geniale. 59
3. Nomenclatura della montagna Può meravigliare a prima vista il fatto che, in una regione come quella abitata, dagli antichi Liguri – ove sono particolarmente abbondanti i relitti toponomastici e lessicali relativi alla nomenclatura della montagna – non si ritrovi, tra questi relitti, un termine che designi la nozione più generale di «monte». In tutta la regione, i termini che nel latino medievale o nelle parlate romanze vengono usati a tal uopo, sono continuatori del latino mons o di suoi derivati, come *montanea; e nelle parlate stesse delle genti liguri, è dubbio che fra le parole di cui si sono conservati i relitti ve ne sia una, la cui accezione sia davvero quella più generale di «monte». Più probabile appare che – come suole avvenire nelle parlate di popolazioni primitive – alla varietà dei termini con questo approssimativo valore semantico, corrisponda (oltre che una eventuale varietà di parlate locali) una più particolare e precisa designazione di questa o quella configurazione montana, senza che da questa particolarità di designazioni ci si elevi al concetto ed al termine più generale. In alcuni casi, attraverso una ricerca linguistica legata allo studio della topografia locale, è forse possibile risalire al più particolare valore semantico dei relitti prelatini che designano il monte37; ma certo è che, nelle parlate liguri, queste designazioni specifiche dovettero essere più frequenti, comunque, di quella eventualmente usata a designare il monte in generale; sicché, nel latino regionale, e poi nelle parlate romanze, prevalse in questa funzione semantica la terminologia dei romani invasori, meno legati alle minuzie e al particolarismo della, vita montanara, e più adusati, certo, dei primitivi Liguri, al ragionare e al parlar per universali. Nella toponomastica regionale, per contro, come nel latino e nelle parlate romanze dell’area ligure, sono particolarmente abbondanti i relitti dei termini prelatini designanti specificamente questo o quel tipo di montagna. Tra questi, quello più massiccio, e che doveva esser destinato alle maggiori fortune, è quello che da epoche immemorabili è stato usato a designare il maggior complesso montano dell’Europa, il complesso alpino. 37 Per quanto riguarda la base alb/alp (di cui appresso), ad esempio, il Formentini (in Conciliaboli pievi e corti, fasc. 24 sg.) ritiene che almeno nell’area ligure, essa non dovesse designare i «monti in senso di puro spettacolo, cioè per descriverli coronati di nevi frequenti o perenni», ma piuttosto il luogo dell’alpeggio delle mandrie. Ciò spiegherebbe più facilmente il trapasso semantico da alba = «monte» ad alba = «città», di cui dovremo intrattenerci anche nel seguito della nostra ricerca. Così pure per il ligure-celtico briga, il Dauzat (in Noms de lieux, p. 89 e 101 sg.) ritiene che un significato più generico di «altura» sia precocemente trapassato e si sia specificato nel valore semantico «altura, fortificata», e poi «cittadella». In altri casi, la specificità del valore semantico sembra invece riferirsi alla forma della montagna. È probabile, d’altronde, che – come vedremo meglio documentato a proposito dell’idronimo gava – in molti casi lo specifico valore semantico di un dato termine variasse, nelle varie parlate, secondo la varietà delle conformazioni montane predominarti in una data zona. 60
Servio38 ci presenta la denominazione di alpes come gallica,; ed essa dovè certo aver larga diffusione attraverso quelle parlate. Ma la maggior parte dei linguisti è oggi concorde nel ritenere che la base alb/alp vada riferita ad un ben più vetusto e diffuso fondo linguistico mediterraneo39, e che essa abbia avuto una particolare vitalità nelle parlate liguri40, dalle quali probabilmente sarà passata nel gallico. Certo 38 Servius, ad Georg., III, 474: «Gallorum lingua alti montes alpes vocantur». Cfr. Idem, ad Aen. IV, 442, X, 13. I1 nome appare in Polibio a designare la catena alpina; esso fu pertanto noto ai Romani almeno attorno ai primi decenni del II sec. a.C. Per le altre fonti antiche, cfr. Whatmough, Prae-Italic Dialects, vol. II, p. l80 sg. 39 Cfr. Bertoldi, Colonizzazioni, p. 146 sgg. Sulla base mediterranea alb/alp esiste oramai una abbondantissima letteratura. Ci limiteremo a citare alcune fonti più notevoli, come Trombetti, Onomastica mediterranea, p. 15; Bertoldi in Zeitschrift für romanische Philologie, 36 (1936), p. 179-168 (che non abbiamo potuto consultare); Devoto, Lingua di Roma, p. 40; Battisti e Alessio, Diz. etim., s. v. alba e alpe; Walde-Hofmann, LEW, s. v. Alpes; Lamboglia in Storia di Genova, vol. I, p. 85 sgg. Il legame. tra la base mediterranea alb/alp e l’altra cala, (sulla quale avremo l’occasione di diffonderci più avanti), postulato dal Rostaing in Noms de lieux, p. 28 sg., appare poco probabile, data anche la forma Σαλπίων attestata per Alpes in Licofrone. Avvertiamo qui, una volta per tutte, che usando – secondo la terminologia ormai corrente nei lavori della scuola linguistica italiana – l’espressione «base mediterranea», non intendiamo tanto riferirci ad un’area geografica di espansione, quanto alla caratterizzazione di un substrato linguistico preindoeuropeo, che si presenta d’altronde variamente conformato e stratificato. Giustamente rilevava, recentemente, l’Alessio (in St. etr., vol. XIX, p. 141) come il termine “mediterraneo”, col progredire degli studi sul sostrato preindoeuropeo, sia andato gradualmente svuotandosi del suo significato geografico, acquistando una sempre maggiore estensione, a scapito della sua esattezza etimologica. È caratteristico il fatto che – in una linea di sviluppo che è stata, quasi completamente autonoma dal punto di vista dell’impostazione e delle elaborazioni – lo stesso sia avvenuto per l’accezione del termine “giapetico” nella scuola linguistica sovietica del Marr, Anche in questo caso, già negli ultimi lavori del Marr, e più in quelli dei suoi discepoli, il termine si è svuotato del suo primitivo senso geografico ed etnico, ed è passato ad indicare uno stadio evolutivo dei linguaggi caucasici, mediterranei ed altri. Sotto molti riguardi, esso è venuto a coincidere così con quello che nei lavori della scuola italiana si chiama appunto il “sostrato mediterraneo”. Varrebbe la pena ci sembra, di meditare più a fondo sul significato di questa confluenza nell’evoluzione di dottrine, partite da premesse assai diverse e lontane. E questa confluenza sembra accennare a realtà ancora nascoste, dal cui discoprimento – come già si tende a fare nella linguistica sovietica – potrebbero restar profondamente sconvolte le impostazioni linguistiche relative alle origini indoeuropee. Per gli sviluppi delle dottrine del Marr, cfr. il volume di V.A. Mikhankova, N.J. Marr, Leningrad 1948 (in russo), e i numerosi e importanti lavori del Meščianinov, pubblicati in Izvest. Akad. Nauk S.S.S.R, Sezione letteratura e linguistica. Dello stesso A. vedi il volumetto di volgarizzazione Novoe učenie o jazike na sovremennom etape razvitia (La nuova dottrina del linguaggio nella sua attuale fase di sviluppo), Leningrad, 1948. 40 B. Terracini, artic. Liguri in Encicl. Ital., vol. XXI, p. 122; Lamboglia in Storia di Genova, vol. I, p. 85 sgg.; Bertoldi, Colonizzazioni, p. 47; Battisti e Alessio, Diz. etim it., s.v. alba 5, alpe, ecc. I fautori della cosidetta teoria “liguro-sicula” prendono sovente la diffusione in 61
è che, nelle forme più antiche in cui essa ci è stata trasmessa dalle fonti41, la base alb/alp presenta quella oscillazione, o meglio quella indeterminatezza, fra esplosiva sonora e sorda, che è oggi considerata caratteristica per il sostrato mediterraneo, e più particolarmente per il paleoligure42. Del paleoligure, d’altronde, le forme trasmesseci dalle fonti accennano ad un’altra caratteristica, l’alternanza, cioè, di forme con e senza s- iniziale43. La base ha avuto, comunque, in età assai remote, una larghissima estensione geografica. Se ne trovano le tracce, nella toponomastica e negli etnonimi mediterranei, dal Caucaso a Creta alla penisola italica e all’iberica, con accezioni che appaiono sempre legate a quella di «monte, altura»44; l’evoluzione varie parti della penisola dei derivati della base alb/alp a testimonianza di un’antica presenza di stirpi liguri in queste sedi, Cfr. in proposito il volume di uno dei più tenaci assertori di questa teoria, Sergi, Da Albalonga a Roma, passim, e particolarmente p. 5 sgg. e 169 sg., e quello del Ciaceri, Le origini di Roma, p. 131 sgg. e passim. 41 Accanto alla forma Alpes, ed a quella greca corrispondente, Strabone ci attesta esplicitamente quella Albia: «τὰ γὰρ Ἂλπια καλεῖσϑαι πρότερον Ἂλβια» (Strab. IV, 6, 1). La forma Alba è, d’altra parte, come vedremo più avanti, quella comunemente attestata per i derivati di questa base che hanno subito l’evoluzione semantica nel senso di «città». Qui sembra essersi compiuta, in rapporto con questa evoluzione, una vera e propria precisazione o differenziazione fonetica. Per gli altri (e più discussi) derivati, che avrebbero subito l’evoluzione semantica nel senso di «fiume», l’indeterminatezza fonetica, invece, sussisterebbe. Di contro ad Albula (più antico nome del Tevere), ad Albis (Elba, fiume della Germania), si avrebbe infatti l’idronimo Ἂλπις attestato in Erodoto IV, 49 come quello di un fiume scorrente verso Nord al di sopra delle terre degli Umbri. È possibile che l’indeterminatezza fonetica degli oronimi e degli idronimi rifletta la situazione del fondo linguistico in un’epoca più remota, di contro ad una fissazione della forma fonetica stessa nell’epoca, già più recente, del sorgere dei primi stanziamenti di tipo cittadino. 42 Devoto, Lingua di Roma, p. 40 sgg.; B. Terracini, Su alcune congruenze fonetiche fra etrusco e italico, in St. etr. III, p. 210 sgg.; B. Gerola, Substrato mediterraneo e latino, in St. etr. vol. XVI, p. 361 sgg.; Bertoldi, Questioni di metodo ecc., p. 134 sgg; G. Alessio, La base preindoeuropea kar(r)a/gar(r)a, in St. Etr., vol. IX, p. 136 sgg. 43 Cfr. Whatmough, Prae-Italic Dialects, vol. II, p. 193: vedi le forme segusius/egusia, asia/ sasia, saliunca/aliuasca, ibidem, pp. 158-160, 180. L’alternanza di forme si riscontra anche in toponimi della Sicilia, che hanno riscontro in Liguria: Segesta/Egesta. Cfr.Whatmough, op. cit. p. 438. 44 Tra gli etnonimi che si ritengono derivati da questa base ricordiamo gli Ἂλβανοί, popoli del Caucaso orientale, gli Ἂλβανοι dell’Illirico, gli Albani del Lazio, gli Albici della Liguria, tutti abitanti di regioni montane, per tutti questi popoli, le fonti antiche stesse nelle quali i nomi sono attestati, pongono esplicitamente in rilievo il carattere montagnoso delle loro sedi. Per le tribù liguri degli Albici, ad es., Cesare ci dice che «montes supra Massiliam incolebant» (Caesar, De B. C., 1, 34) e che si trattava di «homines asperi et montani» Idem, De B. C., 1, 57). Così pure Strabone per i Liguri Ἀλβιεῖς e Ἀλβίοικοι (= Albici?) ci attesta il carattere montano delle loro sedi (Strab. IV, 6, 4). È probabile che la qualifica di Ligures Montani, attribuita in varî casi a popolazioni liguri dagli Autori (ad es. Liv. XL, 41; Tac. Hist. 62
semantica nel senso di «città», di cui avremo occasione di occuparci nel seguito di questo scritto, sembra più particolarmente legata all’ethnos ligure; mentre l’altra, più discussa, ma non senza riscontri nel sostrato45, nel senso di «fiume», si allargherebbe più a Nord ancora, fino in Germania, ove sarebbe derivato da questa base il nome stesso dell’Elba46. Per quanto più particolarmente si riferisce alle parlate liguri, che qui ci interessano, appare poco probabile, beninteso, che la base alb/alp designasse – come doveva avvenire in epoca più tarda – il massiccio, alpino, in quanto complesso montano. Designazioni geografiche del genere sono rare tra popolazioni primitive; sembra piuttosto che, fin da allora – come ancor oggi nei dialetti della regione ligure – l’alpe designasse il luogo del pascolo estivo delle mandrie (alpeggio). Denominazioni come quella di Alpis Maritima, Alpis Graia ecc. indicano che fin dall’antichità questa accezione del termine doveva sovente essere precisata con un’indicazione, topografica od altra, poi trapassata ad indicare singoli settori della catena alpina. Può essere interessante rilevare, comunque, che – almeno dal VII secolo – nell’accezione di «luogo del pascolo estivo», appunto, alpecella (alpi-cella) è attestato nel latino volgare della regione ligure47; e, a tutt’oggi, dal Piemonte alla Savoia alla Liguria II, 12), che acquista carattere quasi ufficiale in epoca imperiale, come titolo di una coorte (cf r. Nissen, Italische Landsskunde, II, 1, p. 134) non abbia sempre solo un valore distintivo delle popolazioni a seconda della loro origine geografica, ma rappresenti, almeno in alcuni casi, una vera e propria traduzione di etnonimi sul tipo di quelli sopra riferiti, derivanti dalla base alb/alp. Cfr.Bertoldi, Questioni di metodo, p. 192; Idem, Colonizzazioni, p. 147. Quanto agli oronimi derivati dalla medesima base. cfr. Trombetti, Onomastica mediterranea, p. 15; G. Sergi, Da Albalonga a Roma, p. 169; Bertoldi, Questioni di metodo, p. 190 sgg. 45 Alla base mediterranea taba/teba = «collina», si è portati oggi a riferire il nome del Tevere (Tiber). Cfr. Alessio, Fitonimi mediterranei, in St. Etr. vol. XV, p. 180 sg. A questo passaggio semantico risponderebbe quello da alba = «monte» a Albula, il piu antico nome del Tevere stesso secondo Virgilio: «Amisit verum vetus Abbuia nomen» (Virg. Aen.VIII, 332). Cfr. Ovid, Fast. IV, 68. 46 Oltre il nome dell’Albis (il fiume Elba, in Germania), cfr. il flumen Alba, in Iberia, l’Albis (l’attuale Aube) in Gallia, ed altri, anche in Sicilia. Cfr. Whatmough, Prae-Italic Dialects, vol. II, p. 489; Lamboglia, in Storia di Genova, vol. I, p. 86; Alessio, Un’oasi linguistica preindo europea nella regione baltica, in St. Etr., vol. XIX, p. 143, n. 3. Per la tradizionale interpretazione di questi idronimi da una base alb = «bianco» (corrispondente al lat. albus), cfr. Solmsen, Indogermanische Eigennamen, p. 47. 47 Nel Codice diplomatico di S. Colombano di Bobbio, in Fonti per la storia d’Italia, Istituto storico italiano, 1918, I, p. 100. Cfr. P. Sella, Glossario latino-emiliano, p. 8. Il toponimo è frequente nelle due Riviere liguri a designare vette montuose. Non si può escludere che, secondo l’ipotesi affacciata dal Bertoldi, sia pure preromano e specificamente ligure il doppio suffisso -ic -el, che ritroveremo in altre voci esplicitamente attestate come liguri o alpine dagli autori antichi. Cfr. in proposito Lamboglia, Toponomastica dei Comuni di Alassio e Laigueglia, p. 31 sgg. 63
alla Lombardia alla Svizzera, suoi derivati indicano, nelle parlate locali, il luogo del pascolo estivo, o – in qualche caso – lo stanziamento dei mandriani e la capanna per il caseificio nel pascolo stesso. I dati linguistici – sui quali dovremo ritornare a proposito dell’evoluzione del valore semantico della base alb/alp nel senso di «città» – come quelli relativi alle nostre conoscenza sul modo di vivere degli antichi liguri, perpetuatosi per lunghi secoli nelle vallate alpine più remote e conservative, ci confermano pertanto nell’attribuire questo valore specifico di «luogo del pascolo estivo» alla base alp, nelle parlate della Liguria preromana; sicché le millenarie consuetudini pastorali di quelle popolazioni, migranti periodicamente al seguito delle loro mandrie dalla valle al monte, hanno finito per incidere profondamente non solo su parlate nostre contemporanee, che ne serbano le tracce, ma persino nella più moderna e scientifica terminologia geografica. Vediamo già qui come, nella denominazione, il rapporto tra l’uomo e il paesaggio geologico divenga – malgrado il carattere ancora primitivo delle tecniche – qualcosa di vivo e di attivo, che non si limita alla pura contemplazione, ma è già pratica umana, capace di incidere sulla Natura e sulla storia: che la denominazione dell’alpe – per trapassare, dalle loro antichissime parlate, sin nelle nostre, e nei volgari locali – dovè esser ripetuta le mille e mille volte da popolazioni di pastori, per le quali questa parola era guida e incitamento e orientamento, era scienza e forza produttiva48. Non meno significativa dovè essere, per le popolazioni della Liguria preromana, un’altra base mediterranea, che ha dato il nome all’altro maggior complesso montano della Penisola, gli Appennini49. La diffusione di questa base penn, col valore semantico di «monte, pietra, roccia», appare più limitata, dal punto di vista geografico, rispetto a quella della base alb/alp: ma l’area di diffusione – se pur 48 Nei dibattiti che si sono svolti, negli ultimi decenni, nel campo marxista, a proposito del concetto di “forze produttive”, si è sovente o particolarmente insistito sull’importanza dell’esperienza della produzione e delle abitudini di lavoro. In un passo, del suo scritto fondamentale su Il materialismo dialettico, Stalin ha così precisato quest’importanza: «gli strumenti di produzione mercé i quali si producono i beni materiali, gli uomini che maneggiano questi strumenti di produzione e producono i beni materiali, grazie ad una certa esperienza della produzione, e a delle abitudini di lavoro: ecco gli elementi che presi tutti insieme costituiscono le forze produttive della società». È facile intendere che importanza dovè avere, per le popolazioni della Liguria antica, quell’abitudine di lavoro particolare che – adattando i loro sistemi di pastorizia alle speciali condizioni del paese – li conduceva ogni estate, al seguito delle greggi e degli armenti, “all’alpe”. Di questa abitudine di lavoro, d’altra parte, la denominazione stessa dell’alpe costituiva certo un elemento tradizionale (una “esperienza della produzione”) importantissimo: ciò che del resto ancor oggi avviene per le popolazioni di quella regione che praticano 1’alpeggio, sulle cui bocche la parola “l’alpe” ritorna ad ogni occasione. 49 Polyb. Hist., II, 16: «Ἀπέννινος». 64
circoscritta, a quel che pare, all’Occidente mediterraneo e atlantico – resta assai vasta50. La base penn ha senza dubbio avuto una notevole vitalità nel paleoligure. È appunto l’Appennino ligure che ha dapprima assunto il nome, poi esteso a tutta la catena montuosa; Poseidonio identifica anzi, addirittura, la regione ligure con 1’appenninica51. Ma anche qui, la denominazione della catena montana appare come un dato posteriore; l’uso generico della, base penn a designare un tipo (o forse la cima) della montagna, ci è attestato dal suo ripetersi in zone delle Alpi52 e come aggettivo di una divinità delle cime53 adorata dalle popolazioni delle Alpi stesse. Non meno interessanti dei relitti costituiti da oronimi derivati da questa base, sono i suoi relitti nelle parlate romanze. Le sopravvivenze lessicali sono 50 Dauzat, Noms de lieux, p. 95 e Rostaing, Noms de lieux, p. 34, sulle orme del Bourciez, considerano la base come ligure, o comunque preiberica; essa è attestata abbastanza largamente nei toponimi dell’antica Liguria transalpina, nel Varo, nelle Alpi Marittime, nei dipartimenti attuali delle Basses-Alpes e delle Bouches-du-Rôhn. Cfr. Lamboglia, Storia di Genova, p. 88. Per la diffusione dei derivati di penn nella Penisola italiana, cfr. Colella, Toponomastica pugliese, p. 47 sgg., p. 348 sgg. Ne1 complesso, la base in esame può considerarsi di irradiazione ligure-iberica. 51 Poseidonio in Fragm. Hist. Graec. vol. III, p. 275, fragm. 54: «Δεντέρα δέ λεγέ σϑω ἡ ἐν αυτοῖς Απεννίνοις ὄρεσι...». 52 Penninus (falsamente trascritto Poeninus, per etimologia popolare da Poeni) era il nome che gl’indigeni davano al monte e al giogo montano, attraverso il quale Annibale varcò le Alpi. Cfr. Liv., XXI, 38, che già polemizza con l’etimologia popolare, che riferiva il nome indigeno a questo passaggio dei Cartaginesi di Annibale. Un Ἀπέννίνον ὄρος, si ritrova, secondo Strab. IV, 6, 9, nel paese dei Carni, all’estremità orientale, della cerchia alpina. Si noti che una base penno- si ritrova nell’onomastica gallica; il Dottinin, La langue gauloise, la ricollega al gall. bret. penn = «testa», irl. cenn (p. 277). Non è escluso d’altra parte un collegamento della base mediterranea penn con l’altra base onomastica gallica –benno (Dottin, op. cit., p. 233), che trova riscontro nell’irl. benn = «corno», gall. ban = «picco», prov. bana = «corno». Tutti questi valori semantici possono conciliarsi con quello della base mediterranea penn nel senso di «cima, picco montano»; l’alternanza vocalica a/e e quella consonantica b/p non dovrebbero far difficoltà, nel caso in cui si trattasse di passaggio nel gallico e nelle lingue celtiche di un termine del sostrato, nel quale queste alternanze sono state largamente documentate. 53 «Neque, hercule, montibus his..., .ab transitu Poenorum ullo Veragri, incolae jugi ejus., norunt nomen inditum; sed ab eo, quem, in summo sacratum, vertice, Peninum montani appellant», scrive Livio (XXI, 38), polemizzando con l’etimologia popolare sopra ricordata. Nel «summo vertice» menzionato da Livio (il Gran San Bernardo) si ritrova, presso un lago, un piccolo ripiano, chiamato ancora Plan de Jupiter o Plan de Joux. Lì si incontra una rupe, probabilmente un’ara consacrata al Deo Poenino, lungo la quale i Galli, al passaggio del giogo, solavano gettar monete, che si son ritrovate in loco. Cfr. Barocelli, Augusta Praetoria in. Inscriptiones Italiae, vol. XI, regio XI, fasc. I, p. IX-X. Un dio Poeninus è anche associato a Silvanus in una iscrizione di Tirnovo. Cfr. Vendryes, La religion des Celtes, p. 270 e 288; C.I.L., III, 6143. 65
particolarmente numerose e diffuse nella penisola iberica, ma non mancano neanche nella Francia meridionale e in Italia. Accanto alla spagnolo peña, ed ai corrispondenti vocaboli catalani e portoghesi nel senso di «roccia», troviamo così, nel bearnese ed in altri dialetti della Francia meridionale, fino alla regione ligure transalpina, peno, pena, col valore di «roccia, picco montano». Collo stesso valore i derivati da questa base, nella forma penna, si ritrovano nell’italiano antico, e in varie parlate della Penisola. È probabile che alla notevole vitalità di questa base nei dialetti romanzi abbia concorso il latino pinna nel senso metaforico di «vetta»; ma questa influenza o derivazione, da sé sola, non potrebbe spiegar la vitalità di altri derivati della medesima base, come penta, di cui avremo occasione di occuparci più avanti54. A giudicare dai dati a nostra disposizione, comunque, si ha l’impressione che – in confronto della base alb/alp – nella Liguria propria, attorno all’epoca della conquista romana, la base penn avesse già una vitalità minore, ed accennasse a cristallizzarsi con un riferimento specifico a dati oronimi. Ma anche solo in aggettivazioni come quella del dio Pennino, questo relitto linguistico ci rivela un tipo di rapporti tra uomo e paesaggio montano, che è per noi di un interesse non minore di quello attestatoci dalla base alb/alp. Non si tratta più, qui, nei rapporti con le cime sterili dei monti, per le popolazioni della Liguria preromana, di designare il luogo o la via all’alpeggio; nell’orrore delle cime sterili e ventose, si manifesta piuttosto quel tipo di rapporti al quale Marx accenna nel passo già citato, quando parla di una Natura ancora sentita come una forza estranea, onnipotente, inattaccabile, nei confronti della quale l’uomo si comporta in maniera e con una soggezione quasi animale; con una coscienza ancora rudimentale, che si esprime qui nella religione naturale delle cime montane. Col nome stesso del dio Pennino, col suo altare di nuda roccia, colle monete galliche che, ancora in epoca relativamente tarda, gli venivano superstiziosamente offerte in omaggio, resta documentata la parte che, in questa persistente soggezione dell’uomo a forme primitive di una religione naturale, dovettero avere le particolari durezze e asprezze del paesaggio montano. Più difficilmente sapremmo trovare un riferimento specifico a particolari aspetti del paesaggio o della vita montana in una altro termine di questa nomenclatura oronomastica della Liguria preromana, che si riporta alla base mediterranea mal/ mel, col valore semantico di «monte, altura»55. Si tratta, anche in questo caso, di una 54 Cfr. Lamboglia in Storia di Genova, vol. I, p. 86; REW 6514, 2, s.v. pinna; Colella, Toponomastica pugliese, p. 47 sg., 348 sgg. 55 Anche a proposito della base mediterranea mal/me1 esiste ormai una larghissima letteratura, della quale ci limiteremo qui a citare alcuni testi, più importanti al nostro assunto. Cfr. Trombetti, Onom, medit., p. 42; Dottin, La langue gauloise, p. 272; Pisani, Il linguaggio degli antichi liguri, p. 390, che inquadra la base ligure nell’ambito indoeuropeo; Whatmough; Prae-Italics Dialects, vol. II, p. 164; Colella, Topon. pugliese, p. 44 sgg, p. 183; 66
base preindoeuropea a larghissima irradiazione geografica56, che ha certamente avuto ed ha a tutt’oggi una persistente vitalità nella parlate celtiche57 ed in quelle illiriche58, nonché in alcune parlate romanze della zona pirenaica59. In territorio più propriamente ligure, non si sono fino ad ora segnalati relitti lessicali dì questa base nelle parlate romanze; ma la base è largamente attestata nella toponomastica della Liguria antica, e dovette essere ancora produttiva in epoca relativamente tarda60. Bertoldi, Problèmes de substrat, p. 151; Alessio, Fitonimi mediterranei, p. 214; Battisti, Voci mediterranee contestate, p. 267 sgg.; Gerola, Substrato mediterraneo e latino, in St. Etr., vol. XVI, p. 362; Battisti, in Arch. Alto Adige, vol. XXXVIII, p. 487 sgg.; P. Fouché, A propos de la Maladeta, in Onomastica, I, 1, p. 6; Alessio, Un’oasi linguistica, p. l42; Devoto, Lingua di Roma, p. 42. 56 Col valore semantico di «altura, colle, monte», la base si ritrova, in alternanza mal/mel, da un capo all’altro del Mediterraneo, nella toponomastica come nel lessico. In area anatolica, nella forma mal, essa designa sovente le località o centri abitati, siti in zone montuose, o addirittura il monte stesso, dalla città cilicia di Μάλλος, sulla destra del Pyramos, a Malene, monte della Misia, a molti altri toponimi, citati dal Trombetti, Onomast. medit., p. 42, e dal Battisti, in St. Etr.,vol. XVII, p. 267 sgg. La base è anche attestata largamente, con valore semantico analogo in area illirica, dove Livio (XXIX, 12) e Polibio (III, 18) ci documentano l’antico toponimo Dimallum, cui fa riscontro nel lessico albanese mal’ = «monte», maljë = «cima», e forse il rumeno mal, lo slavo molu = «riva». A parte la documentazione della base nell’antica toponomastica dell’Italia peninsulare, e fin nell’Alto Adige (v. Battisti. loc. cit.), anche fuori dell’area ligure propria, essa si ritrova nella toponomastica e nel lessico della penisola iberica. Malia era il nome di un posto fortificato nel territorio di Almazan, Maliaca quello di una città fortificata degli Asturi (cfr. Schulze, Numantia, I, p. 134,137); e numerosi continuatori di questa base nell’oronomastica pirenaica (per alcuni dei quali, tuttavia, ci sembra più probabile una derivazione dal latino malus) sono elencati dal Fouché nel suo studio citato sul massiccio della Maladeta, in Onomastica, I, 1, p. 6. Nel lessico della penisola iberica, continuatori della base si ritrovano nel basco malda = «collina», malkar = «côte escarpée, pente», nonché nelle parlate romanze dell’Aragona, con mallo = «monte isolato», e in quelle dei Pirenei e della Guascogna, con malh = «picco montano». Il Trombetti, e più recentemente l’Alessio (in St. Etr., vol. XIX, p. 142) non escludono che a questa base siano in qualche modo collegati anche termini come il tamil malei = «montagna», che allargherebbero la sua estensione geografica fino alle parlate dravidiche dell’India. 57 Cfr. l’irlandese mell = «altura, collina». V. Dottin. Langue gauloise, p. 272. 58 Cfr. particolarmente Kretschmer in Glotta, XIV, p. 90, e Battisti in St. Etr., vol. XVII, p. 265; Colella Topon.pugl., p. 44. 59 V. in fine della nota 56 di questo capitolo. II pirenaico malh = «rocher», che, come nota il Battisti, op. cit. p. 268, n. 51, è raccolto dal Trombetti, ma non dall’Atlas linguistique de la France, è attestato da vari dizionari, ad es. da L. Piat, Dictionnaire français-occitanien, s.v. rocher (pirenaico) e s.v. montagne (bearnese). 60 Cfr., nella Tavola di Polcevera (C.I.L., vol.V, 7749) il mons Blustie- melus, il fons Lebriemelus; nella Tavola di Veleia (C.I.L. , XI, 1147), il saltus Leucomelius o Leucumellus,ecc. Numerosi sono i relitti di questa base nella toponomastica attuale; in area ligure ed ai suoi 67
Nella toponomastica antica della regione, il valore semantico della base, attestata nella forma mel, sembra riportarci non più alle minacciose cime montane del dio Pennino, né ai freschi pascoli dell’alpeggio, bensì in una zona di media collina, ora boscosa61 ora più scoperta, ma sempre ancora territorio di una caccia minuta, che offriva risorse importanti alle popolazioni liguri sino al tempo della conquista romana62. In questo paesaggio più riposato e meno minaccioso, i dati linguistici ci mostrano, fra l’uomo e la montagna, un rapporto già mitigato da presenze vegetali e animali, forse da elementari tecniche63, che già mediano la crudezza della realtà geologica della regione. Meno sicura è l’attestazione, in Liguria, di un’altra base mediterranea della nomenclatura montana, la basa taur = «monte»64, dalla quale alcuni pensano sia derivato il nome dell’importante popolazione ligure (o celto-ligure) dei Taurini, e per il loro tramite quello dell’odierna Torino65. Non ci sembra che, allo stato attuale margini. Cfr., per gli oronimi Maloia e quello Rocciamelone (con caratteristica duplicazione romanza della base mel, che trova numerosi riscontri nella toponomastica), Bertoldi e Terracini, in Silloge Ascoli, p. 514. 61 Cfr. nella Tavola di Veleia il saltus Leucumellus, interpretato come «colle boscoso». La base leucu viene riferita dal Ribezzo (in R.I.G.I., anno XVI, 1932, fasc. III e IV, p. 159) al latino lucus = «bosco». Vedi, per la diffusione di questa base nelle lingue indoeuropee, Pisani, Crestomazia indeuropea, p. 122, n. 107. L’accezione più diffusa e primitiva di questa base potrebbe far pensare anche ad una intepretazione di Leucumellus come «colline des clairières». 62 Cfr. nella Tavola di Polcevera il fons Lebriemelus = «collina dei conigli». Per l’importanza particolare che il coniglio sembra aver avuto nella fauna della Liguria antica, e nella vita di quelle popolazioni, vedi più avanti il capitolo di questo studio dedicato alla caccia e alla pesca. 63 V. Quiamelius interpretato come «colle delle gemme». Cfr. Whatmough, Prae-Italie Dialects, vol. II, p. 164. Anche la popolazione ligure degli Intemelii (attorno a Ventimiglia, l’antica Albintimilium), il cui nome si considera composto dalla base mel, non sembra priva, dai tempi più antichi, di qualche elemento di vita e di tecnica più evoluta, con un oppidum relativamente importante rispetto a quelli di altre popolazioni dell’alta montagna. 64 Per la base taur = «monte», cfr. Trombetti Onom. medit., p. 64 sgg.; Ribezzo, in: R.I.G.I., XY, 47-65; Eissen, Italische Landeskunde, vol.I, p. l37 sg.; Devoto, Lingua di Roma, p. 42; ColeIla, Topon. pugliese., p. 30 sgg.; per il rapporto con questa base mediterranea dell’etrusco thaura = «sarcofago» (?) ,cfr. Battisti in: St. Etr., vol. VIII, p. 180 sg., e Alessio, in St. Etr., vol. X, p. l71, che prospetta eventuali rapporti di questa base con l’altra taba/teba, di cui appresso. I derivati della base taur si ritrovano nella toponomastica antica e moderna dalle regioni del Ponto a «quelle della Tracia, dell’Illiria, della Pannonia e del Norico, fino all’Italia e alla Gallia. Ad essa si riferisce il nome della catena montuosa del Tauro. 65 Per la popolazione dei Taurini, ὁὶ τυγχάνουσι πρὸς τῇ παρωρείᾳ κατοικοῦντες, cfr. Polibio, III, 60. Strabone menziona pure il loro nome come quello di un popolo ligure che abita il versante italiano della regione montuosa (ὀρεινῆς) delle Alpi (Strab. IV, 6, 6). Si tratta di una popolazione ligure solo imperfettamente celtizzata, come provano le discordie 68
delle nostre conoscenze e dai dati disponibili, la controversia sorta in proposito possa essere decisa; così come è difficile dire se alla base taur – largamente attestata in questa forma da un capo all’altro del Mediterraneo – possano essere effettivamente accostati alcuni relitti di una base turra nelle parlate romanze di ambiente ligure. La stessa incertezza si deve riconoscere nella eventuale derivazione dalla base mediterranea taba/teba del nome della popolazione alpina dei Tebavii, nel regno di Cozio66. Bene attestata, invece, nell’ambiente ligure, è la base mediterranea pala, sulla quale da tempo si è particolarmente fermata l’attenzione degli specialisti67. E qui già sembra che si passi, da una designazione ancor relativamente generica della montagna, alla precisazione di date configurazioni del paesaggio montano. È certo che, nella sua larga zona di diffusione mediterranea, questa base ed i suoi derivati hanno spesso dovuto assumere dei valori semantici particolari, secondo la varietà delle conformazioni dominanti nel paesaggio regionale68. Il senso più generale e tra gli autori antichi quanto alla loro caratteristica etnica. L’etnonimo si ritrova all’altro estremo della cerchia alpina, per il popolo dei Taurisci nel Norico. Per gli uni come per gli altri, già il Nissen, Italische Landeskunde, vol. II, 1, p. 163, riportava l’etnonimo alla base taur = «monte»; a questa tesi (ma riportando la base taur al sostrato mediterraneo, invece che al celtico) si attengono tra gli altri il Lamboglia, in Storia di Genova, vol. I, p. 104, e l’Alessio, in St. Etr. vol. XIX, p. 170. A un tauro = «toro», lat. taurus, gall. tarvos, riporta invece l’etnonimo il Pisani, Il linguaggio degli antichi liguri, p. 390. Come abbiamo detto nel testo, non ci sembra che – allo stato attuale della questione – il problema possa esser deciso in un senso o nell’altro. 66 Per la base mediterranea taba/teba, il cui valore semantico di «roccia» ci è attestato dalla glossa τάβα πέτρα di Stefano Bizantino, e quello di «collina» dal sabino, teba (Varrone: Rer. Rust. III, 1, 6) e da numerosi relitti toponomastici, cfr. Trombetti, Onom. medit. p. 60; Devoto, Lingua di Roma, p. 42 e 57; REW 8731, s.v. tifa; Alessio, Fitonimi mediterranei, p. 180; ColeIla, Topon. pugliese., p. 34 e 124, e particolarmente gli studi del Ribezzo e del Bertoldi sui problemi del substrato. Il Lamboglia (in Storia di Genova, vol.I, p. 95) si esprime dubitativamente a proposito della base taba e della sua presenza in Liguria. La popolazione alpina dei Tebaui è menzionata nell’iscrizione dell’Arco segusino del 9-8 a.C (C.I.L.,V,7231) tra le gentes Alpinae. 67 Cfr. Terracini Spigolature liguri, p. 129, e artic. Liguri in Encicl. ital. vol. XXI, p. 122; Idem, Osservazìoni sugli strati più antichi della toponomastica sarda, in Atti del Convegno archeologico sardo, 1926, estratto, p. 12; G. Bottiglioni, Elementi prelatini nella toponomastica corsa, in St. Etr., vol. III, p. 325 sgg.; Pallottino, L’origine degli Etruschi, p. 77 e 169 sg.; Bertoldi, Prob. substr., p. 140; Ribezzo, in R.I.G.I., XXIII (a. 934), p. 84; Battisti, Voci mediterranee contestate, p. 253 sgg.; Alessio in St. Etr. XVIII, p. 408; Devoto, Lingua di Roma, p. 41 sg; REW 6154 a, s.v. pala. 68 Una disamina particolarmente acuta delle variazioni del valore semantico di questa base, in rapporto con la varietà delle configurazioni geologiche dominanti nelle diverse regioni linguistiche, è stata sviluppata dal Devoto nel suo studio su Pala: rotondità. Il Devoto 69
fondamentale di questa base mediterranea sembra riferirsi all’accezione di «volta», che si ritrova nei suoi vari derivati dall’area illirica ed egea a quella italica69. Ma senza diffonderci qui sull’argomento, largamente discusso nella letteratura, ci limiteremo ad accennare alla diffusione di questi derivati nell’area ligure70. Nella forma pala, la base cper i è qui attestata nella toponomastica antica della Liguria nel composto Vindupale – interpretato come «dosso (o strapiombo) bianco» – della Tavola di Polcevera71, e in Palista (o Balista), monte della Liguria, menzionato da Livio72. Quest’ultimo oronimo è particolarmente interessante; perché, mentre si riferisce, appunto, ad una conformazione montuosa che ci è esplicitamente descritta come tondeggiante73, esso ci è documentato con un’alternanza consonantica p/b che sembra riflettere fenomeni fonetici caratteristici del sostrato. Accanto a pala ed ai suoi derivati, nella toponomastica antica e moderna e nel lessico dell’area ligure, in effetti, ritroviamo la forma bala, che ha avuto qui una produttività forse ancor più larga e prolungata74. Alcuni fra i derivati di questa base pala/bala, ha mostrato, ad esempio, come nell’Appennino centrale – ove abbondano le formazioni montane a dosso tondeggiante – solo in casi eccezionali questa struttura acquisti un valore caratteristico: così ad esempio avviene per il complesso di cupole montane che domina il Casentino dal Falterona, il cui nome viene oggi riportato alla forma centro-italica della base pala, con un’alternanza pala/fala documentata per 1’etrusco. In questo paesaggio montano meno ricco di cime aguzze, il valore semantico primitivo della base sarebbe restato attribuito fondamentalmente alla volta celeste, per la quale Festo ci attesta un falado, «quod apud Etruscos significat caelum» (Festo, p. 206, s.v. falarica). Festo stesso, e Servio ad Aen. IX, 702, ci attestano un fala nel senso di «torri, dalle quali gli arceri saettavano il nemico», e Festo ci dice che «falae dictae ab altitudine». Cfr. in proposito Trombetti, Lingua etrusca, p. 78; Palottino, Lingua etrusca, p. 100, s.v. fala; Idem, L’origine degli etruschi, p. 169, n. 325. 69 Cfr. la glossa di Esichio, βαλόv οὐρανόν. L’accostamento del valore semantico «volta» (celeste) a quello anatomico di «palato» ci è esplicitamente attestato da Sant’Agostino: «unde et palatum Graeci οὐρανόν appellant et nonnulli, inquit, poetae latini caelum vocaverunt palatum» (Civitas Dei, VII, 8). Il greco οὐρανός ha, come è noto, i due valori di «volta celeste» e di «palato». Il nome antico del Palatino, Palatium, vien oggi d’altronde riportato alla medesima base pala, con un valore di oronimo o con quello sacrale di «cielo» cui farebbe riscontro, nella traduzione latina, l’opposto colle Caelius, Cfr. in proposito Devoto, Pala: rotondità, p. 312 sgg. 70 Una buona discussione dei relitti di pala in area ligure si troverà in Battisti, Voci mediterranee, p. 253 sgg. Per la Corsica, cfr. Bottiglioni, Topon. corsa, p. 325 e 331. 71 C.I.L., V, 7749. Cfr., per questo esempio di combinazione mistilingue tra il celtico vind = «bianco» e il paleoligure pala, Bertoldi, in Silloge Ascoli, p. 504-505. 72 Liv. XLI, l8. 73 «....adversus Balistae et Leti jugum, quod eos montes perpetuo dorso inte se jungit» (Liv. XLI, 18). 74 Accanto ai numerosi relitti toponomastici e lessicali di pala nel senso di «costa di monte, 70
comunque, hanno certo acquistato in area ligure, come altrove, una vita autonoma, specializzandosi in valori semantici più o meno lontani da quello originario, ed acquistando una vitalità che ancor oggi permane nelle parlate romanze della regione75. Particolarmente interessanti in proposito sono i derivati palanca76, nel senso di «scoscendimento, burrone», ma sopratutto il diffusissimo balma77, col valore semantico di «grotta». Avremo occasione più avanti, a proposito delle abitazioni a delle forme di insediamento dei Liguri all’epoca della conquista romana, di ritornare su quest’ultimo termine, che è a tutt’oggi largamente diffuso nella toponomastica e nelle parlate romanze dell’antica area ligure. Nelle forme barma ed arma78, esso pendio erboso», che si ritrovano alla periferia dell’area ligure, dalla Sardegna ai Grigioni al Cadore, ed all’analogo Palo, oggi Paglione, il torrente alpino del Nizzardo, nonché ai numerosi toponimi ed oronimi derivati da questa base in area ligure, alcuni dei quali sono elencati dal Battisti nello studio citato, e dal Bottiglioni, op. cit. per la Corsica, rileviamo così formazioni analoghe derivate da bala. Così gli oronimi Balasco, Balisio ecc. nel Ticino, nella Valsassina, nelle Alpi Marittime. A Palasca, etnico di un pago, probabilmente nel Bresciano (C.I.L.,V, 4992), con il caratteristico suffisso ligure in -asca, fa ad es. riscontro,oltre al già citato oroimo Balasco, 1’altro toponimo Balasque nei Bassi Pirenei, in una regione ove non mancano altri relitti toponomastici attribuiti al ligure, mentre Palasca si ritrova in Corsica. Analoghe corrispondenze tra le forme in p- e in b- Si ritrovano in tutta l’area della “grande Liguria” anche per altri derivati della base pala, ad es. nelle forme palagna/balagna, palava/balava ecc., e forse in balux = «pepita aurifera/palux», di cui alcuni mettono pero in dubbio il legame con la base in esame. Per il valore semantico della base in area ligure, è particolarmente interessante palo, nel senso di «pendio roccioso ripido», nell’Ariège. Per balma e palanca, v. alle note n. 77 e 76 di questo capitolo. 75 Secondo l’Alessio, Karra, vol. IX, p. 145 d es., non è escluso che alla base pala/bala, attraverso un suo derivato balanca, vadano riportati anche i termini, ancor vivaci in area ligure, con l’accezione di «frana, valanga». Per la specializzazione semantica di altri derivati alla periferia dell’area ligure, cfr. lo studio già citato del Battisti. 76 Per palanca, derivato il cui suffisso trova riscontro assai largo in area ligure, cfr. ad es. paranchum (con il noto passaggio da -1- intervocalico ad -r- nelle parlate romanze della Liguria) in Rossi, Gloss. mediev. lig., p. 74 s.v., col valore semantico di «burrone, precipizio», e il monte Palanca in Val Sesia. Cfr. Alessio, Karra, vol. IX, p. 145. 77 Anche per questa voce, esiste ormai una larghissima letteratura. Ci limiteremo a citare il Rossi, Gloss. mediev. lig., p. 23, s.v.; REW n. 912, s.v.; Battisti, Voci mediterranee, p. 257283; Battisti, Popoli e lingue nell’Alto Adige, p. 117; Lamboglia in Storia di Gen., vol. I, p. 95; Pisani, Il Ligure, p. 367; Dottin, Langue gauloise, p. 230 s.v.; Dauzat, Dict, étim. s.v. baume; Dauzat, Noms de lieux, p. 23; Battisti e Alessio, Diz. etim. s.v. balma; Bloch-Wartburg, Dict. étym., s.v. baume. 78 La voce – che dal ligure è certo passata nel celtico, ove deve aver avuto una prolungata vitalità – è attestata dall’VIII secolo nel senso di «grotta abitata da eremiti». Cfr. gli Acta sanctorum, 28 febbr., III, p. 746 a, citati in Dottin, Langue gauloise, p. 230. Con l’accezione più generale di «grotta» essa vive nelle parlate romanze su di un’area assai estesa. In Francia, 71
è ancora usato in Liguria a indicare grotte e ripari sotto roccia, che – dopo aver servito per millenni d’abitazione ai cacciatori paleolitici – furono largamente frequentati dalle popolazioni della regione sino all’epoca della conquista romana ed oltre. Quel che qui ci interessava di sottolineare, è questa specializzazione nel significato dei derivati dell’antichissima base mediterranea, in rapporto con la particolare configurazione geologica della ragione ligure, ricca di scoscendimenti e di grotte, piuttosto che di dossi tondeggianti e di pendii erbosi. E anche qui il processo linguistico della denominazione ci appare come un rapporto attivo dell’uomo col passaggio geologico, che malgrado la rudimentalità delle tecniche già viene asservito ai suoi fini: nel caso in esame, come ricovero contro le intemperie o come rifugio dai pericoli delle fiere e degli uomini. Certo è che – per vedersi assicurata una così pertinace vitalità – una voce quale è balma dové anch’essa tornar le mille e mille volte sulle bocche delle popolazioni liguri, ancora all’epoca della loro romanizzazione linguistica; sicché questo dato linguistico ci dà una importante conferma del peso (attestatoci, come vedremo, da altre fonti) che le abitudini cavernicole dovettero avere sino a tarda epoca nella regione. Anche per un altro verso, comunque, ed in un altro senso, le fonti ci documentano, con questa base mediterranea, un processo di umanizzazione del paesaggio geologico, già in corso malgrado la primitività delle tecniche della Liguria preromana. Al margine del dominio ligure, in un territorio ove il sostrato ligure appare già fortemente celtizzato, nelle iscrizioni leponzie, la base pala ci è
nelle forme balme, baume, si ritrova fino in Guascogna ad occidente, fino nel Belgio a settentrione, per giunger poi fino in Catalogna. Nel Quercy, balmo ha il più generale valore semantico di «roccia». Cfr. Piat, Dict. franç-occit., s.v. rocher. L’area di diffusione della voce appare pirenaico-gallo-ligure, con una particolare vivacità nel sud-est della Francia e nella Liguria propria. Qui la voce vive nella toponomastica e nei dialetti liguri, fino a tutt’oggì, nelle forme balma e, barma, con l’accezione di «riparo sotto roccia, grotta». V. in Rossi, Gloss. mediev. lig., p. 23, la citazione di barma, usato come voce comune in questo senso, negli Statuti medievali liguri, e la documentazione dell’uso di questo termine anche da parte degli alpigiani del Saluzzese. Nella forma balma essa è anche registrata come voce piemontese alpina, ad es. dal Levi, Diz. etimol. del dialetto piemontese, p. 36, s.v., e si ripete di frequente nella toponomastica piemontese e ligure. I più legano oggi al ligure balma l’altra voce alma/arma, più strettamente limitata alla toponomastica ed ai dialetti romanzi della Liguria propria, con l’analogo valore semantico di «caverna». Il Rossi, loc. cit., segnala un’ulteriore differenziazione semantica fra balma e arma nelle parlate romanze della Liguria: mentre il primo termine sarebbe prevalentemente usato nel senso di «riparo sotto roccia», il secondo avrebbe il valore più preciso di «caverna». Ma la distinzione sembra limitata, semmai, alla parlata di Pigna, alla quale il Rossi la riferisce. Il Rossi stesso attesta, nelle parlate liguri, le espressioni armuzzare, fare un po’ di armizo, per «cercare riparo in tempo di pioggia». Cfr. Rossi, Gloss. mediev. lig., p. 19, s.v. arma. Cfr. anche Lamboglia, Alassio, p. 31. 72
abbastanza tipicamente attestata nell’accezione di «tumulo, pietra funeraria»79. Il passaggio del valore semantico da «volta» a «tumulo, pietra funeraria» non sembra presentar difficoltà; e la maggior parte degli autori è oggi concorde nel riportare il termine funerario delle iscrizioni leponzie alla base mediterranea omofona80. Taluno, addirittura, non esclude un legame di questa base, nella sua particolare accezione funeraria, con l’umbro pelsa = «seppellire»81. Quel che qui ci importa, comunque, è di rilevare ancora una volta come, per un altro verso, la nomenclatura del paesaggio geologico si venga, nell’area ligure, in epoca relativamente remota, già umanizzando in valori semantici traslati, non solo a tecniche, ma a riti con uno spiccato carattere sociale, come quelli funerarii. Più notevole ancora è, questa specializzazione in valori semantici traslati ad una realtà già tutta umana e sociale, per un altro gruppo di basi preromane, usato nell’area ligure a designare il monte in quanto sede, luogo di rifugio e di difesa per una data popolazione. Abbiamo già accennato come anche dei derivati della base alb/alp abbiano subito un’evoluzione semantica nel senso di «città»; ed avremo occasione di tornare più avanti sull’argomento. Ma per quanto riguarda le basi liguri berg82, 79 Cfr. la raccolta delle iscrizioni leponzie in Whatmough, Prae-Italic Dialects, vol. II, p. 65 sgg. ai numeri 268 (Tesserete, presso Lugano, 269 (Davesco, idem), 271 (Sorengo, idem), 272 (Aranno, idem), 273 (idem), 300 (Vergiate, presso Sesto Calende). I nomi stessi delle località, dove le iscrizioni funerarie sono state ritrovate, coi loro suffissi in -ate, -esco, -engo, accennano al sostrato ligure, anche se la regione è stata senza dubbio soggetta a forti influenze celtiche, e forse retico-illiriche. La voce pala, che si ripete in posizione sintattica costante nelle pietre tombali, ad es: «slaniai uerkalai pala / tisiui piuotialui pala» nella iscrizione di Davesco (n. 269; p. 86 ), viene senz’altro intepretata dalla maggior parte degli autori nel senso già accennato; sicchè il testo sopra riferito vien tradotto «tomba per Slania Verkala, tomba per Tisio Pivotialo». Analogamente, nell’iscrizione di Vergiate (n. 300, p. 105), «ka(r)ite pala(m)» viene interpretato come «fecit sepulchrum». Cfr. Pisani, Il Ligure, p. 391 sg., e Conway, Prae-Italic Dialects, vol. III, p. 34, s. v. pala. 80 Cfr Bertoldi, Colonizzazioni, p. 170 sg. Un passaggio semantico analogo sembra si ritrovi nell’enigmatico καντεμ delle iscrizioni sepolcrali della Galli a meridionale, lungo il corso inferiore del Rodano, per cui vedi i testi in Dottin, Langue Gauloise, p. 146 sg. La voce è stata raccostata ai derivati della base mediterranea canta/ganda, di cui avremo da occuparci più avanti, come al basco kantal, catalano cantal = «grossa pietra», spagn. e portog. canto = «pietra». L’interpretazione di καντεμ e di cantalon (che si ritrova in un contesto analogo in un’iscrizione ad Autun (Dottin, Langue gauloise, p. 162), nel senso di «pietra sepolcrale, tomba» sembra risolvere soddisfacentemente i dubbi che dominavano la traduzione di questi testi, ad es. da parte del Greniers, Les Gaulois, p. 311 sgg. 81 Cfr. Conway, Prae-Italic Dialects, vol. III, p. 34, s.v. pala, e Devoto, Tabulae Iguuinae, p. 241. 82 Per la base berg, cfr., nell’abbondante letteratura, Dottin, Langue gauloise, p. 233 s.v., che la riferisce al celtico; Pisani, Il Ligure, p. 389 e Geolinguistica, p. 355, che la considera indoeuropea, come il Meillet, lntroduction, p. 87 e la maggior parte degli indoeuropeisti. Altri autori, come il Conway, Prae-Italic Dialects, vol. III, p. 9 s.v., e il Pisani stesso, 73
briga83 e bricc84, questa specializzazione semantica appare ancor più precoce ed esclusiva. Non è dato che di intravvedere, per ora, quale sia il rapporto eventuale fra queste tre basi, i cui relitti si ritrovano nella toponomastica e nel lessico (almeno per le prime due) non solo nella grande Liguria, ma per tutto il dominio mediterraneo, e fin nelle parlate indoeuropee dell’Asia; secondo il Trombetti, anzi, fin nel Samojedo Ostjaco85. Che fra le tre basi esista un qualche rapporto, da tempo è apparso probabile a più di un Autore; quel che qui ci interessa particolarmente, comunque, è rilevarne le tracce nell’area ligure. Per quanto riguarda la base berg, essa ci appare documentata nella più antica toponomastica della regione. Già Avieno che, come è noto, lavora su materiali risalenti ad un’epoca anteriore al V secolo a.C.86, ci documenta nella Narbonense rivendicano più specificamente la voce, oltre che al celtico, al ligure indoeuropeo. Così il Walde Hofmann, LEW, vol. I p. 535 sg., s.v. fortis. Al fondo mediterraneo preindoeuropeo riferiva invece già la base berg il Trombetti, Onomast. medit., p. 50 sg., ed ora il Lamboglia, in Storia di Genova, vol. X, p. 87. A quest’ultima tesi sembra pure aderire sostanzialmente il Serra, in Berigiema, p. 123 sgg., in quanto ricerca i continuatori della base berg nel quadro delle formanti preindoeuropee. 83 Per la base briga, l’attribuzione al celtico – ove essa è largamente documentata – appariva, ancor più che per la base berg, esclusiva di quella al ligure per molti autori. Cfr. la letteratura citata alla nota precedente. A questa tesi si attiene ancora, ad es., il Grenier, Les Gaulois, p. 139. Con il Jullian, Histoire de la Gaule, vol. I, p. 175, n. 6, invece, rivendicano la voce, oltre che al celtico, al ligure, il Dauzat, Noms de lieux, p. 89; il Rostaing, Noms de lieux, p. 33; che tuttavia sembrano riferirsi piuttosto al ligure indoeuropeo; mentre il Lamboglia, in Storia di Genova, vol. I, p. 87, come prima già il Trombetti, loc.cit., attribuiscono questa base, che legano alla precedente, al sostrato mediterraneo preindoeuropeo. A questa tesi si atteneva già anche il Bottiglioni, Les peuples primitifs ecc., p. 216 sg., che attribuiva la base al fondo iberico; così pure il Bottiglioni, Toponomast. corsa, che la ritrova nell’Isola, all’infuori di ogni influenza celtica, ma piuttosto in ambiente ligure (p. 324). L’Alessio in Sostrato mediterraneo, p. 114, accenna, per il greco πύργος πέργαμον ad un ambientamento di voce indoeuropea in «ambiente mediterraneo», giacché ambedue le voci deviano fortemente dalle leggi fonetiche che caratterizzano il greco storico. Così pure, in Un’oasi linguistica, p. 174, lo stesso Autore, con esplicito riferimento al ligure Bergomum, parla di «struttura mediterranea», pur continuando a parlare di origini indoeuropee di questa base, che sarebbe passata come imprestito nelle parlate mediterranee. 84 Mentre, per le due basi sopra citate, la diversità di opinioni tra i linguisti si limita all’attribuzione a questo o a quel sostrato preromano, per la base bricc le incertezze sono ancor maggiori. Il Meyer-Lübke, che nella I edizione del suo REW aveva riferito i suoi derivati alla base gallica briga (REW, I ediz. n. 1297, s.v. brig-), nella III ediz. esclude, per motivi fonetici ed altri, la possibilità di una tale derivazione, e raccoglie queste voci sotto una base brikko). Cfr. REW, n. 1300 a. 85 Trombetti, Onomast. medit., p. 50 sg. Cfr.anche Colella, Topon. pugl., p. 430. 86 Recentemente il Lamboglia, La fondazione di Emporion e il periplo di Avieno (Riv. Stud. 74
un centro abitato a nome Bergine; e secondo Catone87, dei Bergomates, gli abitanti di Bergomum (Bergamo), di stirpe Oromobia, si ignorava già ai suoi tempi l’antica origine88. Nel passo delle Origines citate in nota, è esplicito il riferimento al sito montano dell’antica città89; e riferimenti analoghi alla topografia montana si possono ritrovare a proposito di nomi di città, di popoli e di divinità derivati da questa base berg, entro e fuori dell’area ligure o celto-ligure. Così per Bergintrum, nella valle dell’Isère; così per la popolazione dei Bergalei, che ci appaiono in contrasto con gli abitanti di Como90. Senza diffondersi qui sui numerosi nomi di città, di monti e di popoli derivati da questa base in tutto il Mediterraneo, e particolarmente in Spagna, ricorderemo solo ancora come, per la Liguria, a questa base si sia recentemente tentato di riportare il nome del mons Berigiema della Tavola di Polcevera91, nonché quello di numerose località montane in territorio ligure92. È caratteristico d’altronde il fatto che, in una delle versioni dell’antica leggenda sulla battaglia sostenuta da Ercole contro i Liguri, i due figli di Nettuno, eroi eponimi degli oppida di quelle bellicose popolazioni alpine, portassero il nome rispettivamente di Albion e di Bergion93: ambedue derivati, evidentemente, da due termini della nomenclatura montana, alba e berg; passati l’uno e l’altro – come abbiamo già accennato per alba, e come meglio vedremo in seguito – ad indicare due forme (probabilmente diverse per la loro origine e per il loro sito) degli stanziamenti montani dei Liguri. Che la base berg sia legata, nell’area, celto-ligure come fuori di essa, alla nozione di monte, di altura, appare anche dal nome della divinità ligure Bergimus, alla quale Lig.,1949, n. 1-2, p. 149 sgg.) ha prospettato la possibilità che il periplo dal quale Avieno ha attinto i suoi materiali risalga ad un’epoca ancor più antica di quel che comunemente non si supponga, e non di molto posteriore a quella della fondazione di Marsiglia. 87 M.P. Catone, Qrigines, fragm. n. 40, in Historicorum Romanorum Reliquiae, vol. I, p. 66; cfr. Plinio, III, 21. 88 M.P. Catone, loc. cit., «originem gentis ignorare se fatetur». 89 M.P. Catone, loc. cit., «...etiamnunc prodente se altius quam fortunatius situm». Cfr. Plinio, III, 21, «...vitam in montibus degentibus». 90 S.E. Johnson; Prae-ItaIic Dialects, vol. I, p. 313. Cfr. C.I.L.,V, 5050. 91 Cfr. Giandomenico Serra, L’antico nome ligure di monte Berigiema ecc., in, Riv. Stud. lig., 1949, n.1-2, p. 123 sgg., che oppone questa possibile interpretazione a quella ormai tradizionale del Kretschmer, accolta finora dalla maggior parte degli autori, malgrado i dubbi già elevati in proposito dal Bertoldi. Il Kretschmer poneva in rapporto la prima parte dell’oronimo col latino fero, la seconda col latino hiems, inteppretando il ligure Berigiema come «portatore di neve». 92 Così ad es. quello della villa Bergemulum, menzionata all’anno 814 nelle Basses-Alpes, quello di Bergèmolo, frazionedi Demonte (Cuneo) ecc. cfr. Serra, loc.cit., p. 125. 93 Vedi questa versione della leggenda in Pomponio Mela, II, 5. 75
sono dedicate varie iscrizioni votive ritrovate a Brescia94, nonché da quello della dea Bergusia, la paredra del dio Ucuete nell’iscrizione di Alesia, probabilmente la dea della miniera e della montagna95. Ancor più evidente appare questo legame quando si consideri la larghissima diffusione della base berg nel lessico indoeuropeo, col valore semantico di «monte, alto, altura»96. In questa accezione, la base è attestata nelle lingue indoeuropee antiche e moderne, dall’India alla Persia al dominio slavo, germanico, celtico e illirico; ma particolarmente interessante appare la sua attestazione in idiomi indoeuropei, nei quali il fondo linguistico preindoeuropeo sembra affiorare con maggiore larghezza: così nello hittita, nell’armeno, nel ligure, negli strati più antichi dell’onomastica e del lessico greco97. Dati fonetici ed evoluzione semantica presentano qui sovente anomalie, che accennano comunque ad una larga e produttiva vitalità della base in ambiente mediterraneo: è in un tale ambiente che meglio si spiega l’evoluzione del valore semantico da «altura» ad «altura difesa, roccaforte, oppidum», consona alle più antiche e documentate consuetudini d’insediamento delle popolazioni mediterranee. Vero è che, per un’epoca assai più tarda, tale evoluzione semantica è documentata anche per il germanico98; ma in ambiente mediterraneo, l’evoluzione del valore semantico appare assai diffusa, dalle epoche più antiche, nel lessico come nella toponomastica. Non meno caratteristica per l’ambiente mediterraneo è la struttura di toponimi come il ligure Bergomum, cui fa riscontro il greco Pergamon, col senso, appunto, di «rocca, fortezza, cittadella», e con quella oscillazione b/p che è stata sovente rilevata come una caratteristica del sostrato, Si potrebbe ricordare d’altronde che, anche per Bergamo, Paolo Diacono ci attesta la forma Pergamus; mentre, per la Liguria marittima, Stefano Bizantino ci attesta la città di Pergantion, con una formante in -ant-, che ritroveremo nei toponimi derivati dalla base briga99. Sembra certo, comunque, che – nell’area ligure – da un’epoca assai antica i derivati della base berg si siano specializzati nel valore semantico di «altura fortificata» o, almeno, 94 C.I.L., 7, 4200, 4201,4202, 4202 (Brixia). 95 Cfr. Grenier, Les Gaulois, p. 309. 96 Cfr. Walde-Hofmann, LEW, vol. I , p. 535, s.v., fortis; Meillet, Introduction, p. 87; Pisani, Geolingulstica, p. 355; Pisani, Crestomazia, p. 110. 97 Accanto allantico indiano brhánt = «alto», all’avestico berezant = «alto, altura, monte», all’ablg. brěgŭ = «sponda», all’aated. berg = «monte», cfr. l’armeno berj = «altura», lo hittita parkus = «alto», l’illirico βερζáνα = «castello» in Dardania, Birziminium, Bersumno = «fortezza», il greco πέργαμον = «rocca, fortezza, cittadella», πύργος = «torre, baluardo». Purgo si ritrova anche in ambiente ligure e nella toponomastica corsa. Cfr. Bottiglioni, Topon. corsa., p. 323. 98 Cfr. il got. baurgs = ted. Burg = «cittadella». 99 Cfr. Nissen, Ital. Landesk., vol. II, 1, p. 189; S.E. Johnson, Prae-Italic Dialects, vol. I, p. 370. 76
di «insediamento su rocca»; mentre i nomi di città derivati dalla base alba – pur riferendosi anch’essi, evidentemente, ad insediamenti in luoghi elevati – appaiono in rapporto (come vedremo più avanti), piuttosto che con necessità di difesa, con sinecismi relativi agli usi dell’alpeggio. Quel che importa rilevare, per intanto, è come anche per questo verso il rapporto fra le popolazioni liguri e la montagna appaia, dalle epoche più antiche, intimo ed attivo: sicché il paesaggio alpino ed appenninico non solo nel nome, nella denominazione, o negli usi dell’alpeggio, ma già anche nella sua configurazione materiale, ci comincia ad apparire scalfito dai primi stabili insediamenti delle popolazioni della Liguria. Ancor più avanzata è 1’evoluzione del valore semantico nel senso di «città» per la seconda delle basi citate, per briga, considerata in passato come celtica100, ma oggi piuttosto rivendicata a un sostrato di area ibero-ligure, dal quale il celtico l’avrebbe presa a prestito101. Certo è che la base dovette essere vivace e largamente produttiva anche in età romana, tanto che essa entra in composizione con personali latini per la formazione di toponimi come Juliobriga e Flaviobriga102. Qui, come in Gallia, d’altronde, la primitiva accezione di «luogo elevato, montagna» sembra andata perduta per la base briga, che entra sovente nella composizione di nomi di città site in pianura. In area iberica, e fuori di ogni probabile possibilità di influsso celtico, questa evoluzione semantica sembra aver subito una particolare specializzazione già in epoca assai remota: qui si contano non meno di una quarantina di nomi di città composti con questa base, e il loro primo termine appare quasi sempre preindoeuropeo103. In area ligure, per contro, dove la base è attestata per un’epoca pure anteriore all’invasione celtica, il suo valore semantico – forse in rapporto con un più arretrato grado di sviluppo cittadino nei confronti di molte parti della penisola iberica – sembra ancora più strettamente connessa con la primitiva accezione di «monte, altura», confermata d’altronde dai suoi nessi con la base berg e con i nomi già ricordati del «monte» nei vari linguaggi indoeuropei104. Non certo ad un modo 100 Così il Dottin, Langue gauloise, p. 23 che a questa base ricollega 1’irl. bri, il cirar. e bret, bre = «monte», e il Meyer-Lübke, nella I ediz. del suo REW, 1297, s. v. brig-, ove già però si elevavano dubbi sulla possibilità di un legame col prov. bre. 101 Cfr. ad es. Dauzat, Noms de lieux, p. 89; Lamboglia in Storia di Genova, vol. I, p. 8; e già Jullians, Histoire de la Gaule, vol. I, p. 275. 102 Cfr.Lamboglia, Toponomastica Intemelia, p. 40, che non esclude una vitalità in epbca romana della base, anche nella formazione dei toponimi di Briga in area ligure (Alpi Marittime, Novara), oltre che di quelli composti con nomi latini citati nel testo, che sono di area iberica. 103 Vedili raccolti in Holder, Altceltischer Sprachschatz, I, 131-137. 104 La maggior parte degli indoeuropeisti lega sia la base briga che la basi berg alla radice indoeuropea bherĝh = «elevato, alto, monte». Così anche Walde-Hofmann; LEW, vol. I, p. 535, s.v. fortis. 77
di vita cittadino appare dedita la barbara popolazione ligure dei Segobrigi, sul cui territorio fu fondata Marsiglia; ma piuttosto ad una loro originaria od attuale sede montana sarà appunto connesso il loro nome105. Così pure popolazioni tipicamente montanare appaiono quelle dei Brigiani e dei Brixenetes, menzionate nel Tropaeum Alpium fra quelle sottomesse da Augusto, nell’anno 7-6 a.C.106; quelle dei Brigantienses o dei Βριγάντιοι, menzionate da Strabone, da Ammiano Marcellino ed in iscrizioni varie; mentre son tutte disposte in sito montano le varie località che, in area ligure o ai suoi margini, portano i nomi di Brigantium o di Brigantio, da cui poi son derivati i numerosi Brianzone, Brianzonetto ecc.107. La base si ritrova, oltre che nella toponomastica, in etnonimi celti, e nel nome della dea gallica Brigindo108, la Brigantia di un’iscrizione latina e la Brigit dell’epopea irlandese109; in ambiente ligure ritorna in toponimi della Corsica, dove pure appare ancora più direttamente legata alla sua accezione originaria di «monte, altura»110. Una certa limitatezza dello sviluppo di una vita cittadina tra i Liguri, nei confronti di altre popolazioni dell’Occidente italico, gallico e iberico, contribuisce in epoca anche tarda a rallentare lo sviluppo del valore semantico della base da «altura, monte» a «città»; sicché anche nell’Arebrigium, attestato dall’Itinerario Antoniniano sulla via da Augusta Praetoria al Passo del Piccolo San Bernardo111, in ambiente già fortemente celtizzato, tale valore andrà piuttosto riferito all’accezione originaria di «monte» che non a quella di «città». Più ristretti, ancora, ci appaiono i limiti dello sviluppo semantico ed i legami con l’accezione originaria di «monte» per la terza tra le basi sopra menzionate, la base bricc, i cui relitti toponomastici e lessicali sono largamente diffusi nell’area ligure. Già nelle variae lectiones del Brigantia della Tavola Peutingeriana, dell’Itinerario Antoniniano, della Nota dignitatum e del Ravennate, del Brigantienses delle iscrizioni, si ritrova una oscillazione da briga a brec (Brecantia) e a bric (Bricantienses?), che non può non attirare la nostra attenzione112; mentre un tema in consonante come quello dì Brixia (Brescia)113 105 Cfr. Giustino, Histor. Philippic., XLIII,4, dove si dice esplicitamente che i Segobrigi appresero solo dai coloni focesi a costruire città. 106 Cfr. C.I.L., V, 7817; Plinio, III, 24; Johnson; Prae-Italic Dialscts, vol. I, p. 364. 107 Cfr. Whatmaough, Prae-Italic Dialects, vol. I, p. 447; Strabone IV, 6, 6; Lamboglia, Nomi dei Comuni ecc., p. 19 sg. 108 Dottin, Langue Gauloise, p. 162, iscrizione n.38 (Auxey). 109 Grenier, Les Gaulois, p. 312. 110 Brigaglia, Briguglia in Corsica. Cfr. Bottiglioni, Toponomast. corsa, p. 324. 111 S. E. Johnson, Prae-Italic Dialects, vol. I, p. 314. 112 Whatmough, Prae-Italic Dialects, vol. I, p. 447. 113 S. E. Johnson, Prae-Italic Dialects, vol. I, p. 239. 78
e di Brixellum114 sembra, accennare ad una base affine, ma non identica, a quella dei toponimi ed etnonimi da briga. Ma particolarmente importanti, diffusi ed ancor vivaci in tutta l’area ligure sono i relitti lessicali, che il Meyer-Lübke riportava già ad una base brikko115. L’area di diffusione di questi relitti lessicali è assai larga, e si estende dalle Alpi orientali alle Centrali ed Occidentali, alla Gallia Cisalpina ed alla Transalpina116; si fa più densa, tuttavia, in area più propriamente ligure, al di qua e al di là delle Alpi. Al genovese brico, bricco = «monte, erto, dirupo», al piemontese bric = «luogo scosceso», bricòla = «poggio», al lombardo alpino bric = «monte», all’emiliano bric = «greppo», fa qui riscontro il provenzale bric, brec = «monte, roccia, picco montano»117. La base sembra qui esser stata largamente produttiva nel lessico prelatino come in quello latino e romanzo, che l’ha largamente ripresa e diffusa118. A tutt’oggi, nelle parlate romanze di ambiente ligure, derivati da questa base vengono largamente usati a indicare itinerari alpestri119, a designare le popolazioni montanare120; mentre,anche fuori di questo ambiente, e con valore semantico traslato da «monte, roccia, dirupo» a «sasso, ciottolo», essi hanno dato all’italiano e ad altre parlate romanze vocaboli come bréccola = «ciottolo», portoghese brelha = «ghiaia», italiano «breccia»121; e non è escluso che a questa medesima base vada in ultima analisi riportato anche l’italiano briccone, col significato originario di «montanaro, rozzo, barbaro»122. 114 S. E. Johnson, Prae-Italic Dialects, vol. I, p. 409 115 Meyer-Lübke, REW, n. 1300 a, s.v. brikko. Le difficoltà che l’A. qui solleva per il chiarimento dell’oscillazione e/i nei derivati di questa base sembrano nascere da una considerazione limitata a fenomeni fonetici di tipo indoeuropeo e romanzo; mentre dovrebbero essere superate, quando si riporti 1’oscillazione al sostrato mediterraneo, ove essa è ormai largamente documentata. 116 Brec nelle Alpi Orientali, zbrik = «dirupo» nel trentino, Bricca nella Gallia Turonense. Cfr. Battisti e Alessio, Dizion. etim., s.v. bricca. 117 Cfr. Battisti e Alessio, Diz. etim., s.v. bricca, bricco, brìccola, e i dizionari dialettali. Restano oscure le forme provenzali con nasale brinc, brenc. 118 Di una produttività della base in epoca prelatina, e anzi preindoeuropea, sembrano essere documento formazioni come brecalho, bric(ass)alho = «roccia», con una formante in -al- largamente documentata, nel sostrato mediterraneo non solo per fitonimi collettivi, ma per collettivi di formazioni geologiche. Cfr. Piat, Dict. franc-occit., s. v. rocher. 119 Cfr. l’espressione provenzale a bric e valoun = «per monti e per valli», lou bric del Viso = «il Monviso» (Piat; Dict. franc. occit., s.v. mont). 120 Cfr. il piemontese bricaireul, bricolin, briculin = «montanaro»; e il provenzale bricoulin = «montanaro». 121 Cfr. Battisti e Alessio, Diz. etim. s.v. breccia, bréccola. 122 Cfr. Battisti e Alessio, Diz. etim. s.v. briccone. 79
In area ligure, comunque, questa base – ancor più che le due precedenti – appare limitata nel suo sviluppo semantico nel senso di «città», di cui non si serba traccia nella toponomastica e nel lessico; sicché anche per questa via ci resta confermata la generale arretratezza dello sviluppo cittadino, di contro al particolare rilievo che la vita montanara e i rapporti col paesaggio montano dovettero avere in Liguria, ancora all’epoca della romanizzazione linguistica, che fece proprio anche questo diffuso termine della nomenclatura geologica preromana. Senza diffonderci su di una più approfondita disamina dei rapporti intercorrenti, dal punto di vista linguistico, tra le tre basi berg, briga, bricc123, possiamo d’altronde rilevare una 123 Oscuro appare ancora, fra l’altro, il rapporto con la base briga o bricc, dell’irl. bri, cimr. e bret. bre, e del prov. brec, annesso senz’altro dal Dottin e dal Walde-Hofmann, revocato in dubbio dal Meyer-Lübke. Tutta 1’evoluzione fonetica e morfologica, nonché il rapporto tra le tre basi, sembra discutibile, quando si voglia considerarlo nei limiti di un quadro linguistico indoeuropeo. Né a risolvere i dubbi crediamo possa bastare un semplice “ambientamento” delle basi nel dominio di parlate mediterranee, o la confluenza di voci indoeuropee con voci mediterranee omofone, postulata in questo ed in altri casi da taluni autori. Di fatti del genere, di cui ritroveremo altri esempi nel corso della nostra esposizione, la nuova scuola di linguistica sovietica dà una interpretazione, che appare la più probabile, se pur non la più ovvia per chi non voglia uscir dai quadri dell’indoeuropeistica tradizionale. La considerazione dei linguaggi indoeuropei come fase di sviluppo stadiale e come risultato di un incrocio di linguaggi di tribù di tipo giapetico (o, direbbe la scuola italiana, mediterraneo) permette di dare una spiegazione più persuasiva della presenza di queste basi nel quadro mediterraneo come in quello indoeuropeo. Cfr., per queste teorie, A. Desnickaia, K probleme istoričeskoi obščnosti indoevropeiskikh jazikov (Sul problema della comunità storica delle lingue indoeuropee), in; Izv. Akad. Nauk S.S.S.R., sezione letteratura e linguistica, n. 3, 1948, p. 241 sgg.; Tolstov, Problema proiskhoždenia indoevropeicev (Sul problema dall’origine degli indoeuropei), nelle Kratkie Soobščenia dell’Institut Etnografii, 1946, n. l, p. 3 sgg. Udalecv, idem, p. 14 sgg.; e specie gli studî del Meščianinov sui problemi dello sviluppo stadiale nei nn. l, p. 35 sgg. e 3, p. l73 sgg. delle già citate Izv. Akad. Nauk S.S.S.R., anno 1947. Lo sviluppo stadiale delle parlate indoeuropee viene, in queste impostazioni, messo in rapporto con l’affermarsi della civiltà dei metalli (per la formazione degli ethnos protoslavi, ad es., nella piena età dal bronzo) e con le conseguenti rivoluzioni nella struttura sociale delle tribù primitive, dei loro mutui rapporti e del grado di sviluppo della loro coscienza sociale. Quanto nel testo abbiamo accennato a proposito dell’evoluzione semantica delle basi in esame porterebbe a ritenere che, nel dominio celto-ligure, il passaggio stadiale dalle parlate ibero-liguri di tipo mediterraneo a quelle celto-liguri di tipo indoeuropeo sia particolarmente legato all’affermarsi di insediamenti di tipo cittadino più complesso, non senza l’intervento di un vero e proprio prccesso di celtizzazione, dovuta all’invasione di popolazioni che già in altro ambiente (civiltà di Hallstatt) avrebbero subito un processo di evoluzione stadiale con lo sviluppo di una lingua di tipo indoeuropeo. Una tale intepretazione – alla quale in generale si attengono, ad es., il Tolstov e 1’Udalcov negli studi già citati, anche con esplicito riferimento al ligure – darebbe ragione della larga persistenza, nella Liguria propria, non soltanto di così importanti relitti mediterranei, ma anche di fasi più arretrate del loro sviluppo semantico (così briga nel senso di “monte”, di contro ad una più frequente evoluzione della base nel senso di “città” in area celto-iberica). Avremo occasione più avanti 80
conferma di questa nostra affermazione in un più rapido esame di altri relitti di questa nomenclatura. Al sostrato ligure, poi ripreso dal celtico, ci riporta in effetti – all’infuori delle basi già ricordate – la base cemeno = «monte, dorso di monte»124 che ritroviamo nel nome del massiccio montano delle Cevenne125 e, con un suffisso caratteristico del ligure, nel preromano Cemenelum (oggi Cimiez, quartiere alto di Nizza)126. Che si tratti di un termine della nomenclatura montana preceltica ci è confermato dal cimenice, «mone dorsa celsus» di Avìeno127. Così pure a un fondo mediterraneo preindoeuropeo, ancor vivace poi in epoca romana, ci riporta il ligure boplo = «colle, poggio», che ritroviamo nel Boplo della Tavola di Polcevera128. A questo sostrato sembra infine vadano riportate la base morra = «monte», largamente diffusa nella toponomastica, e il suo derivato morena, ancor vitale nelle parlate alpine, e da esse passato nella nomenclatura geologica internazionale129, nonché la base rocca, coi suoi numerosi derivati, largamente attestati nelle parlate romanze, entro e fuori dell’area ligure130. di tornare sull’argomento; accenni ad orientamenti in questo senso nell’interpretazione di confluenze fonetiche e lessicali fra sostrato e parlate indoeuropee non mancano d’altronde neanche nella letteratura della scuola italiana. Cfr. ad es. Gerola, Substrato mediterraneo e latino, p. 347 sgg.; e l’importante dibattito col Patroni del Devoto, in Protolatini e tirreni, p. 409 sgg. e Lingua di Roma, p. 386 sg. Per la tesi del Patroni, che sotto vari aspetti postula soluzioni del tipo di quelle prospettate dalla scuola linguistica sovietica, cfr. Patroni in Arch. Glott. It, XXXII, 1940, p. 21-69, e la sua Preistoria, passim. 124 Cfr.il citar. cimr cemn = «dos» Dottin, Langue gauloise, p. 244. 125 Cfr. il κέμμενον ὄρος di Strabone IV, 1, 1 e 2. 126 Cfr. S.E. Johnson, Prae-italic dialects, vol. I, p. 358. È l’oppidum della popolazione ligure dei Vediantii. Cfr. Lamboglia, Liguria romana, vol. I, p. 40 sg. 127 Avieno, Ora marit., 622-625. 128 «Inde sursum iugo recto in montem Apeninum, quei vocatur Boplo» (C.I.L. V, 7749). Per la base boplo = «colle, poggio», v. Devoto in St. Etr. vol.VI, p. 243 sgg., e del medesimo; Pala: rotondità, p. 316; Lingua di Roma, p. 53. dove questa forma ligure di una più diffusa base mediterranea viene riportata ad un ràdicale mediterraneo publ/bubl = «crescere», al quale si riferisce, con l’etrusco Fufluns, il latino populus. V. anche, in proposito, Alessio, Sostrato mediterraneo, p. 122 sg. 129 Per la base mediterranea morra, i cui derivati lessicali e toponomastici sono largamente diffusi dalla penisola italiana alla Francia meridionale alla penisola iberica, col valore semantico di «monte, morena, mucchio di sassi», cfr. Meyer-Lübke, REW, 5673 a, s. v. mora, e 5762 s. v murru; Colella, Topon. pugliese, p. 43, 62, 99; Dauzat, Dict. étim., s. v. moraine. Il savoiardo morena, da cui il francese moraine e l’italiano morena, appare derivato dalla base morra a mezzo di una formante in -ena, che ha larghi riscontri nel sostrato mediterraneo. 130 Per la base rocca, cfr. Mayer-Lübke, REW, 7357 s.v. rocca; Alessio, La base preindoeuropea 81
Per tutte queste basi, i relitti toponomastici e lessicali documentano varie specializzazioni di valori semantici, che vanno da quello di «altura» a quello di «colle, poggio, dorso montano, picco, roccia», ma che restano sempre strettamente legati alla nomenclatura montana, e solo in epoca tarda, per rocca, subiscono un’evoluzione semantica nel senso di «altura fortificata, cittadella». In confronto di quanto possiamo rilevare in aree adiacenti più avanzate dal punto di vista dell’evoluzione cittadina, questo passaggio di basi prelatine nella toponomastica romana e romanza senza alterazione del senso originario di «monte, altura», ci conferma come, ancora all’epoca della romanizzazione della Liguria, la vita di arretrate popolazioni montanare vi avesse un peso assai notevole. Una conferma in questo senso ci viene per contrasto,dalla scarsa diffusione e vitalità, in area ligure, di un’altra base – chiaramente indoeuropea, questa – della nomenclatura montana celtica, largamente attestata nella Gallia e nel celtico insulare; vogliamo dire del gallico dunos (dunum), per il quale le glosse ci attestano il valore semantico di «monte», ma che più frequentemente ci appare, nei toponimi della Gallia e nel lessico del celtico insulare, nell’accezione di «oppidum, recinto fortificato»131. Il nesso etimologico di questo termine celtico con quelli di significato analogo di altre lingue indoeuropee farebbe pensare anzi che solo il senso «recinto fortificato» sia quello originario132: mentre solo più tardi la frequenza di stanziamenti fortificati kar(r)a/gar(r)a, vol. IX, p. 15 0; Dauzat; Dict. étym., s. v. roche; Dauzat, Topon. franc., p. .88; Bloch-Wartburg; Dict. étym., s. v. roche; Alessio, Sostrato mediterraneo, p. 141. Nella toponomastica gallica la base sarebbe attestata da Rocadunum = «Roquedur» (Gard), che sarebbe una formazione reduplicata (del tipo di Linguaglossa ecc.) da una base del sostrato tradotta col celtico dunum, di analogo significato. Nel più antico esempio di rocca nel Du Cange (anno 767) «multas roccas et speluncas conquisivit», l’evoluzione dal senso geomorfico a quello posteriore di «castellum in rupe» non è ancora compiuta. 131 Cfr. Dottin, Langue Gauloise, p. 2541 dunum = «montem» nel Glossario di Vienna, e δοῦνον τόπον ἐξέχοντα nello Pseudo-Plutarco. L’irl. ha dún = «cinta fortificata», cimr. din; il francese dialettale ha dun = «collina» nella Haute-Loire, dunet = «piccola altura» nel Cantal (Wartburg, FEW, III,180). I nomi di oppida composti con dunum in Gallia sono numerosi si v. Dauzat, Noms de lieux, p. 102; Rostaing, Noms de lieux, p. 40 sg.; Dauzat, Topon. franc., p. 200 sg. Basti ricordare Lugdunum = «Lione». In toponimi come Mello-dunos = «Melun», Roc(c)adunos = «Roquedur» da un lato, e come Castrodunum = «Chateaudun» dall’altro, il termine celtico appare in composizione con un termine rispettivamente preceltico o romano, di cui eventualmente esso rappresenta una reduplicazione. 132 Cfr. Bertoldi, Glottologia, p. 71 sgg.; e Colonizzazioni, p. 182. Al gallico dunos (dunum), irlandese antico dun, risponde il danese antico tun = «siepe» aated. zùn = «siepe», ted. Zaun, anglosassone tûn, che prelude all’inglese town = «città». Un’evoluzione semantica analoga da «siepe, recinto» a «città» si ritrova, come è noto, nella serie greco χóρτος – lat. hortus – gallico gortos – francone gardo, col valore di terreno recinto, orto, siepe, giardino, cui rispondono l’italiano corte, lo slavo gorod = «città», lo hittita gurtas = «cittadella», con adattamento ai valori di una cultura cittadina. Cfr. anche l’evoluzione semantica dell’altra 82
nei siti montani della Gallia avrebbe determinato l’evoluzione semantica nel senso di «monte». Così pure il Mars Dunatis, di cui si ritrova in Gallia il culto ad Artemare (Ain) ed a Bouhy (Nièvre), è evidentemente non un dio della montagna, ma il dio della «cinta fortificata»133. Anche per questa via, così, la scarsa diffusione e produttività della base dunos nell’area ligure e gallica cisalpina134, anche dopo l’invasione celtica, confermerebbe e verrebbe a sottolineare l’arretratezza dello sviluppo cittadino tra le popolazioni liguri, in confronto di quello delle popolazioni della Gallia transalpina; sicché anche termini che altrove già servono alla nomenclatura di stanziamenti accentrati, come briga e dunos, in area ligure restano confinati all’accezione di «monte» o trovano ostacolo alla loro diffusione nella scarsezza ed arretratezza degli elementi di una vita cittadina. Questa rapida scorsa della nomenclatura della montagna in area ligure, attraverso i relitti conservatici dalla toponomastica e nel lessico delle parlate romanze, ci ha mostrato comunque la sua ricchezza e la sua varietà, la sua persistenza e la sua vitalità fino all’epoca della romanizzazione linguistica, ed oltre. Tra questi relitti affiorano senza dubbio antichissime stratificazioni linguistiche; ed è impossibile, allo stato attuale delle nostre conoscenze, distinguere quando si tratti – per i vari termini della nomenclatura montana – di nomenclature contemporanee, diciamo così, cioè appartenenti a gruppi etnici e linguistici distinti, e quando invece si tratti di successive stratificazioni del medesimo gruppo linguistico. Il problema, d’altronde, è forse più apparente che reale, quando si rifletta che si tratta, nel caso in esame – come vedremo – di popolazioni il cui ordinamento in tribù lasciava ancora scarso adito a legami, a convivenze federali e statali; sicché esse dovevano presentare gradi di sviluppo sociale assai differenziati, differente soggezione a influenze linguistiche di tribù e popolazioni vicine o avventizie, e sinanche differenti livelli di sviluppo stadiale delle rispettive parlate. Diversità di parlate locali e diversità di stratificazioni linguistiche dovevano pertanto, fin quasi all’epoca della romanizzazione, venire sovente a coincidere, con una varietà di persistenze di elementi primitivi secondo la varietà delle situazioni locali, e con un loro peso maggiore nelle zone più appartate, base: danese antico hage = «siepe, recinto», francese haye = «siepe», a La Haie ed ai numerosi nomi di centri abitati in -hag in varie parti della Germania. 133 Cfr. Vendryes, Religion des Celtes, p. 272 134 Cfr. Dauzat, Nom de lieux, p. 108; cfr. i toponimi Duno, Induno, Chiuduno in Lombardia, in ambiente fortemente celtizzato. In ambiente più propriamente ligure, la documentazione più orientale di composti in -dunum sembra essere quella di Aiglun = «aquilas dunum», e di Bézaudun, nel dipartimento francese delle Alpi Marittime: ambedue composti di formazione assai tarda, latina o addirittura romanza.V. Lamboglia, Nomi dei Comuni, p. 3 e 15. L’italiano e dialettale duna, anche se è etimologicamente connesso col gallico dunos, sembra però un imprestito dal medio olandese dunen, attraverso il francese dune. Non si ritrovano perciò, nei dialetti italiani di ambiente ligure, relitti lessicali diretti della base gallica dunos. 83
arretrate e conservative della montagna: sicché anche per questo verso ci vien riconfermata quella frammentazione di culture e quell’adattamento alle condizioni dell’ambiente naturale, che abbiamo rilevato dai dati archeologici, e nel quale abbiamo trovato una conferma di una persistente dipendenza di quelle popolazioni dai dati del paesaggio geologico e vegetale, condizionata dal basso livello di sviluppo delle forze produttive sociali. Gli studiosi di geografia umana, d’altronde, hanno sovente rilevato come, in queste prime fasi di sviluppo della società, la montagna di per se stessa agisca come potente fattore dì differenziazione fra gruppi umani, anche vicinissimi. Non già che, in queste condizioni, il monte costituisca, una sorta di «confine naturale» come giustamente osserva il Blache135, ciò avviene solo per popolazioni che abbiano già raggiunto una fase assai più avanzata, almeno statale, di sviluppo. Anche questa di «confine naturale» è una categoria geografica, che non saprebbe non esser soggetta ad uno sviluppo storico; e per quanto riguarda le popolazioni liguri, ad esempio, le ritroviamo sui due versanti degli Appennini136, come sui due versanti delle Alpi, senza che queste due importanti catene di monti segnino per esse un confine etnico. Ma quel che la montagna necessariamente induce nella struttura di una società primitiva, che ancora non la domini con l’affermazione delle sue tecniche, è piuttosto un’estrema e locale varietà di sviluppi, di orientamenti, di particolarismi: che si rivelano non soltanto da versante a versante di un grande massiccio, ma da vallata a vallata, da bacino a bacino. Non si potrebbe ritrovare, così, in Liguria, alla vigilia della conquista romana, quella relativa uniformità di cultura, che si ritrova in ben più estese zone pianeggianti dell’Europa continentale, e nella stessa Gallia transalpina. Così nella lingua, ancora una volta, malgrado probabili differenziazioni dialettali, ci impressiona la notevole uniformità dei documenti disponibili 1’immenso dominio dell’espansione celtica, dalla Gallia all’Asia Minore; mentre per il territorio, di tanto più limitato, della Liguria, anche gli scarsi documenti già ci rivelano importanti differenziazioni, non solo lessicali, ma morfologiche: per la formante in -elum, così caratteristica per le parlate liguri orientali, dalla Polcevera a Veleia, sembra ad esempio si possa affermare che essa non si ritrova al di là del Varo; la più occidentale sua “spia” pare sia quella della già citata Cemen-elum. E considerazioni analoghe verremo via via svolgendo a proposito dei vari aspetti della cultura ligure, nei suoi aspetti materiali come in quelli sociali e spirituali. 135 J. Blache, L’homme et la montagne, p. 169 sgg. Già il Jullian, Histoirs de la gaule, vol. I, p. 41, rilevava che «le faite des montagnes n’est devenu une barrière que pour les Etats policés, qui aiment la précision en tonte chose». 136 Lo rileva esplicitamente Polibio (II,16, 1), che poco appresso fa analoga osservazione per gli Umbri. 84
A parte questi elementi di estremo frazionamento e differenziazione, sui quali dovremo tornare a proposito delle forme d’insediamento e dell’organizzazione sociale dei Liguri, un’altra influenza che la montagna induce nelle società primitive è – come pure è stato sovente rilevato dagli studiosi di geografia, umana137 – un orientamento prevalente verso la caccia e la pastorizia, nei confronti delle attività agricole, più gravemente ostacolate dal rilievo orizzontale, quando esso superi determinati limiti; e, ancora, l’obbligato orientamento verso scambi e migrazioni in senso verticale, che fin dalle epoche più remote si è espresso nelle zone alpine nelle migrazioni stagionali dei cacciatori e dei pastori. Abbiamo già rilevato, anche in questo paragrafo, alcune tracce linguistiche di questi aspetti della vita montana, assieme a quelli della sua limitatezza locale e della sua relativa arretratezza; e su tutti questi motivi, dovremo tornare, per un maggiore approfondimento, nei capitoli seguenti. Ma vogliamo rilevare ancora – prima di passare ad un esame più generale del rilievo geologico e del paesaggio della Liguria antica – un’altra importante influenza della struttura montana sulla vita regionale: quella per cui essa assicura vere e proprie “zone di rifugio” a popolazioni primitive, che la pressione o l’invasione di genti più evolute o più agguerrite costringe ad abbandonare il proprio territorio od a restringersi su di esso. Anche questo aspetto dell’influenza di una struttura montagnosa è stato sovente approfondito dagli studiosi di geografia umana; ed esso appare con un particolare rilievo nella Liguria antica, anzi nella Gallia cispadana, ove Strabone credeva addirittura di poter distinguere le popolazioni liguri dalle galliche secondo 1’habitat alpestre degli uni, contrapposto agli insediamenti in pianura degli altri138. Il criterio di Strabone era, certo, troppo semplicistico, e dovette non di rado indurlo in errori di apprezzamento etnografico, di cui talora possiamo trovar traccia nei suoi scritti; ma è fuor di dubbio che, all’ingrosso, in epoca storica, il territorio abitato dalle tribù liguri era, per una buona parte, un territorio montano di rifugio, in cui esse si erano venute ritirando e difendendo contro l’invasione celtica. Tutti i dati archeologici, storiografici, etnografici, e particolarmente quelli toponomastici, ci confermano l’intensa celtizzazione delle genti e dei territori di pianura, di contro ad una persistente liguricità delle tribù e dei territori montani; ed anche in epoca assai più tarda, ad avvenuta romanizzazione, la distribuzione topografica ed altimetrica dei prediali e dei toponimi della Tavola di Veleia ci permetterà di rilevar le tracce di questa funzione di rifugio della montagna, anche all’interno di un territorio relativamente limitato139. Solo questa funzione di rifugio 137 Blache, L’homme et la montagne, p. 171 sgg.; Brunhes, Géographie humaine, p. 180 sgg. 138 Strabone V, l, 4. 139 Cfr. De Pachtère, La Table hypothécaire de Veleia. p. 31 sg. e passim. Vedi ancora le acute considerazióni sulla montagna come territorio di rifugio nel già citato Blache, L’homme et la montagne, p. 169 sgg. 85
può spiegarci, d’altronde, l’estremo addensamento di popolazioni numerose, come quelle degli Apuani, in un territorio montano naturalmente assai povero di risorse, già in epoca precedente alle guerre romano–liguri140. Ma un passo famoso di Avieno141, se pur variamente intepretato, ci documenta esplicitamente, in versi che non mancano di drammaticità, questa funzione di “zona di rifugio” delle montagne liguri: quale che fosse la provenienza delle popolazioni che vi si rifugiarono, e l’ondata celtica alla cui pressione esse dovettero cedere: «I Liguri, sospinti verso il sud – scrive Avieno – giunsero in codesti luoghi che abitano ora, irti quasi ovunque di boscaglie, pieni di asperità, dove rupi a picco e monti minacciosi sembrano toccare il cielo; e per molto tempo la popolazione si tenne cautamente rifugiata negli angusti ripari montani, lontano dal mare di cui temeva gli antichi pericoli, finché la quiete e la tranquillità fecero rinascere l’audacia e la persuasero ad abbandonare gli alti ricoveri per scendere alfine nelle località in riva al mare»142, A mill’anni dall’epoca a cui Avieno riferisce questa descrizione del paesaggio ligure, quando S. Colombano verrà a stabilirsi nel territorio di Bobbio, al principio del VII secolo, il suo biografo ritrarrà, da quelle terre, un’impressione che per molti riguardi ricorda, quella tramandataci dalle fonti di Avieno. D’un sol privilegio, il re Agilulfo potè concedere al Santo tutta la terra a quattro miglia d’intorno, dense di foreste impenetrabili: ma da quelle foreste i monaci non potrebbero nemmeno trarre il legname necessario alle loro costruzioni, se il miracolo non 140 Dopo una lunga serie di campagne micidiali, quando, nel 180 a.C., i Romani decisero di stroncare la pertinace resistenza dei liguri Apuani con la loro deportazione in massa, il numero dei capi famiglia deportati raggiunse ancora i 40.000. Cfr. Livio XL, 38: «...ad quadraginta milia liberorum capitur cum feminis puerissque». 141 Avieno, Ora marit. 135-145. 142 «Liguresque pulsi, ut saepe fors aliquos agit / Venere in ista, quae per horrentes tenent / PIerumque dumos: creber his scrupus locis / Rigidaeque rupes atque montium minae / Coelo inseruntur: et fugax gena haec quidem / Diu inter arta cautius duxit diem, / Secreta ab undis; namque salis matuens erat / Priscum ob periclum: post quies et otium / Securitate roborante audaciam / Persuasit altis devehi cubilibus / Atque in maritimos iam locos descendere». Senza entrare, qui, nel dibattito intorno all’interpretazione di questo passo, e dei versi immediatamente precedenti, che parlano dei Liguri cacciati da terre dell’estremo Nord dalla pressione celtica, vogliam solo rilevare che sembra difficile accettare, in questo caso, la tesi del Lamboglia (in Storia di Genova, vol. X, p. 80 sgg.), che identifica questi «Ligures pulsi» di Avieno con gli Ambrones di cui parla Plutarco (C. Marius, XIX), che rappresenterebbero una prima ondata indoeuropea discesa sulla Liguria marittima già nei secoli anteriori al VII-VI a.C., sul limitare dell’età del bronzo e dell’età del ferro. L’insediamento montano di questi profughi indoeuropei, che sarebbero venuti a raggiungere i Protoliguri mediterranei, non pare conciliabile con la prevalenza di relitti toponomastici e lessicali mediterranei proprio nelle “zone di rifugio” montane; che avrebbero dovuto semmai – nell’ipotesi del Lamboglia – subire un più intenso ed anticipato processo di indoeuropeizzazìone. 86
intervenisse a trarli d’impaccio per quelle forre inaccessibili143. Le guerre romane e le deportazioni, le nuove invasioni, son giunte a spopolare anche queste zone di rifugio; la desolazione ha restituito a queste montagne la loro primitiva ferocia. Di questo paesaggio sconvolto della Liguria primitiva ricercheremo i documenti, e i rapporti con quella antica umanità, nel paragrafo che segue.
Fig. 2, Emilio Sereni, Ronchi a “marrelo” in Val Polcevera, settembre 1951, fotografia, cm 9x6, Fondo Sereni, Illustrazioni storia agraria, b. 17.
143 Cfr. la Vita Columbani, I, p. 30 e 222, citata in De Pachtère, op. cit., p. 20 sg. 87
4. Rilievo geologico e paesaggio montano Tra questi documenti, il più critico e ragionato resta ancora, in complesso – per quanto riguarda almeno, il paesaggio alpino – quello che Polibio ci ha tramandato nei III libro delle sue Storie144, là dove egli ci descrive il passaggio di Annibale: e la sua testimonianza sui rapporti tra l’uomo e il paesaggio montano ha per noi un particolare valore, perch’essa si riferisce proprio all’epoca attorno alla quale si accentra la nostra ricerca. Dopo di lui, non pochi – storiografi e poeti – han continuato, fin nella più tarda latinità, a rivolgersi con una sorta di sacro terrore a queste alte terre della Liguria alpina, «sempre avvolte d’un nevoso orrore»145. Una volta per sempre, a Polibio doveva sembrare di aver fugato questo ingiustificato terrore, quando egli aveva rilevato e rivelato agli ignari come quelle alte terre, non meno delle pendici degli Appennini, fossero pure abitate da genti numerose146. Eppure, né l’esperienza personale ed il rigore storiografico, né l’autorità dell’amico degli Scipioni, bastarono – né potevano bastare – a mutare il corso della comune opinione: anche se Livio stesso non manca di riprendere, nel discorso ai soldati posto in bocca di Annibale147, taluni degli argomenti, e soprattutto il tono critico e pacato, che Polibio aveva, forse tra i primi, usato nella considerazione delle effettive difficoltà del paesaggio alpino. La realtà è che l’occhio, col quale si guardava alle sue asprezze, non era – e non poteva essere – lo stesso da parte di genti del piano e della collina, adusate a tutt’altri rapporti ed a tutt’altre necessità, e da parte di genti montanare, costrette ad un più ritardatario livello di vita civile, e ormai adattate, forse da millenni, alle limitazioni ed alla tensione che il paesaggio alpino impone. E certo, l’orrore del quale esso era circonfuso non doveva essere solo quello di poeti immaginosi o di storiografi sedentari: se ancor oggi, dalla mite Engadina alla Provenza assolata, la voce che le popolazioni celto-liguri delle Alpi usarono a designare “il morto”, il cadavere, viene impiegata nelle parlate romanze a designare, proprio, chi è «fuor di sentimenti, illividito e irrigidito dal freddo»: come spesso si dovettero ritrovare, sorpresi dalla tormenta e dal gelo, tanti che, inesperti, avevano tentato gl’impervi pendii della montagna148. 144 Polibio, III, 47 e 48. 145 «Horrore nivali semper obductos» (Ammiano Marcellino, XV,10). 146 Polibio, III, 48,7: «οὐκ εἰδότόες, ὅτι πλείστων ἀνθρών φύλον κατάὐτὰ, οἰκεῖν συμβαίνει τὰς Ἂλπεις». 147 Livio, XXI, 30. «Alpes quidem habitari, coli, gignere atque alere animantes». Il Jullian, Histoire de la Gaule, vol. I, p. 42 sgg, dà, sulla base delle fonti antiche, un efficace compendio del dibattito attorno alle difficoltà del paesaggio alpino. 148 Al gallico marvos = «morto» (cfr. cimr. marw, irl. antico marb) risponde, nelle parlate 88
Del rilievo montano, questo del rapido cambiamento di clima, che in poche ore di ascensione ci trasporta dalle temperature subtropicali delle Riviere a quelle boreali dei passi e delle cime alpine, è forse l’elemento che più impressiona le genti del piano. Su pei colli preappenninici e prealpini, non mancano i paesaggi sconvolti, e forre precipiti; ma le nevi eterne e il ghiacciaio sono esperienze che sempre di nuovo, anche in epoche ben più tarde149, riempiono di stupore chi per la prima volta fa l’esperienza ai questo trapasso climatico. Sui territori di pianura e sulle popolazioni sottostanti stesse, del resto, il massiccio alpino – che si presenta all’orizzonte come una barriera di neve e di ghiaccio – non manca di far sentire i suoi effetti climatici: e dalle antiche parlate liguri e alpine anche le genti del piano han ripreso non solo voci oronimi che designano il ghiacciaio – come l’antica base alpina rosa – ma vari termini usati a indicare manifestazioni od effetti fisiologici di un clima settentrionale. Da una base mediterranea calabra/galabra, sulla quale avremo occasione di tornare a varie riprese in questo studio, derivano, da un capo all’altro della cerchia alpina, ad esempio, varie voci (ancor oggi usate nelle parlata romanze a designare la brina), che si allargano fin sulla pianura padana da un lato, sino alla Provenza e alla Francia dall’altro. Di qui, con una formante ben documentata nel sostrato, il piemontese galaverna, 1’ant. genov. garaverna (gen. moderno gaverna), bologn. galaverna, milan. calaverna, alto engadinese cialaverna = «brina, brinata», e in Toscana = «crosta ghiacciata, ghiacciolo sugli alberi»150. Dalla stessa base, ma con formante diversa (calabrosa) derivano voci analoghe, che si ritrovano dalla Valtellina al Comasco al Bresciano al Bergamasco e, in forma ridotta (brosa, bròccia), in area veneta e friulana, col valore di «brina», «neve», «grandine», «pioggerella gelata»151. Una forma parallela, documentata già anticamente in Esichio nel senso di «gelo», dal greco di Marsiglia, si ritrova nelle parlate romanze delle Alpi orientali nelle forme calandro, gialandro, jalandro = «brina gelata»152; mentre, da una forma latinizzata *geliber (per raccostamento a gelu), derivano il piem. geleivro, il franc. merid. gelibre, jalibre, gilibre, e il franc. givre = «brina»153. romanze dell’Engadina, marv = «irrigidito, insensibile» (per il freddo), e il provenzale marfi = «livido, irrigidito», dal freddo. V. Meyer-Lübke, REW 5387 a s. v. marvos. 149 Cfr. ancora, ad esempio, Ammiano Marcellino, loc. cit., che, dopo aver descritto gli effetti del disgelo sulla viabilità alpina, continua: «Hieme vero humus crustata frigoribus, et tamquam levigata, ideoque labilis, incessum praecipitantem impellit, et patulae valles per spatia plana glacie perfidae vorant nonnumquam transeuntes»; ove I’horror nivalis del passo già citato sembra precisarsi nella malizia vorace di una fiera mostruosa. 150 Cfr. Battisti e Alessio, Diz. etim., s. v. calabria e calaverna. Ma v. Meyer-Lübke, REW 4126, s. v. hibernus. 151 Cfr. Battisti e Alessio, Diz. etim., s. v. calabrosa, bròccia. 152 Cfr. Battisti e Alessio, Diz. etim., s. v. bròccia. 153 Cfr. Battisti e Alessio, Diz. etim., s. v. calaverna; Bloch-Wartburg, Diz. étym. s.v. givre. 89
Non può meravigliare che, dalle antiche parlate alpine, termini della nomenclatura del freddo si allarghino su di un’area così vasta. Questi relitti lessicali documentano a un tempo il peso che questa nomenclatura doveva avere nella vita delle popolazioni indigene all’epoca della romanizzazione linguistica, e la larga irradiazione del clima alpino sui territori adiacenti. Né meno larga è questa irradiazione per gli effetti fisiologici del clima alpino stesso. Abbiamo già detto del valore semantico particolare, e relativo a questa nomenclatura del freddo, che ha assunto – in parlate romane delle Alpi e di regioni circonvicine – la voce celtica marvos = «morto»; non meno caratteristica, per gli effetti fisiologici del freddo, è la base pirenaco–alpina brévo/brivo, alla quale si riporta, col guascone breu = «freddo», il lomb. bré(v)a = «vento freddo della sera», 1’emil. bréved, il lomb. e ticin. brevad = «intirizzito dal freddo», da cui probabilmente l’italiano brivido154. Ma senza soffermarci sul dettaglio di questi aspetti e di questi effetti del clima alpino, quel che ci importa di rilevare è il fatto che – se essi impressionarono, senza dubbio, profondamente le genti del piano, ogni qual volta queste vennero a più diretto contatto con questa spettacolare realtà climatica – non costituirono, d’altra parta, un ostacolo insuperabile per le popolazioni, che fin dalle epoche più remote del neolitico s’insediarono sin sulle alte terre delle Alpi. Al contrario: mentre, fin dal paleolitico, son documentate per la regione alpina del Vercors, ad esempio, migrazioni stagionali dei cacciatori maddaleniani di marmotte, che risalivano all’estate la montagna, dopo aver svernato nelle pianure del Rodano155, nel neolitico gli stanziamenti più stabili nella regione alpina si vanno moltiplicando. Fin da quest’epoca, anzi, le popolazioni sembrano mostrare una certa predilezione per gli speroni montani più dirupati, con la vista aperta su ampie vallate, aventi alle spalle quegli altipiani, che cominciano ad essere dissodati per un’agricoltura primitiva156. Le terre delle medie valli, occupate da selve impenetrabili, offrono un ostacolo ancora quasi insormontabile non solo per questa agricoltura primitiva, ma per la stessa pastorizia, specie ovina, che richiede più liberi percorsi; si vedono così, sovente – come ancora in epoca più tarda – più stabilmente frequentate le alte praterie alpine, oltre che gli sbocchi delle vallate; mentre la media valle, che sarà, in epoca romana ed oltre, territorio di una più larga colonizzazione, resta per ora più frequentemente deserta. Necessità di difesa e di rifugio, e condizioni determinate dalle forme di economia prevalenti, contribuiranno così ad animare di presenze umane gli altipiani e le pendici alpini, ivi comprese quelle prative, immediatamente sottostanti alla zona delle nevi eterne. Dovremo tornare più avanti sull’argomento; 154 Cfr. Battisti e Alessio, Diz. etim., s. v. bréva e brivido; Meyer-Lübke, REW 1289 a, s. v. brev che riporta a questa base anche il lig. abreiu, Val Sesia bréviu. 155 Cfr. Blanchards, Alpes franç., p. 83. 156 Goury, Archeologie préhistorique, vol. I, p. 58, 67. 90
ma abbiamo già ricordato la decisiva costatazione di Polibio, a proposito delle genti numerose che ai suoi tempi abitavano le Alpi; men di due secoli più tardi, il Tropaeum Alpium e l’iscrizione dell’Arco Segusino menzioneranno, tra la Turbia e il Gottardo, tra le gentes Alpinae ormai aggiogate al carro di Roma, non meno di una quarantina di popoli e di tribù157. Si tratta qui anche, certo, di un effetto di quel particolarismo montanaro che – come abbiamo già accennato – mantiene e promuove differenziazioni locali, anche fra popolazioni di vallate vicine158; né tutte queste tribù e popoli saran stati, non v’è dubbio, egualmente ricchi di genti. Ma una cifra come quella or ora citata documenta pur sempre un popolamento abbastanza intenso delle alte terre alpine, in un epoca non lontana da quella per cui vale la costatazione di Polibio, per un altro verso, d’altronde, il numero stesso dei famosi graffiti rupestri di Monte Bego e di Val Camonica ci mostra come, da un capo all’altro del semicerchio alpino che domina la “Grande Liguria” protostorica, fin da epoche remote, la frequenza di genti alpine in quei paesaggi fosse rilevante, sia pure nell’intermittenza di migrazioni legate agli usi di caccia o di alpeggio, o ad antichissimi riti montani. Tutti i documenti ci confermano, del resto, come nel paesaggio alpino – anche nelle condizioni di innevamento più disperanti per gl’inesperti abitatori del piano – le tribù montane si muovessero con una relativa libertà, che è segno di un’antica consuetudine all’ambiente. Al passaggio delle Alpi queste tribù, sul versante gallico, disturbano e minacciano seriamente la marcia di Annibale non solo nei primi giorni dell’ascensione, ma anche – se pure in schiere più sciolte – quand’egli ha raggiunto ormai i supremi gioghi del monte159. Eppure, la neve è già alta160; ma sempre di nuovo, man mano che si sale, le tribù indigene si ritrovano più in alto, sopravanzano l’esercito di Annibale, si annidano su per le rocce, donde con la loro arma caratteristica – il masso, il sasso161 – incombono minacciosi sul temerario invasore delle loro solitudini nevose, che d’un tratto appaiono popolate di uomini 157 Per il Tropaeum Alpium, cfr. C.I.L., V, 7817; per l’iscrizione dell’Arco Segusino, cfr. C.I.L, V, 7231. Per la lista delle gentes Alpinae, vedi anche, con Plinio III, 24, S.E. Johnson PID., vol. I, p. 364. 158 Da vallata a vallata, cosi, in antico e ancor oggi, le differenze di statura, nel color dei capelli, nell’indice cefalico fra le popolazioni alpine sono sovente assai notevoli. Cfr. Blanchard, Alpes franç., p. 84. 159 Polibio III, 53, 6. 160 Polibio III, 54, 1. 161 Polibio III, 53, 4: «Le genti montane rotolano massi e lanciano pietre, e riescono ogni volta a sopravanzare – pur procedendo lungo le più aspre pendici – i Punici che avanzano per il fondo valle». 91
irsuti, sbucati all’improvviso dagli antri rocciosi162. Silio Italico, che poeticamente riprende il racconto degli storiografi, parla qui, efficacemente, di «nevi e cespugli, note alle veloci schiere alpine»163, rende 1’immagine di un paesaggio fiero, e pur consueto a queste genti; e più tardi, Ammiano Marcellino ci parlerà di vere e proprie «tecniche della neve», che render loro possibile di ritrovare il cammino e di superare i pendii più minacciosi, anche nelle condizioni del più forte innevamento164. Ma, a parte questa frequenza saltuaria nei più alti paesaggi nevosi, il racconto degli storici ci mostra, alla vigilia della conquista romana, il popolamento delle Alpi occidentali abbastanza avanzato e intenso, sul versante francese come su quello italiano. Il paesaggio della grande impresa di Annibale è tutto popolato di presenze umane, ostili ed infeste alla sua marcia: anche se, sul versante italiano, più erto e inaccessibile, queste appaiono meno frequenti fin verso lo sbocco delle valli165. Livio rileva, comunque, a giusto titolo, che le barbare popolazioni montane costituirono, per l’impresa del grande capitano, un ostacolo non meno grave di quello geologico e climatico166; ed a proposito di una di queste, insediata già nelle alte valli, là dove Annibale sta per giungere al culmine delle Alpi, egli osserva esplicitamente come essa popoli densamente la regione, tenuto conto del sito montano167. Livio stesso si accorda d’altronde con Polibio per attestarci la relativa facilità di approvvigionamento dell’esercito cartaginese nel passaggio delle Alpi. Non solo nella fase iniziale della sua marcia168, ma ancor non molto prima di giungere alla sommità del valico, con le buone o con le cattive, Annibale riesce ad ottenere od a strappare alle popolazioni indigene ingenti quantitativi di bestiame e di frumento169; e a più riprese le fonti ci parlano di stanziamenti accentrati, anche se questi appaiono, più che altro, centri di difesa e di rifugio170. 162 Silio Italico III, 540 sgg. 163 Silio Italico III, 545 sg. «...per dumos notasque nives atque invia pernix / clausum montivagis infestat cursibus hostem». 164 Ammiano Marcellino, XV, 10. 165 Livio XXI, 35: «jam nihil ne hostibus quidam, praeter parva furta per occasionem, tentantibus». Cfr. Polibio III, 54, 4. 166 Livio XXI, 33: «Tum vero simul ab hostibus, simul ab iniquitate locorum Poeni oppugnabantur». 167 Livio. XXI, 34: «perventum inde ad frequentem cultoribus alium, ut inter montanos, populum». 168 Cfr. Polibio III, 49, 5 e 51, 12; Livio XXXI, 33. 169 Cfr. Polibio III, 52, 7. 170 Cfr. Polibio III, 50, 7; Livio XXI, 32 a 33. 92
Sul versante italiano, certo, il popolamento appare meno intenso, la china delle Alpi più ripida; gli stanziamenti umani ne risultano più frequentemente respinti verso gli sbocchi delle più alte valli, o addirittura verso la zona prealpina; ma nel complesso, tutti i dati ci mostrano il popolamento delle Alpi occidentali, alla vigilia della conquista romana, più denso, più precoce e più avanzato di quello che si può rilevare per gran parte dalle Alpi centrali171. Ciò è vero particolarmente per le Alpi liguri, ove fin dal neolitico – evitando l’ostacolo della basse valli, ove più densa e impenetrabile era ancora la foresta – le popolazioni avevan potuto, più sovente, attraverso le valli mediterranee, risalire alle alte valli dell’interno, già più aride e meno dense di boschi, e così meno inaccessibili a quelle genti primitive. A l’epoca della conquista romana, il settore ligure-provenzale è quello della cerchia alpina ove probabilmente la densità della popolazione è più forte; la riprova ne è data dal grado già avanzato che, come vedremo, il diboscamento ha raggiunto in questa zona172. Gli stanziamenti alpini si ricollegano d’altronde qui, quasi senza soluzione di continuità, con gli stanziamenti appenninici: che, già più fitti in origine, grazie alle meno sfavorevoli condizioni climatiche, si son venuti addensando in conseguenza della pressione esercitata sulle antiche popolazioni liguri del piano dalle più avanzate o agguerrite genti etrusche o celtiche. La regione ove la catena Alpina vien quasi a congiungersi con 1’Appenninica è quella ove sono stanziati alcuni fra i più importanti raggruppamenti di tribù liguri, come quello degl’Ingauni (attorno ad Albenga); e se, nelle Alpi occidentali, per una sola alta valle, quella della Dora Baltea, le fonti ci documentano, alla vigilia, della conquista romana, una popolazione di non meno di 44.000 anime173, cifre relativamente ancor più cospicue 171 Cfr. de Martonne, Les Alpes, p. 115 sgg.; Battisti, Popoli e lingue nell’Alto Adige, p. 4-54. Dopo il neolitico, le Alpi centrali vengono abbastanza rapidamente ricuperando il loro ritardo nel popolamento nei confronti delle Alpi Marittime. Nell’età dei metalli, la diffusione dei giacimenti nelle vallate delle Alpi centrali ha certo costituito una particolare attrattiva per stanziamenti umani, che già nell’eneolitico si vengon moltiplicando nel Trentino, si estendono nell’età del bronzo nell’Alto Adige, si vengono ulteriormente addensando nell’età del ferro. Come nota il Battisti, tuttavia, anche alla vigilia della conquista romana, nell’Alto Adige, ad esempio, gli stanziamenti appaiono addensati in quei punti, dove si possono documentare stanziamenti già nell’eneolitico; si diffondono nelle valli principali con densità decrescente verso i valichi alpini, ma sono solo eccezionalmente documentabili nelle valli laterali. Nelle Alpi marittime, per contro, alla vigilia della conquista romana, il popolamento delle valli laterali è largamente documentato; e questo è, senza dubbio, un dato caratteristico per il più avanzato grado di popolamento di questo settore. 172 Cfr. de Martonne, Les Alpes, p. 116. 173 Cfr. Strabone IV, 6, 7. Nissen, Ital. Landesk., vol. II, 1, p. 109 mette questa cifra a paragone con quella degli abitanti della Val d’Aosta alla fine del secolo XIX, che era di 83.000: il che dà, per l’epoca preromana, una densità assai elevata, tenuto conto dello sviluppo industriale della valle nell’Ottocento. 93
abbiam viste documentate per le popolazioni appenniniche degli Apuani174; ed altre analoghe se ne potrebbero citare per quelle dell’Appennino modenese175. Abbiam già detto, d’altronde, come – alla vigilia della conquista romana – le due pendici degli Appennini – siano considerate come la sede caratteristica delle tribù liguri176, che le popolano dalle Alpi all’Etruria; ed i Liguri, di cui Diodoro ci descrive le sedi, i costumi e il modo di vita, son certo di quelli che popolavano la catena degli Appennini, piuttosto che gli Alpini177. E qui, negli Appennini, anche se Diodoro non tralascia una breve menzione del paesaggio nevoso178, l’elemento dominante nella vita montana delle tribù liguri non è già più quello derivante dal rilievo altimetrico e dal clima alpino, bensì quello dello sconvolgimento e dell’asperità rocciosa. In queste sedi montane, meno elevate di quelle alpine, le abitudini alla cultura agraria sembrano avere un peso relativo maggiore, rispetto a quelle dell’alpeggio; ma non vi è gleba che i Liguri possan scalfire, su per queste montagne, che non scopra la roccia e la pietra179. In popolazioni, comunque, che – dalle Alpi all’Appennino alle Cevenne – ci appaiono, già in epoca preistorica e protostorica, largamente insediate in un paesaggio montano non può meravigliare che, alla nomenclatura del rilievo geologico, si sia dedicata un’attenzione particolare e minuziosa; ed è naturale che, anche dopo la loro romanizzazione linguistica, del loro primitivo fondo lessicale relativo a questa nomenclatura, che doveva esser tanta parte della loro vita, affiorino nella toponomastica e nel lessico delle parlate romanze relitti numerosi e differenziati. Vogliamo rilevare, in proposito, come – nei rapporti che, attraverso il linguaggio, si stabiliscono tra l’uomo e il paesaggio – si possano distinguere tre momenti fondamentali, di cui val la pena di sottolineare la portata. Già le popolazioni nomadi delle più antiche, età han dovuto – per le necessità stesse di un orientamento nella loro vita errabonda – procedere ad una sia pur precaria denominazione degli elementi del paesaggio geologico; questo potrebb’esser considerato, storicamente e 174 Cfr. la nota 140 di questo capitolo. 175 Nella sola battaglia del Panaro, nel 176 a.C., i liguri dell’Appennino modenese perdono quindicimila uomini (Livio, XII, 12); e poco dopo, malgrado le perdite subite, essi sono ancora in grado di dare una battaglia in forze all’esercito romano, dopo aver saccheggiato la colonia di Modena (Livio, XLI, 14 e 18.). 176 Cfr. il frammento di Poseidonio, citato alla nota 51 di questo capitolo, e Polibio II, 16, 1: «Τὸν δ’Ἀπέννινον, ἀπὸ μὲν τῆς ἀρχῆς, ὑπὲρ Μασσαλίαν καί τῆς πρὸς τὰς Ἂλπεις συμπτώσεως, Λιγυστνοὶ κατοικοῦσι καὶ τῆς ἐπὶ τὸ Τυηῤῥενικὸν πέλαγος πλευρὰν αὐτοῦ κεκλιμένην, καὶ τήν ἐπὶ τὰ πεδία». 177 Diod. Sic. V, 39. 178 Diod. Sic. V, 39, 3: «...ἐμβιῦντες ὄρεσι χιονοβολουμένοις». 179 Diod. Sic. V, 39, 2: «οὐδεμιαν γὰρ βῶλον τοῖς ἐργαλείοις ἀνασπῶσιν ἄνευ λέθον». 94
logicamente, come un primo, momento del rapporto che, attraverso il linguaggio, si stabilisce tra l’uomo e il paesaggio. Il rapporto appare qui ancor generico e precario: non sembra si vada al di là, in questa fase, di denominazioni generiche, se pur sovente specificate all’estremo nel loro valore semantico; e si designerà con un nome comune questo o quel tipo di monte, di colle, di scoscendimento, di corso d’acqua, senza che per questo – nel mutar delle sedi e nell’avvicendarsi del paesaggio di stirpi nomadi – il nome comune giunga a tramutarsi e a fissarsi in un nome proprio, destinato a designare quel dato monte, quel dato corso d’acqua, quella data località180. La fissazione del nome comune, il suo passaggio a nome proprio, sembra caratteristico di un secondo momento storico dei rapporti tra l’uomo e il paesaggio: quello in cui, attraverso l’occupazione del suolo, questi rapporti vengono assumendo un carattere più stabile e permanente. Occupazione non significa qui, si badi bene, appropriazione del suolo stesso da parte dei singoli: al contrario, la forma più normale della prima occupazione è quella che si opera da parte di genti o di aggregati gentilizi, in forme collettive, nelle quali vengono ad esser delimitati territori di caccia, di pascolo di cultura. Appare frequente, in questo secondo momento storico dei rapporti tra l’uomo e il paesaggio, l’uso – a designare questa o quella località – di termini che, nella fase precedente, avevano valore di nomi comuni nella nomenclatura del paesaggio. Quella che la scuola sovietica chiama la «paleontologia del linguaggio» ci permette di scoprire, nella toponomastica, relitti lessicali di strati linguistici più antichi; e ci sembra fuor di dubbio che, in quella che la stessa scuola sovietica chiama la «evoluzione stadiale» del linguaggio181, questo passaggio e questa fissazione di nomi comuni della nomenclatura del paesaggio nella nomenclatura toponomastica abbia una parte, che meriterebbe uno studio più attento, in rapporto, appunto, con le profonde trasformazioni delle forme della vita sociale inerenti alla occupazione del suolo da parte delle popolazioni primitive.
180 A questo momento storico del processo di denominazione dal paesaggio geologico sembrano doversi riferire idronimi del tipo dei derivati di gava, per cui vedi Bertoldi, Gava, p. 293 sgg., e particolarmente la cartina a p. 297. Qui ci troviamo, evidentemente, di fronte a denominazioni di corsi d’acqua a mezzo di una voce comune: prova ne sia che questa viene applicata a corsi d’acqua siti in vallate attigue, senza che, pertanto, essa possa efficacemente assumere il valore semantico differenziale e specifico di un nome proprio. Gava doveva qui servire a denominare semplicemente «il corso d’acqua», non «quel dato corso d’acqua»; e solo più tardi, in una più avanzata fase di occupazione del suolo e di insediamento delle popolazioni delle vallate alpine, la voce comune dove trapassare in nome proprio, anzi in numerosi nomi propri, che pertanto ci conservano e permettono di riconoscere un momento più antico del processo di denominazione del paesaggio. 181 V. in proposito la nota 123 di questo capitolo. 95
Il terzo momento storico nei rapporti tra l’uomo e il paesaggio è quelle relativo al passaggio dalla fase della semplice occupazione del suolo a quella dell’insediamento, precario o stabile che sia, delle popolazioni primitive. Coll’insediamento, giungono a perfezione quei fenomeni linguistici (e toponomastici, in ispecie) già abbozzati nella fase precedente, mentre se ne sviluppano dei nuovi, che segnano senza dubbio il passaggio ad una nuova fase stadiale del linguaggio stesso. L’evoluzione di valori semantici, come quella che, del fonema alba = «monte» del paleloligure, fa una voce chiamata a designire un sinecismo di tipo cittadino; o quella che dalla base berg = «monte, altura», trae un nome come Bergomum, chiamato a designare un dato stanziamento di tipo cittadino; o quella che, infine, da dunum = «cinta fortificata», trae la voce dunum = «monte»; queste e simili evoluzioni di valori semantici, accompagnate o no che siano da evoluzioni fonetiche, sono comunque il segno di profonde trasformazioni della struttura sociale, in rapporto col passaggio dalla fase della semplice occupazione del suolo a quella dell’insediamento: e lo studio ne andrebbe approfondito ed allargato, ci sembra, dal punto di vista della paleontologia del linguaggio e della sua evoluzione stadiale. Né si può pensare che simili evoluzioni restino isolate nel contesto del dato linguaggio, e non investano invece tutta la sua struttura, nei suoi elementi fonetici come in quelli morfologici e sintattici. E per chi voglia considerare il linguaggio non nel suo astratto formalismo, ma nella unità indissolubile della sua forma e del suo contenuto, la considerazione di questi tre momenti fondamentali nel rapporto tra l’uomo e il paesaggio – che significano, a lor volta, tre momenti nei rapporti tra gli uomini – assume un’importanza che abbiamo qui creduto necessario di sottolineare182. Questo non significa, beninteso, che i tre momenti ora segnalati vadano considerati schematicamente, come tre momenti cronologicamente legati ad una meccanica successione. Abbiamo rilevato come si tratti di tre momenti logici e storici, che variamente s’intersecano e si combinano, anzi si ripetono in varie epoche storiche: anche se, senza dubbio, ciascuno di essi può acquisire ed effettivamente acquista un particolare rilievo in una determinata, epoca. Per limitarci all’area celto-ligure, così, mostreremo nel seguito di questo paragrafo come, in realtà, un numero assai notevole di termini relativi alla nomenclatura del rilievo geologico, che sotto forma di relitti toponomastici o lessicali sono ancora vivaci nelle parlate romanze, rimontino a strati linguistici dei più antichi, ad epoche per le quali difficilmente si può parlare 182 Sulla limitatezza (Borniertheit) dei rapporti dell’uomo con la Natura, come condizione della limitatezza dei rapporti tra gli uomini, e viceversa, cfr. il brano della Deutsche Ideologie citato in altro paragrafo di questo capitolo, e la relativa nota 27. L’impostazione data da Marx ed Engels in questo brano è essenziale per intender l’importanza che noi attribuiamo all’approfondimento dei rapporti tra le antiche popolazioni liguri ed il paesaggio geologico: senza di che la nostra ricerca potrebbe in questo capitolo apparire pedantesca nella sua minuzia, e comunque superflua ai fini del nostro studio, che è storiografico, e non linguistico. 96
di stabili insediamenti, e che piuttosto vanno riferiti alla fase ed al momento storico della semplice denominazione da parte di popolazioni paleoliguri ancora montivaghe, per usare l’efficace espressione di Silio Italico183. In altri casi, per contro, ci apparirà più probabile il riferimento ad epoche (ed a momenti storici) posteriori, se pure assai antiche: a quella, cioè, dell’occupazione del suolo da parte di tribù di cacciatori, di pastori, di agricoltori; mentre, infine, per le voci che avremo l’occasione di studiare nel capitolo relativo agli insediamenti liguri, saremo portati a riferirle, appunto, ad un terzo momento, quello, proprio, del più stabile insediamento delle popolazioni della Liguria184. Si consideri, ad esempio, il complesso dei relitti lessicali e toponomastici relativi alla nomenclatura degli scoscendimenti del terreno, e particolarmente del paesaggio montano. Per non soffermarci qui che sui più importanti, ricorderemo barranca = «burrone, baratro», che in questa accezione ritroviamo nelle parlate romanze dalla Penisola iberica (spagn. barranca, catal. barranc) ai Grigioni alla Calabria (barranca, -u, varranca, -u) alla Sicilia (barranca, -u). In area ligure, la voce si ritrova nella Val Sesia, e nel francese meridionale barrangau = «ravin»; nel francese meridionale stesso, e con la formante più caratteristicamente ligure, nella forma barenc185. Un’analoga formante anc/enc, caratteristica per il sostrato mediterraneo, l’abbiamo gi ritrovata in un derivato della base pala in area ligure, in palanca = «burrone precipizio»186; possiamo rilevarla nel tipo carranca = «roccia scoscesa» (cfr. il sicil. carrancu = «luogo scosceso»), che ha lasciato vari relitti toponomastici in area ligure (cfr. il Passo delle Caranche, nel Cuneese). Ma assai più diffuso e più vivace è l’altro relitto mediterraneo calanca = «scoscendimento fenditura profonda nel terreno»187, che si ritrova da un capo all’altro del Mediterraneo, dalle lingue 183 Cfr. Silio Italico III, 546: «...montivagis....cursibus». 184 Per questa importante fase dell’insediamento, e per i suoi riflessi sulla geonomastica, particolarmente per quanto riguarda la stabile connessione fra nomi di tribù e nomi di paesi, cfr. lo studio (manoscritto) di Engels Per la storia degli antichi Germani, pubblicato in MEGA r., vol. XVI, 1, p. 349 sg. 185 Si tratta, come vedremo più avanti, di un derivato dalla base mediterranea barra = «terreno sterile, roccioso». Cfr. Battisti e Alessio, Diz. etim., s.v. barranca; Piat, Dict. françoccit., s. v. ravin, e la letteratura citata nelle note seguenti. In area egea, a barranca sembra corrsipondere γάραγγα (acc. da φάραξ) = «burrone, dirupo». Cfr. Meyer-Lübke, REW 963 a, s.v. barranca. 186 Cfr. la nota 76 a questo capitolo. 187 Anche per carranca, si tratta di un derivato dalla diffusissima base mediterranea carra, sulla quale dovremo ritornare più avanti. Cfr. Alessio, Karra vol. IX, p.145; Battisti, Voci mediterranee, p. 279. Anche calanca è un derivato della base mediterranea cala; che, come vedremo, è legata probabilmente a carra, in un’alternanza cala/carra. Per calanca, cfr. Battisti e Alessio: Diz. etim., s. v. calanca e calanchi; Meyer-Lübke, REW 1485 a, s. v. calanca; Bloch97
del Caucaso (kalanuk = «grande scavo») fino alla Penisola Iberica, alla Sardegna, alla Venezia Euganea (calanca = «seno di mare») ai Grigiori. In area ligure, la voce si ritrova nel Calanicum della Tavola Peutingeriana, nelle Alpi Liguri, fra Aquae Statiellae e Vada Sabatia; in numerosissimi toponimi del tipo Chalanche, Challant, che vanno dalla Provenza ai Grigiori, ed altri come Calanca (Como), Calanc e Calagn (Brescia). Caratteristico è l’idronimo Calancasca, il torrente della Val Calanca, che ci mostra. una formante così diffusa nel sostrato ligure. Non meno diffusi e vivaci sono poi i relitti di calanca nelle parlate romanze. Sempre limitandoci all’area ligure, rileveremo come questa voce si ritrovi nel lessico corso (nelle forme calonca e calanca). Nell’Appennino emiliano, con calànc si indica una formazione geologica, caratteristica per quella regione, anche se presente in altre parti d’Italia: solchi profondi ed erti, sovente contigui in grandi bacini o in emicicli, in versanti costituiti da argille scagliose, brulli di ogni vegetazione e sovente impraticabili. In Provenza ed in tutta la Francia meridionale, la voce si ritrova con analogo valore semantico; o (come avviene anche nell’Italia meridionale) con quello più generale di «scoscendimento, frana» o, in qualche caso, di «roccia strapiombante». Ci troviamo qui di fronte, evidentemente, ad un complesso di relitti toponomastici e lessicali che mostrano tra di loro spiccate analogie nella struttura morfologica come nell’evoluzione fonetica e semantica; ed a questo complesso vien da taluni connessa una voce balanca188, da cui deriverebbero l’italiano valanga, il franc. merid. Avalanco (da cui il franc. avalanche), nonche varie voci dei dialetti dell’Italia meridionale, col valore semantico di «pendice scoscesa, terreno cedevole, frana»; e infine, con metatesi, sotto l’influsso del latino labes, il piem. provenz. lomb. lavanca = «massa di neve che precipita». Anche per coloro che escludono quest’ultima voce dal novero dei relitti linguistici mediterranei, comunque, le altre sopra ricordate, e per la loro larghissima diffusione geografica, e per il loro valore semantico, sembrano riferirsi agli strati linguistici più antichi, e riportarci a dati del paesaggio geologico che – piuttosto che il luogo di una occupazione o di un insediamento umano – saran stati, proprio, oggetto di un più elementare rapporto di semplice denominazione, ai fini di un orientamento e di una cautela di stirpi ancora errabonde. Il fatto che questa particolare terminologia degli Wartburg, Dict. étym., s. v. calanque; Dauzat, Topon. franç., p. 95 sg.; Sella, Gloss. lat.-emil. s. v. calancus; Alessio, Karra, vol. IX, p. 145; Battisti, Voci mediterranee, p. 269 sgg.; Piat, Dict. franç.-occit., s. v. calangue, précipice, rocher. 188 Così l’Alessio, in, Karra, vol. IX, p. 145, il quale riporta balanca, come il già citato palanca, alla base bala/pala, per la quale vedi le note da 67 a 81 di questo capitolo. Anche il; Meyer-Lübke, REW 4807, s. v. labina, propenda per la derivazione del lomb. e piem. lavanca (da cui l’italiano valanga), del piem. lavenca, prov. lavanca, franc. merid. avalanco, da un preromano labenca,. Al sostrato ligure riportano pure questa voce il Dauzat e il BlochWartburg, s. v. avalanche. 98
scoscendimenti sia restata, anche nelle attuali parlate romanze, specialmente ricca di relitti antichissimi, in tutta l’area ligure, si può facilmente comprendere quando si consideri che, anche all’epoca della romanizzazione linguistica, in quei settori del paesaggio ai quali questa, terminologia si riferisce, la vita delle stirpi liguri doveva svolgersi in forme non molto diverse dalle antiche, con spiccati caratteri di arretratezza e di conservatività. Le stesse considerazioni possono valere per altri relitti della antichissima nomenclatura degli scoscendimenti del terreno, più o meno largamente affioranti in area ligure, che non possiamo qui altro che accennare: bova = «scoscendimento»189, borro(?) = «precipizio, frana»190, drago = «rovina, frana, torrente»191, blese = «costa di monte ripida e erbosa»192, toba = «burrone»193, 189 Per bòva = «scoscendimento, frana», cfr. DEI, s. v.; REW 1187 a, s. v. boga, e DEI, idem.; Battisti, Lat. volg., p. 80., e Voci mediterranee, p. 249 sg.; e Wartburg, FEW, I, p. 473. La voce, che assume valori semantici variabili da quello di «scoscendimento, frana» a quello di «canalone per avvallare la legna» a «canale, fossa» e a «grotta», è di area settentrionale e alpina, si sitrova dal friulano al renano all’antico francese. Ai margini dell’area ligure, è attestata nel 1238 a Modena nel senso di «buca, fossa». Cfr. Sella, Gloss. lat.-emil, p. 46. 190 La base bor ha riflessi assai numerosi nella toponomastica ligure (Cfr, Lamboglia, Alassio, p. 44 sg.), e si ritrova con formanti che potrebbero far pensare ad una sua vitalità prelatina. Voci come l’ant. lomb. bora = «precipizio», Val Sesia boro, ant. piacent. e parmig. bora = «buca, fossa» (cfr. Sella, Gloss. lat.-emil., p. 45, per il secolo XIV), 1’ital, borro = «burrone», e burrone, vengono sinora più generalmente riportati al greco (βόϑρος = «fossa», che si sarebbe diffuso per l’Italia dalle terre dell’Esarcato (cfr. DEI, s.v. borra, borro, burrona). Ma già il REW 1233, s. v. bothros, sollevava dubbi in proposito. Ci sembra debbano dar da riflettere voci come quelle del dialetto delle Cevenne bauri = «precipizio», franc. merid. bourro-bourro, bourron-bourron = «precipitevolmente», di cui non è chiara 1’evoluzione fonetica. Allo stato attuale, comunque, la natura e l’origine della base non appare chiara, e non potrebbe senz’altro essere riferita al sostrato prelatino. 191 Cfr. il bergamasco drag, dragù «rovina, frana» (G. Rosa, Dial. Berg. Bresc., p. 57 che il REW 2759, s. v. draco, riporta al latino draco, insieme col romagn. darven torrente ecc. A un prelatino drago = «frana, torrente» riportano queste ed analoghe voci altri, come il Battisti, Storia linguist., p. 247. 192 Per il preromano blese = «costa di monta ripida e erbosa», cfr. REW 1156, s. v. blese; Battisti, Popoli e lingue, p. 115 e Lat. volg., p. 80. I derivati di questa base si estendono, nel lessico delle parlate romanze o nella toponomastica, dalle Prealpi lombarde al tedesco svizzero, tirolese ed atesino al Trentino ed all’Alto Adige; toccano pertanto solo i margini del dominio ligure. 193 Per il preromano toba = «burrone», cfr. già il Trombeitti, Onomast. medit., p. 6 (e particolarmente Battisti, Voci mediterranee, p. 263 sgg. Nella toponomastica ligure il Battisti segnala Tovi e Tovate; Cfr, l’iberico Tovasca, e la Cala di Tova in Liguria. Nel lessico romanzo la base vive in tovo = «burrone», e nel suo derivato tovale, d’area trentino-dolomitica; ai margini del dominio ligure, in Val di Bona, nell’anauniese tovel e tovegiar = «avvallare i tronchi mediante una risina», Appare probabile un nesso di questa base col latino in tofus = «tufo» e con l’etrusco tupi = «sasso». Derivati come 1’aragonese toba = «cavità nella roccia» ed altri mostrano un passaggio del valore semantico da «burrone», a «cavità nella roccia, 99
ganda = «pendio sassoso»194, grepp = «greppo»195 marra = «scoscendimento sassoso»196, lavina = «frana»197 ecc. Si tratta di voci variamente attestate in area grotta», che si ritrova anche in altre voci. Cfr. REW 8754, s. v. tofus. 194 Per la base canta/ganda, cfr. Trombetti, Onomast. medit., p. 33; Colella, Topon. pugl., p. 56; REW 3570, s. v. ganda; LEW I. p. 582, s. v. gangadia; Battisti, Popoli e lingue, p. 115, e Lat. volg., p. 80; Bertoldi, Probl. de substrat, p. 115, e Colonizzazioni, p. 171 sgg. L’area di diffusione di questa base mediterranea sembra assai larga, ed i suoi derivati si ritrovano finanche in alcuni dialetti del Caucaso (gando = «scavo del terreno»). Nella toponomastica, essi si ritrovano da un capo all’altro del Mediterraneo. In Occidente, l’area di diffusione di questi derivati è particolarmente quella iberico-alpina; il valore semantico originario della base, conservato nei numerosi relitti lessicali delle parlate romanze nelle Alpi centroorientali, sembra essere quello di «pendio, frana sassosa», poi «mucchio di pietre» e «pietra, ghiaia». In area ligure, la Tavola di Polcevera ci attesta un fiume Porcobera (oggi Polcèvera), interpretato come «portatore di trote»; su questa base si ricostruisce, dal nome odierno del torrente Gandòvera, un ligure Gandobera, dalla base ganda, interpretato come «portatore di sassi», di ghiaia. Abbiamo già accennato, nella nota 80 di questo capitolo, al passaggio semantico a «pietra sepolcrale» nelle iscrizioni del Basso Rodano; mentre nel lessico delle parlate romanze, in area ligure, la base si ritrova nel franc. merid. cantarel = «piccolo mucchio di pietre», ganna = «terra incolta». Non conosciamo invece derivati lessicali per le parlate romanze e per la toponomastica della Liguria propria (cfr. Lamboglia, Alassio, p. 75). Ai margini del dominio ligure, invece, ritroviamo ganda e gana nella Val Camonica, nel senso di «mucchio di sassi» (cfr. G. Rosa, Dial. Bergamo e Brescia, p. 63). 195 Per la base grepp = «prominenza di terreno scoscesa, pendice ripida, balza, roccia», cfr. REW 3863 s. v., che lascia in dubbio il carattere di questa base. Il Battisti, Lat. volg., p. 80, la riporta al fondo linguistico alpino preromano; l’Alessio, in Karra, vol. X, p. 177 sg., la riferisce ad una base krapp/krepp (grepp), con alternanze vocaliche a consonantiche ben attestate nel sostrato mediterraneo, e la ricollega, con molte altre, alla base karra/kala = «pietra», di cui avremo occasione di intrattenerci più avanti. I derivati toponomastici e lessicali sono, nella Penisola, di area principalmente settentrionale, e sono largamente attestati nel dominio ligure ed ai suoi margini. 196 Marra ed i suoi derivati, nel senso di «frana, torrente montano, mucchio di sassi», sono largamente attestati nel fondo toponomastico e lessicale mediterraneo, e particolarmente nella penisola. Relitti lessicali da questa base si ritrovano nelle parlate romanze, dalle Alpi orientali alla Francia meridionale. In area più propriamente ligure, sono specialmente numerosi, come vedremo, i fitonimi derivati da questa base. Importante è d’altra parte, in tutta l’area di diffusione della base, il frequente passaggio del valore semantico dei suoi derivati da «mucchio di sassi» a «mucchio d’erba falciata». Si tratta qui, evidentemente, di un passaggio stadiale, caratteristico per un periodo in cui, da un interesse prevalente per il paesaggio geologico, si passa – con l’affermarsi di modi di vita pastorali – ad un maggior interasse per il paesaggio vegetale ed agricolo. V. REW 5369, s. v. marra; Battisti, Voci mediterranee, p. 261 sgg.; Alessio, Karra, vol. IX, p. l50; DEI s. v. amarasca; e, nel capitolo seguente, i dati relativi ai fitonimi probabilmente derivati da questa base. 197 Per lavina, cui corrisponde in area lombarda, piemontese e provenzale lavanca, cfr. la nota 188 a questo capitolo. Non sembra si possa escludere, anche per lavina, oltre che 100
ligure, e di cui più discussa è l’antichità e l’appartenenza a questo o a quel fondo linguistico. Resta comunque il fatto dell’importanza notevole che, in quest’area, hanno i relitti mediterranei della nomenclatura speciale che qui abbiamo esaminato; mentre – se è vero che taluni di questi relitti hanno senza dubbio avuto una loro vitalità e produttività in fase celtica – non sembra che si conservino relitti di una nomenclatura specificamente celtica di questo tipo di paesaggio198. Voci come quelle derivate dalle basi mediterranee ganda e marra ci offrono con il loro valore semantico oscillante tra «pendio o scoscendimento sassoso» e «sasso, o mucchio di sassi», il passaggio ad un altro importante gruppo di relitti linguistici, relativi alla nomenclatura più antica del paesaggio geologico, e più precisamente a quel tipo di esso che è caratterizzato dall’ammassamento di detriti sassosi. Già per quanto riguarda la base marra, in realtà, non è mancato chi l’ha considerata in un’alternanza vocalica marra/morra, affermandone il nesso con la base morra, da cui morena, di cui abbiamo già discorso199. Senza entrar qui nella discussione sulla possibilità o meno di un tale nesso, possiamo però dire che un passaggio semantico, come quello postulato in tal caso, appare del tutto naturale in un ambiente geologico come quello della “Grande Liguria” preistorica e protostorica. Abbiamo già visto come, nel caso della base drago, ad esempio, il valore semantico oscilli fra «rovina, frana» e «torrente»: di un torrente alpino, in effetti, secondo che si consideri il suo aspetto idrografico o quello più propriamente geomorfico, si riterrà il corso impetuoso delle acque nel periodo di piena, ovvero lo sconvolgimento del suo alveo, ingombro di massi e di detriti sassosi, scoperti all’occhio nei periodi di magra200. Ma accanto al regime l’influenza di un prelatino labenca, un’influenza dei derivati della base lapa/lava = pietra, di cui tratteremo più avanti, sul latino labina. 198 Di questa nomenclatura non sapremmo indicare, tra i relitti lessicali più propriamente celtici, altro che quelli dal gallico talutium, da cui il franc. talus. E ci sembra caratteristico il fatto che anche questo termine, d’altronde, si riferisce, piuttosto che ad un vero e proprio scoscendimento del paesaggio montano, al suo digradare verso il piano. 199 Cfr. la nota 129 a questo capitolo. Può essere interessante notare che, al savoiardo, francese, italiano moraine, morena, derivati da morra, il bearnese risponde con marralhero, derivato da marra. 200 Per una buona e minuta trattazione degli effetti del regime torrentizio sul paesaggio delle Alpi, come delle valli e delle pianure subalpine, e particolarmente sulla formazione dei coni di deiezione, e di altre forme di ammassi detritici, che qui ci interessano, cfr. Godefroy, La nature alpine, p. 37-123; per una trattazione sommaria dei vari tipi di regime fluviale nell’area ligure, cfr. de Martonne, Les Alpes, p. 101-112. Nella formazione dei coni di deiezione, e di altri tipi di ammassi detritici e alluvionali nelle regioni pedemontane, la parte decisiva è attribuita non già al regime normale delle acque, ma alle piene eccezionali (le laves delle Alpi francesi), derivanti da anormali condizioni stagionali, e favorite dal diboscamento delle pendici montane. Il diboscamento relativamente precoce delle Alpi liguri ha senza dubbio contribuito alla larga diffusione delle formazioni detritiche in esame nella Liguria cis- e transalpina. 101
torrentizio, in epoche geologiche precedenti a quelle storiche, un altro agente ancor più poderoso – il regime dei ghiacciai quaternarii – è intervenuto a determinare, nel paesaggio ligure, ammassi pietrosi, di ancor maggiore rilievo, che assumono sovente le proporzioni di vere e proprie montagne, non sempre ancora mascherate nella loro primitiva conformazione dai processi di erosione, dalla elaborazione di uno strato terroso e dalla super struttura di un mantello vegetale201. Le morene sono pertanto, appunto, uno degli aspetti più caratteristici e cospicui che gli ammassi, sassosi assumono nel paesaggio ligure; ma accanto ad esse, il regime glaciale come quello torrentizio hanno determinato l’accumulazione di ammassi minori di detriti sassosi, che danno sovente al paesaggio ligure la loro impronta caratteristica. Per questi ammassi detritici, la terminologia e la toponomastica ligure ci offrono un’abbondante messe di relitti prelatini: ed anche per questo gruppo di termini – se è fuor di dubbio che molti di queste voci son state vitali e produttive in ambiente celtico o celtizzato – si può dire che la nomenclatura di cui ci son pervenuti i relitti è essenzialmente preceltica, e riferibile al più antico fondo linguistico alpino o mediterraneo. Tale è il caso – per limitarci ad alcune delle voci più diffuse in area ligure, od affioranti ai suoi margini – per i numerosi derivati di caravos = «ammasso di pietre», terreno sassoso, che sembra a sua volta derivare dalla base carra = «pietra», a mezzo di una formante che è ben documentata nel sostrato mediterraneo. Della base carra dovremo occuparci più avanti: ci limiteremo qui a rilevare come i derivati di caravos si ritrovino, nella toponomastica e nel lessico delle parlate romanze, da un capo all’altro della cerchia alpina: dal nome delle Caravanche (con un doppio suffisso caratteristico del sostrato), nelle Alpi Giulie, al ticinese e comasco gàrov, gàrof = mucchio di sassi, milan. caravé, brianz. garavé, garavina, piem. garavela = «mucchio di sassi, ghiaia, pendio ghiaioso». Nella Liguria propria, abbiamo il lig. medievale caravellata = «quantità di pietre», garavèn = «pendio sassoso, a Mentone, e caravéu = «scoscendimento», a Sospello; cui fanno riscontro, nella toponomastica, Garavano, Garavagni, Garavagne, e i Garavetto della prov. di Cuneo e nella Val d’Aosta. A caravos il Dauzat riporta, d’altra parte, il nome della Crau provenzale, di cui abbiamo discorso sopra a proposito del mito di Ercole: la forma medievale del nome, documentata dall’epoca carolingia, è Cravum, ed esso si ritrova in varie parti della Provenza (Crau d’Arles, Crau d’Hyères ecc.) a designare un paesaggio simile a quello descritto per il cono detritico della Durance. La forma non sincopata la Carau è stata segnalata dal Dauzat stesso nei Pirenei, per una località famosa per il suo pietrame. Mitografia e linguistica storica si accordano qui, a documentarci l’antichissima frequenza delle popolazioni liguri in questo caratteristico paesaggio; 201 Per l’influenza dei ghiacciai storici e preistorici sulle formazioni geologiche in esame, e sulla loro diffusione nell’area che c’interessa, cfr. Godefroy; La nature alpine, p. 205-294, e particolarmente p. 245-254 e 285-293; 102
mentre l’importanza dei relitti lessicali e toponomastici relativi a questa base – che certo ebbe anche larga vitalità nel celtico – ci documenta il peso che, prima e dopo l’invasione celtica, e fino alla vigilia della romanizzazione, i rapporti con questo tipo di paesaggio dovettero avere per le popolazioni stesse202. Con la medesima base carra, o direttamente con caravos, è connessa, secondo l’Alessio e il Dauzat, l’altra base mediterranea graba (grava) = «ghiaia, pietra», per la quale, a tale valore semantico in area norditalica e gallica corrisponde, in area italica meridionale ed egea, un graba = «roccia, voragine», attestato da una glossa di Esichio e da numerosi relitti lessicali e toponomastici. La base ha avuto senza dubbio una larga vitalità nel gallico, donde è passata anche nel celtico insulare. In area ligure, da essa deriva il piem. gravèla = garavèla = «mucchio di sassi», il provenz. gravo = franc. grève, e gravena = franc. gravier203. Anche qui ci troviamo di fronte ad una voce, il cui valore semantico ci riporta ad elementi del paesaggio geologico, largamente diffusi per tutta l’area ligure: dagli alvei dei torrenti alpini ai loro coni di deiezione e al litorale204. Sinonimo di grava è la voce glarea = «ghiaia», che è stata pur riferita da taluni al sostrato mediterraneo, ed i cui derivati sono largamente diffusi nelle parlate romanze d’area ligure205; mentre alla base mediterranea grava è probabilmente legata quella celtica craucos, da cui il cimr. crug, irl. cruach, bearnese cruco = «mucchio» , l’antico francese groue, groie = terrano pietroso, prov. crauc, terra grauca = «sterile, terra pietrosa»206. 202 Per la base caravos, Cfr. REW 1673 b, s. v. caravos; Alessio, Karra, vol. Il, p. 148 sgg.; Dauzat, Topon. franç. 85 sg.; Lamboglia; Topon. Intem., p. 51; Battisti, Lat. volg. p. 80. Per il paesaggio della Crau, cfr. J. Sion, La France mèditerranéène, p. 53 sgg. 203 Per la base graba (o grava), cfr. Dottin, Langue gauloise, p. 261, che risaliva a grava partendo dal franc. grève e dal cimr. bret. gro = «sabbia», e dal prov. gravena; REW 3851, s. v. grava, che l’attribuisce al gallico; Alessio, Karra, vol. X, p. 181 sgg., che l’ha rivendicata al sostrato preceltico, e ne ha mostrato la diffusione per tutta l’area mediterranea; Dauzat Topon. franç. p. 83, e DEF, s. v. grève, gravier ecc.; Dict. étym., s. v. grève; Battisti, Lat. volg., p. 79, che riconoscono tutti il carattere preceltico, mediterraneo della base. 204 Nella Liguria propria, l’imminenza della catena alpina o appenninica sul mare limita l’estensione dei ghiaieti litorali alle foci dei torrenti; ma qui, non meno che nella Liguria transalpina, queste formazioni, anche quando restano limitate a queste zone ed ai coni di deiezione storici e preistorici, dovettero avere una notevole importanza per il progresso del popolamento: al quale esse offrivano, attraverso le vallate che risalivano verso l’interno, una sorta di cammino naturale, ove la sterilità stessa del suolo liberava quelle genti primitive dall’impaccio della foresta. Avremo occasioni di tornare sull’argomento, quando tratteremo degli insediamenti liguri nelle Alpi marittime. Per la descrizione del litorale, cfr. Issel, Liguria geolog., vol. I, p. 24; per il litorale della Narbonense, cfr. Sion, J. Sion, France mèdit., p. 48 sgg. 205 Cfr. Alessio, Sostrato mediterraneo, p. 132, che non trova convincenti i vari tentativi per inquadrare la voce nell’ambito indoeuropeo. Per tali tentativi, v. LEW, I, p. 605 s. v. 206 Per craucos, v. Dottin, Langue gauloise, p. 246, 249 e 261, s. v. crauca, crouca e grauco, 103
Quest’ultima evoluzione da «ammasso detritico, terreno pietroso» al valor; semantico più generale di «sterile» sembra accennare, per il periodo della celtizzazione ed oltre, ad una maggiore attenzione rivolta ai riflessi agricoli di un paesaggio geologico, ai cui aspetti era prevalentemente rivolta l’attenzione nella più antica fase mediterraneo-ligure. Evoluzioni semantiche ancor più indicative in questo senso, le ritroveremo sovente nel seguito di questo scritto: come quelle che dalla base marra = «mucchio di pietre», ad esempio, traggono valori semantici come «cespuglio», o «mucchio di erba falciata» o «covone di grano», e così via: con passaggi semantici ancor più arditi in altri casi, che per noi non risultano sempre evidenti; ma che indicano fasi stadiali di sviluppo di una società e di un linguaggio, in cui l’interesse più immediato ed attento si vien spostando dai dati del paesaggio geologico a quelli del paesaggio vegetale, o addirittura di quello agricolo o pastorale207. Questa rapida scorsa per i relitti della nomenclatura degli ammassi detritici208 ci ha confermato come, anche per questo gruppo di termini della nomenclatura del paesaggio geologico, il più antico fondo linguistico mediterraneo fornisca la messe più importante: segno di un interesse notevole delle antiche genti liguri per questo settore del paesaggio geologico. Per improprie alle nostre ricche culture che fossero questi formazioni e questi ammassi detritici, non ne dovettero restar lontani cacciatori, pescatori e pastori liguri; gli agricoltori stessi non dovettero rifuggire da questi terreni magri e secchi, ove una vegetazione spontanea troppo lussureggiante o la foresta postglaciale non costituiva un ostacolo insormontabile alle loro prime culture agrarie. Non si perda mai di vista che, in quelle condizioni primitive della tecnica dell’agricoltura e dei metalli, i criteri di selezione del suolo per i quali l’A. rinvia a grava; REW 2304 a, s. v. craucos; Battisti, Lat. volg., p. 82. 207 Il Marr, fondatore della scuola linguistica sovietica, ha dato numerosi esempi di tali evoluzioni semantiche stadiali nel suo volume: Les Vichaps, pubblicato in francese a Leningrado nel 1931. Molti di questi esempi appaiano assai discutibili, e sulla metodologia stessa seguita dal Marr in questo studio si possono fare rilievi critici assai numerosi. Ciò non deve far dimeticare, tuttavia, l’importanza geniale dell’indirizzo di ricerca che egli ha aperto: considerazioni come quelle sul rapporto e sull’evoluzione semantica da termini geomorfici a fitonimi, che la scuola italiana ha poi largamente sviluppato in maniera indipendente, sono stati anticipati dal grande scienziato sovietico; e, più di quel che non sia stato fatto da parte di altri ricercatori, egli ha cercato di legare 1’inteppretazioni di queste e analoghe evoluzioni semantiche all’approfondimento degli stadi di sviluppo della rispettiva società. 208 Non trattiamo qui di altri relitti del genere, come calestro o musina che, col valore semantico di «terreno sassoso» o «mucchio di sassi», affiorano solo ai margini dell’area ligure, e fuori di essa. Così pure tralasciamo l’esposizione di altre voci, come varie tra quelle derivate dalle basi clapa, crota, lausa ecc., che assumono qua e là, nelle parlate romanze, il valore semantico di «ammasso di pietre», «terreno detritico, sassoso», ma hanno evidentemente un più specifico significato, di cui avremo occasione di intrattenerci più avanti. 104
per l’occupazione e per la cultura erano sostanzialmente diversi, sovente opposti ai nostri. Al dissodamento quei terreni più freschi e ricchi, che noi oggi ricerchiamo per le nostre culture, nelle condizioni di una tecnica primitiva era sovente un ostacolo quasi. insormontabile la lentezza del lavoro necessario a liberarli del loro mantello vegetale; mentre, all’utilizzazione pastorale stessa di queste terre, e persino al loro sfruttamento con la caccia, con la pesca, con un’economia di raccolta, la densità ed i pericoli di selve impenetrabili opponevano difficoltà per noi quasi inimmaginabili209. Non può meravigliarci che, in tali condizioni, paesaggi aridi e sterili, oggi considerati poco adatti ad una occupazione umana, ci appaiano – dai relitti archeologici come da quelli storiografici e linguistici – più precocemente frequentati o occupati, di quel che non avvenga per le terre più ricche, e oggi considerate come più adatte ad un fitto popolamento. Di questa affermazione ritroviamo la controprova, per così dire, nell’esame di altri gruppi di relitti linguistici, come quelli relativi alle varie forme – positive e negative – del rilievo geologico. Si considerino, ad esempio, le vicende di vari termini che, in area ligure, son serviti ad – indicare gli avvallamenti del terreno. Troviamo qui, certo, per quanto riguarda gli avvallamenti minori, un’abbondante messe di relitti mediterranei: basti ricordare la base arn = «letto di torrente»210, 209 Manchiamo a tutt’oggi, di ricerche fondate su prove dinamiche degli attrezzi primitivi che le popolazioni neolitiche, e poi quelle delle prime età dei metalli, impiegarono per il taglio delle foreste. Non sembra, tuttavia, che l’ostacolo più grave all’occupazione e alla messa a cultura delle terre più ricche e più fresche sia stato costituito dalla difficoltà del taglio. Stazioni palafitticole come quella di Robenhausen, che sembrano aver necessitato per la loro costruzione non meno di 100.000 pali (cfr. Goury, L’homme des cité lacustres, vol. I, p. 78), mostrano che quelle popolazioni riuscivano, coi loro strumenti, ad incidere con relativa rapidità i tronchi, che poi venivano abbattuti a forza di trazione, senza completarne il taglio vero e proprio. Fin dal neolitico, d’altronde, con l’immanicatura angolare dell’ascia e con 1’affinamento maggiore del taglio (cfr. Patroni, Preistoria, vol. I, p. 177 sgg.), un progresso decisivo era stato ottenuto in questa direzione. Ma con l’abbattimento del bosco, nei terreni freschi e ricchi, si era ancora ben lungi dall’aver assicurato le condizioni necessarie per lo sviluppo della cultura agraria. Le tecniche primitive di lavorazione del terreno non permettevano, in queste condizioni, di salvare il raccolto (o piuttosto le semine o piantagioni) dal pullulare delle erbe ed arbusti infestanti, particolarmente rigogliose in quei terreni grassi ed acidi, sia pur liberati dalla vegetazione arborea. Questo sembra il motivo principale per cui vediamo, nei nostri climi, le popolazioni primitive ricercare, per le loro prime culture, piuttosto i terreni magri, e magari sassosi, e piuttosto aridi, degli altipiani o delle terrazze, che non quelli fertili dei fondo-valle: senza contare il migliore e più largo uso che, come vedremo, nei terreni sopraelevati si poteva fare del fuoco come mezzo di cultura. Cfr. Lizerand, Le régime rural de l’ancienne France, p. 1 sgg.; Deffontaines, L’homme et la forêt, p. 19 sgg., 32 sgg., 41 sgg. 210 Per la base mediterranea arn = «letto di torrente, (alveo di) fiume», cfr. Trombetti, Onomast. medit., p. 20; Colella, Topon. pugl., p. 38 sg.; Alessio, Fiume fangoso, p. 237; Battisti, Voci mediterranee, p. 283; DEI, s. v. arnia e arno; Pullè, Genti e favelle, vol. 1, p. 186. La voce, largamente attestata negli idronimi della nostra penisola, è documentata in area ligure ed ai 105
lanca = «letto di torrente, avvallamento»211, nava = «conca o ripiano fra i monti»212, cumba = «conca, vallone»213, crosa = «fossa, avvallamento»214, forse sotta = suoi margini, oltre che dall’etrusco Arno, da Arni in Garfagnana, da Arnasco presso Alberga, da Arno in Val Camonica, da Arnasca in Valtellina, da Arno sul crinale Appenninico sopra Barga e Castelnuovo, da Arno (torrente) e Arnate (abitato) presso Gallarate ecc. Nel lessico romanzo si trovano relitti di questa base nell’istriano arno = «caverna» e nell’italiano e dialettale arnia = «alveare», È probabile il nesso di questa base, largamente documentata nella toponomastica di area egea, con il protochattico ar(i)n = «sorgente, fontana», per cui vedi Brandenstein, Die Sprachschichten im Bereich der Agäis, in Festschrift Hirt, vol. II, p. 29. 211 Per la base lanca = «letto di torrente, avvallamento», cfr. REW 4877 s. v., che dubitativamente l’attribuisce al gallico, come pure LEW, vol. I, p. 761, s. v. lanx. Più probabilmente va, col (pre)latino lanx, attribuita al sostrato mediterraneo, secondo Alessio, Fitonimi mediterranei, p. 214. Nel lessico delle parlate romanze, la base si ritrova nel mantovano, piacentino, parmigiano, lombardo, lanca = «letto di fiume», e con valori semantici affini nel savoiardo ecc. In area più propriamente ligure, sono numerosi i toponimi derivati da questa base, da cui ha preso il nome la vasta regione ondulata delle Langhe in val Tanaro. Cfr. l’etnico dei Langates (attorno all’odierna Langasco) nella Tavola di Polcevera, e la zona di collina Langàn presso Pigna, per cui v. Lamboglia, Topon. Intem., p. 55. 212 Per nava = «conca o ripiano fra i monti», cfr. REW 5858, s. v.; Battisti, Voci mediterranee, p. 250 sgg., ne ha documentato la larga produttività, nel lessico e nella toponomàstica, specie in area ibero-ligure. A nava, di area mediterranea occidentale, risponde, in area egea, con la labiale sorda, il (pre)greco napa = «vallone boscoso». In area ligure, i toponimi antichi e moderni da questa base sono assai numerosi: dal vicus Navelae nelle Alpi Marittime a Nevasca (oggi Nevacles) nelle Hautes-Alpes (con due caratteristiche formanti liguri) ai vari Nava in Liguria, in Piemonte, nella prov. di Massa Carrara e in Val di Magra. Con l’alternanza a/e caratteristica del sostrato, la base si ritrova nel Neviasca della Tavola di Polcevera. 213 Per cumba = «conca, vallone», v. REW 2386, s. v.; REW vol. I, p. 298, s. v. cubo; Dottin, Langue gauloise, p. 249, s. v.; Dauzat, Topon. franç., p. 218; Nome de lieux, p. 220; DEF, Dict. étym., s. v. combe, che tutti riferiscono la voce al gallico. Certo è che la base ha avuto ed ha una larga vitalità nel celtico, ove vive nel cimr. cwm = «vallata»; ma altri, con il Devoto, Lingua di Roma, p. 42, la riportano al sostrato mediterraneo, e la connettono con voci (pre) greche e (pre)latine che hanno il valore semantico di «canotto», «bacino», «scodella». La base, coi suoi derivati, è viva e assai diffusa nelle parlate romanze dell’area ligure, dalla Liguria al Piemonte alla Provenza, ed è largamente attestata nel latino medievale di queste regioni, oltre che nella toponomastica. 214 Per crosa = «fossa, avvallamento», cfr. Alessio, Sostrato mediterr., p. 127 sgg. L’A. rivendica al sostrato una serie di voci (d’area essenzialmente ligure), che il REW aveva provvisoriamente raccolto sotto corrosus, pur considerandone probabile l’origine preromana. Così pure Dauzat, Topon. franç., p. 211; il Dict. étym., s. v. creux, ritiene probabile l’attribuzione della base al gallico.Crosa è attestato nel latino medievale in Piemonte, in Lombardia, in Liguria, col valore semantico di «cavo, vuoto, profondo» e di «scavo, pozzo della miniera»; così pure nell’ant. provenz. cros, ant. franc. crues, franc. creux = «cavo»; franc. merid cros = «fossato», croso = «grotta», piem. ant. via crosa, gen. crösa = «sentiero di montagna scavato dall’acqua, viuzza». Cfr. Bosshard, Gloss. ant. lomb., p. 149 sg. La voce è ancora produttiva di toponimi 106
«fossa, piccolo avvallamento»215. Ma è già significativo il fatto che, per varie di queste basi, non pochi Autori ne oppugnino il carattere mediterraneo; mentre la maggior parte di esse ha avuto una larga vitalità e produttività particolarmente in fase successiva all’invasione celtica o alla conquista romana. E qui siamo ancora nell’ambito degli avvallamenti minori, per alcuni dei quali, fra 1’altro – come per arn, ad esempio – il riferimento semantico sarà stato indirizzato, piuttosto che a fatti di occupazione umana, a fatti di semplice frequenza, sul tipo di quelli accennati a proposito dei settori più sterili del paesaggio geologico. Non mancano, del resto, anche per questi minori avvallamenti, termini i cui relitti vengono più generalmente riportati al celtico indoeuropee piuttosto che al fondo linguistico mediterraneo-ligure. Così per bunda = «località nascosta»216, clotto = «fossa, avvallamento»217, anche se, almeno per quest’ultima base, considerazioni di linguistica spaziale e fonetiche non possano escludere la possibilità che, come per le precedenti, piuttosto che di origine si tratti di rinnovata vitalità in fase celtica. Ma quando, dalla considerazione degli avvallamenti e delle depressioni minori, si passa a quella di un rilievo negativo, che incida più profondamente e più largamente il paesaggio geologico, i relitti paleoliguri o mediterranei sembrano scomparire quasi completamente, per lasciare il posto a quelli celtici indoeuropei e, più frequentemente ancora, ai continuatori del fondo linguistico latino. Così per valle (nel senso di «grande vallata»,– e non semplicemente di «vallone, conca») le parlate romanze di area ligure rispondono generalmente coi derivati del lat. vallis: e caratteristico il fatto, anzi, che in vari casi, questi derivati (come ad es. il franc. merid. valat, valon) assumono il valore semantico di «torrente», o – in altri casi, come nei dialetti emiliani o veneti – quello di «valle da pesca, padule, laguna»: nel che, evidentemente, si esprime un’attenzione del parlante riportata, ancora una volta, e persino in fase romanza, a fatti di saltuaria frequenza, piuttosto che a fatti di occupazione o di insediamento in questo tipo di paesaggio geologico. in Liguria, col valore semantico di «fossa, avvaliamento». Cfr. Lamboglia, Alassio, p. 60. 215 Cfr. Lamboglia, Alassio, p. 112. 216 Cfr. REW 1392, s. v. bunda; DEI s. v. bonda; DEF e Dict. étym., s. v. bonde. La base, che gli AA. generalmente attribuiscono al gallico, vive nel valsesiano bonda = «luogo nascosto, corridoio montano», in varie parlate della Francia meridionale con valori semantici che oscillano da berge a fondrière a palude. La base è anche largamente rappresentata nella toponomastica dell’area ligure. 217 Cfr. REW 4717, s. v. klotton, che l’attribuisce al gallico. La voce è di area ibero-ligure: i suoi derivati si ritrovano nel franc. merid. con valori semantici che oscillano da «fossato» a «pozzanghera» a «fontana» a «ripiano di terreno» a «cantina»; a Nizza ha il valore di «pianoro coltivato»; nella Liguria Intemelia quello di «fosso, avvallamento». Cfr. Piat, Dict. franç. occit. s. v. cave, caverne, flaque, fontaine, fosse, plateau. Per i toponimi in Liguria, v. Lamboglia, Topon. Intem., p. 48. 107
Questo non vuol significare, beninteso, che in fase romanza, o in fase celtica e paleoligure, le vallate escludessero l’occupazione e gli insediamenti umani. Al contrario: insediamenti in grandi vallate ci sono esplicitamente attestati dagli Autori antichi, ad es. per i Salassî nella valle della Dora. È caratteristico, tuttavia, anche in questo caso, il fatto che Strabone, mentre ci descrive la vallata come territorio dei Salassî, senta il bisogno di precisare che il territorio stesso si estende anche sui monti e sulle cime sovrastanti218. Non si dimentichi, d’altronde, che in questo territorio dei Salassî una parte importante del rilievo è rappresentata da anfiteatri morenici che, dal punto di vista degli insediamenti primitivi, offrono condizioni particolarmente favorevoli: a questo particolare tipo di rilievo si riferiscono appunto termini come quello di cumba già citato, che segnalano più antiche frequenze, occupazioni ed insediamenti umani219. Ma in generale, la scarsezza di relitti linguistici e toponomastici preromani, soprattutto preceltici, che si riferiscano alle maggiori depressioni vallive, ci conferma che – contrariamente a quanto si potrebbe pensare a prima vista – nelle fasi più remote della vita ligure le grandi vallate non ebbero, per l’occupazione e per l’insediamento umano, una parte prevalente: è solo in epoca più tarda – in fase celtica, romana, e spesso romanza – che in questi fondovalle ricchi e freschi, ma proprio per questi ingombri di un più fitto mantello forestale, si sono allargati i dissodamenti e moltiplicate le frequenze umane. Ancora una volta, una controprova di questa nostra affermazione possiamo ritrovarla, oltre che nella distribuzione dei reparti archeologici, in un altro relitto linguistico, relativo alla terminologia del rilievo negativo. Del gallico nantos = «vallata», i relitti non sono numerosi nella toponomastica e nel lessico delle parlate romanze di area più propriamente ligure: anche per questa voce gallica troviamo d’altronde, nel lessico e negli idronimi savoiardi e svizzeri, il già segnalato passaggio del valore semantico da «valle» a «torrente» (cfr. il savoiardo nã = «torrente»). Ma quel che è ancora più interessante per il nostro assunto, la forma più frequente nella 218 Cfr. Strabone IV, 6, 7. 219 Il Godefroy, Nature alpine, p. 447-454, segnalando la preferenza delle popolazioni primitive per gl’insediamenti sulle terrazze e negli anfiteatri morenici, la motiva in maniera soddisfacente con le condizioni di esposizione e pedologiche di questi siti montani. La scioltezza del terreno, pur fertilizzato dai fanghi glaciali, l’assenza di un fitto mantello forestale, costituiscono senza dubbio un elemento decisivo per questa frequenza di occupazione e di insediamenti primitivi, ben documentata anche dal punto di vista areheologico. Non si dimentichi poi, per quanto riguarda particolarmente i Salassî, che un più raro insediamento vallivo è per essi, forse motivato dalle loro attività di estrazione dell’oro, tecnicamente legate al regime fluviale del fondo-valle (cfr. Strabone IV, 6, 7). Il nome stesso dei Salassî deriva probabilmente dalla base mediterranea sala = «torrente», di cui dovremo occuparci più avanti: col che verrebbe ad essere sottolineato il carattere straordinario, o almeno non frequente, di stanziamenti vallivi fra queste tribù primitive. Cfr. Battisti, Ancora sul mediterraneo SALA, p. 377; e vedi più avanti per il popolo dei Nantuates. 108
quale i continuatori del gallico nantos = «valle» si ritrovano nella toponomastica della Gallia è quella da Nanto-ialos = «clairière de la vallée», da cui i numerosi Nanteuil Nanteau, Nantouillet ecc.220. Anche in area gallica transalpina, così, la colonizzazione delle vallate appare caratteristica piuttosto per la fase celtica che per quella ligure o, comunque, preceltica; e ancora in fase celtica, i relitti toponomastici ci mostrano come gl’insediamenti vallivi siano più frequenti là dove, nella selva valliva, degli spiazzi naturalmente spogli di vegetazione arborea offrano condizioni più propizie per una tecnica ancor relativamente arretrata; mentre più difficilmente quelle popolazioni affrontano, ai fini dell’insediamento o della cultura, un diboscamento in vallate ove la vegetazione arborea sia densa e continua, e dove l’umidità del terreno renda difficile, ai fini del diboscamento stesso, l’impiego del fuoco, largamente usato, come vedremo, sulle pendici e sulle terrazze o altipiani della montagna. Nella nomenclatura del rilievo negativo, un’altra voce celtica – che è stata, questa, largamente produttiva nella toponomastica e nei lessico romanzo, anche in area ligure – è capace di darci delle indicazioni interessanti sui rapporti di quelle popolazioni col paesaggio geologico: vogliamo dire del gallico landa = «pianura, landa»; da cui, col toponimo Medio-lanum = Milano ed altri, derivano, oltre il bret. lann, il provenz. e ital. landa, e il franc. lande221. I derivati romanzi in area 220 Nantos è attestato col valore semantico di «valle» dal Glossario di Vienna: cfr. Dottin, Langue gauloise, p. 274. V. anche REW 5818, s. v. nantu; Dauzat, Topon. franç., p. 121, 218; Noms de lieux, p. 100, 199, 202; Battisti, Storia ling., p. 246. Il LEW, II, p. l59, s. v. nemus, esclude un legame del gallico nantos col gallico nemeto = «bosco» e con una radice indoeuropea che darebbe alla voce il valore originario di «luogo di pascolo». La riconnette piuttosto con una radice di valore semantico «curvo, curvare». Come per la base mediterranea sala nel caso dai Salassî, e qui, anzi, con maggiore sicurezza, da questa voce nel senso di «valle» (o già «torrente»?) abbiamo l’etnico Nantuates = «quelli dalla vallata», citato nel Tropaeum Augusti (C.I.L., V, 7817). I Nantuates occupavano, al tempo di Augusto, con i Seduni, i Veragri e gli Uberi, la regione alpina del Valais, per la quale Avieno, Ora marit. 674 e 576, con riferimento, certo, a epoca assai più remota, dà i nomi (di aspetto preindoeuropeo) dei Tylangii, dei Daliterni e dei Clachili. È da notare, comunque, che anche per i Nantuates, Strabone IV, 6, 6, segnala solo insediamenti «sulle cime dei monti»: sicché anche o almeno in questo caso, l’origine dell’etnie sarà dovuto non tanto al sito degl’insediamenti, quanto al sistema vallivo nel cui ambito essi sono dislocati. 221 Cfr. Dottin, Langue gauloise, p. 264; DEF e Dict. étym., s. v.; Dauzat, Noms de lieux, p. 105; Solmsen, Indogerm. Eigennam., p. 82; LEW, II, p. 57, s. v. medius; REW 4884, s. v.; il Kluge, Etymologisches Wörterbuch der deutschen Sprache, s. v. Land, segnala il nesso della voce gallica, oltre che con le voci celtiche già citati con il germanico lant, da cui il tedesco Land, e con la voce russa ladina = «Unkraut», bianco russo lado = «gerodetes Land», attribuendo alla base indoeuropea il valore semantico più generale di «terreno diboscato, cespuglioso». Si tratta, comunque, in tutte queste voci, di un paesaggio scoperto ed aperto, sgombero di vegetazione arborea densa. 109
ligure sono a tutt’oggi vivaci e di largo uso, con un valore semantico che sembra restato aderente a quello originario: riferito non soltanto al rilievo geologico, ma al passeggio vegetale che lo caratterizza. Si tratta, come nell’ital. landa, di un paesaggio di pianura, sgombero o appena disseminato di una vegetazione arborea, mentre il mantello vegetale è assicurato da formazioni del tipo della brughiera, sulle quali dovremo intrattenerci nel capitolo seguente, a proposito del paesaggio vegetale. I riscontri che la voce gallica ritrova nel germanico e nello slavo ce la segnalano come termine di una nomenclatura del paesaggio relativamente tarda: in fase paleoligure, come vedremo, i territori bassi e pianeggianti non occupati dalla foresta postglaciale non dovettero avere un’importanza preminente nell’area cisalpina e transalpina che ci interessa. Solo più tardi ad esempio, la progressiva degradazione del paesaggio forestale della Valpadana ha dato luogo a formazioni vegetali più aperte e scoperte, del tipo della brughiera, non senza un intervento decisivo di quella antica umanità. Ma è caratteristico il fatto che, almeno in fase indoeuropea, il più importante relitto della terminologia relativa alla nomenclatura dei terreni bassi e pianeggianti, che offre a tutt’oggi una persistente vitalità, si riferisca specificamente ad un paesaggio aperto, a terre libere da una densa vegetazione arborea: che, anche se più sterili e magre, appaiono come le prime e più largamente frequentate, in armonia con quelle consuetudini e con quelle cautele delle popolazioni primitive, sulle quali abbiamo già attirato l’attenzione del lettore. Non è escluso, d’altronde, che voci come landa siano state elaborate dalle popolazioni celtiche in un ambiente diverso da quello della Gallia transalpina e cisalpina, in pianure steppiche che da epoche più remote hanno presentato un paesaggio spoglio di un mantello forestale: teorie indoeuropeistiche e migrazionistiche, come quelle che riferiscono 1’elaborazione dell’ethnos celtico all’incrocio di tribù «giapetiche» (preindoeuropee) nell’ambito della cultura di Hallstatt, potrebbero qui cader d’accordo nell’additarci l’ambiente d’origine di questa voce nei territori steppici dell’Europa centro-orientale222. Anche i relitti lessicali e toponomastici di fase mediterranea, relativi alla nomenclatura dei terreni bassi pianeggianti, sembrano, d’altronde, sempre riferirsi specificamente ad un paesaggio spoglio: così per la base berra = «pianura, landa», largamente attestata della toponomastica di area ligure, dall’Emilia al Piemonte alle Alpi Marittime alla Provenza, e che ha certo mantenuto la sua vitalità in fase celtica, e sin nelle parlate gallo-romanze223; così per altre voci, di cui avremo occasione di intrattenerci a proposito della nomenclatura dei terreni incolti. Questa preferenza e questa particolare attenzione, che le popolazioni primitive della Liguria manifestavano – nell’occupazione del suolo come negli insediamenti, e già nelle più antiche fasi di una vita più errabonda – per un paesaggio libero e 222 Nota mancante. 223 Nota mancante. 110
scoperto, ci viene confermata dalla notevole abbondanza dì relitti toponomastici e lessicali, relativi alla nomenclatura del rilievo minore del terreno. Ci limiteremo a ricordare, oltre alle basi mediterranee già citate come boplo, marra, morra ed altre, le basi cucco = «poggio, altura o cima arrotondata»224, motta = «mucchio di terra, sopraelevazione del terreno»225, mutt = «sporgenza, sopraelevazione del terreno»226, turra = «mucchi di terra, sopraelevazione del terreno»227, bugna = proiminenza, collina»228, tippa = «tumulo, zolla, mucchio di terra»229, forse grumo = «mucchio di terra o di sassi, zolla»230, tutte riferibili, con maggiore o minore certezza, al sostrato mediterraneo; nonché basi galliche come cruca = «altura arrotondata»231, crena = «ciglione»232 di cui non è comunque esclusa una precedente vitalità nel sostrato stesso, al quale è forse da riportare anche la base, dalla quale il lat. verruca = «altura, escrescenza» (del terreno o sul corpo)233. Ci troviamo, come si vede, per questa nomenclatura del rilievo minore, di fronte ad un’abbondante messe di relitti, in gran parte riferibili alle fasi più remote del sostrato preromano, e che hanno conservato una notevole vitalita anche dopo la romanizzazione linguistica dell’area ligure. Appare assai probabile che questo fatto sia in rapporto con la particolare importanza che questo rilievo minore ha avuto, nelle prime fasi dell’occupazione del suolo e degli insediamenti, al di qua come al di là delle Alpi. Nella “Grande Liguria” preistorica e protostorica, come d’altronde in Egitto e in Mesopotamia, i reperti archeologici ed i dati linguistici ci mostrano come le sopraelevazioni del terreno siano state particolarmente ricercate per i loro insediamenti dalle popolazioni primitive, fin dal neolitico: e se le rocche e le cime più elevate della collina e del monte han sovente servito per gli insediamenti di rifugio e di difesa, le alture e le sopraelevazioni minori del terreno son state più largamente e normalmente frequentate, son state spesso le prime terre che le tribù primitive han prescelto per 1’occupazione. In territori come quelli della Valpadana, più 224 Nota mancante. 225 Nota mancante. 226 Nota mancante. 227 Nota mancante. 228 Nota mancante. 229 Nota mancante. 230 Nota mancante. 231 Nota mancante. 232 Nota mancante. 233 Nota mancante. 111
recentemente emersi sulle alluvioni pleistoceniche, ancora soggetti, a inondazioni e impaludamenti, o comunque occupati dalla foresta postglaciale, questa scelta dovè presentarsi quasi come obbligata, od offrire come unica alternativa gl’insediamenti palafitticoli; e così pure nel delta del Rodano, e lungo la fascia litoranea che – dallo stagno di Berre ai Pirenei – è sovente paludosa, ogni sopraelevazione del terreno ha segnato, si può dire, dalle epoche più remote, una tappa nell’occupazione del suolo e negli insediamenti umani. I touradous – costituiti e sopraelevati dall’accumulazione del limo attorno ai cespi di Salicornia e di altre piante d’acqua salsa – rappresentano, con i cordoni litoranei, quasi l’ossatura della grande piana della Camargue, spezzando la desolazione della palude; e se hanno costituito (con le formazioni analoghe dei radeaux e delle lones) i centri di popolamento della regione, conservano nel loro nome stesso, il segno della loro antica importanza, nella derivazione dalla base mediterranea turra già illustrata234. Al vertice stesso del delta, l’antica città di Arelate235(Arles) è sorta sulle terre della «Tête de Camargue», sopraelevate sulla palude dalle colmate: e non è escluso che il nome antico stesso della città si riferisca a questa imminenza sulla palude e sul limo. Siamo in questo caso, comunque, già in una fase più recente, forse già indoeuropea, di statile insediamento; se vogliamo ritrovare le tracce linguistiche più remote di un rilievo geologico minore, legato all’occupazione umana, dobbiamo uscire, per ora almeno, dalle terre vallive e paludose, e riferirci di nuovo ad aspetti del paesaggio montano. Abbiamo già detto della preferenza che, sin dal neolitico, le popolazioni dell’area ligure sembrano aver mostrato per gli speroni montani più dirupati, con la vista aperta sulla pianura o su ampi e vallate, ed aventi alle spalle degli altipiani o delle terrazze, che cominciano ad essere dissodate ai fini di un’agricoltura primitiva236. L’esempio più cospicuo di questo tipo d’insediamento è forse quello del Camp de Chassey, del quale abbiamo già avuto occasione di far cenno, a proposito dei legami che la sua cultura presenta con quella della Lagozza237: ai confini della Saône-et-Loire con la Côte-d’Or, il campo è sito su di uno stretto ripiano roccioso, dai cui margini dirupati si dominano la riva destra della Dheune e tutti i dintorni. Lungo oltre 700 metri, e largo da 100 a 200, esso ha fornito un’abbondantissima documentazione degl’insediamenti neolitici, ma ha continuato ad esser frequentato nell’età dei metalli, e sino in epoca romana238. Ma con gli altipiani e con gli speroni rocciosi, altre forme analoghe del rilievo pianeggiante – come le terrazze marine, 234 Nota mancante. 235 Nota mancante. 236 Nota mancante. 237 Nota mancante. 238 Nota mancante. 112
fluviali e montane – hanno ovunque rappresentato, nell’area ligure, e fin dalle epoche più remote, un’attrattiva per 1’occupazione umana, che le ha generalmente preferite sia alle basse pianure, sia alle grandi pendici montane. Non è un caso, pertanto, che a designare questo tipo comune di configurazione geologica, si sia conservato, per tutta l’area della “Grande Liguria”, un relitto linguistico delle più antiche parlate preindoeuropee, che ha mostrato in questo territorio una particolare vitalità e produttività, nella toponomastica come nel lessico romanzo. Questa base calma (piuttosto che calmis), i cui continuatori presentano il valore semantico di «altipiano o scarpata rocciosa», è stata giustamente collegata con la base cala/carra = «pietra», di cui dovremo ancora sovente intrattenerci nel seguito di questo studio. Per il suo valore semantico e per la sua struttura, oltre che per la sua larga diffusione, questa base calma sembra meritare una particolare attenzione, come “spia” degli orientamenti delle popolazioni primitive della Liguria nell’occupazione del suolo. E nel senso di «altipiano» e in quello di «scarpata rocciosa», infatti, questa voce viene a designare quella che gli specialisti ci additano come il sito caratteristico degli insediamenti neolitici, specie in area ligure transalpina, dove d’altronde i relitti lessicali e toponomastici sono più largamente attestati239. Ma non meno che per il loro valore semantico, questi relitti linguistici e toponomastici della base calma, che è di area tipicamente ligure, presentano un particolare interesse per la loro struttura morfologica. Nei rapporti con la base cala/carra, in calma ci appare una formante in nasale -ma, di cui già abbiamo trovato un esempio nel rapporto pala/balma, ed alla quale il Bertoldi, ed altri dopo di lui, hanno attribuito un valore topico. La formante in -ma si ritrova nel sostrato mediterraneo ben al di là dell’area ligure: ma qui essa sembra particolarmente produttiva, ed assume forse un più preciso valore di morfema topico. Così come da pala/bala = «rotondità», la formante -ma dà bal-ma = «luogo della rotondità, grotta», così da cala = «pietra», si avrebbe cal-ma = «luogo della pietra»: con una particolare tonalità del valore locativo che, date le accennate tendenze al tipo di insediamento, potrebbe specificamente riferirsi, per la grotta come per l’altipiano e per la scarpata rocciosa, al luogo preferito per l’occupazione o per 1’insediamento stesso. Con analoga formante in nasale, e da una base penta che, come vedremo, ha anch’essa il valore semantico di «pietra», troviamo d’altronde in Liguria toponimi come Péntema (fraz. di Torriglia, presso Genova); mentre la formante in -ma è largamente attestata nella toponomastica ligure, dal Caeptiema e forse dal Bergiema della Tavola di Polcevera al Bargema (o Bergema) del Cartulario dell’Abbazia di Lérins (per il sec. XI), ove la formante si riferisce alla base berg = «monte», già trattata, o all’altra barga = «capanna a monte», della quale c’intratterremo più avanti, e che è probabilmente legata alla prima. 239 Nota mancante. 113
5. Basi e formanti nella nomenclatura geologica: lo sviluppo stadiale Senza entrare, comunque, in una discussione più approfondita del rapporto tra la tenace persistenza di questo relitto linguistico e le abitudini d’insediamento delle tribù liguri, abbiamo voluto attirare l’attenzione del lettore su di una base paleoligure e su di una sua formante, che presentano un particolare interesse per lo studio dei rapporti di quell’antica umanità col paesaggio gelogico. Quello della formante -ma non sembra d’altronde essere l’unico esempio di un morfema, che più particolarmente si riferisce a questi rapporti. Tra le formanti paleoliguri e, più in generale, mediterranee, altre son state individuate: che, se han senza dubbio subito processi di evoluzione stadiale, attraverso i quali son venute a significare rapporti di altro tipo, han cominciato probabilmente coll’esser riferite proprio a caratteristiche del paesaggio geologico. Un’evoluzione semantica di questo genere, ad esempio, pare si possa riscontrare in varie formanti paleoliguri e mediterranee, con valore di collettivi, formazioni del tipo cant-al-ia, gar-al-ia (dalle basi canta/ganda = «pendio sassoso, mucchio di sassi, ghiaia», e cala/carra = «pietra» sono largamente attestata in area ligure (cfr.ad es. Caraglio presso Nizza, Candaglia nelle Alpi, Chantaillon nella Côte-d’Or ecc.); ad esse fanno riscontro, da un capo all’altro dal Mediterraneo, voci analoghe con una formante in -al, alla quale si può attribuire sovente, come nei casi sopra citati, il valore di un morfema relativo a «collettivi di formazioni geologiche»:così per il basco garal’a = «ghiaia» (sempre dalla base carra), così per lo spagnolo gorronal = «greto» (da gorron «ciottolo») ecc.240. Ma assai più frequentemente, nei relitti toponomastici e lessicali, la medesima formante in -al interviene ad indicare collettivi di formazioni vegetali. Fitonimi del genere sono particola mente diffusi in area ibero-romanza, dove abbiamo numerosissime voci del tipo argomal= «bosco di tigli», retamal = «ginestreto», zarzal = «roveto», mentre il basco ha bagalia = «faggeto», ecc.; ma si ritrovano anche nell’antica toponomastica all’altro capo del Mediterraneo, in ambiente anatolico241. Quel che importa qui sottolineare, tuttavia, è che non ci troviamo di fronte solo ad un fatto, diciamo così, grammaticale: ad una formante, cioè, che abbia puramente e semplicemente un generico valore di collettivo. La realtà è che, non di rado anche la base da cui il fitonimo collettivo deriva è una base che ha originariamente un valore semantico relativo al passaggio geologico242. Questo nesso tra fitonimi e nomenclatura del paesaggio geologico 240 Cfr. Alessio, Karra, vol. IX, p. 144. Il Bertoldi, Colonizzazioni, p. 55, segnala formazioni analoghe nella toponomastica antica dell’Anatolia, come Ταβαλι (cfr. la base taba = «collina, rupe») in Lidia e Καραλια (dalla base carra?) in Pamfilia. 241 Cfr. Alessio, loc. cit. e Bertoldi, Colonizzazioni, p. 53. 242 Cfr. particolarmente Alessio, Karra, passim, e Fitonimi mediterranei, passim, nonché 114
è stato ormai largamente illustrato, particolarmente dai lavori dell’Alessio, del Battisti, del Bertoldi: ma non sembra sia stato sufficientemente lumeggiato il senso che questo nesso acquista dal punto di vista dello sviluppo stadiale della data società e del dato linguaggio, l’orientamento prevalente in queste ricerche è quello tendente a scoprire il rapporto oggettivo che intercorre tra il fitonimo e la formazione geologica alla quale esso si riferisce (ad es. «pianta che cresce su terreno roccioso», «pianta dei luoghi umidi», «pianta dal legno duro come la pietra», ecc.). Già nel suo primo studio sullo spagn. Carrasca = «Quercus coccifera L.», riportato alla base carra = «pietra», il Bertoldi invocava così, acutamente, il parallelo del ted. Steineche = «Quercus ilex L.», per proporre della voce spagnola un’interpretazione «(quercus) petraea»; e non saremo certo noi a sminuir l’importanza di questa attenzione, rivolta alla ricerca dei rapporti obiettivi, che possono darci ragione della coincidenza o del nesso fra fitonimi e termini del paesaggio geologico. Vi è tuttavia il rischio, in procedimenti del genere, di riferire al sostrato mediterraneo, a società primitive, forme e trapassi logici e linguistici e grammaticali, che son più propri del nostro tempo, della nostra società, del nostro linguaggio. Se, così, nel caso dello spagn. carrasca e del basco haritz, come ha dimostrato l’Alessio, i suffissi di carattere aggettivale sembrano effettivamente indicare un’interpretazione «(quercus) petraea» appare assai più probabile, in casi più frequenti, e forse più tipici (come per 1’alb. k’ar, lat. cerrus ecc. ), un’interpretazione «(quercus) petra»: con riferimento ad un processo logico, e linguistico che non è quello dell’aggettivazione, bensì quello della identificazione di due dati, l’uno appartenente al paesaggio geologico, l’altro al paesaggio vegetale. L’Alessio stesso, a proposito del basco (h)aitz = «roccia» e haitz = «quercia», rileva l’identità dei due termini: e, con altri studiosi, non ha mancato di segnalare le frequenti identificazioni di termini del paesaggio geologico con altri del paesaggio vegetale, agricolo o pastorale. Abbiamo già ricordato come i derivati della base mediterranea marra = «mucchio di pietre», presentino valori semantici che vanno da quello del franc. merid. marro = «mucchio d’erba tagliata o di fieno», venez. marela = «idem», al trent. marel = «piccolo covone»; oltre a quelli del tipo basco marro = «ariete», che ci riportano, di volta in volta, a quella del paesaggio vegetale, agricolo o pastorale243. Ma non sempre, anche da parte di chi più ha contribuito ad allargarle, sembra sia stato rilevato tutto il valore di queste scoperte per l’illuminazione del processo sociale e linguistico delle rispettive società: le cui popolazioni, nel loro sviluppo stadiale, attraverso un processo di identificazione ben noto agli studiosi della mentalità primitiva vengono riempiendo le vecchie forme di un contenuto nuovo, che è quello sul quale le nuove condizioni di vita ed i nuovi Bertoldi in St. Etr., vol. VII, p. 287. 243 Nota mancante. 115
rapporti con la Natura e con gli uomini concentrano la loro attenzione ed il loro interesse. E giacché, nel linguaggio come in ogni realtà, la forma non è qualcosa di estrinseco e di indifferente nei confronti del contenuto, questo processo di evoluzione stadiale investe necessariamente la forma stessa, che ne resta profondamente incisa. Quella formante -al, così, che noi estraiamo dai citati cant-al-ia o gar-al-ia, ad esempio, solo per una nostra astrazione grammaticale avrà lo stesso generico valore di “collettivo” della formante -al dei fitonimi argom-al, retam-al ecc.: in realtà, per i parlanti, la formante, non meno della rispettiva base, acquista un valore del tutto nuovo, nel momento in cui lo sviluppo stadiale dei rapporti degli uomini con la Natura e tra di loro la porta a designare un altra realtà244. Il Bertoldi ha illuminato di viva luce un processo del genere, quando ha illustrato ulteriori fasi dello sviluppo stadiale di questa formante, ed ha cominciato a parlare di diversi «ambienti» della sua irradiazione. Quando il Bertoldi, così, riporta alla formante -al nomi come quello antico di Marsiglia, Massalia, ed altri nomi di città in area ligure, iberica o anatolica245, ci troviamo evidentemente di fronte ad un vero e proprio salto stadiale nell’evoluzione del valore semantico della formante stessa: un salto nel quale il nesso (o, piuttosto, la coscienza del nesso) coll’originario valore di «collettivo per formazioni geologiche o per fitonimi» è andata perduta. Il passaggio dalla barbarie alla civiltà, lo sviluppo di una vita cittadina, segna qui una tappa così importante nello sviluppo stadiale della società e del linguaggio, che il “salto” nello sviluppo stadiale della formante stessa appare con un più immediato rilievo: ed è a proposito di casi analoghi a questo che il Bertoldi ha sentito il bisogno di parlare di diversi «ambienti» – rispettivamente rurali e cittadini – di irradiazione dei diversi valori semantici di formanti di “collettivi” sul tipo di -al246. Da «collettivo di formazioni geologiche o vegetali» a «collettivo di case di uomini» (nome di città), a dire il vero, il passaggio di valori semantici appare, all’uomo moderno, tutt’altro che evidente. In realtà, se questo passaggio, storicamente considerato, nel suo complesso, ha senza dubbio rappresentato un vero e proprio salto stadiale, e tra i più decisivi, nella storia dell’umanità, ciò non significa che esso si sia compiuto in maniera così brusca ed istantanea, da non consentire mille fasi intermedie, che ne hanno graduato e mediato gli sviluppi. In quella che Engels ha chiamato l’epoca della «democrazia guerriera», e che è quella in cui questo decisivo salto stadiale si realizza in Liguria, la città era certo – come vedremo nel seguito di questo scritto – qualcosa di ben diverso non solo dalla città dei giorni nostri, ma anche da quella di Roma repubblicana. Non è un caso che, 244 Nota mancante. 245 Nota mancante. 246 Nota mancante. 116
nella più antica toponomastica mediterranea, si ritrovino ovunque nomi di città che direttamente si identificano con nomi di «collettivi di formazioni vegetali»247. Nei primi accentramenti cittadini, che limitatamente ancora incidevano sul paesaggio, non può meravigliare che l’impressione dominante fosse quella prodotta, ancora, dalla caratteristica del paesaggio geologico o vegetale: con tutta verisimiglianza, a fatti di questo tipo vanno riferiti nomi di città con formante in -al di area ligure, come Rapallo e Varallo, «collettivi di idronimi», sui quali dovremo tornare più avanti. Mancano elementi per affermare o negare che, anche nel caso di Massalia, si tratti di un passaggio semantico analogo, più facilmente accessibile alla nostra mentalità moderna stessa; ma è fuor di dubbio che, in altri casi almeno, come quello dei «collettivi in -ar», di cui appresso, si deve ammettere un salto stadiale più brusco, nel quale il valore “collettivo” della formante passa, dai complessi o vegetali, a quelli, cosi profondamente diversi, delle case e delle città. Quando, così, di contro ai fitonimi collettivi in -ar, largamente attestati nel sostrato mediterraneo, troviamo non meno largamente documentati nella toponomastica, dall’Anatolia all’Iberia, antichi nomi di città con la stessa formante, possiamo ancora pensare che si tratti, in molti casi, di stanziamenti che hanno preso il loro nome dalla formazione geologica o vegetale dominante nella località, senza che la formante “collettiva” direttamente si riferisca all’«aggruppamento di uomini e case»; ma quando, la medesima formante in -ar , la ritroviamo in voci che, come l’etrusco hil-ar = «abitato, città», o l’anatolico pat-ar-i = «città», si riferiscono non a questo o a quello stanziamento urbano, ma alla «città», all’«abitato» in genere, dobbiamo pensare, col Bertoldi, che qui la formante collettiva, nel nuovo “ambiente” cittadino, sia trapassata – con un vero e proprio salto stadiale – a segnalare un contenuto assolutamente nuovo248: non più solo nel senso , in cui Ascra, ad esempio, non designa più «il querceto» (fitonimo da cui essa ha preso il nome), bensì la città, patria di Esiodo; ma nel senso che la formante stessa si riferisce ormai, nella sua funzione di collettivo, ad individui che non sono più quelli del paesaggio geologico o vegetale, ma quelli invece del paesaggio cittadino. Il mapalia = «casæ Maurorum» dell’Africa mediterranea, attestato dagli Autori latini, sembra offrire, nel sostrato mediterraneo, per la formante in -al un esempio esplicito di questa funzione collettiva nuova, che ormai si esplica nei confronti di nuovi elementi del paesaggio, caratteristici di uno stadio nuovo nello sviluppo della società e del linguaggio. Ma quale che sia il giudizio sull’etimo di mapalia249, non sì sfugge alla necessità di considerare, sotto l’aspetto dello sviluppo stadiale, non solo le basi 247 Nota mancante. 248 Nota mancante. 249 Nota mancante. 117
mediterranee ed i loro derivati, ma le loro formanti stesse: ed anche qui, non possiamo limitarci a considerarle nel rapporto dell’uomo col paesaggio, con la Natura, ma dobbiamo studiarle anche dal punto di vista dei rapporti degli uomini tra di loro, dal punto di vista dei rapporti sociali: perché, secondo la parola già citata di Marx, anche per quanto riguarda il linguaggio, e più particolarmente questa evoluzione stadiale delle formanti, solo la limitatezza dei rapporti degli uomini con la Natura può spiegarci la limitatezza (Borniertheit) dei loro rapporti reciproci, e viceversa. Si consideri, ancora, la formante in -al. Largamente documentata nel sostrato, da un capo all’altro del Mediterraneo, come morfema collettivo, la ritroviamo, in funzione desinenziale, non meno largamente attestata, con valore di genitivo o di patronimico dall’etrusco al retico alle lingue micrasianiche a quelle del Caucaso occidentale250: in area ligure, con lo stesso valore, nelle iscrizioni Leponzie251. Non sembra si possa sfuggire all’esigenza di ricercare il nesso, che ci dia ragione del rapporto tra queste due funzioni, che oggi ci appaiono profondamente diverse, del morfema -al nel più antico sostrato mediterraneo. Anche qui, un raffronto con l’analoga formante in -ar, documentata per collettivi di formazioni geologiche e vegetali, può facilitarci nel nostro assunto. È noto che, per questo morfema -ar, è documentato direttamente nell’etrusco un valore desinenziale, che sembra oscillare fra quello di un vero e proprio plurale e quello di un collettivo: così, da clan = «figlio», si ha clenar = «figli» (figliolanza così per aisar = «gli Dei», ecc.252. Per -ar, dunque, il valore di formante di collettivi, che nella toponomastica e nei fitonimi troviamo riferito al pasaggio geologico e vegetale, lo ritroviamo, nella grammatica etrusca, riferito agli uomini stessi (o agli Dei). In etrusco, in realtà, l’evoluzione del valore del morfema nel senso di un vero e proprio plurale sembra già relativamente avanzata; ma la particolare frequenza di questa forma di plurale per termini relativi alle persone, e particolarmente alla parentela, contribuì a fondare 1’ipotesi prevalente di un’originaria funzione collettivale del morfema. In questo senso, il confronto coi linguaggi di popolazioni meno evolute di quelle etrusche, può far pensare che questo morfema esprima essenzialmente una partecipazione del singolo (clan = «figlio») ad una collettività (clenar = la figliolanza). Sull’importanza, che la realtà ed i fantasmi della partecipazione hanno avuto ed hanno nelle società primitive, in cui l’uomo non ha ancora tagliato il cordone ombellicale che l’unisce alla Natura, e in cui la società stessa della Natura sembra serbare una più diretta impronta nella sua struttura gentilizia, molto si è scritto. Le scuole francesi del Lévy-Brühl e del Durkheim, in particolare, accentuando 250 Nota mancante. 251 Nota mancante. 252 Nota mancante. 118
unilateralmente l’importanza di questo aspetto della mentalità primitiva, hanno talora contribuito ha sviarne l’approfondimento scientifico per i vicoli ciechi di una sorta di idealismo e misticismo magico. Ciò non deve impedirci, tuttavia, di vedere come, effettivamente, in una società gentilizia, non ancora incrinata dagl’inizi di una differenziazione interna, la partecipazione del singolo ad una società, che ha ancora caratteristiche largamente naturali, comporti, per le relazioni sociali come per la mentalità come per il linguaggio, delle limitazioni che si possono non inutilmente riassumere, proprio, sotto la categoria della partecipazione. In questa categoria si esprime, più in generale, una scarsa differenziazione fra l’uomo e la Natura; e, all’interno della data società stessa, una debole differenziazione dell’individuo nei confronti della collettività. Nei confronti della realtà naturale, come nei confronti della realtà sociale, la limitatezza (Borniertheit) dei rapporti condiziona una coscienza ancora oscura e limitata delle differenze, delle contrapposizioni: quella che domina è, appunto, l’idea di una partecipazione propria alla Natura e alla società: sicché la pietra e l’albero e la sorgente possono pur mormorarmi parole e avvertimenti misteriosi, che io devo esser capace di intendere; e per la mia orda o la mia gente o la mia tribù io son pronto a immolarmi senza riflettere, con un eroismo ancor quasi animale, che ha sovente stupito i viaggiatori “civili”, ma che è naturale in una società gentilizia. Ancora all’epoca della conquista romana – benché ormai, nella costituzione gentilizia, si siano inseriti non pochi elementi di disgregazione – ritroveremo, tra le tribù liguri, non pochi esempi di questo eroismo, accanto a quelli che ci documentano una estrema debolezza dello sviluppo dell’individualità. E’ stato rilavato, ad esempio, che – mentre per le tribù galliche sono sovente menzionati nomi di capi o di guerrieri – per le tribù liguri Livio e gli altri storiografi della lunga guerra combattuta per due secoli contro di esse non menzionano un solo nome di persona: sicché la loro resistenza eroica resta anonima, e i Romani stessi, quando vogliono punire popolazioni sempre di nuovo ribelli, non trovan capi o personalità da suppliziare o da incatenare ai carri trionfali, ma debbono accontentarsi del massacro in massa o di una casuale repressione rivolta contro gli oratori dei conciliabula253. In questa luce, sembra che anche il rapporto fra la funzione collettivale e la funzione genitivale e patronimica del morfema -al in ambiente ligure vada considerato, piuttosto che da un punto di vista astrattamente grammaticale, sotto questo aspetto di una categoria di partecipazione, analoga a quella alla quale abbiamo accennato a proposito della formante -ar. In rapporti come quello fra clan e clenar, certo, questa partecipazione può sembrare, a prima vista, più ovvia, e indiscutibile; ma in realtà, a chi ponga mente ai vincoli della costituzione gentilizia, il valore di partecipazione del morfema -al in espressioni come quella già citata (cfr. 253 Nota mancante. 119
nota n. 79) nella iscrizione leponzia di Davesco (tisiui piuotialui pala = «tomba per Tisio Pivotialo») – che si tratti di un patronimico, di un gentilizio o di un etnico – non è certo minore: che anzi, proprio nell’ora della morte, questa partecipazione dell’individuo alla comunità degli ascendenti gentilizi si esprime con particolare attenzione nell’iscrizione sul sepolcro del patronimico (o gentilizio, o etnico? in -al) e nella aggregazione alla sepoltura gentilizia stessa; e quando, nell’ora della definitiva sconfitta e della deportazione in massa, i Liguri Apuani rivolgeranno un ultimo disperato appello ai Romani vincitori, essi chiederanno di «non esser costretti ad abbandonare [...] i sepolcri dei loro antenati»254. Questo rapporto tra la categoria di «partecipazione ad una comunità» e le formanti con valore collettivale per formazioni geologiche o vegetali si ritrova, d’altronde, in altri morfemi documentati in area ligure. Si consideri, ad esempio, la formante in -on (-o, -onis in veste latina), che si ritrova anch’essa in tutte le regioni costiere del Mediterraneo occidentale, ma non è senza riscontri anche in area egeo-anatolica. A un derivato in -on della base carra = «pietra» (carr-on) sono stati riportati, tra i termini della nomenclatura geomorfica, il franc. sudorientale tsirõ = «mucchio di sassi», il lucano šcarrone = «terreno roccioso», ed altri, in cui già appare il valore collettivale della formante. Ma particolarmente diffuso è questo valore del morfema per i fitonimi e per gli zoonimi. Per quanto riguarda i primi, è caratteristico il passaggio semantico che, sempre dalla base carra e dalla forma carron già ricordata, dà l’aragonese carron = «biancospino» e carronéra = «rosa canina», formazioni vegetali di terreni aridi e sassosi; ma la formante in -on per fitonimi collettivi, o per nomi di piante che crescono in aggregati, è assai frequente da un capo all’altro del Mediterraneo. Ai greci Ἑλικών= «salicetum», Δονακών = «canneto» (cui fa riscontro, in quest’area, πετρών = «saxetum») ecc., rispondono, in area ligure o alpina, voci come il valtellinese e poschivino teún = «pinastro» (da *tib-on; cfr. tibulus = «pinastro»), come il bergam. matú = «cespuglio di rovo» (da *matt-on; cfr. la base mediterranea matta = «cespuglio»); in area, gallica, il gall. Aballo(n) = «pometum», da cui i toponimi Avallon ed altri. Aliso(n) = «sorbeto o ontaneto», da cui i toponimi Alisone ecc., nonché il trentino glastiù, glastoni (da *glast-on; cfr.la base gall. glastum = «mirtillo»). Ancor più caratteristica è, tuttavia, la diffusione di questa formante per zoonimi collettivi, o per nomi di animali che vivono in forma gregaria. In qusta funzione, il morfema si ritrova particolarmente in area ibero-sardo-ligure: asturcones si chiamavano in Iberia i cavalli di una razza allevata particolarmente nelle Asturie, ove un’altra razza equina aveva un nome thieldones colla stessa formante in –on (cfr. Plinio,VIII, 47). La Libia risponde con voci come lalisiones = «puledro dell’onagro» (cfr. Plinio, VIII, 69) e la Sardegna, con mufrones = «mufflone». Il Terracini ha 254 Nota mancante. 120
rilevato come, nell’Isola, la formante sia stata, in questa funzione, produttiva anche in fase latina e romanza, con voci come bacone = «toro» (attestato nel Medio Evo), puzone = «uccello, cravone» ecc. Ma con riferimento analogo ad animali viventi allo stato gregario, il morfema si ritrova in area etrusca, nel (pre)latino petrones = «montone», ed in area corso-ligure in musmones = «pecora selvatica» (cfr. Plinio , VIII, 75), nonché in darbone = «talpa», i cui derivati sono attestati nell’area ligure cis- e transalpina; con un riferimento della formante, in questo caso, piuttosto che al viver gregario della specie, al raggruppamento dei caratteristici rilievi del terreno nei campi da essa infestati. Già in questa oscillazione della funzione semantica di questo morfema dalla formazione di collettivi geomorfici o fitonimi a quella di zoonimi riferiti a specie che vivono allo stato gregario, appare, ci sembra, il rapporto che intercorre fra la funzione collettivale del morfema stesso ed una concezione del mondo in cui i limiti fra l’individuo e la specie non sono del tutto chiari e ben definiti: in cui quella categoria della partecipazione, che sopra abbiamo menzionato, acquista, o piuttosto conserva, un particolare rilievo. Ciò appare ancora più chiaramente quando troviamo la medesima formante largamente usata, nel Mediterraneo occidentale, per la costruzione di termini, che si riferiscono a categorie sociali chiuse (cfr. gli etruschi laniones = «macellai», caupones = «tavernai», subulones = «suonatori di flauto» ecc.) o, ancor più ad etnonimi: come negli iberici Autricones, Vettones, Vascones ecc., nei liguri e alpini Acitavones, Agones, Calucones, Nemaloni ecc., nei gallici Eburones = «il popolo che combatte col legno velenoso del tasso», Redones = «il popolo che combatte sul carro detto reda, ecc. In area ligure, d’altronde, questo riferimento della formante di geonimi fitonimi e zoonimi collettivi alla categoria della partecipazione è ancora sottolineato dalla frequenza, rilevata dal Terracini e dal Bertoldi, del suo uso nella costruzione di personali che, come 1’Atilonei di un’iscrizione leponzia (cfr. Whatmough: PID, vol. II, p. 79, iscriz. n. 263) e L’Atiloni di un’iscrizione di Novara (cfr. C.I.L.,V, 6533), e molti altri, sembrano da riportare a nomi di animali (cfr. Plinio, IX, 17: «attilus (piscis) in Pado»). Ci troviamo qui di fronte, probabilmente, ad un uso della formante che si riferisce ad un tipo particolare di “partecipazione”, quella della data persona, forse, all’animale totemico: che nella concezione di quelle popolazioni doveva d’altronde confondersi con la partecipazione alla comunità gentilizia. In personali gallici o gallo-liguri del tipo Eponius (da epos = «cavallo»), Matuconius (da matucos = «volpe»), Mocconius (da moccos = «porco»), ecc. la formante -on si ritrova frequentemente in questa funzione; ed a queste formazioni, la tradizione etruscolatina risponde con personali del tipo Petronius (da petro, -onis = «montone»)255. 255 Nota mancante. 121
Varî autori hanno rilevato come, in tutta l’area della sua diffusione, questa formante mediterranea in -on, con valore collettivale, debba essersi scontrata con un’analoga formante indoeuropea, nella quale la prima si sarebbe, per così dire, infusa, o confusa. Per chi sia portato a considerare le parlate indoeuropee non come derivate da una comune lingua-madre, ma piuttosto come il prodotto dell’incrocio di parlate preindoeuropee (“mediterranee” o “giapetiche” che si voglian chiamare), entrate in una fase nuova di sviluppo stadiale, sarà piuttosto da ricercare come, nel corso di questo sviluppo stadiale, la formante in -on sia venuta mutando ed allargando la su funzione. Ma senza entrare in un tale dibattito, quel che qui ci importava di sottolineare era il legame che si può ritrovare fra questa ed altre formanti a valore collettivale, ed una struttura sociale, in cui la limitatezza dei rapporti degli uomini con la Natura e tra di loro condiziona una larga applicazione della categoria della “partecipazione”, e passaggi semantici, di cui non s’intenderebbe l’effettivo valore se ci si limitasse ad un’astratta considerazione grammaticale delle voci in esame. Avremmo potuto illustrare con altri esempi (ad esempio, con quello dell’altra formante collettiva mediterranea in -etum, di cui pure è stato trovato il riscontro in area ligure)256 questo nesso che abbiamo rilevato tra i rapporti di quell’antica umanità col paesaggio geologico e vegetale e quelli che ne esprimono la primitiva struttura sociale: ma, quanto qui abbiam detto basterà, pensiamo, a significare fin d’ora come, anche in un paesaggio geologico che può sembrar morto ed immobile, si rifletta ed incida una umanità, che già lo anima della sua interna dialettica. La considerazione della formante -ma, intanto – dalla quale questa nostre digressione ha preso le mosse – ci ha riportato a settori del paesaggio geologico, in cui le presenze umane appaion più frequenti per una già avvenuta occupazione del suolo, o addirittura per incipienti insediamenti. Là dove, da una vita errabonda, con la più stabile occupazione del suolo o con gli insediamenti, le popolazioni passano ad attività agricole o, comunque, più permanentemente legate ad un dato ambiente geografico, la loro attenzione suole concentrarsi sulla natura e sulla qualità del suolo stesso, non più solo per quanto riguarda il suo rilievo altimetrico, ma anche per quanto concerne la sua più intima struttura, che ha diretti riflessi sulle possibilità di cultura. A questa nomenclatura rivolgeremo pertanto la nostra ricerca nel paragrafo seguente, per trarne una nozione più completa dell’ambiente geologico nel qual e, alla vigilia della conquista romana, le popolazioni liguri svolgevano la loro vita.
256 Nota mancante. 122
6. La natura del suolo e l’occupazione umana È stato giustamente rilevato257 che, nell’ambito della Liguria mediterranea, una più stabile occupazione umana del suolo sembra aver avuto luogo in un paesaggio geologico e vegetale già notevolmente degradato, nei confronti di quello caratteristico, ad esempio, per l’epoca dell’occupazione e degl’insediamenti nelle regioni nordiche dell’Europa. Nelle pagine che precedono, abbiamo già trovato qualche accenno in questo senso; ma solo nel capitolo seguente, quando prenderemo in particolare considerazione il paesaggio vegetale della Liguria preromana, potremo farci un’idea più precisa dell’estensione e della gravità di questi fenomeni di degradazione, già nell’epoca che immediatamente precede la conquista romana della Liguria. Per intanto, in questo paragrafo, la relativa abbondanza dei relitti di basi preromane che si riferiscono alla natura del suolo(a prescindere dal suo rilievo) ci indica come le popolazioni dell’antica Liguria vivessero già in condizioni, che le portavano a dar la loro attenzione non solo a quei dati del paesaggio geologico, che colpiscono anche le più primitive popolazioni nomadi; bensì pure a quelli, che assumono un’importanza solo per tribù, già passate ad una fase di più stabile occupazione di un dato territorio. Ancor più: i dati, che cominceremo ad esaminare in questo paragrafo, ci mostreranno che questa più concentrata attenzione rivolta ai dati relativi alla natura del suolo risale non solo alla fase indoeuropea celto-ligure, ma è documentata anche per quella ben più antica, paleoligure: sicché, fin d’ora, saremo indotti a riferire ad epoche assai remote i primi fatti di stabile occupazione del suolo nell’area che c’interessa. Non ci soffermeremo a considerare la base tala/tarra, documentata in area italica, celto-ligure ed iberica, nella toponomastica ed in diffusi relitti lessicali, con un valore che si riferisce a quello del lat. «terra, tellus»258. Non pochi autori attribuiscono oggi questa base al sostrato mediterraneo; ma non siamo in grado di precisare, allo stadio attuale delle ricerche, a quale particolare aspetto del concetto di terra, o di territorio la base si riferisse in area ligure. Così pure tralasceremo qui di riprendere l’esame di voci, derivate da basi che abbiamo già avuto occasione di citare a proposito del rilievo montano, anche quando esse si riferiscano alla natura del terreno; riserveremo, infine, per un paragrafo seguente, la nomenclatura del 257 Cfr. Deffontaines, L’homme et le sol, p. 138. 258 Per la base tala/tarra, cfr. Trombetti: Onomast. medit., p 64; Colella, Topon, pugl., p. 42; Bertoldi, Glottologia, p, 45; Devoto, Lingua di Roma, p. 42; Alessio, Karra, vol. IX, p. 137; e Fiton. medit., p. 137; L. Lun, in St. Etr., vol. XVI, p. 430 sgg.; Gerola, Substrato mediterraneo, p. 349; Pisani, Crestomazia, p. 132 sg. In area ligure, la base mediterranea, da cui deriverebbero anche il latino tellus e terra, è attestata in relitti toponomastici del tipo Tarascon, e probabilmente dalla denominazione della talpa («1’animale che sommuove la terra»; cfr. il ted. Maulwurf, da moltwerf = «Tier, das Erdhaufen aufwirft»). 123
sasso e della pietra, che presenta un interesse diverso da quello dei termini che qui prenderemo in esame. Con la nomenclatura del sasso e della pietra presenta, certo, un nesso la base mediterranea lausa = «lastra di pietra, terreno schistoso», di area occidentale, ibero-ligure, da cui il piemontese loza = «lastra di pietra», il franc. merid. lauso = «pietra piatta», bearnese lhauso = «montagna schistosa», franc. merid. lausilho = «schisto», cat. llosa, spagn. losa, portog. lousa = «lastra di pietra, lavagna»259. Può darsi che i grandi pendii erbosi, frequenti in area ligure e alpina sulle rocce schistose, abbiano per tempo attirato su di esse l’attenzione di popolazioni dedite alla pastorizia; ma è più probabile che la tenace persistenza dei relitti relativi a questa base in area ligure sia prevalentemente dovuta (come per quelli della base clapa = «lastra di pietra», di cui tratteremo più avanti) al largo uso che, dalle epoche più remote, delle rocce schistose e delle lastre da esse ricavate con relativa facilità, si fece per i più svariati usi tecnici, e particolarmente per le costruzioni. Che l’attenzione di quelle popolazioni di pastori fosse, tuttavia, rivolta anche ai riflessi agricolo pastorali di queste strutture dal terreno, celo dimostra la persistenza, ai margini dell’area ligure, dei relitti linguistici della base alpina blese = «costa di monte ripida ed erbosa» (per cui cfr. la nota n. 192 a questo capitolo) che certo si riferisce, per il suo valore semantico, anzitutto a terreni di questa natura; mentre, in area ligure, sono attestati i relitti di una base alpina blista260, forse connessa alla precedente, che nel franc. merid. assume proprio il valore semantico di «schisto» = blesto, «pietra piatta» = (a)blesto, mentre nel tardo latino blista è glossato «gleba», valore semantico che i derivati di questa base conservano nel franc. antico bleste = «zolla di terra», (da cui il calabr. vresta = «mattone di mota e paglia seccato al sole»), in svizzero bleta = «zolla» ecc. Qui ci troviamo, evidentemente, di fronte ad un interesse per i terreni schistosi, che non è tanto motivato dalla loro possibile utilizzazione ai fini delle tecniche costruttive, quanto invece dalla loro capacità di dar luogo, in superficie, a detriti facilmente accessibili alla flora pratense, l’evoluzione semantica dei derivati di questa base nel trent. biesta = «zolla, erba fitta di una zolla erbosa», e biest = «fascio di fieno», nel bergam. blesta = «mucchio di letame», conferma (con uno sviluppo stadiale di cui abbiamo già trovato e troveremo numerosi riscontri) 1’indirizzo agricolo-pastorale degli interessi che in questa base prelatina dovettero esprimersi. Non meno chiara è 1’evoluzione di questi interessi nei vari valori semantici assunti, in area ligure o alla sua periferia, dai derivati della base tippa = «tumulo, mucchio di terra, zolle», della quale abbiamo già fatto cenno (cfr.la nota n. 229 a questo capitolo) a proposito del rilievo geologico minore. Oltre che a significare tale rilievo, come abbiamo già visto, i derivati di questa base mediterranea si ritrovano, 259 Nota mancante. 260 Nota mancante. 124
nell’area che c’interessa, usati ad indicare «la zolla», e particolarmente «la zolla erbosa»; e di qui, è evidente il passaggio semantico che, in molti dialetti romanzi di area ligure (e fino alla Lombardia e all’Emilia), portavoci come tepo, tepa ecc. a significar e «il mantello erboso» nel senso del franc. gazon o pelouse) del terreno: o, in altri casi, il suo «mantello muscoso», o «il muschio» stesso261. Più chiaramente, qui, l’interesse per il paesaggio geologico si sviluppa, da un’attenzione ancor quasi esclusivamente rivolta al suo rilievo altimetrico od alla sua più grossolana conformazione, nel senso di una considerazione più minuta e profonda della natura del suolo («zolla») anche in rapporto con la qualità del mantello vegetale che lo ricopre («gazon», «muschio»), nel pascolo, nel prato, nella foresta. È difficile dire, in questo caso, in che misura l’evoluzione semantica ora rilevata fosse già avanzata o compiuta in fase prelatina, e in che misura, invece, si sia affermata solo in fase latina o romanza. La larghissima diffusione, e la distribuzione areale stessa, dei vari valori semantici di questa base mediterranea, farebbe piuttosto propendere per la prima ipotesi, con un riferimento dell’evoluzione ad età assai remote; per una voce come landa, comunque, un’evoluzione semantica analoga, con un nesso già chiaro tra la natura del terreno ed il tipo della formazione vegetale per essa caratteristico, sembra risalire almeno a una fase celtica, e probabilmente oltre. E il fatto non ci può meravigliare, quando vediamo i dati archeologici documentarci in area ligure, già per il neolitico, tipi di occupazione del suolo che comportano necessariamente, per quelle popolazioni, una considerazione ormai ben attenta non solo del suo rilievo altimetrico, ma anche della sua natura e struttura più intima. Ma senza diffonderci qui su questo aspetto della questione, sul quale dovremo tornare, appunto, a proposito delle forme dell’occupazione del suolo, delle attività agricole e degli insediamenti, basti ricordare ancora che della struttura fisicochimica del suolo, e dell’attenzione che ad essa dovettero rivolgere le popolazioni della Liguria già in età anteriore alla conquista romana, i dati ed i relitti linguistici ci offrono una documentazione anche più precisa di (quella offerta dalle basi mediterranee sinora menzionate. Oltre alla caratterizzazione dei terreni schistosi, più o meno ricoperti di una cotica erbosa o muscosa, troviamo così, nella più antica nomenclatura mediterranea di area occidentale, vari termini che si riferiscono al terreno argilloso. Una delle basi più diffuse, a significare questo tipo di terreno, è quella che si ritrova nello spagn. portog. barro, provenz. bard, bart = «argilla, fango» (con un’alternanza rr/rd ben documentata nel fondo iberico), e che è stata largamente produttiva anche in epoca latina e romanza262, per i derivati di questa base, il valore semantico sembra riferirsi alle qualità plastiche delle terre argillose, 261 Nota mancante. 262 Nota mancante. 125
utilizzate dalle epoche più remote, in area ibero-ligure, e per la confezione di rozze ceramiche, e per la costruzione di intonachi di capanne o delle capanne stesse, per altre basi, pure riferite alle terre argillose e fangose, il valore semantico dei derivati sembra invece piuttosto da riportare all’impaccio che, in determinate condizioni, questo tipo di terreno doveva rappresentare per le popolazioni primitive: in basi liguri o celto-liguri come palta = «fango»263, bratta = «fango, sporcizia»264, «balco» = «argilla secca»265, braco = «fango di pozzanghera, pozzanghera»266, baua = «fango, sporcizia»267, lata = «fango»268, ligita = «fango, mota»269, bormo/borbo (borvo) = «fango, fango ribollente»270, tutte largamente produttive nella toponomastica o nel lessico romanzo di area ligure, è questo valore, appunto, che sembra dominare: sicché le voci da esse derivate si confondono, sovente, con quelle derivate da altre basi il cui valore originario è evidentemente quello di «palude» ecc. Per alcune almeno delle basi qui elencate (come per palta, ad esempio), la larghissima diffusione dei derivati, e la loro distribuzione areale, sembra indicare un’appartenenza al più antico fondo linguistico preindoeuropeo della Liguria. L’ostacolo del fango e della palude dové dalle epoche più remote attirar l’attenzione di popolazioni quali erano quelle della Pianura padana o della regione costiera della Provenza, per le quali i terreni argillosi, fangosi o paludosi, erano di volta in volta aiuto alla difesa, o impaccio alla marcia e all’offesa. Quale che sia l’opinione che si voglia ritenere per l’appartenenza etnica degli abitanti delle palafitte e delle terramare settentrionali, è certo che, fin dal neolitico, popolazioni dell’area occupata dai Liguri in età protostorica e storica conobbero insediamenti relativamente stabili in terre fangose e paludose, nelle quali argilla e fango dovettero essere, ancor prima che materia di una tecnica ceramica o costruttiva o agricola, un’esperienza quotidiana, alla quale non dovettero essere estranee, d’altronde, neanche le popolazioni alpine che, sui ripiani montani, ricercavano sovente, forse, proprio ed anche un rifugio contro l’impaccio del cammino in fondi-valle, che le piogge o lo sgelo trasformavano in pantani impraticabili.
263 Nota mancante. 264 Nota mancante. 265 Nota mancante. 266 Nota mancante. 267 Nota mancante. 268 Nota mancante. 269 Nota mancante. 270 Nota mancante. 126
Non manca tuttavia, nel fondo linguistico prelatino dell’area celto-ligure, la documentazione di voci che, mentre si riferiscono sempre a terreni di tipo argilloso, significano senza dubbio un interesse per questi suoli tenaci, che nasce già da un preciso orientamento verso attività agricole. Nel libro XVII della sua Storia Naturale, Plinio (XVII, 4) ci dà un’importante documentazione della minuziosa nomenclatura che, nella Gallia del suo tempo, era usata a designare le varie qualità di terre marnose, già largamente adoperate nell’agricoltura di quelle regioni ai fini dell’ammendamento dei pascoli e dei seminativi. Egli stesso ci dice che questa nomenclatura si è venuta man mano affinando: sicché, dalla distinzione di due sole qualità di marne, si era ormai passati, al suo tempo, ad una terminologia e ad un uso agricolo assai più differenziato di questi ammendamenti. È certo, comunque, che un’esperienza così maturata, come quella che appare dalla esposizione di Plinio, non poteva non risalire ad epoche di parecchio anteriori alla conquista romana, e ad una tradizione indigena, che si allarga fin nei territori celtici della Britannia. Certo preromana, e diffusa per tutta l’area celtica, appare la terminologia dei terreni marnosi, tramandataci da Plinio: a cominciare dalla voce marga = «marna», che col suo derivato margila ha dato 1’ant. ital. catal. spagn. portog. marga, l’ant. franc. marle, franc. merid. marlo, franc. marne (da cui l’ital. marna) = «marna». Ma anche nella specifica delle varie qualità di marna, i termini attestatici da Plinio ci mostrano che l’attenzione minuziosa alle qualità dei terreni marnosi doveva risalire ad un’epoca anteriore alla romanizzazione linguistica della Gallia, già assai avanzata al tempo in cui l’Autore latino scriveva. Termini come acaunomarga = «marna rossa, mista di sassi e sabbia», come glissomarga = «marna bianca e grassa», eglecopala = «marna colombina» (schistosa quando ha subito 1’effetto degli agenti atmosferici, ma «lapidum modo» appena cavata) sembrano rivelarci, nella loro composizione, dati di un fondo linguistico, non solo e certo prelatino, ma anche probabilmente, almeno in parte, preceltico, probabilmente ligure271. A un fondo 271 Per i termini che qui entrano in composizione con marga il Dottin ed il WaldeHoffmann riferiscono 1’acauno di acaunomarga = «marna pietrosa», al gall. agaunus = «saxum, petra», attestato in fase galloromana negli Acta Sanctorum, che vien connesso con 1’ant. indiano aśman = «pietra», col greco ἀκόνη, lat. acona = «pietra da affilare» ecc. Il glisso (gliso-) di glissomarga vien riportato dal Dauzat e dal Wartburg a una base celtica, da cui l’irl. gel = bianco. Anche il Walde-Hoffmann dà la base per celtica. l’Alessio ha tuttavia, più recentemente, prospettato l’ipotesi di una sua origine preindoeuropea. Cfr. Alessio, Un’oasi linguistica, p. 147. Probabilmente preindoeuropea è comunque l’altra voce tramandataci da Plinio in eglecopala, oscura nella sua prima componente, ma verosimilmente riferibile alla base mediterranea pala nella seconda. La struttura schistosa, lamellare di questa roccia terrosa, attestataci da Plinio, potrebbe facilmente accordarsi coi valori semantici già segnalati per i derivati di questa base. Ricordiamo che a gliso(marga) viene generalmente riportato dagli Autori il franc. glaise, pròvenz. gleza = «argilla». 127
linguistico preceltico sembra d’altronde riportarci anche la designazione generica della «marna», tramandataci da Plinio nella voce marga, che taluno ha creduto di riportare ad una base comune con quella di barga = «terrapieno o capanna di argilla»: sicché la voce gallica finirebbe per ricollegarsi con la base barro = «argilla», già sopra ricordata. In tal caso272 non appare impossibile che i derivati della base, usati in fase mediterranea, paleoligure, a designare il terreno argilloso e marnoso particolarmente nelle sue qualità plastiche (applicate nelle ceramiche e nelle costruzioni dai tempi più antichi), abbiano poi visto il loro valore semantico volto a specificarne qualità ed applicazioni agricolo-pastorali, che venivano acquistando un’importanza preminente in fase ligure e celtica indoeuropea. Ma checché sia di queste possibilità, che qui prospettiamo, è caratteristico il fatto che, anche in fase celtica, una terminologia così minuziosa delle varie qualità di terreno agricolo ci sia documentata, piuttosto che per i terreni argillosi veri e propri, per terreni marnosi: nella cui varia composizione, la tenacia e le altre qualità, negative dal punto di vista di un cultura primitiva, vengono attenuate e corrette dalla frammistione all’argila di altri componenti, calcarei, silicei, o detritici più grossolani. Ancor più: la menzione, che Plinio fa, di questa terminologia della marna, è proprio legata all’uso – ancora particolarmente frequente in area celtica – della marna stessa, come correttivo dei terreni argillosi più puri e più tenaci, che offrivano difficoltà particolarmente grevi Per le qualità agricole delle marne in area ligure, cfr. Plinio XVII., 3: che contrappone la produttività della vite in terre cretose a argillose di Alba Pompeia (Alba, in Piemonte) a quella di terre anche più pingui; «Cretam in Albensium Pompeianorum agro, et argillam, cunctis ad vineas generibus anteponunt, quamquam praepingues, quod excipitur in eo genere». Si tratta qui di marne cretose; e questa distinzione già più sottile, corrente in quest’area ligure al tempo di Plinio, può sembrare in contrasto con quanto più avanti rileviamo, a proposito di una certa grossolanità nell’analisi di quelle popolazioni, per quanto riguarda la natura chimica del terreno. Ma a parte il fatto che si tratta, qui, appunto, di terre marnose, per le quali la caratterizzazione, come abbiam già rilevato, era invece ben chiara, bisogna notare che in questa zona, già all’epoca di Plinio, la cultura della vite aveva un carattere nettamente mercantile. Non si tratta qui della quantità del prodotto, che più interessa le popolazioni primitive (e che è certo maggiore nelle terre più pingui), bensì della sua qualità commerciale, che è appunto migliore nelle terre marnose. In queste condizioni, e in quest’epoca più tarda, e fuor di dubbio che, anche nelle parti più avanzate dell’area ligure, l’attenzione rivolta alla natura chimica del terreno dovesse essere ormai abbastanza precisa. 272 Cfr. in proposito DEI, s. v. barga. La voce barga, attestata nella toponomastica mediterranea occidentale e da relitti lessicali in area alpina e gallo-ligure nel sopraselvano bargùn = «capanna alpina», engadin. margùn = idem, spagn. portogh. barga = «capanna di paglia», ecc., viene riportata dal Battisti e dall’Alessio ad una base mediternane barga = «terrapieno di argilla, argine», e significherebbe pertanto in origine «capanna di argilla». Di qui anche il riferimento a marga = «argilla». Una formante in gutturale -ga è attestata abbastanza largamente nel sostrato e non è escluso perciò che, da una base marr/barr = «argilla», il gallico (ligure?) marga = «argilla» sia legato con l’iberico barro = «argilla». 128
alla cultura, anche al tempo di Plinio stesso. «Operi difficillimas, quaeque rastros ac vomeres ingentibus glebis onerent», egli qualifica i terreni argillosi veri e propri, rilevando icasticamente le caratteristiche di lavorazione: l’aderenza di grosse zolle agli strumenti di lavoro. Non sfugge, all’Autore latino, che, tuttavia, «non quod operi, hoc et fructui sit adversum» (Plinio XVII, 3): alla difficoltà delle operazioni culturali, in questi terreni pesanti, corrisponde sovente una notevole fertilità, che un’agricoltura più progredita e dotata di strumenti di lavoro più perfezionati spesso ricerca, anche nella Gallia romana. Ma in uno stadio più arretrato di sviluppo agricolo, l’abbiamo già detto, per questo e per altri motivi, non è la fertilità del terreno, bensì la facilità della liberazione del terreno dalla sua vegetazione naturale, e la facilità della lavorazione con strumenti primitivi, che decide generalmente della scelta del terreno da mettere a cultura: sicché vediamo quasi sempre i terreni più sciolti, magari sassosi e anche assai magri, ma più facili alla cultura col bidente, preferiti a quelli argillosi puri, più fertili, ma di più difficile lavorazione, più soggetti – nelle bassure in cui i detriti più fini si sono depositati – all’inondazione a all’impantanamento, o all’invasione di una flora spontanea, della quale una tecnica primitiva non è in grado di dominare le capacità di soffocamento. Ancora una volta, così, il passo di Poseidonio, citato al principio di questo capitolo, ci si conferma come un documento particolarmente penetrante nella caratterizzazione della vita, delle “opere e dei giorni” dei Liguri del suo tempo: la γῆ τραχεῖα, che quelle popolazioni lavorano, «quasi cavassero pietre», non è solo un dato geologico o geografico, ci appare come un vero e proprio paesaggio d’elezione dei Liguri antichi, per il loro rifugio come per il loro lavoro. Sull’argomento dovremo ancora ritornare, quando affronteremo la ricerca degli orientamenti delle attività agricole di quelle antiche popolazioni: ma fin d’ora, la documentazione di questa nomenclatura dei terreni ci dà un’indicazione importante sul senso, nel quale dovremo dirigere le nostre ricerche. Non ci soffermeremo, per contro, in questa prima scorsa, su di un’altro settore della nomenclatura dei terreni, qual’è quello relativo ai terreni incolti, e alle formazioni vegetali che eventualmente li caratterizzano. Di questa nomenclatura, dei cui relitti apparirà più avanti la grande importanza, parleremo rispettivamente a proposito dell’agricoltura e della lavorazione del terreno, o quando tratteremo, nel prossimo capitolo, delle formazioni vegetali caratteristiche per il territorio in esame. È chiaro, pensiamo, che proprio e solo in quel contesto lo studio di questa nomenclatura può assumere tutto il giusto e necessario rilievo: perché solo in rapporto con la lavorazione del terreno, divenuta attività normale di una parte importante della popolazione, nasce l’esigenza più viva di una terminologia speciale, destinata a designare quei terreni che, permanentemente o temporaneamente (maggesi ecc.) vengono abbandonati alla vegetazione spontanea; mentre d’altra parte, solo una considerazione complessiva del paesaggio vegetale, della sua 129
evoluzione e della sua degradazione, ci permetterà di collocare nel loro giusto quadro le formazioni vegetali legate a determinati tipi di terreno, caratteristiche per l’area in esame. Senza soffermarci, pertanto, alla considerazione di altri tipi di terreno, ricorderemo soltanto ancora, di sfuggita, che di una nomenclatura specifica preromana dei terreni calcarei e silicei, nell’area ligure, non si trovano tracce molto evidenti. Questo non significa, si badi bene, uno scarso interesse di quelle popolazioni per queste formazioni: al contrario, altipiani calcarei e terreni silicei a struttura più grossolana appaiono fra quelli preferiti dalle tribù liguri fin dalle epoche più remote, per la loro occupazione come per i loro insediamenti. Ma l’attenzione sembra qui essere stata rivolta, piuttosto che alla natura chimica del terreno, alla sua struttura fisica: ciottoli e ghiaie, silicee o calcaree che fossero, terreni pietrosi o conglomerati vari, offrivano alle popolazioni della Liguria primitiva, indipendentemente dalla loro natura chimica, suoli sciolti e naturalmente drenati, non ingombri da una vegetazione soffocante, adatti ai lunghi percorsi dei pastori come alle prime culture agrarie; mentre la natura chimica del suolo assume, per queste formazioni, un interesse dominante solo in stadi più avanzati dell’evoluzione agricola, con l’esigenza tecnico-economica di una più elevata produttività, che matura solo con l’affermarsi di uno sviluppo mercantile dell’agricoltura; o in rapporto, anche, con lo sviluppo di tecniche della costruzione (fabbricazione della calce) o del vetro, che richiedono una elementare analisi delle qualità chimiche delle terre, ma che erano ancora in uno stato appena embrionale nella Liguria preromana. La nomenclatura dei terreni e delle formazioni calcaree e silicee (all’infuori di quella delle marne) s’identifica, praticamente, con quella generica della roccia della pietra, del sasso, senza che in essa si introducano, in fase ligure, elementi di differenziazione fondata sulle qualità chimiche, mentre appare minuziosissima quella fondata sulle differenze di struttura fisica. Considerazioni in parte analoghe valgono per i suoli sabbiosi e per le formazioni di arenarie: i relitti mediterranei di questa nomenclatura, che si è creduto da taluni ritrovare nel latino provinciale o nelle parlate romanze, sembrano comunque da riportare alle tecniche minerarie di irradiazione iberica, come per il pliniano balux e il balluca dei glossarî273 o a quelle marinare, come per il (pre)latino saburra = «zavorra»274, piuttosto che ad interessi agricolo-pastorali. Appare evidente, invece, nel testo pliniano già citato a proposito delle marne, una già matura attenzione alla colorazione del terreno agrario, come elemento importante della sua analisi organolettica. Il testo si riferisce, certo, ad un’epoca in cui la romanizzazione dell’area ligure e celtica è già assai avanzata: ma la sua minuzia, a proposito del 273 Nota mancante. 274 Nota mancante. 130
rapporto tra colorazione del terreno e sue attitudini agrarie nell’area celtica, sembra riferirsi piuttosto a tradizioni indigene che ad elaborazioni dell’arte agraria romana. Non sfugge a Plinio comunque, nei primi capitoli del suo XVII libro, il rapporto tra colorazione degli strati superficiali del terreno, azione di dilavamento delle acque, processo di umificazione, che è alla base delle moderne ricerche di pedologia275: l’analisi e la terminologia non hanno, beninteso, la precisione dì questa, ma non si può neppur dire che la considerazione del colore del terreno sia ormai solo superficiale, e distaccata da quella del processo che la determina. Non può meravigliare, d’altronde, che in condizioni climatiche quali son quelle dell’area ligure, e padana in particolare, alle popolazioni sia occorso, fin da epoche assai remote, di rilevare il nesso che viene a stabilirsi, nell’evoluzione del terreno agrario, fra struttura fisica, azione di dilavamento, processi di umificazione e colorazione: e il fatto che, ai vari tipi di «terre rosse» o «terre brune» ecc. (come ancor oggi le chiama la moderna scienza pedologica), corrispondano generalmente determinati tipi di formazioni vegetali spontanee, ha senza dubbio contribuito ad attrarre, fin da epoche assai remote, l’attenzione delle popolazioni primitive su questa più appariscente tipologia dei terreni. È notevole, così, il fatto che, per un “tipo”(nel senso che a questo termine dà la moderna scienza pedologica) di terreno, caratteristico per la Valpadana, dal Piemonte alla Lombardia al Veneto – per quello che oggi si chiama il «ferretto» o il «terreno ferrettizzato» – le parlate della Bassa Valpadana abbiano conservato una designazione come caranto, che certamente va riferita al fondo linguistico mediterraneo, e posta in rapporto con la base carra = «pietra»276 E la vitalità di una così antica designazione non stupisce, quando si pensi che questo tipo di terreno si presenta più sovente rivestito dal mantello vegetale della brughiera, uno dei più caratteristici per l’area in esame. Ma qui, con la menzione della base mediterranea carra, alla quale più volte abbiam già dovuto far riferimento nei paragrafi precedenti, siamo riportati, di nuovo, alla considerazione di quel particolare rilievo che il paesaggio del sasso e della pietra assume nell’area ligure. Nel paragrafo che segue, c’intratterremo più specialmente su questa nomenclatura, dalla cui importanza abbiamo tratto lo spunto per questa parte della nostra indagine, fin dal principio di questo capitolo. E qui ci troveremo di fronte a dati linguistici ed archeologici, che ci permetteranno di allargare e di approfondire il quadro della nostra ricerca in settori ancora inesplorati, sui quali la metodologia marxista apre nuovi e promettenti orizzonti.
275 Nota mancante. 276 Nota mancante. 131
7. La terra, la pietra, la storia Non è un caso che, nelle ricerche linguistiche rivolte all’approfondimento dei problemi del sostrato mediterraneo, lo sforzo d’identificazione della nomenclatura del sasso e della pietra abbia avuto ed abbia una parte di primo piano. Si suole invocare, a spiegazione di questo fatto, lo spiccato conservativismo di questi ed altri consimili termini glebani: e non vogliamo certo negare – lo abbiamo ricordato in principio di questo capitolo – che, in determinate condizioni storiche, questo corservativismo contribuisca in larga misura ad offrire agli studiosi una messe specialmente ricca di relitti linguistici relativi alla nomenclatura glebana. Ma, a chi ben consideri, non può sfuggire il fatto che l’importanza, assunta dalla nomenclatura della roccia, del sasso, della pietra, in questo settore della linguistica, ha motivi assai più generali e più profondi, connessi alla natura stessa di processi, decisivi per 1’evoluzione del linguaggio. La realtà è, che questa preminenza della nomenclatura della roccia, del sasso, della pietra, nelle ricerche sul sostrato, non saprebbe nemmeno esser motivata, come fa ad esempio il Dauzat277, con delle argomentazioni relative alle opportunità tecniche della ricerca stessa. Non può considerarsi come un caso che proprio questa nomenclatura (a differenza, ad esempio, di quella degli idronimi, come giustamente rileva il Dauzat) offra una documentazione particolarmente ricca, e particolari opportunità tecniche, agli studiosi dei problemi del sostrato. Non è un caso – in questo, come in ogni altro settore della storia – che proprio determinati fatti siano più riccamente e più evidentemente documentati. Qui, come nel complesso del processo storico e storiografico, finiscono sempre per essere documentati, in ultima analisi, proprio quei dati che nel processo stesso rappresentano ciò che in esso vi è di essenziale, di decisivo; quei dati che, perché essenziali, perché decisivi, son capaci di lasciare di sé più larga e chiara traccia nella continuità del processo storico. Non si tratta, d’altronde, per quanto concerne questa asserita preminenza; della nomenclatura della roccia, del sasso e della pietra, di una semplice preminenza quantitativa di relitti studiati, che potrebb’essere ancora fittizia e casuale. Già nel corso di questo capitolo, e meglio nei capitoli seguenti abbiamo avuto ed avremo 277 In una sua rassegna storica delle ricerche sul sostrato il Dauzat, Topon. franç., p. 74, mentre rileva e considera come un fatto positivo la preminenza che le ricerche sulla nomenclatura del monte, della roccia e della pietra son venute assumendo (specie per merito della scuola italiana) negli studi sul fondo linguistico mediterraneo, riferisce questa preminenza alla relativa facilità della fissazione di un più preciso valore semantico per i relitti di questa nomenclatura, in confronto di ciò che avviene, ad esempio, per i relitti della nomenclatura idronimica. Il giudizio del Dauzat appare senza dubbio, in sé stesso, pertinente; ma non tocca quello che in realtà è il fondo della questione; perché la nomenclatura preminente offre questa maggiore evidenza alla ricerca linguistica. 132
occasione di rilevare che questa preminenza ha un carattere non solo numerico, quantitativo, ma – diciamo così – genetico, stadiale. Quando, nella nomenclatura del paesaggio vegetale come in quella del paesaggio agricolo o pastorale, e fino in quella di una elementare civiltà urbana, ritroveremo termini che – come abbiamo già accennato per i derivati della base marra – vanno riportati a una base che ha un evidente valore semantico geomorfico, la preminenza della nomenclatura della terra, del monte, del sasso, della roccia, acquista per noi un rilievo più chiaro: esige un’interpretazione, che deve trovare il suo nesso con le condizioni generali ed essenziali di vita di quella antica umanità. Nell’area ligure, certo, il relativo attardarsi delle popolazioni in fasi di cultura più stazionarie, fin quasi alla vigilia della conquista romana, ci permette di approfondire il fenomeno con una documentazione particolarmente larga. Ma ciò non significa ch’esso non si manifesti anche fuori dell’area in esame, con aspetti ben più universali. Per l’umanità primitiva, rilevava già Marx278, la terra «così com’è l’originaria cambusa, è anche l’originario arsenale dei suoi strumenti di lavoro». Già questa considerazione basta a porre nel giusto rilievo 1’importanza (per noi difficilmente sensibile) che – in un mondo appena scalfito dalle presenze e dalle attività umane – doveva assumere tutto quanto concerne il paesaggio naturale in genere, e quello geologico e geomorfico in ispecie. Ma sin qui, la considerazione di questo paesaggio (e dei suoi riflessi nella nomenclatura) appare ancora, per così dire, indifferenziata, proiettata su di un unico piano, sul quale l’interesse e la terminologia geomorfica potrebbe iscriversi accanto a quella degli idronimi o dei fitonimi, a pari diritto e con pari rilievo. Ancor più: l’interesse per il passaggio vegetale o per la fauna, che offrono a quella antica umanità i mezzi di sussistenza più indispensabili, sembrerebbe doversi esprimere, semmai, in una preminenza della nomenclatura relativa rispetto a quella geomorfica o geologica. Chi si abbandonasse a queste deduzioni, dimenticherebbe un dato essenziale del problema, che investe la natura e l’evoluzione stessa del pensiero e del linguaggio umano. «La coscienza umana non riflette soltanto ma crea un mondo obiettivo»279. La infinita potenza, mediatrice di questa concreta creatività, è il lavoro: «un processo – come ha scritto Marx280 – tra 1’uomo e la Natura, nel quale l’uomo media, regola e controlla il suo ricambio materiale con la Natura stessa». In questo processo, l’uomo «non opera semplicemente una trasformazione di ciò che è in Natura; egli realizza, al tempo stesso, nella Natura, il suo fine che egli sa: che determina, a guisa di una
278 Marx, Das Kapital, I Band, V, 1. 279 Lenin, Filosofskie tetradi, p. 203. 280 Nota mancante. 133
legge, il modo del suo operare, e al quale egli deve subordinare il proprio volere»281. In questo processo creativo, che media i loro rapporti con la Natura, gli uomini associati son venuti e vengono elaborando la loro coscienza e il loro linguaggio, in un’unità dialettica della parola e del pensiero che, ancora una volta, il lavoro ed i rapporti di produzione tra gli uomini intervengono sempre di nuovo a mediare; mentre, a quella subordinazione alla legge del lavoro, di cui Marx parla – che è la legge dell’attività, della creatività umana – l’evoluzione stessa della coscienza e del linguaggio non saprebbe sfuggire, senza che gli uomini rinunziassero alla propria umanità. Per questo, anche la considerazione del problema che qui ci occupa resterebbe priva della sua giusta prospettiva, se i rapporti di quella primitiva umanità con la Natura noi li proiettassimo su di uno schermo piatto e uniforme, senza dare il giusto rilievo a quelle figure, che la legge del lavoro colloca al primo piano, anche e proprio per quanto concerne l’espressione linguistica. Proprio perché, come scrive Lenin, «la coscienza umana non riflette soltanto, ma crea un mondo obiettivo»; proprio per questo l’accento dell’espressione linguistica, il suo rilievo maggiore, si ritrova non tanto in un passivo riflesso della realtà ambiente, o magari degli appetiti del soggetto pensante e parlante (“il frutto” o “la radice” commestibile ecc.); bensì in un interesse attivo, in un riflesso operante, accentrato attorno al lavoro e allo strumento del lavoro; che è d’altronde – come giustamente rileva Marx – il più immediato oggetto d’interesse umano. Quando si prescinda da forme primitive e pure di una economia di raccolto, di una umanità ancora tutta animale «l’oggetto, del quale immediatamente il lavoratore si impossessa, non è 1’oggetto, bensì lo strumento di lavoro. Ciò che che si trova in Natura diviene così un organo della sua attività, un organo che egli viene ad aggiungere ai propri organi corporei: che prolunga, a dispetto della Bibbia, la sua struttura naturale. La terra, così com’è la sua originaria cambusa, è anche il suo originario arsenale di strumenti di lavoro. Essa gli fornisce ad esempio la pietra, ch’egli usa per scagliarla, per sfregare, per premere, per tagliare ecc. La terra stessa è un mezzo di lavoro: ma presuppone a sua volta, per poter servire come tale nell’agricoltura, tutta un’altra serie di strumenti, ed uno sviluppo relativamente avanzato della forze di lavoro. Non appena il processo lavorativo ha raggiunto un certo grado di sviluppo, esso richiede già, d’altronde, strumenti di lavoro già lavorati. Nelle più antiche dimore cavernicole troviamo così già strumenti ed armi di pietra [...]»282. In questo brano, con una particolare evidenza, Marx tocca la sostanza del problema che qui ci occupa; e quando si tenga presente il brano che segue, già citato alla nota 18 di questo capitolo, in cui Marx più particolarmente designa «gli strumenti di lavoro meccanici» come «il sistema osseo e muscolare» della produzione, al rilievo che la nomenclatura della roccia, 281 Nota mancante. 282 Nota mancante. 134
del sasso, della pietra assume nei relitti delle antiche parlate mediterranee si troverà facilmente una motivazione, che non sarà più solo quella della «conservatività delle voci glebane» o quella della opportunità e facilità delle ricerche, ma risulterà intrinseca al processo storico stesso , che a quella nomenclatura ha dato un particolare rilievo nel linguaggio di quelle antiche popolazioni; e per questo, in primo luogo, ne ha assicurato la persistente vitalità, permettendole di affermarsi anche attraverso la vicende della romanizzazione. Solo questo accento espressivo e questo peso prevalente, che in ogni linguaggio si attribuisce alla nomenclatura del lavoro e degli strumenti di lavoro, può d’altra parte spiegarci come, nelle successive fasi dell’evoluzione stadiale, sempre di nuovo, dei termini usati dapprima con valori semantici relativi alla nomenclatura della roccia e della pietra vengano convertiti a significare la pianta o 1’animale o lo strumento o l’aggregato, che di volta in volta attrae attorno a sé l’attenzione di un’umanità, che è passata a nuove forme di attività produttiva, all’uso di nuovi strumenti e di nuovi metodi di lavoro. Nel seguito di questo studio verremo allargando la documentazione di questo nostro orientamento di ricerca; del quale non mancano, del resto, accenni nei lavori della scuola italiana283. Le esigenze di una tale documentazione richiedono, lo sappiamo bene, la collaborazione di specialisti delle più varie discipline; e non presumiamo qui, naturalmente, che di dare un saggio di questo orientamento di ricerche, nei limiti e nel quadro di un ambiente particolare, quale è quello della Liguria preromana. Ci limiteremo del resto, in questo capitolo, ad una rassegna specialmente quantitativa dei relitti di questa nomenclatura nell’area che ci interessa; mentre, per quanto riguarda i problemi dello sviluppo stadiale, verremo esponendo la nostra documentazione e le nostre argomentazioni nei capitoli seguenti, man mano che l’occasione se ne verrà presentando, a proposito delle nostre ricerche sul paesaggio vegetale, sulle attività pastorali, agricole ed altre, delle popolazioni liguri. Tra le basi mediterranee più largamente attestate, la base lapa/laba/laua è di quelle che meglio si prestano all’illustrazione degli orientamenti da noi qui accennati. Col valore semantico di «pietra, roccia», e con un’alternanza consonantica che è ampiamente documentata nel sostrato, i derivati dì questa base sono diffusi per tutta l’area mediterranea: dal latino lapis = «pietra», al greco λέπας = «roccia, rupe, monte», al portoghese lapa = «grotta, pietra piatta». In area ligure, sono particolarmente diffusi i derivati da una forme alternante laua, che si ritrova nel (pre)greco λᾶϑας = «pietra, sasso, roccia». Così il provenz. lavo = «pietra piatta, lastra di pietra», e probabilmente (con una formante documentata nel sostrato) il toponimo di Lavagna, nota sin dall’antichità per le sue ardesie, le «pietre piatte» largamente usate in tutta la Liguria per la copertura delle case. A questa forma laua della base mediterranea in esame sembra vadano collegati il greco e poi latino 283 Nota mancante. 135
lautumiae = lapicidinae, «cave di pietre», nonché il (pre)greco λαὑρα = «cammino stretto, tagliato nella roccia»; e particolarmente, nell’area. che più da vicino ci interessa, la base lausa = «pietra piatta, lastra di pietra, terreno schistoso», già esaminata alla nota 259 di questo capitolo, e i cui numerosi derivati nel lessico romanzo, per tutta l’area ibero-ligure, si ricollegano, per la loro forma come per il loro valore semantico, al provenz. lavo = «pietra piatta, lastra di pietra»284. Sulla particolare vitalità dei derivati di questa base nell’area ligure ha senza dubbio largamente influito, per quanto riguarda le fasi relativamente più recenti, il largo uso che delle “pietre piatte” si è fatto e si fa nelle costruzioni, e per gli usi tecnici più svariati. Questi impieghi dslla “pietra piatta” sono d’altronde archeologicamente attestati fin dall’epoca della conquista romana; ma non esauriscono, probabilmente, la motivazione del rilievo che la base lapa/laba/laua sembra aver avuto sin dalle epoche più remote nel sostrato linguistico mediterraneo. Non può non colpire, ad esempio, un raccostamento come quello del provenz. lausié = «cava di pietre piatte», con lausié (laurié) = «alloro»; e non è mancato chi, come l’Alessio, alla base laua (lausa) = «pietra» ha riportato il (pre)latino laurus = «alloro», la pianta caratteristica dei terreni aridi e sassosi sui quali domina la tipica associazione vegetale mediterranea del lauretum285. Evoluzioni semantiche come quella qui affacciata dall’Alessio non sono senza numerosi riscontri nel sostrato mediterraneo. Abbiamo già accennato al loro carattere stadiale, e più sovente avremo occasione di tornare sull’argomento nel capitolo seguente. Il rapporto fra fitonimi e termini della nomenclatura del terreno, della roccia e della pietra, come quello or ora prospettato, potrebbe, certo – quando si considerasse isolatamente ogni singolo caso – apparire insufficientemente documentato; ma quando, come ormai avviene grazie all’opera di numerosi ricercatori, questo rapporto viene prospettato ed appare possibile nei casi più svariati, il suo grado di probabilità – diremmo – di evidenza, si viene senza dubbio affermando come una delle più importanti conquiste della linguistica storica. Né, d’altronde, nel caso dei derivati della base in esame, l’evoluzione semantica stadiale si arresta ai fitonimi. La maggior parte dei ricercatori sono oggi concordi nel riferire a questa base una serie di voci, relative ad una delle specie che, come vedremo più avanti, è tra le più caratteristiche dell’antica fauna mediterranea in area ibero-ligure; il coniglio. Alla forma lapa vengono riportati il portog. láparo, transmontano lapouço, provenz. lapareu, franc. lapareau, lapin = «coniglio». Il nesso semantico sembra da ricercare in un collettivo geomorfico con formante in -ar (cfr. la nota al n. 248 di questo capitolo), col valore del portoghese láparo (lapado) = «terreno cavernoso, tane di conigli». Ancora una volta, come per i 284 Nota mancante. 285 Nota mancante. 136
fitonimi, ci troveremmo di fronte al fatto caratteristico dell’identificazione della specie animale o vegetale con il terreno al quale essa imprime la sua fisionomia. Questo tipo di evoluzione semantica è confermato da analoghi derivati dell’altra, forma della base mediterranea in esame, lana. Plinio ci attesta, per il dominio iberico (ibero-ligure?) delle Baleari una voce indigena laurex = «coniglio appena nato» (Plinio VIII, 81), cui fa riscontro il portog. loura = «tana di coniglio», lorga = «buco, in cui trasuda acqua», transmontano lorga, aragonese lorca = «tana di coniglio»; catalano llodrigo, portogh. lourgão = «grosso ratto», aragon. llorigada, franc. merid. ourigado (quest’ultimo termine importato, probabilmente, in epoca romanza, come appare dalla caduta dell’iniziale) = «nidiata di conigli». Anche dalla terza forma, nella quale la base in esame si presenta, d’altronde, da laba (leba), troviamo documentata, da epoca assai antica, un derivato che presenta la identica evoluzione semantica. Eroziano ci attesta, secondo il grammatico Polesarco, per il greco di Marsiglia, la voce λεβνείς = «coniglio», cui fa riscontro il siculo λέπορις (cfr. Varrone: L.L.,V, 101) ed il latino lepus, -oris = «lepre». È chiaro che ci troviamo, qui, per tutti i derivati delle varie forme di questa base mediterranea, di fronte ad una comune evoluzione semantica: alla quale si riporta, d’altronde, anche l’origine dell’altra denominazione del coniglio = cuniculus, che ha la doppia accezione di «cunicolo» e di «coniglio». Anche a questa denominazione, che ha il suo centro di diffusione nell’antica Iberia, il Bertoldi ha trovato un più preciso riferimento, oltre che nell’iberico cuniculum = «galleria di miniera», nelle base ibero-libica cuni/goni = «collina», dalla quale i toponimi libici in gonion il berbero aguni ed il basco kui = «collina»286. Fin qui ci troviamo, comunque, di fronte ad evoluzioni semantiche che rientrano in un quadro già accennato in altra occasione, e che non sottolinea particolarmente la funzione della pietra, come strumento di lavoro delle popolazioni mediterranee in genere, e di quelle liguri in ispecie. Come derivati dalla base in esame, riferiti a fitonimi e zoonimi, avremo occasione di citare numerose altre voci, nei capitoli seguenti di questo studio287. Per questi derivati, vogliamo qui ricordarne soltanto uno, di diffusione, e probabilmente di origine, tipicamente ligure, come appare dalla sua formante: vogliam dire di labrusca = «vite selvatica» (attestato anche nella forma lambrusca, con una nasalizzazione frequente nelle voci del sostrato). Questa voce, che ha trovato una larga fortuna nel latino e poi nell’italiano, ove ha dato il nome ad uno dei più famosi vini della penisola, sembra da riconnettere senz’altro alla base mediterranea in esame, in una forma ampliata in labr-. L’evoluzione semantica non presenta difficoltà: ancor oggi, il nome scientifico di una delle principali specie di vite è Vitis rupestris: e a chi abbia visitato in area ligure, i famosi 286 Nota mancante. 287 Nota mancante. 137
vigneti delle “Cinque Terre”, nel Massetano, sarà occorso di vedere i coltivatori calarsi giù con le funi dalle rupi, per raccogliere i grappoli dai vitigni che spuntano tra i dirupi altrimenti inaccessibili, lasciando pendere giù dall’erta pietrosa i tralci fruttiferi.Voci come labrusca ci introducono in una società di raccoglitori di frutti spontanei, che poi man mano vengono ridotti a cultura; ma se l’abbiamo citata qui, non è tanto per insistere su questa evoluzione, sulla quale dovremo tornare più avanti, quanto per accennare a quella forma ampliata della base in esame (labr-, da laba, come abbiamo già visto laur- da laua-), che ci apre una più precisa visuale sulla funzione della pietra come strumento di lavoro, e sull’importanza di tale dato di fatto nell’evoluzione del linguaggio, e della coscienza sociale nel suo complesso. Plutarco ci ha tramandato la voce con la quale le popolazioni della Lidia indicavano l’ascia bipenne, oggetto di un culto, largamente diffuso fra le genti mediterranee. Questa voce λάβρυς, che oggi la maggior parte degli Autori considera come derivata dalla forma ampliata labr- della base in esame, si collega col toponimo di Λάβραρδα, la città della Caria ove era adorata una divinità, che i Greci identificarono con Zeus, e che aveva l’ascia bipenne per suo attributo. Non ci diffonderemo qui sulla parte decisiva che l’ascia, e particolarmente la bipenne, ha nel simbolismo e nel culto religioso delle popolazioni mediterranee nell’età del bronzo: basti ricordare che a questo culto era dedicato senza dubbio il palazzo-santuario di Cnosso, a Creta, il λαβύρινϑος, la casa della λάβρυς. Quasi ovunque, per il bacino mediterraneo, il simbolismo dell’ascia appare strettamente legato a quello del nume tauriforme da un lato, a quello del fulmine dall’altro: ancor oggi, come presso i Greci, che chiamavano le ascie di pietra κεραύνια, in varie parlate popolari esse conservano il nome di «pietra del fulmine» o di «pietra del tuono». Ma là dove, nelle antiche società mediterranee, già si pronuncia una divisione in classi ed una affermazione di potere statale, 1’ascia diviene, come presso gli Etruschi e poi presso i Romani, nel fascio littorio, il simbolo del potere; così come, già in proto-hattico, dalla base labr- di λάβρυς sarebbe derivato, (con una oscillazione tl-/t/l- caratteristica nella trascrizione delle lingue micrasianiche) il verbo tabar = «governare», a cui si riferisce il nome del Cesare hittita, Labarna, e dei suoi successori; mentre lo slavo topor = «ascia» andrebbe del pari ricondotto a questa base, attraverso una mediazione micrasianica che spiega l’evoluzione fonetica l-/tl-/t288. Certo e comunque che, prima di divenire, nell’età del bronzo ed oltre, oggetto e simbolo di un culto, distaccato ormai da un suo impiego produttivo, l’ascia è stata, anzitutto, strumento fondamentale di lavoro delle popolazioni neolitiche, e loro arma decisiva; né vi è alcun dubbio che da questa sua funzione di strumento di lavoro e di arma sia nato quel simbolismo sociale e religioso, che ne ha fatto il segno del potere celeste e terreno. Abbian già accennato come, in area ligure, l’ascia 288 Nota mancante. 138
di pietra resti, fino alla vigilia della conquista romana, largamente attestata nell’uso, anche se da secoli, ormai, accanto ad essa è apparsa l’ascia di bronzo e poi quella di ferro, che ne viene riproducendo, del resto, sovente le forme289. Come simbolo cultuale, l’ascia è largamente attestata nelle figurazioni religiose del fondo preceltico (ligure?) in Gallia: qui il suo culto sembra legato, piuttosto che a quello di divinità celesti, come in area egeo-anatolica, a quello di divinità inferne290. In area più propriamente ligure, riti e culti oplolatrici, nei quali sovente appare la figurazione dell’ascia litica e poi dell’alabarda in bronzo, sono largamente attestati nelle famose iscrizioni rupestri di Monte Bego. Non è forse un caso che, come ha rilevato il Lamboglia, tra i pochissimi manufatti sinora ritrovati nella zona di queste incisioni, vi sia una bipenne porfirica, che richiama assai da vicino il culto universalmente tributatole dalle genti mediterranee, e che anche a Monte Bego potrebbe essere stata usata come segno o oggetto di particolari riti. Non sembra, tuttavia, che a Monte Bego si sia giunti ancora ad un astrattismo e ad un formalismo rituale, sul tipo di quello raggiunto nelle più evolute e differenziate civiltà dell’area egeo-anatolica. Qui, la figurazione dell’ascia o dell’alabarda non sembra ancora, generalmente, assurta a simbolo di una divinità o di un potere sociale; essa appare già ancora orientata, semmai, verso riti magici di consacrazione dello strumento o dell’arma, che dal rito debbon trarre un’accresciuta efficacia produttiva o combattiva. Le stesse deformazioni figurative (che portano ad allungare a dismisura, ad esempio, nelle figure, il manico dell’ascia o dell’alabarda) non sembra possano avere altro senso e scopo, che quello di questa accrescenda efficacia, secondo un procedimento ben noto ai riti magici; sicché, nell’evoluzione dell’ascia da strumento di lavoro e da arma, in oggetto di culto e simbolo del potere sociale, le incisioni di Monte Bego sembrano rappresentare una fase appena iniziale, in cui la funzione produttiva e combattiva degli strumenti figurati è ancora ben presente e dominante nella mente di quelle popolazioni. Non sapremmo ritrovare, tra i relitti lessicali in area ligure, attestati dalle fonti antiche o nelle parlate romanze, voci relative all’ascia, che possano ricollegarsi alla base lapa/laba/laua = «pietra». Non è escluso, per contro, che un’evoluzione semantica da «pietra» a «ascia, strumento di lavoro» sia attestata, in quest’area, per un’altra base mediterranea di valore analogo, sulla quale già più volte abbiamo avuto 1’occasione d’intrattenere il lettore; vogliam dire della base marra = «pendio sassoso, mucchio di sassi, sasso» (per cui cfr. nota n. 196). Con il Meyer-Lübke, la maggior parte degli Autori distacca i derivati romanzi di questa base da quelli del latino marra = «zappa», che viene d’altra parta riferito al sumerico mar, egiziano 289 Nota mancante. 290 Nota mancante. 139
mar, accadico marru291. Questa differenziazione fra i derivati delle due basi appare tuttavia sovente arbitraria, sicché avviene che gli Autori riferiscano questa o quella voce romanza all’una o all’altra base. L’indubbio legame del latino marra con le voci egizie e sumero-accadiche di eguale significato ci segnala del resto, già di per sé stesso, l’origine e la larga diffusione mediterranea della base col valore semantico di «zappa». Ma in non pochi derivati romanzi, che il Meyer-Lübke riporta al latino marra, appaiono valori semantici, di cui sarebbe difficile spiegare l’evoluzione, in fase romanza, dalla base latina: così lo spagn. marra = «Steinhammer», portg. mar = «eiserner Schlägel» e, in area ligure, il provenz. marro = «ascia». Voci come queste sembrano accennare ad un possibile legame fra la base mediterranea marra = «pendio sassoso, mucchio di sassi, sasso», e l’altra (anch’essa mediterranea, piuttosto che latina, di fatto) marra = «ascia, martello, zappa»: strumento di in pietra, e per lunghi millenni usato in questa materia, prima di evolvere a strumento metallico. La possibilità e la probabilità di una tale evoluzione semantica troverebbe un parallelo in quella di varie altre basi mediterranee, ad esempio dalla base lata = «pietra», all’albanese lata = «accetta», latój = «digrossare, lisciare, levigare» (che il LEW I, p. 785, s.v. lepidus riferisce alla medesima base del greco λέπω, di cui appresso): senza che, beninteso, sia possibile precisare in che misura, in area ligure, si tratti di evoluzione locale dei valori semantici, e in che misura, invece, si tratti di nuove accezioni della base, importate in epoche più tarde. Il processo logico, comunque, attraverso il quale un’evoluzione semantica come quella qui accennata è possibile, riflette un processo di evoluzione produttiva, che è indubbiamente attestato anche nei suoi aspetti linguistici. Dalla maggior parte degli Autori è oggi ammesso un rapporto, ad esempio, fra il (pre)latino saxum e il latino secare; mentre sembra difficile negare un nesso fra la base mediterranea lata = «pietra» e 1’albanese latój = «lisciare, levigare», cui fanno riscontro, in area ligure, il provenz. lato = «pertica liscia», il ligure medievale latonas, provenz. latù = «tavola di castagno da costruzione» ecc., che il Meyer-Lübke raggruppa come derivati da una base gallica (o germanica) latta. Per la base lapa/laba/laua, così largamente attestate in area ligure, la mediazione tra il valore semantico geomorfico e quello produttivo sembra data, piuttosto che dal motivo della “levigazione” della pietra, da quello del suo “scheggiamento”: che, già per i termini geomorfici, appare evidente, ad esempio, in lausa = «schisto»; e in lausiae = «pietre o scaglie di pietra staccate dalla roccia dal lavoro dei cavatori»; già assume un senso attivo e produttivo, non meno preciso e tecnico, nel greco λαῦρον = miniera d’argento, e λαυστήρ lavoratore delle cave di pietra (e perciò «miserabile»). Ma ancor più chiaro appare questo motivo dello “scheggiare” la pietra (il metodo fondamentale per il suo uso produttivo fin dal paleolitico) nel greco λέπω e nei 291 Nota mancante. 140
suoi derivati, col valore semantico, «scheggiare, squamare». Sembra indubbio che λέπω ed i suoi derivati vadano riferiti (insieme col già citato λέπας = «roccia, rupe, monte») alla base mediterranea lapa: né a questo riferimento potrebbe opporsi, dal nostro punto di vista di una considerazione stadiale degli sviluppi indoeuropei, il fatto che una radice lep si ritrova nel lituano lapas = «foglia», ed in altre voci indoeuropee. Di nuovo, qui, la pietra – con le sue caratteristiche fisiche, con la sua suscettibilità alle operazioni di levigazione o di scheggiamento – non ci appare più come semplice oggetto di una passiva contemplazione, bensì come oggetto e come strumento di una attività umana, che nel lavoro e nello strumento del lavoro anima la pietra, ne fa qualcosa di vivo e di essenziale per la vita sociale e per i rapporti con la Natura: sicché nel linguaggio, in mille forme diverse, questa attività dell’uomo nella pietra e con la pietra si manifesta. E dallo scheggiare e lo squamar della pietra le antiche popolazioni mediterranee denomineranno la lebbra, λέπρα la fatale disquamazione della pelle, e poi lo sbucciar della frutta (λεπίζω) ed altre consimili operazioni; ed alla base stessa di λέπας = «roccia, rupe, monte», si connettono voci come λεπάς = «conchiglia, ostrica», e come λεπαςτή = «boccale, coppa», con un’evoluzione semantica che trova forse riscontro in area ligure per voci come il provenzale cacalauso = «chiocciola», che taluno ha connesso con lausa = «schisto, pietra scagliosa» (cfr. il nesso fra provenz. escalh = «scaglia», e escalhou = «ostrica di cattiva qualità»); mentre infine, dall’altra forma laua della base mediterranea in esame, il greco ha formato ancora la voce λαῖον = «dentale dell’aratro». «Anima la pietra», abbiamo detto, a proposito del lavoro umano, in queste prime età, in cui ancora la pietra non è solo una morta realtà geologica, ma immediato strumento di lavoro che di sé informa tutta la vita, la società, il linguaggio. La pianta e l’animale, i nuovi dati del paesaggio pastorale, agricolo, delle nuove tecniche e dei nuovi aggruppamenti sociali li ritroveremo ancora tutti informati, nelle fasi successive dello sviluppo stadiale, da questa nomenelatura della pietra: che viene di volta in volta assumendo nuovi valori semantici, diversi a seconda dei vari ambienti e delle varie fasi di sviluppo, ma lascia dietro di sé relitti, cristallizzati nell’originaria accezione, che recan testimonianza delle prime tappe, che l’umanità ha percorso nella conquista della Natura, attraverso l’elaborazione dei suoi strumenti di lavoro292. «Anima la pietra», abbiamo detto del lavoro: ed anche tra le antiche popolazioni della Liguria, è probabile che un tale processo ed un tale rapporto tra l’uomo e la pietra, il monte, il paesaggio geologico, abbia condizionato credenze o riti totemici e feticistici, che ritroviamo universalmente diffusi tra le popolazioni che non hanno superato la fase della comunità gentilizia, e di cui non mancano testimonianze anche per l’ambiente che qui c’interessa293. In quanto agente di una 292 Nota mancante. 293 Nota mancante. 141
effettiva, reale trasformazione della Natura, certo, il lavoro non è mai alla origine di un atteggiamento religioso, mistico, che esprime un momento della passività umana, dell’inumanità; o al massimo, nella magia, il momento di una attività solo immaginaria. Ma – nella misura in cui il lavoro stesso è limitato, nella sua efficacia, dalla arretratezza delle tecniche o da rapporti sociali antagonistici, e in cui perciò gli atteggiamenti di tipo religioso, mistico o magico possono affermarsi – persino tali atteggiamenti non possono sottrarsi alla legge del lavoro, di cui Marx parla nel passo già citato; ed è ancora e pur sempre il lavoro la reale attività umana associata, sono i rapporti di produzione, quelli che condizionano quel che l’uomo crede, quel che l’uomo immagina, quel che l’uomo adora. Ancora alla vigilia della conquista romana, così, abbiamo già visto le popolazioni della Liguria alpina adorare le cime dei monti (cfr. le note 52 e 53 di questo capitolo); e tracce di questo culto non mancano anche nelle tradizioni folcloristiche più recenti dell’araa ligure. Si tratterebbe qui – per usare la terminologia definita dal Frazer – di credenze e riti feticistici; ma non è escluso che fra le popolazioni della Liguria antica, vigessero anche credenze e riti totemici, con riferimento alla roccia e alla pietra, oltre che ad animali ed a piante. Il riferimento del totem ad oggetti inanimati è, come è noto, relativamente poco frequente tra le tribù primitive ancor oggi esistenti; a non pochi studiosi, esso è apparso difficilmente esplicabile quanto alle sue origini, ancor più oscure di quel che non appaiano quelle dei totem animali e vegetali. A chi abbia seguito il filo della nostra esposizione, queste origini potranno forse apparire meno incerte; tale è il rilievo col quale il monte, la roccia, la pietra, ci si son venuti presentando in questa antica società, che nel monte e nella pietra sembra sbalzata, e che nella pietra infonde tanta sua attività. Etnonimi come quelli, già ricordati, riferibili alle basi brig, mel, ecc., = «monte», potrebbero, alla luce di queste considerazioni, essere riportati non solo e non tanto ad una localizzazione geografica delle rispettive popolazioni, quanto al totem geomorfico delle popolazioni stesse; al totem della pietra, ad esempio, potrebbe esser riportato il nome dei Lepontii (dalla base lapa/ lepa) = «quelli della pietra». Non è escluso, d’altronde, che, all’origine, designazioni “geografiche” e designazioni da «totem geomorfici» dovessero di fatto, coincidere; e mancano, ci sembra, allo stato attuale delle ricerche, i dati necessari a risolvere la questione nell’uno o nell’altro senso. A propendere per l’ipotesi di designazioni totemiche si può esser portati dalla costatazione del fatto, che designazioni geografiche riferite semplicemente all’habitat montano non potevano avere un valore gran che distintivo per popolazioni vicine, che l’una non meno dell’altra, sovente, erano insediate negli acrocori alpini e appenninici; mentre un etnonimo riferito al totem del monte o della pietra conserva evidentemente, anche in un ambiente geografico comune e relativamente uniforme, tutto il suo valore distintivo.
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Se, per «quanto riguarda le credenze totemiche riferibili al monte e alla pietra, ci mancano, in ambiente ligure, i dati e la documentazione necessaria, questa è assai più abbondante, per contro, per quanto riguarda riti feticistici ed operazioni magiche, relativi a questi dati del paesaggio geologico. Abbiamo già accennato ai riti di consacrazione dell’ascia, dall’alabarda, dell’arma, documentati nelle incisioni rupestri di Monte Bego; ma il processo di feticizzazione della pietra ci appare con rilievo ben maggiore nella larga documentazione archeologica delle statue-stele di Lunigiana; e, all’altro margine del dominio ligure, in quelle della Francia meridionale. Le stele del golfo della Spezia sembrano testimoniare la fase iniziale di tale processo294. In una di esse – come in un gruppo di altre, ritrovate nel dipartimento francese del Gard – manca qualsiasi accenno ad una figurazione della pietra grezza, solo ridotta ad uno schema ogivale od ellittico peduncolato. L’altra stele della Spezia porta unicamente il segno ad U, come impronta sufficiente ad umanizzare la pietra. Ma pure e sempre, un’attività, un lavoro umano interviene ad imprigionare nel simulacro una potenza, umana eroica o divina che sia, che pur non sembra distinta da quella della pietra stessa. In una fase più avanzata, il segno ad U della Spezia si svolge nella forma della tipica maschera lunigianese a base rettilinea, superiormente arrotondata; una rudimentale struttura toracica e gli arti superiori si vengono delineando, e più tardi uno schema antropomorfo si andrà ulteriormente precisando, fino alla tarda età del ferro. Non entreremo qui nell’importante dibattito sull’interpretazione delle statue stele; certo è che residui di un loro culto sembrano esser sussistiti sino ad età assai tarda295. Quel che c’importava rilevare era come qui, anche in età relativamente tarda, il feticcio o l’idolo restasse organicamente legato alla pietra, alla roccia madre, da cui appena il lavoro dell’artefice cominciava a sbalzarlo con una tecnica che, nel suo stesso formalismo e schematismo, rivela le sue limitazioni tradizionali. Ma anche quando 294 Nota mancante. 295 Il Concilio di Nantes, nel 656, ordinò che i menhirs, oggetto di culto fossero interrati dentro fosse profonde, e che su di esse fossero eretti oratorî cristiani. A Filattiera, in effetti, la pieve fu costruita su tre frammenti di stele. In una festa tradizionale dell’Arcipretura di Vignola (Pontremoli), d’altra parte, alla vigilia della festa di S. Croce (3 maggio), si accende un gran fuoco sulla piazza della chiesa, in memoria dell’epoca in cui il popolo abbracciò la fede cristiana, rinnegando gli idoli e gettandoli nel fuoco. In chiesa vengono distribuiti, per l’occasione, fantocci di legno detti pipini, che dovrebbero rappresentare gl’idoli; alcuni di questi fantocci rappresentano, secondo la L. Banti, Luni, p. 22, le statue-stele più recenti. Il Formentini ricorda, d’altra parte, nel suo studio su La statuaria megalitica ligure, in Riv. Stud. Lig., 1948, n. 1-3, p. 57, che a Filetto – uno dei più importanti centri di ritrovamento delle statue-stele – qualche pratica idolatrica ad esse legata, dovè durare fino al sec. VIII della nostra era, come è attestato da una lapide di Surano, ove si celebra un personaggio che «gentilium varia hic idola fregit». 143
– come nell’idoletto rupestre scoperto a Sasso di Bordighera296 – 1’artefice sembra più sciolto da uno schematismo (forse rituale), la roccia madre appare appena scalfita dalla sua opera, dal suo lavoro, che s’inserisce ancora quasi “naturalmente” nella “naturale sagomatura della pietra”. L’uomo non sa ancora, con la sua opera, imprimere nella pietra od esprimere da essa una figura veramente umana, che sia qualcosa di più di una pietra segnata. Ed anche qui, così, la limitatezza delle tecniche, la rudimentalità del lavoro, ci fan passare dalla pietra grezza alla pietra segnata all’idolo, in una gradazione insensibile, che finisce per confondere persino i lineamenti umani nelle naturali sinuosità della pietra. Ancora una volta, una lentezza ed una debolezza delle differenziazioni fra l’uomo e la Natura, fra la pietra grezza e l’idolo: un’impronta della pietra che resta dominante, di contro a quella appena accennata, del lavoro, dell’attività umana. Siam tornati, così, a questa preminenza del sasso e della roccia; e vogliamo affrettarci a documentare, nel seguito di questo paragrafo, alcuni dei principali relitti di quella antichissima nomenclatura della pietra, che già ci è apparsa decisiva per le più antiche fasi dell’antica Liguria. Dovremo limitarci ad una rapida scorsa, rinviando il lettore alla bibliografia citata in nota per un approfondimento delle singole voci: quel che qui c’importa, è solo di trarre da questa rassegna quei dati, che ci son necessari per conquistarci una più concreta e precisa visione del peso che questa realtà del sasso e della pietra assurte nella vita, e perciò nella lingua, della Liguria antica, ancora alla vigilia della conquista romana, nonché della funzione, che la nomenclatura relativa sembra aver avuto nell’evoluzione stadiale del linguaggio di quelle popolazioni. Più volte già, nel corso di questo capitolo, abbiamo avuto occasione di ricordare la base mediterranea cala/carra = «pietra», come una delle più largamente produttive anche in area ligure. La esauriente monografia dell’Alessio, integrata dai contributi recati allo studio di questa base dai migliori ricercatori della scuola italiana e dal Dauzat297, ci dispensa dal diffonderci sugli aspetti più generali delle ricerche, che hanno condotto alla ricostruzione di questa base. Può darsi che, in qualche caso, i nessi proposti dall’Alessio per i vari derivati di questa base appaiano solo ipotetici; ma le ricerche successive sembrano confermarne, nel complesso, la larghissima produttività; ed anche i più arditi nessi e passaggi semantici proposti dall’Alessio vengono acquistando un grado di probabilità sempre più elevato, man mano che si viene approfondendo lo studio delle formanti preindoeuropee, e man mano che lo studio dei derivati di altre basi mediterranee mostra una notevole uniformità di analoghi passaggi semantici. 296 Clarice Re, Un idoletto rupestre nel Museo Bicknell di Bordighera, in Riv. Ingauna e Intemel., 1939, p. 126 sgg. 297 Nota mancante. 144
Ci limiteremo qui pertanto, dapprima, a rilevare i relitti toponomastici e lessicali più notevoli dei vari derivati, di questa base in area ligure. Senza entrare nel merito del dibattito sulla possibilità o meno di stabilire un nesso etimologico fra questi derivati, il loro raggruppamento attorno alla base cala/carra, secondo lo schema dell’Alessio, ci si presenta come forme più evidente ed ordinata per la nostra esposizione. Nella forma più semplice e nel significato primitivo, la base carra vive ancor oggi nel basco harri = «pietra». Il C. Gl. Lat. V, 274, 11, ci dà la glossa caris = «nomen saxi», che, come cararis (C. Gl. Lat. IV, 215, 46) e il car(r)raria, di cui appresso, è probabilmente da riferire al ligure. Nella toponomastica, la base nella sua forma più semplice, sembra quasi esclusivamente attestata in area pirenaica (cfr. i picchi del Gar ecc., tutti picchi rocciosi). Ma già Agostino ci attesta un carraria «quam sibi existimabat propter lapides profuturam» nel quale il nesso semantico del derivato con una base carra = «pietra» viene esplicitamente sottolineato, e che sembra senz’altro da mettere in rapporto col toponimo di Carrara, famosa per le sue cave di marmo. La base è così documentata, in area ligure, con una formante collettiva in -ar, di cui abbiamo già avuto occasione di intrattenerci (cfr. la nota 248 e 252 di questo capitolo): e poche regioni, meglio di questa marmifera dell’Apuania, potrebbero dar ragione di un toponimo che, per la sua base e per la sua formante, renda l’idea di un paesaggio petroso. Abbiamo già visto come, anche con l’altra formante di collettivi in -al, dalla base carra siano derivati toponimi e relitti lessicali, che si estendono da un capo all’altro del Mediterraneo dal dominio basco all’anatolico, e si ritrovano in area ligure in toponimi come quello di Caraglio presso Nizza (cfr. la nota 240 a questo capitolo). Né manca sempre in area ligure, la documentazione di derivati della base carra con l’altra formante collettiva in -on, alle voci citate alla nota 255 di questo capitolo, e nel rispettivo testo, aggiungiamo qui, in rispondenze al lucano ŝkarrone = «terreno roccioso», il ligure scarún = «luogo erto», che vive tutt’ora in alcune parti della Riviera, ed è attestato nella toponomastica regionale; mentre al già citato francese sudorientale tsirõ = «mucchio di sassi», che nello svizzero romanzo evolve in tsirón di fémé = «mucchio di letame», risponde il ligure medievale garronus = immondezzaio. Ad una base latina (non attestata) *quadro, -onis = Viertel, il REW 6920 riportava voci come il provenz. cairoun = «mucchio o blocco di pietra», che oggi sembra piuttosto da riferire alla base mediterranea in esame, con la formante collettiva in -on, senza escludere un’influenza del lat. quadrum sulla vitalità della voce; così come alla base medesima, con la già notata formante mediterranea in -al, ed un suffisso romanzo, dovrebb’essere riportato il provenz. caralhas (caraias) «mucchio di pietre». Più dubbia è, per contro, la funzione collettiva della caratteristica formante ligure in -asc, nei toponimi così formati nell’area in esame, che comunque ne attestano la larga produttività. Questi derivati della base carra sono attestati da un capo all’altro 145
del dominio ligure, dal Campo Carasca in Lucchesia al Carasco (Genova), agli altri già documentati nella Liguria medievale (cfr. ad es. il Liber Magistri Salmonis, Indice geografico, s.v. Carasco). Un’evoluzione semantica dei derivati in -asca di carra, come quella che si rivela nello spagn. portogh. catal. carrasca = «quercus coccicifera L.», e che abbiamo già ritrovata dal basco harri = «pietra» a haritz = «quercia», non si riscontra invece nel lessico ligure; che, per l’analogo passaggio semantico, usa, come vedremo più avanti, altre formanti. Accanto alla formante in -asc, per contro, anche l’altra caratteristica, formante ligure in -usc è largamente documentata per la formazione di toponimi dalla base carra nell’area in esame (cfr.già il Caruscum in Livio XLII, 7). Non staremo qui a ripetere o a sviluppare guanto già siamo venuti accennando a proposito dei derivati di carra, attestati in area ligure, con altre formanti, come quella in -anc (cfr. carranca, alla nota 187) in -av (cfr. caravos, alla nota 202), e grava, (alle note 203 e 206 di questo capitolo); né ci tratterremo su altri derivati con formante in -ant, del tipo Caranto, di diffusione prevalentemente illirica (cfr. le voci dei vari dialetti veneti caranto, scaranto, nel senso di «ferretto, tufo arenoso ecc.», ma attestati anche in area ligure, in toponimi come il Carantium del Registro Belgrano, e forse, con i varî Charenton, Carantan ecc., nel gallico Caranto-magos, da interpretare come «campo delle pietre, campo pietroso», piuttosto che da una base celtica carantos = «amico, parente». Così pure, per quanto riguarda i derivati con formante in labiale, rimandiamo alla nota 195 di questo capitolo per la base grepp, che è stata anch’essa connessa con la base carra; mentre, per la formante nasale in -n, ricorderemo soltanto, in area ligure, toponimi come quello di Carnoules (dipartimento del Varo), situata sul fianco di un’altura pietrosa, e le voci trapassate nel celtico, col cimr. carn = «colle, monte», irl. cairn = «mucchio di pietre», con una formante in -m, che si ritrova nell’albanese karme = «roccia» e nel serbocroato garma = «caverna», alla base carra sono stati riportati in area ligure toponimi, come Carmar (Carmaux o Cramaux, dipartimento del Tarn); mentre non mancano, anche in area ligure, documenti, di una formante in gutturale, che dà i numerosissimi oronimi del tipo Garg-ara, Garg-arus, Garg-anus, diffusi dall’Anatolia all’Apulia all’Iberia, e che fornisce, nell’ambiente che qui c’interessa, voci come il corso gargalo = «scoglio», e garg-as, garg-ai, garag-ai-= «precipizio,voragine», in provenzale. Questi accenni basteranno, ci sembra, a dare un’idea della diffusione dei derivati della base carra in area ligure, per quanto riguarda i valori semaitici che meno si discostano da quello originario di «pietra»; per una più 1arga documentazione, rimandiamo il lettore alla monografia dell’Alessio, ed agli altri lavori citati. Quel che piuttosto c’interessa qui di mostrare, è come, di nuovo – secondo che abbiamo già rilevato per la base lapa – la nomenclatura della pietra appaia strettamente legata a quella dell’attività umana, del lavoro, sicché da questa sua funzione essa attinge li sua capacità produttiva nel processo linguistico, e giunge a informare di sé una terminologia, che si allarga ben oltre i limiti concettuali del paesaggio geologico. 146
L’attenzione degli studiosi dei problemi del sostrato è stata da tempo attirata su di un rapporto possibile tra la radice etrusca car/cer, interpretata dalla maggior parte degli Autori nel senso di «costruire»298, e la base celtica carn = «accumulare, ammucchiare». Escluso che le voci celtiche possano rappresentare un imprestito dall’etrusco, ove la base car/cer appare morfologicamente più semplice, ma semanticamente più evoluta, l’Alessio è stato indotto a riportare le voci etrusche come quelle celtiche alla base mediterranea carra, con un’evoluzione del valore semantico da «pietra» a «mucchio di pietre» a «costruire un muro a secco» a «costruire, edificare». La sua ipotesi, largamente argomentata, ha trovato crescenti consensi; ed essa trova senza dubbio un appoggio nella documentata diffusione della base in esame (anche con la formante in nasale, che appare nel celtico), nonché nella già rilevata funzione di primo piano che la pietra assume nelle attività pròduttive delle popolazioni mediterranee. Il passaggio semantico da «accumulare, ammucchiare (pietre)» a «costruire, erigere» è attestato per il celtico nell’iscrizione di Briona (Novara) e, ancor più esplicitamente, in quella di Todi (per cui cfr. Whatmough: PID, vol. II, p. 170-190), bilingue, ove karnitu è tradotto – si tratta di un sepolcro – «locauit et statuit». Con lo stesso valore semantico, in area ligure, si trova l’espressione «ka(r)ite pala(m)», interpretata «fecit sepulchrum», nella già citata iscrizione Leponzia di Vergiate (cfr. la nota 79 a questo capitolo). Anche nell’ambiente che più specificamente ci interessa, così, troviamo attestato questo stretto legame tra la nomenclatura della pietra e la terminologia del lavoro, dell’attività produttiva e costruttiva dell’uomo; e non è escluso che anche in area ligure – come alcuni, tra i quali il Tronbetti, han ritenuto per la voce etrusca corrispondente – il valore semantico dei verbi derivati dalla base carra non si sia limitato a quello di «erigere, costruire», ma si sia allargato a quello più generico di «fare». Non mancano in effetti, nell’ambiente mediterraneo, esempi che sembran mostrare, per derivati “operativi” (diciamo così) della base carra, un’evoluzione semantica legata non solo e non tanto all’uso della pietra come materiale da costruzione, quanto al suo impiego come strumento di lavoro. È forse questo il caso del (pre)greco χαράδρα = «torrente che si apre una via per la pendici, roccia, precipizio», legato a = «incido, intaglio, imprimo, solco»; che – ove si confermasse in rapporto con la base χαράσσ rivelerebbe un’evoluzione semantica del tipo di quella che abbiamo prospettato per la base lapa nel- senso di «squamare», o per la base lata nel senso di «levigare», «sgrossare». Da tempo gl’indoeuropeisti hanno isolato, in effetti, una radice qar/khar con un valore semantico fondamentale relativo al concetto di «durezza»; e ad una tale radice son state riportate numerose voci, che direttamente esprimono questo concetto, o realtà ad esso connesse. Così il got. hardus = «duro, forte», il greco 298 Nota mancante. 147
κάρτος, κράτος = «forza», e voci greche, latine, indiane per «guscio», «noce», «granchio» ecc. L’Alessio giustamente rileva, nella monografia già citata, come sia da escludere, per motivi di caratteristica fonetica, che i derivati attribuiti alla base carra possano essere riportati ad una base indoeuropea come questa ora ricordata: le alternanze r/rr, k/g, a/e, che si ritrovano in questi derivati, sono caratteristiche del sostrato, e non potrebbero essere attribuite all’indoeuropeo. L’Autore stesso prospetta perciò l’alternativa di un’omofonia casuale, ovvero di un più probabile imprestito dal sostrato nelle lingue indeuropee. A chi, con i ricercatori della scuola sovietica, consideri le lingue indoeuropee dal punto di vista dell’evoluzione stadiale, l’ipotesi prospettata dall’Alessio si presenta non tanto come un fatto di imprestito, quanto come un fatto, appunto, di evoluzione (ed eventualmente di incrocio) stadiale; e ci sembra che, in questa forma, l’ipotesi dell’A. possa dar più chiara e completa ragione del rapporto tra le voci indoeuropee e la base mediterranea carra: anche se, evidentemente, in fase indoeuropea, accanto a derivati che hanno subito, per il valore semantico e per la forma, un processo di evoluzione stadiale, ne sussistono nel patrimonio linguistico altri, che rappresentano dei veri e propri “relitti” della fase precedente, e che possono – secondo i casi – derivare da imprestiti. Non mancano argomenti in sostegno di una tale tesi, che sola può dar ragione di fatti fonetici e morfologici, difficilmente riferibili (anche per le voci generalmente riportate alla base indoeuropea qar/khar) a fenomeni di tipo indoeuropeo. Una voce come il greco κάρaβος = «granchio», ad es., non potrà esser distaccata dai derivati di carra del tipo caravos; e molte altre delle formanti, che intervengono nella costruzione di derivati da una base carra (o qar/khar che sia), sembra debbano essere riferite ormai al sostrato, piuttosto che alle lingue, indoeuropee. Lo spazio ci vieta di entrare, qui, in un’illustrazione più generale della questione, per quanto riguarda la base in esame: non sarà difficile al lettore costatare che formanti come quelle che si ritrovano nel lat. carpo o carnem ecc. sono quelle stesse ormai sicuramente attestate non solo per la base carra, ma per numerosissime altre, in fase indubbiamente preindoeuropea. Basta scorrere, d’altronde, le pagine del LEW alle voci citate, per rilevare come gli stessi indoeuropeisti siano stati portati a stabilirne il nesso con altre, oggi più verisimilmente ed universalmente riferite alla base carra. Accanto ad un’evoluzione semantica, dei derivati di tale base nel senso di «ammucchiare, costruire», pertanto, sembra da ritenerne un’altra parallela, nel senso di «duro, forte, incidere, tagliare»299. Ad una tale linea evolutiva sembra 299 Cfr. il provenz. caro = «incisione per far colare la resina dai pini» che non saprebb’essere legato con caro = «faccia» (che deriva invece dal greco κάρα nel senso di «incisione, tacca», è stata prospettata dall’Alessio e da altri la derivazione dalla fase carra del (pre)celtico crena, di cui abbiamo già accennato alla nota 232 di questo capitolo, per il valore semantico «ciglione» (= «tacca, incisione nel monte»). I relitti romanzi di crena sono, come abbiam 148
siano da riferire i derivati di tipo aggettivale, illustrati dal Bertoldi, dall’Alessio e da altri, come spagn. carrasca, provenz. garric = «Quercus coccifera», insieme col basco haritz = «quercia». Ci troviamo qui trasportati, anche per quanto riguarda l’area ligure, che più da vicino ci interessa, dal mondo della pietra e dal paesaggio geologico, nel paesaggio vegetale, nel mondo delle tecniche del legno. Che in casi come questi citati ci si trovi di fronte ad evoluzioni semantiche, riferibili alle qualità di “durezza” del legno, è possibile; ma abbiam già detto come sia errato, a nostro parere, un riferimento troppo preciso in questo senso, che non corrisponderebbe alla relativa dispersione e fluidità delle concezioni primitive. Si è già visto che, piuttosto, in questa identificazione dell’albero col terreno su cui esso cresce, debbono aver concorso elementi vari. Voci del tipo garric significano di volta in volta, in area ligure, e l’albero, e 1’associazione vegetale relativa, e il tipo di terreno pietroso su cui essa attecchisce. Pietroso il terreno, duro come la pietra (in un mondo sprovvisto di metalli) è il legno che, come e meglio della pietra, può essere appuntito e incidere e ferire. Sarebbe errato, ci sembra, voler ulteriormente precisare un concetto che non poteva essere preciso, per chi probabilmente faceva partecipare l’albero alla qualità del terreno su cui esso attecchiva. Ancora una volta, per intendere l’evoluzione semantica dei derivati della base carra, dobbiamo riportarci all’uso della pietra e del legno come strumenti di produzione e di lavoro, o come elementi di un paesaggio, ove di volta in volta le attività della caccia, della pastorizia o dèll’agricoltura prendono un rilievo prevalente300. già visto al l. c., diffusi per tutta l’area ibero-celto-ligure, ove prevale di volta in volta il valore semantico di «tacca» o quello di «ciglione». L’evoluzione fonetica da carra a carena a crena non fa difficoltà, e trova numerosi riscontri nel sostrato, anche tra i derivati della base carra/cala illustrati dall’Alessio. Se il rapporto tra carra e crena verrà confermato, apparirà con nuova evidenza la parte che, nella diffusione larghissima dei derivati della base carra, deve aver avuto la funzione della pietra come strumento di produzione (cfr. l’evoluzione semantica analoga nel greco χαράσσο = «incidere, intagliare»). Anche qui, come per l’evoluzione della nomenclatura della pietra in nomenclatura dei fitonimi e del legno, non bisognerà voler precisare troppo il trapasso logico da «pietra» a «intaccare, tacca» da un lato, e «ciglione, tacca nel monte» dall’altro. E come «materia che taglia», e come «materia che viene intagliata», il rapporto tra crena e carra va ricercato, ci sembra, in una attività umana relativa alla pietra, che resta ancora indistinta nelle sue determinazioni. 300 Il Frazer, Le Folklore dans 1’Ancien Testament, p. 213 sgg., ha raccolto un abbondante materiale, tratto dai piu diversi ambienti, a proposito del «giuramento sulla pietra», comune tra le popolazioni primitive di tutti i continenti. Da questo materiale appare come, oltre che alle piante, l’identificazione con la pietra su cui essi stanno si allarga persino agli uomini. Per dar forza al giuramento, si giura stando su di una pietra o un ammasso di pietre, perché «la solidità e la durata della pietra si trasmettono in certo qual modo a colui che giura, assicurando così l’osservanza del giuramento». L’uomo resta, per così dire, «pietrificato dalla pietra»; ne «assorbe le qualità preziose, come potrebbe assorbire la forza di una batteria elettrica». Il Frazer nota giustamente, a proposito di questo aspetto magico del cerimoniale 149
Avremo occasione di vedere più a fondo, nel capitolo seguente, tutta l’importanza che il paesaggio della garrigue dovette avere nella vita delle popolazioni primitive della Liguria; né ci soffermeremo qui ad illustrare il rapporto, dimostrato dall’Alessio, fra la base carra e la terminologia del cerro, del carpino, del rovo, o di altre essenze, arboree od arbustive. Ma l’attribuzione alla base carra, argomentata dall’Alessio per derivati del tipo lat. carp-inus, riferiti ad essenze legnose, porta a proporre un riferimento analogo per il gallico carpentum = carro, per cui manca un’etimologia indoeuropea soddisfacente, ed i cui derivati celtici o romanzi sono, a tutt’oggi, usati a designare strutture produttive in legno e, più in generale, la «carpenteria»; né si può escludere che, alla base carra, vada riportata anche l’altra voce gallica, di cui è imprestito, come è noto, il lat. carrus = «carro». Un’evoluzione semantica da «pietra» a «carro» deve apparire, certo, à prima vista, come poco probabile, o addirittura come impossibile; meraviglierà assai meno chi verrà costatando, nel seguito di questo scritto, non meno arditi ma più documentabili passaggi semantici, con riferimento agli strumenti di lavoro e agli animali domestici, agli elementi del paesaggio geologico o vegetale, sui quali di volta in volta, o di ambiente in ambiente, una data popolazione è portata ad accentrare il suo interesse produttivo. Fu merito del Marr aver attirato l’attenzione degli studiosi su questo elemento decisivo dell’evoluzione stadiale del linguaggio; e, a chi consideri l’importanza che – in epoca protostorica e storica – il carro ha avuto tra le bellicose popolazioni galliche, come strumento di guerra e di conquista, non potrà far meraviglia che proprio alla sua nomenclatura si riportino voci relative al più generale concetto di «costruzione, struttura» (in legno lavorato, come ieri in pietra); quando, d’altronde, le fonti antiche ci attestano, per i Galli dell’epoca delle invasioni come per gli Sciti, l’uso del carro da guerra come abitazione (καραρύες οἱ Σκυϑικοί οἶκοι) e del «giuramento sulla pietra», che esso non esclude per nulla, nella mentalità dei primitivi, l’altro aspetto religioso (il mucchio dì pietre come divinità testimonio del giuramento): «il vago e la confusione sono caratteristici per il pensiero primitivo». Piuttosto che di confusione sarà giusto parlare, in proposito, di diffusione, di una scarsa coscienza della differenziazione fra l’individuo umano e la Natura» fra 1’uomo e l’aggregato sociale seminaturale di cui esso è parte. Abbiamo già accennato in precedenza come questa “diffusione” dei concetti, che dovrà esser sempre tenuta presente nella considerazione dei passaggi semantici in esame, sia legata alla limitatezza (Borniertheit) dei rapporti tra l’uomo e la Natura, che condizione quella dei rapporti tra gli uomini stessi, e viceversa. Per i relitti di altre antichissime credenze sulla «magìa della pietra» in area ligure» cfr. Benoit, La Provence, p. 77 sg. e 279 sgg: ove sarà particolarmente da ritenere l’uso, attestato in Provenza sin dall’età del bronzo, di deporre una «pietra del tuono» (un’ascia neolitica in pietra levigata) o un ciottolo vetrificato – una pèiro vairenco – nelle tombe, e poi nelle fondamenta delle case. Così pure è ancor vivo, in Provenza, l’uso di por sul frontone della porta una pietra o altro oggetto scintillante, al quale si attribuiscono virtù apotropaiche. Anche in questi relitti folcloristici si ritrova un nesso magico fra la pietra, lo scintillìo, il fulmine (il tuono), sul quale avremo occasione di tornare più avanti. 150
quello della «barricata di carri» come fortificazione (cfr. i nomi di città come Carrodunum, Carbanto-rate = «fortezza di carri»). Voci del tipo cerrus (karro nell’isola romaica di Bova in Calabria, e già in una glossa di Esichio) e carpinus da un lato, evoluzioni semantiche come quella sopra accennata da «pietra» a «ammassar pietre» a «costruire», dall’altro, possono darci qualche indicazione sul modo in cui potrebbe esser stata mediata un’evoluzione semantica stadiale da «pietra» a «carro». Si accetti o non si accetti l’ipotesi qui prospettata, comunque, un’evoluzione semantica da «nomenclatura della pietra» a «nomenclatura del legno» resta documentata, in area ligure, da numerose voci del sostrato: non solo con riferimento a fitonimi, ma anche e più particolarmente con riferimento a strumenti o mezzi di lavoro. Di volta in volta, certo, il processo produttivo e logico, attraverso il quale il passaggio semantico può esser stato mediato, è vario, e non sempre arriviamo a ricostruirlo. Nel caso, già citato, del passaggio da lata = «pietra» a alban. «lata» = accetta, latój = «digrossare, levigare», provenz. lato = «pertica liscia», ligure medievale latonas, provenz. latù = «tavola di castagno da costruzione», come in quello da χαράσσω = «incido, aguzzo», a χάραξ = «palo», il processo produttivo e logico che lo media sembra esser quello della fabbricazione dello strumento in legno: ma, anche qui, non sempre sarebbe giusto, probabilmente, voler distinguere troppo nettamente il processo relativo alla materia lavorata (il legno) da quello relativo alla materia lavorante (la pietra). Nel greco χάραξ = «palo», come nell’alb. lata = «accetta», lo strumento di lavoro appare come il prodotto della levigazione o dell’appuntimento, ma, al tempo stesso, come uno strumento per nuove operazioni analoghe; ed è probabile che anche in queste evoluzioni semantiche, come in altre sopra accennate, confluiscano elementi vari, e magari contraddittori, ancora indistinti nel processo produttivo e nella coscienza delle popolazioni primitive. In altri casi, come quello che a clapa = «pietra piatta», attribuisce il valore semantico di «ceppo» nel clapo di alcune parlate provenzali, il processo di identificazione fra la materia litica e la legnosa appare più immediato e ovvio, ma sempre legato agli usi produttivi del «ceppo» come fondo per le operazioni di martellamento ecc. Più. complessi appaiono passaggi semantici come quello da palanca = «burrone, precipizio» (dalla base mediterranea pala: cfr. la nota n.76 di questo capitolo), ma anche – con un valore semantico più immediatamente legato a quello della base pala – «lastra di pietra» (cfr. il lucchese palanca = «Steinsitz»), al provenz. palanco = «tavola, di legno, passerella, leva», che trova riscontro – in area ligure, ed in tutto l’occidente – in voci analoghe per la forma e per il valore semantico. È possibile che, per alcune di queste voci, ci si trovi di fronte ad imprestiti dal greco φάλαγξ = «tronco, cilindro, fusto», che è d’altronde esso stesso riferibile alla base mediterranea pala/fala. Ma sembra piu probabile che, in altri casi, ci si trovi di fronte ad evoluzioni semantiche autoctone, probabilmente distinte da voce a voce. Per il provenz. palanco = «passerella», ad esempio, va rilevato che, in provenzale stesso, palabourdoun significa «pietra per passare a guado un torrente»: 151
questo ed altri raffronti del genere, possono far pensare che il valore semantico dì «passerella» (in legno?) sia derivato da quello di «pietre (pala, palanca) per il guado». Quanto all’evoluzione del valore semantico da palanca = «pietra (piatta)» a «tavola, plancia di legno», non sembra sia necessario ricorrere ad imprestiti dal greco, per le voci di area ligure, quando il provenzale stesso offre, oltre a palanco, planco = tavola di legno (con analoghi riscontri nel latino medievale di area celto-ligure) voci come palastro = «tôle», derivati dalla medesima base pala con altra formante, e che presentano un’ulteriore evoluzione semantica da «lastra di pietra» a «lastra di legno» a «lastra metallica»301. Questo non significa, beninteso, che nella vitalità e nell’evoluzione del valore semantico di queste voci in area ligure – come per l’altra, nel senso di «leva» – sia da escludere l’influenza del greco φάλαγξ come quella del latino palus = «palo» e, per le forme p(a)lanca, del lat. plancus = «piedi piatti» dia il trapasso dalla nomenclatura della pietra a quella del legno resta affidato ad un’evoluzione stadiale che è anzitutto autoctona, e che trova d’altronde un riscontro in numerosissime altre voci vogliamo soltanto attirare l’attenzione degli specialisti, in proposito, su di un trapasso meno ovvio, ma che pure appare probabile: quello dalla base mediterranea barra = «terreno roccioso», a barra = «steccato, sbarra», che potrebbe esser mediato da valori semantici del tipo «difesa, sbarramento, siepe», che uniscono i derivati suddivisi dal REW sotto le basi barros (gall) n. 964 = «buschiges Ende, barrum» n. 965 = «Tonerde», e forse – attraverso voci come il basco parra/marra = «confine, pietra o cespuglio terminale» – quelli della base mediterranea marra = «mucchio di sassi»302. 301 Per queste evoluzioni semantiche di palanca, cfr., oltre ai Dizionari e agli Atlanti linguistici, il REW 6455, s.v. phalanx, il DEF e il Dict. étym. s. v. palan, palanche, palanque, planche. 302 Cfr. in proposito il DEF s. v. baracca, baraggia, barco 3, barra 1, barranca, barro 1, il DEF s.v. barre, baraque, il Dict. étym. s. v. barre, baraque. Anche qui, come in altri casi già ricordati, 1’oscillazione stessa dei vari Autori nell’attribuire all’una o all’altra base i derivati, fa pensare che queste varie basi, d’altronde sostanzialmente omofone, vadano riportate a una sola, o almeno connesse l’una con 1’altra. Non può far ostacolo la differenza di valori semantici fra barr- (d’irradiazione iberica) = «Tonerde» e barr- (d’irradiazione ligureitalica) = «terreno roccioso, roccia, terreno sterile». Anche all’interno di una stessa area, ad esempio dell’area ligure, è facile citare numerose oscillazioni analoghe dall’uno all’altro valore semantico; da lapa = «pietra», ad es., il provenz. lapo = «fango, deposito alluvionale»; provenz. bard = «argilla», e «lastra per pavimentazione», ecc. Gli usi costruttivi comuni al fango ed alla pietra, il loro impiego come materiale da costruzione e forse, in fase più antica, come materiale per la confezione di recipienti), possono qui, ancora una volta, spiegare l’oscillazione dei valori semantici. Per un’eventuale legame con la base marra, il tarmine di congiunzione può essere offerto, quanto ai valori semantici, dal «mucchio di pietra» o dal «muro di fango o di pietra» o dal «cespuglio o siepe», in quanto «sbarramenti di difesa» o «segni terminali». 152
Non ci soffermeremo oltre in questo esame del trapasso dalla nomenclatura della pietra a quella del legno in area ligure, sul quale frequentemente avremo occasione di ritornare nel seguito di questo studio303; e così pure non c’intratterremo qui – per quanto riguarda i derivati della base carra sulla loro evoluzione stadiale nel senso di valori semantici legati alla nomenclatura agricola304 o a quella del fuoco e del fulmine, o di altri fenomeni meteorologici, che appaiono anch’esse connesse con quella della pietra305. Quanto siam venuti rilevando per i rapporti 303 Potrebb’essere discutibile se si debba parlare, invece che di «trapasso semantico dalla nomenclatura della pietra a quella del legno», di un trapasso inverso, dalla terminologia delle tecniche del legno a quelle litiche. Scoperte come quella di una punta di lancia in legno nel Prechelleano inglese di Clacton-on-Sea hanno avvalorato, negli ultimi decenni, l’ipotesi, già prospettata in passato, di una “civiltà del legno” dei preominidi e del primo paleolitico. Certo è che la pelle e il vello dei grandi mammìferi, cacciati dall’uomo nel Paleolitico inferiore, non potevano esser perforate dai rozzi manufatti litici che quell’età ci ha trasmessi, e che dovevano avere altro impiego (raschiatoi ecc,). L’arma in legno sembra pertanto esser stato lo strumento ausiliare essenziale per la caccia degli uomini di quell’epoca (cfr. in proposito Lindner, La Chasse préhistorique, p. 25 e 34 sgg.). Una tale “cultura del legno”, comunque, risale ad epoche ben più lontane di quelle a cui qui ci riferiamo; ad un’età, probabilmente, in cui lo stesso linguaggio articolato era in una fase appena iniziale di elaborazione. Le tecniche del legno alle quali ci siamo riferiti nel testo sono di un tipo ben diverso e più elevato: sono tecniche del legno lavorato, che presuppone l’uso già diffuso ed evoluto di strumenti di pietra (o d’osso). Per le epoche in questione, pertanto, il senso dell’evoluzione stadiale è quello dalle tecniche della pietra a quelle del legno, e non viceversa. Questo non toglie, beninteso, che per singole tecniche il processo si sia potuto svolgere anche in senso inverso (ad es. per le tecniche della costruzione, forse, in certi ambienti, dove la costruzione in legno ha senza dubbio preceduto quella in pietra). Non si dimentichi, del resto, che, quando parliamo di processi di evoluzione stadiale, non intendiamo mai riferirci a schemi univoci, nello spazio e nel tempo, ma a processi storici concreti, che variamente si intersecano e si combinano, pur presentando una risultante, caràtteristica per una data, fase dello sviluppo stadiale stesso. 304 Ci limiteremo a segnalare, in proposito, la voce carrau, usata nel paese d’Arles per designare «il mucchio dei covoni sull’aia»; cui corrisponde, in quel d’Avignone, la voce marró, con un’analogo trapasso semantico, dalla base marra. 305 Cfr. 1’evoluzione semantica dell’alban. shkrepi = «rupe, macigno, pietre focaia», schkrep = «far fuoco con la focaia, mandar scintille, sfavillare», shkrepëtimi = «lampo, baleno», shcreptin = «lampeggia». Lo sviluppo è caratteristica, ai fini di una dimostrazione dell’influenza dalle tecniche della pietra sulla concezione del mondo e sul linguaggio di popolazioni primitive, anche por guanto riguarda i fenomeni cosmici più grandiosi e, per noi, più lontani da un nesso logico o genetico col mondo della pietra. Si ricordi, d’altronde, guanto abbiamo già rilevato in proposito della designazione di «pietre del fulmine», usata dall’antichità fino al folklore moderno per gli strumenti litici. Non è escluso che, in questa migrazione, abbia avuto una parte importante il nesso produttivo e concettuale illustrato dall’evoluzione smantica dell’aiban. shkrepi = «rupe, macigno, pietra focaia». In base a conciderazioni del genere, non può non attirare la nostra attenzione una voce ligure come quella attestata dai toponimi del tipo Palena, Balena (Bellena), quando essa venga messa a 153
fra la nomenclatura della pietra e quella del legno, per contro, ci offre l’occasione di passare senz’altro ad un rapido esame dei relitti che, in area ligure, sembrano derivare dall’altra forma alternante della base carra/cala. A una base cala = «pietra», in effetti – di cui l’Alessio ha dimostrato l’alternanza con carra, confermata dal Dauzat e da altri – si può riportare il provenz. calos = «bastone, randello», che già da vari autori è stato riferito al sostrato preindoeuropeo, e connesso alla base cal/cel che appare nel nome del dio Sucellus – «colui che batte bene» – raffigurato nei monumenti gallici con un martello alla mano306. Ancora una volta, il trapasso semantico da «pietra» a «bastone» può apparire troppo ardito, e magari arbitrario; ma esso già trova una mediazione nel raccostamento alla base (pre)celtica cal/cel = «battere»; e può trovare più di un parallelo e di una conferma in trapassi semantici analoghi per altre voci del sostrato, relative alla nomenclatura della pietra. A caloussa = «bastonare» (di cui qui si propone la derivazione da «calos» = bastone, riferito alla bsse cala = «pietra») rispendono voci come marrela = «bastonare» (riferibile alla base marra = «pietra»); per lo stesso calos = bastone (da cala = «pietra»), si possono proporre delle analoghe derivazioni raffronto da un lato con la base mediterranea pala/bala già illustrata, dall’altro con relitti linguistici del tipo balenare, baleno, diffusi nell’italiano dalle parlate romanze di area ligurealpina, cui rispondono in Provenza relitti del tipo belé = «lampo». L’etimo per balenare accolto dal DEI s. v. (da «apparire a comparire rapidamente come una balena» appare, per una volta, sforzato, e riferibile piuttosto ad una etimologia popolare; le voci provenzali e italiane settentrionali sono state invece più verisimilmente, dal Wartburg: FEW p. 322, e poi dal Bertoldi, Colonizzazioni. p. 119 sgg., riferite al gall. belos = «chiaro» da cui anche il nome della divinità celtica Belenus, identificato con Apollo. Il Bertoldi propone un’equazione gall. belos = «chiaro»: balenare greco φαλόϛ = «bianco, chiaro», φαλύνειν = «brillare». La proposta è certo seducente; essa non dovrebbe escludere, tuttavia, un rapporto più diretto (almeno per le forme in a come baleno) con la base mediterranea pala. Per chi resti prigioniero degli schemi tradizionali dell’indoeuropeistica, quest’ultima ipotesi apparirà evidentemente inammissibile ma chi faccia uno sforzo per non lasciarsene precludere più larghi orizzonti, non potrà non rilevare che, anche in area egea, a φαλόϛ = «bianco, chiaro», risponde una voce come φάλαρα = «piastra», che per il suo valore semantico può esser riportata alla base pala/bala/fala. In questo, come in altri casi, accettare la metodologia relativa ad una concezione stadiale del processo linguistico, non significa rigettare i risultati dell’etimologia indoeuropeistica, ma darne un’intepretazione diversa, che tenga altro conto dei processi produttivi e linguistici, caratteristici delle popolazioni in un dato stadio dello sviluppo sociale. A parte considerazioni, come queste che qui proponiamo all’attenzione degli specialisti, il nesso tra la base carra e la terminologia dei fenomeni meteorologici appare attestato da basi derivate dall’alternante cala, come quelle calabra/galabra e calandro, attestate nel senso di «gelo, brina» in area ligure (cfr.le note n. l50-l52 a questo capitolo). Fra «pietra» e «ghiaccio, gelo», d’altronde, il nesso semantico appare abbastanza ovvio. 306 Per la bibliografia relativa alla base cala, cfr. quella relativa a carra alla nota n. 296 di questo capitolo. Per Sucellos, cfr. Grenier, Les Gaulois, p. 337; Vendryes, Relig. Celt., p. 274. 154
di labi = «bastone» (da laba = «pietra»), di cando = «piccolo bastone sul quale si fan delle tacche» (da canta/ganda = «pietra»); ed anche per la base lata = «pietra» – dei cui derivati abbiamo accennato lo sviluppo semantico nel senso di «tavola di legno» – abbiam ritrovati in Provenza stessa derivati col valore semantico di lato = «pertica liscia», ai quali possiamo ancora aggiungere il genov. (l)acciùn = «bastone del correggiato». Se ricordiamo che, anche per i derivati di pala = pietra (palanca), abbiamo riscontrato analoga evoluzione semantica (anche nel senso di «bastone per portar due secchie»), non potrà sfuggire che ci si trova di fronte a un fenomeno di evoluzione stadiale che investe tutta la nomenclatura della pietra307. Anche qui, 307 Columella ci attesta il nome che i Galli davano alle propaggini delle viti,: «...quos nostri agricolae mergos, Galli candosoccos vocant» (Colum. V, 5). Il Dottin, Langue Gauloise, s. v., e dopo di lui la maggior parte dagli Autori compreso il LEW, hanno interpretato la voce riferendola al cimr. bret. cann = «bianco», e, per il secondo termine, all’irl. soc, franc. soc, o all’ant. irl socc = «grugno» (di maiale). Non si vede, francamente, che rapporto si possa stabilire fra «candore» e «propaggini» o «margotte» che siano. Il provenz. cando = «bastoncello su cui si fan delle tacche», dà per contro perfetta ragione del processo, così come Columella accuratamente lo descrive; corrisponde a puntino ai palmites, di cui parla Colummella. Vero è che, per quanto riguarda «le tacche», Columella non ne fa esplicitamente menzione; ma è noto che, ancor oggi, per facilitar l’attecchimento, la parte del ramo sotterrata viene sovente incisa. È probabile pertanto che, sin da quell’epoca, cando avesse già acquistato non solo un generico valore semantico di «bastoncello», ma quello più, specifico di «bastoncello in cui si fan delle tacche»; un’uso, d’altronde, antichissimo, non solo in rapporto con pratiche agrarie, ma anche ai fini mnemonici e di numerazione. Alla base canta/ganda = pietra, è stato proposto il riferimento di un’altra serie di voci relative alla nomenclatura del legno; quella che è attestata dall’(imprestito?) lat. cant(h)erius, che – oltre al significato di «cavallo castrato», che si ritrova nel greco ὄνοϛ κανϑήλιος = «asino da carico» – ha anche il valore semantico di «trave, sostegno trasversale per le viti». La voce ha avuto una larga fortuna nelle parlate romanze, in cui è passata proprio nel senso di «trave»: cfr., per l’area ligure, il lat. mediev. «canterius» = trave pesante (specie per la costruzione di barche) degli Statuti di Levanto, di Albenga, di Zuccarello (cfr. Rossi, Appendice, p. 52), il franc. chantier, ital. cantiere. Il Bertoldi ha prospettato un nesso di cant(h)erius con la base canta/ganda = «pietra», eventualmente attraverso un nesso coll’iberico o africano (secondo Quintiliano) o gallico cant(h)us =cerchio della ruota. All’ipotesi del Bertoldi appone alcuni dubbi, che ci appaiono tuttavia non del tutto giustificati, il Cocco, in St. Etr. XVI, p. 387 in un’importante studio sulla questione, al cui approfondimento 1’A. porta comunque un notevole contributo. La maggior parte degli Autori concorda nel ritenere che il nesso fra i due valori semantici di cant(h)erius sia, in latino come in greco, dato dalla nozione di «basto» o «trave o tavola per portare un carico» (cfr.1’evoluzione semantica sopra rilevata per palanca = «bastone per portare due secchie», che potrebb’essere la nozione primitiva. In questo caso, sarebbe ammissibile un’evoluzione semantica diretta da canta = «pietra» a cant(h)erius = «trave che sostiene un carico» (o magari architrave). Ma anche nel caso in cui, secondo le interessanti argomentazioni del Cocco, si debba ammettere il legame di cant(h)erius con una base mediterranea cant = «curva, rotondità», ci sembra vada accettata l’ipotesi del Bertoldi per un nesso della voce in esame con la base mediterranea canta/ganda. Il Cocco obietta la difficoltà di un’evoluzione semantica da «pietra» a «curva, rotondità»; 155
non ci si dovrà arrestare alla considerazione di una mediazione del tipo di quella suggerita da marrela (da «colpire con pietre» a «colpire con bastoni»): il processo è, probabilmente, differenziato da voce a voce, e certo assai più complesso e più fluido. In esso debbono essere intervenute concezioni relative a nuovi metodi di “colpire” (il nemico, la preda), di tagliare, di incidere, di sgrossare, forse di far segni per la numerazione (sulla pietra o sul bastone); e, anzitutto, di forgiare gli stessi nuovi strumenti di lavoro. Tutti questi processi debbono esser confluiti in una corrente di produzione e di pensiero forse ancora indistinta, dalla quale con maggior chiarezza, ad un certo punto, sembra esser emersa la nozione di «battere» (Sucellus). Indipendentemente da questa evoluzione semantica, comunque, i derivati della base cala – nella sua primitiva accezione di «pietra» – dovevano essere ancora ben vitali e diffusi in area ligure, alla vigilia dell’invasione celtica, e poi di quella romana, se essi son potuti trapassare in numero ingente nel nuovo patrimonio linguistico gallico e romano, e poi sin nelle parlate romanze dell’area che qui c’interessa. Come già abbiamo fatto per carra, rimandiamo in proposito ai lavori dell’Alessio, e degli altri Autori già citati. Ci limiteremo qui ad una semplice menzione dei derivati di cala più vitali in area ligure, ed a qualche cenno sulla loro evoluzione semantica. Di alcuni di questi derivati abbiamo già avuto occasione di parlare nei paragrafi precedenti di questo capitolo: così per calanca = «scoscendimento del terreno» (cfr. alla nota n. 187), per calma = «altipiano» o «scarpata rocciosa» (cfr. alla nota n. 239), per calabra (cfr. alle note n.149-152 e 304). Nella sua forma, foneticamente più semplice, cala, la base si ritrova, nella toponomastica e nel lessico, da un capo all’altro del Mediterraneo, e forse oltre, dall’iberico alle lingue caucasiche. Il nesso con la base carra, oltre che dalla frequente confusione dei rispettivi valori semantici e nel parallelismo morfologico dei derivati, è fortemente fondato, dal punto di vista fonetico, nella caratteristica dell’alternanza rr/l, largamente documentata nel sostrato (cfr. tala/terra, ove appare anche l’alternanza vocalica caratteristica del sostrato, che abbiam ritrovata in cal/cel). L’area di diffusione della base cala appare, tuttavia, più estesa di quella di carra; ci troviamo qui, pertanto – come si è indotti a pensare anche da considerazioni fonetiche – di fronte alla forma più antica della base cala/carra. Nella sua forma più semplice cala, in area celto-ligure, la base si trova attestata, oltre che in numerosissimi toponimi, in voci come 1’irl. gal = «pietra, roccia», ant. franc. gal = «pietra, ciottolo», franc. galet. Con una formante che era ritenuta caratteristica del gallico, ma che si è ma anche tra i derivati di canta/ganda, questa evoluzione semantica non si può escludere: cfr. ad es. il provenz. gandolo = «tazza, ganello», gandolo = «tunnel, piccolo fosso coperto, gondola», ed altri, che possono offrire una mediazione tra la nozione di «pietra» e quella di «rotondità», già ammessa dagli Autori per la base mediterranea pala, per il valore semantico di cant(h)us = «cerchio della ruota», cfr. d’altronde quanto abbiamo scritto a. proposito del rapporto di carrus = «carro» con carra = «pietra». 156
poi ritrovata anche in analoghi derivati da questa base nelle lingue caucasiche, da *caljavos, si deriva il franc. caillou, provenz. calhau = «ciottolo, pietra». Ma particolarmente importanti e produttivi, in area più propriamente ligure, sono i derivati del tipo c(a)lapa, che – come quelli perfettamente analoghi dalla base carra – ci sono attestati nella forma clapa, o in quella, con metatesi, calpa. La fortuna e la particolare vitalità di clapa nella Liguria propria – come, in altri settori dell’area ligure, quella di lausa, e, nella Liguria stessa quella di 1avagna – è dovuta certo in parte notevole al fatto che questa voce è stata qui usata a designare un tipo particolare di pietre, facilmente sfaldabili o riducibili in lastre, che hanno trovato per tempo, nella produzione e nelle costruzioni, un impiego che non è divenuto meno largo col volger dei secoli. Dalla Liguria propria a Piacenza, in effetti, la toponomastica e le fonti latine medievali ci attestano voci come clapa (genov. moderno ciappa) nel senso: di «lastra di pietra, lavagna», e derivati come inclapare, inchiapare = coprir di ardesia (1e case) o pavimentare di lastre di pietra (le strade), clapella = «quadrello per pavimenti». Queste voci sono ancor oggi di larghissimo uso nelle parlate liguri, in rapporto anche con la sopravvivenza dei metodi tradizionali di costruzione; ciappa do barcon si chiama ancor oggi a Genova «il davanzale della finestra»; ciappa de marmo, de veddro è una «lastra di marmo, di vetro»; ciappa si chiama il «mercato del pesce» dove il pesce è esposto in vendita su lastre di marmo; dà do cü in ciappa si dice per «far fallimento», a ricordo dell’uso medievale, secondo il quale chi faceva fallimento o rifiutava l’eredità paterna batteva tre volte il sedere su di una lastra di marmo in mezzo al Mercato nuovo di Firenze. Si potrebbe continuare a lungo questa elenco dei valori semantici traslati, che i derivati di clapa son venuti acquistano nel corso dei secoli nella Liguria propria; ma il valore originario sembra qui esser stato sempre quello di «lastra di pietra, lavagna, roccia schistosa». Esso si ritrova fin sul versante francese delle Alpi, dove i clapiers, disperazione dell’alpinista, son spesso declivi impervii, risultanti dallo sfaldamento di rocce scistose. Ma qui già più sovente i derivati di clapa, numerosissimi in Provenza, assumono il valore semantico più generico di «pietra, ciottolo» o «ammasso di pietre», che prevale anche nel settore centrale ed orientale della catena alpina, e nel Piemonte stesso308.
308 In area provenzale, tra i derivati di clapa vogliam ricordare l’ant. provenz. clapier = «terreno pietroso», passato a designare anche in francese la tana, e poi il luogo di allevamento, del coniglio, con un’evoluzione semantica che già abbiamo rilevato a proposito dei derivati della base lapa. Altra evoluzione semantica interessante in area provenzale, è quella che si riveli in prov. aclapar = «ammassar pietre», analoga a quella che abbiamo riscontrato per i derivati di altre basi mediterranee che hanno il valore semantico fondamentale di «pietra» (v. sopra, ad es, i derivati di carra, passati a significare «ammassar pietre» e poi «costruire, fare»). 157
La forma c(a)lapa, che si fa derivare da cala, trova una rispondenza in c(a)rapa, che si fa derivare da carra con la medesima formante, e che assume sovente, nei suoi derivati, analogo valore semantico. Particolarmente interessante, in proposito, è anche l’analogia nell’evoluzione di tali valori semantici da «pietra» o «lastra di pietra» a «terraglia, ceramica, recipiente». Da clapa derivano, nelle parlate romanze di area ligure, voci come il piemon. ciap, provenz. clapassoun = coccio. Ma ad epoca ben più antica risale tale evoluzione – che trova d’altronde riscontro in altre numerosi voci derivate da basi del sostrato309 – se a clapa si è fatta risalire, con metatesi, una voce etrusco-latina come calpar = «vaso vinario», cui risponde il (pre)greco κάλπη = «vaso, urna». Alla forma parallela derivata da carra (carpa o, con metatesi, capra) si è fatto d’altronde risalire l’etrusco capra = «tomba, urna mortuaria», cui risponde l’assiro karpu, karpatu = vaso, recipiente. È da rilevare, con l’Alessio, che la voce etrusca si trova iscritta su di un’urna in alabastro: ciò che viene a confermare, sembra, il nesso del nome di questa sorta di recipienti con antiche tecniche della pietra. Senza diffonderci qui su i derivati da cala costruiti con altre formanti (spesso in chiaro parallelismo coi derivati di carra), dobbiamo ancora soffermarci su di un’evoluzione semantica subita dai derivati della base in esame nella sua forma più semplice, cala. Il Dauzat ha mostrato come, da cala = «pietra», il valore semantico di questa base sia passato a «riparo sotto roccia» o a «riparo in pietra», e quindi a «riparo, capanna, abitazione». Il centro di diffusione di questa evoluzione semantica sembra ritrovarsi nelle Alpi occidentali: e qui essa si può riscontrare, oltre che in numerosi toponimi, in una voce assai usata nelle parlate alpine per designare le 309 In area egea, un rapporto con la base canta/ganda è stato proposto per il (pre)greco κάνϑαρος. A λέπας = «roccia», corrisponde qui λεπαστή = «boccale, coppa», forse λέβης = «lebete, bacino, vasca da bagno, urna»; alla base stessa, allargata in labra, risponde il (pre)greco λαβρώνιον. In area provenzale, oltre ad altre derivazioni più ovvie, attiriamo l’attenzione sul provenz. gandolo = «tasse à deux anses, burette à lait» (dalla base canta/ ganda?). Derivati da questa base, ma probabilmente per imprestito (di vario tramite) dal greco κάνϑαρος saranno voci come il provenz. cantarot = «vaso per misurare il vino» ecc. Meriterebbero forse un’indagine voci come le provenz. carrot = «pot»; marrano = «pot pour cuire la viande», ed altre. Più generale è la derivazione di voci usate a designare vasi e ceramiche da basi che significano «terra, argilla» come nell’ital. terraglia (da terra). Così, in area ibero-ligure, baraille = «terraglia» (da barro = «fango, argilla»), in cui è notevole, come d’altronde nell’ital. terraglia, un valore collettivale, che ritroviamo nella formante in -ar dell’etrusco-latino calpar = «vaso vinario». Così pone, in area provenzale, bartau = «vaso (per l’acqua)», dalla medesima base barro = «argilla», estese in bard/bart, ecc. È indubbio, tuttavia, che anche in area ligure, come in area greca, in epoca arcaica l’uso di recipienti in pietra è attestato da relitti linguistici, oltre che da reperti archeologici; mentre un’altra serie di relitti linguistici in quest’area si riferisce, probabilmente, all’uso assai largo di recipienti in legno, in sughero, in scorza d’albero (cfr. ad es. brusc = «pot à traire», brusco = «scorza d’albero»). Vedi in proposito, più avanti, il capitolo di questo volume su Le tecniche. 158
abitazioni della montagna, chalet; che non si può riportare né a casalittum né a castellittum, come da taluni è stato fatto, ma va invece ricondotta alla base in esame. Un’ulteriore evoluzione del valore semantico avrebbe portato cala a significare «abitazione fortificata, fortezza, rocca»: l’area dì diffusione di quest’ultimo valore semantico, irradiato probabilmente da un centro secondario attraverso lingue a grande diffusione, giunge fino ai due estremi del Mediterraneo. «Città, fortezza rossa» viene interpretato l’iberico Cala-gurris (basco gorri = «rosso»); reduplicazioni tautologiche sarebbero l’ibero-celtico Καλόδουνον e Caladunum, dove il gall. dunum = «rocca» tradurrebbe il corrispondente cala del sostrato mediterraneo. A cala = «rocca», infine, l’Alessio riporta, col nome dei Calabri, il nome stesso dei Galli, interpretato come «abitanti delle rocche», e riferito (a differenza di quello di Celti, più largo) essenzialmente alle popolazioni mediterranee liguri celtizzate; quello dei Galati e quello dei Gallacci, la tribù della Spagna Tarragonese che ha dato il nome all’odierna Galizia. In area ligure, comunque, come abbiamo già rilevato per altre basi relative alla nomenclatura della montagna, l’evoluzione semantica della base cala sembra essersi arrestata, in questa direzione, ad uno stadio relativamente arretrato, quello di «capanna, abitazione, chalet», senza raggiungere quello di «città»: una nuova conferma del grado arretrato di sviluppo cittadino in quest’area, in confronto ad esempio di quella iberica, o celtica. Ma anche entro questi limiti, questa evoluzione ci dà una conferma del nesso che, nella vita e nel linguaggio delle popolazioni liguri, dove stabilirsi – attraverso le più varie attività produttive e costruttive – tra la nomenclatura della pietra e quella dei più diversi settori: geomorfici, fitonimi, zoonimi, tecnici, cosmici, magici e religiosi. In forma diversa e per via indipendente, questa scorsa per la nomenclatura del monte e della pietra – condotta da noi, essenzialmente, sulla base dei risultati delle ricerche della scuola italiana – ci ha portato a conclusioni che coincidono, sostanzialmente, con quelle alle quali, negli ultimi suoi scritti, era giunto, il fondatore della nuova scuola linguistica sovietica, il Marr. In un determinato stadio dell’evoluzione del linguaggio – corrispondente a quello in cui la pietra assume o conserva una funzione essenziale come strumento produttivo – la nomenclatura della pietra stessa (con quella del monte e della roccia, ad essa strettamente legata) assume una funzione centrale nella coscienza e nel linguaggio della data società, si irradia in tutti i settori della terminologia sociale, informandola di sé ben oltre i limiti che oggi ci appaion consueti, il cielo e la terra, gli animali e le piante, le tecniche e le credenze religiose e le pratiche magiche o funerarie, appaiono come legate e unificate da una concezione cosmica, che ha la pietra, il monte, la roccia, la terra per suo centro attivo e produttivo. Nella Liguria, alla vigilia della conquista romana, siam venuti rintracciando, nella nostra rassegna, questi relitti ancor vitali di una tale concezione, che dovevano essere ancora tanto importanti, da poter 159
penetrare di sé il nuovo patrimonio linguistico romano, e giungere fino a noi, sia pure attraverso un processo evolutivo che ne ha sovente alterato i contorni. In nessun altro settore della nostra ricerca – che si tratti di fitonimi o di zoonimi, di tecniche agricole o pastorali – potremo ritrovare un gruppo di relitti linguistici preromani, e spesso preceltici, così compatto come quello che siamo venuti qui riscontrando. Non si tratta qui solo di «conservatività dei termini glebani», ma di qualcosa di più profondo e di più essenziale: del peso decisivo che questa nomenclatura dovè avere nella vita, nella coscienza e nel linguaggio delle più antiche popolazioni della Liguria, e che essa doveva ancora in parte conservare alla vigilia della conquista celtica e romana. Nei capitoli seguenti, verremo documentando con nuovi dati questa irradiazione universale della terminologia del monte, della terra, della pietra nel patrimonio linguistico della Liguria antica; ma sin d’ora essa ci appare come un elemento decisivo per la configurazione dei rapporti e dei moti di vita e della coscienza sociale di quella antica umanità. Nel considerare questa nomenclatura e questi rapporti, certo, il nostro sguardo è stato, per ora, essenzialmente rivolto al passato (rispetto ai tempi immediatamente precedenti alla conquista romana). Anche quelle antiche genti avevano oramai dietro di sé un passato di secoli e di millenni: e già al loro tempo, molti dei termini che siamo venuti rintracciando come termini originari della nomenclatura della pietra dovevano aver già acquistato valori semantici nuovi, e rispondenti allo sviluppo di una società e di un linguaggio più evoluti, e dovevano aver probabilmente subito analoghi processi di evoluzione morfologica e fonetica. Voci cose Alba, ad esempio, erano certo venute acquistando, ben prima della conquista romana, il valore sementico di «centro abitato»; che, se non era ancora la città vera e propria, non era certo più solo «il luogo dell’alpeggio»; e forse, anche dal punto di vista fonetico, alba = «centro abitato», si era venuto differenziando da alp = «monte, o luogo dell’alpeggio». Con lo sguardo rivolto essenzialmente verso il passato, verso una ricerca di «paleontologia del linguaggio e della società ligure», abbiam potuto forse dare, in questa prima parte della nostra esposizione, l’impressione di una Liguria ancor quasi ferma all’età della pietra, così come un po’ ce la presenta, drasticamente, il Bernabò Brea, nel passo citato al principio di questo capitolo. In realtà, come noi stessi, le popolazioni della Liguria, alla vigilia della conquista romana, non avevano solo un passato – che certo lasciava ancora larga traccia di sé, nelle industrie litiche come nella società come nel linguaggio – ma anche un presente, nel quale, accanto a questi relitti del passato, già germogliava e fermentava un avvenire. Nei capitoli seguenti, discorrendo del paesaggio vegetale, e ancor più delle tecniche industriali, agricole, pastorali, questo presente ed i germi di questo avvenire ci si verranno meglio discoprendo: l’immagine, che dal presente capitolo potrebbe restar impressa nel lettore, ne resterà rettificata, risulterà in realtà meno arcaicamente conformata, più moderna, più attuale. Ma essa non sarebbe 160
stata compiuta e adeguata, se avessimo trascurato di ricercarne queste antiche scaturigini di roccia; e di pietra, alle quali già Poseidonio di Apamea attingeva, per la sua caratterizzazione dei Liguri. Non sapremo, comunque, concludere questo paragrafo, senza accennare ad un altro, e fondamentale, sviluppo semantico della nomenclatura della pietra, che ci limiteremo a prospettare come ipotesi di lavoro per più esperti ed agguerriti ricercatori. Abbiamo già avuto occasione di rilevare, a proposito della base mediterranea penn = «monte, cima o cresta di monte», come questa voce si ritrovi, nel cimrico e nel bretone penn, col valore semantico di «testa». La corrispondente voce irlandese cenn – con un’alternanza caratteristica p/c, che non si ritrova generalmente nel sostrato – può far pensare che ci si ritrovi qui di fronte ad un’evoluzione semantica intervenuta già in fase indoeuropea; mentre proprio al sostrato potrebbero essere attribuite evoluzioni fonetiche e semantiche come quelle già segnalate dalla base penn all’irland. benn = «picco di monte», provenz. bana = «corno», che presentano alternanze vocaliche e consonantiche largamente documentate nell’ambiente mediterraneo preindoeuropeo. Quel che qui ci interessa, nell’evoluzione semantica dei derivati della base penn, è il riferimento di termini della nomenclatura della pietra e del monte alla nomenclatura del corpo umano (cimr. e bret. penn = «testa»). In questo caso, il trapasso da penn = picco di monte, a penn = «testa», non presenta particolari difficoltà; si ritrova in moltissime parlate, anche moderne. Più interessante è invece rilevare come analoghi trapassi dalla nomenclatura della pietra a quella del corpo umano siano suggeriti da altre omofonie, per le quali il trapasso semantico è, nella nostra concezione, assai meno ovvio, o sembra scontrarsi, addirittura, contro difficoltà insormontabili. Se il passaggio semantico da «picco, altura, monte» a «testa» sì ritrova, infatti, in area celto-ligure, per basi della nomenclatura geologica già da noi menzionate310, in altri casi esso appare assai più ardito, ed è documentabile solo in basse a considerazioni più complesse. Nei derivati dalla base alpina blista = «pietra piatta, schisto», ad es. (per cui cfr. le note n.192 e 260 di questo capitolo), il passaggio al valore semantico del provenz. blest, blesto = «ciocca di capelli», è mediato da tramiti, come quelli di cui si conserva traccia nel basso latino blista = «gleba», ant. franc. bleste, svizzero bleta = «zolla» e poi nel trent. biesta = «zolla erbosa, ciuffo d’erba o cespuglio». Già in quel caso, l’uso di un termine della nomenclatura geologica per indicare una parte del corpo umano resterebbe incomprensibile, se non si tenesse presente la già menzionata qualità delle rocce schistose, che favoriscono con la loro disgregazione la costituzione di un sostrato adatto alla vegetazione di essenze prative («zolla 310 Cfr. ad es, dalla base celtica cruca = «altura arrotondata» (per cui v. sopra la nota n. 231) il provenz. cruc, cruco = «sommità della testa». Cosi pure, in area ligure, altre voci, come il provenz. suc, su, vengono usate nella duplice accezione di «cima» e di «sommità della testa». 161
erbosa») e cespugliose («ciuffo d’erba, cespuglio»). Per il processo caratteristico dell’identificazione della pianta con il terreno su cui essa cresce, i derivati di blista vengono a indicare «la zolla erbosa» o «il cespuglio»; e di qui, il passaggio al valore semantico «ciocca di capelli» appare più ovvio, e trova riscontro in numerose altre voci analoghe (cfr. ad es. il franc. touffe = «cespuglio, cespo d’erba», e touffe de cheveux = «ciocca di capelli»). Più discutibile è già un’evoluzione semantica, come quella che si riscontra in alcuni relitti lessicali, derivati con varie formanti dalla base cala/carra = «pietra». Tra questi derivati, abbiamo già avuto occasione di menzionare quelli del tipo clap/crap, ai quali sono stati riferiti anche quelli del tipo crep/grep. Dal Piemonte alla Lombardia, in area ligure ed ai suoi margini, i continuatori di questo tipo si ritrovano di volta in volta, e magari nelle stesse parlate, col valore semantico di «pietra, roccia», e con quello di «cranio, testa». Sembra fuor di dubbio che il valore originario sia quello di «pietra, roccia»; e qui, il passaggio semantico sembra mediato dal concetto (non privo di a una tonalità scherzosa) di «durezza»: anche se, nei casi in esame, riesce difficile dire a che epoca risalga il processo di evoluzione, che solo in epoca recente, comunque, sembra aver dato a crapa (nel senso di «testa») una coloritura scherzosa. Questa funzione mediatrice della nozione di «durezza, consistenza», nel passaggio dalla nomenclatura della pietra a quella del corpo umano, sembra tuttavia avere un significato più profondo e più sostanziale, di quello che potrebbe apparire dall’esempio or ora citato. Alla base mediterranea cala = «pietra», è stata così, da più di un Autore, riferita la voce gallo-romana ebul- calium, attestata dal C. Gl. Lat., III, 582, 35 nel senso di «ungula caballina» (nome di pianta). La prima parte del composto trova un riscontro nel cimr. ebawl, ant. bret. ebol, bret. ebeul = «puledro»; la seconda sembra vada pertanto tradotta «unghia, zoccolo», e va messa a confronto con l’ant. e medio irl. calath, calad = «duro», e col lat. callus = «callo, callosità, indurimento». Qui il passaggio dalla nomenclatura della pietra a quella del corpo animale apparirebbe documentata (e mediata dalla nozione di «durezza») già per una epoca abbastanza remota; ed altre voci, come quella di calliomarcus, attestataci da Marcello medico (XVI,101), sembrano confermarci che un’evoluzione semantica del genere risalga alla fase gallica. Più notevole ancora, tuttavia, di attestazioni come quelle ora indicate, ci appare quella che risulta da basi galliche come calon = «Schenkel, Hüfte/garra = ein Teil des Beines», alle quali il REW (ai n. 1523 e 3690), e con esso la maggior parte degli Autori, riferiscono numerose voci romanze, particolarmente diffuse in area celto-ligure. Non è stato sufficientemente messo in rilievo, ci sembra, il parallelismo fonetico e semantico che si può ritrovare fra i derivati di queste due basi celtiche e quelli delle basi mediterrasse cala/carra = «pietra». Al piem. galon = «fianco», lomb. gallon = «coscia», engad. idem, lucch. galone, galetti = idem, 162
provenz. galet = «garrot d’un cheval, muque», rispondono il bret. garr = «gamba», provenz. garro = «jambe, jarret, fesse», comasco garla, bresc. zgarla = «gamba», milan. garon = «coscia» ecc. Anche in questo caso, come in altri già menzionati, le stesse controversie insorte fra gli Autori a proposito del riferimento dei derivati all’una e all’altra base, fanno nascere il sospetto che ci si trovi di fronte a due basi strettamente connesse tra loro; sicché riesce difficile, sovente (ad es. per i lombardi galon/garon), determinare a che epoca rimonti la differenziazione fonetica. Sono le stesse difficoltà, di fronte alle quali ci si trova spesso per i derivati di cala/carra e vien fatto di pensare se i derivati delle due basi celtiche non vadano, proprio, riferiti ad un’ulteriore evoluzione semantica dei derivati di quelle antichissime basi mediterranee, che ci sono apparse così strettamente legate tra di loro, anche da un parallelismo di evoluzioni morfologiche, fonetiche e semantiche. Ancora una volta, la nozione che ci si presenta più adatta a mediare l’evoluzione semantica qui prospettata è quella di «durezza, consistenza». Tutti i derivati neoceltici e romanzi si riferiscono a parti del corpo varie, ma caratterizzate da una particolare consistenza ed evidenza degli elementi scheletrici, ossei. Questo dato assume una speciale importanza, quando si tenga presente il fatto – sul quale dovremo tornare nel seguito di questo studio – che, dei relitti lessicali relativi alla nomenclatura del corpo umano, la stragrande maggioranza, se non addirittura la totalità, in area ligure, appare riferibile alla fase gallica, o comunque indoeuropea: non si ritrovano, a nostra conoscenza, relitti di questa nomenclatura, che possano essere direttamente riportati ad una fase ligure preindoeuropea. Questo non significa, beninteso, che nelle parlate preindoeuropee dell’area ligure mancasse una terminologia relativa al corpo umano; ma il peso di una tale nomenclatura nella coscienza e nel linguaggio di quelle popolazioni non doveva essere prevalente, se essa appare e viene trasmessa in tutto il suo rilievo nelle parlate romanze solo nelle forme che essa è venuta assumendo in fase indoeuropea. Il fatto non è senza rapporto, ci sembra, con la materia in esame. Contrariamente a quanto per noi, oggi, vien naturale di pensare, nelle popolazioni primitive – come d’altronde nel bambino – la nozione chiara e cosciente della propria individualità si sviluppa con relativa lentezza e ritardo, rispetto a quella del mondo, della società, delle individualità con le quali il soggetto operante, pensante e parlante entra in rapporto. Nelle popolazioni primitive, per di più – assai più che nel bambino moderno, che vive nella nostra società atomizzata – il carattere seminaturale, immediato, dei rapporti che legano l’individuo all’orda e alla comunità gentilizia, rende ancor più difficile la conquista di questa chiara e differenziata coscienza della propria individualità: nei confronti della Natura circostante, come nei rapporti con gli altri membri della comunità, quella che predomina è ancora un’oscura nozione di partecipazione, nella quale i limiti fra la propria individualità da un lato, la Natura e la società dall’altro, sono ancora assai fluidi e indistinti. 163
In queste condizioni, non può meravigliare il fatto che, alla stessa individualità corporea, il soggetto dia un’attenzione, che resta non soltanto poco tesa, ma è anche diffusa piuttosto che concentrata: sicché si allarga a quanto l’individuo ha visto, o toccato, o usato come strumento, e alla ciocca di capelli tagliata ormai dalla sua chioma, e all’immagine riflessa in una fonte o graffita sulla pietra; tutte realtà,che il soggetto considera come facenti parte di quella sua diffusa individualità corporea, e che come tali possono divenir oggetti e mezzi di malefici sortilegi nei suoi confronti. Questo non significa che, in questa diffusa corporeità – che gli etnologi misticheggianti cercano di presentare come una diffusa spiritualità, trasformando talora addirittura gli uomini del paleolitico in una specie di filosofi idealisti – questo non significa, dicevamo, che, in questa diffusa corporeità, non esistano gradazioni: imposte anche al primitivo, non foss’altro, dalla sua stessa sensibilità dolorifica, sia pure non così evoluta e differenziata. In questa gradazione di sfere della propria individualità, non vi è dubbio che il centro è occupato, tra le popolazioni primitive, proprio dalla individualità ossea, se ci è permessa questa espressione. Nell’indefinito fluttuare della propria individualità, che di volta in volta si allarga a nuove cose viste, e toccate, ed usate al lavoro al nutrimento ai rapporti sociali; nelle perenni trasformazioni che questa diffusa individualità subisce con le vicende del sonno, del sogno, della veglia, dell’età; mentre le carni si straziano di ferite nelle cacce e nelle battaglie, s’impinguano o si scheletriscono nelle vicende dell’abbondanza e della carestia, 1’osso, lo scheletro rappresenta un punto fermo e palpabile, un dato permanente dell’individualità primitiva, un dato che resiste anche alle offese della morte e della putrefazione, che riporta ogni vita e ogni altra forma di individualità nel ciclo universale del ricambio della Natura. Non staremo qui a documentare come, anche per l’area ligure, dalle epoche più remote del paleolitico si possano seguire, nelle pratiche funerarie, i riflessi di una concezione del mondo, come quella che abbiamo qui brevemente tratteggiata. Certo è che, per la sua consistenza come per la sua capacità di durare, l’identificazione della pietra con l’osso dové presentarsi come ovvio alle più antiche popolazioni della Liguria. Non dovrebbe meravigliare, in tal condizioni, un’evoluzione semantica come quella da noi prospettata per i derivati di cala/carra = «pietra», passati a designare le parti ossee del corpo umano, man mano che attorno ad esse si vien precisando l’attenzione di quelle popolazioni. Il fenomeno presenta numerosi riscontri nelle più diverse parlate del mondo; e già il Marr giustamente rilevava la grande importanza di tale identificazione, che non è certo senza rapporto, neanch’essa, con gli usi produttivi a cui, dalle epoche più remote, l’osso come la pietra sono stati destinati, grazie alle loro comuni qualità meccaniche. Certo è, d’altronde, che dati linguistici come quelli dell’ebraico, ove la voce medesima è usata nel senso di «osso» e come pronome riflessivo, illuminano di una luce ancor più viva questa importanza che la materiale consistenza dell’osso e della pietra hanno avuto 164
ed hanno, nella coscienza e nelle parlate delle popolazioni primitive, per fissare e consolidare il centro di individualità umane, ancora incerte e imprecise. Anche per questo verso, così, la nomenclatura della pietra sembra irradiarsi, nelle parlate delle antiche popolazioni della Liguria, in campi lontanissimi da quelli in cui, nelle nostre moderne concezioni, si allarga la nomenclatura del sasso e della roccia. Alla vigilia della invasione celtica, e poi della conquista romana, tra quelle antiche genti degli Appennini e delle Alpi, la vecchia nomenclatura del paesaggio geologico conserva un peso preminente, adeguato alla parte che i dati di questo paesaggio ancora hanno nella loro vita quotidiana. Ma accanto a questa nomenclatura, ne è germinata un’altra, pur ad essa strettamente legata per 1e sue origini, che è però ormai evoluta verso nuovi valori semantici. Da comuni basi mediterranee, son derivati nuovi termini, con nuove accezioni, che spesso si aggiungono, si sovrappongono, convivono con quelli che hanno conservati gli originari valori semantici geomorfici, e li hanno già consolidati nella toponomastica. Il vecchio e il nuovo, nel linguaggio come nella coscienza come nella realtà sociale, nascono l’uno dall’altro, si combinano l’uno con l’altro, variamente s’incrociano in una lotta perenne, nel corso della quale le necessità dominanti del linguaggio come mezzo di comunicazione e di produzione sociale vengono eliminando dall’uso voci o valori semantici che non rispondono più al dato grado di sviluppo raggiunto dalla comunità dei parlanti, o che ormai si presterebbero a confusioni. Studi ormai classici, come quello del Gilliéron sui nomi dell’ape in Francia, hanno ben nesso in luce le esigenze sempre nuove di chiarezza, con le quali l’evoluzione semantica e fonetica delle voci tradizionali mette alle prese ogni linguaggio, nel corso della sua evoluzione311. È fuor di dubbio che, anche per le parlate della Liguria antica, valgono le considerazioni svolte in proposito dal Gilliéron, e approfondite dal Bertoldi in vari suoi scritti. Anche qui, derivati delle basi mediterranee designanti la pietra e la roccia, si saranno scontrati con derivati omofoni, che ormai avevano subito un’evoluzione semantica a carattere stadiale, ed erano chiamati a designare tutt’altre realtà: la pianta, 1’animale, lo strumento di lavoro, sui quali l’evoluzione dei rapporti di produzione e sociali ormai accentrava 1’attenzione. Anche qui, pertanto, si è certo determinato uno scontro ed una concorrenza tra voci omofone, ma ormai profondamente divergenti per il valore semantico: e la necessità di eliminare imbarazzanti confusioni, avrà portato al graduale abbandono dell’uno o dell’altro uso, da parte dei parlanti. Nella Liguria antica, tuttavia, il processo dové svolgersi in condizioni profondamente diverse da quelle che il Gilliéron ha illustrato per la terminologia francese dell’ape. I dialetti gallo-romanzi della Francia si sono sviluppati nel quadro di un’evoluzione sociale e linguistica, che ha ben presto attribuito una funzione preminente ed unitaria ad una città come Parigi, 311 Nota mancante. 165
o ad altri centri di civiltà e di lingua; il processo di unificazione della lingua è stato, in quel paese, particolarmente importante e precoce. Nella Liguria antica, anche fatta eccezione per il centro di civiltà straniera in Marsiglia, ed in parte per Genova, un processo di unificazione delle parlate locali e tribali era certo ancora alla vigilia della conquista romana, assai arretrato: il relativo isolamento di comunità gentilizie e tribali, accentuato dalle caratteristiche geografiche del territorio, dové certo contribuire – assai più che nella Francia medievale e moderna – allo sviluppo di processi linguistici indipendenti, e ad un’attenuazione della concorrenza tra voci omofone. Nel territorio e tra le genti di quella data tribù alpina, così, quel dato derivato della base marra = «pietra» poté a lungo conservare il suo originario valore seamantico, mentre già, tra le tribù più evolute del colle e del piano, la voce omofona era usata nella nuova accezione agricola di «mucchio di fieno o di covoni»; le possibilità di confusione e di equivoco fra i due termini omofoni, e la loro concorrenza semantica, che sarebbe stata inevitabile tra comunità più strettamente legate dal punto di vista sociale e linguistico, veniva certo attenuata dal relativo isolamento e dalla relativa indipendenza nell’evoluzione linguistica di genti, pur geograficamente contigue. Questo spiega perché, in regioni come la Liguria, le parlate prelatine abbiano potuto tramandarci relitti linguistici particolarmente numerosi, che rispecchiano diverse fasi di sviluppo stadiale di queste parlate stesse, diverse stratificazioni linguistiche. La conservatività dell’area ligure, che la rende particolarmente adatta ad un approfondimento dei problemi della paleontologia del linguaggio, è legata proprio alla persistenza di una struttura tribale che – ancora alla vigilia della conquista romana – aveva lasciato un giuoco relativamente scarso ai fenomeni di concorrenza linguistica fra voci omofone: che – in società più progredite e più unitarie – porta in genere ad una più rapida eliminazione degli originarî o più antichi valori semantici stadiali di una data voce, o comunque ad una loro più precisa differenziazione. Non è certo possibile per noi, oggi, ritracciare nei suoi particolari la linea dei processi qui accennati, che si son senza dubbio – come abbiamo già avvertito – variamente incrociati e intersecati. Sarebbe vano, d’altronde, per i processi di sviluppo stadiale del linguaggio in una società come quella della Liguria antica, voler fissare una data, foss’anche di un secolo. Per le varie parlate di quest’area – esposte a così varie influenze culturali e linguistiche – l’accumulazione e la confluenza di singoli processi di evoluzione semantica, morfologica, sintattica, fonetica, legati alla trasformazione dei modi e dei rapporti di produzione, dové svolgersi con ritmi ben diversi; e certo diversa dové essere l’epoca in cui il confluire di questi processi fin per spezzare il quadro delle antiche parlate mediterranee, creando per la tradizione linguistica delle tribù, liguri un quadro nuovo, un quadro stadiale di tipo indoeuropeo, nel quale questa tradizione venne ormai a inserirsi, prima ancora della conquista 166
romana. È probabile che, prima ancora dell’invasione celtica, alcune almeno delle tribù liguri più avanzate fossero entrate in questa nuova fase stadiale di sviluppo linguistico, elaborando parlate di tipo indoeuropeo, alla cui affermazione non è certo stato estraneo anche e proprio il contatto con le zone marginali dell’ethnos e delle parlate celtiche elaborate nel largo quadro geografico e culturale della cultura di Hallstatt così come, per converso, sembra assai probabile il concorso delle tribù, e delle parlate della Grande Liguria pre- e protostorica nell’elaborazione dell’ethnos e delle parlate celtiche. I risultati di ricerche come quelle dell’Alessio312 s’incontrano qui con le conclusioni alle quali, per tutt’altra via, sono giunti i ricercatori della scuola archeologica e linguistica sovietica; e, di fronte a tali risultati, sembra siano da respingere soluzioni semplicistiche del tipo immigrazionistico, già criticate dal Patroni, secondi le quali 1’indoeuropeizzazione linguistica delle tribù liguri sarebbe da riportare essenzialmente a fatti di immigrazione o di conquista, celtica o preceltiea o illirica che sia. Che fatti del genere abbiano avuto la loro grande importanza nell’indoeuropeizzazione linguistica della Liguria, è fuori di dubbio; ma – specie quando ci si riporti alle epoche più remote – la terminologia stessa dell’indoeuropeistica sembra perdere ogni significato se si riferisce a tribù che non potevano (nelle date condizioni di sviluppo sociale) presentare caratteristiche etniche e linguistiche che andassero al di là di quelle di una tribù o di un temporaneo aggregato di tribù. Sull’argomento dovremo tornare nel seguito di questo studio, quando tratteremo della struttura tribale delle popolazioni liguri in quell’epoca che Engels ha chiaramente definito come l’epoca della «democrazia guerriera». Ma fin d’ora abbiamo voluto precisare il quadro, nel quale ci sembra vada collocata la rivista dei relitti linguistici relativi alla nomenclatura del monte e della pietra, che siam venuti passando in questo capitolo. È il quadro di un processo di sviluppo linguistico stadiale, nel quale le tribù liguri sono state impegnate per secoli, forse per millenni, e che lasciava importanti tracce nelle loro parlate, ancora alla vigilia della conquista romana; e i legami di questo processo con quelli svoltisi in lidi anche lontani del Mediterraneo (ed oltre) – che ci sono apparsi nel corso di questa rassegna – possono dar l’impressione che l’orientamento ed i risultati della mostra indagine ci portino ai accettare ipotesi, come quella acutamente, ma sfortunatamente, sostenuta dal Trombetti, nel senso di una monogenesi del linguaggio. Vogliam subito precisare, per contro, che la scuola linguistica marxista – alla cui metodologia abbiamo cercato d’ispirarci in questo nostri lavoro – ha contrapposto, al dibattito sulla mono- o poligenesi del linguaggio, la ricerca, ben più feconda, delle forme in cui si realizza la fondamentale unità del processo glottogenetico, che è qualcosa di ben diverso (e in un certo senso di contrapposto) da quanto il Trombetti ipotizzava nella sua teoria 312 Nota mancante. 167
monogenetica. Di contro a questa teoria, ed a quelle dell’indoeuropeistica classica, la scuola linguistica marxista considera come decisivo lo sviluppo dalla pluralità dei linguaggi tribali all’unità dei linguaggi etnici, nazionali, internazionali, e non quello inverso, da un’unica “prelingua” alle varie lingue nazionali o tribali. Anche senza escludere, beninteso, l’importanza dei concreti fenomeni di diramazione e di differenziazione linguistica, i ricercatori della scuola marxista – che non possono studiare il processo linguistico se non in stretto legame con quello della data società – sono portati ad escludere senz’altro la possibilità stessa di un’unica lingua là dove non esiste (e non potreste esistere ancora) un’unica società. Quel che per contro i ricercatori della scuola marxista sottolineano, è la fondamentale unità del processo glottogenetico dell’umanità, che non si esprime in un’attuale o storica o preistorica unità del linguaggio umane, bensì si afferma in una uniformità ed in una confluenza degli sviluppi linguistici delle popolazioni più diverse; che, attraverso la diversità dei mezzi fonetici, morfologici, sintattici, debbono pur esprimere, nelle varie fasi di sviluppo stadiale del linguaggio, una loro comune e sempre più ricca umanità, una progredente comunanza di rapporti produttivi con la realtà della Natura, e una sempre più umana comunità delle relazioni sociali. Senza addentrarci qui nel dibattito aperto, in questo senso, dalla scuola marxista313, abbiam voluto precisare che proprio in questo senso medesimo ci sembra vadano interpretati i dati, che qui siamo venuti e verremo esponendo; e quanto ancora diremo, a proposito dell’evoluzione stadiale di termini, tratti dalla nomenclatura del monte e della pietra, e volti a designare animali e piante, ci conferma ancora nelle nostre deduzioni. Senza soffermarci qui sull’evoluzione stadiale di termini geomorfici in fitonimi – sulla quale ci dovremo diffondere nel capitolo seguente – ci limiteremo qui a segnalare come, nell’area ligure, la terminologia del monte e della pietra si irradi largamente, oltre che nei settori concettuali già menzionati, anche in quello degli zoonimi, a prima vista cosi lontano e diverso; e questa nostra rassega risulterà, ce lo auguriamo, particolarmente probante ai fini del nostro assunto. Di questa irradiazione della terminologia della pietra nel campo degli zoonini, abbiamo già avuto occasione di far cenno, a proposito dei derivati della base mediterranea lapa/laba/laua = «pietra», relativi alla nomenclatura del coniglio. Così pure, alla terminologia della pietra abbiam visto riferite, in area ligure, voci del tipo cacalauso = chiocciola (da lausa = «pietra»?), ed altre, per le quali l’eventuale nesso semantico fra «guscio, conchiglia, corazza chitinosa» e «pietra» può apparire abbastanza ovvio, e si ritrova nei più svariati ambienti linguistici. Alla base carra = «pietra», sarà ad es. da riportare, probabilmente, il provenz. carracho = «agglomerato di mitili (cozze)», che si presenta effettivamente al raccoglitore come una incrostazione pietrosa; come alla base grava = «ghiaia», il provenz. graveto = 313 Nota mancante. 168
«ostrica fine», e forse alla base ganda il provenz. gangaulo = «guscio di lumaca». Analogo e più sicuro riferimento alla concrezione chitinosa del guscio o della corazza si ritrova nel tardo latino galapago, spagn. galapago, e in area ligure, dalla base cala/carra = «pietra», da cui anche lo spagn. carapacho = «guscio del granchio o corazza della tartaruga», franc. carapace = idem il provenz. carabasso = «granchio». Più interessanti appaiono, tuttavia, i trapassi semantici dalla nomenclatura del monte e della pietra ai zoonimi, quando tali trapassi – come avviene per il caso già menzionato del coniglio – si riferiscono all’ambiente in cui la data specie animale vive, al suolo su cui essa prospera. Ad alba = «monte», con una formante tipica del sostrato, sono stati riferiti ad esempio derivati del tipo albena = «gallinella delle nevi», i cui relitti si ritrovano in area ligure nel piemont. arbena, Val Soana albena, e in altri dialetti alpini, dalla Lombardia ai Grigioni alla Svizzera; alla base calabra/ galabra (per cui vedi sopra, alle note n.149-152), o direttamente alla base cala, relitti del tipo piemont. calabria, provenz. gelabro = «gallinella delle nevi, pernice di montagna» Così pure alla base mediterranea tala/tarra = «terra» viene ormai generalmente riportato dagli Autori, col (pre)latino talpa, il ligure talpone/darbone, che si ritrova nel darpus (attestato da Polenio Silvio), nel provenz. darboun, piemont. tarpun = «talpa». Abbiamo già rilevato, a proposito della formante colletivale in -on (cfr. sopra, alla nota n. 255) e della nomenclatura del conigli, come, nel caso dei nomi della talpa e del coniglio, il processo di evoluzione semantica dalla nomenclatura geomorfica a quella zoonomastica sia piuttosto che un processo di aggettivazione, un vero e proprio processi di identificazione, o di partecipazione dell’animale alla natura del terreno in cui esso vive, ed al quale esso, colla sua attività escavatrice, dà una particolare configurazione. Interpretazioni analoghe sono state o possono essere preposte per altri relitti di zoonimi, ben attestati nelle parlate romanze dell’area ligure. Ad una base labra = «pietra», così, con una formante che abbiamo or ora ritrovata in albena = «gallinella delle nevi», sembra da riportare il ligure labrena = «lucertola», provenz. (a)labreno, talabreno, galabreno = «salamandra», che il REW n.7525 raccoglie tra i derivati del lat. salamandra, senza una mediazione che giustifichi una così complicata evoluzione fonetica. Nel senso di «lucertola», a quanto ci risulta, le forme del tipo labrena sono documentate più anticamente che nel senso di «salamandra»: e nel provenzale stesso, i nomi popolari della lucertola (escalo-barri = «scaldamuraglie, grata-muox» ecc.) suggeriscono ancor oggi alla mente la sua frequenza sulle pareti o sulle pendici sassose e soleggiate. Così pure ad una base crapp-, ben attestata tra le derivate di carra, l’Alessio ha proposto di riportare il frane. crapaud, ant. franc. crapot, provenz. grapaud, grapal, grapard. Questo etimo appare più soddisfacente di quelli accolti dal Dict. étym. e dal DEF: il rapporto semantico fra «pietra» e «rospo» sembra confermato da voci come il bearnese harri = «rospo», diretto imprestito dal basco harri = «pietra». Ma, come rileva l’Alessio, là dove si accetti questo rapporto, esso dovrà riferirsi non solo 169
all’habitat del diffuso batrace, bensì anche alle antiche superstizioni sulla crapodin (il Krötenstein dei Tedeschi, la βατραχίτης dei Greci), che si credeva si trovasse nella testa del rospo. Come abbiamo già avvertito a proposito di altri trapassi semantici, bisogna guardarsi, quando tentiamo di ricostruire i tramiti logici che li hanno mediati, all’attribuir loro una precisione ed un carattere univoco, che non risponderebbe alla fluidità della concezione del mondo di popolazioni primitive. Questa fluidità appare con un particolare rilievo nel rapporto tra la già menzionata base mediterranea tala/tarra e una denominazione caratteristica del serpente o del drago, i cui relitti sono largamente attestati nella lingua e nel folclore dell’area ligure transalpina. Anche per la talpa, il cui habitat, le cui abitudini di vita, e persino il nome, sono legati al mondo sotterraneo, il folclore dell’area ligure attesta la tradizione di particolari virtù magiche, più universalmente attestate, d’altronde, da Plinio314. Ma è noto come ovunque, tra le popolazioni primitive, queste particolari virtù di comunicazione col misterioso mondo che è sotto di noi, nelle profondità della terra, dove i morti hanno la loro dimora, siano in primo luogo riservate al serpente, o alla sua trasfigurazione fantastica, il drago. In area ligure, è attorno alla favolosa Tarasco che si accentra una antichissima tradizione folcloristica relativa al serpente e al dragone. La voce è già documentata, con la caratteristica formante ligure in asc/usc, nell’antica toponomastica della Narbonense (cfr. la Ταρουσκών di Τolomeo, II, 10, ed i Tarusconienses di Plinio, nonché il nome dell’odierna Tarascon). Che il toponimo vada legato alla voce spagn. tarasca, proveaz. tarasco = «serpente, dragone», sembra fuor di dubbio. Un’antichissima tradizione locale connette il nome della città di Tartarin con il dragone, che terrorizzava il paese, e che solo la virtù di Santa Marta poté domare: ancora oggi, due volte l’anno, gli abitanti celebrano una solenne processione, per festeggiare la cacciata della Tarasco; e già nel 1474, il re Renato aveva regolamentato la cerimonia, e fondato l’ordine cavalleresco dei Tarascaires, incaricati d’inquadrale il l’effigie del mostro nel corso della processione stessa315. 314 Plinio (XXX, 7 e 12) ci dice come i Magi «animalium cunctorum talpas maxime mirantur», e ci attesta gli svariati usi magici e medicinali di questo animale, l’esame delle cui viscere era considerato particolarmente efficace anche ai fini della divinazione («nullum religionis capacius iudicant animal»). È interessante rilevare che gli usi medicinali descrittici da Plinio, specialmente quelli relativi al mal di denti ed alla dentizione dei bambini, sono ancor vivi nel folclore provenzale (cfr. Benoit, La Provence, p. 282). Altri di questi usi (per cui cfr. Plinio ai luoghi citati) ci mostrano come, nella medicina e nella magia simpatica del suo tempo, la talpa si identificasse (o partecipasse in un’analoga virtù curativa) con la terra. Anche in altri brani della sua opera, d’altronde, Plinio ci mostra l’interesse e la meraviglia che ancora al suo tempo suscitavano questi animali, che respiravano nella terra come i pesci nell’acqua, e sotterra vivevano, dannati a perpetua cecità («tot modis a rerum natura damnatas, caecitate perpetua, tenebris etiamnum aliis defessas»), simili ai sepolti («sepultis similes»). (Plinio XXX, 7; e cfr. anche VII, 43 e 83; IX, 6 e 83; XI, 52). 315 Cfr. Benoit, La Provence, p. 242 sgg. e 272. 170
Nella sua forma più tarda, la tradizione evoca certo – come quelle analoghe, che si ritrovano per tutta l’area ligure, ed oltre316 – il processo di cristianizzazione della regione, compiutosi in epoca relativamente tarda, e la liquidazione di riti magici o culti idolatrici, in cui il serpente doveva avere una parte di primo piano. Il materiale folcloristico, che il lettore potrà trovar compendiato in Benoit (La Provence, p. 242 sgg. e p. 272), mostra coma la tradizione della Tarasco, tuttavia, lungi dall’esser limitata a Tarascon, sia diffusa per tutta l’area provenzale, dove quasi ogni borgo, ogni chiesa, ha il suo mostro serpentiforme, di cui si celebra la cacciata, in processioni e feste il cui cerimoniale sembra evocare – oltre che la liquidazione dei riti magici o idolatrici del serpente – la persistenza di pratiche magiche e propiziatorie della fecondità, nelle quali il serpente ctonio, come altrove il fantoccio della “Vecchia”, viene abbruciato o gettato in acqua, per propiziar la fine della cattiva stagione e il ritorno della buona317. 316 Il Ferretto, nel suo studio su I primordi e lo sviluppo del cristianesimo in Liguria, pag. 329 sgg. e passim, ha raccolto, dagli Acta Bollandorum e da altre fonti, abbondanti materiali che attestano la tarda persistenza di culti o riti magici del serpente nella Liguria propria. Anche in quest’area orientale, come in quella provenzale, in quasi ogni città la leggenda del Santo evangelizzatore comporta una storia di “cacciata del drago”: così a Genova, dove S. Siro getta nel pozzo il basilisco, così ad Albenga, dove S. Veruno libera 1a città dal drago, così a Luni, dove è S. Venerio che libera il paese dal micidiale dragone. Che si tratti qui, come in Provenza, di leggende commemoranti la cristianizzazione del paese e la liquidazione di riti magici e culti idolatrici, è fuori di dubbio; ma è importante rilevare come, nell’area ligure occidentale ed orientale, questa commemorazione si accentri particolarmente attorno a leggende e cerimonie in cui ha parte il dragone. Che non si tratti di un mero simbolo generico del paganesimo, ma di riti e culti del serpente che sino a tarda età dovettere sopravvivere in quest’area, ce lo dimostrano documenti come quello, citato dal Ferretto, relativo all’evangelizzazione della città di Vado, dove il dragone non è trasfigurato in un simbolo, ma viene presentato come oggetto di un culto superstizioso delle popolazioni locali : «Quamplurimi erant (tra i Vadesi) qui...in quodam specu bestiam execrabilem omnibusque satis odibilem execrabant; et....ritu vanissimo et sceleratissimo eidem draconi quotidianas hostias sacrificiaque offerebant usu Paganorum». Nella Liguria propria, come in Provenza, tra le antiche popolazioni liguri, il culto del dragone ed i riti magici relativi al serpente si concentravano generalmente nelle grotte o attorno alle fonti: che, le une e le altre, mettono in comunicazione – secondo le concezioni primitive – il mondo terreno con quello sotterraneo, di cui il serpente è partecipe. 317 Per i riti magici della “Vecchia”, e per il loro significato, cfr. il Benoit, La Provence, p. 237 sgg. e passim, e le numerose opere relative a questi riti di magia simpatica, in cui l’abbruciamento della “Vecchia” deve propiziare il ritorno della buona stagione, e la cacciata della cattiva, simboleggiata, appunto, dalla “Vecchia”, e da altre maschere o fantocci, che sostituivano, probabilmente, le vittime umane di epoche più antiche. San Cesario, vescovo di Arles, ancora nel VI secolo doveva inveire contro questi riti magici in cui, alla vigilia della primavera, in tempo di Carnevale, si mascheravamo da animali o da vecchie, simboleggianti la cattiva stagione. Il Benoit giustamente rileva come, nell’attuale rituale delle processioni della Tarasco, l’antico serpente ctonio, come simbolo del mondo dei morti e degli inferi, sia 171
Che si tratti qui di tradizioni e di riti antichissimi, è confermato dai dati degli antichi mitografi come da quelli archeologici, che dimostrano la parte importantissima che il serpente e il dragone dovettero avere nella concezione del mondo delle antiche tribù liguri. Già in una delle versioni del mito di Ercole, tramandataci da Igino, non sono i Liguri, bensì un dragone, a contrastare all’Eroe il passaggio del Rodano; ed in un’altra versione del mito stesso, tramandataci da Apollodoro (cfr. Fragm. Hist. Graec., vol. I, Apollodori Bibliothea, II, 5, 10, 9), Δέρκυνος, il semidio ligure che, col fratello Ἀλεβίων vuol rapire i buoi di Ercole, e vien da questi ucciso, figura egli stesso, probabilmente, col suo nome, il drago. Ma in tutta l’area ligure e celtoligure, quest’importanza del serpente nella concezione del mondo di quelle antiche popolazioni è largamente attestata anche dai documenti archeologici e iconografici. A Nîmes, è il dragone della Fontana sacra di quella città, incatenato dalla Vittoria romana, che probabilmente è figurato sulle monete della colonia; e già nelle monete galliche, accanto all’immagine più caratteristicamente gallica del cavallo o del cinghiale, la figurazione del serpente è tra quelle che ritornano più frequentemente, e che più immediatamente esprimono, forse, credenze e riti del fondo etnico ligure preceltico318. Così pure nell’iconografia monumentale e religiosa, la figurazione del serpente, del serpente cornuto, del dragone, dell’anguipede, è diffusa per tutta l’area celto-ligure, da epoche assai remote fino all’indomani della conquista romana. Il complesso di questo materiale iconografico, illustrato dai dati della tradizione letteraria e folcloristica, non può far escludere che, in singoli casi, la figurazione del serpente vada riportata a quella di un animale totemico; più frequentemente, tuttavia, essa, suggerisce l’idea di riti e miti magici o religiosi, relativi a un simbolismo del serpente come essere ctonio – ciò che, d’altronde, non esclude necessariamente un particolare simbolismo totemico. Figurazioni come quella dell’altare di Parigi, dove una figura barbuta e provvista di una mazza minaccia un serpente; come quella dell’altare di Vendoeuvres, ove una figura con corna di cervo è affiancata da due altre, che calcano dei dragoni; l’immagine, soprattutto, di un anguipede calpestato da un cavaliere, che porta una ruota (un simbolo corrente del Sole), ed altre, sembrano suggerire che a riti e culti ctonii del serpente, forse più antichi, si sia venuta opponendo l’affermazione di culti celesti o solari, più caratteristici della nuova fase stadiale/indoeuropea per gli invasori celtici. Nella sottomissione del dragone, raffigurata nei monumenti, può vedersi rispecchiato un conflitto fra i nuovi gruppi etnici ei i nuovi culti dei celesti, che esprimevano certo una nuova e superiore cultura, e i vecchi riti magici del serpente ctonio, probabilmente più antichi. Son certo la nuova cultura ed i nuovi culti che hanno avuto il sopravvento: venuto ad assumere anche una funzione di “capro espiatorio”; affine a quella della “Vecchia”, con un incrocio di tradizioni che non risale forse alle epoche più remote. 318 Cfr. Dottin, Antiquité celtique, p. 218, 324 ; Benoit, La Provence, p. 272. 172
il cavaliere con la ruota calca 1’anguipede, divenuto ormai, forse, per i nuovi gruppi etnici o sociali portatori della cultura indoeuropea, simbolo delle forze malefiche della morte e degli inferi; ma tra le popolazioni delle campagne, i vecchi riti ctonî e l’adorazione del serpente dovettero restar ben vivaci, se – tanti secoli dopo – gli evangelizzatori della Liguria dovettero ancora «cacciare i draghi dalle caverne», con gesta leggendarie e gloriose, che la tradizione popolare ancor oggi commemora nelle sue processioni319. Al tempo di Plinio, comunque, queste credenze e riti magici del serpente avevano ancora tanta forza tra le popolazioni della Gallia, che egli sente il bisogno di dedicare un intero capitolo della sua opera (XXIX, 12) all’illustrazione dei loro riti, relativi alla raccolta delle «uova di serpente» considerate come impareggiabile talismano; e Plinio stesso ci racconta come l’imperatore Claudio mettesse a morte un cavaliere dei Vocontii, che sosteneva un processo ben munito di un tale talismano, per dimostrarne la vanità. Non ci diffonderemo ulteriormente qui sul rapporto semantico di Tarasco con la base mediterranea tala/tarra = «terra», che trova riscontro nella nomenclatura del serpente in altri gruppi linguistici. Ancora una volta, ci appare la larga irradiazione della nomenclatura geomorfica in un largo settore concettuale, che dové avere una importanza considerevole anche nelle epoche immediatamente precedenti e seguenti la conquista romana; e nelle considerazioni da noi proposte al lettore, per quanto riguarda un’eventuale sovrapposizione ed un conflitto di riti, rispecchianti due diverse fasi di sviluppo civile – riti magico-ctonii in fase ligure preindoeuropea, riti e culti celesti e solari in fase ligure indoeuropea e celtica – si può forse trovare una precisazione sul carattere stadiale degli sviluppi di cultura materiale e di lingua, che si concludono con 1’indoeuropeizzazione della Liguria: quando si tenga presente, comunque, quanto già abbiamo avvertito sulla necessità di evitare ogni concezione schematica ed univoca di un tale processo e di un tal sviluppo stadiale. Questo ci appare, qui, accompagnato da profonde trasformazioni nella concezione del mondo, dei rapporti dell’uomo con la terra e col cielo, con le forza misteriose che nella Natura operano. Atteggiamenti magici, attraverso i quali prevalentemente sembra si sia tentato di operare su queste forze in fase preindoeuropea, evolvono e forse entrano in conflitto con nuovi, e forse più astratti, culti religiosi, più caratteristici della fase indoeuropea, in cui l’adorazione dei Celesti tende a prevalere su riti della magia ctonia. Siamo qui, ancora, nel campo delle sovrastrutture ideologiche, che – come l’evoluzione del linguaggio stesso – non possono mostrarci ancora le radici più profonde del processo di evoluzione stadiale; solo nei capitoli seguenti, potremo veder più da vicino quali processi di evoluzione dei rapporti produttivi e sociali siano alla base di questa trasformazione 319 Cfr. Dottin, Antiquité celtique, p. 318, 324, 337 sgg.; Vendryes, Rélig. des Celtes, p. 249, 275, 283 e la letteratura citata da questi Autori. 173
dei mezzi di espressione linguistica, e della concezione stessa del mondo di quelle antiche popolazioni. Per ora, il nostro assunto è più limitato, anche se prepara il quadro di una ricerca più specifica, volta proprio all’approfondimento delle radici, che questo sviluppo stadiale trova nelle trasformazioni della cultura materiale e dei rapporti di produzione di quelle società320. 320 Presso tutte le popolazioni primitive, la parte preminente che il serperte assume nelle credenze e nei riti magici e religiosi è dovuta, oltre che alla connessione di questo animale col mondo sotterraneo, anche alla sua caratteristica di mutar la sua spoglia. Ogni anno, così, nell’immaginazione dei primitivi, il serpente muore e rinasce, riacquista la sua gioventù; e di qui è breve il passo – come mostrano le credenze popolari universalmente diffuse, raccolte dal Frazer – a considerare il serpente come l’astuta creatura, che con l’insidia ha usurpato dall’uomo l’immortalità, che a quest’ultimo era stata destinata. È questo, probabilmente, anche il senso originario del mito biblico del serpente e dell’albero della vita, per cui cfr. Frazer, Le Folklore dans l’Ancien testament, p. 15 sgg. Nell’area ligure, i legami del serpente e del drago col mondo sotterraneo si esprimono particolarmente nel riferimento delle rispettive credenze popolari alle fonti, ai pozzi, alle caverne, che mettono in comunicazione il nostro mondo terreno col mondo misterioso che è sotterra. È stato giustamente rilevato come – nel più antico documento letterario del folclore ligure, rappresentato dalle discettazioni degli antichi sulle origini della piana sassosa della Crau – Aristotele e Poseidonio sostenessero ipotesi diverse, che rispecchiavano probabilmente, comunque, credenze locali a proposito della parte che, nella formazione del paesaggio della Crau, dovevano avar avuto misteriose forze sotterranee (Cfr. Strabone, IV, 1, 7). Certo è che non vi è precipizio o caverna nell’area ligure che non sia stata nell’antichità, e che non sia sovente ancor oggi, centro di credenze e di riti, ai quali si connettono leggende, che ne sottolineano il carattere ctonio. Così per le numerose Balme o Baumes (grotte), dimore di serpenti o di dragoni, poi mete di pellegrinaggi. Nel volume già citato del Benoit, La Provence, p. 267 sgg., il lettore potrà trovar raccolto un abbondante materiale, relativo a queste credenze ed a questi riti magici e ctonii: la vitalità stessa dell’antico termine ligure di balma – non solo per le minori grotte, abitate sino ad epoca inoltrata da trogloditi, ma per le maggiori e le più remote caverne – ci attesta probabilmente la ininterrotta continuità storica di queste pratiche superstiziose dalle epoche più remote. È probabile, cosi, che la Sainte Baume, che è ancor oggi uno dei centri principali del culto e delle superstizioni popolari della Provenza, sia da identificare con una delle grotte di quella sacra selva dei Liguri, di cui Lucano (111, 399-452) scriveva, a proposito dell’assedio posto da Cesare a Marsiglia. Le credenze superstiziose, che terrorizzavano i legionari di Cesare incaricati di tagliar gli alberi della selva sacra, erano le stesse che aneor oggi corrono per la Provenza: «...Iam fama ferebat / saepe cauas motu terrae mugire cauernas / et procumbentis iterum consurgere taxos, / et non ardentis fulgere incendia siluae, / roboraque amplexos circumfluxisse dracones» (Lucano, III, 417-421). Abbiam già detto dei dragoni, diremo più avanti delle superstizioni legate al tasso; quella del muggito delle caverne è a tutt’oggi una credenza diffusissima in Provenza, ove per secoli si è creduto che dalle caverne e dai precipizi della montagna nascessero i venti. Ancora una volta, rimandiamo all’pera citata del Benoit per la documentazione folcloristica in proposito (op. cit., p. 267 sgg.). Quel che qui c’interessa di rilevare è il fatto che – come per le grotte e caverne (balma) – anche per i precipizî, ai quali le popolazioni riferìscono queste antiche credenze, si è generalmente conservata una denominazione lessicale o toponomastica, tratta dal fondo linguistico preindoeuropeo: così per voci come le provenz. barenc, avenc, croso = 174
«abisso», calan, calaven, bauri = «precipizio», calaborno, baumo, forse caborno e cafourno = «caverna», e specialmente garagai = «voragine, precipizio», che è stato riportato alla base carra = «pietra» ed oltre ad esser vivo a tutt’oggi nel lessico regionale, è stato largamente produttivo nella toponomastica. Fra i garagai è particolarmente rinomato quello della cima della Sainte Victoire (cristianizzazione di un più antico Mont Ventour, «il monte del Vento»), ove si dice che Mario precipitasse 300 Teutoni dopo la vittoria di Aquae Sentiae, e attorno al quale, in due giorni particolarmente significativi, si accendono i fuochi di Sainte Venture (24 aprile) e di San giovanni (24 giugno). Non meno significativo è il nome del ruscello che scorre ai piedi del monte: il ruisseau des Infernets, che comunica con una “bocca dell’Inferno”. Da secoli i pastori della regione sono convinti che una potenza sovrannaturale abiti la voragine, come 1’altra che ha dato il nome a Saint-Jean-de-Garguier (Gargarias), già reputata per le sue sorgenti in età romana, e attorno alla quale, il giorno di San Giovanni, i pellegrini si davano, coronati di fronde, secondo riti antichissimi, a danze stravaganti, al suono di caratteristiche trombette d’argilla. La voragine, le potenze ctonie, il vento che nasce dall’abisso, le trombette d’argilla, le danze stravaganti nella data del solstizio, le corone di fronde: tutti dati che si ritrovano a tutt’oggi nei riti che si svolgono attorno ai garagai e ai Garguier, e che ci riportano certo a credenze (si pensi alle trombette d’argilla) che dovettero dominare le popolazioni liguri ben avanti la conquista romana, ed hanno le loro radici in una fase probabilmente preindoeuropea. È caratteristico in proposito il fatto che – nonostante il terrore che spira dalle misteriose voragini – la potenzia che in esse risiede non è generalmente concepita dalle popolazioni come una potenza malefica. Al contrario: il citato ruscello degli Infernets accelera – nelle credenze locali – la maturità delle messi nei campi bagnati dalle sue acque; nel garagai della Sainte Victoire, i pastori calano i loro agnelli ammalati, che ne escono risanati, e così via. Credenze del genere rappresentano probabilmente i relitti della fase più antica, preindoeuropea, nella quale le potenze ctonie erano potenze della fecondità; e riti della fecondità femminile stessa, legati a pietre ed a caverne, come quelli di Fours, di Brignoles, li Varages, e non disgiunti da riti fallici, sono a tutt’oggi vitali in Provenza (cfr. Benoit, op. cit., p. 288 sg.). Il vento stesso, che nasce dalle voragini, ha nelle credenze popolari una potenza fecondante. Nel VI secolo, San Cesario, vescovo d’Arles, raccoglie in un guanto il vento per fecondare la valle di Nyons, ostinatamente sterile; e dalla voragine, da lui miracolosamente aperta, il vento non ha più cessato di soffiare. La credenza non è spenta in Provenza; ed al vento che soffia sulla chaussée du Vidourle, a Marsillargues, si attribuisce, non senza ironia, oggi, la virtù di ingravidare le fanciulle. Certo è che dal garagai, dalla voragine ctonia, ha preso il nome il garagau – un termine col quale, anche ai nostri tempi, si designa in Provenza un vento freddo. Ancora una volta – per ma via che, questa volta ci è appieno illuminata dai dati della tradizione folcloristica – dalla terminologia del monte e della pietra, siamo trasportati ad una nomenclatura di fenomeni cosmici, che solo a prima vista, quando si tenga conto della fase di sviluppo stadiale del pensiero e del linguaggio a cui questi trapassi si riferiscono, può apparire distante ed estranea. E non basta. Come, ad Arles, il vento si soleva personificare in Jan d’Arle, così in altre parti della Provenza il garagau, il vento freddo della tempesta, con le sue nubi temporalesche dalle forme fantastiche, ha dato vita alla leggenda di Galagu, l’uomo-nube, una sorta di Gargantua popolare, che cavalcava il Rodano e vi attingeva acqua con la mano di gigante. Non sempre, certo, le potenze ctonie del garagai dovettero apparire, tuttavia, alle antiche popolazioni liguri, in questa forma di gigante bonario, o come forze benefiche della fecondità. Abbiamo accennato già come vari dati portino a credere che, in fase indoeuropea, 175
Tra gli zoonimi d’area ligure, per i quali potrebbe esser prospettato un riferimento alla terminologia della pietra, in rapporto con 1’habitat delle rispettive specie animali, vogliamo proporre ancora qui il provenz. garri, piem giari = «topo», usato ad indicare varie specie di rosicanti, tra le quali le più presenti all’attenzione delle antiche popolazioni liguri furono certo quelle di habitat campestre o montano. Da più di un Autore queste voci son considerate come relitti mediterranei, ei il DEI (s.v. cardasco) le connette con una base garrio/gardio, da cui il calabr. càrdamu, cardàcchiu ecc.= «piccolo del ghiro o del topo», spagn. harda = «scoiattolo», berbero (a)gerda = «topo». L’alternanza consonantica rr/rd è ben documentata, come è noto, nel sostrato mediterraneo d’area occidentale, e particolarmente iberica; e l’omofonìa del provenz. garri con derivati della base carra = «pietra», usati ad indicare la garrigue, la landa pietrosa, suggerisce l’ipotesi che anche la voce garri = «topo, rosicante», possa essere riferita alla medesima base carra = «pietra», o più immediatamente ai suoi derivati, ben attestati in area ligure nel senso di «landa pietrosa». Voci come quelle già illustrate a proposito della terminologia del coniglio, o come il beamese landarro = «topo», che avvicinano il nome del rosicante alla nomenclatura del paesaggio in cui esso vive, potrebbero confermare l’ipotesi da noi qui prospettata; mentre il DEI stesso cita, alla voce cardasco, il calabrese carpa, càrpina, calfa = «ghiro», che ci riportano, dal punto di vista fonetico, a derivati della base carra che, anche per la loro formante, queste antiche potenze ctonie dovettero essere contrastate, e poi ricacciate nel sottosuolo della società ligure, da nuove potenze celesti, che esprimevano nuovi rapporti di produzione, ed una nuova concezione del mondo: meno magica, più religiosa, più pessimistica, meno fiduciosa nella capacità dell’uomo di propiziarsi le forze della Natura con l’ausilio di riti magici, senza l’intervento degli Dei superni. Anche di questa fase più recente non mancano, naturalmente, larghe tracce nel folclore dell’area ligure. Le fate come quella della SainteBaume de l’Esterel, che ancor oggi le donne invocano per divenir feconde, cedono più sovente il posto, per tutto il Medio Evo, e forse assai prima, alle masco, alle streghe che abitano le grotte di Cordes, del Luberon, della Val d’Enfer. Dal garagai, dalla voragine ove operano le potenze ctonie, non esce più solo il vento fecondo o l’acqua che risana: esso divien la sede e il riparo terrifico del Galamaudo, il mostro che ad Allauch ed in altre città della Provenza prende il posto della Tarasco nella processione del solstizio d’estate, nella funzione espiatoria già menzionata a proposito dell’abbruciamento della “Vecchia”; del. Garamache della Rouergue, il Garamaudo della Bassa Provenza, una specie di lupo-mannaro, che serve a far paura ai bambini. Decadenza delle potenze ctonie: garagai, come forse già nelle età più remote, è sempre la voragine ctonia, e ancor oggi è usato per “Inferno” nelle parlate della Provenza. Ma a questa voce, è ormai attribuita – era forse già attribuita, quando i legionari romani tagliavano la selva sacra dei Liguri – un’assonanza solo di paura o di minaccia o di scherno, in cui non si sente più l’eco di una fiducia dell’uomo nella sua capacità di dominare coi riti magici le forze feconde della Natura. Siamo lontani, nella nostra scorsa, dal mondo della roccia, del monte, della pietra. Ma se il lettore ci avrà seguiti, in questa lunga digressione, si accorgerà, ce lo auguriamo, che la nostra corsa ha seguito una via, che a ritroso può condurci un po’ più vicino alle concezioni, ai sentimenti, alla vita di quella antica umanità della Liguria. 176
sono largamente attestati nella terminologia della pietra. Se questa nostra ipotesi dovesse restar confermata, alla base carra = «pietra», potrebbe anche essere riportato il (pre?) gallico carmo, -one del REW n.1700 = «donnola», i cui relitti si ritrovano nelle parlate romanze ai margini dell’area ligure, e in cui alla formante in -m-, ben attestata nei derivati di carra, si aggiunge la formante collettivale in -on, anch’essa ben documentata nel sostrato. Il passaggio semantico dal topo allo scoiattolo al ghiro alla donnola non fa difficoltà (cfr. ad es., a proposito della nomenclatura del coniglio, sopra illustrata, il passaggio dall’aragon. llorigada = «nidiata di conigli» al catal. llodrigo = «grosso ratto»). Per gli zoonimi sin qui illustrati, comunque, sembrino o non sembrino fondate le ipotesi proposte, le eventuali obiezioni o difficoltà non sembrano dover nascere da una ripugnanza, che trapassi semantici del genere di quelli qui citati o suggeriti possano suscitare nella nostra mentalità moderna. Ancor oggi – e se ne potrebbero facilmente citar degli esempi – siamo portati, nella creazione di neologismi relativi al settore degli zoonimi, a riferirci a caratteristiche, quali possono essere quelle della durezza di una corazza chitinosa, o di un determinato ambiente naturale, in cui la data specie animale prospera. Vero è che, anche in tal caso, più difficilmente saremo portati a trarre la nostra ispirazione dalla nomenclatura della pietra; ricorreremo più sazi spontaneamente a quella, forse, del ferro o dell’acciaio. Così pure è vero che, in queste creazioni più recenti, si può ritrovare più frequentemente il ricorso a un processo di aggettivazione, e sarà più raro il procedimento della identificazione dell’animale con l’ambiente in cui esso vive. Abbiamo già accennato i motivi di questa diversità di trattamento, e cercato di mostrare quale nesso tale diversità presenti con la particolare funzione della pietra come strumento produttivo da un lato, con i legami ancora seminaturali che vincolano ancora l’uomo alla Natura ed alla società dall’altro. Nei trapassi semantici dalla nomenclatura della pietra a quella del mondo animale, che ora siamo per proporre in ipotesi al lettore, il caso è diverso più complesso, e certo meno ovvio. Il tramite capace di mediarli sembra, a prima vista, mancare del tutto, e non sempre è possibile ritrovarlo, anche attraverso una ricerca approfondita: pure se, nel complesso, il ritrovamento di nessi omofonetici tra la nomenclatura della pietra e gli zoonimi, per le specie più diverse, e nei gruppi linguistici più vari, c’impone se non altro di proporre ai ricercatori il problema, e di tentar la via di una soluzione. Si può osservare, d’altronde, che – almeno per alcuni dei casi che proporremo – una mediazione del trapasso semantico non manca del tutto, ed è stata già segnalata da vari ricercatori della scuola italiana. L’Alessio, ad esempio, nella sua monografia già sovente citata sulla base Karra (cfr. St. Etr., vol.X, p. 76), ha attirato l’attenzione sull’evoluzione semantica che, nell’Italia meridionale, hanno subito i derivati di basi mediterranee come grava e morra, delle quali abbiamo già avuto occasione di intrattenere il lettore (cfr. le note n.129 e n. 203 di questo capitolo). Per 177
voci come l’irpino morra, calabr. murra ecc.= «torma, gregge», l’Alessio propone una mediazione semantica «mucchio di pietre» → «mucchio» → «torma», che si ritrova anche in derivati di grava, ad esempio nel cosentino gravina = «quantità di persone o di animali». Non sarebbe impossibile, forse, citare altri esempi del genere, anche fuori dell’area meridionale. Quale che sia l’epoca, nella quale questi trapassi semantici si sono sviluppati, essi già mostrano come la nomenclatura del regno animale non rifugga dal ricorso ai termini tratti da quella del paesaggio geologico, anche per designare aggruppamenti di esseri viventi, per i quali non si può certo invocare la mediazione del passaggio semantico né «la durezza della pietra», né «l’identificazione coll’ambiente su cui essi prosperano». Rapporti come quelli – oggi generalmente riconosciuti – tra il lat. homo e humus, o tra l’ebraico adam = «uomo» e adamah = «terra»321, mostrano del resto che, dalle epoche più remote, una ripugnanza del genere non appare neanche quando si tratta del re degli animali, l’uomo, che vien proprio designato con una voce tratta dalla nomenclatura del paesaggio geologico. Ci troviamo qui, evidentemente, di fronte ad una fase di sviluppo stadiale della società, della coscienza e del linguaggio umano, in cui una nozione ben differenziata dell’individuo nei confronti della Natura e della società comincia appena a chiarirsi. Con un’espressione che non manca di efficacia, pur se appare scientificamente imprecisa, il Marr ha designato questa fase dello sviluppo stadiale del pensiero e del linguaggio come la fase della «mentalità cosmica». Abbiamo già accennato ad alcune caratteristiche di questa fase, a proposito delle formanti mediterranee nella nomenclatura del paesaggio geologico: e, beninteso, non si tratta di una fase (anzi, di un complesso di fasi) temporalmente ben definite, ed ormai concluse. I relitti e la continuità produttiva di una tale fase si possono ritrovare persino nel sottosuolo 321 Cfr. LEW I, p. 655, s.v. homo, e Meillet, Linguistique historique, p. 272 sgg. Pur accogliendo le motivazioni, che il Meillet adduce per un legame tra homo e humus (e per le analoghe voci gotiche guma, baltiche, slave), non pare si possa accettare la sua interpretazione del nesso ideologico tra le due voci. Il Meillet, con altri indoeuropeisti, ritrova questo nesso nella contrapposizione dell’uomo “terreno” agli dei “celesti”. Il confronto con l’analogo nesso dell’ebraico adam = «uomo», con adamah = «terra», e adom = «rosso», e la stessa reminiscenza biblica della creazione di adam = «l’uomo», dall’argilla, propone un nesso ideologico ben diverso, e più rispondente ad una fase più arretrata dello sviluppo sociale. Adamah = «la terra», è «la terra rossa», «la terra argillosa», oggetto della cultura agraria e dell’arte plastica; al «cielo» = šamaim, si contrappone semmai, più sovente, un’altro termine per «terra» = areta. Il Frazer ha d’altronde raccolto abbondanti materiali, che mostrano come il racconto biblico della creazione dell’uomo dall’argilla (e proprio dall’argila rossa, più raramente dalla pietra) trovi una rispondenza tra le più varie popolazioni primitive (cfr. Frazer, Le Folklore dans 1’Ancien Testament, pp. 3-14). Il mito così diffuso, come l’antichità stessa del nesso semantico nei casi in esame, sembrano esprimere una partecipazione dell’uomo alla terra, una sua identificazione con essa, assai più che una contrapposizione dell’uomo “terreno” agli dei “celesti”, che è il fatto di uno sviluppo concettuale assai più tardo. 178
delle nostre società contemporanee, e assai più largamente nei primi documenti scritti delle società antiche. Ma l’epoca, alla quale questa fase di sviluppo della coscienza e del linguaggio umano ha dato la sua impronta decisiva, precede di certo ogni inizio di una storia scritta; è quella di società umane, in cui il basso livello delle forze produttive e il carattere naturale dei rapporti di produzione non lasciano ancora adito ad una differenziazione precisa dell’individuo dal gruppo sociale di cui esso è parte, e tanto meno ad una differenziazione di classi sociali. Il carattere naturale dei rapporti sociali condiziona qui la naturalezza dei rapporti dell’uomo con la Natura, e viceversa: la terra, la pietra, la pianta, l’animale, l’uomo, sono ancora parte di una realtà appena differenziata, nella quale quello che per noi è un trapasso dall’uno all’altro regno, e persino dal mondo degli esseri inanimati a quello degli esseri animati, non è ancora un trapasso. Le ricerche della scuola etnografica sovietica322 hanno mostrato come, per tutta l’epoca che segue il paleolitico inferiore, fino allo stadio superiore della barbarie, le concezioni ed i riti totemici son stati, tra i popoli più diversi, l’espressione culminante di questi rapporti interni ed esterni delle comunità primitive. Finché, prima del definitivo affermarsi dello strumento metallico, la pietra (e il legno, o la terra e l’argilla per quanto riguarda il «sistema vascolare») son restati la materia decisiva del lavoro e dello strumento di lavoro, il più immediato oggetto dell’interesse produttivo dell’uomo323, non può meravigliare 322 Cfr. in proposito l’importante rassegna critica del Tolstov, Sovetskaja ŝkola v etnografii, p. 24, con abbondante bibliografia, in Sovetsk. Etnogr., 1947, n.4, p. 8 sgg. 323 Si considerino i tesori di tenacia, di pazienza, di attenzione, che le popolazioni dell’età della pietra dovevano profondere per ricercare e selezionare le qualità, di pietre adatte a ricavarne strumenti, asce, e raschiatoi, e pugnali, e punte di frecce; per scheggiarle nelle forme volute, e poi per levigarle. Non meraviglia che “la roccia” o “il mucchio di sassi” fossero per esse l’oggetto di un interesse dominante, sicché di questi termini abbiam ritrovato numerosi relitti, da esse trasmessi ed immessi sin nella lingua dei conquistatori celti o romani. In questo senso, è probabile che, nelle fasi superiori dell’età della pietra, l’interesse centrale per questa materia prima degli strumenti di lavoro si sia affermato, ancor più che nel paleolitico: malgrado i progressi della tecnica, la confezione dei perfettissimi strumenti in pietra levigata, che ancor oggi ammiriamo, dovè richiedere un impegno ed un tempo di lavoro proporzionalmente crescente, anche se, certo, più che compensato dalla accresciuta efficacia. Rispetto alle epoche precedenti (come sempre di nuovo, in ogni sviluppo progressivo dell’umanità) un tempo maggiore dovè essere ormai destinato alla produzione dei mezzi di produzione, un tempo relativamente minore al processo di produzione di beni di diretto consumo (caccia, agricoltura, taglio della legna, resi ormai più facili dalla maggiore efficienza degli strumenti). Queste considerazioni possono anche spiegare perché – malgrado l’uso indubbio anche di strumenti di legno – la nomenclatura del legno non abbia, da quelle epoche più remote, lasciato così larga traccia di sé nelle nuove parlate. Finché una più complessa tecnica del legno (la ruota, il carro ecc., che nascono già nell’età dei metalli) non si afferma, lo strumento o l’arma di legno (la mazza, il randello, la lancia ecc.) richiede, a quanto ci è dato conoscere, un impegno produttivo nettamente minore (salvo forse per 179
che proprio dalla nomenclatura della pietra si irradiasse una terminologia, allargata a tutto quell’indistinto regno della Natura, di cui l’uomo stesso si sentiva ancora parte integrante324; così come, nel feticcio di legno, d’argilla, di pietra, che egli stesso aveva raccolto od eretto, che il suo stesso lavoro aveva configurato e animato, la materia e lo strumento medesimo del suo quotidiano lavoro appariva all’uomo come una forza, una potenza della Natura. La pietra animata dal lavoro, e che anima col lavoro: se, per quanto riguarda le società fondate sulla produzione di merci, Marx ha chiarito il loro mistero in quello che egli ha genialmente chiamato il carattere feticistico della merce325, per le imbarcazioni), secondo che comporta la natura stessa del materiale. Appuntire un ramo staccato dall’albero, nella cavità di una roccia o con un raschiatoio in pietra, è ben più facile e richiede ben meno tempo che ricercare la pietra adatta a servir da raschiatoio ed affilarla: e levigare, poi, una punta di freccia in pietra, è operazione ben più lunga e difficile ancora. 324 In epoche più tarde, ed in fasi di sviluppo stadiale ulteriore del linguaggio – a parte, anche, le persistenze di processi ritardatari nel sottosuolo della data società – non è impossibile, beninteso, rintracciare trapassi semantici tra la terminologia geomorfica e quella degli zoonimi. Si può cifrare, ad es., con l’Alessio, Sostrato mediterraneo, p. 146, il tràganu = «sterile, duro, cretaceo», di Reggio, ed il catanzarese ircinu = «duro e argilloso» (del terreno), dalle voci rispettivamente greche e latine per «capro». È da rilevare qui, tuttavia, che: 1) ci si trova di fronte a un processo di aggettivazione, non di identificazione. 2) I1 passaggio semantico si irradia dalla nomenclatura degli zoonimi (pastorale, in questo caso) a quella geomorfica, e non viceversa. Il caso sembra pertanto diverso da quello che l’Alessio cita nella nota stessa, del rapporto fra il (pre)latino petra = «pietra», e petro, -onis = «vecchio montone», ove tutto fa ritenere che «pietra» sia il valore semantico fondamentale, e ove la formante collettiva in -on non pare possa aver funzione aggettivale. 325 «Ciò che vi è di misterioso nella forma-merce – scrive Marx in un passo famoso del Capitale – consiste pertanto semplicemente in ciò: che essa riflette per gli uomini i caratteri sociali del loro proprio lavoro con caratteri oggettivi dei prodotti stessi del lavoro, come naturali qualità sociali di questi oggetti (Marx parla qui della forma sotto la quale il valor di scambio appare al produttore nella società mercantile); sicché anche il rapporto sociale del produttore col lavoro complessivo vien riflesso per lui come un rapporto sociale fra oggetti, che esiste anche al di fuori di essi. Attraverso un tale travestimento i prodotti del lavoro divengono merci, oggetti sensibili sovrasensibili, ovvero oggetti sociali ... È solo il determinato rapporto sociale tra gli uomini stessi, che qui prende per essi la forma fantasmagorica di un rapporto tra le cose. Per trovare, pertanto, un’analogia, dobbiamo volar nella regione nebulosa del mondo religioso. Qui i prodotti del cervello umano appaiono come figure autonome, dotate di vita propria, che stanno in rapporto tra di loro e con gli uomini. Così, nel mondo delle merci, i prodotti della mano dell’uomo. Questo è quello che io chiamo il carattere feticistico, che resta appiccicato ai prodotti del lavoro, non appena questi vengono prodotti come merci, e che è pertanto inseparabile dalla produzione mercantile» (Marx, Das Kapital, I Buch, Kap. I, 4). È caratteristico il fatto che – nel feticismo della pietra – a parte il caso di veri e propri idoli, figurati dal lavoro umano, la pietra-feticcio è generalmente una pietra che, dagli agenti naturali, è stata levigata o sagomata in forme, che appaiono il prodotto di un vero e proprio 180
le fasi di sviluppo stadiale di cui qui trattiamo, caratterizzate dalle concezioni e dai riti totemici, si può a buon diritto, e fuor di metafora, parlare di un vero e proprio feticismo della pietra, nel senso più largo di questa espressione; anche se, senza dubbio, feticismo (nel senso più preciso e tecnico della parola) e totemismo debbono essere, e sono stati giustamente, distinti. Alla vigilia della romanizzazione linguistica della Liguria, certo, anche quelle popolazioni indigene erano da tempo uscite dalla fase, in cui la pietra aveva questa funzione decisiva come strumento di lavoro, e in cui il feticismo della pietra e 1e concezioni totemistiche davano la loro impronta a tutta la società, dominando incontrastate nella mentalità primitiva. Abbiamo già accennato – e più approfondiremo la questione nel seguito di questo studio – come lo sviluppo delle forze produttive e dei rapporti sociali interni ed esterni avessero già indotto nella società ligure processi, che tendevano a ricacciare nel suo sottosuolo quei gruppi sociali, e quelle forme di produzione, quelle concezioni e quei riti, che rappresentavano oramai una fase sorpassata e regressiva, rispetto alle nuove forse che ormai affioravano alla superficie della società. Ma è proprio in questo sottosuolo, è proprio nel quadro di questi relitti di fasi più remote dello sviluppo sociale, della mentalità, del linguaggio – ancor vivaci in Liguria, nei secoli precedenti la conquista romana – che dobbiamo ricercar la soluzione dei problemi, posti dalla constatazione del frequente trapasso semantico dalla terminologia della pietra a quella degli zoonimi; ed anche là dove, di questo trapasso, non si possa precisar la mediazione, esso presenta per noi un interesse, in quanto ci riporta a fasi stadiali, di cui la storia scritta non saprebbe conservarci la memoria. Ancora una volta, ai fini della nostra ricerca, più ancora che la precisazione dello sviluppo semantico di singole voci, quel che c’importa è proprio il dato statistico, per così dire, del riferimento di un intiero gruppo di voci alla nomenclatura geomorfica. In questo senso, proponiamo qui all’attenzione degli specialisti – con tutte le riserve del caso, beninteso – alcune congruenze, che sembrano meritare una ricerca più approfondita. Abbiamo già rilevato, ad esempio, come – a proposito degli etnonimi dei Taurini e dei Taurisci – l’opinione degli studiosi sia divisa, quanto ad un eventuale riferimento di tali voci alla base mediterranea taur = «monte», ovvero alla radice da cui il lat. taurus = «toro» (cfr. la nota n. 65). Come abbiamo già osservato in altre occasioni, là dove ci si trova di fronte a dibattiti del genere, è sempre da proporre l’ipotesi che la soluzione vada ricercata più lontano, in una derivazione delle due voci in questione da un’unica base, che potrebb’essere lavoro. Particolarmente diffuso è l’uso di feticci consistenti in pietre levigate, quali si trovano nel letto dei torrenti, secondo un procedimento che gli uomini cercavano di imitare nei loro usi produttivi della pietra. Cfr. in proposito i materiali raccolti da Frazers, Le Folklore dans 1’Ancien Testament, p. 202 sgg. 181
qui proprio la base mediterranea taur = «monte». Non mancano gli argomenti per sostenere una stretta associazione del «monte» (taur) e del toro (lat. taurus, gall. tarvos ecc.; le parlate d’area indoiranica rispondono, come è noto, con derivati da altra base)326, nella mentalità, negli usi, nei riti delle antiche popolazioni mediterranee, dall’Asia Minore alla Liguria all’Iberia. L’ossessionante ricorso delle figurazioni tauriformi nelle incisioni rupestri di Monte Bego, la loro associazione col culto dell’ascia, che si ritrova per tutta l’area di diffusione della base taur monte, e particolarmente nella catena montuosa del Tauro, in Asia minore, suggerisce un nesso tra «il monte», «il toro», «l’ascia bipenne», che è stato proposto di ricercare in queste varie manifestazioni del «dio dell’uragano» ma che è probabilmente più complesso, e risale ad epoche più remote. I dubbi che il nesso proposto tra taur = «monte», e taur = «toro», può sollevare, restano un po’ scossi, comunque, quando nessi analoghi possono esser ritrovati, o almeno proposti, tra altri zoonimi e termini della nomenclatura geomorfica mediterranea. Al (pre)latino mons = «monte», per il quale non esiste un’etimologia indoeuropea soddisfacente, è stato accostato, come è noto, il basco mendi = «monte»327; ma a questa base, con un’alternanza ben documentata nel sostrato mediterraneo, si potrebbe riferire tutta una serie di zoonimi, che, dal basco mando = «mulo», va al gall. mandu-, romanizzato in mannus = «cavallo di razza piccola» ai continuatori di mandius in area ligure e alpina = «giovenca, manzo», ed a voci con analogo valore semantico in area illirica, dalla quale forse (oltre che dall’area celto-ligure) lo zoonimo è penetrato nel latino e nelle parlate romanze. Non fa difficoltà, nella considerazione di questa serie di voci, il passaggio dal valore semantico di «mulo» a quello di «cavallo» o di «bovino», che è d’altronde riconosciuto dalla maggior parte degli Autori che si sono occupati dell’argomento. Il Marr ha largamente documentato, nelle sue ricerche, la frequenza di passaggi semantici del genere, attraverso i quali, presso i popoli più diversi, la stessa voce viene usata per designare specie animali differenti, che di volta in volta assolvono alla stessa funzione produttiva, o per una ragione o per l’altra vengono comunque ad assumere un’importanza fondamentale per i parlanti. Maggiori dubbi può sollevare, naturalmente, il nesso proposto con la base del basco mendi = «monte», anche se il mulo è, certamente, l’animale più largamente usato nei trasporti per i più aspri sentieri della montagna. Non insisteremo, tuttavia, su questa mediazione ideologica: nel caso che il nesso proposto dovesse restar confermato, siamo portati a credere, come abbiamo già rilevato altre volte, che esso sia assai più impreciso e più complesso ad un tempo. Così pure per altri casi, ove sembra che il nesso ideologico sia da riferire, a prima vista, alla nozione di «sterilità», non si potrebbe 326 Nota mancante. 327 Nota mancante. 182
assicurare che – almeno per quei trapassi semantici che risalgono ad epoca più remota – proprio ed esclusivamente a tale mediazione vadano riferiti i trapassi proposti. Alla base mediterranea barra = «terreno sterile, roccioso» (cfr. nota n. 185 e 302) si riportano, ad es., derivati come quelli d’area settentrionale italiana del tipo barena, ant. franc. baraine, baraigne = «(terreno) sterile», poi «(cavalla) sterile» = brehaigne, e poi 1’ital. brénna = «ronzino». Ma in altri casi, ove il trapasso semantico risale ad epoca più remota, il diretto ed esclusivo riferimento alla nozione di «sterilità» appare più dubbio. Alla medesima base mediterranea barra = «terreno sterile, roccioso», sarà così probabilmente da riferirsi ancora, direttamente e con analogo trapasso ideologico, il basco barra = «mouton à demi chȃtré», con l’aragonese mardano = «montone»328: alternanze b/m e rr/rd sembrano qui confondere i derivati di barra con quelli di marra in voci come il basco marro, spagn. marròn, catal. marrà, e – in area ligure – provenz. marre, marro, marrò = «ariete». Ma più difficile sembra il riferimento alla nozione di «sterilità» nel caso che a questa medesima base andassero riportate voci assai discusse come lo spagn. marrano = «maiale»329 ed il romanesco marrone = «cavallo domato»; così come non pochi dubbi suscita una eventuale mediazione ideologica del genere tra il (pre) latino petra = «pietra, roccia», e petro, -onis = «pecora»330. Non insisteremo qui, comunque, sull’argomento; né vogliamo negare che, nei singoli casi proposti, come per altri ai quali accenniamo in nota331, l’ipotesi di un nesso tra la terminologia geomorfica e quella degli zoonimi appaia incerta, e susciti non pochi obiezioni. Abbiamo voluto attirare, tuttavia, 1’attenzione dei ricercatori su omofonie, che difficilmente potrebbero essere considerate come sempre e solo casuali: anche se il riferimento alla terminologia della pietra sarà spesso solo indiretto, e mediato da trapassi ideologici più complessi di quelli che potrebbero essere più immediatamente proposti. Anche là dove l’ipotesi di tali trapassi dovesse restar confermata, del resto, propendiamo – l’abbiam già detto – per interpretazioni meno semplici, in complesso, di quelle generalmente proposte. Più ancora che della mediazione ideologica di nozioni qual è quella di «sterilità», ad esempio, pare si debba tener conto di un più generale riferimento alla nozione di «prominenza del terreno». Quando vediamo ripetersi, in varie lingue, trapassi come quello da «mucchio di sassi» a «mucchio d’erba falciata» a «mucchio di covoni» o a «torma d’animali, gregge» o «singolo animale», una nozione come quella ora segnalata sembra acquistare un’importanza particolare anche per la nomenclatura 328 Nota mancante. 329 Nota mancante. 330 Nota mancante. 331 Nota mancante. 183
degli zoonimi. Non si tratterà, probabilmente, di un riferimento puramente visivo, all’aspetto che da lungi può presentare una torma d’animali selvatici od un gregge, che difficilmente si distinguerà dalle naturali prominenze del terreno, o da mucchi di sassi, o da mucchi di erbe falciate. Sarà piuttosto da pensare ad usi e metodi della caccia primitiva, forse ai modi, coi quali i cacciatori delle età più remote mascheravano il loro avvicinamelito alla preda. Non è qui il caso di entrare in discussioni del genere: quel che c’importava, era accennare come anche in questo settore si prospetti la possibilità dell’irradiazione della terminologia della pietra, che nel linguaggio delle antiche popolazioni liguri si doveva allargare la sua influenza in una sfera ben più larga di quella a noi oggi consueta. Quale che possa essere l’opinione del lettore su singole voci, di cui qui abbiamo per trattato o proposto nessi semantici, il fatto di questa irradiazione della terminologia della pietra nei più vari settori concettuali sembra restar documentato con sufficiente larghezza per le popolazioni della Liguria antica, ancora alla vigilia della conquista romana. Proprio ed anche questa irradiazione, contribuisce a sottolineare i caratteri arcaici, relativamente ritardatari, di queste popolazioni e di queste culture. È solo un aspetto, questo – lo abbiamo già avvertito – è solo un carattere, di quelle popolazioni e di quelle culture; ed era inevitabile che esso venisse posto in particolare rilievo, nel trattare dei rapporti di quella antica umanità ligure con il paesaggio geologico, che è il dato più elementare e primitivo dei rapporti tra l’uomo e la Natura. Con lo sguardo rivolto al paesaggio geologico, i nostri occhi sono stati, sinora, essenzialmente rivolti al passato; nel presente delle tribù liguri, alla vigilia della conquista romana, ritroveremo rapporti già ben più evoluti e più complessi di quelli che qui siamo venuti rintracciando per le epoche più remote. Nel monte nella pietra, abbiam ricercato le iscrizioni e i graffiti, che ci dessero conto di fasi di sviluppo sociale, ormai sorpassate quando le tribù liguri entrano nella luce della Storia: ma per quelle popolazioni, quelle iscrizioni e quei graffiti, che noi siam venuti faticosamente intepretando, parlavano un linguaggio forse ancor chiaro, esprimevano comunque una realtà, che aveva ancor un peso reale nella loro vita, nei loro rapporti con la Natura e con gli uomini. Nel paragrafo seguente, potremo più brevemente intrattenerci sul fluido elemento del paesaggio geologico, che è quello delle fonti e delle acque. É anche questo un dato, dal quale non può prescindere il ricercatore, che si proponga di approfondire lo studio dei rapporti dell’antica umanità ligure con il paesaggio in cui essa era chiamata ad affermarsi. Non mancano, anche qui, i relitti idronimici e lessicali, che documentano il peso di questo dato, nella vita delle antiche tribù liguri; né mancano – lo vedremo nei capitoli seguenti – i trapassi semantici, che dalla nomenclatura degl’idronimi, ci trasportano nel mondo vivo delle piante. Ma abbiamo già accennato come, a differenza di quel che avviene per la pietra – antico strumento di lavoro e di produzione – l’interesse per l’acqua, per la fonte, per il 184
fiume, se pur vivissimo e vitale, è ben lungi dall’assumere quel peso, dal dimostrare quella produttività e quella capacità d’espansione, che son caratteristiche per la nomenclatura del monte, del sasso, della roccia, in area ligure. Per questo, la nostra scorsa per la nomenclatura degl’idronimi – come quella per il settore della terminologia meteorologica – potrà essere più rapida; con un frequente riferimento, d’altronde, ad una letteratura geografica e storiografica, che ha più sovente rivolto la sua attenzione a questi aspetti del paesaggio ligure.
Fig. 3, Emilio Sereni, L’Alta Val Polcevera da Langasco, settembre 1951, fotografia, cm 9x6, Fondo Sereni, Illustrazioni storia agraria, b. 17.
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8. Idronimi e meteore. Acqua e cielo nella Liguria antica Accanto ai relitti mediterranei della nomenclatura del monte e della pietra, quelli relativi alla nomenclatura idronimica costituiscono senza dubbio, nella toponomastica e nel lessico latino-romanzo d’area ligure, il gruppo più importante e più compatto. Come già abbiamo avvertito nel paragrafo precedente, non si tratta, nella valutazione di questi relitti d’idronimi, di attribuir loro un’importanza od un peso minore di quello che abbiam dato alle tracce della nomenclatura del monte e della pietra. All’infuori di ogni documentazione linguistica, d’altronde, non v’è bisogno d’insistere sull’importanza decisiva che la configurazione idrografica di un dato territorio ha per la distribuzione degl’insediamenti e del popolamento e, più in generale, per la vita, per i rapporti sociali, per i traffici delle popolazioni primitive332 Tanto più questo è vero per il dominio ligure, costituito per una parte importante, al di qua e al di là delle Alpi, dal bacino di due grandi corsi d’acqua, quali sono il Rodano ed il Po, che hanno avuto una parte decisiva negli sviluppi, negli orientamenti, negli scambi e nelle influenze culturali che hanno interessato le popolazioni in questione333. Anche la nostra rapida scorsa per questo settore basterà a mostrare come, nell’abbondanza e nella compattezza dei relitti toponomastici e lessicali, questo peso decisivo dell’acqua, del fiume, della sorgente, della palude nella vita delle popolazioni mediterranee della Liguria, trovi il suo riflesso quantitativamente adeguato. Non può sfuggire, tuttavia, all’osservatore più attento, che il carattere dei relitti idronimici è, nel complesso, diverso da quello dei relitti relativi alla nomenclatura del monte e della pietra: come abbiamo già rilevato, la produttività e l’irradiazione ideologica delle basi idronimiche appare più limitata di quello che non avvenga per le altre, che siamo venuti illustrando nei paragrafi precedenti. Il fatto non può meravigliare chi ci abbia seguito nelle considerazioni svolte a proposito della funzione della pietra come strumento di produzione e del significato di questo dato nell’evoluzione del linguaggio delle popolazioni liguri. Per decisiva che fosse la parte dell’acqua, del fiume, della sorgente, della palude – come della caccia, del raccolto di bacche e radici, del l’allevamento e poi dell’agricoltura – nella vita di quelle tribù, per le epoche più remote, l’attenzione e la preoccupazione, volta alla materia dello strumento di lavoro, doveva conservare a lungo un rilievo tutt’affatto speciale: in quanto attorno ad essa, proprio, necessariamente si accentrava l’interesse più immediato, l’attività creativa di maggiore impegno, il rapporto sociale più attivo, che attraverso il processo di produzione trova la sua espressione nel linguaggio. 332 Nota mancante. 333 Nota mancante. 186
Non saremo meravigliati, pertanto, se anche nei relitti della nomenclatura idronimica, come già in tanti altri settori, ritroviamo le tracce di una larga irradiazione delle basi, già menzionate a proposito della terminologia del monte e della pietra. Per uno degl’idronimi, più largamente diffusi nell’ambiente mediterraneo, per i derivati della base arn, ad esempio (per cui cfr. la nota n. 210 a questo capitolo), l’evoluzione semantica sembra procedere dalla nozione di «letto di torrente» a quella di «fiume», e non viceversa. Ancor più: l’ulteriore evoluzione semantica di alcuni derivati di questa base verso la nozione di «caverna» (come nell’istriano arno), o addirittura di «arnia» (come nei dialetti italiani), sembra confermare che l’attenzione dei parlanti, nell’uso dei derivati di questa base, dové dapprima esser concentrata sul greto sassoso di quei corsi d’acqua, sulla sua concavità rocciosa. Tanto più siamo indotti a costatazioni del genere, quanto più ritroviamo evoluzioni semantiche analoghe per altre basi già menzionate, come per lanca = «letto di torrente», clotto = «fossa, avvallamento» (cfr. alle note n. 211 e 217), ed altre, nonché per il celtico nantos = «valle», passato a significare «il torrente» (cfr. sopra la nota n. 220, e il relativo testo). Ma particolarmente significativa appare, al fine che qui c’interessa, un’evoluzione semantica come quella della base drago (per cui cfr. sopra la nota n. 191) da «frana, rovina» a «torrente», cui fa riscontro ancor più notevole il rapporto fra due serie di derivati della base marra/mara gli uni riferibili alla nomenclatura del sasso e della pietra, gli altri relativi alla terminologia degl’idronimi334. Per 1e due ultime basi in esame, la mediazione ideologica fra le nozioni di «frana, scoscendimento sassoso, mucchio di sassi» e quella idronimica va ricercata, evidentemente, nella configurazione dei bacini torrentizî, caratterizzati proprio da accumulazioni di materiali detritici e da scoscendimenti, del tipo di quelli che la prima serie di derivati è ancora oggi usata ad indicare in varie parlate romanze. Chi rifletta che importanza particolare, per le popolazioni dell’età della pietra, questi ammassi detritici e questi scoscendimenti, e i letti dei torrenti in genere, dovettero avere non solo come via di penetrazione per le vallate più dense di boschi, ma soprattutto come miniera della loro materia prima, anzi sovente come arsenale dei loro strumenti e delle loro armi, intenderà come le più antiche tribù dell’area in esame abbiano rivolto in primo luogo la loro attenzione proprio a questi aspetti di un bacino fluviale. Si dovrà evitare, comunque – per i motivi già varie volte illustrati – la pretesa di attribuire alle basi originarie un valore semantico troppo preciso; non solo perché ci mancherebbero, allo stadio attuale delle nostre conoscenze, i dati necessari ad una tale precisazione; ma perché nella mentalità stessa di quelle popolazioni primitive, probabilmente, la nozione di «scoscendimento sassoso, ammasso di pietre» dové essere intimamente confusa con quella di «torrente». 334 Nota mancante. 187
In altri casi, comunque, come per i derivati delle basi alb/alp = «monte», a taba/ teba = «roccia, collina», passati secondo alcuni Autori nella nomenclatura degli idronimi (cfr. sopra le note n. 41, 45, 46, 66), la mediazione ideologica fra il valore oronimico e quello idronimico appare più oscura; è forse da riferire, talora, al nesso magico o religioso che le popolazioni primitive stabiliscono tra un corso d’acqua e le sue scaturigini montane, attraverso una personificazione dello “spirito” o del “dio” del fiume e del monte. Certo è, comunque, che ad una indubbia e larga irradiazione della terminologia del monte e della pietra nel settore degl’idronimi non sembra corrispondere una reciproca produttività della nomenclatura idronimica nel settore della terminologia litica; e non sapremmo trovare una motivazione di questo dato di fatto in una costatazione che non fosse, in ultima analisi, quella della funzione particolare, che la pietra nelle età più remote assume come materia dello strumento produttivo e dell’arma, e perciò come centro d’attenzione dei parlanti, come centro produttivo e d’organizzazione nell’evoluzione del linguaggio. Una controprova dell’ipotesi qui proposta si può ritrovare, l’abbiam già avvertito, in una produttività relativamente scarsa delle basi della nomenclatura idronimica in settori che non siano quelli più immediatamente legati al rispettivo ambiente. In area ligure, e in genere nell’ambiente mediterraneo, i relitti toponomastici e lessicali, derivati dalle antiche basi della nomenclatura idronimica, pur non meno numerosi e diffusi di quelle relative alla terminologia del monte e della pietra, sembrano però, al contrario dei derivati di queste ultime, restar confinati in un settore ideologico relativamente ristretto. La produttività delle basi idronimiche appare, in area ligure limitata ai nomi di fonti, di corsi o di specchi d’acqua, o di attigui insediamenti umani; all’infuori di questo settore specifico, derivati di queste basi son stati sinora individuati quasi esclusivamente nella nomenclatura di specie animali o vegetali, strettamente legate a un ambiente acquatico335. Questo non significa – l’abbiam già detto – che anche i dati della linguistica storica non ci confermino, con l’abbondanza e la compattezza dei relitti prelatini degl’idronimi in area ligure, il peso decisivo che l’acqua, la sorgente, il fiume, la palude, dovettero avere nei rapporti di quelle antiche popolazioni col paesaggio regionale. Indubbiamente prelatini e preceltici, quasi certamente di formazione preindoeuropea, sono i nomi che ci sono stati trasmessi per i due maggiori fiumi del dominio ligure, il Po336 ed il Rodano337. Avremo occasione di tornare, più avanti, sulla parte decisiva che queste grandi arterie fluviali ebbero nella distribuzione degl’insediamenti e nell’orientamento dei traffici e dei contatti delle antiche 335 Nota mancante. 336 Nota mancante. 337 Nota mancante. 188
popolazioni della Liguria. Ci limiteremo a rilevare, per ora, che ben prima della conquista romana anche minori corsi d’acqua dovettero assumere un’importanza notevole per le tribù liguri, giacché esse passarono ad una loro denominazione specifica; ed anche queste arterie minori dovettero essere frequenti d’insediamenti o di traffici, già in fase ligure o celtica, se liguri o celtiche appaiono le denominazioni, che nella lingua degl’invasori e dei coloni romani restarono in uso per designare gran parte di questi minori corsi d’acqua. Non solo i maggiori affluenti del Po e del Rodano, così, portano a tutt’oggi nomi d’origine prelatina e preceltica, ligure, o comunque, probabilmente, di formazione preindoeuropea, “mediterranea”; ma un antichissimo fondo linguistico sembra affiorare, sovente, anche nella denominazione di corsi d’acqua minori, che per valli secondarie scendono a ingrossare i maggiori affluenti del Po e del Rodano, o altri fiumi e torrenti, che direttamente sboccano al mare. Certo una ricerca più approfondita sugli idronimi e sui toponimi di area ligure – sul tipo di quella che il Battisti è venuto conducendo per la regione centrale alpina – potrà permetterci in avvenire di giungere a distinzioni e a conclusioni più precise, quanto al progresso delle frequenze e degl’insediamenti umani lungo le valli secondarie delle Alpi marittime e liguri e nei bacini dei torrenti appenninici. La maggiore precocità degl’insediamenti umani nel settore alpino occidentale – che sposta pertanto la ricerca verso epoche più remote – e l’incertezza che ancora domina, nell’attribuzione delle basi idronimiche e toponomastiche ai vari strati del sostrato prelatino, rendono certo più difficili e meno conclusive ricerche del genere per l’area ligure. Anche qui, comunque, l’esame attento dei dati disponibili porta a pensare che le frequenze umane siano state più precoci (già in fase preindoeuropea) nelle basse e nelle alte valli, piuttosto che nelle medie, ove, come abbiamo già avvertito la densità della foresta faceva ostacolo ai più stabili insediamenti, od anche ai nomadi usi della caccia o della pastorizia; mentre agli usi, proprio, di un’antichissima pastorizia transumante, sembra legata la precoce frequenza delle alte valli e dei pascoli alpini, verso i quali i letti sterili e sassosi dei torrenti offrivano una via di penetrazione sgombera dalle insidie della foresta, pur attraverso vallate altrimenti impervie. Questa funzione di minori corsi torrentizî come vie di penetrazione verso i pascoli alpini può spiegarci come molti tra di essi abbiano conservato a tutt’oggi una denominazione di origine ligure o, comunque, prelatina, anche se le vallate secondarie lungo le quali essi scorrono sono state colonizzate solo in età ben più tarda. Non mancano i casi, tuttavia, in cui la particolare configurazione del paesaggio montano dové costituire un ostacolo a questa funzione “stradale” (potremmo dire, con una terminologia moderna) dei corsi d’acqua a tipo torrentizio. Nelle Alpi Marittime, ad esempio, se la valle del Paglione, di facile accesso, costituiva dalle epoche più antiche l’hinterland e la naturale via di penetrazione da Nizza e Cemenelum verso l’interno, quelle della Roia e del Varo (e dei suoi affluenti, 189
la Vesubia e la Tinea) han visto per millenni un’analoga funzione ostacolata da una particolare conformazione orografica, che rende difficilissimo il passaggio dal corso inferiore a quello medio e superiore di questi torrenti. Il loro bacino è restato spezzato, fino all’età contemporanea, in tanti compartimenti stagni, tra i quali le comunicazioni non erano possibili altro che lungo la costa o la cresta dei monti. Configurazioni del genere hanno contribuito non poco a far di certe parti della Liguria marittima, anche in prossimità di importanti centri di civiltà, dei veri e propri mondi chiusi in se stessi, ove il particolarismo di tribù primitive ha favorito la lunga persistenza di strutture sociali, di caratteristiche etniche e linguistiche ritardatarie; mentre in zone ben più lontane da centri di irradiazione civile, e site ben più addentro nel paese e nel massiccio alpino, ma aperte ad una confluenza di valli praticabili lungo il letto dei torrenti, fin dall’epoca preromana, come a Gap (la ligure Yapincum), si ritrovano stabili insediamenti e irradiamenti di traffici338. Una carta che rilevi (come quella pubblicata dal Benoit nel suo volume La Provence, p. 217 sgg.) il tracciato delle antichissime drailles (trattari, vie della transumanza) per tutta l’area ligure, potrebbe darci un’idea complessiva del peso che – nella penetrazione verso i pascoli alpini – hanno avuto rispettivamente i letti dei torrenti in fondo-valle, o i percorsi in cresta o a mezza costa anche se non sempre, beninteso, i percorsi d’epoca romana o medievale possono essere identificati con quelli caratteristici per età più remote. Il Benoit stesso giustamente rileva che, col progredire della colonizzazione e coll’allargarsi della proprietà privata della terra sul fondo valle, i tracciati delle drailles hanno avuto la tendenza a spostarsi verso la mezza costa o verso la cresta, anche là dove le condizioni geografiche permettevano un percorso di fondo valle. Resta di fatto, comunque, che in molti casi l’importanza dei letti torrentizi per la penetrazione verso l’alta valle è indubbiamente documentata; e altamente significativa, in questo senso è la funzione decisiva che, nella transumanza in area ligure, dalle epoche più remote ha avuto la piana sassosa della Crau, di cui già abbiamo ricordati l’origine geologica, come innesto del cono detritico della Durance nel delta pliocenico del Rodano. Ma senza soffermarci qui ulteriormente su di un argomento, sul quale dovremo tornare nel seguito di questo scritto, a proposito delle forme della transumanza nella Liguria antica, cercheremo di dare, in una rapida scorsa, un quadro dei relitti idronimici preromani più diffusi in area ligure, e della loro presumibile stratificazione linguistica.
338 Nota mancante. 190
Tra gl’idronimi più sicuramente attribuibili al sostrato mediterraneo, o tre ai derivati della base arn, e di altre già menzionate, ricorderemo qui i derivati delle basi reccu = «torrente»339, sala340 e sara = «corso d’acqua»341, av = «sorgente, fiume»342, ar = «corrente»343, aus = «fiume»344, clan, glan = «fiume fangoso»345, dur = «fiume»346, fruta = «torrente, cascata»347, gava = «fiume, specchio d’acqua» ecc. L’elenco è ben lungi dall’essere completo: abbiamo raggruppato qui, soprattutto, quelle basi idronimiche mediterranee delle quali, in area ligure o ai suoi margini, sono rintracciabili relitti non solo toponomastici, ma lessicali, o per i quali, comunque, è più verosimilmente precisabile un valore semantico determinato. Le monografie di eminenti ricercatori, come quelle citate in nota sulle basi gava e clan/glan, ci esimono da una trattazione più minuta delle questioni relative; ed a quelle monografie rimandiamo il lettore anche per le importanti considerazioni sull’adattamento dei valori semantici dei derivati di quelle basi alla varietà delle condizioni idrografiche del paesaggio ligure348. Una seconda serie d’idronimi è costituita da voci, per le quali è più discussa l’attribuzione al sostrato mediterraneo o, rispettivamente, al fondo celtico o, comunque, indoeuropeo prelatino. Fra queste voci ricorderemo i derivati delle basi ren/rin = «corso d’acqua»349, ret/rot = «corrente»350, var351, e ur352 = «acqua, corso d’acqua», bod/pad = «fondo di fiume, fosso, pozzanghera(?)»353 ecc. La documentazione, talora assai antica, di questi derivati, la loro diffusione su di 339 Nota mancante. 340 Nota mancante. 341 Nota mancante. 342 Nota mancante. 343 Nota mancante. 344 Nota mancante. 345 Nota mancante. 346 Nota mancante. 347 Nota mancante. 348 Nota mancante. 349 Nota mancante. 350 Nota mancante. 351 Nota mancante. 352 Nota mancante. 353 Nota mancante. 191
un’area geografica assai estesa e – d’altro canto – i nessi che queste basi presentano con voci indubbiamente indoeuropee, sembrano indicare che ci troviamo qui, secondo l’ipotesi proposta dalla scuola linguistica sovietica, di fronte ad idronimi cristallizzatisi in una fase di passaggio da linguaggi tribali di stadio preindoeuropeo a nuovi linguaggi, variamente compositi, di stadio indoeuropeo354. Non riesce pertanto facile segnare sempre una sicura linea di demarcazione fra questi idronimi, che abbiamo raccolti nella seconda serie, e quelli che seguono, raggruppati in una terza serie, comprendenti i derivati di basi celtiche o liguri indoeuropee. Così si dica, ad esempio, per voci come voberos/vaberos = «corso d’acqua sotterraneo, palude, bosco paludoso»355. Nella maggior parte dei casi, comunque, i relitti toponomastici e lessicali riferibili con sicurezza al sostrato prelatino celtico o, comunque, indoeuropeo, sono i continuatori di termini che – piuttosto che da una generica nomenclatura del «fiume» o del «corso d’acqua» – son tratti da una nomenclatura idronimica già più specifica, relativa a particolari caratteristiche tecniche, per così dire, del corso d’acqua stesso. Accanto a relitti idronimici di basi celtiche o liguri indoeuropee come dubro = «acqua»356, ambe = «fiume, corso d’acqua»357, troviamo così in area ligure idronimi che sembrano riferirsi a qualificativi più specifici, come Bersula = «il rapido»358, Tavi = «il tranquillo, il silenzioso»359, o addirittura a singolarità geografiche o tecniche, come lig. condate360, gall. comboros361 «confluente», gall. ritos = «guado», briva = «guado, traghetto, ponte»362. Certo è comunque che, nel complesso, l’importanza di questi compatti gruppi di relitti idronimici prelatini ci mostra come, già prima della conquista romana, e probabilmente ancora in fase stadiale preindoeuropea, nella maggior parte dei casi, la frequenza delle antiche popolazioni liguri lungo i corsi d’acqua di quest’area dovesse essere larga ed attenta. I relitti mediterranei sembrano prevalere nettamente su quelli di fase celtica o ligure indoeuropea, il che sembra confermare l’importanza, già rilevata in base alla documentazione archeologica, che fin dal neolitico e dalle prime età dei metalli i corsi d’acqua vennero assumendo per la colonizzazione della 354 Nota mancante. 355 Nota mancante. 356 Nota mancante. 357 Nota mancante. 358 Nota mancante. 359 Nota mancante. 360 Nota mancante. 361 Nota mancante. 362 Nota mancante. 192
Liguria; mentre, in fase celtica o ligure indoeuropea, l’importanza dei relitti relativi alla terminologia dei confluenti363 e dei guadi364 sembra riferirsi alla parte che questi incidenti del regime fluviale vennero acquistando rispettivamente nelle credenze religiose e nella evoluta tecnica dei trasporti delle popolazioni gallo-liguri. Alle credenze magiche e religiose ad esse legate, oltre che alla loro importanza vitale per l’approvvigionamento idrico, va certo attribuita la frequenza e l’abbondanza dei relitti, relativi alla nomenclatura delle sorgenti365; ricorderemo qui solo i derivati delle basi borm366 e forse borna = «sorgente»367; e senza arrestarci alla nomenclatura dei laghi, numerosi in area ligure ed ai suoi margini, con nomi quasi tutti preromani, e sovente, forse, preceltici, passeremo all’enumerazione di un’altra compatta categoria di relitti idronimici, relativi alla nomenclatura della palude. Abbiamo già avuto occasione, a proposito della terminologia dei terreni argillosi e fangosi, di menzionare alcuni relitti di basi prelatine, nei cui derivati la nozione di «fango» frequentemente si confonde con quella di «palude» (cfr. le note n. 262-270 di questo capitolo). A quella enumerazione aggiungiamo qui l’altra, di basi mediterranee o indoeuropee preromane, che sembrano avere un più preciso riferimento alla terminologia idronimica della «palude». Tra le basi più sicuramente riferibili al sostrato mediterraneo ricorderemo qui saba = «palude, fossa»368, sama369 lama370, mara371 = «palude»; mentre per altre, come per bola = «palude»372, nauda = «regione paludesa»373, anam = «palude»374, lindo = «stagno»375, che certamente son state vitali e produttive in fase celtica, l’attribuzione al sostrato preceltico appare variamente probabile. 363 Nota mancante. 364 Nota mancante. 365 Nota mancante. 366 Nota mancante. 367 Nota mancante. 368 Nota mancante. 369 Nota mancante. 370 Nota mancante. 371 Nota mancante. 372 Nota mancante. 373 Nota mancante. 374 Nota mancante. 375 Nota mancante. 193
Sta di fatto, comunque, che – anche per quanto concerne questo gruppo di relitti relativi alla terminologia del fango e della palude – ci troviamo di fronte ad una formazione compatta, che documenta l’importanza degl’insediamenti, o almeno della frequenza delle popolazioni liguri, in regioni ed in ambiti acquitrinosi. Se è vero che, all’epoca della conquista romana, gli antichi insediamenti palafitticoli sembrano generalmente abbandonati in area ligure, sicché non se ne trova menzione nei documenti storiografici376, l’uso di insediamenti del genere non doveva essere del tutto scomparso ai margini dell’area stessa, se una vivace documentazione iconografica se ne ritrova, in epoca già assai tarda, nelle incisioni rupestri della Val Camonica377; né, comunque, si potrebbe misconoscere l’importanza che, ancora in epoca storica, la palude e 1’acquitrino dovettero avere nella vita di queste popolazioni, di qua come di là delle Alpi. Già Strabone (IV, 1, 8) si diffondeva sulla descrizione dei fenomeni d’interramento del delta del Rodano; ancora al principio della nostra era, Arles era circondata verso l’Est da lagune, ove sorgevano gl’isolotti di Cordes e di Montmajour; tutto il paesaggio del delta è caratterizzato dai banchi, dai cordoni litorali, di più antica o di più recente formazione, che – gradualmente consolidati dalle associazioni vegetali su di essi stabilitesi – hanno spesso costituito i primi centri di occupazione umana in un territorio acquitrinoso o lagunare378. Marsiglia stessa era, dalla parte di terra, per tre quarti bloccata dalle paludi; prima assai che Mario bonificasse col suo canale il porto alla bocca del fiume (Strabone IV, 1, 8), già i coloni Focesi avevano dovuto sistemare i terreni paludosi e le depressioni circostanti (Avieno: Ora marit., 709 sgg.); mentre l’arteria stradale che da Arles conduceva a Tarascon ed a Nîmes – una delle più frequentate della Gallia – era ancora in età romana frequentemente interrotta dai ripullulanti acquitrini, oltre che dalle inondazioni e dallo straripamento dei torrenti (Strabone IV, 1, 12). Nella Liguria cisalpina, come paludose ci vengono esplicitamente descritte le terre ove era sita Vada Sabatia (Strabone IV, 6, 1), che dalla base saba = «palude», prese probabilmente il nome, come forse anche la stessa Savona. Ma al di qua delle Alpi – ove i monti imminenti riducono generalmente ad una stretta fascia costiera le bassure del terreno – le più vaste estensioni di paludi o di terreni acquitrinosi si ritrovavano piuttosto nella Valle Padana; già completamente emersa, certo, fin dal neolitico, ma ancora disseminata di bassure paludose non solo nel corso inferiore, ma anche in quello medio del Po, in epoca preistorica e forse protostorica. Non entreremo qui nel dibattito sull’appartenenza etnica degli abitatori delle palafitte e delle terramare. I più autorevoli ricercatori sono ormai indotti, nella maggior 376 Nota mancante. 377 Nota mancante. 378 Nota mancante. 194
parte dei casi, a considerare queste forme d’insediamento non tanto come caratteristiche dal punto di vista etnogenetico, quanto modo d’adattamento alle condizioni ambientali379. Abbiamo già avvertito, d’altronde, come denominazioni etniche, riferite ad epoche in cui una permanente organizzazione sociale non poteva precisarsi oltre il limite di aggregati gentilizi o tribali poco più che transitori, possano soltanto ingenerare confusione, e indurre il dibattito in questioni di lana caprina380. Quel che si può dire, ci sembra, con relativa certezza, è che un fondo etnico adusato agl’insediamenti in zone palustri dové confluire con tribù alpine ed appenniniche nella formazione dell’ethnos ligure dell’età protostorica e storica, al di qua come al di là delle Alpi. Nell’uno come nell’altro tipo d’insediamento, non si può dire che la scelta del monte o della palude sia stata determinata esclusivamente da preoccupazioni di difesa o da necessità di rifugio: oltre che dalla configurazione stessa dell’ambiente regionale, è probabile che la frequenza degli ambienti montani e palustri sia stata promossa da abitudini produttive (alpeggio, pesca ecc.), che vennero improntando di sé le tribù, poi confluite nell’ethnos ligure, già in epoca preistorica e protostorica. Certo è che i relitti archeologici e linguistici, come i documenti storiografici, ci mostrano in epoca storica i Liguri piuttosto orientati, per il loro habitat, verso insediamenti in zone montane o palustri, che non verso più fertili pianure, preferite da popolazioni per le quali 1’agricoltura è già divenuta la forma di produzione decisiva. Anche se non si vuole accettare l’ipotesi dell’Alessio, che al primitivo tipo d’insediamento palustre riporta addirittura l’origine dell’etnico Ligures381, si può comunque asserire con sicurezza che, oltre che in zone montane, la frequenza di quelle popolazioni in territori acquitrinosi dové essere larga e diffusa. Ad essa si riferiscono, senza dubbio, i numerosi relitti folcloristici di antiche credenze relative a geni e demoni delle paludi: che, come le caverne e le fonti, dovettero essere spesso considerate, dalle antichissime popolazioni liguri, vie di comunicazione col mondo sotterraneo382. Ancor oggi, in Provenza, si chiama erbo d’infer o erbo dou diable la ninfea, che cresce nei luoghi paludosi; e la pia leggenda del Roman de Saint Trophime, redatta nel XIV secolo, racconta dello stagno del Mal Croset, alimentato dalle acque del Rodano, sito infernale, una specie di lago d’Averno, attorno al quale si aggirano i demoni pagani, che trascinavano in acqua i passanti, prima che il Santo li esorcizzasse. Non lungi di lì, presso lo stagno di Peluque (della caverna, spelunca) è il mas du diable; e un po’ per tutta la Provenza, come alle caverne e 379 Nota mancante. 380 Nota mancante. 381 Nota mancante. 382 Nota mancante. 195
alle fonti, così alle paludi la tradizione folcloristica ed agiografica lega la memoria di draghi e di Tarasques; famoso tra gli altri il drago di Draguignan, che abitava la vicina palude, vinto da Saint Hermentaire. Accanto alla nomenclatura del monte e della pietra, comunque, ed a quella geonomastica in generale, si può dire che la terminologia degl’idronimi ha lasciato larga traccia di sé nella toponomastica come nel lessico delle parlate romanze dell’area ligure, nonché nella tradizione archeologica, storiografica e folcloristica. Alla terra, al monte, alla pietra, all’acqua dei fiumi, dei laghi, delle paludi – al mondo sotterraneo, semmai, delle potenze ctonie – le antiche popolazioni della Liguria mediterranea, preistorica e protostorica sembrano aver rivolto un’attenzione più precisa e concentrata, di quel che non avvenisse nei confronti del cielo e dei fenomeni celesti. Non mancano, certo, nell’iconografia delle popolazioni preistoriche e protostoriche della Liguria, figurazioni come quella del cigno, alla quale risponde un’analoga tradizione leggendaria, che è stata riferita a miti o a culti solari383. Non si ha l’impressione, tuttavia, che credenze e riti del genere abbiano avuto una parte decisiva nella concezione del mondo delle antiche popolazioni mediterranee della Liguria; le tracce nella tradizione storiografica, iconografica e folcloristica sono, comunque, particolarmente scarse in proposito per 1’area in esame; e 1o stesso, allo stadio attuale delle ricerche, sembra si debba dire per i relitti linguistici. Là dove ci si trova di fronte a taluni di questi relitti – come i derivati di caltha384 e belenion385 – che evocano forse antiche credenze solari, il centro di irradiazione di tali credenze appare esterno all’area ligure (come per caltha), ovvero per essi una vitalità ed una importanza particolare è documentata piuttosto in fase celtica che per le epoche più antiche. Non vogliamo con questo contestare che, anche in età più remota, credenze e riti solari abbiano avuto la loro parte nella vita di quelle popolazioni; ma non si ricava, dai documenti disponibili, l’impressione che questa parte sia stata decisiva, come avviene per le credenze e i riti ctonii. Il calendario stesso che traspare dalla dislocazione dei riti magici, agrari o pastorali, nel corso dell’anno, sembra piuttosto determinato da immediate esigenze propiziatorie o omeopatiche di quelle popolazioni, che non da una più organica concezione religiosa improntata a miti solari386: anche se, beninteso, anche qui il ciclo annuale del sole imprime, con l’avvicendarsi delle stagioni, il suo ritmo a tutte le celebrazioni. Anche per questo verso, così, l’impressione che si ricava è, nel complesso, quella di un carattere 383 Nota mancante. 384 Nota mancante. 385 Nota mancante. 386 Nota mancante. 196
relativamente ritardatario delle antiche popolazioni della Liguria, dedite a credenze ed a riti più elementari, più immediatamente legati alla loro esperienza ed alle loro necessità quotidiane. Là dove un fenomeno spettacolare, come quel1o del fulmine, colpisce la loro immaginazione e diviene un’esperienza del pastore all’alpeggio, vediamo così l’attenzione delle più antiche stirpi della Liguria rivolgersi anche al cielo; è certo che riti, apotropaici od altri, del fulmine, ebbero una parte importante a Monte Bego ed in altri centri rituali delle tribù liguri387. Non è escluso che ad essi, come abbiamo già ricordato, si siano venuti legando riti del corno e dell’immagine tauriforme, e riti dell’ascia388. Di questa attenzione data al fulmine restano forse tracce, d’altronde, anche nel lessico delle parlate romanze d’area ligure-alpina389. A una diretta esperienza della vita alpina sembrano anche da riferirsi i relitti lessicali relativi alla nomenclatura meteorologica, già illustrati precedentemente in questo capitolo (cfr. le note n.148-154); mentre questa esperienza appare già elaborata in miti ed in riti quando, dalla terminologia della neve e del freddo, passiamo a quella del vento. Abbiamo già ricordato in proposito (cfr. la nota n. 320) le concezioni che nell’antica Liguria, dovettero legare l’origine del vento freddo della tempesta, il garagau provenzale, alle caverne e alle voragini, via di comunicazione col mondo ctonio. Ma nei relitti linguistici, come nella tradizione letteraria e folcloristica, il vento sembra dominare, fra i fenomeni meteorologici, anche altri settori dell’esperienza di quelle antiche popolazioni. Al vento, a riti od a culti del vento appaiono consacrate non solo le caverne e le voragini, ma le cime dei monti390; e sulla costa provenzale, nella pianura stessa, la realtà del vento diviene così massiccia e palpabile, vorremmo dire, che essa dové colpire fortemente, come i primi navigatori e coloni greci, anche popolazioni più primitive, meno sensibili a fenomeni di minore efficacia spettacolare391. É caratteristico tuttavia il fatto che, anche per la nomenclatura del vento, quando essa non si lega (come nel caso del garagau) a particolari concezioni sulla sua origine ctonia, quelli che prevalgono tra i relitti lessicali sono termini che, piuttosto che alle parlate delle più antiche popolazioni della Liguria, sembrano da riferire alla lingua dei coloni greci. Così si dica per il circius392, il vento dominante sulla costa e nel retroterra ligure transalpino, così si dica per altri termini della nomenclatura meteorologica, come dei derivati di καῦμα = «calore estivo, calma 387 Nota mancante. 388 Nota mancante. 389 Nota mancante. 390 Nota mancante. 391 Nota mancante. 392 Nota mancante. 197
di vento, bonaccia»393, crum = «nuvola, nuvolaglia»394. L’importanza particolare, che la nomenclatura meteorologica ha per i navigatori, può spiegare perché dalla talassocrazia massaliota questi termini si siano diffusi anche nel retroterra, tra le popolazioni liguri; ma resta pur sempre caratteristico il fatto che di una terminologia meteorologica propriamente ligure si siano potute sinora ritrovare solo scarse tracce, di contro alla compattezza dei relitti geonomastici395. Così pure caratteristico è il fatto che – malgrado l’importanza assai notevole che il dato dell’esposizione solare ha per le popolazioni agricole, specie in regioni montuose e collinari come quelle dell’area ligure396 – la nomenclatura ad essa relativa non offra traccia, nelle parlate romanze di quest’area, di relitti linguistici preromani397. Anche questo dato, naturalmente, a sé preso, non potrebb’essere probativo: gruppi di voci così limitati, quando si consideri la loro derivazione e la ragione del loro etimo in forme complessive, “statistiche”, come qui abbiam fatto, non sfuggono, evidentemente, alla legge statistica dei “grandi numeri”. Non si può escludere, pertanto, un elemento di casualità nella mancanza di relitti preromani in questo settore. Ma quando si tenga presente l’importanza particolare che l’esposizione assume per l’agricoltura in zone alpine, e quando si mettano a raffronto i dati che siamo venuti esponendo, con altri, più direttamente riferibili alle attività agricole, che verremo studiando nei prossimi capitoli, non si sfugge all’impressione che, in gran parte dell’area ligure, fino all’epoca della conquista romana, le attività più propriamente agricole (nel senso ristretto della parola) non dovessero avere quel peso decisivo, che con la colonizzazione romana si venne affermando. Senza, comunque, anticipare risultati, che potranno chiarircisi solo nell’ulteriore corso della nostra ricerca, ci proveremo qui, nel paragrafo seguente, a trarre un primo e provvisorio bilancio dei rapporti tra l’uomo e il paesaggio geologico della Liguria antica, quali essi ci sono apparsi in questa prima fase del nostro studio: unilaterale, certo, e per ora – data la natura stessa della materia in esame – quasi esclusivamente limitato ai documenti linguistici. Nei capitoli seguenti, man mano che dall’esame dei dati sul paesaggio verremo passando a quello delle tecniche, i materiali archeologici e quelli storiografici ci offriranno un sussidio sempre più importante, e la nostra ricerca potrà fondarsi su di una base più massiccia e corpulenta. Ma fin d’ora, ci sembra, anche una documentazione quasi esclusivamente linguistica, quale è necessariamente quella relativa ai rapporti tra 393 Nota mancante. 394 Nota mancante. 395 Nota mancante. 396 Nota mancante. 397 Nota mancante. 198
l’uomo e il paesaggio geologico, per un’epoca in cui l’incidenza materiale dell’uomo sul paesaggio stesso è ancora estremamente limitata, può permetterci di trarre alcune conclusioni interessanti, che ci potranno servire da utile introduzione allo studio dei rapporti dell’antica umanità ligure col paesaggio vegetale, e quindi con le tecniche pastorali, agrarie ed altre ad esso relative.
Fig. 4, Emilio Sereni, Marrelo nella Val Polcevera, settembre 1951, fotografia, cm 9x6, Fondo Sereni, Illustrazioni storia agraria, b. 17.
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9. «I monti sun eggi» II Bertani ricorda, nella sua Relazione sull’Inchiesta agraria del 1883398, un detto corrente tra i contadini liguri, alla vista delle loro montagne denudate, in molte parti, di ogni vegetazione arborea: «I monti sun eggi» (i monti sono vecchi). Nessun motto, ci sembra, meglio di questo, sarebbe atto a compendiare i risultati di questa prima parte della nostra ricerca. Uno spoglio sistematico dei relitti linguistici prelatini, che i ricercatori della scuola italiana se venuti discoprendo nella toponomastica e nel lessico romanzo dell’area ligure ci ha mostrato la parte prevalente che, tra questi relitti, hanno quelli attribuibili al sostrato “mediterraneo”. Nel corso ulteriore della nostra esposizione, quando – con metodo analogo – verremo esaminando i rapporti dell’antica umanità ligure col paesaggio vegetale, e poi le sue tecniche, di un’economia di raccolto, pastorali ed agricole, ci troveremo, sì, di fronte, anche in queste nomenclature, a relitti preromani importanti; ma il peso statistico diciamo così, di tali relitti, nei confronti di termini di derivazione latina andrà progressivamente decrescendo; e, più ancora, andrà decrescendo il peso dei relitti preromani attribuibili al sostrato mediterraneo. Nessun gruppo di relitti attribuibili a questo sostrato ci si presenterà così compatto, come questo che siamo venuti estraendo dalla nomenclatura del monte, della pietra degl’idronimi. «I monti sun eggi», non solo per la loro antichissima ossatura geologica, non solo per le millenarie vicende, che ne han scoperta la calvizie: ma perché con nessuna realtà naturale, con nessuna tecnica l’uomo ha avuto – come con il paesaggio geologico – una così antica e permanente consuetudine, che tante tracce, fino ai giorni nostri, abbia lasciate nel linguaggio umano. Abbiamo già detto come questo peso particolare, che i relitti linguistici della nomenclatura geomorfica a tutt’oggi conservano, non possa spiegarsi con una semplice costatazione della «conservatività dei termini glebani»: che non saprebbe, essa stessa, essere considerata come una categoria soprastorica. Abbiamo cercato di mostrare, nel corso della nostra esposizione, le condizioni storiche concrete, nelle quali questa conservatività ha potuto affermarsi in area ligure, e non torneremo qui sull’argomento. Non vi è dubbio che molti dei relitti da noi esaminati in questo capitolo ci riportano a fasi di sviluppo stadiale della società e del linguaggio delle antiche popolazioni della Liguria, di molto anteriori all’epoca della conquista romana. Sta di fatto, comunque, che – per trapassare, sia pure in forme già cristallizzate, nel lessico delle parlate romanze e nella toponomastica – questi termini dovettero avere una lunga ed intensa vitalità nelle parlate liguri, celto-liguri e alpine di fase indoeuropea, e poi nel latino della Liguria: testimoniano 398 Agostino Bertani, Atti della Giunta per la Inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola, vol. X., Roma 1883, p. 266. Il detto è citato da un opuscolo di Agostino Chiappori. 200
di un antichissimo peso dei rapporti dell’uomo col paesaggio geologico, ancora persistente – se pure in forme un po’ attenuate – all’epoca della romanizzazione linguistica della Liguria399. Resta il fatto, tuttavia, che – concentrando la nostra ricerca, in questo capitolo, attorno a questi dati linguistici, relativi al rapporto dell’uomo col paesaggio geologico – la prospettiva del nostro studio risulta obiettivamente e naturalmente spostata verso epoche più remote, che non siano quelle della vigilia della conquista romana. Abbiamo già messo in guardia il lettore contro il pericolo che ne risulta, di una esagerazione dell’arretratezza della Liguria all’epoca di questa conquista; ma non bisognerà nemmeno dimenticare che, per quest’epoca stessa – accanto ai relitti linguistici – anche i dati della tradizione storiografica, archeologica e folcloristica ci danno testimonianza di importanti persistenze di modi di vita, di tecniche e di concezioni del mondo arcaiche nell’area ligure. Certo è che, per molti dei relitti linguistici da noi qui considerati – come per molti relitti e tradizioni folcloristiche dell’area ligure – si è riportati a fasi di sviluppo stadiale assai remote, forse ancora neolitiche della società e del linguaggio delle antiche tribù che popolarono la Liguria. Non entreremo qui in una discussione delle possibili varie stratificazioni linguistiche “mediterranee”, che oggi gli specialisti cominciano ad intraprendere con qualche prudente successo: ci limiteremo a costatare come il semplice esame delle aree di diffusione di molti dei relitti già esaminati sembri indicare che la Liguria è stata, in epoche antichissime, il centro d’incrocio d’influenze d’area iberica da un lato, d’area egeo-anatolica dall’altro, alle quali la sua stessa posizione geografica la predestinava400. I dati archeologici401 e le più antiche tradizioni folcloristiche sembrano confermare queste congruenze, particolarmente importanti nei confronti dell’area occidentale (iberica): ove, anche in epoca protostorica, il confine tra le tribù liguri e quelle di provenienza iberica pare essere stato piuttosto mobile e indeciso. Ad un’epoca più tarda sembra si debbano riferire le congruenze linguistiche e culturali con le civiltà dell’area hallstattiana, con le quali le tribù della Liguria entrano in contatto ai suoi margini sudoccidentali (tribù protoceltiche) e sudorientali (tribù protoilliriche). Anche se, già nelle prime età dei metalli, e fin dal neolitico, sono documentati con certezza rapporti abbastanza intensi delle tribù della Liguria con quelle dell’area, ove poi doveva diffondersi la cultura hallstattiana, è solo nella prima, e poi nella seconda età del ferro, che le tribù della Liguria sembrano attratte in un più intimo processo di sviluppo stadiale e d’incroci marginali dai quali uscirà – con 1’ethnos celtico – un 399 Nota mancante. 400 Nota mancante. 401 Nota mancante. 201
ethnos ligure, di tipo ormai sostanzialmente indoeuropeo, se pur particolarmente conservativo di relitti e di tradizioni “mediterranee”402, che si verrà etnicamente differenziando, in epoca protostorica e storica, sotto la duplice pressione dei vicini Etruschi e degli invasori gallici. Non abbiamo fatto qui che accennare quelle che ci sembrano, allo stadio attuale delle ricerche, le ipotesi più probabili sulle stratificazioni linguistiche e sull’etnogenesi ligure. Gli specialisti sono comunque concordi nell’attribuire al più antico fondo linguistico della Liguria la maggior parte dei relitti geonomastici studiati in questo capitolo. «I monti sun eggi»; e, nei millenari rapporti col paesaggio geologico, che questi relitti documentano, il paesaggio geologico stesso ha effettivamente subito un processo di degradazione, d’invecchiamento, che ha investito le montagne e i torrenti, le vallate e le pianure, modificandone profondamente 1’aspetto. Nelle epoche più recenti, anche in area ligure, le tecniche perfezionate delle costruzioni, della viabilità, delle sistemazioni idrauliche ed agrarie, hanno anche direttamente inciso in misura sensibile sulla configurazione del paesaggio geologico; ma per le epoche più antiche, alle quali la nostra ricerca si riferisce, questa incidenza diretta dell’opera dell’uomo potrà considerarsi quasi trascurabile. Questo non significa che, fin da allora, l’opera dell’uomo non abbia avuto una parte decisiva nella trasformazione del paesaggio geologico, nella sua degradazione, nel suo invecchiamento: ma questa efficacia fu essenzialmente indiretta, attraverso le trasformazioni che le antiche popolazioni della Liguria indussero nel paesaggio vegetale, più accessibile alle loro tecniche elementari. Le pendici del monte, diboscate ad opera dell’uomo; i pascoli alpini calpestati dai suoi armenti, le terre dissodate per la cultura, non solo ad opera dell’uomo mutano il loro aspetto, ma col mutato regime delle acque, con le frane e con le alluvioni, divengono tramiti di ben più larghe degradazioni, in cui le forze stesse della Natura – prima ancora di essere asservite dall’uomo – si fan suoi agenti per moltiplicarne la potenza distruttiva. Questo processo di degradazione del paesaggio geologico – come poi quello della ricostruzione di un paesaggio agricolo, ormai tutto umanizzato – non potrebbe pertanto essere inteso nei suoi agenti, nei suoi effetti e nel suo significato storico, senza uno studio approfondito dei rapporti delle antiche popolazioni della Liguria con il paesaggio vegetale; ed a questa ricerca, appunto, sarà dedicato il capitolo seguente di questo volume, che ci aprirà nuovi spiragli sui modi di vita, sui rapporti di produzione, sulle concezioni e sugl’interessi vitali delle tribù liguri.
402 Nota mancante. 202
Fig. 5, Emilio Sereni, Langasco e il suo “altipiano�, settembre 1951, fotografia, cm 9x6, Fondo Sereni, Illustrazioni storia agraria, b. 17.
Fig. 6 Langasco, settembre 2011, foto C. A. Gemignani. 203
Il paesaggio vegetale
Per chi, dal paesaggio inerte del monte, della pietra, delle acque, volga lo sguardo ai rapporti della antica umanità ligure col mondo vivo e pullulante delle piante, degli alberi, dei fiori, l’immagine che prima balza dinanzi agli occhi è, di nuovo, quella rude e scultorea che Diodoro ci ha trasmessa; di uomini che, in un paesaggio di boschi e di selve1, «tutto il giorno taglian legna, armati di asce di ferro forti e pesanti»2 La traduzione italiana non rende il sintetico vigore dell’immagine greca, che Diodoro ha quasi certamente tratto dal racconto di Poseidonio (cfr. le note n. 1-3 al capitolo precedente). Ancora una volta, un genio di storico e di artista ha caratterizzato per noi, in una sintesi felice, tutta una faccia della vita e delle attività umane nella Liguria antica, tutta una fase dello sviluppo stadiale di quelle popolazioni. Dal mondo della roccia e della pietra, che ci ha riportato sovente alle fasi più remote di questo sviluppo, siamo ora trasportati nel fitto delle selve, che solo il ferro ha più largamente aperte alle frequenze ed alle opere umane. Ai tempi di Poseidonio e di Diodoro, il nuovo metallo è già venuto compiendo da secoli questa rivoluzione della tecnica produttiva, ha cominciato a dissipare i terrori e l’insidia delle selve impenetrabili: le forti e pesanti asce di ferro3 son 1 Diodoro V, 39, 2: «Καταδένδρου γὰρ τῆς χώρας οὔσης». 2 Diodoro V, 39, 2: «…οἱ μὲν αὐτῶν ὑλοτομοῦσι δί ὄλης τῆς ἡμέρας σιδηρο φοροῦντες ἐνεργοὺς πελέκεις καὶ βαρεῖς». 3 Diodoro V, 39, 2. Cfr. la citazione alla nota precedente. L’uso di strumenti in ferro nell’agricoltura e nell’industria forestale della Liguria all’epoca della conquista romana è confermato – oltre che dai reperti archeologici, invero relativamente scarsi per tutta l’età del ferro – dal fatto che i Romani, nel disarmo dei Liguri vinti e sempre di nuovo ribelli, si preoccupano della consegna delle armi metalliche, solo a mala pena consentendo di lasciar loro il ferro necessario agli usi agricoli. Cfr. l’Epitome di Floro (II, 3): «…Postumius ita exarmavit, ut vix reliquerit ferrum, quo terra coleretur». Vedi anche in proposito la nota n.7 di questo capitolo. 205
venute sostituendo, anche in Liguria quelle in pietra levigata, che per millennî erano state l’arma principale di quelle popolazioni nella battaglia per la conquista della foresta postglaciale. Armati di questo nuovo e ben più efficiente strumento, i Liguri possono ormai affrontare non solo il taglio tradizionale di stocchi, paletti o pali, tronchi o ceppi minori – nel quale già le popolazioni palafitticole dell’area ligure avevano raggiunto una notevole perizia – bensì anche quello dei tronchi più massicci (fino ad otto piedi di diametro), per la produzione di tavole e di legname da costruzioni navali, di cui Genova era divenuta l’emporio, e che costituivano la prima voce del commercio d’esportazione della Liguria ai tempi di Strabone4. Sarebbe errato, tuttavia, concepire questo passaggio dal mondo della roccia e della pietra a quello della foresta e del ferro come un passaggio brusco e senza mediazioni. Nel racconto stesso di Diodoro, in quella frase medesima che attira il nostro sguardo sulle attività forestali, che l’uso del ferro ha più largamente dischiuse agli antichi Liguri, ritorna proprio ed ancora una volta l’immagine della pietra, con un’insistenza che non è certo casuale, anche quando si parla delle attività agricole di quelle popolazioni5. Accanto ai nuovi strumenti ed attrezzi di ferro, del resto, l’uso di quelli in pietra levigata dové sussistere – 1’abbiamo già avvertito – sino ad un’epoca assai tarda in Liguria6 se quando i conquistatori Romani, ad ogni rivolta dei vinti, tornano a disarmarli, lasciando loro appena il ferro necessario alle opere dell’agricoltura7, non si ha 1’impressione che questa ripetuta sottrazione di armi ed attrezzi metallici induca un regresso decisivo nell’economia ligure, che doveva fare ancora largo ricorso ad attrezzature più arcaiche per la loro materia e per la loro tecnica8. 4 Strabone IV, 6, 2. 5 Diodoro, V, 39, 2. 6 Cfr. il capitolo precedente di questo volume, al paragrafo «Arretratezza e preistoria ligure», e le note relative. 7 Cfr. la nota n. 3 di questo capitolo. Per il disarmo delle popolazioni liguri, cfr. Livio XXXIX, 2. 8 Il Lamboglia, tuttavia, ha giustamente reagito alle esagerazioni di coloro che son stati portati a parlare dei Liguri dell’epoca immediatamente precedente alla conquista romana quasi come di tribù restate estranee allo sviluppo della civiltà dei metalli, ed arrestate nel loro sviluppo presso a poco ad una fase neolitica. Se delle persistenze di arretratezza neolitica si rilevano nella Liguria preromana, e se senza dubbio le nuove tecniche metalliche non hanno avuto qui, prima della conquista romana, una diffusione ed un’influenza decisiva, come in territori adiacenti, ciò non significa che anche le tribù liguri non siano state attratte nel processo di affermazione di queste nuove tecniche, e dei nuovi rapporti di produzione e sociali che esse comportano. A parte una più larga documentazione delle tecniche del bronzo, non mancano, in area ligure, le testimonianze delle industrie del ferro, ad esempio nel ripostiglio di Pietra Ligure, oltre che nei manufatti ritrovati in tombe di quella età, e nell’iconografia delle stele. 206
A parte questo ritardo e questa limitazione nell’uso dei metalli, d’altronde – o, piuttosto, proprio in rapporto con questo ritardo – la distinzione stessa tra il mondo della roccia e della pietra e quello vegetale, che noi qui sottolineiamo ai fini della nostra esposizione, doveva essere ben lungi dall’avere, per le popolazioni della Liguria preromana, quella chiarezza e quel significato, che essa ha per gli uomini di una più avanzata civiltà. I relitti linguistici, come le tradizioni storiografiche e folcloristiche, ci documentano, per la Liguria, ancora alla vigilia della sua romanizzazione, la persistenza di concezioni, nelle quali la distinzione fra il mondo inerte della pietra, del monte, delle acque, e quello delle piante, degli alberi, della vegetazione, è ancora assai dubbia e imprecisa, nella nebulosità di riti magici e animistici, che ancora accomunano la pianta al terreno o al monte su cui essa cresce9, all’acqua Cfr.Lamboglia, in Storia di Genova, vol. I, p. 107 (e relativa bibliografia), e in: Val Meraviglie e le questioni etniche, p. 33 (Riv. Ing. e Intem., 1939, n. 1-4). È caratteristica, d’altronde – lo vedremo meglio nel seguito di questo studio – per l’età della “democrazia guerriera”, la notevole differenziazione nel grado di sviluppo culturale fra tribù o aggregati di tribù, appartenenti al medesimo ethnos e nell’area ligure, senza dubbio, accanto a tribù ove la civiltà del ferro si era decisivamente affermata, se ne dovevano trovare altre, ove i relitti di tecniche ritardatarie dovevano avere ancora un peso importante. 9 Nel seguito di questo capitolo, avremo occasione di occuparci ripetutamente, a proposito di singole essenze vegetali, e forestali in ispecie, dei relitti linguistici e folcloristici di tali concezioni. Ci limiteremo per ora, in questa nota, a raggruppare alcuni relitti lessicali della nomenclatura botanica romanza di area ligure, di cui gli specialisti hanno proposto il riferimento a basi “mediterranee” della nomenclatura della pietra e del monte. Per maggiori particolari e per la bibliografia delle singole voci, vedi il seguito di questo capitolo. Particolarmente frequente e diffusa è l’evoluzione semantica da basi mediterranee col valore di «altura, prominenza del terreno» a derivati col valore di «cespuglio». Alla base mata/ meta = «altura, prominenza del terreno», sono state così riferite numerose voci romanze, diffuse per tutta l’area ligure e iberica, del tipo del provenz. mato = «cespuglio». Analoga evoluzione semantica sembrano aver subito i derivati di una base motta e di mutt (forse legata alle precedenti?); questi ultimi hanno dato, da una base col valore semantico di «mucchio, prominenza del terreno», voci del tipo mutuca, mutulus, passati a designare, in area ligure e tirrenica, «il cespuglio», e più particolarmente il cespuglio di Cistus. Così pure alla base marra = «mucchio di pietre», sono stati riferiti derivati dei tipi marruca, marasca, marrubium ecc., diffusi per tutta l’area ligure, ed oltre, col valore di «cespuglio, frutice» ecc., o con quello più specifico di una data essenza vegetale con tale portamento caratteristico. Evoluzione semantica analoga si ritrova nei derivati di molte altre basi mediterranee, dal valore di «prominenza del terreno» a «cespuglio» o ad altra formazione vegetale. In molti casi, come abbiamo già avvertito, si ritrova nei derivati un’ulteriore evoluzione semantica verso termini, che non sono più semplicemente quelli del paesaggio vegetale, bensì già quelli caratteristici di un paesaggio pastorale evoluto, o addirittura agricolo; così ad esempio per i derivati della base marra, che passano sovente a significare «mucchio di fieno» o «bica di grano». In altri casi, derivati da basi mediterranee della nomenclatura del terreno, sempre col valore di «prominenza», passano a significare, nella terminologia del paesaggio vegetale, «germoglio», o «ceppo», e così via; così forse per i derivati di una base bott/butt, e dell’altra 207
brot, che ritroviamo diffusi per l’area celto-ligure. Numerosi sono poi i singoli fitonimi, specificamente riferiti alla nomenclatura del monte e della pietra, con trapassi semantici di cui non sempre è chiara la mediazione. Alla base mal/mel = «monte», sono stati riportati numerosi fitonimi d’area ligure, del tipo malancio = «Aronia rotundifolia» o «Sorbus aucuparia» (ambedue essenze montane), o malix = «larice»; e non escluso è un rapporto dei derivati del tipo tibulus = «pinastro», con la base taba/teba. Particolarmente diffusi in area ligure sono i fitonimi derivati dalla base carra = «pietra», fra i quali specialmente importante il tipo del provenzale garric = «quercia da kermes», l’essenza arborea che dà la sua impronta caratteristica all’associazione vegetale della garrigue. Non meno importanti sono i fitonimi, per i quali è stato proposto un riferimento alla base lapa/ laba/laua = «pietra»: tra questi, ricorderemo le forme del tipo lappa, lappola = «bardana», e quelli (riportati alla medesima base con formante in -r) con forme del tipo labrusca = «vite rupestre, selvatica», e laurum = «alloro». Frequenti sono pure i fitonimi, per i quali il nesso ideologico con la nomenclatura della pietra sembra da riportare alla nozione di «sterilità»: così forse per i numerosi fitonimi del tipo barancia, baragna ecc., attribuiti sovente ad essenze arbustive o cespugliose o spinose. Ci limiteremo qui a questi pochi accenni all’evoluzione dalla nomenclatura del monte e della pietra a quella dei fitonimi, sulla quale ritorneremo più largamente nel seguito di questo capitolo. Quale che sia, nei singoli casi, la mediazione ideologica del trapasso semantico, le ricerche degli specialisti hanno ormai chiarito la portata assai notevole del fenomeno. Quel che qui c’importa di sottolineare, non è tanto la varietà di questa mediazione – che è probabilmente, assai spesso, più complessa di quel che non appaia a prima vista – quanto il fatto della frequenza, con la quale si è ricorso alla nomenclatura della pietra e del monte per denominare essenze o formazioni vegetali. Questo dato, diciamo così, statistico, non si potrebbe spiegare, se non si tenesse conto di quanto abbiam detto nel capitolo precedente, a proposito dei rapporti delle popolazioni primitive della Liguria col paesaggio geologico, e della funzione essenziale della pietra come strumento di produzione. Le nostre considerazioni valgono, ci sembra, e per i casi in cui il trapasso semantico avviene attraverso un processo di aggettivazione (mal = «monte» – mal-ix = «(albero) montano» = «larice»), e per quelli in cui il processo pare esser quello di una vera e propria identificazione (tep = «altura , zolla» – «zolla erbosa» – «muschio») nell’un caso e nell’altro, quando il fenomeno si studi in un quadro complessivo, statistico, quel che si deve spiegare è proprio perché, in una forma o nell’altra, l’interesse e l’attenzione del parlante, nel denominare una pianta o un’associazione vegetale, si è riferita al mondo del monte e della pietra. Il fatto dell’identificazione della pianta col terreno, con la roccia, col monte su cui essa cresce, non fa, di per se stesso, difficoltà, nella mentalità di popolazioni primitive. Esso non sembra, d’altronde, in questa mentalità, distinguersi sostanzialmente dal processo di aggettivazione. Il Frazer ha raccolto, nei suoi scritti a proposito dei riti magici di popolazioni primitive, un’abbondante documentazione della frequenza con cui pietra, terra, roccia da un lato, e alberi, piante dall’altro, si scambiano gli uni con gli altri, partecipano gli uni degli altri, si identificano gli uni con gli altri, in questi riti ed in queste concezioni. In epoca assai più tarda, e proprio a proposito della Liguria, del resto, Solino (nel suo Polyhistor, II) non sembra troppo meravigliarsi quando parla di frutici che crescono in quel mare (si tratta dei coralli), e che, estratti dalle acque, si trasformano in pietra: e non a caso, forse, anch’egli stabilisce un nesso tra questa trasfigurazione di una pianta – com’egli la considera – e il fondo petroso ov’essa nasce («natalibus saxis derogati, lapides fiunt»). 208
attorno alla quale essa pullula10. Si tratta certo, ormai, alla vigilia della conquista romana, di relitti di una fase di sviluppò stadiale, ormai sostanzialmente sorpassata dalle popolazioni della Liguria. Sarebbe senza dubbio errato considerare queste popolazioni come ancora selvagge; ma è pur caratteristico il fatto che concezioni e mentalità da selvaggi avessero ancora un peso così importante nella loro tradizione folcloristica, nei loro riti e nella loro lingua; e non meno indubbio è il fatto che ai Romani – tra i quali, pure, i relitti di modi di vita arcaici e di concezioni magiche e animistiche avevano un peso non trascurabile – certe popolazioni dell’area ligure apparivano non solo barbare, straniere, ma semiferæ, semi selvagge11, e a Diodoro Sembra indubbio che, nel trapasso semantico dalla terminologia della pietra e del paesaggio geologico a quella del paesaggio vegetale e dei fitonimi, sia da ritrovare la traccia di una vera e propria fase dello sviluppo stadiale della società e del linguaggio nell’area in esame. L’antichità di questa fase sembra confermata dal fatto che buona parte di questi trapassi si riferisce a derivati di basi “mediterranee”, preindoeuropee. Ciò non significa, beninteso che trapassi del genere non si ritrovino anche in età posteriore e che ad età posteriori non vadano anche attribuiti alcuni di quelli relativi a basi mediterranee della nomenclatura geomorfica. Abbiamo già avvertito come le fasi dello sviluppo stadiale non vadano interpretate in senso meccanico, o di una successione puramente temporale: fenomeni caratteristici di fasi più antiche seguitano a svilupparsi nel sottosuolo della società, e specie nelle campagne ed in altre zone conservative, anche in epoche di molto posteriori da questo concreto intreccio e contrasto del vecchio e del nuovo, proprio, trae la sua caratteristica inconfondibile ogni data società. Ma ciò non deve impedire di sottolineare, lo ripetiamo ancora una volta, quel che in una data fase è caratteristico, è essenziale, perché tende a informare di sé tutta quella data formazione sociale; ed in questo senso, il trapasso dalla terminologia geomorfica a quella dei fitonimi sembra caratteristica di fasi remote, preindoeuropee, dello sviluppo stadiale della società ligure . 10 Come abbiamo già avvertito nel precedente capitolo, i trapassi semantici dalla nomenclatura idromimica a quella dei fitonimi sembrano meno frequenti e diffusi, di quelli proposti per la terminologia geomorfica. Essi si riferiscono, generalmente solo a piante acquatiche, o che crescono in vicinanza delle acque. Così, probabilmente, per i derivati di sala, del tipo salix = «salice», per i derivati di gava, ed altri consimili, di cui nel seguito di questo capitolo. Non mancano tuttavia, casi in cui la diffusione di tali trapassi semantici sembra allargarsi in settori, non direttamente collegati con l’ambiente acquatico. Può darsi che si tratti, talora, di un nesso ideologico tra l’acqua (in quanto potenza fecondante e forza produttiva) ed analoga potenza attribuita a determinate essenze vegetali (così forse per il ligure verbasco da connettersi con la base var/ver = «acqua», con l’oscuro verpa = «membro virile», e con la radice indoeuropea per «crescere»). Ritorneremo più avanti sull’argomento a proposito dei riti di fecondità. Ma si tratta, per ora, di un terreno assai incerto e malsicuro, che abbiamo voluto solo additare alla ricerca dei più esperti. 11 L’espressione è di Silio (Puniche, III, 542), a proposito delle popolazioni alpine che ostacolano il passaggio di Annibale: «horrida semiferi promunt e rupibus ora». Ma, fuori dell’esaltazione poetica, con altre parole essa si ritrova sovente, come nell’«homines intonsi et inculti» di Livio (XXI, 32) e nel loro «ἀκατάσκενος βίος» (Diodoro V, 39, 6). La caratterizzazione etnografica stessa di «intonsi», «cornati», «capillati», che si ripete a 209
“arcaico” il loro modo di vita12. Quel che qui c’interessa di rilevare, comunque, è la parte decisiva che la frequenza e le attività della foresta hanno ormai – alla vigilia e all’indomani della conquista romana – assunto per le tribù liguri. Tra l’albero e il monte, tra la pianta e la pietra, esse seguiteranno ancora per secoli a stabilire una comunione, che appare strana e incomprensibile alla nostra mentalità di civili; nell’albero come nella pietra, esse continueranno a ritrovare una comune vitalità, talora una personalità, ancora confusa e indistinta. Ma al di sopra e contro ogni limitazione, che concezioni magiche o animistiche o religiose possono indurre nel loro sforzo d’incivilimento, l’obiettivo sviluppo delle forze produttive sociali promuove un atteggiamento nuovo delle popolazioni liguri di fronte alla dialettica della vita in foresta. Come nelle età più antiche, certo, non sono ancora svanite le insidie e i terrori delle più fitte selve; il loro misterioso pullulare ne fa ancora il centro di superstizioni, di culti, di terrore per i profani13. Come per le popolazioni del primo neolitico, malgrado l’ausilio dell’ascia e dell’arma di ferro, si preferisce tornare in territorio più scoperto e meno difficile, non appena il nemico si è allontanato e svanito è il pericolo14. La vita in foresta mette ancora a dura prova le popolazioni della Liguria; nella consuetudine proposito delle più arretrate tribù liguri della montagna, sembra riferirsi, d’altronde – come vedremo più avanti, nel seguito di questo studio – a riti e credenze piuttosto selvagge che barbare, secondo le quali la forza risiede nella capigliatura. 12 Diodoro V, 39, 6: «διαφυλάττοντες τὸν ἀρχαῖον καί ἀκατάσκειον βίον». 13 Vedi più avanti, in questo capitolo, a proposito dei riti magici e del culto degli alberi e del bosco. Nella selva ligure, che Cesare fa abbattere per l’assedio di Marsiglia, non solo i profani, ma il sacerdote stesso teme di entrare (Lucano, III, 425 sg.): «pavet ipse sacerdos / accessus dominumque timet deprendere luci». «Tantum terroribus addit – scriveva Lucano – quos timeant, non nosse deos» (III, 416 sg.). Ed a queste divinità ignote, egli aggiunge, questi popoli avevano ceduto la selva sacra (III, 422 sg,): «Non illum cultu populi propiore frequentant, / sed cessere deis». 14 Sempre di nuovo al piano, dopo sedata una ribellione, son richiamati i Liguri dai Romani vincitori, Cfr. Livio XXXIX, 2. La misura di sicurezza non sembra soddisfar troppo i vinti, che sempre di nuovo, a loro volta, tornano alle loro montagne ed alle loro selve, per riprender la lotta. Ma questo non toglie che al piano le popolazioni liguri volgano lo sguardo e gli animi, non solo e non tanto, forse – almeno dalle zone più arretrate – per i lavori dei campi e per il relativo agio della vita agricola, quanto per il saccheggio e la rapina di popolazioni più ricche. Così le incursioni degli Apuani impediscono i lavori agricoli nell’agro di Pisa e di Bologna (Livio XXXIX, 2); così altra volta vien saccheggiato l’agro di Modena, e occupata la colonia stessa (Livio XLI, 14). Ma anche a questo proposito, non bisognerà dimenticare la varietà delle situazioni locali, e la differenziazione nel grado di sviluppo civile raggiunto dalle diverse tribù: se alcune di esse «propter domesticala inopiam vicinos agros incursabant» (Livio XXXIX,1), altre appaiono stabilmente insediate nella pianura, intente ai lavori agricoli, e sono piuttosto i Romani che ne devastano le culture, o talora i Galli. Cfr. ad es., per i Libui e per i Laevi, Livio XXXIII, 37. 210
di questa vita essi debbono indurire i loro animi e i loro corpi; ma da secoli, ormai, essi son stati costretti a vincere i terrori immaginari e le effettive insidie della vita in foresta, per sfuggire alla più pressante minaccia dei vicini Etruschi o degli invasori gallici, poi dei conquistatori romani. In epoca protostorica e storica, l’antica ripugnanza delle prime popolazioni neolitiche per gli stanziamenti e per la frequenza di territori boschivi sembra superata, o almeno dominata da altre preoccupazioni. Le selve son divenute non solo normale territorio di rifugio contro più potenti invasori15 ma centri di normali e fondamentali attività produttive, da quelle della caccia e dell’economia di raccolto – sulle quali dovremo diffonderci nel capitolo seguente – a quelle di una vera e propria economia forestale, fondata sul taglio e sul commercio della legna, nonché di alcuni importanti sottoprodotti. Diodoro nomina queste attività di boscaioli in primo luogo fra quelle, alle quali i Liguri del suo tempo si dedicano16, e Strabone ricorda il legname come prima voce del loro commercio d’esportazione dall’emporio di Genova. Si tratta di legname per costruzioni navali ed altre17; e, come per altre popolazioni alpine18 e per quelle, forse pure liguri, della Corsica19, è probabile che, oltre al miele selvatico20, anche prodotti di speciali industrie forestali, come 15 Di contro agl’invasori romani, i liguri sempre di nuovo si rifugiano sui monti e tra le selve. Così Livio (XXXIX, 20), a proposito dell’infelice spedizione di Quinto Marcio contro i Liguri Apuani, ci parla delle «profonde foreste, che sempre eran servite loro da rifugio» («in abditos saltus, quae latebrae receptaculaque per illis fuerant»). Di inseguimenti dei Liguri «per saltus invios» ove era difficile scovarli, fa riparlare Livio (XL, 27) un comandante romano. Cfr. anche Livio, XXXIX, 2; XL, 38; XLI, 18. Floro, nella sua Epitome, parla dei Liguri «imis Alpium jugis adhaerentes...implicito que dumis silvestribus», che spesso era maggior fatica «invenire, quam vincere» (Floro: Epitome, II, 3 ). 16 Diodoro, V, 39, 2. 17 Strabone IV, 6, 2. 18 Strabone (IV, 6, 9), parlando delle popolazioni Carniche delle Alpi orientali, ci dice che le popolazioni montane di tutta la regione alpina scambiavano «resina, pece, rami resinosi per fiaccole» (oltre che «cera, miele e formaggi») con le genti della pianura. Il discorso di Strabone sembra esplicitamente riferirsi non solo ai Carni, ma a tutte le popolazioni montane delle Alpi. 19 Diodoro (V, 13, 4), a proposito dei tributi imposti dagli Etruschi alle popolazioni indigene della Corsica – di cui è stata proposta sovente una parentela o una frammistione con genti di stirpe ligure – ci dice che, oltre che in miele ed in cera, essi venivano esatti in resina: tutti prodotti di cui la montuosa e boscosa Corsica era ferace. 20 È nominato tra i prodotti esportati dai Liguri (Strabone IV, 6, 2) come tra quelli commerciati dalle popolazioni alpine delle Alpi orientali (Strabone IV, 6, 9) e tra quelli prodotti in Corsica (Diodoro V, 13, 4). Vedi più avanti, per l’importanza della produzione del miele nella Liguria antica, il capitolo sull’economia di raccolto. 211
la resina e la pece, avessero una parte importante negli scambi dei Liguri con le popolazioni circonvicine. Che il legname fosse oggetto di un vera e propria appropriazione e di uno sfruttamento commerciale da parte delle tribù alpine ci è d’altronde confermato dai casi di Messala, raccontatici da Strabone21: trovandosi a svernare in vicinanza del territorio dei Salassi, egli fu costretto a pagar loro a prezzo non solo la legna usata per combustibile, ma sin quella impiegata per le aste e gli esercizi militari delle truppe. Anche in epoca più tarda, d’altronde, l’industria e il commercio del carbone furono all’origine della immensa fortuna della famiglia di Pertinace, l’unico imperatore che la Liguria abbia dato a Roma: già suo padre aveva gestito a Vado una importante taberna coctilicia – fabbrica e deposito di carbone22 – alimentata dai boschi circonvicini, che fu da lui ingrandita e sviluppata quando fu confinato da Commodo in Liguria, In epoca protostorica e storica, così, le testimonianze sono unanimi nell’additarci l’importanza che le attività forestali – accanto a quelle dell’allevamento – assumono per le popolazioni della Liguria; mentre, come vedremo, le attività più propriamente agricole occupano una posizione che è relativamente ancora di secondo piano; e quelle relative alla caccia ed all’economia di raccolto, se hanno ancora un’importanza complementare assai notevole, non hanno già più quel peso esclusivo, che avevano avuto nelle epoche più remote. Se i relitti più arcaici di una terminologia del paesaggio geologico ci hanno riportato a queste epoche, in cui una primitiva economia di cacciatori , di raccoglitori, di pastori, di primitivi agricoltori, preferiva la frequenza e 1’occupazione e l’insediamento in territori scoperti, i relitti di una nomenclatura forestale, che ora verremo studiando, ci trasportano generalmente verso epoche assai più recenti; in una fase di sviluppo stadiale delle popolazioni liguri e del loro linguaggio, che rispecchia tecniche e condizioni di vita assai più evolute, che son quelle dei secoli più immediatamente precedenti la conquista romana. Questo non significa, beninteso, che già in una fase di sviluppo stadiale “preindoeuropeo” i rapporti delle tribù liguri col paesaggio vegetale in genere, e con quello forestale in ispecie, non avessero un’importanza notevole. Di tale importanza, al contrario, troveremo tracce e documenti numerosi nei relitti linguistici, come in quelli storiografici e folcloristici; ma solo in una fase più recente essa diviene decisiva, viene improntando di sé tutto il modo di vita 21 Cfr. Strabone IV, 6, 7. 22 Cfr. la Vita di Pertinace di Giulio Capitolino: «qui filio nomen ex continuatione lignariae negotiationis, quod pertinaciter eam rem gereret, imposuisse fertur». E più avanti «Nam pater eius tabernam coctiliciam in Liguria exercuerat…tabernam paternam, manente forma priore, infinitis aedificiis circumdedit; fuitque illic triennium, et mercatus est per suos servos; Cfr. Lamboglia: Liguria romana, I, p. 180. Per il senso del termine «coctiliciam», interpretato da taluni come «fabbrica di anfore ecc.», cfr. il Forcellini, s. v., e il passo stesso della Vita di Pertinace, ove si parla di «negotiatio lignaria». 212
e le concezioni delle tribù liguri, fino a soverchiare quella che ancora vengono mantenendo i relitti di più antichi rapporti con l’inerte paesaggio del monte, della roccia, della pietra. Quando, dall’approfondimento analitico dei vari aspetti e dei vari rapporti dell’antica umanità ligure, ci proveremo a dare la prospettiva del suo processo di sviluppo storico, questa costatazione, che ora cercheremo di documentare, ci apparirà in tutto il suo significato, come un elemento essenziale della nostra ricerca. Ciò non vuol dire, si badi bene, costringere il reale processo storico in preconcetti schemi sociologici, ove lo sviluppo stadiale della società e dei linguaggi liguri sia concepito in funzione di una meccanica successione di “età dell’economia di raccolto”, “della caccia”, “dell’allevamento”, “dell’economia forestale”, “dell’agricoltura”, o simili. Non ci stancheremo di ripetere, come la concezione marxista del processo storico e la sua metodologia rifuggano da ogni schematismo del genere, ed impongano invece sempre la ricerca delle forme concrete e differenziali, della differenza specifica del dato processo storico. È quanto abbiamo cercato e cercheremo di fare, mostrando (ogni volta che ciò sia possibile in base ai documenti disponibili) come ogni fase di sviluppo stadiale dell’antica società ligure si sviluppi e s’innesti nell’altra, come le forme nuove si affermino in seno e dal seno delle forme e dei rapporti più antichi; come, infine, accanto ed in mezzo al nuovo, si conservino i relitti delle forme e dei rapporti più antichi, in una frammistione ed in un contrasto, i cui termini reali imprimono ad ogni data società la sua peculiare ed inconfondibile caratteristica storica, che la distingue da ogni altra società, anche giunta ad una analoga fase di sviluppo stadiale. Questo non significa, tuttavia, che la storiografia possa esimersi da quella ricerca di uniformità e di leggi dello sviluppo storico, che sola può elevarla al grado di scienza, al di sopra di quello sterile empirismo cronachistico e di quella preconcetta costruzione idealistica, che ai nostri giorni caratterizzano la decomposizione e il decadimento della storiografia borghese. Nello studio del concreto processo storico, in tutta la sua intricata complessità, non ci si può così esimere dalla ricerca di quei rapporti, che in una data fase dello sviluppo stadiale vengono assumendo un’importanza decisiva, di contro ad altri che vengono decomponendosi e decadendo; non ci si può esimere dal ricercare, nella varia interferenza di influenze e di sviluppi, quel processo di sviluppo che è essenziale, che viene informando di sé tutti i rapporti produttivi, sociali, ideologici della data società. Certo è che, fin dalle epoche più remote, ai rapporti col paesaggio vegetale in genere, e con quello forestale in ispecie, le popolazioni della Liguria non avevano potuto essere estranee o indifferenti. Dopo l’ultima glaciazione, un mantello forestale più o meno fitto sembra essersi allargato su buona parte dei territori della grande Liguria: anche se, a sud delle Alpi, non sempre questo mantello pare esser stato continuo, e dové lasciare terre scoperte o raramente arborate, che – su per le 213
vallate montane – segnarono sovente le vie di un più precoce popolamento. Ancor oggi, d’altronde, il territorio delle regioni italiane, comprese nell’ambito della “Grande Liguria” antica, è tra quelli ove più alta è la proporzione della superficie forestale23.Verremo discutendo, nel corso di questo capitolo, a proposito delle singole formazioni ed associazioni vegetali caratteristiche per il paesaggio ligure, le varie e contrastanti opinioni degli Autori sulla entità, sulla diffusione e sull’epoca dei processi di diboscamento, che in epoca protostorica o storica son venuti riducendo l’estensione delle foreste in quest’area24. Tutti gli Autori concordano, 23 Secondo i dati del Catasto forestale, nel 1918 la percentuale della superficie a bosco sul totale della superficie territoriale era del 50,8%, in Liguria, del 20,8% in Piemonte, del 16,9% in Lombardia. Oltre la metà del territorio della Liguria propria era pertanto ancora coperta da boschi, contro una percentuale media del 19% per tutta Italia. Cfr. Annuario statist. dell’agric. ital. per il 1939-1942, p. 2 sg. e 287. Anche nelle regioni della Liguria transalpina, la percentuale della superficie a bosco si mantiene assai elevata: da un massimo del 50% per il dipartimento del Var, ad un minimo del 22% in Savoia, con una media del 29% per i dipartimenti in sinistra del Rodano (fatta eccezione per le Bouches-du-Rhone). Cfr. R. Blais, La foret, p. 11). 24 Per una accurata discussione delle contrastanti opinioni, relative all’entità della superficie diboscata dall’epoca preromana e romana in poi, rinviamo il lettore al volume del Gribaudi: Il Piemonte nell’antichità classica, p. 228 sgg. Rileviamo fin d’ora, tuttavia, che il Gribaudi ci sembra portato a sottovalutare, nel complesso, l’importanza dei diboscamenti, ch’egli ammette per le zone di pianura e di collina, ma viene quasi del tutto a negare per le zone di montagna. Nel reagire all’esagerazione di certe opinioni tradizionali, ch’egli dimostra criticamente non fondate, egli è forse andato oltre il segno: non tiene sufficientemente conto, a nostro avviso, delle forme indirette di degradazione del paesaggio forestale. Uno degli argomenti fondamentali ch’egli porta a sostegno della sua tesi, è ad esempio quello dell’assenza di viabilità e delle difficoltà di trasporto, che avrebbero dovuto limitare all’estremo l’area di diboscamento, anche in età romana e medievale. L’argomento è specioso: non prende nella necessaria considerazione, ci sembra, l’entità delle degradazioni dovute al pascolo, agl’incendi volontari e involontari – che sono, come è ben noto, un accompagnamento necessario di un regime pastorale – e soprattutto alla pratica agricola primitiva del debbio che, come vedremo nel seguito di questo studio, sembra aver avuto una parte importante nell’agricoltura della Liguria antica, e l’ha avuta comunque nell’economia medievale e moderna. Alla degradazione del paesaggio forestale, derivante da questi agenti, l’assenza di viabilità e le difficoltà dei trasporti non hanno fatto ostacolo; debbono anzi averla sovente favorita, forzando le economie autarchiche delle vallate più interne al dissodamento di pendici anche ripide, ai fini delle produzioni cerealicole o foraggere, necessarie per il sostentamento delle popolazioni locali. Sull’argomento dovremo tornare a più riprese, nel corso di questo capitolo e nei seguenti, a proposito delle forme dell’allevamento e delle colture agrarie nella Liguria antica. Ha ragione comunque il Gribaudi, nel rilevare che esso va trattato in maniera differenziata per le ragioni di montagna, di collina e di pianura, come pure secondo la varietà delle associazioni vegetali prese in considerazione. È quanto cercheremo di fare nel seguito della nostra ricerca: riferendoci – più largamente dì quel che non faccia il Gribaudi – ad altre fonti dirette ed indirette d’informazione. Per la metodologia di queste ricerche, attiriamo l’attenzione del Lettore sullo studio di G. Negri: Come si possa 214
comunque, nel riconoscere che in Liguria, alla vigilia della conquista romana, il bosco ricopriva una superficie maggiore dell’attuale; sicché non vi è dubbio sull’impronta caratteristica, che l’albero e la foresta dovettero dare al paesaggio della Liguria antica. Sulle altre associazioni vegetali, che condizionarono i rapporti di quelle popolazioni col mondo delle piante e dei fiori, avremo occasione di diffonderci più avanti; ma fin d’ora – senza anticipare sui risultati della nostra ricerca, esposti nei capitoli seguenti – possiamo dire che, nel paesaggio vegetale della Liguria antica, le formazioni naturali25 sembrano nettamente prevalere su quelle agricole. Non mancano, certo, anche all’interno della “Grande Liguria”, differenziazioni regionali: la colonizzazione focese, e forse la stessa invasione celtica, poi la precoce influenza di Roma, hanno contribuito ad imprimere di buon’ora alla Barbonense una più ricostruire la fisionomia della vegetazione della Toscana durante il periodo etrusco, in: St. Etr., vol. I, p. 363 sgg., e su quello dello stesso Autore in: Atti del XIV Congresso Geografico Ital., p. l67 sgg. Cfr., negli Atti medesimi, p. 262 sgg., la Relazione di A. Lorenzi su Gli studi di corografia storica, in Italia con speciale riguardo alla trasformazione del paesaggio. 25 Il termine di “formazioni naturali”, che qui usiamo, non coincide, quanto al senso, con quello di “formazioni (o associazioni) primitive”, largamente impiegato in biogeografia ad indicare quelle associazioni vegetali che non hanno subito l’opera dell’uomo, in quanto contrapposte a quelle che sono il prodotto di un intervento dell’uomo stesso. Per “formazioni naturali”, intendiamo qui quelle associazioni vegetali che, avendo o no subito una modificazione in conseguenza di attività umane, non l’hanno comunque subita in forma sistematica, finalistica e pianificata. Anche l’uomo, come tutti gli altri animali, in quanto raccoglitore, in quanto cacciatore, in quanto pastore, induce nel paesaggio vegetale delle trasformazioni, indipendenti da un suo piano e da un suo cosciente finalismo: anzi sovente in contrasto con esso, come nel caso del raccoglitore che non lasci nel terreno quel quantitativo di bulbi o di tuberi o di radici, necessario alla riproduzione della pianta che gli serve da alimento. Si tratta qui di trasformazioni, che l’uomo induce nel paesaggio vegetale non in quanto uomo, ma in una sua funzione ancora puramente animale, naturale: e per questo abbiamo chiamato “formazioni naturali” anche quelle associazioni vegetali secondarie che sono il prodotto di un intervento esercitato dall’uomo in questa sua funzione animale, naturale. Nel quadro di queste formazioni rientrano pertanto, nella nostra terminologia, quelle associazioni vegetali che nascono dalla degradazione delle praterie primitive in conseguenza del pascolo, o dal taglio saltuario degli alberi in un bosco. Col termine di «formazioni agricole» (o, più esattamente, «agricolo-forestali») indichiamo invece quelle associazioni vegetali – sempre secondarie – che sono il prodotto di un intervento dell’uomo, esercitato nella sua forma specificamente umana, orientata secondo un piano cosciente: così diremo di quelle associazioni vegetali che nascono dal regolare governo di un bosco, o dal suo dissodamento ai fini di una cultura agraria; così diremo di un prato artificiale, o di un pascolo in rotazione. È chiaro che, secondo la terminologia che qui usiamo, una formazione primitiva è sempre naturale, ma non tutte le formazioni naturali sono primitive. Le formazioni agricolo-forestali, per contro, sono sempre secondarie; ma non tutte le associazioni, vegetali secondarne sono agricolo-forestali. Cfr. De Martonne, Biogeographie, p. 1184, sgg. 215
civile fisionomia agricola, che ci è anche esplicitamente attestata dalle fonti26; così pure in varie parti della Liguria Padana, e della stessa Liguria marittima, influenze etrusche, e forse celtiche, le stesse possibilità naturali che qui il suolo offriva, promossero certo una più precoce evoluzione del paesaggio vegetale nel senso di una sua ordinata umanizzazione, verso il paesaggio agricolo27. Ma quando gli Autori che attingono a fonti più antiche, come Avieno, o quelli che ci descrivono la Liguria quale essa era alla vigilia della conquista romana, come Livio, vogliono caratterizzare complessivamente il paesaggio, nel cui quadro, i bellicosi Liguri si muovevano e operavano, non la nomenclatura di un paesaggio umanizzato dall’agricoltura, bensì quella selvaggia dei saltus, fornisce loro i termini più cospicui ed espressivi28. Ai tempi di Traiano, dopo lunghi secoli di romanizzazione culturale, etnica e linguistica, quando – nella Tavola ipotecaria di Veleia – di nuovo un documento d’impareggiabile valore ci offre un quadro preciso e complessivo del paesaggio ligure in una delle sue estreme propaggini, questo quadro non ci appare sostanzialmente diverso da quello documentato nella Sententia Minuciorum o nelle testimonianze di Livio. Mutato, certo, e profondamente, il regime della proprietà fondiaria, con una nuova estensione della proprietà privata, e con una tutta nuova precisazione delle sue forme; allargate, senza dubbio, nei fondi valle e nella pianura, le colture agrarie, che s’inerpicano anche su per le pendici e per i gioghi montani, coi dissodamenti e col debbio; ma è pur sempre il saltus che imprime la sua caratteristica complessiva al paesaggio della Tavola, e dalla nomenclatura del saltus son tratti molti dei termini 26 «Narbonensis est magis culta, et magis consita, ideoque etiam laetior» (Pomponio Mela, De situ orbis, II, 5). Cfr. Strabone IV, 1, 2, e già Polibio III, 49, 5. 27 Polibio, II, 15. È caratteristico il fatto, tuttavia, che anche in questo passo famoso, in cui egli magnifica la prosperità agricola della Padana, Polibio menzioni i vasti querceti, che interrompono la cultura nel piano. 28 Avieno, Ora marit., 136 sg.: «...quae per horrentes tenent plerumque dumos». Di saltus parla esplicitamente Livio a più riprese, quando vuol caratterizzare il paesaggio ligure (XXXIX, 20), o quando in bocca a un generale romano pone parole di sdegno contro quelle popolazioni inafferrabili («per saltus invios», XL, 27). Per il valore del termine «saltus», caratteristico della nomenclatura latina del paesaggio, cfr. il Porcellini s.v., e particolarmente la definizione di Gallus Aelius, in Festo, p. 402: «Saltus est ubi silvae et pastiones sunt». Come appare e come è detto nel contesto, che ha un preciso riferimento anche giuridico, si tratta di una caratterizzazione complessiva di un paesaggio naturale; che non potrebbe essere turbata dal fatto, che piccoli appezzamenti vengano nel saltus messi a cultura «pastorum aut custodum causa». La terminologia di Livio ci dà così l’impressione caratteristica del paesaggio naturale di «silvae et pastiones», di una dominante economia silvo-pastorale, che – pur non escludendo attività agricole vere e proprie – è quella della Liguria propria, alla vigilia della conquista romana; un’impressione che ci verrà confermata in tutto il seguito della nostra ricerca. 216
che in essa più frequentemente ricorrono. Anche là dove i fundi romani hanno allargato il dominio delle colture agrarie, è facile ritrovare le tracce dell’antico saltus, ch’essi son venuti trasformando coi più o meno recenti dissodamenti29; ma ancor più frequente è il caso in cui di saltus più esplicitamente si tratta, non solo ai margini del pagus, in zone più decentrate e di più difficile accesso30, ma sino ai limiti di Piacenza e della Pianura Padana31. Anche in fundi di questi territori di più intensa colonizzazione, ritroviamo una terminologia che fa ricorrere la nostra mente a un paesaggio, quale è quello che Gallus Ælius32 definisce come caratteristico per il saltus; così nel «Fundus Alfia Munatianus…cum casis in Carricino et silvis Sagatis» (4,42-43); così nel «Fundus Metilianus Lucilianus Anneianus cum casis et silvis et debelis» (4,39); così nel «Fundus Covaniæ et ovilia» (5,58) ed in molti altri33. Ci troviamo qui di fronte ad una fase del processo di trasformazione del paesaggio vegetale, in cui non soltanto una parte prevalente del territorio è ancora dominata dalle caratteristiche naturali del saltus, ma in cui anche le zone colonizzate conservano ancora sovente 1’impronta originaria, appena scalfita da primitive e precarie culture su debbio («et debelis»), da rudimentali attrezzature pastorali («et ovilia») e da più o meno temporanee costruzioni rustiche («cum casis»). L’impressione complessiva che si ricava, anche dallo studio di questo più tardo documento, è comunque quella di una persistente dominanza, nel paesaggio ligure, della caratteristica e tradizionale impronta del saltus, coi suoi pascoli e con le sue selve, frequentemente ed esplicitamente nominate nella Tavola, e che 29 Cfr.ad esempio, in proposito, i numerosi casi citati dal De Pachtère, Veleia, p. 33-39 e passim. Se talora sono dati onomastici o toponomastici o geomorfici, che denunciano la più o meno recente colonizzazione del saltus, altre volte ci troviamo di fronte ad una terminologia ancora incerta, che dichiara evidentemente una fase appena iniziale della trasformazione del paesaggio naturale in un paesaggio agricolo; così per il fundus Betutianus, non tanto largamente dissodato da non poter meritare ancora anche il nome di saltus (C.I.L. XI, 1147: 2, 91-92). Assai più frequente è il caso dei fundi «cum communionibus», per i quali questa espressione tecnica dichiara la persistenza del paesaggio vegetale e delle relative forme economiche, caratteristiche del saltus, sia pure ormai ridotte ad una funzione complementare nei confronti di una più moderna economia agricola. 30 Su questa funzione dei saltus, come confini tra i pagi, dovremo tornare più a lungo nel seguito di questo studio. Basti per ora riferirci ai numerosi esempi citati dal De Pachtère, Veleia, p. 33-39. Si tenga però conto, per la precisazione dei limiti tra pagi e della loro dislocazione, delle correzioni apportate dal Formentini, in: Forma Reipublicae Veleiatium, e in: Per la storia preromana del pago, oltre che nell’altro suo studio: Studi Veleiati e Bobbiesi. 31 Cfr. De Pachtère, Veleia, p. 38-39. 32 Cfr. la nota n. 28 a questo capitolo, e tutto il passo di Gallus Aelius ap. Festum, p. 402. 33 Le cifre tra parentesi si riferiscono rispettivamente alle colonne e alle linee della Tavola, per cui v. C.I.L. XI, 1147. 217
certo occupano ancora, assieme, la maggior parte del territorio in essa descritto34. Vedremo più avanti, nel seguito di questo studio, come e in che misura – nelle varie regioni della “Grande Liguria” protostorica – il paesaggio naturale del saltus sia stato interrotto e trasformato dall’allargarsi delle colture agrarie. Quel che per ora c’interessava di precisare, era la caratteristica complessiva del paesaggio naturale della Liguria antica: di cui cercheremo di precisare, nei paragrafi seguenti di questo capitolo, i vari aspetti e le varie vicende, dal punto di vista dei rapporti di quelle popolazioni col mondo degli alberi, delle piante, dei fiori. E nella immagine suggestiva, seppure imprecisa, del saltus – che, come il termine stesso, ancora quasi confonde e lascia indistinto il paesaggio naturale delle selve e dei pascoli da quello dei monti, della pietra delle acque – troveremo forse la guida migliore per la nostra ricerca, in un mondo che un’attività produttiva preordinata e sistemata dall’uomo ha appena cominciato a scalfire con la sua logica e con le sue tecniche [...].
Fig. 7, Emilio Sereni, Marrelo di bosco in Val d’Arroscia presso Albenga (Liguria), 1951, fotografia, cm 9x6, Fondo Sereni, Illustrazioni storia agraria, b. 17. 34 La professione del valore dei saltus, impegnati nella Tavola di Veleia, è dichiarata in cinque milioni di sesterzi. Secondo i calcoli del De Pachtère, Veleia, p. 22 sg., questa cifra corrisponde ad una superficie di 12.000/19.000 ettari: certo la maggior parte (in estensione non in valore) delle terre impegnate. 218
Emilio Sereni Biblioteca e archivio d’autore Gabriella Bonini
Emilio Sereni (Roma, 1907-1977) dedica l’ultima parte della vita alla nascita dell’Istituto Alcide Cervi del quale ricopre fin da subito il ruolo di Presidente del Comitato Scientifico. Sereni, che aveva dedicato la vita al mondo rurale, alla storia dell’agricoltura e del paesaggio, matura non solo la consapevolezza che i contadini necessitano di un’organizzazione politica e sindacale forte ad autorevole per risolvere le proprie istanze, ma vuole che a fianco della rappresentanza sociale vi sia un luogo, un’istituzione, in grado di continuare il suo lavoro di studio e ricerca. Così, alla morte, il suo archivio, con un quantitativo enorme di schede e appunti, diventa il Fondo Emilio Sereni, mentre i suoi libri costituiscono la Biblioteca Emilio Sereni affidati entrambi all’Istituto Cervi e collocati prima nella sede romana (inaugurata nel 1976 in Piazza del Gesù) e poi, in modo definitivo nel 2008, nel nuovo edificio sorto a lato della Casa Museo Cervi di Gattatico (Reggio Emilia). La Biblioteca Emilio Sereni, con un deposito di circa 22.000 libri, è una biblioteca orientata allo studio economico e alla storia agraria italiana, ma che esprime anche linee culturali e proposte di ricerca aperte alla metodologia, alla interdisciplinarità, alla costruzione di un’indagine sociale intorno alla cultura materiale e alla cultura sociale dell’Italia moderna all’interno di un panorama fortemente intrecciato con la storia d’Europa, ma anche attento alla dimensione locale. Una biblioteca che per molti aspetti delinea un quadro di passioni e di attenzioni aperto, non solo erudito. Il mondo agrario non è solo quello dell’analisi della produzione, ma un ambito dove entrano le tecniche, gli uomini, la società, i flussi delle passioni, le decisioni, gli entusiasmi e le angosce di un mondo. Per Emilio Sereni, la sua biblioteca non è un deposito di testi, ma un sistema di riferimenti. Vi sono conservate le grandi inchieste parlamentari sulla disoccupazione, sulla questione agraria, sul Mezzogiorno; un posto particolare occupano le opere degli agronomi da Filippo Re a Arrigo Serpieri, Ghino Valenti, 219
Aronne Rabbeno, Alfredo Niceforo. è un ricco patrimonio di opere e di dizionari dedicati alla cultura popolare, ai dialetti e alle parlate locali, nonché ai dizionari di lingue antiche. Lo schema classificatorio è impostato in quattro grandi sezioni: agricoltura, economia, storia e antropologia. Per la sezione di agricoltura, importanti sono i settori relativi alla storia del movimento contadino, alla sociologia e all’etnologia rurale, alla storia del paesaggio agrario, alle opere generali di storia agraria regionale e locale, alle coltivazioni e alle tecniche di produzione. Per la sezione di storia, particolare interesse hanno le classi contenenti opere sul fascismo e sulla Resistenza, sulla I e II guerra mondiale, sulla storia d’Italia, con particolare riguardo alle varie storie regionali e al brigantaggio. Nella sezione di economia, accanto a settori che conservano pubblicazioni di teoria economica, se ne trovano altri in cui si affronta l’economia nelle sue diverse realtà, ad esempio le classi sul lavoro, sull’emigrazione e sulla programmazione economica. La sezione di antropologia presenta specifiche sottosezioni dedicate alle tradizioni popolari, al folclore, alla letteratura, ai canti popolari, ai dialetti. Accanto a queste sezioni, più di 200 volumi dui rarità bibliografiche pubblicate tra il XVI e il XVIII secolo, la gran parte delle quali di interesse agrario. Ci sono le opere degli agronomi Clemente Africo, Agostino Gallo, Filippo Re, Vincenzo Tanara, Camillo Tarello e Piero Crescenzi, del quale, tra l’altro, si conserva il De Agricoltura nell’edizione di Basilea del 1538. Delle 200 riviste presenti, italiane e straniere, tra cessate e correnti, le più numerose sono quelle di agricoltura, riviste specialistiche tecnico – agronomiche, di economia agraria, di storia e quelle relative all’organizzazione del movimento contadino. Anche tra i periodici ci sono diverse testate di valore che risalgono al secolo scorso come le Effemeridi agrarie, il Giornale dell’agricoltore industrioso, gli Atti dell’Accademia dei Georgofili, il Giornale agrario italiano industriale e commerciale, il Giornale di Agricoltura Industria e Commercio del Regno d’Italia, il Giornale agrario toscano, l’Agricoltore italiano, il Giornale d’agricoltura, arti campestri. Il Fondo Sereni comprende l’Archivio di documentazione che riflette la vastità dei suoi interessi, ricercatore, collezionista e catalogatore di una mole enorme di libri e periodici: oltre duemila buste, 63.000 pezzi e 1.843 voci, dalle questioni agrarie al Mezzogiorno, dall’archeologia e dall’antichità alla storia economica e sociale. Non solo una cultura di stampo umanistico, nei suoi interessi c’è posto per la matematica, la fisica, la cibernetica, la linguistica e anche per la cultura materiale, il folclore, i canti popolari, i miti, i costumi, la storia dell’alimentazione. Nell’archivio sono raccolti materiali di diversa tipologia, opuscoli, libri, ciclostilati, documenti interni, articoli tratti da riviste specializzate, ritagli di giornale, documenti autografi, alcuni non a stampa, ma uniti da un nesso tematico. L’Archivio di documentazione 220
è suddiviso in due sezioni: una relativa a temi politico-economici, ma anche geografici, archeologici, linguistici, etnografici, folcloristici, sociologici e una che riguarda argomenti di carattere agrario. Comprende anche diverse illustrazioni di storia agraria, ossia la raccolta di fotografie di paesaggi, illustrazioni, riproduzioni di opere d’arte, sui quali Sereni ha in gran parte lavorato per documentare e costruire la Storia del paesaggio agrario italiano. L’interesse di questo Fondo è dato dal particolare metodo di lavoro dell’autore: non interi volumi o raccolte di riviste scientifiche, ma articoli ritagliati che lo interessano, rilegati in tanti estratti o piccoli fascicoli e riuniti poi in cartelle tematiche. Distintivo aspetto di questa raccolta è il fatto che, mentre un libro può capitare nella biblioteca anche per caso, come regalo o altro, nel caso di questi 63.000 articoli e documenti si è del tutto sicuri che Sereni li abbia scelti, ritagliati e classificati. Essi sono quindi parte della biografia del suo autore-raccoglitore. L’Archivio di documentazione è affiancato dall’imponente Schedario bibliografico costituito da alcune migliaia di voci e decine di migliaia di schede e di appunti bibliografici stilati dallo stesso Sereni. Sono ben oltre le 300.000 schedine. L’ordinamento e la loro compilazione non rispondono a criteri biblioeconomici, bensì alla personale impostazione dell’autore: un vero e proprio deposito privato del sapere, ordinato e regolato secondo precisi e personalissimi meccanismi di selezione e di segnalazione. Anche lo Schedario bibliografico permette di risalire al metodo di indagine e di lavoro di Sereni: le migliaia di schedine bibliografiche, classificate minuziosamente per argomento, i mille e mille estratti bibliografici riportano come titolo parole, concetti, categorie storiografiche e sociali, temi di ricerca quali proprietà terriera, proprietà coltivatrice, metrologia, blocco storico, istruzione agraria, ma anche judaica, centuriatio, cibernetica, modelli matematici, metascienza, maccheroni. Scorrere i temi è come scorrere la biografia del suo autore – compilatore, i suoi interessi, la sua forte e imponente personalità culturale. Le schede sono su carta ed hanno una dimensione di cm. 11x14 oppure di cm. 27x22; sono contenute in 4 schedari metallici a cassetti, per un totale di 27 cassetti. All’interno di ogni cassetto le schede, disposte su tre file parallele, sono organizzate per argomenti e, quando gli argomenti lo consentono, anche in sottoargomenti. La maggior parte delle schede sono manoscritte, o dattiloscritte, scritte con carta copiativa, generalmente sul solo fronte, a due o più colori, ma alcune anche fronte/ retro. Le schede non manoscritte contengono un ritaglio di “testo a stampa” incollato sulla scheda. Lo schedario è composto da schede multilingua; l’italiano è la lingua dominante e i riferimenti apportati da Sereni sono sempre in italiano. Fra le schede, poi, si trovano spesso intercalati fogli in cui egli trascrive citazioni o veri e propri capoversi delle opere che legge, in alcuni casi aggiungendo anche il commento.
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Tutti gli scritti presenti nella Biblioteca e nell’Archivio sono qui segnalati e questo permette di avere maggiori informazioni su quali opere o parti di esse gli siano servite per i suoi libri. Il sistema dei rimandi e delle citazioni permette di ritrovare, per ogni argomento, non solo il titolo del libro e dell’articolo letto, ma anche la pagina e la citazione precisa. Si può affermare che quanto è stato pubblicato sull’agricoltura italiana, sulla sua storia e sulle sue tecniche, fino alla morte di Sereni, non solo in lingua italiana, egli lo abbia annotato o trascritto, in vista, forse, di scrivere quella storia dell’agricoltura italiana cui aveva cominciato a lavorare negli anni della clandestinità. Nella lettera indirizzata a Luigi Longo e alla direzione del PCI il primo marzo 1966 (in copia nel Fondo Alleanza Nazionale dei Contadini) Sereni scrive: nelle centinaia di migliaia di schede e di excepta che trasmetto all’Istituto è raccolto il meglio e il più della mia attività scientifica: centinaia di lavori praticamente già fatti e compiuti salvo per quanto riguarda la loro materiale stesura.
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