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uaderni 14 ITALIA RURALE
PAESAGGIO, PATRIMONIO CULTURALE E TURISMO
Summer School Emilio Sereni Storia del paesaggio agrario italiano IX Edizione 27 agosto - 31 agosto 2017
edizioni istituto alcide cervi
In copertina: Emilio Giberti, Biblioteca-Archivio E. Sereni, Istituto A. Cervi, Gattatico (RE) (2008) www.curiosity-escapes.com, Monteriggioni, Toscana Patrizia Paganuzzi, Casa forte, torre del Borzano, Caprineti (RE), 2017 (concorso footgrafico 2017) Marco Finelli, Bunny. Lepre in controluce, Ravadese, 2015 (concorso fotografico 2015)
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uaderni 14 ITALIA RURALE Paesaggio patrimonio culturale e turismo
Lezioni e pratiche della Summer School Emilio Sereni A cura di Gabriella Bonini e Rossano Pazzagli
edizioni istituto alcide cervi
Volume realizzato con il contributo di
REGGIO EMILIA
Cura redazionale di Gabriella Bonini e Gaia Monticelli Editing e Grafica di Gaia Monticelli e Emiliana Zigatti
Copyright Š AGOSTO 2018 ISTITUTO ALCIDE CERVI - BIBLIOTECA ARCHIVIO EMILIO SERENI via Fratelli Cervi, 9 42043 Gattatico (RE) tel. 0522 678356 - fax 0522 477491 biblioteca-archivio@emiliosereni.it www.istitutocervi.it ISBN 978-88-941999-7-0 I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore.
stampato su carta certificata
Italia Rurale
Paesaggio, Patrimonio culturale e Turismo
Il Quaderno 14 documenta e approfondisce i temi svolti all’interno della
Summer School Emilio Sereni Storia del paesaggio agrario italiano IX Edizione - 27-31 agosto 2017
Direzione Rossano Pazzagli Comitato scientifico Mauro Agnoletti, Gabriella Bonini, Emiro Endrighi, Rossano Pazzagli, Saverio Russo, Carlo Tosco
Ringraziamenti Per il rinnovato successo della IX edizione della Summer School Emilio Sereni è doveroso ringraziare i tanti volontari, l’Associazione culturale Dai Campi Rossi e tutti gli amici di Casa Cervi e della Biblioteca-Archivio Emilio Sereni che non hanno fatto mancare il loro supporto morale e fisico: Tiziano Catellani, Rina Cervi, Sidraco Codeluppi, Marika Davoli, Loris Marconi, Gianfranco Talignani, Maddalena Torreggiani; l’artista Antonella De Nisco per le sue istallazioni; Roberto Ibba per la gestione del bookshop letterario; Emiliana Zigatti della segreteria organizzativa con l’aiuto di Marina Regosa e Sara Catellani alla reception; gli amici fotografi Enzo Zanni, Bruno Vagnini, Gaetano Baglieri e Silvio d’Amico, per il lavoro di documentazione e per il prezioso supporto all’organizzazione della mostra fotografica; Simone Bianco, Eleonora Taglia e Marzia Bassi per le trascrizioni di alcuni degli interventi presenti nel volume e Gaia Monticelli per l’editing; il personale dell’Istituto Cervi: Liviana Davì, Gabriella Gotti, Sabrina Montipò, Morena Vannini, Paola Varesi, Mirco Zanoni, Riccardo Mossini con lo staff della ristorazione; Luciana Cervi e Ernesto Malpeli. Un ringraziamento speciale va a tutti i partecipanti, corsisti, tutor e docenti: senza di loro questa IX Edizione della Summer School non sarebbe potuta esistere. Essi sono stati gli artefici con disponibilità ed energia di questa esperienza originale. Un ultimo ringraziamento va a coloro che, già tra i partecipanti delle precedenti edizioni, hanno riconfermato la loro presenza dando senso e rinnovato valore a questo progetto della Biblioteca Archivio Emilio Sereni.
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Con il patrocinio e la collaborazione
Comune di Campegine
Comune di Gattatico
Comune di Guastalla
FEDERAZIONE LAVORATORI AGROINDUSTRIA REGGIO EMILIA
Accademia dei Georgofili
Archivio Osvaldo Piacentini
Ordine e Fondazione Architetti Reggio Emilia
Associazione di Insegnanti e Ricercatori sulla didattica della Storia
In convenzione scientifica con Università degli Studi Modena e Reggio Emilia
Università degli Studi di Catania Dipartimento di Ingegneria civile e Architettura
Università degli studi del Molise
Università degli Studi della Basilicata Dipartimento degli Studi Umanistici
Politecnico di Torino Scuola di Specializzazione in Beni architettonici e del paesaggio
Università degli Studi di Macerata Dipartimento delle Culture Europee e del Mediterraneo - DiCEM
Università degli Studi di Bologna Dipartimento di Scienze dell’Educazione “Giovanni Maria Bertin”
Università della Tuscia Dipartimento di Scienze agrarie e Forestali
Università degli Studi di Cagliari Dipartimento di Ingegneria civile, ambientale e Architettura - DICAAR Università di Roma La Sapienza Dipartimento di Architettura e Progetto
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International Centre for Heritage Studies, Faculty of Architecture, Design & Fine Arts, Girne American University, Cyprus Wageningen University and Research
Indice
Presentazione
Gabriella Bonini, Rossano Pazzagli
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INTERVENTI DI APERTURA
Albertina Soliani
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Gian Luca Galletti
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Giammaria Manghi
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Secondo Scanavino
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Simona Caselli
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Sabina Magrini
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IN RICORDO DI EMILIO SERENI QUARANT’ANNI DOPO 37 La formazione di Emilio Sereni. Note dall’archivio di famiglia
Anna Sereni
Emilio Sereni visto da un archeologo a quaranta anni dalla sua scomparsa
Daniele Manacorda
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LECTIO MAGISTRALIS Un patrimonio italiano
Giuliano Volpe
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PARTE I - PAESAGGIO, CULTURA E TURISMO Il paesaggio della Campania interna nel turismo del Novecento: alcune note sull’Irpinia
Annunziata Berrino
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Paesaggi culturali, piccoli paesi, musei
Pietro Clemente 97 Paesaggi agrari e aree protette: la via della pianificazione
Ilenia Pierantoni, Massimo Sargolini Paesaggio agrario e scuola “in cammino”
Mario Calidoni
Il Premio del Paesaggio del Consiglio d’Europa
Carlo Tosco
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PARTE II - PAESAGGIO, TURISMO E SVILUPPO CULTURALE Il potenziale turistico dei paesaggi rurali
Monica Meini
Il valore del paesaggio nel turismo enograstronomico
CArlo Cambi
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Turismo, paesaggio e capitale culturale dei luoghi rurali. Una proposta di qualificazione dei territori nella prospettiva dello sviluppo sostenibile
Luigi Costanzo, Alessandra Ferrara
La Convenzione di Faro. La valorizzazione dell’eredità culturale in Italia
Maria Cristina de Filippo
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PARTE III - TURISMO SOSTENIBILE E PAESAGGIO nei contesti regionali Il pensiero paesaggistico per il turismo culturale rurale. Concetti e strumenti nella costruzione del ‘tour nella bassa reggiana’
Emiro Endrighi
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Turismo sostenibile e aree interne. Per una strategia di valorizzazione del patrimonio territoriale della Sicilia interna
Fabiola Safonte 8
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Archeologia dei paesaggi e strategie per la valorizzazione e la fruizione turistica in ambito rurale
Alfonso Santoriello
Comunità locali, patrimonio e territorio: la sfida per un turismo sostenibile
Barbara Tagliolini
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Tra architetture e paesaggi, tra sacralità e senso civico. Valorizzazione, trasmissione e potenzialità del paesaggio culturale, civile e religioso
Chiara Visentin
Paesaggio e turismo in Irpinia
Daniela Stroffolino
Turismo culturale e pascolo vagante
Simona Messina
Agriturismo tra territorio e impresa. Il caso Apella in Lunigiana.
Fabrizio Frignani e Barbara Maffei
225 245 259 267
Del paesaggio agrario in Terra di Lavoro. I Regi Lagni e la Real tenuta di Carditello
Gaetano Andreozzi
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Piazza Carlo Felice: verde pubblico per un paesaggio urbano a Torino nell’Ottocento
Alice Pozzati
Il turismo esperienziale ed il valore del paesaggio: un’esperienza nell’Alto Molise
Stefano Rinaldi, Laura Sterlacci
287 299
PARTE IV - REPORT WORKSHOP E LABORATORI Sviluppo turistico in aree rurali deboli: fra tradizione e innovazione
Luciano Sassi Valeria Di Cola
Il turismo nelle campagne: esperienze territoriali. Resoconto del workshop
Valeria Volpe
307 311 317
L’arte del truciolo nella bassa reggiana e modenese. Ipotesi di un itinerario tra Carpi e la Bassa Reggiana
Matilde Teggi
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L'azienda agricola tra turismo e paesaggio
Camilla Zoppolato
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NASSE/LAAI, Laboratorio di Arte Ambientale Itinerante. Installazione collettiva a cura di Antonella De Nisco
Antonella De Nisco, Nila Shabnam Bonetti
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PARTE V - CONCLUSIONI Il paesaggio e il turismo tra rischi e opportunità
Rossano Pazzagli
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APPENDICE - A Piero Camporesi nel ventennale della scomparsa Piero l’artigiano, Camporesi l’alchimista
Gian Carlo Roseghini
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Autori
385
I Volti della scuola
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Presentazione
Gabriella Bonini, Rossano Pazzagli
La ricerca/azione sul paesaggio è un processo ampio e intrecciato che comporta l’applicazione di conoscenze, sensibilità, attitudini ed esperienze in grado di diffondere l’idea che il territorio rurale e il paesaggio agrario dei diversi contesti regionali costituiscono, sia nelle terre della polpa che in quelle dell’osso, una risorsa importante, indispensabile e strategica per il rilancio economico e sociale dell’Italia. Se è una risorsa, è evidente che esso – il paesaggio agrario, come il suolo agricolo – va conosciuto e tutelato, difeso dai fenomeni di erosione, di consumo, di cementificazione e di alterazione della principale funzione agricola: quella della produzione di cibo e della multifunzionalità dell’agricoltura, ma inquadrandola nella cornice identitaria, strutturale e ambientale delle campagne italiane. Lo stesso approccio che vale, evidentemente, per il patrimonio culturale, di cui il paesaggio fa parte. Le campagne contengono tante cose: uomini, animali, agricoltura, prodotti alimentari, architetture, socialità, natura, biodiversità, valori e risorse economiche; ma anche un grande patrimonio culturale, diffuso e disperso, talora invisibile, spesso non adeguatamente conosciuto e valorizzato. Tra agricoltura e cultura, spesso le campagne sono rimaste senza voce, un’Italia pulita e appartata alla quale pubblicazioni come questa cercano di ridare la parola, per un nuovo protagonismo, per rimettere il territorio rurale al centro dell’attenzione e delle politiche. Il paesaggio non è un dato, ma un processo, diceva Sereni. Il rapporto tra campagne e turismo è un vasto campo di ricerca su cui elaborare molte delle strategie di rigenerazione dei valori e dell’economia, per riannodare fili di una rete spezzata di coesione territoriale: quella tra città e campagna, tra borghi e contrade, montagna e pianura, agricoltura e alimentazione ed anche, in fondo, tra cultura e politica. I saggi qui raccolti, a carattere storico, geografico, urbanistico, economico e sociale, aiutano la riflessione sulle strategie di governo del territorio e del patrimonio territoriale, dalle quali discende l’obiettivo di un consolidamento di un settore fondamentale dell’economia italiana come il turismo, nel quale il mondo rurale con i suoi valori paesaggistici, gastronomici e ambientali occupa un posto di rilievo. Essi evidenziano il legame tra paesaggio, patrimonio culturale e turismo come asse strategico su cui impostare percorsi di conoscenza, azioni di tutela e progetti di valorizzazione territoriale tramite le varie forme di turismo sostenibile che 11
possono affermarsi in ambito rurale. Partendo dall’articolo 9 della Costituzione, fino all’attuazione del Codice del beni culturali e del paesaggio, sottolineano la centralità del territorio rurale come contenitore di risorse plurali che vanno dalle produzioni agricole agli insediamenti umani, dai caratteri ambientali alle tradizioni culturali, per giungere all’analisi e alla progettazione di forme di turismo integrato che fanno perno sul rapporto fra tradizione e innovazione come elemento forte dell’offerta e della domanda turistica, sempre più orientata verso il turismo esperienziale. Questo volume affronta dunque la tematica del turismo rurale come possibilità di integrazione del reddito, in connessione col ruolo multifunzionale dell’agricoltura e nella prospettiva di una rinascita delle campagne. Il tentativo è quello di rimettere al centro l’identità e le vocazioni autentiche dei territori che il paesaggio riflette nelle sue trame storiche e nella percezione sociale. Il paesaggio, il paesaggio agrario in particolare, diventa così un fattore significativo dell’identità socioculturale di una comunità e della sua evoluzione, il terreno privilegiato su cui connettere coerenti strategie e politiche di valorizzazione e tutela in ambito rurale.
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INTERVENTI DI APERTURA
Albertina Soliani
Presidente Istituto Alcide Cervi
Nel dare a tutti il benvenuto dell’Istituto Cervi, pronuncio parole che rappresentano questo nostro stare insieme, le nostre relazioni, che sono molto più profonde di quanto non si possa dire. Ciascuno di noi ha una storia da mettere insieme a quella degli altri. Quando ci troviamo qui, in una sede come questa, non solo fisica, ma anche morale e culturale, dentro questa cornice della Summer School, c’è qualcosa di molto grande che ciascuno di noi rappresenta e insieme rappresentiamo la storia e nello stesso tempo il futuro. Questa è la IX edizione della Scuola estiva dell’Istituto Cervi, nel nome di Emilio Sereni, sempre. Qui vivono di lui la sua biblioteca, l’archivio e la loro cura continua, che apre molte relazioni con ambienti culturali, università, istituzioni e associazioni che operano in tutta Italia. Qui c’è una parola che tutto riassume, in un certo senso, ed è una parola che ha fatto storia nella vita culturale e politica del nostro Paese. Essa si iscrive nel contesto internazionale che Emilio Sereni ha avuto la grande genialità di evocare continuamente. Una parola che sembra già carica di storia, ma a dir la verità è appena agli inizi della sua esplorazione. Una parola molto semplice, molto importante, è la parola “paesaggio”, che è entrata nella Carta Costituzionale. Ricordiamo tutti l’Articolo 9: La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione. Oggi, come sapete, in questa edizione parleremo in modo particolare e ragioneremo intorno al paesaggio culturale e al turismo che fa muovere il paesaggio: le persone si muovono e quindi si muove anche il paesaggio. Ricordiamo tutti il grande tema dello scorso anno, così evocativo: abitare la terra. Oggi troverete qui, un anno dopo, e di questi tempi è già qualcosa, perché le fatiche realizzative non sono piccole, gli atti del Convegno dell’anno scorso. Una terra, un paesaggio che è cultura e opera dell’uomo, è storia, è arte. Dalla terra facilmente si arriva ai villaggi, alla città, insomma la terra è il mondo e la terra è l’umanità. Nel tema di questa Summer School, accanto al paesaggio, troviamo la parola “patrimonio”, sulla terra, e, diciamo anche sotto terra, poiché l’estesa realtà archeologica si esprime nell’intreccio continuo tra natura e storia. Questi temi, il 15
paesaggio e il patrimonio, chiamano in causa i cittadini, sono un bene comune, sono un diritto, una enorme responsabilità. Il turismo è richiamo continuo alla comunità che si muove, al mondo: oggi la dimensione è semplicemente questa. Le nostre campagne sono molto “nostre”, tipiche, ma somigliano anche ad altre campagne nel mondo: in Asia o in qualche altra parte, insomma, sembra di vedere casa nostra. Il turismo ci dice, forse più di altre esperienze, che la terra ci è prestata: coloro che abitano un determinato luogo sanno che quel patrimonio, quel paesaggio, non è in loro possesso, ma è in prestito per gli altri, e non solo in termini orizzontali, bensì in termini di futuro, intendendo perciò che quanto abbiamo oggi dobbiamo conservarlo anche per il futuro. Questo tema del patrimonio chiama in causa le competenze; qui sono molto presenti, qui non sono improvvisate, qui c’è un Comitato Scientifico della Scuola e ci sarà uno sviluppo di questo impegno, di queste competenze. Oggi siamo qui insieme ai rappresentanti delle istituzioni che hanno fondato l’Istituto e che sono altri rispetto a quarant’anni fa. Sono qui presenti: la Provincia di Reggio Emilia con il suo Presidente, la Confederazione Italiana Agricoltori CIA, col suo Presidente nazionale, la rappresentanza della Regione Emilia Romagna, sempre accanto a noi, soprattutto dopo la recente legge sulla memoria e con una partnership molto importante, il Ministero dei Beni Culturali, qui rappresentato dal Direttore dell’Emilia Romagna. Vedo qui riuniti docenti e partecipanti per costruire una cultura ed una responsabilità di governo e di gestione. C’è una chiamata molto importante, quella alla politica, perché ormai la solidità delle strutture che tengono insieme la civiltà di un paese è garantita essenzialmente dalla politica. Noi stiamo vivendo un tempo di incertezza e di paura. Quanto viviamo qui, nella scuola, è dedicato alla fiducia nel futuro; nonostante le paure, i conflitti e le chiusure, siamo certi che le nostre vite siano destinate a ben altro e che sia necessario costruire un altro orizzonte. In questa Casa, in questo posto, abbiamo la certezza di lavorare per la fiducia, per la ricerca del senso del futuro, tenendo tra le nostre mani il destino della terra, il destino del paesaggio, che è lo stesso dell’umanità. Questo luogo si chiama “Casa Cervi”. Emilio Sereni è arrivato qui perchè questa era la casa dei Cervi, dei contadini che hanno fatto la nuova Italia. Questo luogo vive costantemente, perchè la semina di allora, di settant’anni fa, è stata grandissima, quindi qui vive costantemente la passione per il cambiamento del mondo. Un altro racconto rispetto a quello fascista di ieri e di oggi, un altro racconto, perché si attende un altro raccolto. La differenza sta nella libertà e la Summer School appartiene a questa scuola di libertà, a questo patrimonio che viene da allora per il futuro. Siamo nel 2017, un anno un po’ speciale, in nome di Emilio Sereni a quarant’anni dalla sua morte. In questi giorni è venuto a mancare un grande amico, un grande collaboratore di Emilio Sereni, un grande amico nostro e collaboratore anche dell’Istituto Cervi, Tullio Seppilli, antropologo. In questo momento, a conclusione del mio saluto, vorrei chiedere a tutti noi un minuto di silenzio che trasmetteremo 16
alla famiglia come segno di partecipazione al grande significato di una vita venuta a mancare. Possiamo alzarci in piedi per un minuto di silenzio. Grazie. Lasciatemi, infine, ringraziare in anticipo per tutta la preparazione, l’organizzazione, la conduzione della scuola, Gabriella Bonini ed Emiliana Zigatti, che sono l’anima, la mente, il cuore di questa storia, insieme con lo staff dell’Istituto. Ci vedremo in questi giorni. Pensiamo che è un po’ nelle nostre mani la riflessione per la costruzione di un modo di essere dell’Italia e del mondo all’altezza dei nostri tempi. Grazie e buon lavoro ancora.
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Gian Luca Galletti
Ministro dell’Ambiente e della tutela del territoio e del mare
Un ringraziamento forte per avermi invitato alla Presidente dell’Istituto Cervi Albertina Soliani che conosco da molto tempo, al Direttore della Summer School, ai Sindaci e alle autorità presenti. Sono orgoglioso di essere qui oggi, sono emiliano, sono di Bologna e conosco queste zone, conosco tante persone che in questi luoghi durante la guerra e nel dopoguerra hanno dato la vita per salvaguardare la democrazia del nostro Paese. E la testimonianza di Casa Cervi e di tanti altri luoghi disseminati nella nostra regione tra Bologna e Reggio Emilia non sono un ricordo di quegli anni, ma sono simbolo di una testimonianza forte che abbiamo il dovere di ricordare e di tramandare ai nostri figli. Lo dice il Ministro dell’Ambiente perché oggi nell’ambiente ci sono i germi per un nuovo fascismo. Il fascismo è il male assoluto che si presenta sotto mille aspetti e per questo dobbiamo tenere alta la guardia, ma siamo in grado di tenerla alta solo se siamo capaci di ricordare la nostra storia, se quella storia non è solo storia ma è cultura e quella cultura si è capaci di possederla e di tramandarla ai figli. Allora io credo che il nostro compito, anche nelle politiche ambientali sia soprattutto questo. Il fascismo può venire dall’ambiente perché oggi siamo davanti a un cambiamento epocale e se noi non siamo capaci di governare, di gestire, di capire i cambiamenti epocali, non si ha la cultura, non si hanno gli anticorpi per poterli gestire, questi rischiano di diventare ingovernabili. Quando diventano ingovernabili, diventano un pericolo anche per la democrazia. In ambiente questa trasformazione si chiama cambiamento climatico che oggi ci impone un mutamento del nostro modo di vivere, di produrre e di intendere il rapporto con l’ambiente. Non a caso il Papa ci ha mandato negli ultimi anni segnali fortissimi come quelli contenuti nell’Enciclica Laudato sii. Il Papa parla con un linguaggio di verità e un linguaggio scientifico a tutti comprensibile. In questi anni, nei suoi interventi pubblici, non ha mai smesso di ricordare l’importanza dell’ambiente per scongiurare la guerra. Anche pochi giorni fa è stato esplicito il suo riferimento a prossime guerre motivate dall’accaparramento dell’acqua. Il Santo Padre ha ragione: se noi oggi non iniziamo a tutelare di più le nostre risorse naturali, iniziando dall’acqua, rischiamo di produrre delle diseguaglianze all’interno del mondo che porteranno a nuove guerre. E se non siamo capaci di capire che 19
l’ambiente è un tema universale, un tema sul quale dobbiamo andare tutti d’accordo perché non possiamo pensare egoisticamente di difendere solo il nostro benessere, non risolveremo mai il problema dei cambiamenti climatici, anzi lo aggraveremo trasformandolo in motivazione di nuove guerre. L’ambiente richiede uno sforzo comune. In ambiente vale il dilemma del prigioniero: o si vince tutti insieme o si perde tutti. Non c’è un vincitore solo. Sicuramente c’è chi pensa di difendere il proprio piccolo benessere conquistato con l’industrializzazione, crede che per difenderlo occorra alzare muri, produrre CO2, prendere risorse nei paesi poveri, sprecare acqua, inquinare… ma alzare un muro per proteggere il proprio piccolo benessere conquistato non funziona perché la CO2 va al di là del muro e soprattutto la mancanza di risorse naturali farà sì che coloro che non hanno più acqua e che soffrono di desertificazione si spostino verso i territori ricchi. Nel 2030 solo gli africani saranno un miliardo in più rispetto a oggi e noi saremo qualche decina di milioni in meno come europei. Non parliamo di immigrazione, ma di invasione e allora già da adesso dobbiamo pensare in maniera comune, in maniera globale, per risolvere i problemi climatici, oppure soccomberemo a quei problemi. E pensare in maniera comune vuol dire avere la disponibilità anche economica, oltre che culturale, occorre una politica che compendi l’investire in quei territori che non ce la fanno da soli, esportando tecnologie, innovazione, denaro; andando a investire, non a colonizzare, a insegnare. Noi oggi siamo chiamati a questa grandissima sfida, ad assumerci la nostra responsabilità di paese sviluppato nei confronti di quelli in via di sviluppo che ancora devono affrontare l’industrializzazione. L’accordo di Parigi 2015 è questo: 193 paesi insieme decidono una politica unitaria in materia di ambiente: o si vince tutti o si perde tutti. Ma l’accordo di Parigi è “carta”, è fatto in sede di ONU e quindi non è vincolante e allora noi dobbiamo decidere se considerare quello un impegno vincolante o un impegno morale che, se lo faremo, bene, altrimenti ci penseranno gli altri... La sfida oggi è questa: capire il cambio culturale che abbiamo davanti e che ci impone di fare dei sacrifici per aiutare quelli che hanno subito l’industrializzazione. In parole povere significa che il benessere non può essere protetto ma deve essere condiviso. Il grado di benessere raggiunto potrà essere protetto per alcuni anni, forse anche per un’intera generazione, ma non oltre. Se il benessere è condiviso allora diventerà duraturo per ognuno di noi e per tutti gli altri. Questo in campo ambientale è profondamente vero. Se non facciamo questo il male è sempre alle porte e il fattore ambientale non risolto diventa fattore scatenante di guerre. Gli esperti ci mandano segnali allarmanti sui cambiamenti climatici; ci dicono che se continuiamo così il nostro pianeta nel 2100 sarò sconvolto: avremo una parte desertificata, lo scioglimento dei ghiacciai con l’aumento del mare e territori che scompariranno. Noi siamo una penisola e quindi ne saremo direttamente interessati.Già oggi vediamo i primi sintomi dei cambiamenti climatici in atto, come lo stravolgersi delle delle stagioni, le grandi alluvioni, gli uragani e la siccità intensa causa di enormi incendi. I meteorologi ci avvertono che questi non sono più eventi eccezionali, ma diventeranno la regola, ordinari. Dobbiamo agire per nostra responsabilità perché siamo noi che abitiamo il pianeta ed è nostra responsabilità agire per noi ora e subito, non solo in nome del futuro dei nostri figli, come solitamente ci diciamo. Quali le azioni? Prima di tutto occorre 20
ridurre le emissioni di CO2, perché formano una cappa che porta al surriscaldamento del pianeta. La comunità degli scienziati chiede a tutti i 193 paesi di ridurre le emissioni di CO2; ha indicato il cosiddetto carbon-budget, ossia, per tutti, la quantità di emissioni possibili, affinché il pianeta si riscaldi solo dell’1-2% e non del 5% come avverrebbe se tutto continuasse come ora. Il surriscaldamento dell’1-2% permetterà al nostro pianeta di sopravvivere. Non è però semplice dividere il carbon-budget tra tutti i Paesi del mondo, ma l’accordo di Parigi 2015 consiste proprio in questo, nello stabilire le regole per suddividere il carbon-budget tra tutti i Paesi del mondo. È stato un compito difficilissimo. Dopo 21 riunioni si è giunti all’accordo: i Paesi industrializzati come l’Europa si sono impegnati a ridurre le emissioni di CO2. Per il nostro Paese significa ridurle di almeno il 40% da qui al 2030. Uno sforzo economico molto forte. Altri Paesi in via di sviluppo, invece, continueranno ad aumentare le loro emissioni perché c’è il riconoscimento del debito ecologico dei Paesi industrializzati verso quelli non industrializzati o in via di industrializzazione. Ad esempio, la Cina ha avuto dalla Conferenza di Parigi l’autorizzazione ad aumentare le emissioni di CO2 fino al 2030; poi, da quel momento al 2100, dovrà iniziare a ridurle. Questo comporta un cambio di sistema di vita e di sistema economico. È questo che oggi dobbiamo capire, questo è lo snodo importante che dobbiamo mettere alla priorità nelle azioni del governo, altrimenti rischiamo la strada del non ritorno. È una sfida fortissima che non ha solo ombre, ma anche molte luci, ossia tante opportunità di crescita sociale ed economica, di cambiamenti di vita per stare meglio. Questa è la grande sfida: occorre rivedere tutti i sistemi di governance, occorre che il Ministero dell’Ambiente scompaia perché l’ambiente deve diventare la guida di tutti i ministeri, da quello dei trasporti a quello sviluppo economico, della cultura. Tutto deve avere come priorità assoluta la sostenibilità del paese. Le aziende devono mettere al centro della loro azioni la sostenibilità; è la sostenibilità che deve guidare lo sviluppo di tutta l’azienda. Se voi oggi mi chiedete da cosa sarà caratterizzata la quarta rivoluzione industriale, quella che stiamo vivendo in questi anni, certamente vi dico: dalla robotica, dalla domotica, dall’innovazione, dalle politiche ambientali, dall’economia circolare. Le aziende che prima di altre sapranno applicare l’economia della sostenibilità ambientale ai propri processi produttivi, saranno le più competitive nel futuro. Quelle che non lo sapranno fare saranno espulse dal mercato, perché non saranno competitive. La sensibilità sociale verso il problema ambientale è di molto cresciuta e il consumatore vuole sapere come si producono i beni, con quali risultati ambientali sono prodotti. ln secondo luogo, poiché la politica ambientale fa reddito, consumare meno materia prima, riciclare tutti i sottoprodotti, recuperare l’energia oggi sprecata nei processi produttivi, vuol dire produrre meno rifiuti e rifiuti sempre più riciclabili (smaltire i rifiuti, consumare energia e materie prima costa molto), vuol dire innovazione e tecnologia, ricerca di nuovi materiali, di nuovi processi di produzione. Questo è il percorso enorme per le aziende e per la nuova economia. Quando mi chiedono se sono preoccupato della politica degli Americani, rispondo: certo che sono preoccupato da quando sono usciti dall’accordo di Parigi. Però, d’altra parte, so bene che il mondo produttivo americano non potrà fare a meno delle politiche ambientali, e non a caso ho firmato protocolli con le maggiori nazionali americane. Me lo hanno chiesto loro, perché vogliono mandare segnali ai 21
mercati europei che l’accordo di Parigi è in vigore anche per loro e che continuano a portarlo avanti, non vogliono che i consumatori Italiani o Europei pensino che loro continuino con la vecchia politica industriale. Sono sì preoccupato, ma so che una parte industriale forte degli Stati Uniti ci seguirà. Dicevo prima che abbiamo bisogno di cambiamenti anche di tipo sociale: certo, perché noi siamo cresciuti senza una cultura ambientale. Lo dico come Ministro dell’Ambiente; ho 56 anni, i miei genitori, che sono stati ottimi genitori (penso che Albertina abbia conosciuto anche mio padre), non avevano una cultura ambientale, venivano dal dopoguerra. Dopo la sfascio della guerra, la cultura ambientale non c’era, si doveva ricostruire tutto il Paese, portare fuori dalla povertà centinaia di migliaia di persone. Ed è stato fatto in maniera egregia e noi dobbiamo solo essere loro riconoscenti. Certamente lo hanno fatto con procurando ferite ambientali fortissime; non avevano adeguate cognizioni scientifiche per poter sapere quello che stavano facendo, ma hanno ricostruito l’Italia, forse hanno costruito un po’ troppo, ma l’input allora era quello. Oggi noi sappiamo che dobbiamo porre argine ai disastri dell’industrializzazione del ‘900, non ripeterli, e dobbiamo sviluppare una cultura ambientale fortissima da trasmettere ai nostri figli. Cultura ambientale significa piccoli gesti. Se ogni abitante di Roma, dove abbiamo la crisi di siccità più forte, facesse il bagno invece che la doccia o chiudesse il rubinetto quando la mattina si fa la barba o chiudesse la doccia quando si insapona, noi non avremmo il problema del razionamento dell’acqua a Roma. Non è che stiamo chiedendo chissà che cosa; non sono un talebano, non sto chiedendo agli Italiani di non lavarsi, ci mancherebbe altro, sto solo chiedendo un po’ di attenzione nell’uso che si può fare dell’acqua. Se diciamo che l’acqua è un bene prezioso, bisogna che sia trattata come tale e quindi, ogni volta che possiamo, la dobbiamo risparmiare. Lo stesso comportamento vale per l’elettricità, la raccolta differenziata, il rispetto dei nostri parchi e giardini. Bisogna che ognuno tenga alla cosa pubblica come fosse il proprio giardino, con molta educazione e rispetto. Non è così facile, un tale comportamento consapevole richiede uno sforzo grande, richiede portare la cultura ambientale nelle scuole, cosa che stiamo facendo. Siamo di fronte ad un cambiamento epocale che, o siamo in grado di intendere, o saremo soccombenti. Noi siamo in una posizione privilegiata. l’Italia è il paese dei 3400 musei, delle oltre 2000 aree e parchi archeologici, abbiamo il record mondiale dei siti UNESCO, in ciò abbiamo superato la Cina e la Spagna (noi ne abbiamo 53, la Cina 52 e la Spagna 46). Abbiamo un patrimonio naturale e di biodiversità unico al mondo, e qui sta l’ulteriore sfida che abbiamo davanti, sostanzialmente collegata a quanto dicevo prima. La vecchia legge del ’92, la 394, ormai di 25 anni fa, era tutta incentrata sulla tutela dei parchi, istituiva i parchi nazionali e regionali ed era indirizzata direttamente alla tutela del parco, cosa degnissima, sia chiaro, che deve rimanere prioritaria. Abbiamo avviato in questi anni una revisione della 394, ossia ci siamo chiesti se oggi basta tutelare il parco e le nostre aree più belle, oppure possiamo utilizzarle per sviluppare un’economia, per renderle fruibili e per renderle economicamente vantaggiose. Questa è la sfida che abbiamo davanti, secondo me: oggi non basta più la tutela, ma bisogna che quelle aree, che sono il nostro grande patrimonio naturale, diventino anche un grande volano di sviluppo per l’economia e il turismo. Queste due cose sono conciliabili: l’economia ha 22
bisogno dell’ambiente, così anche il turismo e la cultura hanno bisogno dell’ambiente. Quindi, la nostra sfida oggi è rivedere la governance, estremamente rinnovata nella 394, in discussione al Parlamento, che credo possa essere approvata, in via definitiva, entro la fine dell’anno, e anche i vincoli e gli strumenti rinnovati rispetto a questa nuova mission che vogliamo dare ai parchi. Credo che questo sia molto innovativo e possa dare nuovi strumenti, anche per una miglior tutela. In questi anni ho vissuto l’opposizione di comuni e di comunità locali alla costruzione di nuovi parchi, perché il parco è ritenuto troppo vincolante, una zona off-limits dove non va più nessuno. Il fatto è, invece, di avere una normativa che permetta di trasformare il parco in una opportunità economica e turistica, di avere la possibilità di ampliare le aree che oggi sono soggette a tutela speciale, come i parchi nazionali, e quindi, ancora una volta, i concetti di ambiente e di sviluppo economico coincidono ed è possibile portarli avanti insieme. L’ultima annotazione che voglio fare è sull’agricoltura, visto che questa Scuola si focalizza su questo tema: credo di essere il miglior amico del Ministro dell’Agricoltura, poiché non c’è una buona agricoltura senza un buon ambiente e non c’è un buon ambiente senza una buona agricoltura. Questi due temi non devono mai entrare in conflitto. È chiaro che il limite è molto difficile da individuare, ma credo che con la tecnologia e l’innovazione sia sempre più possibile raggiungerlo. Devo dire che in questi anni abbiamo portato avanti una politica comune con il Ministero dell’Agricoltura che ha avuto effetti positivi: il primo è la gestione della siccità in questo anno. Se non fossimo stati in stretto rapporto con l’agricoltura, se non avessimo fatto gli osservatori bacino per bacino, che da un anno e mezzo gestiscono l’acqua goccia per goccia fra agricoltura e usi civili, oggi ci troveremmo in una situazione molto più difficile. Il fatto di aver trovato una convergenza con l’agricoltura, di aver istituito questi osservatori che hanno permesso di gestire, in questo momento di siccità, i rilasci delle varie dighe e la gestione dei fiumi in piena sintonia con il mondo agricolo, ci ha permesso di evitare conflitti sociali e anche razionamenti d’acqua che sarebbero stati invece indispensabili senza questo coordinamento. Fra l’altro vi informo che il 21 e il 22 ottobre a Roma ospiteremo la prima conferenza mondiale dei fiumi. Oggi, noi abbiamo una grande attenzione alla gestione dell’acqua, ma apprezziamo meno l’importanza che hanno i fiumi nella gestione stessa dell’acqua e allora abbiamo chiamato a Roma tutti gli enti e i gestori dei maggiori fiumi. Ci confronteremo sulle pratiche migliori, dopodiché firmeremo una carta che sarà l’impegno di tutti nel mondo per la gestione dell’acqua nei fiumi. Sono molto orgoglioso che sia l’Italia a promuovere questa iniziativa, per la prima volta nel mondo, una iniziativa che avrà poi la sua continuità negli anni successivi. Grazie e buon lavoro.
Trascrizione dell’intervento non rivista dall’autore
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Giammaria Manghi
Presidente Provincia di Reggio Emilia
Buon pomeriggio a tutti, benvenuti a questa IX edizione della Summer School. In questo saluto introduttivo vorrei semplicemente condividere alcuni brevi pensieri. Il primo è di contesto generale: questa si riconferma, perché siamo appunto alla IX edizione, come un’importante occasione di approfondimento, di studio, di conoscenza. Una opportunità di grande respiro, che poteva essere scontata nel tempo che abbiamo alle spalle, forse meno nel tempo odierno. Veniamo da una conferenza sui sistemi educativi, anche ieri sera a FestaReggio si é discusso sul tema del web, di come la rete oggi incida sulla formazione, la conoscenza e l’educazione. È emerso in modo molto chiaro - ed è una considerazione che io condivido, appartenendo anche al mondo della scuola - come oggi il conquistarsi gli orizzonti che lo studio e la ricerca idealmente ci consegnano, sia qualcosa di molto difficoltoso. Proprio perché nella stagione dell’istantaneità, della repentinità - mi viene da dire anche della superficialità - si registra una sorta di opposizione a respiri, profondi, come quelli proposti dalla Summer School, al continuo indagare e ricercare, alla voglia di conoscere e di approfondire. Quindi la Summer School si colloca in questo contesto, per me estremamente positivo, e mi fa piacere che vi sia una partecipazione anche numericamente considerevole, perché pure le quantità hanno la loro importanza. Portare avanti un modello, uno stile, legato alla proposta della conoscenza e della ricerca è oggi appunto fortemente ostacolato, al punto che lo stesso Ministero ci dice che i libri non devono superare un determinato numero di pagine, perché siamo in una stagione in cui le codifiche devono essere quella della brevità e della repentinità. Io, essendo di formazione umanistica, sono più legato a questo modello si direbbe più tradizionale, pur non avendo pregiudiziali sulle opportunità che il web ci consegna; però questo è il contesto generale in cui si inserisce la Summer School e, a mio parere, va rimarcato. Il secondo pensiero: a proposito di istanze di natura culturale e concettuale, qui siamo di fronte a una proposta di paesaggio in un’ottica che si contrappone a quella che vede il territorio come elemento-occasione di sfruttamento intensivo, estensivo e strumentale, financo di aggressione da parte dell’uomo. Allora, vi è un paradigma culturale di fondo, che è quello che pone la categoria del territorio/paesaggio come occasione patrimoniale da valorizzare: è, mi pare, il 25
tema specifico di quest’anno, finalizzato alla promozione del territorio, un tema che sta molto a cuore, in questa fase, a Reggio Emilia, alla nostra Provincia. Ci stiamo interrogando da mesi su che cosa possiamo e dobbiamo fare in termini di promozione territoriale e sicuramente il contributo che verrà dato da questa sessione della Summer School, nell’indagare cosa significano il territorio e il paesaggio come occasione di promozione, sarà molto utile per codificare un pensiero che vogliamo strutturare in modo serio. Dentro questa riflessione mi pare vi sia anche il tema dell’identità: ogni territorio, infatti, ha una propria identità di natura paesaggistica, specifica. Ecco: credo che il nostro territorio abbia delle identità forse non sufficientemente indagate e valorizzate. Quindi, riflettere su come il territorio possa diventare un’occasione di valorizzazione di un’area geografica, credo sia un altro pilastro molto importante da attualizzare; ragionare, cioè, su come il turismo cosiddetto di prossimità, ovvero l’andare a scoprire cosa c’è al di là della nostra porta, quanto di bello c’è vicino a noi, ma che - come spesso accade - conosciamo meno. Tutto ciò si prefigura, quindi, come un’occasione antropologica di scoperta dell’identità e, al contempo, di crescita di fattori di Pil, molto importanti per l’uscita dalla crisi economica. Un altro pensiero va alla Provincia e al suo ruolo. L’ente che rappresento protempore è stato citato sia dalla Presidente Albertina Soliani, anche perché la Provincia è fondatrice dell’Istituto Cervi e proprietaria di queste mura, sia da Gabriella Bonini, che ringrazio e che conosco bene, avendo avuto l’opportunità di condividere con lei una prima esperienza amministrativa, di cui ricordo con piacere la passione e la perizia nel portare avanti i propri incarichi, e mi compiaccio nel vederla ancora molto motivata sulla biblioteca Sereni. Sapete però come il riordino istituzionale abbia profondamente messo in discussione il ruolo delle Province rispetto alla memoria storica e, più in generale, ai temi di respiro culturale. Dal 2014 ci siamo interrogati, io l’ho fatto spesso, su quale debba essere il nostro ruolo rispetto a questa importante eredità. Come ha detto giustamente Albertina, ricordando la scelta della Provincia di essere tra i fondatori, c’è una sorta di testimone ideale che in tutti questi anni è passato da amministrazione ad amministrazione. Al di là della proprietà come dato materiale, da parte della Provincia c’è dunque stata, soprattutto, una volontà di testimonianza basata su principi e su valori universali. Per questo, nonostante l’ente stia ancora attraversando una delicata e complessa fase di riordino, la nostra decisione - presa anche un po’ sfidando le norme - è stata ed è quella di proseguire in continuità con questa testimonianza ideale. Anche in questa stagione vogliamo fare la nostra parte, per quanto ci è possibile, con le risorse che abbiamo a disposizione sul tema culturale. Io credo che qui stia il senso della rappresentanza collettiva: perché questo è un patrimonio universale. Alla fine, se si è di fronte a una scelta, credo che se decidi di privilegiare un’istanza di rappresentanza collettiva che si fonda su una dimensione culturale, garantendo un’occasione di crescita e opportunità per tutti, stai facendo la cosa giusta. Questa è stata la nostra scelta convinta e lo sarà finché la potremo portare avanti. Grazie e buon lavoro a tutti.
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Secondo Scanavino
Presidente Nazionale Confederazione Italiana Agricoltori - CIA
Grazie professoressa Bonini, grazie a voi, grazie all’Istituto per tutto quello che fa per lavorare attorno ad un tema per noi particolarmente importante, quello del paesaggio agrario. La Presidente Soliani prima ha ricordato Emilio Sereni, infatti quest’anno è particolarmente importante per noi, perché il 20 di dicembre del 1977 nasceva la Confederazione Italiana Agricoltori, allora Coltivatori, che aggiungeva all’Alleanza dei Contadini altre sigle, e nello stesso anno, a marzo, moriva Emilio Sereni, quindi è un quarantennale che ci collega ancora una volta in modo stretto alla figura importante di Emilio Sereni. Io credo che per il nono anno consecutivo la Summer School stia facendo una cosa egregia e la modernità con cui segue il concetto di paesaggio è un altro elemento che io considero importantissimo. Noi insistiamo molto su questo tema: il legame tra paesaggio e promozione territoriale e turismo; l’opportunità di conoscenza, per molti cittadini, della parte rurale del nostro paese, è un tema che ci riguarda in quanto agricoltori, quindi in quanto protagonisti delle modificazioni e del governo del paesaggio. Io credo vadano recuperati concetti antropologici e di sociologia rurale che, secondo me, stiamo indagando poco. Siamo spesso legati ad un’idea di attività all’interno delle aree rurali del paese troppo statica. In realtà la società rurale evolve molto più velocemente di quanto noi possiamo considerare e quindi tutti gli strumenti di sostegno economico all’attività agricola verso i piani di sviluppo rurale e la nuova pac che verrà, nonchè i progetti di governo del territorio, devono tener conto di un’evoluzione che ormai è avviata e sta viaggiando a ritmi sempre più sostenuti. Penso all’apporto culturale di tradizioni, di storia da parte dei nuovi cittadini extracomunitari, o comunitari ma non italiani, che popolano le nostre campagne, quanto oggi contribuiscano alla costruzione della nuova società rurale. Questo è un tema che, io credo, vada indagato, sono certo che voi lo farete, perchè non è banale e non è slegato dal concetto di gestione, di governo e di come noi possiamo modellare il nostro paesaggio agrario. L’altro tema è quello dei cambiamenti climatici. 27
La Presidente diceva “È la Summer School più calda della sua storia”: è evidentemente una battuta, ma ci ricorda che oggi in Sicilia si coltivano le banane e che l’olivo è salito molto a nord, nella nostra regione. Quindi se in Piemonte, in Veneto, in Lombardia l’olivo sta aumentando la propria presenza, anche questo ci dice che il paesaggio segue dinamiche a volte imprevedibili e di cui bisogna tener conto per intervenire affinchè tutto questo non sia disordinato. L’ultimo aspetto di cui voglio parlare é la promozione del territorio e delle produzioni, tema strategico, fondamentale per l’Italia, non solo dal punto di vista economico. Penso che la deriva oggi presente in Italia sia un po’ mutuata dal Presidente Americano, che molti di noi hanno allora criticato, dell’American First: oggi l’Italian First è un problema. Io credo che noi dobbiamo pensare molto a tutelare, molto a promuovere e meno a proteggere. La chiusura, quest’idea di sfuggire alla modernità non aderendo a trattati internazionali, oppure pensando che tutto si possa risolvere con la capacità produttiva di materie prime dell’agricoltura italiana, è un errore strategico che gli intellettuali devono prima di tutti rifuggire, perchè altrimenti tracciamo l’idea di un’Italia che va indietro anzichè in avanti. Abbiamo bisogno di frontiere aperte, perchè sappiamo di aver dalla nostra parte la capacità di produrre qualità, sicurezza alimentare, bellezza paesaggistica e anche la capacità di accogliere. Questo è importante se legato alla gestione del territorio e del paesaggio, perchè diventa un valore aggiunto. Non si può aprire per ricevere e chiudere quando si tratta di competere: la competizione è un elemento di forza con delle regole chiare che vanno rispettate, e deve caratterizzare il futuro dell’Italia, dell’agricoltura italiana, dell’agroalimentare e anche del governo, della protezione e promozione del nostro bellissimo territorio. Grazie per questa opportunità, buon lavoro.
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Simona Caselli
Assessore all’Agricoltura, Caccia e Pesca, Regione Emilia Romagna
Grazie a tutti, ad Albertina Soliani, a Gabriella Bonini, all’Istituto Cervi per la continuità che date a quest’esperienza bellissima della Scuola del paesaggio, che seguo anche da prima di ottenere quest’incarico, perché per Reggio Emilia e per questi territori, è un punto veramente importantissimo, capace di mettere in comunicazione tutta l’Italia: qui arrivano studenti da tante parti d’Italia. È bellissimo, tanto quanto assistere alla continua crescita di questa Scuola. Quest’anno è stato scelto un argomento che per la nostra Regione è come una musica, nel senso che la relazione tra paesaggio, patrimonio culturale, agricoltura e turismo è una delle direttrici del modello di sviluppo che abbiamo individuato alla base delle nostre politiche che hanno come faro il tema del lavoro. Trovare, dopo la crisi, un’opportunità di lavoro e di sviluppo, non un lavoro qualsiasi, non uno sviluppo qualsiasi, ma un lavoro buono e corretto ed uno sviluppo sostenibile, è la direttrice che anche voi oggi proponete, é fondamentale ed in grande sintonia con la nostra visione. Ci siamo dovuti occupare immediatamente di questi temi e della loro integrazione, non solo nel definire le strategie, ma anche perché, in occasione dell’Expo, dovevamo decidere come l’Emilia Romagna si sarebbe posta, raccontata e come, a partire dal tema fortemente agricolo “Nutrire il pianeta”, avrebbe proposto se stessa, la visione del suo evolversi negli anni. Questo ci ha portato immediatamente, quasi naturalmente, a lavorare insieme tra agricoltura, turismo e cultura, perché alla fine la questione è la stessa: l’agricoltura è alla base del paesaggio, forgia il paesaggio quando, per esempio, un agricoltore sceglie di coltivare girasoli o un altro tipo di coltura ad effetto paesaggistico diverso o quando decide di dedicare prati stabili alla produzione di latte per il ParmigianoReggiano. Tutti amiamo le distese di vigneti, ci piacciono un sacco; ci piacciono i balloni di paglia in mezzo ai campi, però poi, nei mesi che seguono la trebbiatura, ci troviamo un po’ di deserto agrario. Allora qualcuno dice: “Potremmo tornare a mettere la canapa, che é verde ed alta, in modo che il paesaggio migliori”; c’é quindi molta attenzione per il paesaggio perché è insito nell’attività agricola stessa. Il paesaggio è quindi evidentemente parte dell’agricoltura, come è parte dell’agricoltura tutelare l’integrità ambientale. Errori e sottovalutazioni ce ne sono 29
stati, però a nessun agricoltore interessa distruggere l’ambiente, perché vive di questo e quindi è uno dei temi su cui lavorare tanto, per una sostenibilità a tutto tondo che includa il paesaggio. Lavorando così ci siamo resi conto che, nel momento in cui parliamo del nostro cibo, della nostra gastronomia, che è così famosa, parliamo prima di tutto di agricoltura. Ma se vogliamo offrire maggiori opportunità alle imprese agricole, sviluppare il turismo è uno dei metodi per dare reddito anche agli agricoltori. Molte imprese agricole dalle nostre parti, infatti, fanno attività multifunzionali, cioè accanto all’attività agricola pura, sviluppano attività in relazione al turismo, come agriturismi, fattorie didattiche e altre attività collaterali legate alla natura. Ci sono aree del nostro territorio che è fondamentale valorizzare se vogliamo ottenere coesione sociale ed integrità dell’ambiente: parlo della montagna, della collina, parlo di tutta l’asta del Po che è così importante. Allora cosa abbiamo fatto? Abbiamo detto: “Va bene, noi siamo famosi per il turismo della costa, no? Ma il nostro, però, è un turismo che può avere delle caratteristiche molto più variegate quindi cominciamo a parlare ad esempio di “Motor Valley”, perché nel mondo siamo famosi per questo; c’è gente che non sa trovare l’Emilia-Romagna sulle carte geografiche, ma sa benissimo che la Ferrari si fa qui, sa anche che qui si fa il Parmigiano Reggiano: allora valorizziamo tutti questi simboli a favore del turismo”. Da lì abbiamo lanciato i tre itinerari: la Food Valley, la Motor Valley e la Wellness Valley. Perché la Food Valley pensata anche come strumento turistico? Perché lo abbiamo collegato al turismo esperienziale che tanto piace ai visitatori italiani e stranieri e ci permette di valorizzare i nostri prodotti diversamente. Se diamo la possibilità ad un turista di visitare un caseificio oppure un’azienda agricola per vedere come produce una certo alimento, di vedere un’acetaia, una cantina, è chiaro che se ne va con un’emozione ed un’esperienza diverse ed un racconto nuovo e ricco da portare al luogo, magari lontanissimo, da cui proviene. Questo da un lato consente a noi di creare valore qui, dall’altro permette di portare la nostra reputazione nel mondo e di diventare meta di un turismo non casuale, non distratto. È un approccio con un grande potenziale, che però ha bisogno di cura in tanti elementi e soprattutto necessita di un paesaggio bello e curato. Allora bisogna lavorare con questa visione integrata e proprio per questo la nuova legge regionale sul turismo prevede una cabina di regia dove ha un ruolo anche l’agricoltura. Oltre ad essere un’innovazione, questa cabina di regia si sposta sui territori; sono previste infatti delle destinazioni e ogni destinazione costruisce la propria offerta turistica in base alle vocazioni del territorio. La destinazione Emilia, che riguarda Reggio Emilia, Parma e Piacenza insieme, ha scelto l’agroalimentare e la Food Valley come focus della propria offerta e per valorizzare il patrimonio naturalistico, storico ed artistico in modo integrale. Altra cosa che abbiamo fatto è stata quella di utilizzare opportunità come i MAB UNESCO e con un grande lavoro di squadra coi territori interessati abbiamo ottenuto il riconoscimento di due riserve della biosfera: l’Appennino Tosco-Emiliano ed il Delta del Po. Dietro ci sono delle storie rurali straordinarie: parlando di antropologia del territorio, qualche giorno fa al meeting di Rimini abbiamo presentato la storia dei 30
contadini del Delta del Po, delle risaie, di come è evoluta quella storia e quel paesaggio e di come ora in quella zona si stiano affermando alcune delle esperienze di agricoltura di precisione più avanzate d’Italia. Nello stesso tempo sempre col MAB UNESCO abbiamo realizzato altre cose straordinarie mettendo insieme tutti gli operatori del territorio, da coloro che propongono la ristorazione, agli agricoltori, a chi si occupa di cultura, a chi valorizza il patrimonio ordinario artistico. Quando si ottiene un riconoscimento dall’UNESCO si acquisisce una diversa leggibilità mondiale. Qualcuno potrebbe dire: “Però i territori sono sempre gli stessi...”. Certo, ma abbiamo ottenuto un tale riconoscimento che, se lo si sa usare, può portare a grandi risultati. Abbiamo, ad esempio, deciso di invitare tutti gli altri rappresentanti dei MAB UNESCO del mondo al Castello di Torrechiara; in quel castello si è discusso di promozione territoriale, sviluppo sostenibile e armonioso, di cultura. Abbiamo mobilitato i produttori che si sono occupati di tutto: del catering, di chiamare gruppi musicali; sono venute persone a raccontare di come in tanti luoghi diversi si difende la biodiversità, abbiamo impressionato gente che veniva da tutto il mondo ed anche noi stessi. Anche la montagna ha dimostrato di essere in grado di esprimere una tale progettualità, di avere grande capacità di proposta, perchè nessuno si è più sentito solo, ma si è riconosciuto in una identità più vasta. Questo è uno dei punti chiave che vorrei venisse discusso in questa scuola, poiché fare rete è essenziale per eliminare la percezione della solitudine o le difficoltà esistenti. Per favorire il turismo lento, che gode più di ogni altro del paesaggio, abbiamo realizzato una Mappa dei Cammini Storici che attraversano l’Emilia-Romagna, della quale suppongo parlerà anche la segretaria del MiBACT; questa mappa, che ha identificato i cammini storici e le vie di pellegrinaggio della regione, è stata elaborata lavorando con i territori ed i produttori che operano lungo i cammini ed ovviamente con i colleghi del turismo. All’interno di questi cammini, che sono appunto un pezzo di storia, si sviluppa gran parte delle eccellenze prodotte dalla nostra agricoltura: le DOP, le lGP, i vini più famosi. Quindi mettere insieme chi produce e chi viene per fare questo tipo di turismo esperienziale, che si può fare in bici, a piedi o a cavallo, richiede da un lato infrastrutture specifiche, per cui stiamo investendo anche in Po-vie ed in ciclo-vie, e dall’altro un sistema di accoglienza adeguato. Infatti, come sollecitava anche Albertina Soliani, é importante, alla vista di un viandante che passa, offrirgli da bere o semplicemente invitarlo ad entrare in casa, parlargli, al fine di ritrovare quella dimensione umana che spesso va perduta. Questo rapporto umano é molto più naturale nei Cammini, un tipo di cultura che ci fa ritrovare le dimensioni più vere. Intorno ai cammini abbiamo quindi costruito la “bisaccia del pellegrino”, insieme con Slow Food, per valorizzare i prodotti dello specifico territorio adatti ad essere trasportati dai viandanti ed abbiamo georeferenziato le imprese agricole, in modo tale da permettere a chi visita questi luoghi di conoscerle e farvi tappa. Con gli agricoltori vedremo anche di costruire intorno ai singoli cammini ulteriori elementi attrattivi, come la georefereziazione di tutti gli alberi monumentali, 31
individuati con un lavoro gigantesco fatto a suo tempo dalla Regione, valorizzando così anche quest’altro elemento di biodiversità. Tutto questo deve essere sempre supportato da risorse pubbliche, che, come sappiamo, derivano fondamentalmente dai Piani di Sviluppo Rurale e quindi dalle risorse che sono destinate sia alla montagna che ad altri territori. Proprio per questo bisogna fare un po’ attenzione alla discussione sulla nuova Politica Agricola Comunitaria, perché si parla già di ridurre le risorse disponibili nella prossima programmazione, un po’ in relazione alla Brexit, un po’ in relazione al fatto che sono previste nuove politiche comuni che avranno bisogno di risorse. Noi dovremmo stare molto attenti perché per una Regione come la nostra lo Sviluppo Rurale é essenziale ed ha bisogno di un supporto adeguato che non può essere oggetto di tagli, visto che abbiamo sempre speso in modo virtuoso tutte le risorse assegnateci. Sarà fondamentale inoltre affrontare una volta per tutte la questione sul cambiamento climatico, facendo sul serio. Chiudo il mio intervento su questo tema: ho seguito in questi tre anni un importante lavoro di studio di metodi contrasto al cambiamento climatico, cominciato prima che io arrivassi; l’abbiamo continuato, anche arricchito con delle buone pratiche sperimentate nelle filiere più rilevanti e dell’Emilia Romagna, con un progetto chiamato Climat ChangER, riconosciuto qualche mese fa dal nostro Ministero, che l’ha presentato alla Fao come miglior progetto nazionale. Altri riconoscimenti sono arrivati dall’Unione Europea. Si tratta di buone pratiche che si possono seguire in tutte le filiere dell’Emilia Romagna. Quando ne abbiamo parlato, presentando i risultati concreti con una riduzione di emissioni del 20% e tante buone pratiche pronte per la diffusione, nonostante i riconoscimenti ottenuti, sui giornali arrivava bene o male un trafiletto, e comunque questo problema non è mai posto all’ordine del giorno della discussione pubblica se non se succede qualche evento calamitoso. Spero che questa estate così complicata ci aiuti a dire che, visto il lavoro fatto grazie a chi già era sensibile al tema, dobbiamo applicarci per rispettare un vincolo sempre più cogente. Quest’anno il problema dell’acqua, tutte le emergenze che stiamo vivendo, ci devono insegnare che, ormai, la questione va aggredita in maniera sistematica e senza più ritardi, altrimenti il paesaggio subirà un danno che può diventare irreparabile. Tutto questo va tenuto assieme con l’economicità dell’attività agricola e rappresenta quindi una grande sfida; mi auguro che anche il lavoro che si farà in questa scuola potrà aiutarci ad individuare soluzioni e nuove prospettive.
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Sabina Magrini
Direttore del Segretariato Regionale per l’Emilia Romagna del MiBact
Il Segretariato Regionale per l’Emilia Romagna del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo (MiBACT) è ben lieto di collaborare ancora una volta con l’Istituto Alcide Cervi per questa IX edizione della Summer School Emilio Sereni. Insieme proponiamo a un pubblico quanto mai eterogeneo e numeroso un percorso che intende evidenziare, grazie agli interventi di diversi esperti del settore, il legame che esiste tra la conoscenza, tutela e valorizzazione del paesaggio e del patrimonio culturale da un lato e la creazione e promozione di percorsi adatti al turismo sostenibile dall’altro. L’interesse, la ricchezza di spunti e l’attualità di questo tema si è già palesato nel corso delle attività del Progetto di Alternanza Scuola Lavoro che l’Istituto Cervi e questo Segretariato hanno promosso ed organizzato nell’anno scolastico 2016/2017 assieme all’Istituto di istruzione superiore Bertrand Russel di Guastalla. I ragazzi delle classi coinvolte hanno compreso, in qualche caso forse anche con sorpresa, quanto possa essere forte il legame tra paesaggio, patrimonio culturale e turismo “lento” nell’area del Grande fiume e restituiranno quanto hanno appreso ed elaborato in occasione della prossima Borsa del Turismo fluviale prevista a Guastalla tra circa un mese (28 settembre - 1 ottobre 2017). Si tratta di una vetrina prestigiosa: la più importante Borsa di promozione del Turismo fluviale e del Po che vede il coinvolgimento di una ventina di Tour Operator internazionali, specializzati in turismo fluviale, fortemente interessati a commercializzare, tramite i propri cataloghi e portali turistici, vacanze “slow” declinate su cicloturismo, enogastronomia tipica, scoperta delle bellezze artistiche meno conosciute e contatto con la natura, lungo le terre del Po. L’esperienza fatta con il mondo della Scuola nei mesi scorsi e quella che sarà sviluppata nei giorni a seguire durante la Summer School si manifestano davvero come attività strategiche per il Segretariato Regionale per l’Emilia Romagna. I Segretariati regionali, istituiti nell’ambito del MiBACT a seguito della cosiddetta Riforma Franceschini del 2014, sono investiti del compito di favorire la conoscenza, l’implementazione e l’attuazione a livello periferico delle politiche turistiche definite a livello centrale, mantenere vivo il contatto con i portatori di interesse nel settore a livello locale e sostenere la realizzazione di progetti per il miglioramento della qualità dei servizi turistici nel territorio regionale di competenza. 33
Il connubio instauratosi con la Scuola per l’educazione alla cura e valorizzazione del patrimonio (naturalistico o culturale che sia), nel caso del Segretariato emiliano romagnolo non ha che conferito plusvalore alla linea di azione del Segretariato stesso; il suo impegno nell’ambito della riscoperta della ricchezza delle identità locali e loro promozione però non si esaurisce qui. Si è lavorato molto infatti negli ultimi mesi a contatto con le realtà locali (associazioni ed enti amministrativi) per tradurre in gesti concreti le linee di indirizzo ministeriali. In particolare, il 2016, a seguito della firma del Protocollo d’intesa tra la Presidenza Nazionale del Club Alpino Italiano (CAI) e il MiBACT del 30 ottobre 2015, è stato riconosciuto quale Anno dei Cammini e in questo contesto il Segretariato Regionale Emilia Romagna si è attivato su più fronti. Può essere interessante citare a tale proposito, alcuni fra i progetti e i risultati più significativi che sono stati conseguiti ad oggi. Innanzitutto è stata intensificata la collaborazione con il CAI regionale in vista dell’accordo - firmato nel maggio 2017 - per l’arricchimento del patrimonio informativo relativo ai beni culturali, alla rete escursionistica e agli itinerari storico culturali, finalizzata alla conoscenza e valorizzazione del territorio in un’ottica di turismo sostenibile e di promozione delle aree collinari e montane e per il coinvolgimento in questa operazione di altre realtà regionali. Un frutto significativo della sinergia instauratasi tra mondo MiBACT e CAI emiliano è il censimento/mappatura dei beni storici sull’Appennino parmense realizzato nel corso di quest’anno dal CAI di Parma in collaborazione con la locale Soprintendenza archeologia, belle arti e paesaggio e che sarà presentato a fine novembre prossimo. Ancora, va sicuramente ricordata la collaborazione del Segretariato con l’Azienda per Promozione Turistica (APT) regionale e la Conferenza Episcopale dell’Emilia Romagna (CEER) per la valorizzazione e fruizione degli edifici sacri e dei luoghi di culto lungo i Cammini e le vie di pellegrinaggio individuati dalla Regione Emilia Romagna. Anche in questo caso la collaborazione è stata sancita da una apposita convenzione, firmata lo scorso 31 luglio. Infine, è sempre in quest’ottica che il Segretariato partecipa alle attività dei tavoli tecnici composti da esperti nel settore dei beni archeologici, architettonici e paesaggistici, aventi la funzione di supportare i lavori di tutela, valorizzazione turistica dei beni naturalistici e storico artistici presenti nel Parco Nazionale dell’Appennino Tosco Emiliano e nel Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi e ha avviato contatti con i referenti della Confederazione Italiana Agricoltori (CIA) ed i Gruppi di azione locale per studiare forme condivise di promozione turistica con il mondo agricolo in Val Marecchia. Il lavoro da fare è ancora molto, ma grazie alla condivisione degli sforzi e degli obiettivi con i diversi attori sul territorio e alla costituzione di reti di collaborazione, i risultati non mancheranno certamente.
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IN RICORDO DI EMILIO SERENI QUARANT’ANNI DOPO
In ricordo di Emilio Sereni quarant’anni dopo
Il 2017 ha segnato per l’Istituto Cervi, depositario della Biblioteca, dell’Archivio di documentazione e dell’imponente Schedario di Emilio Sereni, una data significativa. Sereni nasce a Roma nel 1907 e vi muore nel 1977; nel 1927 si laurea in Agronomia a Portici (Napoli). Per onorare queste date, l’Istituto Cervi, di concerto con CIA – Agricoltori Italiani, di cui Sereni fu il primo Presidente nel 1955, ha organizzato nel corso dell’anno una serie di iniziative che hanno posto all’attenzione degli studiosi, del mondo accademico, degli studenti universitari e di tutti gli interessati, la sua figura di uomo, di politico e di studioso. Nell’Italia repubblicana Sereni fu due volte ministro, parlamentare per diversi mandati, membro dell’esecutivo mondiale dei Partigiani della pace, dirigente del P.C.I., direttore di «Critica marxista», sempre con un’attività e una capacità di studio eccezionali e instancabili. Questa IX edizione della Summer School sul Paesaggio agrario a lui dedicata si è aperta con il ricordo appassionato della figlia Anna Sereni e dell’archeologo Daniele Manacorda. Il profilo di Anna fa perno, in particolare, sulla fase di formazione del padre con l’obiettivo di rivedere (e in parte confutare) l’idea di un Sereni come “l’ultimo degli enciclopedisti”, spesso travisante, e poi tradotta con riferimenti a un Sereni “erudito”, definizione che non coglie la reale collocazione di quest’uomo in un ambito sociale e culturale tipici, invece, dei primi decenni del Novecento quando ancora non si era consumata la netta tendenza alla scissione tra saperi. Tutt’altro che estranea, nella costruzione della sua identità, è la provenienza da un’élite ebraica colta e impegnata già da tempo nelle istituzioni e nel mondo imprenditoriale. L’abitudine all’uso delle lingue straniere, ma anche all’analisi minuziosa di un testo, così come l’apertura a una cultura eclettica, umanistica, scientifica e tecnologica al contempo, nonché l’attenzione alle aperture sociali che il mondo del tempo offriva, hanno avuto molto a che vedere già con la sua formazione iniziale, in primo luogo nell’ambiente familiare. A corredo, numerose immagini dell’archivio fotografico familiare che danno conto di tutto questo, come le riproduzioni del “Gioco dei Regni”, di fatto un esercizio per una futura classe dirigente del Paese.
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Daniele Manacorda ebbe, come lui ha ricordato, il privilegio, da ventenne, di incontrare Emilio Sereni, ma nel tempo, nel corso dei suoi studi, quest’uomo assunse per lui il ruolo di Maestro. A Sereni, alla sua modernissima percezione del senso della stratificazione storica che affiora nel dettaglio dei paesaggi e dei regimi agrari, osservati con l’occhio dello storico, dell’etnologo, del linguista, del geografo, dell’archeologo, Manacorda riconosce il ruolo di anticipatore del moderno metodo di indagine archeologica. Fu impressionato dalla sua percezione del senso della stratificazione storica che, come da un palinsesto spesso affiora nel dettaglio dei paesaggi e dei regimi agrari. E fu affascinato dal sapere di Sereni mai fine a se stesso, un sapere come premessa per suscitare un interesse che ne crea del nuovo, la curiosità che alimenta ogni altra possibile ricerca. Le letture che Manacorda fece di Sereni in gioventù lo conquistarono allora e lo affascinano oggi ancor di più, quando meglio misura la grandezza del suo lavoro e l’angustia di certa storiografia paurosa di tentare l’interpretazione, di volare. Sereni invece non temeva le ipotesi, non se ne vergognava, semplicemente non poteva farne a meno1..
1 E. Sereni, Diario (1946-1952), a cura di G.Vecchio, Roma, Carocci, p. 30
La formazione di Emilio Sereni Note dall’archivio di famiglia
Anna Sereni
Università di Enna “Kore”
Alla mia cara “sirocchia” Clara1 Sono grata all’Istituto Alcide Cervi per questa nuova edizione della Summer School dedicata a Emilio Sereni, che vede già ai suoi esordi la partecipazione di studiosi e amici che da tempo contribuiscono ad approfondire e, per fortuna, a innovare temi cari a Emilio Sereni. Ho una conclamata allergia per le commemorazioni, ma grazie al lavoro di molti, dell’Istituto Cervi in primo luogo, questi decennali sono occasione di importanti riflessioni. Molto è stato scritto, ma provo a dare un mio contributo, limitandomi ad alcuni aspetti e documenti della formazione di Emilio Sereni, per i familiari e gli amici più stretti semplicemente “Mimmo”. Prendo spunto da un articolo uscito a vent’anni dalla scomparsa, dal titolo Emilio Sereni: l’ultimo degli enciclopedisti. Fonti per la storia dei protagonisti dell’Italia del Novecento Nonostante il riferimento al Novecento, di questo fortunato titolo di Francesco Albanese2, è stato spesso recepito soprattutto il riferimento a l’ultimo degli enciclopedisti, che ha alimentato l’idea di un personaggio dai mille interessi e dalla cultura appunto enciclopedica, ma di conseguenza in qualche modo ha anche amplificato l’immagine di “fenomeno”, forse anche al di là delle intenzioni dell’autore dell’articolo. Così anche l’attributo di “erudito”, che ricorre in varie testimonianze più che qualificate, può evocare una figura di studioso di vecchio stampo, quasi “antico”. Queste definizioni propongono anche una distanza culturale, rendendo Sereni in qualche misura, dunque, alieno rispetto al suo e al nostro tempo. Per alcuni versi non 1 Clara è scomparsa il 25 luglio 2018, proprio mentre sto rivedendo questo testo per la consegna. Il termine “sirocchia”, è la forma più affettuosa che usiamo in famiglia quando ci rivolgiamo a una sorella. Usata da Dante e Boccaccio, questo appellativo ci viene da nostro padre. 2 F. Albanese, Emilio Sereni: l’ultimo degli enciclopedisti. Fonti per la storia dei protagonisti dell’Italia del Novecento. Il fondo“Emilio Sereni”, in «Annali dell’Istituto Alcide Cervi», 19, 1997, pp. 197- 209. Francesco Albanese, purtroppo prematuramente scomparso, fu uno dei curatori della Biblioteca, quando essa aveva sede a Roma. 39
posso negare che in questo vi sia un fondo di verità, quanto meno rispetto ad alcuni suoi connotati, evidenti al punto da apparire quasi “esagerati”. Ma la questione che può essere ora di maggiore interesse sta nel chiedersi come conciliare questi tratti con il Sereni che (forse proprio grazie ad essi?) è stato allo stesso tempo un innovatore. Fino a che punto le “anomalie” sereniane sono tali? Forse siamo noi che non riusciamo più a cogliere le origini e i caratteri di una cultura eclettica dell’epoca e del clima culturale in cui si è formato, ormai lontano da noi. Provo, con alcuni flash e immagini, a individuare alcuni aspetti della formazione di Sereni, che –mi auguro- possano aiutare a ricollocarlo nel suo tempo. Un tempo in cui, ad esempio, non si era ancora consumata la netta tendenza alla scissione tra saperi, incrementata anche di recente da riforme scolastiche e universitarie non sempre felici, tanto per usare un eufemismo. A questa idea di un Sereni un po’ mitologico hanno contribuito le testimonianze di amici, su vari elementi, tra cui spiccano alcune sue caratteristiche peculiari. Tra queste certamente la sua abilità nella lettura rapida, molto al di sopra della norma e di cui abbiamo varie testimonianze e aneddoti. Questa capacità è stata sicuramente di supporto a un altro suo tratto distintivo, la grande capacità lavorativa, sostenuta anche dalle poche ore di riposo notturno di cui aveva bisogno, potendo così dedicare il resto del tempo alle letture e all’elaborazione scientifica, quando non era pressato dagli impegni pubblici e famigliari. E qui veniamo a un’altra componente importante nella costruzione di un Sereni fuori dal comune: il saper coniugare un’intensa attività politica con studi a carattere scientifico, caratteristica della quale si stupisce Eric Hobsbawm in una lettera del 1955 a Mimmo: «Ta capacité de mener une carrière politique bien remplie et en même temps de produire du travail erudit massif ne cesse pas de m’émerveiller»3. Fuori dalla norma, ohimé ora sicuramente più di allora, ma per l’epoca certamente non un caso isolato. Un suo coetaneo era Francesco De Martino, con importanti incarichi nelle istituzioni e ben più longevo politicamente, che ha condotto importanti studi giuridici ed economici sul mondo romano4. E così anche l’amico fraterno Edoardo Volterra, che ha affiancato l’attività accademica a ruoli di rilievo nelle istituzioni5. Una componente del mito è sicuramente quella del Sereni poliglotta, alimentata dallo stesso Mimmo, che non mancava di civettare al riguardo, divertito per lo stupore degli ascoltatori, ma che effettivamente trova solide basi reali. Anche se sono due aspetti collegati, a mio avviso occorre però distinguere tra due momenti diversi: da un lato l’apprendimento delle lingue straniere, che avvenne fin dall’infanzia e poi in più fasi (non ultima quella della lunga permanenza in carcere) e fu sollecitato sicuramente in primo luogo dalla sua curiosità e dal suo desiderio di comunicare con il mondo intero, ma anche da più ragioni e occasioni, politiche e culturali. 3 E. Hobsbawm, lettera a Sereni del 18 novembre 1955, in E. Bernardi (a cura di), Emilio Sereni. Lettere (1945-1956), Rubbettino, Soveria Mannelli 2011, p. 282. 4 Tre uomini da ricordare, documentario dedicato alle figure di Giorgio Amendola, Francesco De Martino, Emilio Sereni. Ideazione di A. Alinovi, regia di Paolo Pisanelli. Produzione Big Sur e Fondazione “Francesco De Martino”, 2007. 5 Si veda ora Edoardo Volterra. La vita come dovere, lo studio come passione, documentario presentato all’Università di Roma La Sapienza il 13 giugno 2018. Scritto e diretto da Andreina Di Brino e Marco Visalberghi, Produzione a cura di DocLab. 40
Altro discorso è come si sia arrivati alla formazione di una rara dotazione linguistica nella sua biblioteca, che riguarda sì lo studio delle lingue contemporanee (tra cui l’ebraico e l’arabo, così come il giapponese e il cinese (fig. 1), ma che molto è collegata ai suoi studi scientifici e dunque presenta un ricchissimo repertorio legato alle lingue antiche (fig. 2). L’abitudine all’uso delle lingue straniere, ma anche all’analisi minuziosa di un testo, così come l’apertura a una cultura eclettica, umanistica, scientifica e tecnologica al contempo, nonché l’attenzione alle aperture sociali che il mondo del tempo offriva, ritengo abbiano molto a che vedere già con la sua formazione iniziale, in primo luogo nell’ambiente familiare.
Fig. 1 Istituto Alcide Cervi, Biblioteca – Archivio E. Sereni. Dizionari di lingue moderne
Fig. 2 Istituto Alcide Cervi, Biblioteca – Archivio E. Sereni. Dizionari di lingue anctiche 41
Mimmo appartiene a un’ampia famiglia ebraica che seppe approfittare delle libertà acquisite da pochi decenni, dopo l’Unità d’Italia, entrando così a far parte di un’élite borghese che ebbe un ruolo importante in diversi ambiti della società italiana tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento. Nelle famiglie ebraiche di un tempo sono frequenti stretti intrecci che si aggrovigliano attraverso più individui e generazioni: qui mi limito ai rapporti più stretti nella famiglia di Mimmo, dove ricorrono i nomi dei Sereni, dei Pontecorvo, Colorni, Ascarelli6. Il padre Samuele, mio nonno Lello, è un medico studioso di malattie infettive e un innovatore nel campo dell’organizzazione sanitaria pubblica (fig. 3), in particolare nella battaglia contro la malaria nell’Agro Romano, che divenne medico della Real Casa. Per fortuna era già in pensione al momento delle leggi razziali del 1938, ma trovo paradossale e fortemente simbolico della follia di un’epoca che colui al quale fino a un attimo primo si era addirittura attribuito il ruolo di custode della salute della famiglia reale fosse tra coloro che divennero corpi estranei, solo perché ebrei. Si può solo immaginare il crollo di qualunque illusione residua rispetto al mondo che dopo il 1870 avevano contribuito a costruire. Figura importante è anche il nonno materno Pellegrino Pontecorvo. Quando a Mimmo veniva chiesto delle sue origini, –e tanto più se l’interlocutore era in attesa di chissà quale nobile ascendenza - lui lanciava subito una battuta, affermando orgogliosamente che i suoi antenati erano dei “peromanti”, termine ai più sconosciuto e reso forse ancor più misterioso per l’assonanza con “negromanti”, elemento su cui lui probabilmente giocava. Mimmo si godeva poi lo sconcerto dell’ascoltatore quando chiariva che i peromanti erano «quelli che andavano per Roma a vendere gli stracci». Ma questo era però un vezzo di Mimmo, pur con una base di realtà. La famiglia Pontecorvo, infatti, partendo da una piccola bottega di sartoria nel ghetto di Roma, già a metà dell’Ottocento possedeva un’importante attività di tessuti all’ingrosso. Ma con il nonno Pellegrino, negli anni Ottanta, venne creata a Pisa una grande fabbrica di tessuti, uno dei primi e più avanzati esempi di meccanizzazione nel settore tessile (fig. 4)7. Così come per la professione medica del padre, anche il settore dei tessuti, la manifattura e la vendita, era una tipica attività degli ebrei in Italia fin dal Medioevo, ma queste vengono ora portate ai massimi livelli, grazie anche alle libertà acquisite. Di nuovo sul Sereni poliglotta e sull’apprendimento delle lingue. Il multilinguismo è più in generale un tratto comune nelle comunità ebraiche, abituate storicamente a ripetute diaspore, più o meno forzate. Tra tante, cito l’esperienza personale di Siegmund Ginzberg, giornalista e scrittore e in gioventù collaboratore di Sereni a Critica Marxista, narrata nella sua biografia familiare, emblematica per la sedimentazione linguistica, frutto di migrazioni antiche e recenti: Succedono cose strane in fatto di lingue di famiglia. Ad esempio mia nonna materna, pur avendo trascorso quasi tutta la vita in Turchia, non parlava per 6 Si vedano, ad esempio, M. Mafai, Il lungo freddo. Storia di Bruno Pontecorvo, Rizzoli, Milano 2012; S. Turchetti, Il caso Pontecorvo: fisica nucleare, politica e servizi di sicurezza nella guerra fredda, Sironi, Milano 2007, in particolare pp. 22-23, per i riferimenti alla famiglia Sereni e ai cugini Pontecorvo. 7 C. Torti (a cura di), L’industria della memoria. Archeologie industriali in provincia di Pisa, Tagete Edizioni, Pontedera 2004. 42
nulla il turco e nemmeno l’ebraico; parlava solo ladino, e lo scriveva però in ebraico. Quanto al francese, era la lingua franca delle comunità cosmopolite di Istanbul. Ma quando i miei volevano parlare di cose “da adulti”, di cui io bambino non dovevo sapere, passavano a parlare in armeno o in greco8.
Non altrettanto complessa appare la formazione linguistica di Mimmo e dei suoi fratelli, che più derivata dall’appartenere a una famiglia ebraica romana benestante, ben inserita nella società del tempo. All’epoca le lingue della cultura d’élite europea erano il francese e il tedesco, lingua che i fratelli Sereni praticano anche a casa con la tata. Ma non si può sottovalutare lo studio dell’ebraico fin da bambini, funzionale 8 S. Ginzberg, Spie e zie, Bompiani, Milano 2015, pp. 15-16.
Fig. 3 Samuele Sereni (a sinistra, con camice) al lavoro in ospedale (Archivio Famiglia Sereni)
Fig. 4 La fabbrica tessile Pontecorvo a Pisa (in C. Torti, a cura di, 2004) 43
all’educazione religiosa e che comportava anche l’analisi minuziosa delle Sacre Scritture, importante, a mio avviso, per comprendere alcune attenzioni e puntigliosità filologiche negli studi successivi di Mimmo. Non ultima, è la frequentazione con il dialetto ebraico-romanesco. Mimmo talvolta usava ancora un’antica espressione, anche come esempio del conflitto tra “ultimi”: “negro di canapetta”. Con questo epiteto si indicava una persona un po’ sciocca o di scarso spessore. Ma papà ne usava in casa anche una versione attenuata, attribuita a sé stesso, per addolcire con noi familiari il suo precario stato di salute: “oggi mi sento un po’ negrolino”. I fratelli Sereni studiano al liceo classico (fig. 5), e dunque ricevono una formazione di forte impronta umanistica, che certo non sarà di ostacolo nella scelta degli studi successivi, molto articolata, ma anzi ne costituirà l’ossatura. Il fratello maggiore Enrico, quando muore prematuramente nel 1931, è già noto per i suoi studi di fisiologia e zoologia, ma questo non gli aveva impedito di occuparsi di politica, contribuendo alla formazione del movimento Giustizia e Libertà, Enzo si laurea in filosofia, Mimmo, di due anni più giovane, si iscrive alla facoltà di Agraria a Portici. Al liceo studiano i testi greci e latini, in un modo che oggi non ci appartiene più. Il tanto vituperato insegnamento mnemonico aiutò però Mimmo nei cinque anni della sua prima carcerazione: quando la consegna di libri in prigione avveniva col contagocce per le forti restrizioni, lui recitava a memoria le fonti classiche, suscitando pietà nei secondini, che per questo lo ritenevano un po’ fuori di testa9. Al di là dell’aneddotica, la conoscenza approfondita di queste fonti, così come quella delle fonti medievali e moderne, sarà una componente fondamentale per i suoi studi successivi, senza la quale non è possibile comprendere a fondo la complessità della Storia del paesaggio agrario in Italia, nonostante la sua veste editoriale a prima vista 9 M. Sereni, I giorni della nostra vita2, a cura di G. Favati, La Nuova Italia, Firenze 1976, p. 48.
Fig. 5 191?. Foto di classe. Emilio Sereni è il terzo da destra nell’ultima fila 44
Fig. 6 1933. Sulla destra, scorcio della casa Nicolini-Sereni a via Cavour, angolo con via dell’Impero, oggi via dei Fori Imperiali (da https://www.romasparita.eu/foto-romasparita/60918/via-dei-fori-imperiali-angolo-via-cavour) Fig. 7 1934. La Torre dei Conti e la casa Nicolini-Sereni a via Cavour, poco prima della demolizione (Foto Filippo Reale, da https://www.romasparita.eu/foto-romasparita/53805/torre-dei-conti-e-palazzo-nicolini-sereni)
Fig. 8 Il “Gioco dei Regni”, originale. Statuto del 1917: «I. Il governo è repubblicano. …» (Archivio Famiglia Sereni) 45
divulgativa. Non è questa la sede per una rassegna bibliografica, ma è d’obbligo citare due recentissimi contributi di Carlo Alberto Gemignani e Margherita Losacco10, che soddisfano pienamente mie antiche curiosità e mostrano come una ricerca scientifica attenta e appassionata possa ancora oggi trovare spunti importanti nell’ingente materiale dell’Archivio e della Biblioteca di Emilio Sereni custodito dall’Istituto Cervi. Il suo rapporto con il mondo classico e medievale è certamente alimentato dalla frequentazione familiare di musei e siti archeologici, ma anche dalla immediata prossimità, vissuta fin dalla nascita, con l’area archeologica dei Fori, di cui probabilmente subì la fascinazione. La casa di famiglia a Roma era infatti in un grande edificio umbertino a ridosso della medievale Torre dei Conti, alla fine di via Cavour, che nel 1934 verrà abbattuto per le ultime sistemazioni mussoliniane della via dell’Impero, oggi via dei Fori Imperiali. All’epoca Mimmo era già in carcere, per scontare la condanna comminata dal Tribunale Speciale, e spesso raccontava con dolore che tra i pochi giornali ricevuti vi fu proprio quello che recava la notizia dell’abbattimento della casa in cui era nato (figg. 6 - 7)11. La casa di via Cavour è il punto di riferimento per i fratelli - inizialmente Enrico, Lea ed Enzo- e per alcuni cugini, che condividono la partecipazione al “Gioco dei Regni”, richiamato nel titolo del noto romanzo familiare scritto da mia sorella Clara12. Colgo qui l’occasione per mostrare alcuni materiali inediti dell’originale, di cui si ha notizia tra il 1911 e il 1918 (fig. 8). Questo colpisce per le modalità del gioco e le dinamiche interne a un gruppo familiare: è al contempo un esercizio di democrazia, un ragionamento sulle forme di governo e la traduzione pratica di queste, con una propria organizzazione statuale, con tanto di dicasteri, creazione di una moneta, ricavata dai biglietti del tram, del giardino zoologico e dei musei. L’economia era fondata sul commercio delle piante di Villa Borghese. E poi inventano anche un dialetto, che in parte risuona dell’ebraico romanesco (fig. 9). A 13 anni, nel 1918, Enzo ha assunto il comando del gioco e scrive una Storia dei Regni, indicandone minuziosamente le fonti, con una precisione da storico consumato: la sua storia mira fin dal principio a ragionare sul superamento della forma monarchica (fig. 10). La parola regni avanti a tutto non va letta nel senso comune italiano di stato retto a regime monarchico ma con quello di stato nazione. La ragione di questo fatto è semplicemente una. I primi regni furono a forma e sistema monarchico e successivamente non si è voluto (o meglio potuto) scambiare il nome da regno in repubblica o in altra forma di governo13. 10 C. A. Gemignani (a cura di), Emilio Sereni. L’origine dei paesaggi della Grande Liguria. Due inediti dei primi anni Cinquanta, Istituto Alcide Cervi, Gattatico 2017; M. Losacco, «Dove sono uomini, quivi è un baluardo sicuro». Le letture classiche di Emilio Sereni alla vigilia della Liberazione, in R. Otranto, P.M. Pinto (a cura di), Storie di testi e tradizione classica per Luciano Canfora, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2018, pp. 93-113. 11 P. Porretta, L’invenzione di una Torre medievale. Antonio Muñoz e i lavori di isolamento e restauro della Torre dei Conti negli anni Trenta, in «Ricerche di Storia dell’arte», 108 (2012), Serie “Conservazione e restauro”, pp. 61-83. 12 C. Sereni, Il gioco dei Regni, Giunti, Firenze 1993, ma si veda ora la riedizione aggiornata e ampliata, Giunti, Firenze 2017. 13 Famiglia Sereni, archivio privato. Le sottolineature sono di Enzo. 46
Nel tracciare la Storia dei regni non esita a descrivere anche i conflitti interni al gruppo, che verranno solo in parte risolti da formali atti di riconciliazione. Il racconto pone in evidenza una certa animosità tra Enzo e il fratello maggiore Enrico, accusato di essere un traditore e un despota che ha tenuto sotto controllo i sudditi, finché erano piccoli, rivendicando la loro positiva ribellione. Sapendo dell’affetto profondo che legava tutti i fratelli, appare evidente che i toni usati da Enzo appartengono alla fase della crescita, a un momento di distacco necessario per l’affermazione della propria identità. Verrebbe poi da sorridere per quei giochi infantili -dove però c’è già l’idea di costruzione e cambiamento delle istituzioni- se non fosse che alcuni dei protagonisti di questo “gioco” non molti anni dopo compiranno scelte personali radicali e durissime.
Fig. 9 Il “Gioco dei Regni”, originale. Il “dialetto Reccolo” inventato (Archivio Famiglia Sereni)
Fig. 10 Il “Gioco dei Regni”, originale. Roma, luglio 1918: La Storia dei regni di Enzo Sereni (Archivio Famiglia Sereni) 47
Al 1916 risale una foto scattata durante le vacanze estive a Forte dei Marmi (fig. 11), in un momento di serenità e di ricongiungimento di alcuni rami di una famiglia della buona borghesia, che all’epoca alloggiava presso il “villino Nunes Vais”, facendo così intuire rapporti della famiglia con l’élite dell’epoca Mario Nunes Vais non è un proprietario qualunque, di una qualunque casa al mare. Restò per tutta la vita un agente di cambio, ma in realtà è ben più noto per la sua attività di fotografo, “dilettante” ma autore dei ritratti di molti personaggi centrali del mondo della politica e della cultura dell’epoca, spesso ospiti del suo salotto14. L’immagine vacanziera ritrae un gruppo di adolescenti, i fratelli Sereni con alcuni dei cugini, i Pontecorvo - Colorni. Qui nulla traspare del dramma già in atto della I Guerra Mondiale, nulla fa presagire il ruolo e i drammi di cui alcuni di loro saranno protagonisti. Ma qualcosa sta già maturando. Di nuovo la casa di via Cavour, con la foto di famiglia sul terrazzo, che ogni anno scandisce la continuità, ma anche i cambiamenti (fig. 12). Qui siamo nel 1918 e sia nonno Lello che Enrico appaiono in divisa. Dunque non è per poca cosa che Enrico ha “tradito” il Gioco con i piccoli del gruppo famigliare: è semplicemente diventato adulto e già a 17 anni, poco dopo lo scatto a Forte dei Marmi, è partito volontario per la guerra15. L’impegno patriottico di Enrico diverrà ragionamento politico, influenzando i fratelli e cugini minori, poi attivi antifascisti. Enrico sarà vicino alle posizioni di Carlo Rosselli, così come il cugino Eugenio Colorni, tra i promotori del Manifesto di Ventotene e del Movimento Federalista Europeo. Sarà poi ucciso dai fascisti, nel 194416. Enzo è presto impegnato nelle discussioni sul sionismo di impronta socialista, che lo porteranno in Palestina, con l’obiettivo di costruire un mondo nuovo nella terra degli antenati. E appresso a lui Mimmo, di due anni più giovane, che inizialmente con lo stesso obiettivo si iscriverà alla prestigiosa Scuola Agraria di Portici, specializzata nell’agricoltura in ambienti aridi, in particolare delle colonie italiane in Africa. E qui di nuovo le lingue: sicuramente lo studio del russo e delle lingue slave sarà in seguito molto legato all’approfondimento di testi della rivoluzione sovietica, ma è alla Scuola Agraria che ha occasione di frequentare, oltre a Manlio Rossi Doria, colleghi di corso di varie nazioni, molti dei quali dall’Europa orientale (fig. 13)17. 14 L’indicazione mi viene dalla ricostruzione dell’archivio fotografico familiare, in particolare dalla busta contenente foto di quel periodo, indirizzata a nonno Lello presso il villino Nunes Vais a Forte dei Marmi. Per la figura di Mario Nunes Vais, si veda F. Ionni, Nunes Vais, Mario, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 78 (2013), versione online http://www.treccani. it/enciclopedia/mario-nunes-vais_(Dizionario-Biografico). Proprio scrivendo queste note ho scoperto che a lui si deve un noto ritratto del compositore Pietro Mascagni, risalente allo stesso 1916 o subito dopo, di cui in famiglia si conserva copia da allora. 15 G. Colosi, Enrico Sereni, in «Bollettino di zoologia», 2,1, (1931), pp. 83-84; cenni biografici più ampi in A. De Leo, Enrico Sereni: Research on the Nervous System of Cephalopods, in «Journal of the History of the Neurosciences», 17 (2008), pp. 56-71. 16 E. Garin, Colorni, Eugenio, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 27 (1982), ), disponibile online: http://www.treccani.it/enciclopedia/eugenio-colorni_(Dizionario-Biografico). 17 Non ultimo, poi, il fatto che all’epoca si era già fidanzato con la sua prima compagna, Xenia Silberberg , figlia di una coppia che aveva partecipato alla rivoluzione russa del 1905, in cui Xenia aveva perso il padre, giustiziato dallo zar (Y. Viterbo, Xenia Pamphilov Silberberg. Storia di un’ebrea non ebrea, Le Château, Aosta 2003). 48
Fig. 11 1916. Vacanza a Forte dei Marmi. In basso a sinistra: Eugenio Colorni e Mimmo; subito dietro i fratelli Enrico ed Enzo; a destra, in piedi, la sorella Lea (Archivio Famiglia Sereni)
Fig. 12 1918. La foto annuale della famiglia sul terrazzo della casa di via Cavour. Enrico e il padre sono in divisa militare (Archivio Famiglia Sereni) 49
La Scuola di Agraria è fondamentale nel percorso successivo di Mimmo, perché la formazione qui ricevuta coniuga la preparazione nell’ambito dell’economia agraria con quella più propriamente tecnico-agronomica, un aspetto forse talvolta un po’ sottovalutato dalla critica nella comprensione della genesi e originalità di uno dei suoi contributi più noti, la Storia del paesaggio agrario. Ma non solo. Dopo la laurea, conseguita con una tesi sulla colonizzazione agricola ebraica in Palestina18, con l’amico Manlio Rossi Doria collabora con l’Osservatorio Economico e con il Prof. Brizi a un’indagine sul campo sulle condizioni dei contadini in Campania. Sono inedite le schede allora redatte, ma delle voci che queste contenevano diede un elenco dettagliato nel Convegno di Portici del 2007 il Prof. Santini: esse riguardavano gli aspetti più disparati, comprese annotazioni sulle condizioni abitative e sull’alimentazione19. L’influenza di quel percorso trapela da molti suoi contributi successivi20 e fu un’occasione di conoscenza diretta delle condizioni sociali del Mezzogiorno21. Certamente non solo il consolidamento del regime fascista nel panorama politico italiano, ma anche l’attività di ricerca sulle condizioni del mondo contadino meridionale dovettero influire sulle nuove priorità di Mimmo. L’epistolario con il fratello Enzo, maggiore di due anni e già trasferitosi in Palestina con la moglie Ada Ascarelli, propone un dettagliato resoconto dei progetti inizialmente comuni. Rileggendo le lettere e pensando alle loro scelte radicali, con lo sguardo di oggi si fa fatica a realizzare che i due fratelli all’epoca hanno appena superato i vent’anni, ma sono già divenuti precocemente dei combattenti, così come era stato per il fratello maggiore Enrico. Lo scambio epistolare per gli anni decisivi 1927-28 mostra un dialogo serrato a colpi di citazioni filosofiche e di testi teorici, misti all’analisi di questioni pratiche, ma ugualmente importanti –con quali risorse economiche e quali colture introdurre nell’attività agricola in Palestina- e sociali -con chi creare un’azienda agricola- introducendo in 18 E. Sereni, La colonizzazione agricola ebraica in Palestina, tesi di laurea discussa nell’anno accademico 1926-1927 presso il R. Istituto Superiore Agrario – Portici, Gabinetto di Economia Rurale, edita per la prima volta in A. Alinovi, A. Santini, E. Buondonno, F. Soverina, L. Volpe (a cura di), Emilio Sereni. Ritrovare la memoria, Doppiavoce, Napoli 2010, pp. 322-522. 19 A. Santini, Emilio Sereni e l’Istituto Superiore Agrario di Portici, in A. Alinovi, A. Santini, E. Buondonno, F. Soverina, L. Volpe (a cura di), Emilio Sereni. Ritrovare la memoria, Doppiavoce, Napoli 2010, pp. 5-10. Nel testo pubblicato è stata purtroppo omessa proprio l’interessante elencazione delle voci delle schede, che mi auguro siano presto oggetto di uno studio specifico. 20 Il pensiero va, ad esempio, a un noto saggio di Mimmo di molti anni dopo: E. Sereni, Note di storia dell’alimentazione nel Mezzogiorno. I napoletani da «mangiafoglie» a «mangiamaccheroni», edito per la prima volta in tre puntate su «Cronache meridionali», a. 5 (1958), n. 4, pp. 272-295; n. 5, pp. 351-377; n. 6, pp. 398-422. La riedizione più recente, con lo stesso titolo, è stata pubblicata dalla Libreria Dante & Descartes, Napoli 2015, con una Prefazione di G. Nappi (pp. 7-8) e una Introduzione di F. Soverina (pp. 9-14). 21 Ma guai a parlare di “sociologia”! Ricordo ancora la reazione di mio padre quando sua nipote Maryna Natoli, figlia di Lea, nei primi anni Settanta gli comunicò l’intenzione di iscriversi alla facoltà di Sociologia: apriti cielo! La sua opinione in merito fu espressa in termini categorici: “La sociologia non esiste”. A posteriori, penso che la sua brusca reazione fosse dovuta non soltanto al vedere uno sconfinamento e scomposizione rispetto alla rigida griglia di riferimento del sistema di pensiero marxista, ma anche –forse qui non a torto- alla tendenza a frammentare l’approccio alla ricostruzione delle società in più discipline, con il timore di una deriva sempre più lontana da una ricostruzione storica globale. 50
questo caso una questione ancora oggi di importanza centrale, ovvero il rapporto tra componente ebraica e arabo-musulmana. Non mancano le punzecchiature reciproche, ad esempio sulla lettura in lingua originale di alcuni testi ed è spesso molto duro da parte di entrambi il giudizio sugli esponenti del sionismo internazionale e italiano e sulle posizioni di alcuni familiari rispetto alle loro scelte22. Qui sembra a tratti di sentir risuonare certi toni e dinamiche familiari del “Gioco dei Regni”, in particolare di Enzo nei confronti del fratello maggiore Enrico, cui si è già accennato. Un paio di osservazioni. Non è certo mia intenzione sminuire il valore delle discussioni teoriche tra Enzo e Mimmo in quella cruciale fase storica, mi chiedo semplicemente se e in quale misura abbiano potuto svolgere un ruolo anche dinamiche famigliari, con la necessità di Mimmo di distinguersi dal fratello maggiore, per un normale e necessario processo di individuazione e crescita personale23. Mi spingo oltre, con un’osservazione un po’ spericolata. Quanto del rigore -vedi anche rigidità dogmatica- che la critica storiografica individua, ad esempio, come “stalinismo” del successivo Mimmo politico comunista e ideologo marxista è in realtà già presente in nuce in questa fase della sua formazione e lo accomuna al fratello Enzo, che mai sarà comunista? David Bidussa ha già da tempo invitato ad analizzare 22 D. Bidussa e M.G. Meriggi (a cura di), Enzo Sereni - Emilio Sereni, Politica e utopia. Lettere 1926-1943, La Nuova Italia, Firenze 2000, d’ora in poi abbreviato con Lettere. Per gli aspetti qui indicati, si veda in particolare la corrispondenza degli anni 1926-1928. 23 Nel rivedere queste mie note in vista della pubblicazione, mi sono confrontata con mia sorella Clara, poco prima della sua scomparsa, concordando entrambe su questo tratto che accomunava Enzo ed Emilio.
Fig. 13 1925, luglio. Un gruppo di compagni di studi di Portici. A sinistra, con il n. 3, Manlio Rossi Doria 51
la struttura fantasmatica (…) che si cela dietro queste lettere nella convinzione che esse, al di là dell’esposizione di un confronto banale tra due vissuti ideologicamente orientati (e poi sono proprio due? o è uno solo articolato in figure non coincidenti?), consentano la radiografia culturale di una generazione cresciuta in un contesto specifico. Più precisamente: queste lettere non sono la testimonianza generica di un segmento del mondo ebraico italiano inserito socialmente e culturalmente nell’Italia umbertina e poi in uscita rispetto alle vie battute dall’Italia fascista. Esse descrivono (…) qualcosa di assolutamente originale (…) un’esperienza che matura dentro una generazione, in un luogo specifico che è Roma, in un contesto politico sociale dato che non è solo quello nazionale, ma è anche quello ebraico locale24. Mimmo nel frattempo ha preso contatti con l’organizzazione comunista e nel 1928 abbandona l’idea di trasferirsi in Palestina. In questa scelta riemerge ancora una volta un “tradimento”, secondo le parole dello stesso Mimmo, che inciderà dolorosamente nei rapporti con il fratello Enzo, come traspare dai loro scambi epistolari25. Il loro dialogo continua, ma si fa più complesso e subirà poi necessariamente un brusco rallentamento, in primo luogo per l’arresto di Mimmo nel 1930, seguito da una lunga detenzione. Una caratteristica di Mimmo era il tenersi impegnato anche nei momenti più duri della sua vita. In carcere tiene lezione agli altri prigionieri e convoglia le sue energie nello studiare alacremente qualunque cosa, compreso il giapponese26. Solo poco dopo l’uscita dal carcere confesserà ai suoi familiari che la sua voracità nello studio lo aveva a un certo punto condotto a un grave stato di sfinimento, di cui si era molto spaventato27. Se in questo caso l’essere a volte sopra o fuori le righe, l’esagerazione è ammessa apertamente, in altri momenti della sua vita questa tendenza trapela, forse, anche dal bisogno primario di contrapporre ad essa la ricerca di un “contenitore”, ad esempio il rigorismo ideologico, ma non solo. Significativo in tal senso è un suo commento sull’esperienza del servizio militare (fig. 14): 24 D. Bidussa, La nostalgia del futuro, in D. Bidussa, M.G. Meriggi (a cura di), pp. VIILXXI. Si vedano in particolare le pp. XXIII-XXIV e la nota 27, dove Bidussa richiama anche una lettera di Enzo Sereni del 31 dicembre 1927 al cugino Eugenio Colorni, sottolineando che «Enzo Sereni descrive l’ideale rigenerativo del sionismo con un impianto, e un immaginario, ma si potrebbe dire con un lessico, che risultano sostanzialmente intercambiabili con quelli propri della propaganda comunista». E ancora: «A ben vedere quando Emilio Sereni descriverà al fratello, nei mesi successivi, l’immagine del proletariato urbano e rurale della “promessa comunista”, l’immaginario con cui lo descriverà sarà identico a quello usato da Enzo in questa lettera al cugino Colorni». Giorgio Vecchio, richiamando una lettera di Mimmo alla madre del 1945, quando si ebbe la certezza della morte di Enzo, definisce simbiotico il rapporto tra i due fratelli (G. Vecchio, Prefazione, in E. Sereni, Lettere (1945-1956, a cura di E. Bernardi, Rubbettino, Soveria Mannelli 2011, p. 7). 25 Lettera di Mimmo a Enzo del 24 gennaio 1928, p. 73, per l’abbandono della scelta e lettera del 4 settembre dello stesso anno, p. 101: «Naturalmente, anche a me dispiace molto il non poter più collaborare con te, e l’averti dovuto “tradire” in quelli che erano i nostri comuni piani». 26 Lettera del 2 aprile 1932, pp. 115-118. 27 Lettera del 23 ottobre 1935, p. 123: «esagerai un po’ nello studio: e una bella mattina, aprendo il mio libro di giapponese, mi accorsi che non capivo più un accidente; e preso un libro italiano, mi accorsi che mi accadeva lo stesso, il che era evidentemente assai più grave. Dopodiché mi presi una paura del diavolo, e mi misi subito a riposo». 52
vi sono certe cose che rappresentano una assoluta novità anche per me: così ad esempio la disciplina, che dà una sensazione di sicurezza e di forza mai provata prima. Insomma uno si sente sempre in un certo senso sull’attenti, in una tensione continua28
Uscito dal carcere nel 1935 (fig. 15), la storia personale di Emilio Sereni si intreccia con le vicende drammatiche dell’Europa della II Guerra Mondiale e poi con la Resistenza e la ricostruzione dell’Italia. Nell’archivio della mia famiglia sono conservate varie immagini –pubbliche e private- di quella lunga e complessa fase storica. Ma qui mi permetto di proseguire il filo dei pensieri più privati già iniziato, facendo un salto cronologico di ben quindici anni, arrivando agli anni 1950-1952. Per Mimmo sono anni densissimi di impegni politici nazionali e internazionali: è il periodo di intenso lavoro per il Consiglio Mondiale dei Partigiani della Pace, in cui Mimmo ebbe contatti con personalità della cultura di tutto il mondo. Ma è anche un momento di gravi difficoltà, per ragioni di salute personali e per la grave malattia della moglie Xenia, che verrà a mancare nel gennaio del 1952, in una clinica di Losanna. Dell’album di famiglia fanno parte non solo le foto, ma le le sue agendine tascabili, dove Mimmo annotava minuziosamente tutti i suoi impegni pubblici e privati29. All’inizio del 1952, poco dopo la morte di Xenia, le condizioni di salute di Mimmo si aggravano e sarà costretto dagli amici e compagni di partito a passare circa due mesi di cure e riposo a Barvikha in un sanatorio vicino Mosca riservato a ospiti “di riguardo” da tutto il mondo. Pur non mancando di annotare momenti di forte disagio fisico, l’immagine che si ricava dagli appunti quotidiani non è proprio quella di un “paziente” tradizionale. Certamente la sua attività frenetica, rispetto all’anno precedente e ai mesi successivi è fortemente ridotta, ma anche in questo periodo alterna cure mediche con letture, film e visite di amici, sortite a Mosca per un momento di svago al Teatro Bolshoi, ma anche per incontri e riunioni internazionali. Nei giorni della sua permanenza a Barvikha, approfitterà del forzato riposo per prendere varie lezioni di cinese da altri ospiti madrelingua. Al 10 marzo annota, oltre alla lezione, la visita di Giorgio (Jorge) Amado e di Nazim Hikmet, con il quale parla della situazione politica turca e di altro: quale lingua avranno usato? (fig. 16)30. L’anno precedente, durante le cure di Xenia in Svizzera, Mimmo aveva passato parte del tempo a scrivere di storia dell’agricoltura, ma si dedica anche a imparare 28 Lettera del 24 agosto 1927, p. 11. 29 G. Vecchio, Introduzione, in E. Sereni, Diario (1946-1952), introduzione e cura di G. Vecchio, Carocci editore, Roma 2015, pp. 7-18. Ad eccezione dell’agendina dell’anno 1952, conservata nell’archivio di famiglia, come osservato dallo studioso, le annotazioni in agendine iniziano da subito dopo il 17 luglio 1946, quando Sereni fu nominato ministro, e proseguono fino al 1977, anno della sua morte, e sono conservate a Roma, presso l’archivio della Fondazione Gramsci, Fondo Sereni, in un’apposita busta. Colgo l’occasione per ringraziare Giorgio Vecchio per l’accuratezza delle sue ricerche su Emilio Sereni e per l’empatia (e simpatia!) con cui da ormai più di un decennio affronta la biografia di “Mimmo”, nonostante –o forse proprio grazie a- una storia personale diversa. 30 E. Sereni, Agenda 1952, Archivio Famiglia Sereni. 53
“scientificamente” l’uso della macchina fotografica. Per ogni scatto annota i dati tecnici. Si esercita su oggetti, ma anche su stesso, come in questo autoritratto scattato nel bagno della camera d’albergo di Losanna (fig. 17), o con scorci ripresi dalla stanza della clinica e nei dintorni. Alcune foto di questa serie di esercizi sono dedicati a paesaggi, ad esempio della zona di Rimasco, nel Vercellese, che sembra proporsi come materiale preparatorio per la Storia del paesaggio agrario (fig. 18)31. Ma tra le prove fotografiche vi è anche questo scorcio del suo studio nella casa di Roma di Viale XXI Aprile dedicato al ritratto di Stalin (fig. 19), che non trovò più posto nella casa di Torre Gaia, dove la famiglia traslocò tra il 1956 e il 195732, emblematico di un pezzo importante della complessa e contraddittoria personalità di Sereni. Alcune rigidità ideologiche comportarono gravi “scivoloni” e forzature anche in ambito scientifico, come nel caso del sostegno di Sereni alle tesi dell’agronomo sovietico Lysenko sulla genetica, che furono duramente respinte dal mondo scientifico in Italia e all’estero, anche da studiosi allora filosovietici, sia per i contenuti che per l’uso da parte del potere totalitario staliniano per controllare la libertà della scienza. Ne parlai nei primi anni Duemila con Giovanni Berlinguer, il quale –normalmente 31 Archivio Famiglia Sereni. Le foto, di piccolo formato, appartengono a momenti diversi, ma furono raccolte da Sereni in un’unica busta con la dicitura «1951- Foto artistiche – Paesaggi» scritta di suo pugno. 32 L’annotazione è di Clara Sereni, ne Il gioco dei regni.
Fig. 14 1928. Il servizio militare nei Radiotelegrafisti (Archivio Famiglia Sereni) Fig. 15 1935, ottobre. Sereni a settembre è uscito dal carcere e poco dopo espatria clandestinamente in Francia 54
molto affettuoso nel ricordo di Mimmo e con noi familiari- si rabbuiò e si espresse invece al riguardo con parole molto dure, giudicandolo un errore gravissimo33. Ma sarebbe molto riduttivo identificare Mimmo studioso marxista soltanto con queste prese di posizione più estreme e controverse. La sua formazione complessiva e il suo approccio furono infatti anche gli elementi che lo misero in grado di conoscere e stabilire un ponte con gli studiosi dei paesi del blocco sovietico durante la Guerra Fredda. Fu qui capace di cogliere e proporre, prima di altri, importanti elementi innovativi nell’ambito della ricerca storica e archeologica. Per il mio mestiere di archeologa, mi piace chiudere richiamando alcune annotazioni al riguardo, che mostrano alcuni punti di approdo dell’intenso ed eclettico percorso formativo di Mimmo. Risale ancora alla fine degli anni Quaranta una sua nota dal titolo “Città e campagne dell’Italia antica, conservata presso la Biblioteca – Archivio dell’Istituto Cervi, dove sottolinea che per la ricostruzione di una società –antica, in questo caso- sia necessario ricorrere a ogni tipo di fonte e disciplina, un criterio usato nei suoi numerosi contributi successivi. Se l’intento dottrinario è qui reso evidente dalla contrapposizione tra “scienza borghese”, influenzata dalle tendenze idealistiche, e storiografia marxista, a suo modo di vedere superiore proprio per quella visione, approccio d’insieme che oggi chiameremmo “globale”, questa nota è interessante 33 Sull’argomento e sulle posizioni di Sereni si veda ora, tra gli altri, F. Cassata, Le due scienze. Il ‘caso Lysenko’ in Italia, Bollati Boringhieri, Torino 2008.
Fig. 16 1952, marzo. L’agendina con gli impegni nel sanatorio di Barvikha, presso Mosca (Archivio Famiglia Sereni) 55
per il dettagliato elenco delle discipline cui ritiene necessario ricorrere: archeologia (con la tecnologia, la geologia, la paleontologia), antropologia, linguistica generale, glottologia, storia del diritto, toponomastica, geografia come scienza del paesaggio, etnologia. Tutto questo con l’attenzione particolare allo studio dei rapporti di produzione e i rapporti di classe, l’ideologia34. Mimmo non era un archeologo, ma è ben noto e stimato ancora oggi in ambiente archeologico35. Frequentava assiduamente l’archeologia e gli archeologi, grazie ai suoi studi, ad amicizie personali e agli incarichi politici, ad esempio per il ruolo di responsabile della Commissione Cultura del PCI rivestito tra il 1948 e il 1951, e al suo articolato percorso formativo, che probabilmente gli consentì di essere accettato come interlocutore scientifico affidabile, benché fosse allora e sia rimasto in seguito esterno alle dinamiche universitarie. Tra le frequentazioni più vicine vi è certamente il rapporto con Ranuccio Bianchi Bandinelli, ma non mancò il confronto e la stima reciproca con l’etruscologo Massimo Pallottino, nonostante le loro scelte politiche pregresse fossero state radicalmente opposte36. L’assidua frequentazione con il mondo scientifico gli permise, ad esempio, di rivolgere precocemente l’attenzione già almeno dalla fine degli anni Cinquanta all’archeologia polacca, che pochi anni dopo darà un contributo importante allo 34 Istituto Alcide Cervi, Fondo Emilio Sereni, Note e appunti, b. 2, fasc. 6, secondo le indicazioni contenute in F. Albanese 1997, nota 15, p. 200. 35 Si veda il recente e bell’articolo a lui dedicato da D. Manacorda, Storie di “cose artificiate”, in «Archeo», n. 393 (marzo 2018), pp. 102-105. 36 Testimonianza del rapporto inevitabilmente stretto con Bianchi Bandinelli è non solo il suo ruolo di “intellettuale organico” del PCI (M. Quaini 2011, p. 29), ma anche una foto del giardino della sua casa, memoria di una giornata passata insieme (per relax o lavoro?) negli anni Cinquanta. Del rapporto di stima reciproca con Pallottino, dal punto di vista scientifico, sono testimone diretta: già al liceo, quando iniziai a mostrare interesse per l’archeologia, mi mise tra le mani vari testi, tra cui il suo manuale. Solo in seguito seppi dell’appassionata adesione al fascismo di Pallottino (F. Delpino, Pallottino, Massimo, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 80 (2014), disponibile online: http://www.treccani.it/enciclopedia/massimopallottino_(Dizionario-Biografico)/.
Fig. 17 a/b 1951. Losanna, prova fotografica: autoscatto e indicazioni tecniche (Archivio Famiglia Sereni) 56
Fig. 18 1951, agosto. Prova fotografica: paesaggio di Rimasco - prov. Vercelli (Archivio Famiglia Sereni)
Fig. 19 1951. Prova fotografica: Il ritratto di Stalin nello studio (Archivio Famiglia Sereni) 57
sviluppo dell’archeologia medievale in Italia37. Ma lo sguardo non era certo rivolto soltanto agli studi di impronta marxista. Più in generale Sereni mostra grande attenzione e si aggiorna sugli sviluppi di contenuti e approcci metodologici, come mostra la presenza nella sua biblioteca della prima edizione del 1957 di un volume di John Bradford ben noto: Ancient Landscapes, non solo letto, ma con la sottolineatura sistematica di alcune pagine (fig. 19)38. E per terminare. Al I Congresso nazionale di Scienze Storiche di Perugia, Sereni puntò il dito sulla mancanza, nell’archeologia antica e medievale italiana, di ricerche che facessero ricorso anche alle analisi polliniche e dei resti di pasti39. Era il 1967 e ci vorrà ancora diverso tempo prima che queste si diffondano nel nostro Paese. 37 A. Melucco Vaccaro, L’archeologia Medievale, in Il mondo dell’Archeologia, Enciclopedia Italiana, Roma 2002, p. 55. 38 J.S.P. Bradford, Ancient Landscapes: Studies in field archaeology, G. Bell and Sons Ltd, London 1957. 39 I Congresso nazionale di scienze storiche (Perugia 9-13 ottobre 1967), in La storiografia negli ultimi vent’anni, Milano 1970. Si cita da F. Albanese 1997, nota 18, p. 200.
Fig. 20 Istituto Alcide Cervi, Biblioteca – Archivio E. Sereni. Il volume di Bradford 58
Emilio Sereni visto da un archeologo a quaranta anni dalla sua scomparsa
Daniele Manacorda
Università di Roma Tre
Non ho particolari titoli per parlare, sia pur brevemente, di una personalità come Emilio Sereni e della sua opera, se non quello di avere avuto il privilegio, da ventenne, di incontrarlo qualche volta, senza aver peraltro la capacità di trarre allora da quegli incontri gli ammaestramenti che oggi vorrei potergli chiedere. Sereni uomo lo conosco quindi solo attraverso i suoi testi, le biografie e quel capolavoro che è Il gioco dei regni di sua figlia Clara1. Ma dai suoi scritti traspare anche la sua dimensione umana e l'apparente contraddittorietà di uno studioso fortemente ed ideologicamente legato ad un mondo di certezze e, al tempo stesso, capace di valicare ogni siepe, di dissodare e arare campi inesplorati, di mescolare sementi. Un certo dogmatismo di Sereni, e il suo settarismo politico2, ormai consegnati agli storici, qui non devono interessarci3. “Gli anni erano spietati, - scrive Clara4 - il nemico appariva invincibile: nell’affrontarlo a viso aperto, nel decidere della propria vita tutta intera ci fu chi seppe mantenersi laico5, e chi mutuò dalla religione il senso dell’unità indissolubile, e del dogma”. Ma i suoi libri non sono dogmatici: tutt’altro. Sono finestre aperte su mondi spesso sconosciuti, intuizioni che valicano le certezze
1 C. Sereni, Il gioco dei regni, Giunti, Firenze, 1993. 2 “A quarant’anni come a venti, Mimmo sceglie posizioni settarie, giudizi spesso sommari” (C. Sereni, Il gioco dei regni, cit., p. 365). Di “indubbia rigidezza ideologica” (E. Sereni, Diario (1946-1952), a cura di G. Vecchio, Carocci, Roma 2015, Introduzione, p. 10). 3 Andrea Giardina mette giustamente in guardia dalla “tentazione, che non di rado è emersa in passato, di depurare la sua ingombrante personalità sceverando, nell’opera, un aspetto dall’altro, come in una storiografica riproposizione di poesia e non poesia” (A. Giardina, L’Italia romana. Storie di un’identità incompiuta, Laterza, Roma-Bari, 1997, pp. 371-372). Lo stesso Sereni, presentandosi in un suo scritto del 1959, d’altronde affermava: “ho del pari ritenuto che ogni impegnata attività civica e politica non possa andar disgiunta da un approfondimento della ricerca scientifica” (E. Sereni, Curriculum del candidato dott. Sereni Emilio, in A. Giardina L’Italia romana. Storie di un’identità incompiuta, cit., p. 399). 4 C. Sereni, Il gioco dei regni, cit., p. 206. 5 Il riferimento è alla prima fase sionista di Sereni poi abbandonata per abbracciare la lotta antifascista attraverso il comunismo subendo anni durissimi di galera e torture. 59
delle discipline, cortocircuiti che illuminano campi del sapere ombrosi6. Mi sono chiesto più volte – guardando la mole imbarazzante delle sue Comunità rurali dell'Italia antica7- come e quando un agronomo8, che non aveva alle spalle una specifica formazione antichistica e che aveva dedicato la maggior parte della sua vita alla lotta clandestina e alle patrie galere e poi al governo del Paese e alla militanza politica alla luce del sole, come e quando avesse potuto non dico stendere, ma anche solo concepire una trattazione del genere. Lui stesso ci dà qualche indicazione nella Prefazione alla sua successiva Storia del paesaggio agrario: “A un particolare interesse per la problematica del paesaggio l’autore di questo volume è stato portato – scrive - nel corso di ricerche che si svolgono su due linee diverse e lontane, e in apparenza addirittura divergenti: quelle orientate sulle tecniche e sulle istituzioni agrarie dell’Italia preistorica e protostorica e quelle relative alla storia ed alla politica agraria dell’Italia contemporanea”9. Chi legga ancor oggi quelle pagine resta tuttavia impressionato non da questa divergenza, ma dalla modernissima percezione del senso della stratificazione storica che – scriveva – “come da un palinsesto […] sovente affiora, nel dettaglio dei paesaggi e dei regimi agrari […]. Lo sa il riformatore – continua - , lo sa lo storiografo, l’etnologo, il linguista…”10. Lo sanno, cioè, gli specialisti di tante diverse discipline, ciascuna impegnata alla metà del secolo scorso a consolidare le proprie strutture, e a volte le proprie difese. Quelle discipline che Sereni rispetta, consapevole della loro necessità, ma sorvola11, come chi sappia di dover guardare più in alto e più lontano, perché consapevole di aver intrapreso a lavorare – continua la metafora agraria – una “terra non seminata”12. Una terra da conoscere innanzitutto studiando il quadro geografico, e poi ogni fonte capace di “far trasparire le tracce”13 di più antiche istituzioni; studiando i “rapporti tra le antiche popolazioni e il paesaggio geologico, vegetale ed agricolo” 14, 6 Da questo punto di vista Emilio Sereni è una figura tipica di una generazione di intellettuali, formatasi negli anni a cavallo tra l’Italia liberale e fascista, che, pur nella temperie priva di sfumature che fece da sfondo al contrasto alla dittatura, trovò nell’ispirazione al materialismo storico, così come innestato nella tradizione culturale italiana, la capacità di introdurre aria fresca nel dogma ideologico valorizzando il ruolo delle antinomie nella vita individuale e collettiva di una intera generazione. 7 La genesi di questo “grande libro” è finemente analizzata in A. Giardina, L’Italia romana. Storie di un’identità incompiuta cit. Il senso della ricerca è ben sintetizzato nella lettera che Emilio Sereni inviò a Giulio Einaudi nell’ottobre 1951 per proporne la pubblicazione alla sua casa editrice (E. Sereni, Lettere (19345-1956), a cura di E. Bernardi, Soveria Mannelli, Rubbettino 2011, pp. 202-205). 8 Emilio Sereni, nato nel 1907, si era laureato all’Istituto superiore di Agraria di Portici nel 1927 (cfr. L. Musella, La Scuola di agricoltura di Portici nell’esperienza di Manlio Rossi Doria e di Emilio Sereni, in «Studi storici», 30, 1989). 9 E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Laterza, Bari 1961, pp. 15-16. 10 E. Sereni Comunità rurali dell'Italia antica, Rinascita, Roma 1955, p. XIII. 11 Ibidem, p. XV. 12 Ibidem, p. 562. 13 Ibidem, p. 72. 14 Ibidem, p. 84. 60
consultando certamente le fonti archivistiche, ma dando spazio ad “ogni documento della cultura materiale” 15, un termine allora inusuale e ideologicamente connotato16, e – nei limiti del tempo – alle fonti archeologiche in senso lato17. Ma anche, “più largamente di quanto non si soglia in genere fare in questa materia […] le tradizioni folcloristiche18, e l’etnografia comparata”, storicamente rivendicata nonostante “l’incuria o la diffidenza, di cui sono talora oggetto nella più recente storiografia” 19. E’ evidente il debito di Sereni verso la Scuola delle Annales, e in particolare verso Marc Bloch, di cui apprezzava il genio20 oltre che il sacrificio, e quel bisogno di sintesi, “foss’anche in apparenza prematura” 21, che gli verrà rimproverato dalle casematte delle discipline: di qui quella definizione di Sereni ‘erudito’ o ‘ultimo degli enciclopedisti’22, su cui si è soffermata Anna Sereni23. Emilio Sereni fu infatti fornito di una quantità impressionante di nozioni sui campi più diversi del sapere sia tecnico che umanistico: una vocazione coltivata sin da ragazzo, come ci racconta Clara, quando ripeteva “a memoria nomi e nozioni che 15 Ibidem, p. 76: “non v’è bisogno di insistere sull’importanza che ogni documento della cultura materiale presenta in ricerche come la nostra, rivolta ad epoche per le quali la documentazione fornita dalle fonti letterarie ed epigrafiche è generalmente solo indiretta”. 16 Nel proprio curriculum vitae steso nel 1959 Sereni parla esplicitamente di un allargamento delle sue ricerche “al campo delle culture materiali e delle ideologie delle primitive genti agricole in Italia”, insieme considerate (E. Sereni, Curriculum del candidato dott. Sereni Emilio, in A. Giardina L’Italia romana. Storie di un’identità incompiuta, cit., p. 404). 17 Va da sé che il livello delle fonti archeologiche disponibili alla metà del XX secolo era - anche per l’arretratezza metodologica delle ricerche sul campo - assai minore, sul piano quantitativo e ancor più qualitativo, di quello oggi a disposizione, e dal quale vien fatto di interrogarsi sullo straordinario profitto che il suo acume di studioso avrebbe potuto trarre. 18 E. Sereni Comunità rurali dell'Italia antica, cit., p. 85. 19 Ibidem, p. 86: “Né rinunceremo, sia pur con le dovute cautele, ai risultati dell’etnografia comparata, che – quando siano illuminati da una giusta periodizzazione delle fasi storiche alle quali essi si riferiscono – non ci sembra meritino l’incuria o la diffidenza, di cui sono talora oggetto nella più recente storiografia”. 20 E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano cit., p. 15; si veda anche E. Sereni, Curriculum del candidato dott. Sereni Emilio, cit, p. 403. Per una valutazione del rapporto tra Sereni e il grande storico francese si veda R. Zangheri, Agricoltura e contadini nella storia d’Italia, Einaudi, Torino 1977, pp. 105-112. 21 Ibidem, p. 9: “vi sono dei momenti nei quali una sintesi, e foss’anche in apparenza prematura, può rendere maggior servizio di quel che non possano molti lavori di analisi”. 22 F. Albanese, Emilio Sereni: l’ultimo degli enciclopedisti. Fonti per la storia dei protagonisti dell’Italia del Novecento. Il fondo Emilio Sereni, in «Annali Istituto Alcide Cervi», 19, 1997. Sui suoi studi di storia antica “intesi come le manifestazioni di un’indole eccentrica ed enciclopedica” si veda A. Giardina, L’Italia romana. Storie di un’identità incompiuta cit., p. 372; cfr. anche p. 406, nota 5, che invita a cercarvi non “il segno di un temperamento eccentrico ma un’espressione del rapporto tra politica e storia, entro l’orizzonte della questione meridionale” (ibid., pp. 386-387). Di “intellettuale eclettico e proteiforme” parla G. Vecchio in E. Sereni, Diario (1946-1952), cit., p. 9; cfr. F. Ferretti, The making of Italian agricultural landscapes: Emilio Sereni, between geography, history and Marxism, in «Journal of Historical Geography», 48, 2015. 23 Si veda il contributo di Anna Sereni in questo volume. 61
anche lui era ben lontano dal controllare” 24, che ne fece un diciassettenne “coltissimo in una infinità di campi” 25, capace – anche nei momenti più ardui della vita26 – di recitare a voce alta “Senofonte e poi Eschilo: attento alla metrica, alla pronuncia, alla musicalità” 27, cioè alla contestualità del dato e del sapere. Sereni era all’opposto della erudizione, e non solo o non tanto perché lui stesso si smarcava da questa dimensione. “La nostra esposizione – scrive infatti introducendo la Storia del paesaggio agrario - non è quella più consueta in lavori a carattere specialistico ed erudito, ma piuttosto quella di opere volte a suscitare in un più largo pubblico un interesse o anche una semplice curiosità scientifica”28. Cioè a dire: il sapere non fine a se stesso, ma per suscitare un interesse che ne crei del nuovo, quella curiosità che dia il carburante ad ogni altra possibile ricerca; il sapere, insomma, come oggetto della più ampia diffusione, che sola distingue l’erudizione dalla cultura, intesa come sistema di conoscenze che sempre creano nuovi modi di interpretare e modificare la realtà. Sereni antierudito infatti non affastellava dati ostentandoli29, ma confrontava fonti30, costruiva reti di conoscenza, piegava le discipline all’analisi del contesto nella sua integrità: oggi lo diremmo il precursore della visione olistica del paesaggio storico31. Una visione globale e contestualizzante, che traeva linfa dall’anelito di totalità congiunto alla cura e all’interesse per il dettaglio, che affiora in una pagina intensa del suo Diario del 194832. Tutto ciò non dà conto tuttavia dei motivi che furono all’origine delle sue ricerche storiche, così lontane, in fondo, dalla sua formazione tecnica. Clara ci ha aiutati a comprendere il motivo della sua iscrizione al Corso di agronomia di Portici, da cui uscì laureato nel 1927: un impegno legato al suo giovanile sionismo e ad una finalità 24 C. Sereni, Il gioco dei regni, cit., p. 80. 25 Ibidem, p. 165. 26 Si veda la pagina del Diario del 2 ottobre 1946 (E. Sereni, Diario (1946-1952), cit., p. 32). 27 C. Sereni, Il gioco dei regni, cit., , p. 276. 28 E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, cit., p. 22; cfr. p. 9, dove si impegna ad “esporre in forma sommaria, non specialistica, e spoglia di ogni apparato erudito”. 29 Il senso della non ostentazione lo aveva assimilato nella calda casa di una famiglia borghese appartenente all’élite ebraica imprenditoriale (C. Sereni, Il gioco dei regni, cit., p. 169). 30 Anche se qualche volta lasciandole in lingua originale: si veda il passo in latino (Plinio, NH, 18-19) non tradotto posto ad epigrafe in E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, cit. (scelta ovviamente da contestualizzare nella cultura umanistica italiana degli anni ’50). 31 Nel dicembre 1947, a proposito della sua attività politica e dei suoi rapporti in tal senso con Giorgio Amendola, scrive: “Il mio campo di interessi è più largo, e questo non penso sia un difetto […]: non in questo consiste per me il pericolo di dispersione. Qualunque lavoro io faccia, bisognerà sempre che io seguiti ad interessarmi di fisica atomica e di canti popolari e di molte altre cose; se non coltivassi questo più largo campo di interessi, non potrei, credo, lavorar bene, non potrei dare tutto quel che posso dare anche nel mio più specifico e momentaneo tempo di lavoro” (E. Sereni, Diario (1946-1952), cit., p. 67). A proposito di questa attitudine si veda A. Giardina, L’Italia romana. Storie di un’identità incompiuta cit., p. 372, che parla non a caso di “coincidenza di attività politica e di ricerca storica”. 32 E. Sereni, Diario (1946-1952), cit., p. 87 (28 maggio 1948). 62
pratica alimentata da una forte idealità. Da quegli studi alle Comunità rurali della Liguria antica e alla Storia del paesaggio agrario il passo tuttavia è lungo, ma dovette essere agevolato dalla sua formazione classica al Liceo Mamiani di Roma, dall’ambiente colto della famiglia, dalla consuetudine con i testi e i temi della tradizione ebraica33, dalla sua singolare attitudine per le lingue che ne fece un poliglotta34. I libri hanno sempre accompagnato Sereni fin dall’infanzia: Mimmo, l’ultimo di tre fratelli, trovava la sua solitaria concentrazione nella “cassapanca color pece”, dove – scrive Clara35 - il coperchio socchiuso lasciava filtrare l’aria mentre una candela illuminava riga per riga il libro che stava leggendo. Giunto alla maturità, nel momento delle grandi scelte, “solo i libri – è sempre Clara che parla - possono riempire il grande vuoto che Mimmo si sta scavando dentro: fatto di eliminazioni progressive, di nodi troppo dolorosi per essere sciolti…”36. E’ come se, nella ricerca di una illusoria armonia che pretende che il privato sia sempre e comunque anche pubblico, i libri37 abbiano rappresentato da un lato lo strumento della formazione politica a tutto tondo, della cultura per l’impegno, dall’altro l’insostituibile rifugio38, dove ritrovare nel vivo della ricerca quel senso che le durezze della lotta politica prima, gli strazi della vita familiare poi, sembravano offuscare. Come quando, mentre si avvicinava la perdita della compagna della sua vita, sul suo letto le mostrava “gli appunti per il nuovo libro, i discorsi per il partito, gli articoli dei giornali… E si sforzava di entusiasmarsi ai Liguri e alla loro storia” 39. E “quando la disperazione fu totale, - scrive sempre Clara - Mimmo si trasferì a Losanna: con una valigia pesante di carte e appunti, per 33 Nel suo Diario “elementi assorbiti dalla tradizione ebraica – scrive G. Vecchio in E. Sereni, Diario (1946-1952), cit., p. 14 – si mescolano (e talvolta riemergono, come nel caso delle tradizioni bibliche) con quelli del migliore classicismo plastico (la Venere di Sinuessa) e letterario e vengono illuminati dalla luce del marxismo-leninismo”. 34 “Chi vuoi che possa capire, all’infuori di Loletta, la ragione per cui Uriello, ad esempio, si riposa studiando l’ungherese, o i problemi della preistoria italiana?” scrive nel Diario il 6 febbraio 1949 (E. Sereni, Diario (1946-1952), cit., p. 135), già utilizzato in C. Sereni, Il gioco dei regni, cit., p. 361). 35 C. Sereni, Il gioco dei regni, cit., p. 102. 36 Ibidem, p. 203. 37 Significative a tal proposito le pagine del Diario del 30 agosto 1946 (E. Sereni, Diario (1946-1952), cit., pp. 22-24). 38 Sereni non avrebbe probabilmente accettato questa definizione, che non vuole avere peraltro nulla di limitativo. Il senso della sua attività di ricerca, così come da lui percepito, è ben descritto in una pagina del Diario del 4 giugno 1947: “Posso oggi […] dedicarmi più coraggiosamente a questi lavori perché meno che per il passato corro ormai il rischio di deviazioni intellettualistiche. Questi anni di lavoro politico-organizzativo e, ora, questa esperienza di lavoro politico-governativo, in una situazione particolarmente difficile, mi hanno saldamente ancorato alla realtà proletaria; quello che ancora non molti anni fa era uno sforzo cosciente di adeguamento a questa realtà, ora è divenuto istinto secondo natura. Il processo di identificazione della mia vita e del mio pensare con quello del Partito e della classe operaia è maturato; e questo mi dà una sicurezza, una libertà ben superiore nel lavoro culturale” (E. Sereni, Diario (1946-1952), cit., p. 57). 39 C. Sereni, Il gioco dei regni, cit., p. 397. 63
aggrapparsi ancora al lavoro, al libro che sarà Comunità rurali dell’Italia antica” 40. Quel libro fu la dimostrazione - un po’ come accadde, a detta di Clara, con la questione meridionale, che Sereni scoprì per tramite di Manlio Rossi Doria – del suo naturale bisogno di “obiettivi assoluti e titanici”41, di “quella rete che lo aiutasse a tenere insieme i suoi pezzi”, come era stato l’ebraismo, prima, ed era ora il comunismo42 rigidamente fatto ragione di vita e di comportamenti. Nel momento in cui Comunità rurali vede la luce, in quel 1955 in cui il mondo e l’Italia sono divisi in due fronti contrapposti senza speranza, Mimmo ha ormai già steso anche il suo capolavoro, quella Storia del paesaggio agrario italiano di cui ancora ci domandiamo come sia stato possibile non solo scriverla, ma concepirla43. Il volume esce solo nel 1961. L’aria nel paese sta cambiando. Il libro, solidamente ispirato al materialismo storico, non ha più bisogno delle ingenue citazioni dei classici del marxismo o addirittura di Stalin44. Sereni sa benissimo di aver prodotto qualcosa che prima semplicemente non c’era e che sta in piedi da sé. Il miracolo è figlio di una precisa scelta di metodo: “Una ricerca come la nostra – scrive - non ha potuto essere condotta senza un largo e diretto ricorso alle fonti epigrafiche, archivistiche, archeologiche, letterarie, iconografiche ed altre” 45. “Il dato paesaggistico – continua - si presenta […] ancor più che come un dato di fatto, come un fondamentale documento storico” 46, e quindi come il bacino dove spazio e tempo si incontrano secondo quella “’legge d’inerzia’ del paesaggio agrario, che, una volta fissato in determinate forme, tende a perpetuarle – anche quando siano scomparsi i rapporti tecnici, produttivi e sociali che ne han condizionato l’origine – finché nuovi e più decisivi sviluppi di tali rapporti non vengano a sconvolgerle” 47. 40 Ibidem, p. 408; cfr. p. 418: “…a te darà la forza di continuare la tua vita, che è anche la vita di Loletta, con il lavoro di Partito, con i ‘Liguri’, e tutti gli altri antichi e moderni che debbono venire ancora…”. “Sembra persino miracoloso – scrive Giorgio Vecchio in E. Sereni, Diario (1946-1952), cit., p. 10 – che, in tali condizioni, l’8 ottobre [1951] Sereni potesse annotare sull’agenda, in bella evidenza, di aver concluso la stesura del volume su Comunità rurali dell’Italia antica”. 41 Ibidem, p. 137. 42 C. Sereni, Il gioco dei regni, cit., p. 166. 43 E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, cit. Sulle vicende editoriali del volume, completato già nel 1955, cfr. A. Giardina, L’Italia romana. Storie di un’identità incompiuta cit., p. 380. La lettera con cui Sereni nel novembre 1956, dopo l’insuccesso della trattativa con Einaudi, ne propose la pubblicazione all’editore Feltrinelli, illustrando contenuti e finalità dell’opera, è ora a disposizione in E. Sereni, Lettere (19345-1956), a cura di E. Bernardi, Rubbettino, Soveria Mannelli 2011, pp. 304-306. 44 Ampiamente presenti nella Prefazione, in E. Sereni Comunità rurali dell'Italia antica, cit. “Imparare da Stalin” è la nota appuntata nel Diario il 15 marzo 1952 (E. Sereni, Diario (19461952), cit., p. 183; sul tema cfr. T. Seppilli, Postfazione in E. Sereni, Diario (1946-1952), cit., pp. 99-100. 45 E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, cit., p. 22. 46 Ibidem, p. 18. 47 Ibidem, p. 52. Su questi aspetti della ricerca di Sereni e l’assenza in lui di una prospettiva storica di impostazione continuistica si veda A. Giardina, L’Italia romana. Storie di un’identità 64
Se è così, tanto più necessario si fa il ricorso “alla faticosa combinazione dei dati di storia degli istituti giuridici con quelli risultanti dalle indagini di toponomastica e linguistica storica” 48: due passioni coltivate fin dall’infanzia, quando restava affascinato dai “tranelli di parole”, che “infinocchiavano l’orco” 49. Poi negli anni a venire, senza timori e senza riverenze, attingeva il polline dagli specialisti per produrre il suo miele lavorando d’intelligenza contestuale e fuggendo il rischio di invischiarsi nella pania della autoreferenzialità disciplinare: “lo specialista si meraviglierà forse – scrive nella Prefazione - di vederci far più sovente ricorso alla citazione di un poemettto georgico, od alla più o meno casuale testimonianza di un viaggiatore italiano e straniero piuttosto che a quella di un documento d’archivio” 50. Perché a Sereni non interessa dimostrare di aver visto tutti i documenti della serie possibile, non deve fare il compito migliore della classe in questa o quella disciplina; lui sceglie consapevolmente di smarcarsi dal “disagio – che sente - di una pur necessaria specializzazione della ricerca” perché peggiore è il rischio di frammentare l’unitarietà dell’oggetto di studio “in tanti distinti filoni: paralleli, certo, ma per ciò stesso solo all’infinito destinati a ricongiungersi in quel processo unitario” 51. E così, magari un catasto o un cabreo di meno (e in altra occasione gli verrà rimproverato52), ma un verso, un appunto di viaggio, un canto popolare in più, con un’enfasi forse trattenuta, ma viva sotto la pelle per l’analisi della percezione come componente fondamentale della ricostruzione storica. Altrimenti non capiremmo quel miracolo di storia millenaria di un paesaggio raccontata attraverso le fonti iconografiche, alle quali – scrive – “non dobbiamo chiedere quel che solo una documentazione archivistica può darci”, ma piuttosto “il senso del moto storico, [e] come sia mutata la sensibilità degli uomini che in quel gran moto storico sono stati impegnati” 53. Una storia del paesaggio a partire dunque da quadri, affreschi, disegni e stampe, raccolti ed analizzati a migliaia. Né poteva forse essere altrimenti se pensiamo che del termine stesso di paesaggio, “che in Italia arriverà come neologismo soltanto alla metà del Cinquecento […] la prima attestazione italiana si trovi non in un letterato, ma in un pittore: in una lettera di Tiziano del 1552” 54. incompiuta cit., pp. 383-386. 48 Ibidem, p. 11. 49 C. Sereni, Il gioco dei regni, cit., p. 52. 50 E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, cit., p. 24. 51 Ibidem, p. 25 52 Si veda l’osservazione critica di R. Zangheri, Prefazione in E. Sereni, Terra nuova e buoi rossi, Einaudi, Torino 1981, p. XIII: “Anche Sereni, in verità, dispone di fonti privilegiate e altre trascura, ad esempio, i ritrovamenti dell’industria litica, le indagini stratigrafiche ed altre classi di reperti materiali. Sicché si crea un certo squilibrio all’interno della sua documentazione, che avevamo già osservato nella Storia del paesaggio agrario italiano (dove l’esame del paesaggio artistico ha la meglio su ogni altro tipo di rappresentazione, ad esempio mappe, cabrei ecc.)”. Il riferimento ai dati stratigrafici non tiene conto tuttavia del fatto che Sereni scriveva in anni in cui la documentazione archeologica di carattere stratigrafico era ancora pressoché inesistente. 53 E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, cit., p. 145. 54 C. Tosco, Beni culturali e paesaggio: una storia italiana, in «Nuova informazione bibliografica», XII, 1, gennaio-marzo 2015, p. 110. 65
Senso del moto storico e della sensibilità dei suoi protagonisti. Sono questi i sentimenti che troviamo anche nel terzo dei suoi volumi, e cioè quella raccolta postuma, che con il nome di Terra nuova e buoi rossi55, Einaudi diede alle stampe pochi anni dopo la sua morte. Sono scritti rimasti inediti, della cui lettura specialmente i giovani dovrebbero concedersi quel fascino, che proviamo quando da una baita d’alta montagna si arriva a scorgere oltre le cime e le nuvole il mare. Che si tratti del tirso delle Baccanti o della vite Lambrusca, della nomenclatura del cavallo o del fascinoso passaggio dei Napoletani da mangia foglia a mangia maccheroni, il libro è uno scrigno di idee, di collegamenti, di visioni, nei quali, usando “metodi sicuramente innovatori”, Sereni “dalle tecniche agricole risale alle formazioni sociali, ai rapporti fra gli uomini e le classi”56. I millenari incendi dei pastori e la pratica del debbio lasciano la loro traccia nella degradazione della selva a macchia mediterranea in un paesaggio fatto di suoli, vegetazione, fatica umana, parole, nomi. Nella linguistica storica e nella toponomastica Sereni raggiunge qui il vertice, che solo un autodidatta a volte può permettersi, rispettoso sì, ma libero dalle discipline57. Quelle letture mi conquistarono allora, e mi affascinano oggi ancor di più, quando meglio misuro la grandezza del suo lavoro e l’angustia di certa storiografia paurosa di tentare l’interpretazione, di volare. Sereni invece non teme le ipotesi, non se ne vergogna, semplicemente non può farne a meno58. La toponomastica, lo sappiamo, è un sapere a due facce: si presta ad un uso superficiale e fantasioso, privo di agganci con la realtà storica, ma è anche un sussidio preziosissimo per la storia, perché i nomi dei luoghi sono concentrati di memorie. Per questo la consideriamo oggi un bene immateriale, da tutelare come patrimonio storico e culturale di una regione o di una nazione. E’ questa loro natura che ci spinge a trattare con garbo i toponimi, perché, rappresentando la memoria di un territorio, ce ne manifestano una delle qualità; e ci fanno risalire a ritroso nei secoli attraverso le stratificazioni che si sedimentano nei nomi secondo quella ‘archeologia delle parole’, che ne valuta la posizione nel tempo e nello spazio 55 E. Sereni, Terra nuova e buoi rossi, cit. Sull’opera si veda A. Giardina, L’Italia romana. Storie di un’identità incompiuta cit., pp. 377-381. 56 R. Zangheri, Prefazione in E. Sereni, Terra nuova e buoi rossi, cit., p. IX. 57 Nella lettera con cui Sereni propone a Giulio Einaudi la stampa delle sue Comunità traspare la consapevolezza del rischio di un giudizio “d’improvvisazione o di dilettantismo” nei confronti di chi, come lui, non aveva al suo attivo altri studi di antichistica (E. Sereni, Lettere (19345-1956), a cura di E. Bernardi, cit., p. 203-204). Altrove Sereni riflette sul senso stesso della sua preparazione dal punto di vista biografico: “Ma fino ad oggi, potrei dire, la mia vita mi è apparsa sempre come una ‘preparazione’. Ho studiato questo, per prepararmi a fare quest’altro; ho fatto una certa esperienza, che non mi è stata inutile. Se dovessi guardare solo alla mia formazione, non avrei forse troppa ragione di essere malcontento. Molte cose le ho imparate, dallo studio e dall’esperienza. Sento tante deficienze, certo, in questa mia preparazione” (E. Sereni, Diario (1946-1952), cit., p. 182, nota del 15 marzo 1952). 58 Illuminante una frase del Diario del 2 ottobre 1946, nella quale espone il suo metodo politico, che mi sembra trovare un parallelismo nel metodo di ricerca, che non può fare a meno di esplicitare le ipotesi: “Come metodo, ho seguito e seguo il mio solito, che ho già seguito nel mio lavoro al CLN: svelare sempre chiaramente, direi impudentemente, il mio gioco, costringendo anche l’avversario ad accettarlo” (Ibidem p. 30). 66
sfogliando le incrostazioni e i travisamenti, che li hanno alterate nei secoli, pur mantenendoli in vita. è questo che conferisce ai toponimi una caratteristica tipica, in cui sta anche il loro fascino: essi sono da un lato trasparenti (parlano infatti chiaro, talvolta chiarissimo), e al tempo stesso opachi, quasi infidi (quel che sembra evidente potrebbe infatti non esserlo affatto). I toponimi, le parole, la lingua, gli uomini che la parlano sono componenti di un paesaggio, che credo di non sbagliare se ritengo fosse percepito da Sereni in modo simile a quello che orienta l’attuale ‘archeologia dei paesaggi’. Anche se una certa retorica tende ad assimilare i paesaggi alle vedute idilliache di monti, fiumi, colline e scogliere ancora intatte, rispetto a tante brutture che ci circondano, quasi che il paesaggio coincida con la nostra cattiva coscienza di maldestri abitatori del pianeta; oggi sappiamo che il paesaggio altro non è se non l’aspetto culturale, cioè storico, dell’ambiente in cui viviamo. I paesaggi sono veri e propri organismi, sistemi complessi dove le forme degli insediamenti umani si sono andate sovrapponendo nei secoli. Sono il risultato del lavoro e dell’immaginazione di generazioni e generazioni, che hanno dato alla natura un ordine riconoscibile per venire incontro alle proprie necessità di sussistenza. Un ordine dunque, che a noi oggi appare come il volto di una storia, lenta e piena di significati, che sentiamo anche nostra, e ci permette di riconoscere noi stessi nel flusso di queste generazioni. Tanto che – per riprendere una intensa immagine di Carandini - ogni stupro selvaggio che vediamo perpetrato in un campo, in un bosco, su una costa ci colpisce come vedere una ferita sul volto di una persona amata, che ne deturpa la profonda armonia59. Il paesaggio è dunque il prodotto di un’attività collettiva, dove natura, storia, lavoro e arte si sono intrecciati come immagine riconoscibile della vita di intere comunità nel corso di lunghi o talora lunghissimi periodi di tempo. I paesaggi sono insomma in primo luogo contesti, dove ogni cosa vive un sistema di relazioni con ciò che le sta accanto, sopra o sotto; dove ogni cosa ha un senso, a volte immediatamente percepibile, altre volte bisognoso di studio per essere colto. Perché i paesaggi, per quanto lenti nelle loro trasformazioni, pur tuttavia cambiano nel loro aspetto, conservando le loro caratteristiche di lunga durata e prefigurando le nuove. Sereni lo sapeva, se ad epigrafe della sua Storia poneva un frase tratta da L’elogio degli uccelli di Leopardi: “…una grandissima parte di quello che noi chiamiamo naturale, non è; anzi, è piuttosto artificiale: come a dire, i campi lavorati, gli alberi e le altre piante educate e disposte in ordine, i fiumi stretti infra certi termini e indirizzati a certo corso, e cose simili, non hanno quello stato né quella sembianza che avrebbero naturalmente. In modo che la vista di ogni paese abitato da qualunque generazione di uomini civili […] è cosa artificiata, e diversa molto da quella che sarebbe in natura”60. I paesaggi sono in fondo persone. I paesaggi siamo noi, le generazioni che ci hanno preceduto e quelle che verranno.
59 A. Carandini, La forza del contesto, Roma-Bari, Laterza 2017, pp. 5-9. 60 G. Leopardi, Tutte le opere, a cura di F. Flora, I, Milano 1940, p. 960. 67
Bibliografia F. Albanese, Emilio Sereni: l’ultimo degli enciclopedisti. Fonti per la storia dei protagonisti dell’Italia del Novecento. Il fondo Emilio Sereni, in «Annali Istituto Alcide Cervi», 19, 1997, pp. 197-245. A. Carandini, La forza del contesto, Laterza, Roma-Bari 2017. F. Ferretti, The making of Italian agricultural landscapes: Emilio Sereni, between geography, history and Marxism, in «Journal of Historical Geography», 48, 2015, pp. 58-67. A. Giardina, L’Italia romana. Storie di un’identità incompiuta, Laterza, Roma-Bari 1997. G. Leopardi, Tutte le opere, a cura di F. Flora, I, Milano 1940. L. Musella, La Scuola di agricoltura di Portici nell’esperienza di Manlio Rossi Doria e di Emilio Sereni, in «Studi storici», 30, 1989, pp. 701-716. T. Seppilli, Postfazione, in E. Sereni, Diario (1946-1952), a cura di G. Vecchio, Carocci, Roma 2015, pp. 195-203. C. Sereni, Il gioco dei regni, Giunti, Firenze 1993. E. Sereni, Comunità rurali dell'Italia antica, Rinascita, Roma 1955. E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Laterza, Bari 1961. E. Sereni, Terra nuova e buoi rossi, Einaudi, Torino 1981. E. Sereni, Curriculum del candidato dott. Sereni Emilio, in A. Giardina, L’Italia romana. Storie di un’identità incompiuta, Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 397-405. E. Sereni, Lettere (19345-1956), a cura di E. Bernardi, Soveria Mannelli, Rubbettino 2011. E. Sereni, Diario (1946-1952), a cura di G. Vecchio, Carocci, Roma 2015. C. Tosco, Beni culturali e paesaggio: una storia italiana, in «Nuova informazione bibliografica», XII, 1, gennaio-marzo 2015, pp. 105-114. G. Vecchio, Introduzione in E. Sereni, Diario (1946-1952), Carocci, Roma 2015. R. Zangheri, Agricoltura e contadini nella storia d’Italia, Einaudi, Torino 1977. R. Zangheri, Presentazione, in E. Sereni, Terra nuova e buoi rossi, Einaudi, Torino, 1981 pp. IX-XIV. 68
LECTIO MAGISTRALIS
Un patrimonio italiano
Giuliano Volpe
Presidente del Consiglio Superiore 'Beni Culturali e Paesaggistici' Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo Gli Italiani parlano di patrimonio culturale
Negli ultimi anni si è discusso di patrimonio culturale più che negli ultimi vent’anni. Dopo anni di disinteresse, accompagnati da tagli indiscriminati e dal blocco delle assunzioni, il patrimonio culturale è diventato, infatti, di grande attualità e ha ricevuto grande attenzione sui giornali, in televisione e sui social media. Si è anche risvegliato il mondo degli specialisti e dei docenti universitari, da troppo tempo un po’ assopito e afono. Qualcuno ricorda discussioni simili a quelle attuali al tempo delle varie riforme precedenti o dell’adozione del Codice dei beni culturali e del paesaggio? È stato questo senza dubbio uno dei risultati importanti da riconoscere all’azione del ministro Dario Franceschini. Un’altra importante novità consiste nel fatto che la riforma del MiBACT, pur avviata sotto il peso della spending review, non sia l’ennesima riorganizzazione amministrativa (una delle tante degli ultimi decenni), ma il frutto di un disegno politico-culturale complessivo, sia pur attuato con varie misure, con alcuni punti fermi: la pari dignità e tra tutela e valorizzazione; la creazione di un sistema museale nazionale; l’autonomia gestionale e scientifica di musei e parchi archeologici; attenzione a educazione e ricerca; la sperimentazione di nuove forme di gestione; il superamento di una visione elitaria della cultura. Le critiche e le proteste, spesso strumentali, in un paese restìo alle novità, sono fisiologiche, ma ancora una volta si traducono in un ‘no’ a qualsiasi cambiamento, senza che si sia avanzata nessuna proposta alternativa, credibile e sostenibile, che non sia la difesa dell’esistente, o la mera (e ovvia) richiesta di più fondi e più personale (certamente necessari, ma non sufficienti).
Valorizzazione e tutela due facce della stessa medaglia I critici dei cambiamenti sostengono che le recenti riforme contraddicano lo spirito e la lettera dell’articolo 9 della Costituzione. Sono convinto esattamente del contrario. È, infatti, necessario superare artificiosi quanto inattuali conflitti 71
tra tutela e valorizzazione, proprio nel nome dell’art. 9, che, al secondo comma, afferma sì che la Repubblica «tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione», ma che nel primo precisa che «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica». Nel dettato costituzionale si lega, cioè, strettamente la tutela alla promozione della cultura e alla ricerca. I padri costituenti (e nello specifico Concetto Marchesi e Aldo Moro) non scelsero a caso le parole ‘Repubblica’ e ‘Nazione’, evitando di utilizzare riduttivamente solo il concetto di ‘Stato’. È questa una cosa spesso ignorata da chi sembra identificare Repubblica (anzi res publica) con Stato, e addirittura con un solo Ministero dello Stato. Dunque non solo la tutela è una responsabilità comune dei cittadini, ma è anche strettamente connessa alla promozione della cultura, con allo sviluppo della conoscenza (che è lo strumento primo per consentire ai cittadini di riappropriarsi del loro patrimonio culturale e per attribuirgli un ‘valore’), alla ricerca, la cui libertà è sancita dall’art. 33 (mentre ancora oggi vigono norme da stato borbonico, ad esempio in materia di ‘concessioni di scavo’). Nel dibattito è emersa una bizzarra (quanto significativa) anomalia: chi difende la sola tutela, continua a sottovalutare la valorizzazione, ritenuta cosa secondaria e sostanzialmente equiparabile a mercificazione, colpevole di macchiare la purezza della cultura. Chi invece, come lo scrivente, ritiene utile e opportuno un riequilibrio e un’integrazione tra le due componenti, non sottovaluta affatto la tutela (come si può valorizzare un bene che non si tutela?), ma semmai chiede una tutela più attiva, più propositiva, più progettuale (come nei moderni Piani Paesaggistici Territoriali, non a caso in grave ritardo nel nostro Paese), insoddisfatto di una vecchia (e ormai del tutto inefficace, com’è sotto gli occhi di tutti) idea di tutela, fatta solo di divieti e di comportamenti polizieschi.
Visione olistica: una rivoluzione La seconda fase della riforma Franceschini ha completato il disegno avviato con la riforma dell’agosto 2014: dopo aver unificato soprintendenze architettoniche e storico-artistiche, ora si accorpano quelle archeologiche, istituendo cioè le soprintendenze uniche (‘Archeologia, Belle Arti e Paesaggio’). Perché? Innanzitutto per una ragione culturale: s’integrano competenze prima frammentate affermando una visione organica, unitaria, globale, olistica del patrimonio culturale, che tutti ormai concordemente considerano un insieme organico, diffuso in tutto il territorio italiano. Ebbene, solo un approccio globale e integrato, realmente multie interdisciplinare, per così dire ‘territorialista’, può consentire di affrontare, nello studio come nella tutela, la complessità di un territorio. È il paesaggio a costituire l’elemento unificante: per questo deve assumere un ruolo centrale nelle politiche di tutela e valorizzazione, mentre si registra ancora un grave ritardo. Le nuove soprintendenze, operanti in ambiti più piccoli, non negano le specializzazioni ma le integrano, prevedendo al loro interno vari settori: archeologia, arte, architettura, paesaggio, beni immateriali, educazione e ricerca. Si tratta organismi di tutela radicati nei territori, più vicini alle comunità locali, in grado di parlare con una voce unica, in maniera più rapida, superando le precedenti sovrapposizioni, che tante volte hanno 72
portato a pareri divergenti, a ritardi, a confusione, a tutto danno del cittadino, degli altri enti pubblici, oltre che del patrimonio. È, però, l’idea che il patrimonio archeologico possa essere distinto da quello architettonico, artistico e soprattutto da quello paesaggistico ad essere metodologicamente insostenibile. Cosa c’è di ‘pericoloso’ per gli archeologi nel lavorare fianco a fianco con architetti, storici dell’arte, demoantropologi? Bisognerà anzi prevedere altre competenze specialistiche: geologi, bioarcheologi, archeometristi, restauratori, informatici, ingegneri, economisti della cultura, esperti di comunicazione, etc. Un problema reale riguarda, però, la formazione e l’aggiornamento dei soprintendenti chiamati a svolgere queste nuove funzioni. Alcune delle preoccupazioni avanzate da varie parti sono, a mio parere, fondate e condivisibili. Si temono i problemi provocati da un nuovo scossone organizzativo su un organismo ormai debilitato, stanco, con personale molto invecchiato (l’età media è ormai pericolosamente vicina a 60 anni), demotivato e privo di mezzi e strumenti operativi. I problemi logistici di riorganizzazione di uffici, archivi, inventari (anche a causa di gravi ritardi nella digitalizzazione) sono gravi, ma tutti risolvibili se ci sarà la volontà. Cosa impedisce, ad esempio, di conservare un laboratorio di restauro o una biblioteca al servizio di tutte soprintendenze territoriali nella stessa regione? Quanto al personale e alle risorse, come ignorare che una svolta è in atto? Il concorso per 500 tecnici-scientifici (poi diventati 1000) ha rappresentato una boccata d’ossigeno: bisognerà proseguire con un turn-over continuo, annuale; anche se siamo ancora lontani da un finanziamento adeguato per i beni culturali, le risorse sono tornate a crescere. È indubbio, però, che difficilmente si sarebbero ottenuti nuovi posti e risorse senza una profonda riforma del sistema. Anch’io non nascondo alcune perplessità. Ritengo, ad esempio, che sarebbe stato preferibile realizzare la riforma in un unico momento nel 2014. In quell’occasione avevo proposto l’istituzione di soprintendenze/direzioni uniche regionali, articolate all’interno in settori/dipartimenti specialistici (come quelli appena introdotti), comprendendo anche il polo museale regionale, e distribuite territorialmente in centri operativi unici. Ma quella proposta forse non fu pienamente compresa e fu unanimemente contrastata, anche da chi poi ha sostenuto che sarebbe stata la soluzione migliore.
La centralità del paesaggio Il paesaggio riflette regole e valori delle comunità. Siamo noi a produrre paesaggi con le nostre scelte, tanto chi governa i processi di trasformazione del territorio, quanto chi vive, lavora, opera in un territorio. In sostanza il paesaggio siamo noi. Quando le scelte producono illegalità, come l’abusivismo, le violazioni ambientali, lo sfruttamento eccessivo di suolo e di risorse, si avviano processi di disgregazione del paesaggio, ai quali corrispondono processi di disgregazione sociale delle comunità, in un drammatico circolo vizioso. Paesaggi degradati e violentati sono non solo l’immagine di una società degradata e violenta, ma sollecitano ulteriore degrado e violenza. L’abusivismo, compreso anche quell’abusivismo di necessità, da tanti ormai 73
tollerato, la cementificazione selvaggia, le opere non finite, le discariche illegali, il consumo di suolo, il degrado diffuso, anche quello fatto di piccole scelte quotidiane come la spazzatura nelle campagne, laddove si è avviato il processo di raccolta differenziata (è questo un fenomeno che al sud conosciamo molto bene). Ecco perché dovremmo porre il paesaggio come una questione centrale nelle scelte di un Paese, di una regione, di una città, di una comunità. Le trasformazioni del territorio con le conurbazioni, con la perdita di relazioni tra le componenti del tessuto insediativo hanno prodotto una omologazione di luoghi, o meglio, come sappiamo bene, la creazione di ‘non luoghi’: le periferie prive di qualsiasi identità, ma anche i centri storici snaturati e svuotati degli abitanti e delle piccole attività economiche tradizionali, trasformati, a seconda dei casi in sequenze di pub, ristoranti, B&B, o lasciati al degrado e occupati solo da immigrati e persone in grande difficoltà; le distese di anonimi capannoni, le sequenze di centri commerciali con ampi parcheggi, i vuoti considerati come intollerabili, spazi da riempire che diventano inevitabilmente un luogo di emarginazione e di disagio sociale. Ecco allora che la riqualificazione dei paesaggi, soprattutto se condotta con azioni fatte di partecipazione, costituisce un importante fattore di rigenerazione sociale e un efficace strumento di riproposizione di legalità, capaci di rafforzare il senso di appartenenza delle comunità e di divenire un elemento trainante per la riscoperta e la valorizzazione di contesti sociali ed economici di cui si è perso il valore. Dovremmo, quindi, affermare anche un’etica del paesaggio, ben al di là della visione estetica a lungo prevalente. Elemento essenziale in questo processo sono la conoscenza diffusa e la partecipazione, elementi necessari perché si sviluppi una coscienza di luogo e si costituiscano quelle ‘comunità di patrimonio’ indicate dalla Convenzione di Faro.
Musei, luoghi di ricerca, educazione e diletto La vera rivoluzione nel campo dei beni culturali consiste nella necessità di porre il cittadino e il visitatore al centro dell’attenzione. Si pensi, a tale proposito, ai nostri musei, ai parchi archeologici e ai luoghi della cultura, ancora troppo spesso non ospitali, esclusivi, respingenti, privi di servizi essenziali (non a caso ancora oggi definiti ‘aggiuntivi’) e di supporti didattici adeguati, legati all’uso di un insopportabile linguaggio iper-tecnicista, incomprensibile, che provoca spesso nel visitatore un senso di inadeguatezza e di spaesamento. Rari (anche se sempre più diffusi) sono i casi di comunicazione chiara, efficace, coinvolgente, emozionante, capaci di un uso intelligente delle tecnologie. Prevale, infatti, ancora oggi un’impostazione elitaria dei musei e dei luoghi della cultura (fortemente difesa anche da intellettuali ‘democratici’). Troppo a lungo i musei sono stati considerati (e ancora sono considerati da alcuni) ‘chiese’ - laiche, ma pur sempre chiese - delle quali una ‘casta sacerdotale’ (gli specialisti) si ritiene non solo proprietaria ma anche l’unica categoria legittimata a riconoscerne il valore. Servirebbe, pertanto, un approccio realmente più laico e meno sacralizzato (che non significa affatto irrispettoso o incolto) ai luoghi della cultura.
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‘Pezzo da museo’ designa, non a caso, nella lingua italiana, come ha fatto notare Pio Baldi, qualcosa di vecchio e ormai inutile: Il museo è una istituzione permanente, senza scopo di lucro, al servizio della società e del suo sviluppo. È aperto al pubblico e compie ricerche che riguardano le testimonianze materiali e immateriali dell’umanità e del suo ambiente; le acquisisce, le conserva, le comunica e le espone a fini di studio, educazione e diletto, promuovendone la conoscenza presso il pubblico e la comunità scientifica. È questa la definizione di museo proposta dal decreto ministeriale Franceschini del dicembre 2014, che di fatto recepisce interamente la definizione data dall’ICOM. È un bel passo in avanti rispetto al Codice dei Beni Culturali, che definisce il museo una struttura permanente che acquisisce, conserva, ordina ed espone beni culturali per finalità di educazione e di studio: all’‘educazione e studio’, si aggiunge cioè il ‘diletto’ (enjoyment), all’ambiente si accosta alle testimonianze materiali e immateriali e si sottolinea, infine, la funzione sociale del museo, al servizio dello sviluppo di una comunità. Ecco perché è necessario, recuperando un ritardo assai grave, dar vita finalmente a un sistema museale nazionale, attribuire autonomia gestionale, organizzativa e scientifica ad una serie di grandi musei, diretti da direttori selezionati con un bando internazionale e dotati di consigli di amministrazione e di comitati scientifici, istituire i poli museali regionali che dovranno legare i musei statali alla ricca rete di musei civici, diocesani, privati. Bisogna cambiare l’idea stessa di museo, vitale, con servizi adeguati, con un uso sapiente delle tecnologie, capaci di proporre un racconto, di emozionare, di far provare ‘diletto, di elevare il livello culturale, di contribuire al miglioramento della qualità della vita.
Più privato non significa meno Stato Altra contrapposizione ormai anacronistica è quella tra pubblico e privato: si tratta di un falso problema, perché il reale conflitto è tra interesse privato e interesse pubblico: e non c’è dubbio che quest’ultimo vada sempre difeso e garantito, anche quando la gestione dovesse essere affidata a privati. Non si tratta, quindi, di chiedere meno Stato e più privato, ma, al contrario, più Stato e più privato. Con uno Stato (ma lo stesso vale per Regioni e Comuni) che non deroghi ai propri doveri, ma che svolga una funzione di indirizzo, di controllo, di valutazione, fissando regole trasparenti e facendole rispettare. Si tratta, cioè, di abbandonare definitivamente quella pericolosa concezione ‘proprietaria’, che è alla base anche di un vero conflitto di interesse tra indirizzo-controllo e gestione, ancora oggi nelle stesse mani, e di favorire le tante energie e creatività presenti nei vari territori, sostenere la nascita e il consolidamento di mille iniziative diverse, indirizzandole, coordinandole, monitorandole. Si sono andate sviluppando, in maniera spontaneistica, da parte di fondazioni, piccole società, cooperative, singoli professionisti, associazioni, spesso con l’opposizione delle istituzioni, decine di esperienze di gestione ‘dal basso’ di beni culturali, che andrebbero favorite e sostenute. Sarebbe questo un modo per far sviluppare numerose nuove occasioni di lavoro qualificato, in particolare per i tanti giovani formati nelle Università, con indubbi vantaggi anche per lo sviluppo di un vero turismo culturale, 75
oggi assai poco organizzato e strutturato, che rappresenta indubbiamente uno dei principali assi di sviluppo del nostro Paese, e in particolare delle regioni del Mezzogiorno. Mi limito a citare, restando proprio nelle regioni meridionali, non solo, esperienze ormai affermate come quelle del FAI (ad esempio il bel parco della Kolymbethra di Agrigento), ma ‘piccoli’ esempi positivi, come le catacombe di San Gennaro con la cooperativa sociale ‘La paranza’, o il Monastero dei Benedettini di Catania con le ‘Officine culturali’ o i siti archeologici di Canosa con la ‘Fondazione Archeologica Canosina’, e decine di altri casi. Il nostro Paese dispone di una serie di energie, di creatività, di competenze, di voglia di fare, fatta di fondazioni, associazioni, di professionisti, formati nelle nostre università e che ancora oggi non hanno lo sbocco lavorativo che meritano. C’è bisogno di un maggiore sostegno da parte delle istituzioni. Servirebbe anche un’azione di coordinamento dei soggetti che operano nei territori in maniera occasionale, spesso volontaristica e – diciamolo – spesso con l’ostilità delle istituzioni. Se posso fare un piccolo esempio tratto dal mondo dell’informatica, direi che abbiamo uno straordinario hardware, che è il patrimonio culturale, che è il paesaggio; abbiamo uno straordinario software, fatto dalle energie presenti nella società italiana. Serve uno strumento operativo, cioè un sistema che fa funzionare l’hardware e che valorizza tutte le potenzialità del software. Oggi nessuno più userebbe il vecchio MS-DOS per far funzionare un potente computer con gli attuali software. Servono sistemi operativi adeguati. Ecco il ruolo, a mio parere, del Ministero dei beni culturali e anche del Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca; è questo anche il ruolo degli specialisti. Siamo noi che dobbiamo connettere hardware e software, facendo in modo di colmare questa separazione che si è venuta a creare nel corso del tempo tra patrimonio culturale e cittadini. In sintesi, bisogna investire sulle forme di gestione dal basso del patrimonio culturale e sulle forme di lavoro qualificato. È questo un invito all’etica della responsabilità (e non solo a quella dei principi sostenuta da certi soloni) e ad una alleanza tra le istituzioni e i cittadini.
La Convenzione di Faro: una nuova concezione del patrimonio culturale Questa visione, profondamente innovatrice, è coerente con le principali tendenze internazionali in materia di patrimonio culturale, a partire dalla rivoluzionaria Convenzione di Faro – da noi ancora poco nota -, che ha introdotto un concetto innovativo di ‘eredità culturale’, un insieme di risorse ereditate dal passato che le popolazioni identificano, indipendentemente da chi ne detenga la proprietà, come riflesso ed espressione dei loro valori, credenze, conoscenze e tradizioni, in continua evoluzione e di ‘comunità di eredità’, un insieme di persone che attribuisce valore ad aspetti specifici dell’eredità culturale, e che desidera, nel quadro di un’azione pubblica, sostenerli e trasmetterli alle generazioni future. Si tratta di un vero ribaltamento di prospettiva, che pone al centro i cittadini, le comunità locali, le persone. Come sottolinea la Convenzione di Faro chiunque da solo o collettivamente ha diritto di contribuire all’arricchimento dell’eredità culturale, ed è dunque necessario che i cittadini partecipino al processo di identificazione, studio, interpretazione, protezione, conservazione e presentazione dell’eredità culturale 76
nonché alla riflessione e al dibattito pubblico sulle opportunità e sulle sfide che l’eredità culturale rappresenta. Protagoniste sono le persone, per cui bisogna promuovere azioni per migliorare l’accesso all’eredità culturale, in particolare per i giovani e le persone svantaggiate, al fine di aumentare la consapevolezza sul suo valore, sulla necessità di conservarlo e preservarlo e sui benefici che ne possono derivare. Come ha evidenziato Massimo Montella, la Convenzione indicando il diritto, individuale e collettivo, a trarre beneficio dall’eredità culturale e a contribuire al suo arricchimento, rende esplicita la necessità che l’eredità culturale sia finalizzata all’arricchimento dei processi di sviluppo economico, politico, sociale e culturale e di pianificazione dell’uso del territorio, .... Pertanto l‘idea di patrimonio culturale proposta a Faro postula un valore che è d’uso e vede nella valorizzazione il fine e la premessa della tutela, perché il patrimonio culturale deve essere finalizzato ad elevare la qualità di vita immateriale e materiale delle persone e perché non potrà essere conservato contro la volontà della collettività. Non contrappone, dunque, economia e cultura, ma le ritiene anzi convergenti e coincidenti perfino. Come ha opportunamente sostenuto di recente Daniele Manacorda, si passa, finalmente, dal ‘diritto del patrimonio culturale’ al ‘diritto al patrimonio culturale’. Una concezione così ampia e dinamica di eredità/patrimonio culturale produce a cascata una revisione profonda di visioni tradizionali, che da anni bloccano il dibattito in sterili contrapposizioni. Si archivia, infatti, l’idea del ‘valore in sé’, statica, immobile e immodificabile, del patrimonio culturale, per proporre una idea di ‘valore relazionale’. Si supera l’idea di un’eredità/patrimonio ricevuto dai nostri padri, da conservare e curare, e da trasmettere ai nostri figli, che ha finito per attribuire a noi un mero ruolo di trasmettitori. Il patrimonio culturale, al contrario, andrebbe riconquistato, conosciuto, apprezzato, arricchito di nuovi significati. Vissuto, insomma. Con responsabilità, con rispetto, con amore, ma vissuto! Purtroppo però la Convenzione di faro non è stata ancora ratificata dal nostro parlamento. Nei decenni passati ci siamo forse occupati molto più di ‘diritto del patrimonio culturale’ che di ‘diritto al patrimonio culturale’, e mi preme sottolineare in questa occasione che l’introduzione delle Soprintendenze uniche a base territoriale va nella direzione sia di avvicinare gli istituti di tutela ai territori sia di porre il paesaggio al centro delle politiche di tutela, con la possibilità di incrociare tutte le competenze disciplinari in una visione che mi piace chiamare olistica del patrimonio culturale, che vede nel contesto paesaggistico l’elemento essenziale. Dovremmo passare definitivamente da una tutela passiva, fatta solo di vincoli e divieti necessari (assolutamente necessari, sia ben chiaro: non voglio sminuire l’importanza di questi strumenti), ad una tutela attiva, attuando i piani paesaggistici, ma soprattutto favorendo quella tutela sociale, fatta di consapevolezza, di partecipazione, di economia sana e pulita, di lavoro qualificato. Sono convinto (lo dico per aver attraversato l’Italia e scoperto tante realtà attive, tante energie, tanto entusiasmo, tante capacità, tanta voglia di fare) che queste energie attendano solo di essere sostenute; è un entusiasmo che desidera solo di essere messo alla prova. C’è nella nostra società una voglia di partecipazione - lo chiamerei un ottimismo della volontà - che viene da grandi fondazioni o da società pubbliche, da piccole associazioni, da giovani professionisti, ed è questo a mio parere il vero patrimonio italiano. 77
Ecco perché tutte le misure che incentivino le forme di partecipazione sono da sostenere. Ho conosciuto soprattutto al sud straordinarie potenzialità e forme innovative di gestione dal basso, che però spesso vengono messe in difficoltà (mi spiace dirlo) a volte anche dalle stesse istituzioni. Parlando di tutela sociale, come si fa a tutelare i paesaggi come quelli terrazzati o quelli dei muretti a secco se non con il lavoro e con la vita in questi territori? I vantaggi sono numerosi e sono di varia natura e mi limito a indicarne solo alcuni: 1. 2. 3. 4.
la crescita occupazionale; lo sviluppo di forme di micro economia sana, pulita; il recupero di soggetti a rischio e il loro inserimento nel lavoro; la crescita della sicurezza urbana e rurale.
Il caso del Rione Sanità è certamente il più significativo - e non è un caso che qui oggi con noi ci sia padre Antonio Loffredo - ma non è l’unico, al sud come in altre parti d’Italia. Sono questi secondo me i temi di cui dovremmo occuparci, sostenendo non con l’assistenza o – peggio ancora – con l’assistenzialismo, con fondi assegnati a pioggia, ma con un’azione di indirizzo, di valutazione, con servizi, con un’attività di consulenza, con la rapidità delle autorizzazioni, con la trasparenza delle procedure. Si tratta a mio parere di adottare i metodi della social innovation applicati al patrimonio culturale. Girando l’Italia e conoscendo questa realtà ho imparato che ci sono tanti rischi di insuccesso e che il successo è possibile solo se ogni iniziativa è in grado di stabilire un’alleanza con la comunità locale e costruire una rete di collaborazioni trasversali, se al centro c’è la qualità del progetto e la qualità professionale delle persone coinvolte, se le entrate sono in grado di garantire autonomia da ogni forma di dipendenza, se la partecipazione ai fondi e ai finanziamenti pubblici non si trasforma addirittura in un rischio, se si è in grado di garantire una sostenibilità nel tempo. Spesso ho conosciuto casi in cui, in attesa di rendicontazioni e di erogazioni dei contributi, a fronte di mutui contratti da piccole società e da piccole associazioni per realizzare un progetto, si è avuta la crisi del progetto stesso e della società o della piccola associazione. C’è bisogno di creare sempre più reti e alleanze. Dovremmo pensare ad una nuova funzione di noi specialisti del patrimonio culturale e del paesaggio, per evitare il rischio di restare vittime della nostra aristocratica tradizione, spesso chiudendoci in un fortino, sentendoci minacciati e circondati da nemici. Ma chi sono i nemici e gli assedianti? I cittadini per i quali in realtà operiamo? Dovremmo aprirci, abbandonare i corporativismi, uscire dagli specialismi settoriali, dialogare con gli altri saperi, comunicare in maniera chiara e appassionata, insomma rimetterci in gioco, soprattutto sviluppando la partecipazione attiva e stabilendo un rapporto diretto con la cittadinanza. In definitiva, dovremmo imparare ad occuparci non solo delle cose e dei luoghi, ma anche e soprattutto delle persone.
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Da quasi un ventennio saremmo nel terzo millennio ma c’è chi non se ne è accorto! Aggiustamenti, miglioramenti e completamenti saranno necessari, per esempio, correggendo alcune anomalie nel rapporto tra soprintendenze e poli museali, coordinando meglio archivi, lavoratori, competenze a livello territoriale, sviluppando un rapporto più stretto e integrato tra soprintendenze e università (con i cd. ‘policlinici dei beni culturali’), ecc. Il vero riformismo produce riforme progressive, anche imperfette, bisognose di aggiustamenti successivi. La riforma perfetta è quella che non si realizza mai! C’è, però, da augurarsi, in conclusione, che non s’ignorino le critiche fondate, che si sviluppi un confronto, che si avanzino proposte concrete per una migliore applicazione delle riforme, e soprattutto che si evitino le barricate e la criminalizzazione di chi la pensa in modo diverso. E soprattutto che si torni indietro. C’è, infatti, bisogno dell’impegno di tutti per entrare finalmente nelle politiche del patrimonio culturale del terzo millennio. Ho trattato questi temi in varie mie pubblicazioni. Rinvio in particolare a Patrimonio al futuro. Un manifesto per i beni culturali e il paesaggio, Electa, Milano 2015 e Un patrimonio italiano. Beni culturali, paesaggio e cittadini, Utet, Novara 2016.
Appendice Ho ritenuto utile completare questo mio intervento negli atti della Summer School con il testo della relazione da me presentata a conclusione del mio mandato.
Relazione del Presidente prof. Giuliano Volpe in occasione dell’ultima seduta del Consiglio superiore ‘Beni culturali e paesaggistici’, triennio 2015-2018 (11 giugno 2018) È con una certa emozione che cerco di tracciare, sia pur sinteticamente, un bilancio del lavoro svolto dal Consiglio superiore ‘Beni culturali e paesaggistici’ durante la mia presidenza nel triennio compreso tra il 16 giugno 2015 e il 16 giugno 2018. In verità il periodo di attività complessiva della mia presidenza è maggiore, comprendendo sia la fase finale del precedente Consiglio, tra aprile e luglio del 2014 (DM 14 aprile 2014), e anche la fase intercorsa fino all’insediamento il 16 giugno 2015 del nuovo Consiglio, nominato con il DM 19 febbraio 2015 (che ha designato anche i membri dei Comitati tecnico-scientifici), in attesa della designazione dei rappresentanti eletti del personale, avvenuta con DM 9 giugno 2915, a seguito del quale il CS ha finalmente raggiunto la sua composizione completa. Il CS si è dotato di un Regolamento interno (16.5.2016), che ha previsto anche alcune novità rispetto al passato, come la partecipazione in modalità telematica e la pubblicazione sul sito web di ampi resoconti dei verbali. Nel triennio il Consiglio ha tenuto 38 riunioni, tre delle quali straordinarie e pubbliche rispettivamente a Paestum (29.10.2015), a Mantova (12.11.2016) e a Matelica (20.3.2017), oltre a due sopralluoghi, a Pompei (28.10.2015) e a SpoletoNorcia (10.11.2017), sempre conclusi con specifiche mozioni: a Paestum sul 79
patrimonio culturale e lo sviluppo sostenibile del Sud; a Mantova sul futuro delle città d’arte; a Matelica sull’importanza del patrimonio culturale per la vita delle comunità colpite dal terremoto. Il primo elemento che sento di sottolineare riguarda proprio lo sforzo fatto per stabilire sempre di più un ponte tra il MiBACT e l’esterno: una missione che ritengo propria del CS, coerente e non alternativa a quella di organo consultivo del Ministro. L’abbiamo fatto con le sedute pubbliche svolte al di fuori del Collegio Romano, con i sopralluoghi, con i tanti incontri, con gli interventi pubblici, le audizioni, i documenti e le mozioni. L’abbiamo fatto con la pagina web del CS, per la prima volta istituita all’interno del sito web del Ministero, con la pubblicazione di ampi resoconti delle nostre riunioni, dei documenti e delle mozioni (http://www. beniculturali.it/mibac/export/MiBAC/sito-MiBAC/MenuPrincipale/Ministero/ Consiglio-Superiore/index.html). Ho personalmente girato in Paese in lungo e in largo in questi anni, partecipando a oltre cento incontri per discutere di patrimonio culturale, per illustrare e spiegare le riforme ma anche e soprattutto per ascoltare, per ricevere indicazioni, suggerimenti, critiche. Se posso indicare alcuni limiti di questo Ministero, questi sono la sua eccessiva chiusura in se stesso, la distanza tra centro e periferia, la scarsa capacità e volontà di confronto e di ascolto, la quasi totale incomunicabilità, al centro come in periferia, tra pezzi dello stesso Ministero. In questo contesto, il Consiglio ha cercato di mitigare tali limiti, a volte anche surrogando compiti altrui. Questo Consiglio ha svolto la sua attività in un momento complesso, non semplice, caratterizzato da grandi, radicali, trasformazioni del mondo dei beni culturali nel quadro di più complessivi cambiamenti epocali in Italia e non solo. Tra il 2014 e il 2018 il MiBACT ha cambiato profondamente la propria organizzazione interna con le riforme radicali promosse dal Ministro Dario Franceschini, che hanno suscitato consensi e opposizioni, apprezzamenti e critiche. Le recenti riforme hanno inciso profondamente nella stessa visione del patrimonio culturale e del suo valore per la società del terzo Millennio: ci sono ancora molti problemi irrisolti e non mancano anche errori, quasi fisiologici nelle riforme radicali, che mi auguro il nuovo Ministro Alberto Bonisoli voglia correggere, ma senza stravolgerne il progetto culturale. Auspico, cioè, che un governo che si è definito ‘del cambiamento’ eviti il rischio di rappresentare la restaurazione nel campo del patrimonio culturale. Il Consiglio, con una pluralità di posizioni e di visioni, che sempre hanno potuto trovare espressione libera e rispettosa delle differenze, ha accompagnato questo processo, non facendo mancare mai il suo parere, offrendo suggerimenti e indicazioni, ma anche segnalando problemi, difficoltà, ritardi. Credo che abbia svolto realmente una funzione di indirizzo e di consulenza. Ha operato non solo su richiesta del Gabinetto e, per il suo tramite, del Segretariato Generale e delle Direzioni Generali, ma anche assumendo iniziative autonome, come prevede l’art. 25 c.3 del DPCM 171. Anche per questo sono personalmente molto grato al Ministro Franceschini che ha sempre auspicato e sostenuto l’iniziativa propositiva del Consiglio.
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È assai difficile, e forse anche inutile, riepilogare tutte le questioni affrontate e le iniziative assunte in questi anni. Rileggere i verbali, sempre molto analitici, delle sedute, ripercorrendo tutti i temi affrontati, offre la visione di una straordinaria ricchezza del dibattito e delle proposte via via avanzate. Ricordo, quindi, solo alcune questioni (si rinvia al sito web per i documenti e le prese di posizione). Programmazioni e pareri obbligatori. Un’attenzione particolare è stata riservata alle programmazioni finanziarie, rispetto alle quali il Consiglio non ha mai svolto una funzione meramente notarile, proponendo sia la definizione di un quadro generale delle programmazioni sia misure per qualificare maggiormente la spesa e per superare criteri ‘storici’ nella distribuzione delle risorse. Si è espresso, inoltre, a proposito dei contributi ai proprietari di beni culturali, dei piani per l’arte contemporanea (4.8.2015, 20.6.2016), del Progetto Italian Council (19.3.2018), e ha esaminato pareri sulle tante richieste di parere sottoposte su vari argomenti, come il Piano per l’educazione al patrimonio (14.12.2015, 10.4.2017 e 11.6.2018), le Linee guida sull’archeologia preventiva (14.12.2015), le Linee guida per i prestiti di beni culturali (18.4.2016), il Documento per l’attestato di libera circolazione (16.10.2017), il Piano strategico del Turismo (22.2.2016 e 14.11.2016). Soprintendenze e tutela. L’attenzione alla tutela ha rappresentato un tema ricorrente, affrontato praticamente in tutte le sedute, esprimendo preoccupazione per lo stato di difficoltà delle strutture periferiche a causa della scarsezza di personale e mezzi, sollecitando maggiori risorse per le attività ordinarie e per la manutenzione programmata, seguendo con attenzione il passaggio dalle soprintendenze settoriali a quelle uniche a base territoriale. A tale proposito si ricordano anche i decisi interventi del CS a proposito del ‘silenzio-assenso’ introdotto dalla Legge Madia (lettera del 30.6.2015 e mozioni del 14.7.2015 e 4.8.2014). Musei e valorizzazione. Il Consiglio ha affrontato in molte occasioni le questioni relative alla riforma dei Musei, anche grazie alla designazione di uno dei componenti dei Comitati scientifici dei musei dotati di autonomia. A questo proposito ha ritenuto anche di intervenire con una mozione per sollecitare un migliore funzionamento di tali organismi scientifici (20.2.2018). Un’attenzione particolare è stata riservata non solo alla rete complessiva dei musei e dei parchi archeologici statali attribuiti ai Poli regionali, con una seduta specifica sul Sistema Museale Nazionale (19.3.2018), con un’audizione del DG Antonio Lampis, alla presenza dei Direttori dei Poli Museali regionali, ma anche ai musei civici e, specificamente, al problema degli ex Musei provinciali e del loro difficile passaggio alle Regioni (14.12.2015), perché fosse salvaguardato un patrimonio importante in particolare nelle regioni meridionali. Paesaggio. Il Consiglio ha sempre attribuito una centralità al paesaggio, sollecitando in particolare la predisposizione dei Piani paesaggistici (22.2.2016), per promuovere una visione complessiva, organica del patrimonio culturale e a favore di una tutela più contestuale, legata alla pianificazione territoriale e urbanistica, con le audizioni per i Piani Paesaggistici della Puglia (14.10.2013), della Toscana (29.4.2014), del Piemonte (19.12.2016) e del Friuli VG (12.6.2017), il sostegno dato all’Osservatorio Nazionale, agli Stati Generali del Paesaggio, alla Carta Nazionale del Paesaggio (19.2.2018). 81
Biblioteche e Archivi. Il Consiglio ha riservato una particolare attenzione a questi settori del patrimonio culturale, tradizionalmente meno favoriti, anche con due specifiche mozioni (12.10.2015 e 16.11.2015), che hanno recepito le proposte di due gruppi di lavoro costituiti d’intesa con le rispettive DG. Una seduta monografica è stata dedicata alle Biblioteche (13.11.2017). Personale. Il Consiglio ha sollecitato in molte occasioni l’assunzione di nuovo personale, apprezzando e sostenendo lo sforzo del Ministro per il concorso dei 500 (poi diventati 1.000) tecnici scientifici (22.2.2016). Il Consiglio si è battuto per la definizione di alti standard qualitativi nei requisiti di ammissione (anche con una mozione contro la proposta di prevedere solo le lauree triennali come titoli di accesso, 16.11.2015) e chiedendo concorsi con cadenza regolare e anche con nuove procedure selettive, sia per il personale tecnico-scientifico sia per quello tecnico e amministrativo e anche per i dirigenti (mozione del 20.2.2017). In generale si è dato grande rilievo al tema dei profili professionali dei beni culturali (14.3.2016), con particolare riferimento alle figure dei restauratori (20.2.2017 e 10.4.2017). A tale proposito si segnala anche l’attenzione per il DM sulle professioni dei beni culturali, in applicazione della legge 110/2014 (15.5.2018 e 11.6.2018). Il Consiglio ha, inoltre, sollecitato un’azione di formazione permanente del personale, auspicando un tale ruolo per la Scuola Nazionale del Patrimonio. Della Scuola il CS si è occupato in due occasioni, in particolare nella seduta del 16.5.2018, apprezzando il progetto ma anche esprimendo critiche e preoccupazioni. Convenzione di Faro. Il Consiglio si è molto speso per la sua ratifica da parte del Parlamento; sono stati approfonditi vari aspetti, anche nel confronto con l’Ufficio Legislativo (18.4.2016), e tale lavoro ha indubbiamente favorito il superamento di alcune perplessità, facendo in modo che il Ministero sottoponesse l’adozione della Convenzione al Consiglio dei Ministri, poi trasmessa per iniziativa dei Ministri Alfano e Franceschini al Parlamento, che purtroppo non l’ha ratificata nella scorsa legislatura (mozione del 19.12.2017); l’auspicio del Consiglio è che l’attuale Parlamento possa porre la ratifica della Convenzione di Faro tra i primi suoi atti. Pompei. Il Grande Progetto Pompei e il nuovo assetto organizzativo del Parco sono stati molto seguiti dal Consiglio anche con un’audizione del Direttore prof. Massimo Osanna (22.1.2018), dopo quella del luglio 2014, oltre che con il citato sopralluogo del 2015, nella consapevolezza che a Pompei si giocasse una partita particolarmente importante anche per la credibilità del Paese nei confronti dell’Europa e del mondo intero. MIUR-MiBACT. Il 19 marzo 2015 è stato sottoscritto un importante protocollo tra i due ministeri. In applicazione di quel protocollo, il Consiglio ha avviato una positiva collaborazione con il Consiglio Universitario Nazionale, organizzando una specifica riunione congiunta dei due Consigli il 12 luglio 2017, alla presenza dei due Ministri, Valeria Fedeli e Dario Franceschini, per analizzare le possibili forme di collaborazione sistematica, a oltre 40 anni dalla nascita del Ministero dei Beni Culturali per gemmazione dal Ministero della Pubblica Istruzione. Si è istituita una commissione paritetica dei due Consigli che ha prodotto una relazione con la proposta sia di un 82
miglioramento dei percorsi universitari nel campo dei beni culturali a partire dalla definizione dei profili professionali da formare sia della sperimentazione di strutture miste tra Università e istituti periferici del MiBACT, i cd. ‘policlinici del patrimonio culturale’, denominati ‘Unità integrate territoriali per il patrimonio culturale’. La relazione, trasmessa ufficialmente ai due ministri il 5 febbraio 2018, è disponibile sulla nostra pagina web (http://www.beniculturali.it/mibac/multimedia/MiBAC/documents/1522755766034_Relazione_CSBCP-CUN.pdf ), oltre che sul sito del CUN (https://www.cun.it/uploads/6791/Relazione_CSBCP-CUN.pdf?v). Non posso nascondere la mia delusione nel registrare, al termine del nostro mandato, che il lavoro di questa Commissione non abbia avuto il seguito sperato e che l’accordo tra i due Ministeri non sia stato sottoscritto. Terremoto e patrimonio culturale. È stato uno dei temi centrali di questi anni, anche a seguito dei tragici eventi dell’Italia centrale, dopo i terremoti dell’Abruzzo e dell’Emilia Romagna (14.11.2016). Le modalità di intervento sul patrimonio culturale colpito dai terremoti e da altre calamità, l’azione di prevenzione e messa in sicurezza e, in generale, il ruolo centrale che il patrimonio riveste per la conservazione delle identità territoriali e la rinascita dei luoghi e delle comunità sono state al centro dell’azione del Consiglio, che ha anche avanzato proposte operative come la costituzione di una specifica funzione dedicata al patrimonio culturale nella Protezione Civile. Importanti in tal senso sono state la mozione di Matelica (20.3.2017) e quella approvata a seguito del sopralluogo a Spoleto-Norcia (13.11.2017). Più recentemente il Consiglio ha dato vita, insieme al Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, a un gruppo di lavoro che ha predisposto un importante documento di indirizzo, preliminare alla revisione delle ‘Linee guida per la valutazione e riduzione del rischio sismico del patrimonio culturale’, trasmesso ai ministri Franceschini e Del Rio il 19.3.2018 (http://www. beniculturali.it/mibac/multimedia/MiBAC/documents/1526551285629_MIT_MiBACT_FINALE_1.pdf ). Anche in questo caso il lavoro della Commissione non ha avuto l’esito sperato. Liberalizzazione delle immagini. Il Consiglio ha offerto un pieno e convinto sostegno alla battaglia per la liberalizzazione delle immagini nei musei e poi anche nelle biblioteche e negli archivi, con ben tre mozioni sul tema (15.7.2014, 16.6.2016 e 19.12.2017) e un approfondimento sulla riforma delle riproduzioni dei beni culturali (16.5.2016). Sono stati discussi, infine, anche temi sollecitati dall’esterno, come la situazione del personale tecnico scientifico nelle soprintendenze, musei e parchi della Regione Sicilia (14.9.2015), il tema delle concessioni di scavo, con l’audizione dei Presidenti delle Consulte Universitarie di Archeologia (14.3.2016), il problema della tutela dei beni paleontologici con l’audizione del Presidente della Società Paleontologica Italiana (23.5.2917), il documento ICOM Italia sull’archeologia e i paesaggi culturali, con l’audizione della Presidente di ICOM Italia (19.3.2018).
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Come ho già precisato, la nostra attività si è svolta nel quadro delle riforme del Ministro Franceschini. A conclusione di tale processo è possibile indicare qualche personale spunto di riflessione, sia pur schematico. Una valutazione approfondita sarà possibile, credo, solo tra alcuni anni. C’è un grande interesse per il patrimonio culturale e c’è una grande voglia di confronto. Forse mai come in passato. Lo testimonia anche la ricca produzione di libri e articoli dedicati a questi temi oltre alla quotidiana attenzione della stampa. Questo è un dato assolutamente importante, che andrebbe salutato con soddisfazione da tutti, sia da chi è favorevole sia da chi è contrario alle riforme. In generale ho potuto verificare che il mondo delle associazioni, dei professionisti dei BC, dei volontari, delle persone interessate alla cultura, insomma dei ‘semplici cittadini’, è molto bendisposto e sostanzialmente condivide i cambiamenti in atto, mostra fiducia nelle riforme, pur esprimendo a volte perplessità o indicando alcuni esempi di cattiva gestione. Invece tra gli ‘addetti ai lavori’ prevalgono opposizioni e riserve: fortissime tra il personale del MiBACT (ovviamente anche con eccezioni significative), tra i colleghi universitari e anche tra i professionisti. Chi tra gli ‘addetti ai lavori’ si dichiara favorevole (non sono pochissimi, anche se ancora una minoranza) condivide lo spirito e la filosofia delle riforme, ma apprezza molto meno la loro applicazione. C’è, dunque, un problema serio di distanza tra il progetto e la realtà, da tenere in grande considerazione. Bisogna, però, tener conto anche del poco tempo ancora trascorso: due-tre anni sono periodo troppo breve rispetto a oltre un secolo in cui si è costruito, dall’Unità d’Italia in poi, il modello di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale che si sta cercando di cambiare. In molti, tra il personale del MiBACT, soprintendenti, funzionari, direttori musei, hanno lamentato uno scarso dialogo. Penso che abbiano ragione anche se in realtà occasioni di confronto e dibattito ci sono state: non posso non segnalare, a tale proposito, una certa incapacità di contribuire alla costruzione di nuove e più efficaci forme di tutela e valorizzazione del patrimonio. In generale, ancora oggi, non sono note proposte alternative che non siano il ritorno alle soprintendenze settoriali e disciplinari e alla vecchia situazione dei musei dipendenti dalle soprintendenze. In ogni caso, il confronto e il dialogo (quando non è fatto solo per rinviare le scelte e per non decidere nulla) sono necessari. Se si escludono gli incorreggibili oppositori, quelli contrari per partito preso, i detentori iper-ideologici di certezze granitiche, la gran parte dei colleghi ha interesse a far funzionare le strutture nelle quali lavora ed è bendisposta a collaborare. Partendo anche da posizioni distanti, attraverso il confronto e l’ascolto, le distanze si riducono, si stabilisce un rapporto di maggiore fiducia. La promozione del lavoro di squadra rappresenta uno dei temi principali, finora non affrontati adeguatamente. I trentadue musei autonomi hanno ancora moltissimi problemi (soprattutto quelli della seconda tornata: alcuni di questi sono ancora privi di mezzi, di personale o anche di una vera sede). Ma in generale al momento, pur tra alti 84
e bassi, in un panorama variegato tra chi sta facendo bene o benissimo e chi fa meno bene, i musei autonomi rappresentano la parte che sta funzionando meglio della riforma. Anche in questo caso, però, si lamentano uno scarso indirizzo centrale e pochi sostegni concreti. Ritengo che siano ancora dotati di una autonomia troppo limitata. L’autonomia, strettamente legata alla responsabilità e a rigorose procedure di valutazione, dovrebbe, a mio parere, essere ampiamente accresciuta, anche nella gestione e nel reclutamento del personale, e dovrebbe tendenzialmente essere estesa a tutti gli istituti del Ministero. Le soprintendenze uniche, tra mille difficoltà e problemi, cominciano lentamente a funzionare. In alcuni casi abbastanza bene, in altri in maniera decisamente problematica (in particolare le sedi di nuova istituzione, ancora quasi prive di tutto). Hanno vari problemi di gestione, per archivi, laboratori, magazzini. Il personale delle precedenti soprintendenze comincia a poco a poco a lavorare maggiormente insieme (in alcuni casi, la mancanza ancora di sedi fisiche uniche costituisce una seria difficoltà per far lavorare insieme i vari funzionari). Tutte attendono con ansia l’arrivo di nuovi funzionari e anche di personale tecnico e amministrativo. I settori in cui si articolano le soprintendenze uniche funzionano ancora poco quasi dappertutto. In generale stenta ad affermarsi una capacità-volontà di lavoro d’équipe e solo pochi soprintendenti sanno realmente svolgere la nuova funzione di coordinamento. Di fatto stanno imparando il nuovo lavoro di soprintendente unico ‘a loro spese’, senza un supporto reale. Servirebbero, invece, una formazione specifica e soprattutto un forte indirizzo dal centro. I conflitti principali sono con i Poli, soprattutto da parte degli archeologi, per le questioni relative ai materiali di scavo, ai magazzini, alle autorizzazioni. Questa situazione sta producendo anche conseguenze negative per i permessi di studio, per l’accesso ai dati e ai materiali per gli studiosi, frastornati tra Poli e Soprintendenze. Private dei musei statali, le Soprintendenze stanno in alcuni casi riversando il loro interesse sui musei civici: una cosa positiva e negativa al tempo stesso, perché si rischia di ingabbiare realtà che dovrebbero invece sperimentare nuove forme di gestione. I musei civici, peraltro, dovrebbero essere componenti essenziali del sistema museale nazionale e per questo dovrebbero dialogare maggiormente con i Poli regionali. L’aspetto più debole della riforma è al momento costituito dai Poli Museali Regionali per più ragioni, a partire dalla mancanza di personale per finire ai conflitti con le soprintendenze. In generale, finora, non si sta attuando la reale funzione dei Poli, cioè la creazione di sistemi museali regionali con i musei civici, diocesani, ecc. A mio parere, sarebbe necessario favorire, a seconda dei casi, le migliori forme possibili di gestione con il coinvolgimento delle forze e delle energie presenti in ogni territorio (professionisti, associazioni, fondazioni, consorzi, ecc.). I Poli sono, invece, presi dalla gestione diretta dei musei e delle aree archeologiche loro assegnati, con mille difficoltà. Ritengo che in futuro anche i grandi musei autonomi, appena si saranno consolidati, possano 85
svolgere una funzione di aggregazioni di alcune realtà museali statali e di altra natura presenti nei vari territori. Complessivamente, però, si è messo in moto un processo che intende assegnare ai vari musei un ruolo sempre più attivo nella società contemporanea, anche in linea con le recenti raccomandazioni dell’ICOM (Funchal 11.5.2018), che sollecitano la destinazione di maggiori risorse ai musei, una loro affermazione anche come catalizzatori dello sviluppo economico locale, il maggiore coinvolgimento delle comunità locali, un’attenzione particolare verso le fasce giovanili, l’attivazione di migliori servizi. Servirebbe, a quattro anni dall’avvio del processo riformatore, una manutenzione delle riforme, soprattutto nel superare e risolvere i motivi di conflitto tra i vari istituti periferici (soprattutto tra Soprintendenze e Poli), nel definire meglio il ruolo dei Segretariati (sulla cui funzione sono state espresse da più parti varie, legittime, perplessità), troppo spesso sovrapposti all’attività delle Soprintendenze, e nel migliorare i tanti aspetti ancora poco funzionanti, con un coinvolgimento diretto dei dirigenti e funzionari operanti in periferia. Andrebbero in particolare risolti i problemi di sovrapposizione di competenza, di scarsa collaborazione e di vera e propria conflittualità tra i vari istituti operanti nello stesso territorio. Le attese di maggiori aperture alla società e di un maggiore coinvolgimento degli Enti Locali, delle fondazioni, delle associazioni, ecc. - pur essendoci vari segnali positivi in tal senso - non sono ancora state soddisfatte. C’è ancora molto lavoro da fare per favorire le tante possibili forme di ‘gestione dal basso’ del patrimonio, ovviamente con un ruolo di indirizzo, monitoraggio e valutazione da parte del MiBACT. La vera riforma si avrà solo quando oltre alle strutture organizzative e alle norme cambierà la cultura della tutela e valorizzazione del patrimonio, rimasta inalterata, immodificata, ancorata alle visioni e alle norme degli inizi del Novecento e in particolare alla legge 1089 del 1939. Quella legge, che ha rappresentato uno strumento straordinario per cercare di bloccare distruzioni e speculazioni, ha anche impedito l’affermarsi di una idea diversa di tutela, non più fondata su un modello centralistico, difensivo, vincolistico, passivo, ma finalmente basata sulla progettazione, sulla pianificazione, sulle regole di trasformazione, sulla condivisione e la partecipazione dei cittadini: una tutela più attiva. Momenti importanti in questo processo potranno essere rappresentati dalla prossima ratifica della Convezione europea sul valore del patrimonio culturale (Faro 2005) e dalle conseguenti modifiche normative al Codice dei beni Culturali e del Paesaggio e dalla diffusione dei Piani Paesaggistici Regionali. In varie occasioni, a partire dalla seduta di insediamento del 16.6.2015, il Ministro Franceschini ha partecipato alle sedute del Consiglio, per presentare suoi progetti di riforma, per porre quesiti su problemi specifici e per ascoltare il parere del Consiglieri. In alcune occasioni hanno partecipato alle sedute i Sottosegretari Ilaria Borletti Buitoni e Dorina Bianchi e alcuni Consiglieri del Ministro, in particolare il 86
prof. Lorenzo Casini. Una presenza costante è stata quella del Segretario Generale, prima l’arch. Antonia Pasqua Recchia poi l’arch. Carla Di Francesco, con le quali si è sempre avuto un rapporto di intensa e proficua collaborazione. Significativa è stata anche la presenza del Capo di Gabinetto, prima il prof. Giampaolo D’Andrea, poi la dott.ssa Tiziana Coccoluto, e del capo e dei componenti dell’Ufficio legislativo. Anche i Direttori Generali hanno frequentato le sedute del Consiglio, alcuni, come la dott.ssa Caterina Bon, il dott. Antonio Lampis e l’arch. Francesco Scoppola, in maniera molto assidua e attiva, altri meno. Sono grato a tutti loro, anche a nome dell’intero Consiglio, per il supporto sempre garantito e per la collaborazione che si è sviluppata in questi anni. Al di là dei singoli temi affrontati, qui richiamati solo in parte, sono stati l’impegno costante, l’attenzione propositiva, la vivacità critica, la generosa disponibilità di tutti i Consiglieri ad aver rappresentato la risorsa più preziosa per il Consiglio stesso e per il Ministero. Ho apprezzato la competenza, la dedizione e lo spirito positivo che ha animato l’impegno di tutti, oltre al pieno rispetto delle diverse posizioni, anche in momenti non facili di divergenza di opinioni, che ha consentito di raggiungere sempre una posizione largamente condivisa: non ho potuto effettuate un calcolo esatto, ma credo che oltre il 90% delle votazioni abbia visto l’unanimità del Consiglio. Per questo, e non solo, sono grato alla vicepresidente Francesca Cappelletti, ai presidenti del CTS, ai rappresentanti del personale e a tutti i Consiglieri per il lavoro svolto in questi anni, in un clima sereno di amicizia e cooperazione. Mi scuso con loro se a volte non sono stato in grado di cogliere tutte le istanze espresse e se in qualche caso sono stato troppo rigido e determinato nell’indicare e difendere la mia opinione, pur avendo sempre tentato di recepire stimoli, suggestioni e critiche. È stato un vero privilegio per me, oltre che un grande piacere, poter lavorare con persone di così alto profilo culturale, scientifico, professionale e etico. La segreteria del Consiglio ha svolto sempre un lavoro eccellente nel supportare il nostro lavoro e per questo ringrazio in particolare la dott.ssa Maria Pellegrino, con la quale ci sono stati in questi anni contatti quasi quotidiani. Con oggi si conclude la mia esperienza prima come componente, in rappresentanza per due volte consecutive delle Regioni italiane, e poi dal 2014 come Presidente del Consiglio Superiore: un’esperienza impegnativa e di straordinaria importanza sotto il profilo professionale, culturale e umano. Sono profondamente grato al Ministro Dario Franceschini per avermi offerto questa opportunità e per l’intenso scambio di opinioni avviato fin dal marzo 2014 quando, appena nominato Ministro, ricevetti una sua inaspettata telefonata per un incontro a casa sua – era in convalescenza – e ci conoscemmo per la prima volta. In questi anni ho potuto apprezzare la sua capacità di definire una strategia, la sua voglia di ascoltare e di studiare e la determinazione nell’assumersi la responsabilità politica di realizzare riforme radicali e epocali, la sua profonda e convinta dedizione nell’impegno di Ministro dei beni culturali cui ha saputo dare un rilievo, una visibilità e una credibilità forse senza precedenti. Se posso permettermi, ho anche potuto conoscere e apprezzare le sue doti umane, di sensibilità, passione politica e culturale, rigore etico e ironia, che appaino poco all’esterno, nascoste dietro un’apparente freddezza. Rivolgo gli auguri migliori di buon lavoro al nuovo Ministro Alberto Bonisoli e alla sua squadra, sperando sinceramente, per il bene del patrimonio culturale italiano e 87
dello stesso MiBACT, che in questo momento avrebbe bisogno di stabilità e di ancora maggiori risorse, che voglia proseguire lungo il percorso avviato in questi ultimi anni, ovviamente con gli aggiustamenti e i miglioramenti che riterrà necessari. Quelli vissuti nel Consiglio superiore sono stati per me anni assai intensi di impegno, non privi anche di momenti di amarezza, soprattutto per una serie di attacchi personali, di malignità e anche di veri e propri episodi di grave discriminazione nei miei confronti proprio a causa di questa mia carica e dell’impegno svolto nelle riforme. Quando ho assunto questa carica ero un professore di archeologia all’Università di Foggia, di cui ho svolto in precedenza anche la funzione di Rettore, e mi accingo ora a tornare a svolgere a tempo pieno lo stesso lavoro di ricerca e didattica nella mia Università. È stato un impegno che ho cercato di svolgere nel migliore dei modi, per quanto le mie capacità mi hanno permesso, nella consapevolezza di averlo fatto – ovviamente con le mie idee e la mia visione, i miei limiti e i miei errori – esclusivamente nell’interesse del Ministero e del personale che vi lavora con passione e competenza e del patrimonio culturale italiano.
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PARTE I PAESAGGIO, CULTURA E TURISMO
Il paesaggio della Campania interna nel turismo del Novecento: alcune note sull’Irpinia
Annunziata Berrino
Università di Napoli Federico II
In ambito turistico uno dei fenomeni recenti più interessanti che da qualche anno l’Italia registra è la ripresa dei flussi verso la città di Napoli. Si tratta di una grande destinazione che, possiamo dire, ha senza dubbio contribuito storicamente alla definizione del fenomeno turistico. Scientismo, antiquaria, classicità, arte, religiosità, climatismo e paesaggio hanno operato da potenti attrattori fin dal XVIII secolo, tramutandosi poi in vere e proprie attrazioni turistiche a partire dalla prima metà dell’Ottocento. Poi un decadimento lento e continuo fino ai primi anni del 1990, quando ha ricominciato a crescere impetuosamente, passando dai 500.000 arrivi del 1993 all’oltre 1.300.000 del 2016. Eppure questa città ha operato con minore efficacia come produttrice di cultura turistica. Come se Napoli, nei confronti delle proprie province, avesse riprodotto anche nel turismo quella dimensione fagocitante, che la storiografia le ha assegnato in ambito politico-economico e amministrativo. A ben riflettere, Napoli, pur conoscendo e contribuendo alla maturazione di questo straordinario fenomeno della società moderna occidentale che è il turismo, non sembra avervi contribuito attivamente, ma solo in risposta a una domanda esterna. Questo gap ha avuto conseguenze sulle regioni di prossimità, che dunque non hanno potuto avvantaggiarsi di Napoli come di un grande centro urbano capace di generare una domanda di consumi turistici e in grado di modellare positivamente i territori circostanti. Le motivazioni vanno certamente trovate nel profilo sociale ed economico della città, la cui parabola industriale e manifatturiera ha continue intermittenze e criticità. La geografia – e l’economia – turistica che ha come perno Napoli, resta dunque sostanzialmente quella disegnata e alimentata dalla domanda internazionale nel corso di questi ultimi due secoli; geografia nelle cui pieghe si è inserita e si inserisce tuttora una domanda locale che non ha mai espresso comportamenti originali, quanto piuttosto modelli di consumo disordinati e disattenti alle risorse naturali. Gli effetti di queste dinamiche sono evidenti ancora oggi: Napoli e poche località del golfo (Capri, Ischia, Sorrento, Pompei) e della provincia di Salerno (Positano, Amalfi, Paestum) attraggono e drenano il grosso dei flussi e delle presenze turistiche, lasciando molto poco alle aree circostanti e persino alle altre regioni meridionali1. 1 A. N. Eramo, Il flusso turistico alberghiero nella città di Napoli per area di provenienza dal 91
Secondo i dati del 2006 più della metà del movimento turistico regionale è concentrato nella provincia di Napoli (il 54,4%) e in quella di Salerno (il 39%), mentre le altre tre province di Avellino, Benevento e Caserta guadagnano solo il 6,6% del movimento2. Le aree interne beneventane, casertane, avellinesi e salernitane sono rimaste e restano ancora oggi escluse dai grandi flussi e dagli interessi economici del turismo. Il grafico è eloquente3.
Sono squilibri inaccettabili e non certo solo per il carico insostenibile in termini ambientali e sociali a cui sono soggetti le isole e i territori costieri. Sono squilibri che hanno radici storiche ma che sarebbe ingenuo considerare solo come esito di dinamiche di mercato dominanti, soprattutto in questo secondo decennio del Duemila, quando la comunicazione in internet sta dimostrando di essere capace di aprire opportunità inedite sia sul versante della domanda che dell’offerta, ma anche di rafforzare culture e circolazione di know-how. Infine sono squilibri sui quali le più recenti riflessioni sul paesaggio4, sulle aree interne5 e sui paesaggi agrari6 impongono una riflessione sul perché lo sguardo turistico non sembra mostrare interesse. Certamente il disagio delle aree interne rispetto a quelle costiere in Campania riproduce un carattere nazionale, che è l’esito anche della politica turistica dell’intero Novecento, tutta proiettata sul potenziamento dei servizi alla balneazione marina. Ma è anche vero che le politiche nazionali degli anni ’80 e ’90 non hanno saputo cogliere la nuova domanda di turismo espressa da una società postindustriale interessata alla 1993 al 2002, in «I.S.C.», anno XVII, n. 1, gennaio 2004. Poco più di 150 mila arrivi nel 93 a oltre 320 mila nel 2002 e da allora una crescita costante. 2 Rapporto sul turismo in Campania 2008, Città della scienza, Dases, Università del Sannio, Doxa, Mercury srl 2009. 3 Il grafico, realizzato su dati Enti provinciali del turismo è tratto dal Rapporto sul turismo in Campania 2008, cit., p. 175. 4 R. Bodei, Paesaggi sublimi. Gli uomini davanti alla natura selvaggia, Bompiani, Milano 2008; M. Jakob, Il paesaggio, Il Mulino, Bologna 2009; C. Tosco, Il paesaggio come storia, Il Mulino, Bologna 2017. 5 M. Marchetti, S. Panunzi, R. Pazzagli (a cura di), Aree interne. Per una rinascita dei territori rurali e montani, Rubbettino, Soveria Mannelli 2017. 6 G. Bonini, A. Brusa e R. Pazzagli, Paesaggi agrari del Novecento. Continuità e fratture. Quaderni 9, edizioni Istituto Alcide Cervi, Reggio Emilia 2013. 92
qualità ambientale delle aree interne. L’Italia ha continuato a investire sugli attrattori tradizionali, sulle città d’arte e le aree costiere che l’avevano portata al successo negli anni ’50, e sulle aree lacuali e alpine, queste ultime in posizione favorevole rispetto alle zone economicamente più avanzate d’Europa, mostrando una chiara difficoltà a immaginare iniziative di valorizzazione dei territori interni ed esprimendo un’incomprensione per non dire un disinteresse per le realtà minori7. La Campania interna sembra dunque sconosciuta al turismo, quasi priva di rappresentazioni e descrizioni. D’altra parte come sarebbe stato possibile – e come sarebbe possibile ancor oggi – fare concorrenza al paesaggio di Napoli col golfo e il Vesuvio? Come concorrere con la forza della sua produzione culturale, musicale, letteraria, figurativa? E con quel paesaggismo di primo Ottocento che fu canonizzato dal romanticismo proprio sulla base dell’esperienza di visita delle località costiere napoletane? Da metà Ottocento nella veloce accelerazione della pubblicistica e della circolazione di immagini e descrizioni a uso turistico, per i territori campani non investiti dal turismo resta dunque molto poco spazio di espressione. Tuttavia fin dall’Ottocento, in più momenti, la cultura nazionale ha tentato di dare spazio a questi territori, di esplorarli, di valutarne le potenzialità ai fini delle pratiche turistiche e tra tutti, la provincia che più spesso è stata valutata è senza dubbio l’Irpinia, coincidente grosso modo con la provincia di Avellino che, come si è detto, ancora nei primi anni del 2000 registra appena poco più di 110 mila arrivi e di 240 mila presenze l’anno8. Eppure a un’analisi attenta l’alternarsi di pianori, colline e montagne, la ricchezza di acque, di boschi e di colture pregiate, tra le quali i noccioleti e i vigneti e il disegno compatto degli insediamenti urbani hanno di volta in volta sollecitato un certo interesse9. La prima attrazione a essere individuata nel primo Ottocento è il Santuario di Montevergine e la salita a oltre mille metri d’altitudine sul Monte Partenio diventa occasione romantica per combinare l’orrido dell’altezza al colore della devozione popolare dei pellegrinaggi alla Madonna che affluiscono da tutta la regione campana10. Nel secondo Ottocento è invece l’alta montagna irpina a rispondere all’interesse identitario nazionale dei club alpini. La sezione CAI di Napoli ospita infatti la pubblicazione del racconto di un’escursione dal Monte Partenio al Monte Terminio effettuata dal politico e meridionalista lucano Giustino Fortunato (1848-1932), che avrà forte presa nella cultura locale. In un caso e nell’altro le descrizioni che connotano le narrazioni dei pellegrini che salgono al santuario di Montevergine o quelle degli alpinisti meridionali restituiscono 7 A. Berrino, Storia del turismo in Italia, Il Mulino, Bologna 2011. 8 Rapporto sul turismo in Campania 2008, Città della scienza, Dases, Università del sannio, Doxa, Mercury srl 2009, pp. 174 e 178. 9 Numerose sono le raccolte e le rassegne recenti di scritti dedicati all’Irpinia secondo uno sguardo moderno. Cito ad esempio P. Speranza (a cura di), Ariano era un salotto. Viaggiatori, inviati, scrittori nella città del Tricolle, Mephite, Atripalda 2013. 10 P. Speranza (a cura di), Montevergine. Il paesaggio e la “Juta” raccontati da scrittori e reporter, Mephite, Atripalda 2014. 93
il disegno di un paesaggio il cui valore è la maestosità e al quale dunque è assegnato valore perché potenzialmente assimilabile a quelli di riferimento alpini e svizzeri. E in più casi l’Irpinia è definita una piccola Svizzera, ideale per soggiorni terapeutici grazie alla qualità della sua aria e per la sostanziale assenza di zone insalubri. E tuttavia gli itinerari del turismo internazionale tra le due guerre, quelli tracciati tra le due guerre dalla rivista dell’agenzia Thomas Cook toccano sempre e solo le mete per eccellenza della regione Campania: Capri, Sorrento, Amalfi, Pompei, il Vesuvio, Ercolano, Paestum, Ischia. È solo con l’istituzione capillare e su base provinciale di enti per il turismo a partire dagli anni ’30, che anche Avellino ha il suo Ente provinciale per il turismo, che nel 1941 realizza, senza peraltro avere il tempo di diffonderlo, uno dei primi tentativi di rappresentazione e patrimonializzazione del territorio ai fini turistici. Vi si legge: Chi percorre l’Irpinia per la prima volta, avverte subito che la sua bellezza ha un carattere inconfondibile. Non è la sinuosa carezza del Golfo Partenopeo, non è la ridda di colori iperbolici di Capri e di Sorrento, né la maestosa severità di Pompei o di Paestum. Essa è una bellezza dalla fisionomia propria che s’identifica in toni aspri di montagne superbe, temperati da campagne deliziose, da vigneti feraci, da castagneti prodigiosamente ricchi che, fusi dalla mano sapiente di madre natura e favorita dalla capricciosa configurazione appenninica, si snodano in ampi panorami attraenti11.
E dopo il conflitto mondiale, anche la stagione della ricostruzione e dei progetti di sviluppo turistico delle aree interne elaborati tra Roma, Salerno e Avellino, per conto della Cassa per il Mezzogiorno non riescono a creare per l’Irpinia un’offerta coerente e convincente, capace di tener testa al boom del turismo balneare degli anni ’60 e ’70. L’Irpinia anzi è piuttosto un serbatoio di domanda turistica che dall’interno si riversa verso la costa. Su queste dinamiche sopraggiunge il terremoto del novembre del 1980, che col suo dramma di lutti è destinato a connotare a lungo questa regione con le cronache politiche della ricostruzione post sisma. Ed è solo alla svolta del nuovo secolo che l’Irpinia riprende a definirsi una terra di accoglienza, “tra desiderio e realtà”, come recita il titolo di un bel libro dedicato all’aspirazione di questo territorio a fare turismo12. Segue una guida di Slow food e Touring club italiano13 nella collana degli itinerari, che colloca così l’Irpinia accanto al senese, alle Langhe, e a tanti altri territori di pregio italiani. Il paesaggio è in primo piano: leggiamo nel sottotitolo: «boschi e fiumi, borghi e castelli medievali, i vigneti del Taurasi, del Greco di Tufo e del Fiano di Avellino». Stavolta dunque è l’enogastronomia a passare in rassegna l’Irpinia, per tentare di acquisirla al nuovo turismo. Ma con esiti ancora troppo modesti. È evidente che anche un’area interna dagli effetti così marginali per l’economia turistica viene di volta in volta interpretata e valutata affinché possa eventualmente 11 Ente provinciale per il turismo Avellino, L’Irpinia pittoresca, Roma 1941. Pieghevole promozionale, collezione privata. 12 N. Di Iorio, L’Irpinia dell’accoglienza tra desiderio e realtà, Delta 3 edizioni, Grottaminarda 2011. 13 Itinerari: Irpinia, Touring editore e Slow food editore, Assago e Bra 2013. 94
Fig. Locandina d’epoca dell’Ente provinciale per il turismo di Avellino 95
rispondere alle istanze del momento: a fine Ottocento dal climatismo estivo e dall’alpinismo, a metà Novecento dal pellegrinaggio come occasione di escursione popolare, nel secondo Novecento dallo sport invernale e, da ultimo, ai primi di questo secolo, dall’enogastronomia. Non esiste dunque una domanda generica di aree interne, bensì una stratificazione di immaginari, capaci di attrarre più o meno interesse turistico. E non ultimo va notato che quasi mai in questi due secoli lo sguardo turistico ha valutato il paesaggio interno come paesaggio agrario. Il paesaggio agrario resta un paesaggio di contesto, ancora escluso dai processi di patrimonializzazione messi in moto dalle dinamiche turistiche.
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Paesaggi culturali, piccoli paesi, musei
Pietro Clemente Università di Firenze
Parole Per gli antropologi culturali i paesaggi sono innanzitutto parole, concetti che si sono definiti in relazione a modi sociali di produrre, a rappresentazioni connesse a pratiche, immagini, estetiche, mutevoli nel tempo e nello spazio. Non si può dire se sono belli o brutti se non dall’interno dei mondi di chi li usa e li percepisce. Un bel paesaggio è lessico da storici dell’arte o da paesaggisti non avvezzi all’antropologia oppure viene usato all’interno di un discorso nativo. Infatti, in vari contesti della cultura contadina italiana, ad esempio, la bellezza del paesaggio era legata all’ordine della attività produttive: un bel paesaggio era quello ben arato o ben coltivato. Paesaggi culturali è una nuova etichetta, nata al plurale, in uso nell’ambito Unesco, di recente nuova interpretazione anche da parte del mondo dei musei. In un grande convegno internazionale di Icom su Musei e paesaggi culturali, tenutosi a Milano nel 2016, i paesaggi culturali sono stati proposti come orientamento di una nuova mission dei musei verso il territorio e non verso l’interno delle sue mura (http://www.icom-italia.org/conferenza-internazionale-milano-3-9-luglio-2016/). Nella tradizione Unesco, i paesaggi culturali sono quelli oggetto di riconoscimento mondiale per tratti diversi, ma tutti caratterizzati dalla rilevanza di contesti territoriali ampi (archeologici, agrari, parchi).
Unesco I paesaggi culturali sono stati definiti dal Comitato per il Patrimonio dell Umanità come aree geografiche o proprietà distinte che in modo peculiare rappresentano l’opera combinata della natura e dell’uomo. Questo concetto è stato adattato e sviluppato nell’ambito dei forum internazionali sui patrimoni dell’umanità (http://www.unesco. it/it/ItaliaNellUnesco/Detail/188) come parte di uno sforzo internazionale per riconciliare uno dei più pervasivi dualismi del pensiero occidentale - quello di natura e cultura.
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I primi riconoscimenti sono andati a: • Parco nazionale di Tongariro, Nuova Zelanda (1993) • Parco nazionale di Uluru-Kata Tjuta, Australia (1994) • Terrazze di riso delle Cordigliere delle Filippine (1995) • Paesaggio culturale di Sintra, Portogallo (1995) • Portovenere, Cinque Terre, e le Isole (Palmaria, Tino e Tinetto), Italia (1997) • Valle dell’Elba, Germania (2004) L’Italia vanta, in rapporto ad altre nazioni, una presenza significativa di tali siti. Le istituzioni nazionali – purtroppo - non guardano al mondo ma ai propri primati. Si trascura così di ricordare che in Italia alcuni siti sono stati riconosciuti con un forte dibattito critico. Ciò vale in particolare per i paesaggi vitivinicoli di Langhe-Roero, già riconosciuti dall’Unesco, e per le Colline del Prosecco, oggetto di una procedura di riconoscimento. E’ stato notato che i riconoscimenti verso forme di agricoltura ormai vistosamente industrializzata sono sospetti di implicazioni mercantili e che sarebbe opportuno che essi fossero accompagnati almeno da dichiarazioni da parte delle aziende di settore, di impegno nel controllo del paesaggio e contro l’espansione illimitata che trasforma la viticoltura in monocultura (Fig 1). In effetti una certa sensibilità in tale direzione e, quasi senza precedenti, si è manifestata a Treviso dove la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio, ha vincolato una area di viti tradizionali sottraendola così all’espansione del vigneto industriale (Fig. 2). Nel dibattito attuale è sempre più usata la nozione di Comunità di paesaggio, come una delle forme della Comunità patrimoniale detta anche Comunità di eredità, nozione questa introdotta dalla Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore del patrimonio culturale per la società (Faro 2005) che recita: una comunità patrimoniale è costituita da un insieme di persone che attribuisce valore ad aspetti specifici dell’eredità culturale, e che desidera, nel quadro di un’azione pubblica, sostenerli e trasmetterli alle generazioni future1. è una idea guida assai interessante che in qualche modo configura possibili soprintendenze che si costituiscono dal basso, nella intersezione tra competenze e appartenenze, con una gestione democratica di salvaguardia del bene, in rapporto con la società civile. Musei Oggi si tende, in ambito museale internazionale, a porre al centro i caratteri culturali del territorio storico’, nei quali i musei agiscono e in cui rivendicano nuove missioni di interpretazione e di progettualità. Nella versione finale della Carta di Siena2 () è stato introdotto per i musei il concetto di “centro di responsabilità patrimoniale, 1 http://www.ufficiostudi.beniculturali.it/mibac/export/UfficioStudi/sito-UfficioStudi/Contenuti/Pubblicazioni/Volumi/Volumi-pubblicati/visualizza_asset.html_917365394.html. 2 ICOM Italia http://www.icom-italia.org/wp-content/uploads/2018/06/ICOMItalia. MuseiePaesaggiculturali.CartadiSiena2.0.Cagliari2016.pdf 98
Fig. 1 Viticultura industriale Monferrato- Langhe (tratta da https://winenews.it/it/ mancava-solo-l-ufficialita-che-ora-e-arrivata-il-paesaggio_323774/)
Fig. 2 Viticultura tradizionale protetta vigneto di Baver Treviso (http://www.salviamoilpaesaggio. it/blog/2014/04/nel-trevigiano-salvati-vigneti-dallaltissimo-valore-storico/)
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accostandolo a quello di presidio territoriale di tutela attiva per rendere più esplicita, anche alla luce della Convenzione di Faro, una funzione del museo non limitata ai soli beni museali, tradizionalmente mobili e materiali, ma estesa all’intero patrimonio, materiale e immateriale, e dunque anche al paesaggio. Molti musei sono già orientati verso il territorio, in specie quelli del campo demo-etno-antropologico, mentre questo nesso è invece programmatico nella definizione e nella nascita (in genere per iniziativa delle Regioni) degli ecomusei, per i quali museo e paesaggio sono un insieme inscindibile. Le attività dell’ecomuseo concernono il paesaggio e in molti casi prevedono anche una attività produttiva locale. I link che seguono si riferiscono a due ecomusei della provincia di Cuneo dedicati l’uno al formaggio Castelmagno, e l’altro alla pecora sambucana3.
Piccoli paesi Date queste due premesse di orientamento, mi prefiggevo di mostrare i paesaggi culturali da un punto di vista particolare, quello di una rete di piccoli paesi della quale mi sto occupando dal 2016. La rete è nata a partire dal riconoscimento da parte della Associazione Bianchi Bandinelli della Associazione Casa Lussu nel paese sardo di Armungia (CA) con un premio per la tutela come impegno civile. Casa Lussu è una associazione che ha posto una esperienza di artigianato al centro delle attività di ritorno (rinascita, riabitazione) in un paese in forte calo demografico. Si tratta di una esperienza di tessitura tradizionale a mano. Riconoscendo nel premio una missione anche nazionale, Casa Lussu ha promosso un festival (Un caffè ad Armungia) che è stato alla base della nascita di una rete di piccoli paesi. La rete è assai limitata nelle dimensioni, ma significativa negli scambi di attività pratiche, centrati sullo sviluppo locale basato sulla cultura e sul patrimonio culturale immateriale. A questa rete hanno aderito altri piccoli paesi, comuni o frazioni di essi, come Monticchiello (Pienza SI), Soriano Calabro (VV) Padru (OT), Paraloup (Rittana CN), Fiamignano (RT), e hanno espresso condivisione le frazioni di Dordolla (UD) e Topolò (UD) e il comune di Cocullo (AQ). Guardare il paesaggio dai piccoli paesi è molto istruttivo. Aiuta ad esprimere approcci pragmatici, importanti davanti alla morte demografica e paesistica di essi e al bisogno di nuove comunità che la contrastino. Due temi di rilievo della cultura dell’ultimo Novecento sono subito coinvolti in una prospettiva di rilettura. Si tratta del paradigma ecologista e di quello turistico. Coinvolti in una guerra di posizione senza speranza di esito finiscono per contrapporre ad una idea pura di natura originaria, un’idea patologica di falsificazione del mondo per la cultura di massa. Sono temi che sono diventati molto rigidi nella immaginazione diffusa. Il paradigma ecologista è buono e quello turistico è cattivo. Lo sguardo dai piccoli paesi spinge a cambiare la prospettiva.
3 http://www.terradelcastelmagno.it/; https://ecomuseipiemonte.wordpress.com/ecomusei/ prov-cuneo/pastorizia/www.facebook.com/ecomuseopastorizia?fref=ts. 100
Ecologia critica Sulla dimensione ecologica sembra utile assumere una centralità dell’uomo e non della natura, per cui il ritorno al territorio non è restauro né della natura né delle località storiche, ma nuovo progetto coevolutivo di natura, produzione e residenza umana nel paesaggio. Le idee della natura primordiale o del passato tradizionale, ostacolano l’idea di un paesaggio di carattere squisitamente progettuale per cui il territorio valga non già (o non solo) come memoria ma (o almeno anche) come obiettivo4. L’approccio territorialista suggerisce una critica radicale dell’ecologismo profondo e anche del conservazionismo paesistico (parchi e tutela), per cui ”occorre superare la cultura della conservazione dei beni culturali e naturali (che limita la cura del bene comune territorio alle sue eccellenze artistiche e paesaggistiche) per mettere mano a quella del progetto di territorio, che comprende i beni culturali e naturali come componenti del valore patrimoniale dell’intero territorio; un valore su cui fondare l’azione collettiva per elevare la qualità dei mondi di vita delle popolazioni (Convenzione europea del paesaggio), riferendo dunque l’azione di cura e gestione dei beni comuni alla totalità territoriale5.
Turismo Sembra chiaro che il turismo può essere considerato una pratica corrente e mondiale di esperienza del mondo che non coincide solo col più vistoso turismo di massa nelle grandi città della terra ma può essere una risorsa soprattutto per la visibilità e gli investimenti non pesanti nei piccoli paesi. Da Alessandro Simonicca, antropologo del turismo, prendiamo questa considerazione come un nodo di base: Affrontare il rapporto che oggi intercorre fra “turismo” e “regioni” significa prima di tutto superare una accezione fissista della dimensione dei “confini”, e affrontare gli esiti della rivoluzione attuale che vede nel viaggio l’espressione di un diritto di “cittadinanza”, costitutivo della “mobilità umana” che lega oramai irreversibilmente economia e cultura. …A partire da tali pratiche di “cittadinanza territorializzata”il turismo attiva processi reinterpretativi dei confini culturali dei territori, corroborati in particolare da un complessivo passaggio dal turismo delle città al turismo delle località6.
Per i piccoli paesi è attorno alla località, come neospazialità radicata sul locale e insieme, in maniera varia, aperta al globale, che si gioca molta parte del destino attuale del territorio in cui cercare di gestire utilmente la dimensione del turismo. 4 A. Magnaghi, Mettere in comune il patrimonio territoriale: dalla partecipazione all’autogoverno, in «Glocale. Rivista molisana di storia e scienze sociali», 2015, n. 9/10. 5 Ibidem. 6 A. Simonicca, Turismo e regioni: la scena turistica tra fruizione e cultura territorializzata. In M. Salvati, L. Sciolla (a cura di), L’Italia e le sue regioni (1945-2011), Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, Roma 2015, Vol. 3. 101
La fine del pregiudizio antituristico, legato alle pratiche invasive delle grandi città, contro il quale sono in atto specifiche battaglie, viene dal superamento di un approccio conservativo, dal riconoscimento che il turismo fa parte del mondo nuovo dei viaggi e degli scambi, che è una forma di conoscenza e una risorsa, e addirittura che si configura come un ‘diritto’. Una sorta di pratica sui generis di una cittadinanza mondiale e globale. In effetti è da almeno 50 anni che il turismo viene studiato, misurato, progettato anche nei termini di quella che gli antropologi del mondo contadino chiamano carrying capacity. Valutazione di impatto, di capacità di carico di un territorio in termini di consumi, valutazione di risorse aggiuntive. Il turismo culturale, il turismo sostenibile, sono figli di questa capacità di calcolo e progetto, centrale nella pratica della sociologia e antropologia del turismo. L’antropologia del turismo lavora in particolare sull’immaginazione e la forza simbolica nella costruzione della località turistica. Il punto di vista del ritorno, ovvero quello del ripopolamento dei piccoli paesi a rischio di crollo demografico, mostra la centralità di un nuovo progetto di produrre, abitare, vivere come base di una nuova comunità di paesaggio.
Armungia: il paese di Emilio Lussu Emilio Lussu, protagonista sardo della prima guerra mondiale7, fondatore del sardismo e poi protagonista del socialismo in Sardegna, scrittore di grande chiarezza e stile, è stato il punto di riferimento di alcuni anni di ricerche-didattiche fatte dagli studenti di antropologia culturale dell’Università di Roma, sotto la mia direzione. Ad Armungia, paese natale di Emilio Lussu, la sua casa di famiglia è ancora presente, è stata patrimonializzata e poi riabitata da suo nipote Tommaso, fondatore della Associazione Casa Lussu. 7 Emilio Lussu, Un anno sull’altipiano, Einaudi, Torino 1945.
Fig. 3 Armungia paesaggio con Nuraghe urbano (tratto da internet) 102
Fig. 4 Armungia paesaggio del Flumendosa (foto Pietro Clemente)
Fig. 5 Armungia Casa Lussu (foto Simone Mizzotti) 103
La caduta demografica di Armungia è impressionante dai 1.314 abitanti del 1951 si passa ai 489 del 2011, di questi molti non vi risiedono più. In questo quadro Tommaso Lussu, archeologo che ha vissuto e si è formato a Roma, decide di costruire in paese una impresa artigiana di tessitura locale8 che sta nella comunicazione globale. Da qui nasce una rete di giovani artigiani, anche nei paesi vicini, che si connette con una cooperativa che gestisce la biodiversità in un territorio pubblico (Su niu de s’achili, San Niccolò Gerrei). Casa Lussu è un esempio di creazione innovativa e di rispetto per la diversità culturale, ma dentro un progetto di nuovo modo di abitare le periferie. Per chi opera in questi contesti il paesaggio culturale si presenta come un grande tesoro di storia e di vicende umane. Il paese d’Armungia, spopolato, possiede un nuraghe, un museo della cultura locale, un museo dedicato a Emilio e Joyce Lussu: strati di culture storiche. C’è ancora un intenso allevamento caprino e una vivace orticultura, anche se la popolazione è anziana. Il territorio ha spazi molto ampi, con pascoli e boschi, tradizioni di caccia al cinghiale e un contesto fluviale di particolare intensità, il Flumendosa, ricordato anche in uno scritto breve di Emilio Lussu, Il cinghiale del diavolo. A questa offerta così straordinaria di paesaggio a tutt’oggi non corrisponde una attività che contrasti l’esodo. Il turismo è una delle possibili risorse, legata anche alle due diverse linee di accesso ad Armungia: Cagliari e Muravera (Fig. 3, 4, 5).
Cocullo, il paese di San Domenico e dei serpari Cocullo è un paese di 246 abitanti (massimo storico 1.700) in grande crisi demografica., noto per la festa di San Domenico del 1° maggio. Negli anni ‘60 Alfonso Di Nola, antropologo e storico delle religioni, fece una indagine sulla festa di San Domenico e sul culto dei serpenti9. Ora a Cocullo c’è una associazione dedicata a Di Nola, attiva nella festa ed su altri temi locali, e un museo del territorio e della festa a lui dedicato. Cocullo punta a un riconoscimento Unesco Ich (Intangible cultural heritage) della sua festa e del suo mondo di saperi naturalistici, (legati a un bosco in gran parte abbandonato) e della competenza di tutte le generazioni nel conoscere gli habitat dei serpenti e di gestirli quasi come animali domestici. Il paese punta alla modalità della Salvaguardia urgente, perché il decadimento economico del territorio è davvero grave e il rischio di tracollo è notevole. Il paesaggio culturale è quello proprio della montagna abruzzese in passato legata alla pastorizia e oggi assai impoverita; sul territorio c’è una piccola produzione alimentare di area, ed è nato un turismo territoriale come la passeggiata col serparo promossa anche sui social (Figg. 6, 7).
8 facebook: https://www.facebook.com/Tappeti-di-Armungia-Casa-Lussu-133587750070656 9 A. Di Nola, Aspetti magico-religiosi di una cultura subalterna, Bollati Boringhieri, Torino 1976. 104
Fig. 6 Cocullo (AQ) cartello patrimoniale e paese (foto Pietro Clemente)
Fig. 7 Cocullo (AQ) panorama dall’alto (tratta da http://www.anciabruzzo.it/wp-content/ uploads/2017/06/cocullo.jpg) 105
Monticchiello e il teatro povero Monticchiello sta nel comune di Pienza, in passato era comune autonomo e mantiene una configurazione distinta e arroccata. La zona è diventata riferimento di un turismo assai vario ma molto consolidato. Si va dalle seconde case a un turismo stagionale internazionale (inglesi e tedeschi i più) a un turismo diffuso legato ai centri di Chianciano Terme, Montepulciano, Pienza e la Val d’Orcia, nel Sud della provincia di Siena. In un certo senso il livello e la qualità del turismo di Monticchiello potrebbero essere l’obbiettivo da raggiungere per Cocullo o per Armungia. Ciò che li accomuna è la lotta sulla quota 300, considerata l’avvio del crollo demografico definitivo, e la attività locale mirata a creare sviluppo, permanenza e ritorno. Monticchiello viene da un paesaggio contadino di mezzadria . La storia della marginalità contadina è al centro del principale impegno culturale di questo paese, il teatro creato dalla comunità per riflettere su dove si sta andando, sul futuro del territorio nel mondo globale. Dal 1968 il Teatro Povero di Monticchiello è occasione di incontro, di festa e di attrazione turistica originale. Dopo l’abbandono contadino il territorio di Monticchiello vede una nuova agricoltura sia di grano duro, che di coltivazioni agricole, e di allevamento legate al forte turismo della Val d’Orcia (anche di linea biologica). In parte della Val d’Orcia è presente la pastorizia legata alla immigrazione di pastori sardi lungo gli anni ’60 e oltre. I residenti sentono la nuova agricoltura come troppo legata alle tecnologie, perché una sola mietitrebbia basta a coprire in poco tempo il grande tempo-spazio contadino della mietitura e della trebbiatura. Riflettono nei loro testi teatrali sul paesaggio bello ma disumanizzato della loro nuova vita. (http://monticchiello.org/ teatro-povero/) (Figg. 8, 9, 10).
Fig. 8 Monticchiello (SI) porta e mura (dal sito del Teatro Povero di Monticchiello) 106
Fig. 9 Monticchiello (SI) panorama dall’alto
Fig. 10 Monticchiello (SI) il teatro in piazza (dal sito del Teatro Povero di Monticchiello)
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Bilanci Studiare il fenomeno reale del ritorno e la possibilità di rivitalizzare i piccoli paesi pone di fronte a problemi specifici relativamente al paesaggio culturale. In tutti i casi indicati non sono le Soprintendenze a scegliere e a decidere, ma sono le associazioni protagoniste, che sono di fatto Comunità di eredità secondo la Convenzione di Faro (2005), e che raccolgono il protagonismo locale indicato dalla Convenzione europea del paesaggio (2000) . Si decide non in base a un modello precostituito di skyline o di bellezza, ma in base a un bilancio progettuale della qualità e delle risorse di un territorio. Si lotta contro la tendenza delle comunità locali a costruire in modalità fortemente urbanizzanti, per marcare la distanza dal passato contadino e povero. Inoltre il tema della gentrification ovvero dell’acquisto da parte di benestanti (spesso colti) delle case popolari, di città o di campagna e dei siti decaduti, spesso visto negli studi come fenomeno negativo di espropriazione classista, viene riletto in chiave di bisogni del luogo. La gentrification porta capitale culturale, attenzione alla diversità, a possibili investimenti. Anche per il turismo, spesso mal visto a priori, vale lo stesso discorso, esso va progettato in chiave di sostenibilità e in modo adeguato ai luoghi. Ad esempio a Monticchiello sia la gentrification sia il turismo estivo appaiono saturi, mentre a Cocullo ed Armungia non lo sono affatto. Quindi l’approccio al paesaggio non può essere universalista, ma deve essere localista e pragmatico. Nel presentare questi tre casi la nozione stessa di paesaggio culturale è venuta modificandosi, essa non rappresenta delle visioni statiche, ma piuttosto delle pratiche di negoziazione . Il paesaggio culturale è fatto dalle iniziative dei soggetti attivi, dai ritorni, dai recuperi, dai conflitti. Come nei dibattiti assai avanzati dei centri che hanno una più lunga durata di riflessione (oltre a Monticchiello penso a Pigna in Corsica) il paesaggio diventa un tema da assemblea, da condominio: la scelta di una razionalità condivisa che ha come prospettiva la qualità dei luoghi, la loro diversità (senza la quale diventano periferie urbane ovunque siano) , la sostenibilità del loro sviluppo . Nota: la rivista on line Dialoghi Mediterranei ha pubblicato vari articoli legati alla rete dei piccoli paesi, e, a partire dal numero 27 del settembre 2017 , ha dedicato una sezione della rivista al tema col titolo Il centro in periferia, faccio riferimento a questi numeri, tutti reperibili on line, per un aggiornamento sulla esperienza dei piccoli paesi e sui dibattiti in atto, si trova sia cliccando su Dialoghi Mediterranei sia nel sito http://www.istitutoeuroarabo.it/DM/?s=n.26+ .
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Paesaggi agrari e aree protette: la via della pianificazione
Ilenia Pierantoni, Massimo Sargolini Università degli Studi di Camerino
Il rapporto tra il paesaggio agrario e il sistema delle aree protette è articolato e complesso perché è il manifesto di un sistema attivo, fortemente dinamico, in cui l’uomo stabilisce profonde interazioni con la natura, determinando paesaggi. Esso mette in gioco il ruolo essenziale delle comunità locali nella gestione dei processi di conservazione e quindi introduce l’esigenza della cooperazione tra chi opera trasformazioni importanti sul territorio, espletando attività preminentemente legate all’uso agrario dei suoli, e chi ne valuta gli effetti finali attraverso l’angolo di vista della sintesi paesaggistica. Nel contempo, obbliga il sistema delle aree protette a ripensare le politiche di conservazione della biodiversità che risulterebbero inattuabili, nella maggior parte delle aree protette europee, se dissociate dal controllo delle attività agro-silvo-pastorali. Affidare alla pianificazione la gestione di un rapporto così delicato e gravido di conseguenze, significa, prima di tutto, riconoscere il primato dell’azione progettuale, nel senso che non può esistere conservazione senza innovazione1; mezzo secolo di fallimenti dell’azione dell’inibire e del difendere passivamente debbono essere accuratamente valutati in tal senso. D’altronde, la stessa Convenzione Europea del Paesaggio (Firenze, 2000) ci ricorda che il «... Paesaggio designa una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni ...» e quindi rappresenta la forma del territorio, l’espressione della comunità che su quel territorio vive e opera.
Dal vincolo alla gestione del bene Una mancata attenzione al nesso causa-effetto tra le azioni di trasformazione e la percezione di quanto trasformato ha contribuito, nel tempo, a scollegare i processi decisionali riguardanti l’utilizzo delle risorse dalla questione del paesaggio, dalla sua immagine, ma soprattutto dalla sua gestione e cura. Nel nostro sistema legislativo, fondato prevalentemente sul vincolo e sulla perimetrazione delle eccellenze, il paesaggio è stato generalmente considerato come un bene a sé stante, una risorsa da 1 R. Gambino, Conservare-innovare. Paesaggio, ambiente e territorio, UTET, Torino 1997. 109
tutelare per parti, solamente in alcuni luoghi di particolare e riconosciuto valore. Questo approccio ha contribuito, in maniera consistente, all’affermazione di un progressivo processo di deresponsabilizzazione della popolazione rispetto alla qualità del proprio spazio di vita e al contributo che ogni azione, ogni attività, ogni trasformazione apporta al paesaggio e alla sua qualità. Gli effetti di un atteggiamento di questo tipo sono ben visibili e si manifestano nella scarsa qualità dei paesaggi dell’ordinarietà, della vita quotidiana, con evidenti ricadute sull’abbassamento della qualità della vita (la cui valutazione tocca campi diversi che vanno: dalla qualità architettonica degli spazi di vita, alla sicurezza; dai cibi, alla salubrità degli ambienti; dalla qualità dell’aria, dell’acqua e delle risorse e beni primari, fino alla distribuzione degli spazi per lo svago e il tempo libero) e quindi dell’attrattività dei luoghi. Ciò è da attribuirsi prevalentemente a: Assenza di strategie di sviluppo condivise tra i vari attori del territorio, ai diversi livelli, in particolare tra soggetti pubblici e privati; tra quelli che agiscono in difesa di principi e per la preservazione del bene comune2 e quelli che effettuano scelte solo in risposta alle tensioni dei mercati; Mancanza di comunicazione (e quindi di consapevolezza) dei valori collettivi del paesaggio e delle ripercussioni che una buona o cattiva cura possono avere anche sulla qualità della vita e sulla capacità di radicamento e identificazione collettiva che una comunità può esprimere; Mancanza di integrazione e coordinamento tra i diversi ambiti territoriali, sottoposti a diversi e specifici vincoli e tutele. Infatti, la perimetrazione e il vincolo delle eccellenze e dei contesti più fragili ha portato, progressivamente, ad una separazione delle modalità di gestione tra le aree di particolare pregio ed il resto del territorio, senza tenere in considerazione gli effetti che le une possono avere sugli altri, e viceversa. Al contrario, il paesaggio ha una sua essenza mutevole e soprattutto dinamica, proprio perché si struttura su processi diversi, come l’agricoltura, la zootecnia, l’organizzazione e lo sviluppo degli insediamenti, i trasporti, la produzione di energia, ecc. Per tale ragione, il paesaggio può essere progettato e pianificato, ma soprattutto deve essere sapientemente gestito e curato, attraverso un coinvolgimento attivo delle comunità e degli attori che sono in vario modo coinvolti, modificandone l’evoluzione. La sede per fare ciò è probabilmente il livello locale, in cui le comunità agiscono attraverso le loro attività. Alcune pratiche agricole o forestali, come la pulizia del reticolo idrografico secondario, il ripristino di elementi del paesaggio agrario tradizionale (muretti a secco, siepi e filari alberati, ...), la manutenzione dei percorsi per la fruizione, si prefigurano come azioni di cura che contribuiscono alla qualità ambientale e paesaggistica del territorio, e quindi alla produzione di quei servizi (ecosistemici), che possono contribuire al mantenimento di economie locali e all’attrattività dei territori, con effetti positivi anche in termini di presidio delle comunità sul territorio, in contrasto ai fenomeni di abbandono e spopolamento. 2 U. Mattei, Beni comuni. Un manifesto, Editori Laterza, Bari 2011. 110
Si è attratti da luoghi ben curati. Gli studiosi di psicologia ambientale e di valutazione del paesaggio, sulla base di molteplici verifiche empiriche, «includono concetti come la cura e la manutenzione (stewardship, tidiness, maintenance) tra gli indicatori in grado di ‘predire’ la preferenza che le persone accorderanno a un luogo, sia esso urbano o rurale. È dunque un fattore da tenere presente non solo nelle politiche di conservazione, ma anche in quelle di valorizzazione».3 Insomma, il prendersi cura della rosa, come spiega la volpe al Piccolo Principe di Antoine de Saint-Exupery, è condizione basilare per rendere importante la rosa.
Quale contributo può provenire dalle aree protette Potremmo chiederci che senso abbia parlare di aree protette nel XXI secolo, quando un’importante maturazione culturale della società civile e un radicamento del pensiero ecologico in quasi tutte le principali scelte di gestione urbanistica e territoriale sembrano rendere anacronistiche quelle battaglie per la conservazione e la tutela delle risorse paesaggistiche che hanno caratterizzato gli anni Ottanta del precedente secolo. La maggior parte delle aree protette è stata istituita, in Italia, con la legge 6 dicembre 1991 n.394 “Legge Quadro sulle Aree Protette”4, a conclusione di un iter iniziato diversi anni prima. All’epoca, erano presenti solo gli storici Parchi Nazionali istituti negli anni ‘20 e ‘30 del secolo scorso (Parco Nazionale Gran Paradiso 1922, Parco Nazionale d’Abruzzo 1923, Parco Nazionale dello Stelvio 1934, Parco Nazionale del Circe 1935) ai quali si sono aggiunti, negli anni ‘60 e ‘70, il Parco della Calabria (poi Aspromonte - Sila) e altri parchi regionali e riserve marine. Nel 1966, la superficie nazionale coperta era di circa lo 0.4% della superficie nazionale. Attualmente, invece, in Italia, le aree protette rappresentano circa il 12% del territorio nazionale, diviso fra 24 Parchi nazionali, 1 Parco Interregionale, 144 Parchi regionali e centinaia di riserve naturali e aree protette statali, regionali e locali. 24 sono inoltre le aree marine protette, che coprono complessivamente il 2,5% della superficie marina di competenza italiana. È evidente che molto è stato fatto e l’obiettivo del 10% (la fatidica sfida lanciata dal Convegno di Camerino, nell’ottobre del 1980) è stato ampiamente superato, anche se la distribuzione di queste aree avviene in maniera disomogenea su tutto il territorio nazionale: le aree montane, in particolare quelle delle regioni del Centro-Sud, hanno le maggiori percentuali di superficie protetta, mentre le aree collinari e di pianura 3 C. Cassatella, F. Bagliani, Paesaggio: cura, gestione e sostenibilità - Landscape: tidiness, management, suistainability, Celid, Torino 2014. Le autrici individuano il tema della cura come elemento di attrattività di un luogo. Nel fare ciò fanno specifico riferimento alle teorie sulla valutazione del paesaggio di J.F. Coeterier (J.F. Coeterier, Dominant Attributes in the Perception and Evaluation of the Dutch Landscape, in Landscape and Urban Planning 1996/34; A. Ode, M. Tveit, G. Fry, Capturing Landscape Visual Character Using Indicators: Touching Base with Landscape Aesthetic Theory, in Landscape Research 2008/03), in cui si definisce: «Stewardship. The presence of a sense of order and human care through active management which contributes to a perceived accordance to an ‘ideal’ situation»). 4 Legge 6 dicembre 1991, n. 394 Legge Quadro sulle Aree Protette. Consultabile online all’indirizzo: http://www.parks.it/federparchi/leggi/394.html 111
sono generalmente le meno protette (si va infatti da un 28% della Regione Abruzzo, a meno del 5% in Emilia Romagna, Molise e Sardegna). Comunque, l’’Italia è il Paese in Europa che, negli ultimi 20 anni, ha istituito più parchi e riserve naturali. Da una recente ricerca condotta dalla Scuola di Architettura e Design dell’Università di Camerino, di cui si dà conto in un volume edito dall’ETS Edizioni nel 20115, risulta che circa un terzo dei comuni italiani è territorialmente interessato dalla presenza di un’area protetta. Questa percentuale sale a due terzi per quanto riguarda i piccoli comuni, quelli cioè al di sotto dei 5.000 abitanti. Oltre il 50% della superficie dei parchi nazionali è dedita ad usi agricoli e da questo utilizzo del suolo derivano una serie di prodotti codificati con i marchi IGP e DOP, noti anche al di fuori dei confini nazionali. È evidente che questi dati testimonino proprio il sistema di relazioni inscindibili tra comunità e aree protette e la sfida per l’immediato futuro è quella di saper leggere questo rapporto e valorizzarlo sapientemente. Una lucida intuizione di Paolo Castelnovi, nel fondare un’associazione culturale cui ha posto il nome di “Landscape-for” si fonda proprio sul dare risonanza ed eco a tutte quelle ricadute territoriali che un’efficace gestione del paesaggio può offrire, con grandi vantaggi per le comunità locali. La riflessione si pone in coerente continuità con l’azione da più tempo scandagliata della valorizzazione dei servizi ecosistemici6 e diventa straordinariamente attuale nella contemporanea evoluzione del concetto di beni e risorse, da valutarsi in relazione alle reali ricadute sulla qualità della vita7. È infatti evidente che i 4 pillar in cui si articolano i Servizi Ecosistemici sono strettamente correlati alle condizioni di vita degli abitanti: 1, “Supporto alla vita”, ovvero la produzione di beni primari; 2, “Approvvigionamento”, ovvero la produzione di beni e prodotti necessari alla vita (ad esempio la produzione di cibo, biodiversità, materie prime, ecc.); 3, “Regolazione”, ovvero i benefici ottenuti dallo stato di equilibrio e funzionalità degli ecosistemi (ad esempio la regolazione dei gas, del clima, delle acque, dell’erosione dei suoli, dei fenomeni di dissesto, della tutela degli habitat per la biodiversità); 4, “Valori culturali”, ovvero i benefici immateriali per la collettività (ad esempio quelli spirituali, estetici, educativi e ricreativi). Ne discende che ogni area protetta ed ogni brano di paesaggio agrario tradizionale, ovunque esso sia collocato, svolge un ruolo centrale e insostituibile non solo per la conservazione delle forme e della bellezza del paesaggio, ma anche per il mantenimento della sua funzionalità complessa8 che ha saputo garantire nel corso del 5 M. Sargolini, Piani di Parchi, ETS Edizioni, Pisa 2011. 6 F. Galiana, M.v. Vallés-Planells, V. Vaneetvelde, Classification of Landscape Services to Support Local Landscape Planning. Ecology and Society 19(1):44, 2014; Commissione Europea, The economics of ecosystems and biodiversity, Publications Office of the European Union, Lussemburgo 2008; R. Costanza, Ecosystem services: multiple classification systems are needed. Biological Conservation, 141, 350-352, 2008; EEA, Ecosystem Services and Biodiversity, EEA technical report N. 5/2015. Publications Office of the European Union, Lussemburgo 2015; Millennium Ecosystem Assessment MEA, Ecosystem and Human Well-being: A Framework for Assessment, Island Press, Washington, DC 2005. 7 M. Sargolini, Urban Landscapes. Environmental networks and quality of life. Springer, Verlag 2013; R. Cocci Grifoni, R. D’onofrio, M. Sargolini, Quality of Life in Urban Landscapes: In Search of a Decision Support System, Springer-Verlag 2018. 8 Barbera G., Biasi R., Marino D. (a cura di), I paesaggi agrari tradizionali. Un percorso per 112
tempo: biodiversità, fertilità del suolo, saperi e arricchimento culturale e identitario. Per comprendere a pieno il valore del paesaggio anche ai fini dello sviluppo, è utile però interrogarsi sulla domanda sociale di paesaggio. Si tratta di una domanda che esiste da molto tempo ma che, negli ultimi decenni, è radicalmente cambiata, poiché è talora originata da un grave disagio sociale e dalla ricerca di un nuovo senso di radicamento. Il crescente sviluppo insediativo incontrollato e incontrollabile, che spesso origina l’abbassamento della qualità della vita nelle aree urbane e periurbane, contribuisce ad accrescere la richiesta di natura, cogliendone il suo valore terapeutico e quindi i benefici fisici e mentali che il suo contatto può produrre, anche innescando nuovi e forti rapporti identitari. Le aree protette, come è stato spesso auspicato, possono essere laboratori di sperimentazione di modelli di pianificazione e gestione territoriale innovativi, in cui sperimentare modalità di cooperazione e integrazione tra gli attori che, in diverso modo, agiscono sul territorio9.
La cooperazione con le comunità locali nelle aree protette Affinché le aree protette possano entrare efficacemente in una strategia di valorizzazione sostenibile delle risorse, attivando la cooperazione delle comunità locali, la Legge Quadro ha varato due strumenti: - il Piano per il Parco, di competenza del Consiglio Direttivo del Parco (PP); - il Piano di Sviluppo Socio Economico, redatto dalla Comunità del Parco (PPES). Il primo è chiamato a svolgere le seguenti funzioni10: regolativa, volta a tutelare con opportune norme di uso dei suoli, vincoli e prescrizioni, i siti, le risorse ed i paesaggi istituzionalmente protetti, prevalendo, ove occorra, sulla disciplina posta in essere dagli altri strumenti di piano. Tale funzione conduce ad un’accurata differenziazione delle forme di tutela e di valorizzazione in relazione alle specificità paesistiche, culturali, economiche e sociali delle sue diverse parti; riferimento strategico, per coordinare e orientare le azioni ed i programmi d’intervento che competono ai diversi soggetti, pubblici e privati, a vario titolo operanti sul territorio (dentro e fuori i confini del Parco) e comunque in grado di influenzare le dinamiche e la gestione del Parco stesso; giustificazione argomentativa, nel senso di esplicitare le poste in gioco ed i valori di riferimento, le ragioni delle scelte e i loro margini di negoziabilità, le condizioni del dialogo e del confronto tra i diversi soggetti istituzionali, i diversi operatori e i diversi la conoscenza, Franco Angeli, Milano 2014. 9 M. Sargolini, Nuovi rapporti tra natura e cultura nelle aree protette, in GRUPPO DI SAN ROSSORE (a cura di), Aree Naturali Protette. Il futuro che vogliamo. Quaderni del Gruppo di San Rossore, n.1:17-28, Edizioni ETS 2013. 10 Parco Nazionale dei Monti Sibillini, Piano per il Parco, Relazione. Disponibile al link: http://www.sibillini.net/attivita/progetti/pianoPerIlParco/documenti/relazione.pdf 113
portatori d’interessi. Tale funzione è tanto più importante quanto più ci si allontana da una concezione puramente vincolistica del Piano e quanto più si punta a stimolare la positiva interazione dei diversi soggetti istituzionali nei processi di pianificazione, rispettandone la relativa autonomia, ma sollecitandone la responsabilizzazione sui problemi comuni (nel senso del compact planning attualmente raccomandato per i parchi americani o della co-pianificazione indicata anche nel nostro paese da numerose proposte di riforma urbanistica). La “Comunità del Parco” è l’organo consultivo, costituito dai presidenti delle regioni e delle province, dai sindaci dei comuni e dai presidenti delle comunità montane nei cui territori sono ricomprese le aree del parco, introdotto con la finalità di «promuovere le iniziative atte a favorire lo sviluppo economico e sociale delle collettività eventualmente residenti all’interno del parco e nei territori adiacenti»11 attraverso il Piano Pluriennale Economico e Sociale (PPES) che diventa, di fatto, lo strumento basilare per guidare lo sviluppo socio economico delle comunità che risiedono all’interno delle aree parco (L. 394/1991 e L. 426/98), contribuendo alla creazione delle precondizioni per produrre significativi riverberi anche nei territori contigui e saldamente relazionati alle aree protette. L’obiettivo principale del PPES è la promozione delle attività da svolgere all’interno dell’area protetta, in compatibilità con le finalità di ‘conservazione’ della natura. Il PEES mira infatti ad annullare la distanza che intercorre tra politiche di conservazione e finalità di sviluppo economico e sociale dell’area, attraverso percorsi armonici e sinergici: “armonici” perché tenta di integrare i due settori in modo assolutamente non conflittuale; “sinergici” perché, in un rapporto pro-attivo, l’innalzamento di una delle due finalità è sempre associato al miglioramento nei livelli di raggiungimento dell’altra. In questa prospettiva, la conservazione può divenire un fattore attivo, innovativo12 e dinamico per creare un’economia viva e una struttura sociale solida. Al PPES spetta il compito di individuare i soggetti chiamati alla realizzazione degli interventi previsti anche attraverso accordi di programma, previa verifica di coerenza di ogni azione prospettata con le finalità e la disciplina del Piano del Parco. La co-pianificazione tra soggetti istituzionali si inquadra nel tema più generale della cooperazione nella gestione delle risorse e nel governo del territorio: tema che coinvolge non solo le istituzioni, ma anche la pluralità degli attori sociali e dei portatori d’interessi in vario modo partecipi e responsabili della gestione. In questo senso esteso, la cooperazione e la partecipazione rispondono alla necessità di raccogliere consenso sociale sulle scelte di tutela, di responsabilizzare sulle modalità di gestione delle risorse, di ridurre le ragioni di dissenso, e di risolvere gran parte dei conflitti ambientali mediante la negoziazione e l’accordo, più che con l’imposizione e i vincoli.
11 Parco Nazionale dei Monti Sibillini, Piano per il Parco, Relazione. Disponibile al link: http://www.sibillini.net/attivita/progetti/pianoPerIlParco/documenti/relazione.pdf 12 R. Gambino, Conservare Innovare. Paesaggio, ambiente e territorio, UTET, Torino 1997. 114
Nuove prospettive per le aree protette Da tempo, si annuncia (o si minaccia!) di portare in Parlamento la L. 394/91 per una revisione. Dopo più di un quarto di secolo, la ridefinizione di un trattato legislativo è certamente molto opportuna e diverse sarebbero le questioni da mettere sul campo che toccano il senso delle aree protette, invece che concentrare ogni dibattito politico su questioni avvilenti riguardo quali potranno essere i rappresentanti in Consiglio Direttivo o in Comunità del Parco e poco altro. Alla base di ogni ulteriore riflessione potrebbe essere utile tenere in considerazione quanto da tempo afferma l’Unione Mondiale per la Natura riguardo la cooperazione nel campo delle politiche ambientali che «non risponde soltanto ad uno stato di necessità ma anche alla ricerca di efficacia e tempestività»13. In tal senso, la cooperazione può consentire la ricerca di complementarietà e sinergie tra le azioni di competenza dei diversi soggetti - pubblici e privati - a vario titolo operanti sul territorio, offrendo quel valore aggiunto e quell’efficacia che altrimenti la somma di azioni separate, settoriali e non coordinate, non consentirebbe di acquisire. Perché questo possa avvenire però, deve assumere concretezza la volontà, espressa in tante produzioni di piani e programmi innovativi e avanzati, di superare l’idea di area protetta intesa come isola non sufficientemente integrata e incapace di esprimere interazione e dialogo con il territorio circostante14. L’Europa ha fatto due passaggi essenziali in questa direzione: il primo riguarda gli avanzamenti prodotti nell’ambito del paesaggio, a seguito della emanazione della Convenzione Europea del Paesaggio (Firenze, 2000), ratificata dallo Stato Italiano con Legge n. 14 del 09 gennaio 2006; il secondo concerne l’ambizioso programma europeo Rete Natura 2000, avviato nel 1992, attraverso il quale la Commissione Europea si propone di svincolare la conservazione della natura da una logica esclusivamente orientata alla perimetrazione di aree di “eccezionale valore” e tra loro prive di collegamento, favorendo l’attuazione di una rete ecologica europea. È proprio la coerenza con l’approccio reticolare della rete ecologica, volta a garantire condizioni ottimali per la sopravvivenza di habitat e specie a scala europea, a costituire uno degli aspetti di maggior valore e innovazione dell’intero progetto15. Ad oggi, Natura 2000 è il principale strumento della politica dell’Unione Europea per la conservazione della biodiversità. Istituita ai sensi della Direttiva 92/43/CEE “Habitat”, si tratta di una rete ecologica diffusa su tutto il territorio dell’Unione, per garantire il mantenimento a lungo termine degli habitat naturali e delle specie di flora e fauna minacciati o rari a livello comunitario. I Siti di Interesse Comunitario (SIC), identificati dagli Stati Membri secondo quanto stabilito dalla Direttiva Habitat, che vengono successivamente designati 13 A. Phillips, Turning Ideas in their Head. The New Paradigm for Protected Areas, IUCN, Durban 2003. 14 M. Sargolini (a cura di), La pianificazione delle aree protette nelle Marche. Uno studio di casi. Urbanistica Quaderni Nr. 51, INU edizioni, 2008. 15 Ministro dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Natura 2000 Italia informa, 2002. Disponibile al link: http://www.minambiente.it/sites/default/files/archivio/ allegati/rete_natura_2000/natura2000_italia_informa0.pdf 115
quali Zone Speciali di Conservazione (ZSC) e Zone di Protezione Speciale (ZPS), istituite ai sensi della Direttiva 2009/147/CE “Uccelli” concernente la conservazione degli uccelli selvatici, coprono complessivamente circa il 19% del territorio terrestre nazionale e quasi il 4% di quello marino. L’elemento rilevante e innovativo è che la Direttiva Habitat intende garantire la protezione della natura tenendo anche «conto delle esigenze economiche, sociali e culturali, nonché delle particolarità regionali e locali» (Art. 2 Direttiva 92/43/CEE “Habitat”), quindi riconoscendo il valore di tutte quelle aree nelle quali la secolare presenza dell’uomo e delle sue attività tradizionali ha permesso il mantenimento di un equilibrio tra attività antropiche e natura. Alle aree agricole, per esempio, sono legate numerose specie animali e vegetali ormai rare e minacciate, per la cui sopravvivenza è necessaria la prosecuzione e la valorizzazione delle attività tradizionali, come il pascolo o l’agricoltura non intensiva, che contribuiscono anche al mantenimento della qualità del paesaggio e allo sviluppo delle attività economiche ad esso legato (turismo, produzioni agro-zootecniche, artigianato).
In conclusione La legge 394/91 ha certamente risposto positivamente, in passato, alle sfide della protezione della natura, riuscendo a favorire una nuova cultura della tutela, in cui si è passati da una concezione elitaria, verticistica e statalista della conservazione della natura, a un modello incentrato sulla condivisione e la responsabilità delle comunità locali. Dal 1991, tante sono state le esperienze di comunità locali, amministratori e cittadini organizzati, di misurarsi, attraverso piani e programmi, con i temi della sostenibilità e della partecipazione alla gestione del territorio. L’istituzione dei parchi ha permesso di delineare una geografia e una nuova dimensione istituzionale che ha valorizzato luoghi, talora sconosciuti. Aree geografiche sconosciute alle grandi masse, collocate ai margini dello sviluppo, hanno trovato l’opportunità di emergere e crescere, in un disegno coerente e innovativo, in cui hanno riscoperto l’identità storica e culturale. Non sempre il rapporto tra parchi e comunità locali è stato virtuoso. Talora si è assistito a fenomeni di scarsa cooperazione, a conflittualità e atteggiamenti sterili di arroccamento da ambo le parti, con opposizioni anche ai tentativi di innovazione, ammodernamento e sperimentazione, che hanno talvolta generato esiti negativi sia sull’immagine dei parchi che sulla permanenza degli abitanti all’interno dei confini delle stesse aree protette. Nel contempo però, anche a causa dell’abbassamento dei livelli di qualità della vita nelle aree più urbanizzate e al riavvicinamento di una parte della popolazione più sensibile ai valori della natura, sta crescendo l’interesse verso questi luoghi da parte di cittadini, ma anche di nuovi abitanti16 e si stanno consolidando importanti relazioni città-campagna e città-montagna17. 16 G. Osti, Nuovi asceti, Il Mulino, Bologna 2006. 17 G. Dematteis, Montanari per scelta, Franco Angeli, Milano 2011; F. Corrado, Ri-abitare le alpi: nuovi abitanti e politiche di sviluppo, Eidon Edizioni, Genova 2010; A. Salsa, Il tramonto 116
A fronte di questo scenario positivo, da diversi anni, si parla della “crisi delle aree protette”, che può essere ricondotta a diversi fattori che vanno dalla sofferenza finanziaria e organizzativa delle strutture amministrative degli enti parco, alla mancanza di un vero e proprio “sistema delle aree protette”, di strutture tecniche di coordinamento centralizzate, a livello statale e regionale (come peraltro avviene da tempo in molti altri paesi, in ambito internazionale, come ad esempio nel mondo anglosassone), in grado di offrire servizi efficaci e di assicurare un reale coordinamento, una visibilità e degli impatti, di più ampio respiro. Tuttavia, alla base della crisi riteniamo possa porsi l’incapacità delle aree protette di ripensare il proprio universo di senso in relazione alla contemporaneità, insomma di collocarsi e scoprire il proprio straordinario e irrinunciabile ruolo nel secolo che stiamo vivendo. In questo senso, l’IUCN, già in occasione del Congresso di Durban del 2003, evidenziava l’esigenza di estendere sia le azioni di tutela che i benefici oltre gli stessi confini (Benefits beyond Boundaries), seguendo un approccio di tipo reticolare (“fisico e umano”), che solo la pianificazione può gestire, al fine di coinvolgere le popolazioni locali nelle azioni di valorizzazione, indipendentemente dagli ambiti amministrativi in cui ricadono. Pensiamo che proprio la pianificazione e la gestione delle risorse agricole e silvopastorali che si organizzano su orizzonti fisici e geografici dilatati rispetto alle isole della protezione e della tutela, agganciando territori e aree di pregio a produzioni di qualità che possono entrare nelle reti globali degli scambi e del commercio, possano essere la via per la rinascita del sistema dei parchi, delle loro risorse e dei paesaggi ad essi associati.
delle identità tradizionali. Spaesamento e disagio esistenziale nelle Alpi, Priuli & Verlucca, Torino 2007. 117
Bibliografia essenziale Cocci Grifoni Roberta, D’onofrio Rosalba, Sargolini Massimo, Quality of Life in Urban Landscapes: In Search of a Decision Support System, Springer-Verlag 2018. Corrado Federica, Ri-abitare le alpi: nuovi abitanti e politiche di sviluppo, Eidon Edizioni, Genova 2010. Dematteis Giuseppe, Montanari per scelta, Franco Angeli, Milano 2011. Gambino Roberto, Conservare-innovare. Paesaggio, ambiente e territorio, UTET, Torino 1997. Gambino Roberto, Parchi e paesaggi d’Europa, Lectio Magistralis. Politecnico di Torino, Torino 2009. Gambino Roberto, Sargolini Massimo, Mountain Landscapes. A Decision Support System for the accessibility. List Lab, Trento 2014. Mattei Ugo, Beni comuni. Un manifesto, Editori Laterza, Taranto 2011. Osti Giorgio, Nuovi asceti, Il Mulino, Bologna 2006. Sargolini Massimo, Piani di Parchi, ETS Edizioni, Pisa 2011. Sargolini Massimo (a cura di), La pianificazione delle aree protette nelle Marche. Uno studio di casi. Urbanistica Quaderni Nr. 51, INU edizioni 2008. Sargolini Massimo, Urban Landscapes. Environmental networks and quality of life. Springer, Verlag 2013.
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Paesaggio agrario e scuola “in cammino”
Mario Calidoni
ICOM Commissione educazione e mediazione
Premessa Il geografo Umberto Bonapace già nel 1990 scriveva: Ai confini con la geografia , gli storici hanno colto la carica semantica del termine paesaggio. Ne è esempio la bella Storia del paesaggio agrario italiano di Emilio Sereni... È strano come la forte valenza didattica di tale approccio al paesaggio non sia stata compresa , se non in misura molto ridotta, dal mondo della scuola. (Convegno, Scuola, turismo ambiente, TCI, 1990). Il geografo vedeva soprattutto nella integrazione tra lo sguardo scientifico, umanistico e sociale, tipica dell’approccio sereniano, insieme all’uso delle immagini storico / artistiche, la novità che poteva avere un valore didattico autentico. Si poteva leggere sotto quell’approccio, il superamento dell’idea di immagine artistica come semplicemente funzionale alla storia dell’arte, ed il superamento dell’idea di geografia come scienza positiva; tema questo assai dibattuto a scuola per stabilire se collocare la disciplina geografica nell’area umanistica o nell’area scientifica. Si sviluppò, è vero, l’attenzione all’educazione ambientale e al territorio ma fu l’incontro della scuola con i concetti di Patrimonio e Paesaggio a far scoprire l’utilità, anche per la scuola, di temi solo apparentemente estranei alla formazione e trasversali sul piano disciplinare. È corretto, quindi, riprendere oggi quella osservazione per leggerla sullo sfondo di Patrimonio e Paesaggio divenuti argomenti di dibattito per il curricolo e temi forti per l’educazione permanente come per la politica culturale a partire dalle sollecitazioni di documenti europei che rappresentano l’origine della valorizzazione per la formazione scolastica appunto del Patrimonio e del Paesaggio. Ci riferiamo alla Raccomandazione europea per l’educazione al patrimonio del 1998 e alla Convenzione Europea del Paesaggio del 2000 con tutto il successivo dibattito culturale che ne è seguito anche a livello formativo1. 1 La Raccomandazione (98) n. 5 del Comitato dei Ministri degli Stati membri del Consiglio d’Europa si tradusse nell’Accordo di programma tra MIBACT e MIUR per l’educazione al Patrimonio, rinnovato nel 2014 e concernente le azioni da attivare sul piano del curricolo, della formazione insegnanti e del rapporto scuola –territorio. In particolare le implicazioni del 119
A partire da queste sollecitazioni il paesaggio agrario è riconosciuto essenziale per superare la visione romantica del bel paesaggio che ha portato a scegliere e identificare luoghi degni di tutela perché belli e luoghi esclusivamente produttivi nei quali il paesaggio non esiste. Infatti l’approccio che tutti i documenti nazionali e internazionali suggeriscono e che il dibattito culturale sviluppa è quello della sostenibilità alternativo allo sfruttamento selvaggio come alla conservazione pura. In particolare Maria Chiara Zerbi nella premessa alla Guida europea all’osservazione del Patrimonio rurale2 ricorda che lo sviluppo sostenibile fa in generale riferimento a quattro aspetti: economico, ambientale, sociale e culturale. Il primo aspetto attiene alla crescita e allo sviluppo economico, il secondo all’integrità degli ecosistemi, il terzo fa riferimento a valori come quelli dell’equità, dell’accessibilità e della partecipazione, mentre il quarto riguarda il patrimonio rurale come l’insieme degli elementi materiali e immateriali che testimoniano particolari relazioni che una comunità umana ha instaurato nel corso della storia con un territorio. Si configura così per la scuola un vasto terreno di interesse assolutamente interdisciplinare nell’ambito del paesaggio agrario e patrimonio rurale funzionale all’educazione globale e alla sostenibilità, che va ben oltre sporadiche e frammentarie attenzioni per l’architettura vernacolare, le tradizioni popolari o le feste campagnole,. É necessario, quindi, a partire da queste consapevolezze, elaborare una nozione di paesaggio agrario e patrimonio rurale che possa trovare impiego proficuo a scuola sia per il turismo scolastico, il rapporto con il territorio ed il curricolo. Questa urgenza è ulteriormente confermata da due osservazioni di attualità: 1. Il forte sviluppo della domanda di natura a scuola ha portato allo sviluppo di importanti esperienze quali le fattorie didattiche, le uscite naturalistiche etc... Da analisi compiute sulla percezione delle esperienze si fotografa la situazione dell’immaginario dell’ambiente rurale. Una agricoltura sospesa, tradizionale o ultramoderna sono le immagini che escono dalla pubblicistica per ragazzi e da una breve ricerca di App e giochi sul paesaggio rurale. Da questa constatazione è bene partire per superare l’aggiuntività, la nostalgia o il buonismo che pare caratterizzare la conoscenza del paesaggio rurale3. patrimonio culturale in campo educativo riguardano la sua (del patrimonio) capacità di essere fattore di tolleranza, di buona cittadinanza e di integrazione sociale. Le attività educative con il Patrimonio sono percorso significativo per progettare il futuro con una migliore comprensione del passato. La Convenzione Europea del Paesaggio (2000) riconosce il Paesaggio come frutto dell’elaborazione delle culture locali e componente fondamentale del patrimonio culturale e naturale dell’Europa. Nel 2004 il Codice dei Beni culturali italiano nel sottolineare l’importanza della salvaguardia del paesaggio sollecita le Amministrazioni pubbliche ( quindi in primis la scuola) ad intraprendere attività di formazione e di educazione. 2 M. Chiara Zerbi, Guida europea all’osservazione del patrimonio rurale, CEMAT, Guerini Scientifica, Milano 2011, V ristampa. 3 F. Bertolino , A. Piccinelli , A. Perazzone, Extraterrestri in campagna , quando insegnanti e ragazzi sbarcano in fattoria didattica, Negretto editore, Università della Valle d’Aosta 2012. Tra le numerosissime pubblicazioni che a livello didattico trattano il tema della scuola in fattoria si segnala il progetto La scuola in Campo a livello nazionale che produce sussidi per l’attività: A d esempio. La scuola in campo, quando la fattoria incontra la scuola della Regione Lombardia in collaborazione con EXPO 2015. 120
2. La ricerca di natura e di campagna ha portato all’esplosione dell’agriturismo da considerare importante per recuperare una dimensione fondamentale della nostra storia e della nostra cultura. Lo storico Massimo Montanari riflettendo su questo fenomeno, sottolinea l’interdipendenza, per la storia italiana, tra città e campagna poiché le città sono cresciute, a partire da Medioevo, in rapporto strettissimo e organico con la loro campagna. Guardandosi dalla tentazione ambigua e mistificatoria di ricercare nella campagna una mai esistita naturalità e un non so che di selvatico che si opporrebbe alla civiltà urbana si tratta di recuperare i tratti di integrazione perché il turista, in campagna, non visita un altro mondo, ma riflette sulle proprie radici4.
Il Paesaggio agrario e il patrimonio rurale, contenuto scolastico innovativo Il cambiamento di paradigma curricolare per guardare al Paesaggio agrario come contenuto innovativo è sostenuto da diverse argomentazioni. • Occorre guardare all’agricoltura in modo non troppo dissimile da come si deve guardare al patrimonio artistico e culturale con il racconto della sua inimitabile storia. La storia dell’agricoltura è una storia italiana sin dall’Impero romano quando già Plinio il Vecchio ricordava la diversità dei prodotti e la diversità dei paesaggi delle campagne. Aveva pure attenzioni specifiche e, ad esempio, ricordava l’introduzione in Italia del miglio di colore nero a grani rossi dall’India. Storia che si sviluppa nel Medioevo e via via sino ai nostri giorni con episodi e svolte significative che hanno segnato profondamente la società e la civiltà italiana.5 In questa prospettiva il paesaggio agrario è sistema di segni, luogo e racconto. Carlo Cattaneo, come ricorda Bevilacqua6, sosteneva che cultura e felicità dei popoli non dipendono tanto dalli spettacolosi mutamenti della politica, quanto dall’azione perenne di certi principi che si trasmettono inosservati in un ordine inferiore di istituzioni…, riferendosi a quei saperi e consuetudini che soprattutto nel mondo contadino evolvono in modo continuo e quasi sotterraneo7. Porta come esempio la norma della Servitù d’acquedotto, principio consuetudinario in base al quale nessun proprietario nelle campagne lombarde poteva opporsi a lasciar passare nel proprio fondo un corso d’acqua destinato ad irrigare le terre di un vicino; regola che consentiva la possibilità d’uso di un bene comune come l’acqua che sovrastava vincoli e confini della proprietà privata. Una traduzione didattica della Storia del Paesaggio agrario italiano di Emilio Sereni rappresenta sicuramente quella valorizzazione che il geografo Bonapace auspicava. 4 M. Montanari, Campagna e città, turisti e radici, articolo della rubrica Cibo è cultura in «Consumatori», marzo 2016. 5 P. Bevilaqua, Felicità d’Italia, Laterza, Bari 2017, pp 28. 6 P. Bevilaqua, cit. pp. 6 -12. 7 C. Cattaneo, D’alcune istituzioni dell’Alta Italia applicabili a sollievo dell’Irlanda, in Scritti economici, Le Monnier, Firenze 1952. 121
• Occorre conoscere nel panorama dei paesaggi agrari del “quotidiano” le emergenze storiche ancora esistenti con l’attenzione che si riserva ai capolavori d’arte e alla loro vita nel presente. L’esperienza dei paesaggi rurali storici e della loro tutela va in questa direzione e la loro conoscenza e comprensione a scuola contribuirebbe a testimoniare l’importanza del paesaggio come una delle espressioni storicamente più rappresentative dell’identità culturale del Paese. É uno strumento prezioso in proposito il Catalogo nazionale dei paesaggi rurali storici del Ministero per le politiche agricole. I paesaggi agrari ereditati dal passato e ancora esistenti in precario equilibrio, sono contrassegnati, infatti, dal forte rapporto dell’uomo con l’ambiente rurale, ma soprattutto sono la testimonianza della totalità della cultura materiale e immateriale di popolazioni nell’evolversi delle stagioni storiche. Gli esperti sottolineano come costituiscano un formidabile punto di partenza per la sperimentazione di nuovi strumenti di conservazione e valorizzazione e offrono un materiale di studio di assoluto interesse per molti settori scientifici.8 In questo senso i paesaggi rurali storici, letti e analizzati a scuola, aprono alla sperimentazione di percorsi diversi per la “patrimonializzazione” degli elementi costitutivi del paesaggio rurale; lo fanno in ambienti reali e vivi che si misurano quotidianamente con i problemi di evoluzione e di sostenibilità di ogni paesaggio e territorio. Introducono altresì il più vasto concetto di “patrimonio rurale vivente” perché in essi si uniscono il consumo, la produzione e la distribuzione di beni insieme ai processi di patrimonializzazione. È importante che gli studenti siano avvicinati ai significati complessi e profondi dei paesaggi agrari italiani e dalla conoscenza nascerà l’apprezzamento per quelle forme di rapporto con il territorio che ne preservano l’identità. • Ma il paesaggio agrario in generale, reduce dalla grande trasformazione della seconda metà del ‘900 e in considerazione del travolgente cambiamento tecnologico, è a rischio oblio come la cosiddetta civiltà contadina. La memoria collettiva, consapevole di questo rischio, ha da sé reagito a partire dagli anni ‘90 con la nascita di un numero enorme di musei e raccolte che di agricoltura e di mondo rurale fanno il nucleo principale del loro racconto. Ora si tratta di creare le condizioni perché questo sforzo - oggi in grande crisi per la scarsità di finanziamenti e attenzioni - non vada vanificato o non trovi integrazione con le nuove domande di agricoltura e di rapporto uomo/ambiente rurale. I Musei del mondo dell’agricoltura - dai musei del cibo a quelli della civiltà contadina etc... - rappresentano una opportunità didattica unica per sviluppare in collaborazione con la scuola, la scoperta di questi nuovi contenuti rappresentati appunto dal paesaggio agrario e dal patrimonio rurale. In tutto il mondo è sottolineata la loro possibilità di agire nel quadro dello sviluppo sostenibile del territorio per la responsabilità patrimoniale che connota la loro missione proponendosi come centri di interpretazione del patrimonio diffuso. La Carta 8 M. Cerè, I paesaggi rurali storici, il futuro è nelle origini, in «IBC», anno XXV, 2017 M. Agnoletti (a cura di), Paesaggi rurali storici, per un catalogo nazionale, Laterza, Roma Bari 2010. 122
di Siena9 approvata nell’ambito della Conferenza mondiale 2016 di ICOM (International Council of Museums) sul tema “Musei e paesaggi culturali” ha sollecitato che i musei divengano non solo dei presidi territoriali di tutela attiva e dei centri di responsabilità patrimoniale, ma anche dei centri di interpretazione del territorio ampliando la propria missione , dispiegando le proprie attività nel campo aperto del patrimonio culturale e del paesaggio che li circonda e di cui possono assumere, a gradi diversi, la responsabilità. Osservazione tanto più vera e importante se si pensa che i musei del Mondo agricolo sono in maggioranza piccoli musei locali spesso trascurati e che possono trovare una loro efficacia e sviluppo in rapporto con le scuole di prossimità studiando e facendo ricerca appunto sui paesaggi agrari e sul grande patrimonio connesso. • Sul piano metodologico il paesaggio agrario è un concetto organizzatore forte perché si presenta come argomento utile per superare la separatezza dei saperi che divide il mondo in frammenti disgiunti e fraziona i problemi. E’ funzionale infatti all’utilizzo di tutti quei metodi che sollecitano il protagonismo degli studenti e di cui a scuola si parla molto. Il paesaggio agrario e il patrimonio rurale sono temi trasversali che coniugano l’attualità dei contenuti con le competenze disciplinari e l’impegno civile nell’ambito della cittadinanza attiva. Seguendo il pensiero di Edgar Morin10 il paesaggio agrario italiano, europeo, mondiale, connette i problemi locali con i grandi temi della comunità di destino di tutti i popoli della Terra. È parte di un nuovo umanesimo che lega l’umanità all’ecosistema globale. L’antico umanesimo ha prodotto un universalismo astratto, ideale e culturale; il nuovo umanesimo è concreto ed è generato dalla diversità degli ecosistemi locali che si riconoscono nell’unità dell’ecosistema globale affrontando i grandi paradossi della globalizzazione soprattutto in materia di produzione e uso delle risorse. • La scuola, dal punto di vista normativo, è attrezzata per affrontare il compito di portare dentro le aule e nei progetti questi temi trasversali? Abbiamo assistito dal 1998, con il primo Accordo quadro tra MIBACT e MIUR sull’educazione al Patrimonio (vedi nota 1) ad un crescendo di attenzione per questi temi che si è tradotta in documenti e sollecitazioni. È stato sottolineato come il patrimonio e la sua conoscenza siano funzionali per affrontare due emergenze educative specifiche relative all’educazione alla cittadinanza democratica e all’integrazione delle culture in una scuola sempre più multi etnica11, ma soprattutto i temi 9 ICOM, Musei e paesaggi culturali, ICOM, Carta di Siena, 2016. 10 E. Morin, 7 lezioni sul pensiero globale, Cortina, 2016 11 Ripercorre il percorso di crescita di questi temi sino al 2008 il volume: M. Calidoni et alii, Per un’educazione al patrimonio culturale. 22 tesi, Franco Angeli, Milano 2008. Per uno sguardo generale si veda: C. Tosco, I beni culturali: Storia, tutela e valorizzazione, Il Mulino, Bologna 2015. Cittadinanza e Costituzione è una disciplina di studio introdotta nei programmi di tutte le scuole di ogni ordine e grado dalla legge 169 del 30/10/2008. Si tratta di un insegnamento che, oltre ai temi classici dell’educazione civica comprende anche l’educazione ambientale, l’educa123
relativi alla riforma della Buona Scuola potrebbero favorire quel processo innovativo che concetti organizzatori come Patrimonio e Paesaggio implicano. Il rapporto scuola/territorio è condizione essenziale per il rinnovamento. Il decreto della Buona Scuola: “Norme sulla promozione della cultura umanistica, sulla valorizzazione del patrimonio e delle produzioni culturali e sul sostegno alla creatività” (13/04/2017 n° 60, G.U. 16/05/2017) parte dalla incentivazione della pratica musicale e artistica ma espressamente prevede di sviluppare la conoscenza storico – critica del patrimonio culturale italiano. In questo contesto è a nostro parere importante non marginalizzare i temi del paesaggio agrario e del patrimonio rurale privilegiando ancora una volta lo sguardo elitario di una concezione ormai superata di Patrimonio e Paesaggio. Le Indicazioni nazionali rappresentano le linee guida essenziali per la progettazione scolastica autonoma. Il Documento “Indicazioni nazionali e nuovi scenari” diffuso alle scuole nel febbraio 2018 è stato elaborato dal Comitato scientifico nazionale per l’attuazione delle Indicazioni nazionali e il miglioramento continuo dell’insegnamento di cui al D.M. 1/8/2017, n. 537, integrato con D.M. 16/11/2017, n. 910. Il testo è una rilettura mirata ed approfondita delle Indicazioni 2012 nella prospettiva dello sviluppo di competenze per la cittadinanza attiva e la sostenibilità. In particolare riprende e sottolinea l’attualità di quanto già previsto nel testo ufficiale delle Indicazioni e relativo all’insegnamento della geografia come disciplina di cerniera tra le discipline umanistiche e quelle scientifiche e precisa : La conoscenza e la valorizzazione del patrimonio culturale ereditato dal passato, con i suoi “segni” leggibili sul territorio, si affianca allo studio del paesaggio, contenitore di tutte le memorie materiali e immateriali, anche nella loro proiezione futura (Indicazioni nazionali primo ciclo scolastico, 2012). Nel 2015 il MiBACT – Direzione Generale Educazione e Ricerca – ha diffuso il primo Piano nazionale per l’educazione al patrimonio culturale. Il Documento intende monitorare e sollecitare l’attività interistituzionale e nella versione 2017 precisa: L’Educazione al Paesaggio è educazione a tutti i livelli: intellettivo, emotivo e pratico. Ha a che fare con la conoscenza, con i sentimenti e con le azioni concrete. È quindi un utile strumento per favorire il processo educativo generale, facendo leva su tutte le potenzialità del soggetto e sull’unità della persona. La prima edizione del Piano (2015) riconosce il paesaggio quale luogo della cultura dove è possibile sviluppare progetti di educazione al patrimonio culturale. Da questa prospettiva non è certamente estraneo il paesaggio agrario che amplia le relazioni della scuola oltre che con il settore dei Beni culturali, con le realtà formative sul territorio delle politiche agricole e dell’agricoltura12. zione alla legalità, al rispetto del bene pubblico e dei beni comuni . Sul tema della integrazione a scuola con il Patrimonio si veda il sito di Patrimonio e Intercultura, una risorsa on-line che la Fondazione ISMU - Iniziative e Studi sulla Multietnicità dedica all’ambito dell’educazione al patrimonio in chiave interculturale. 12 Il piano ha altresì uno sguardo europeo infatti in previsione della 21° Rèunion des Atelier du Conseil de l’Europe sur La mise en oeuvre de la Convention européenne du paysage e de 124
Paesaggio agrario e patrimonio rurale, alcuni strumenti di lavoro didattico L’analisi di alcune esperienze dei percorsi di conoscenza del paesaggio agrario è un utilissimo avvio al passaggio ed alla integrazione di questo contenuto nel curricolo di scuola. Tra le numerosissime esperienze già in atto si è scelto di fornire solo alcune essenziali sollecitazioni ricavate da pubblicazioni ed esperienze largamente conosciute e facilmente reperibili.
Materia paesaggio. Sguardi e progetti per il paesaggio rurale. Note e riflessioni dai laboratori per la gestione dei paesaggi rurali parmensi e ravennati (ed. 2013-2014)13 L’elaborato offre una sintesi degli obiettivi perseguiti, della metodologia utilizzata e delle attività svolte nel corso del laboratorio “Materia Paesaggio”, svoltosi a Parma e Ravenna. Il quaderno raccoglie il percorso e gli esiti dei laboratori dalla Regione Emilia-Romagna, Servizio Pianificazione urbanistica, paesaggio e uso sostenibile del territorio, svolto in collaborazione col Mibact. I due laboratori hanno visto la partecipazione di gruppi interdisciplinari di lavoro (architetti, agronomi, geologi, ingegneri, tecnici pubblici e privati…) nei territori di Parma e Ravenna in cui, dopo un’indagine del territorio sul campo e documentaria, sono state individuate delle linee-guida paesaggistiche per le trasformazioni ediliziourbanistiche del territorio rurale molto utili per impostare lavori e ricerche scolastiche locali nei vari gradi di istruzione con un percorso di rielaborazione e adattamento che ogni traduzione didattica comporta. Zerbi Maria Chiara, Guida europea all’osservazione del patrimonio rurale, CEMAT, Guerini Scientifica, 2007 Voluta dal Comitato degli alti funzionari della CEMAT (Conferenza dei Ministri responsabili della pianificazione del territorio del Consiglio d’Europa), la Guida presenta idee chiare e articolate per conoscere e valorizzare il patrimonio rurale. La guida allarga l’ottica tradizionale prevalentemente architettonica comprendendo l’insieme degli elementi materiali e immateriali che testimoniano particolari relazioni le relazioni che la comunità umana ha instaurato nel corso della storia con un territorio rurale (storie di vita, oggetti, patrimonio etc…). Si tratta di una esemplare proposta di percorso didattico da interpretare e applicare nei più diversi contesti agro/ambientali.
Le lampade di Aladino Una collana di strumenti educativi di Italia Nostra e delI’Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani, per saper vedere il patrimonio culturale: paesaggi, arte, città, storia. Libri digitali educativi dedicati a insegnanti delle scuole primarie e secondarie, agli alunni e a tutti coloro che vogliono saper vedere il patrimonio culturale attraverso l’education che avrà luogo in Calabria nell’ottobre del 2018, la Direzione Generale Educazione e Ricerca d’Intesa con la Direzione Generale Archeologia, belle arti e paesaggio ha lanciato il progetto Raccontami un paesaggio finalizzato a promuovere iniziative educative sul tema del paesaggio indirizzate a bambini 6 -10 anni (scuole e famiglie) di cui si potrà dare conto in occasione dell’incontro previsto del 2018. 13 Dal sito della regione Emilia Romagna si può scaricare il volume 125
una lente speciale: una chiave di lettura, uno spirito geniale che illumina e risveglia curiosità e interessi. Per realizzare il proprio progetto educativo nazionale Italia Nostra ha formalizzato intese e protocolli di lavoro con la Direzione Generale Educazione e Ricerca del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo e con il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca. Direttore della collana è Alessandra Mottola Molfino, già presidente nazionale di Italia Nostra, storica dell’arte e museologa. www.italianostraedu.org/?page_id=3883 Per uno specifico paesaggio agrario si veda l’e-book della collana: A. Visconti, La pianura padana irrigua: storia e prospettive, terra, acqua, lavoro, Treccani, Collana Aladino, 2016.
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Il Premio del Paesaggio del Consiglio d’Europa
Carlo Tosco
Politecnico di Torino
Abbiamo pensato di dire qualcosa a proposito di questa premiazione che si è svolta nel febbraio di quest’anno, importante perché riguarda proprio il patrimonio culturale e il paesaggio. Un tema quindi molto vicino agli interessi della nostra Summer School. Inoltre ho fatto personalmente parte della Commissione, e quindi potrò raccontarvi come si sono svolti i lavori e le attività che ho seguito da vicino. Che cos’è il Premio Europeo del paesaggio? Dovreste sapere più o meno tutti che esiste dal 2001 una Convenzione europea del paesaggio che prevede, tra le diverse attività, un premio biennale da assegnare a un intervento di paesaggio che meglio incarna i principi della Convenzione stessa. È un discorso interessante che richiama l’idea dell’esemplarità: la Convenzione ha dei principi e quindi qual è quell’intervento nell’area europea che in qualche modo può essere proposto come esemplare e valere per tutti come punto di riferimento? Come funziona il premio? Praticamente ogni nazione aderente alla Convenzione elegge un suo vincitore del premio nazionale del paesaggio, e conseguentemente l’anno successivo, tra tutti i premi nazionali giunti a Bruxelles, viene scelto il premio Europeo. L’iniziativa è buona e significativa perché, per quell’anno, in Europa si saprà qual è il punto di riferimento. Avviene perciò ogni due anni: un anno si assegna il premio nazionale, l’anno successivo quello europeo. Quest’anno è stato l’anno dei nazionali. La Convenzione è stata scritta nel 2001, ratificata dall’Italia nel 2005 e quindi noi entriamo in gioco a partire da quell’anno. Ci sono state 6 edizioni ad oggi e l’Italia ha vinto una volta il premio Europeo, con il progetto per Carbonia nel 2011. Carbonia ė una città della Sardegna dove vi sono industrie del carbone in gran parte dismesse: un grande patrimonio del lavoro e della memoria quasi abbandonato, che ha vissuto una fase molto importante dell’architettura negli anni ‘30, con la realizzazione d’interessantissimi edifici. Questo patrimonio è stato in parte recuperato e rilanciato, nel tentativo di farne un luogo museale, di urbanizzazione paesaggistica e di sviluppo locale, tanto da vincere il premio nazionale prima ed europeo poi. Com’è invece la situazione quest’anno? Vi presento molto brevemente, in poche parole, cosa è successo. È interessante vedere quanti hanno aderito a questo premio, per valutare il grado d’interesse nazionale all’iniziativa. Le adesioni sono state 120, quindi una notevole risposta da parte dei territori. Poi, con una scrematura, si è scesi 127
a 90, poiché alcune adesioni non erano adeguate oppure non avevano rispettato tutti i termini. Vediamo le candidature per regioni: le più attive sono il Piemonte e la Lombardia, che hanno presentato più progetti; al sud la Puglia, la Calabria e la Sicilia sono quelle prevalenti. È interessante anche la tipologia delle candidature: le abbiamo suddivise per temi e abbiamo notato che gran parte dei progetti riguardano il recupero e la tutela. Anche per questo ho pensato di presentarlo qui oggi: sono tutti progetti finalizzati, il 70% circa, al recupero del patrimonio, all’idea di salvare dei beni culturali, architettonici, artistici, archeologici, con una particolare attenzione al paesaggio. Si segnala anche la presenza del tema dell’arte contemporanea (10% delle candidature), poi alcuni programmi complessi, misti, e pochi programmi di formazione rivolti ai giovani, interessanti perché mettono l’accento sul paesaggio come strumento di educazione nelle scuole. L’iter del premio è stato diretto dal MiBACT, e il procedimento è stato seguito sia dal ministro Franceschini, che ha dimostrato molto interesse, e dal viceministro Borletti Buitoni, delegato al tema del paesaggio, che è infatti per noi un riferimento importante. L’abbiamo anche invitata qui a Gattatico: se quest’anno abbiamo avuto l’ottima visita del Ministro Galletti, ci auspichiamo per un altro anno di ospitare il responsabile ministeriale al paesaggio. Dopo questa una semplice presentazione voi mi chiederete: ma chi ha vinto? Allora, ha vinto un progetto interessante per cui abbiamo dibattuto a lungo, poiché non tutti erano d’accordo: “Agrigentium”, un sito importantissimo, uno dei centri di archeologia più noti del Mediterraneo, La Valle Dei Templi di Agrigento. Ci si chiederà perché far vincere un sito già notissimo e importantissimo, che non ha bisogno di particolare riconoscimento. Perché a vincere non sono stati i templi come resti monumentali, indiscutibilmente di estremo interesse, bensì la gestione del parco. Le scelte sono andate in direzione di un paesaggio storico locale pienamente valorizzato e in connessione con il patrimonio archeologico. Non si è visto il valore archeologico come un ritaglio isolato nel contesto ambientale in cui si trova, ma inserito in una rete di interconnessioni, di grande potenzialità. Un esempio interessante è l’agricoltura: mentre la gestione precedente aveva escluso le attività agricole dall’area archeologica per motivi di compatibilità, quest’amministrazione invece l’ha favorita, cercando di rispettare i luoghi dove c’era la potenzialità di ritrovamenti. Ha cercato di promuovere la presenza di un’attività agricola, quindi tradizionale, seguita secondo i principi dell’agricoltura locale. I famosi giardini Kolymbethra, ai piedi dei templi, un tempo quasi abbandonati, sono stati rivitalizzati, affidati al FAI. Di origine Islamica, hanno un sistema di organizzazione bellissimo e oggi sono un magnifico agrumeto. Altro esempio, la ferrovia ottocentesca dismessa, che è stata riattivata per cercare di ridare spazio alle forme tradizionali di comunicazione locali. Ecco, tutto questo è grazie non solo ai templi straordinari, ma alla gestione, al modo di valorizzare complessivamente l’area. Un accenno ancora al secondo e terzo premio: il secondo premio è andato al parco Nord di Milano, un’interessante area di sistemazione, ex industriale, che è stata rivalutata e ripensata in termini di nuova agricoltura, capace d’interagire sia con gli impianti industriali dismessi, sia con le nuove forme di residenza. Quindi non si tratta di un parco bloccato, ma di un parco che si delinea in dialogo con la preesistenza. 128
Terzo e ultimo premio è andato al Piemonte, a Ostana, una borgata delle Alpi cuneesi, dove si è promosso il recupero interessantissimo, globale, di un villaggio quasi abbandonato. L’intervento è stato posto all’attenzione della giuria per le tecniche tradizionali adottate, per i sistemi ricostruttivi che hanno evitato forme di imitazione “vernacolare”, facendo incontrare il tradizionale con il nuovo, con la nuova architettura contemporanea e rivitalizzando la presenza dei cittadini residenti all’interno dell’area. In conclusione si tratta di scelte interessanti: sono stati premiati uno dei siti archeologici più importanti del Mediterraneo, insieme ad un parco ricavato in un’area industriale milanese dismessa e ad un paesino di 100 anime delle Alpi Cuneesi. Tutti questi interventi, di scala, ambiente e contesto geografico molto diversi, hanno un elemento prezioso in comune: hanno saputo dialogare in modo innovativo con il paesaggio.
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PARTE II PAESAGGIO, TURISMO E SVILUPPO CULTURALE
Il potenziale turistico dei paesaggi rurali
Monica Meini
Università del Molise
Per riprendere il filo del discorso In un contributo pubblicato in una precedente edizione di questa Summer School trattavo – con metodi misti di geografia storica e geografia culturale – l’analisi del paesaggio in una fase di passaggio epocale della storia del nostro Paese1. A conclusione della disamina, che si era avvalsa di fonti letterarie e fotografiche anche in omaggio al lavoro di Emilio Sereni, si affermava l’importanza di utilizzare strumenti di analisi del paesaggio utili per non ancorarne la lettura alla fissità dell’immagine iconografica, per non rischiare di perderne la naturale dimensione evolutiva. Struttura e immagine – si sosteneva – sono aspetti inscindibili del paesaggio, che in sede di analisi possono essere distinti per pervenire su basi diverse ad una riconoscibilità delle trasformazioni nel tempo. Il presente contributo si ricollega non poco a tale discorso, pur assumendo un punto vista diverso – quello del potenziale turistico – con una proiezione in avanti più che uno sguardo all’indietro, trattando di paesaggi rurali e non solo agrari, partendo da una generale perdita del senso di paesaggio come bene comune per provare a confrontare visioni differenziate eppure ugualmente legittime, cercando di fare coesistere la memoria dei paesaggi del passato con la dinamica evolutiva dei paesaggi contemporanei.
Nuove ruralità e immagini di paesaggio Crescente disinteresse per la terra, abbandono ed esodo della popolazione rurale verso le aree urbane si sommano ormai da tempo a fenomeni opposti, di attrazione per nuove forme di ruralità basate sulla funzione estetica del paesaggio e sul relax offerto agli abitanti delle città nel loro tempo libero. Questa contraddittorietà riflette una dicotomia nella lettura delle risorse rurali e uno scollamento negli immaginari legate alla campagna: da una parte quelli di coloro che vi abitano permanentemente, 1 M. Meini, Sguardi sui paesaggi italiani dal dopoguerra agli anni Sessanta, in G. Bonini, A. Brusa, R. Pazzagli (a cura di), Paesaggi agrari del Novecento. Continuità e fratture, Quaderni dell’Istituto Cervi 9, Reggio Emilia 2013, pp. 105-116. 133
dall’altra quelli di chi le vive temporaneamente per esigenze ricreative. Tale dicotomia concettuale rivela matrici emotive ed estetiche diverse, e sulla base della dissociazione di immagini che viene a crearsi fra insiders e outsiders sono venute talvolta a prodursi forme di territorializzazione turistica di origine esogena che, non coinvolgendo gli abitanti nel processo di sviluppo, determinano un’accelerazione dell’esodo demografico anziché la riduzione dello spopolamento, condizione preliminare per uno sviluppo sostenibile delle aree rurali. Peraltro la frammentazione dell’immagine paesaggistica non si limita al dualismo sopra accennato fra residenti e visitatori, ma riguarda una pluralità di attori, con specifiche percezioni e particolari interessi. Appare dunque fondamentale comprendere quali visioni della ruralità coesistano su uno stesso territorio, al fine di favorire una convergenza strategica per la definizione e il rafforzamento di una immagine complessiva capace di essere attraente all’esterno e di generare autoregolazione all’interno2. Vengono qui presentati linee metodologiche e aspetti applicativi di una ricerca da noi condotta sul processo di creazione del patrimonio culturale dei paesaggi rurali mettendo a confronto visioni ed esperienze di abitanti e turisti. Il valore patrimoniale del paesaggio viene considerato nelle due accezioni di bene culturale e bene comune, in entrambi i casi visto come risorsa per una comunità3: secondo la prima accezione, il paesaggio assume un ruolo connotativo quale risultato di forme di convivenza e convivialità storicizzate; nella seconda accezione assume un ruolo performativo, in quanto preso come referente per la condivisione di valori identitari su cui fondare nuove territorializzazioni e pratiche condivise di sviluppo locale (ad esempio, quelle del turismo rurale). Il tema del valore sociale del paesaggio è stato oggetto di recente dibattito nella geografia italiana, che - senza pervenire a posizioni definitive e neodeterministiche - ha tuttavia enucleato alcuni temi su cui appare opportuno indirizzare la ricerca, secondo approcci sempre più transdisciplinari (numero monografico Paesaggio e democrazia della Rivista Geografica Italiana, 120, n.4, 2013). La questione più pregnante resta a nostro parere la definizione condivisa dei tratti costitutivi di un paesaggio, quelli che fanno di un paesaggio quello specifico paesaggio e meritano pertanto di essere conservati, sia che esso venga colto nella irriproducibilità del suo 2 Si rimanda qui a una serie di concettualizzazioni di supporto: sui processi di territorializzazione, si veda C. Raffestin, Territorializzazione, deterritorializzazione, riterritorializzazione e informazione, in A. Turco (a cura di), Regione e regionalizzazione, FrancoAngeli, Milano 1984, pp. 69-82; sui sistemi territoriali autopoietici e sui modelli territoriali per l’analisi dello sviluppo locale, G. Dematteis, Il modello SLoT come strumento di analisi dello sviluppo locale, in C. Rossignolo, C. S. Imarisio (a cura di), Una geografia dei luoghi per lo sviluppo locale. Approcci metodologici e studi di caso, SLoT Quaderno 3, Baskerville, Bologna 2003, pp. 13-27; sulla pianificazione strategica e la coscienza di luogo, A. Magnaghi, Il progetto locale: verso la coscienza di luogo, Bollati Boringhieri, Torino 2010; sulla applicazione di questi concetti al turismo, F. Pollice, Territori del turismo. Una lettura geografica delle politiche del turismo, FrancoAngeli, Milano 2002 e M. Meini, Turismo al plurale. Una lettura integrata del territorio per un’offerta turistica sostenibile, FrancoAngeli, Milano 2012. 3 C. Caldo, V. Guarrasi, Beni culturali e geografia, Pàtron, Bologna 1994; G. Dematteis, La geografia dei Beni culturali come sapere progettuale, in «Rivista Geografica Italiana», 105, 1998, n. 1, pp. 24-35; M. Mautone (a cura di), I Beni culturali. Risorse per l’organizzazione del territorio, Pàtron, Bologna 2001. 134
insieme sia che venga assunto a “tipo” rappresentativo di specifiche combinazioni ripetute in varie parti della superficie terrestre. Questi tratti costitutivi possono essere considerati tali grazie a un modello interpretativo che include parametri di varia natura, di tipo biologico-ambientale e socio-culturale, e riguardano sia la dimensione materiale che quella intangibile del paesaggio, quest’ultima legata al sistema di valori, alle esperienze, alle emozioni che interessano tanto il piano individuale quanto il piano collettivo delle azioni e dei comportamenti. Al paesaggio rurale viene attribuito oggi un valore strategico, non solo per il suo legame con le qualità ambientali degli spazi rurali, ma anche in quanto esito e riflesso delle azioni territoriali. Oltre ad un approccio conservativo, si è fatto strada anche qui un approccio patrimoniale, che vede un incremento di valore tramite nuovi usi compatibili nell’ottica di uno sviluppo sostenibile4. Questo ultimo approccio rimanda ad una pluralità di dimensioni del paesaggio, tra cui quella semiotica, legata ai segni, ai simboli, agli iconemi5, di cui il turismo si nutre dando vita ad una propria iconografia paesaggistica. Il turismo rurale si caratterizza per una forte connotazione geografica: si basa sulla costruzione di capitale territoriale e sulle modalità relazionali attraverso cui si realizza tale costruzione, al centro della quale troviamo il capitale simbolico6. Se accettiamo l’idea che il paesaggio possa svolgere un ruolo di mediazione nel delineare l’azione territoriale, in funzione della dimensione comunicativa che lo caratterizza come sistema di segni, si comprende allora come sia importante riflettere anche sui processi di percezione e conoscenza che si realizzano all’interno e all’esterno della comunità locale. A questo fine risulta utile mettere a confronto molteplici punti di vista su un paesaggio/territorio, perché il sistema di valori da attribuire ai beni si può costruire più pienamente attraverso sguardi incrociati. Da una parte, tale sistema può uscire arricchito dal confronto fra insiders e outsiders: questi ultimi, con il loro sguardo distaccato ma desideroso di conoscere, riescono spesso a leggere in maniera più nitida i valori del territorio e le relazioni semantiche tra elementi del paesaggio, e messi di fronte a questa lettura, gli abitanti possono comprendere le potenzialità territoriali inespresse; dall’altra, il confronto con modelli socio-culturali estranei alla comunità locale porta con sé rischi di colonizzazione culturale e può determinare forme di sviluppo esogeno poco sostenibili. Si rende inoltre necessario un confronto interno alla comunità locale, per pervenire ad una idea condivisa sul paesaggio come riflesso di scelte progettuali che interessano il territorio.
4 M. C. Zerbi (a cura di), Il paesaggio rurale: un approccio patrimoniale, Giappichelli, Torino 2007. 5 E. Turri, Semiologia del paesaggio italiano, Longanesi & C., Milano 1979. 6 Si vedano: G. Belletti, G. Berti, Turismo, ruralità e sostenibilità attraverso l’analisi delle configurazioni turistiche, in A. Pacciani (a cura), Aree rurali e configurazioni turistiche. Differenziazione e sentieri di sviluppo in Toscana, FrancoAngeli, Milano 2011, pp. 21-62; B. Garrod, R. Wornell, R. Youell, Re-conceptualizing rural resources as countryside capital: The case of rural tourism, in «Journal of Rural Studies», 22, 2006, n.1, pp.117-128; G. Brunori, Post-rural processes in wealthy rural areas: hybrid networks and symbolic capital in T.k. Mursden, J. Murdoch (Eds.), Between the Local and the Global: Confronting Complexity of the Agri-Food Sector, Research, in «Rural Sociology and Development», 12, 2006, Emerald Group Publishing Limited, pp.121-145. 135
Paesaggio rurale e immagine turistica Anche nel settore turistico il tema della ruralità ha assunto una nuova caratterizzazione: non più considerato come espressione di arretratezza economica, culturale e mancanza di opportunità, bensì come detentore dei valori legati all’integrità culturale e ambientale, dove vivere il tempo in una dimensione meno conflittuale e accelerata rispetto alle aree urbane. In Italia sono cresciute molto le aziende agrituristiche, che rappresentano la tipologia ricettiva preferita da chi pratica turismo rurale, con una tendenza a differenziare l’offerta di servizi. La tendenziale crescita del turismo si accompagna alle continue modificazioni delle esigenze della domanda, influenzate da una serie di fattori esterni: la crisi economica, politica e dei consumi; la sicurezza, intesa sia come grado di tranquillità offerta da una destinazione che come possibilità di distensione e allontanamento dal frenetico vivere quotidiano; l’opportunità di dedicare al viaggio più periodi durante l’anno; la globalizzazione e le potenzialità di Internet. Le indagini condotte su preferenze e comportamenti di scelta del turista evidenziano come una nicchia piuttosto consistente mostri attenzione ai temi della sostenibilità ambientale, della natura, dell’esperienza e dell’autenticità, non solo nella fase di scelta della meta di viaggio, ma anche nel modo di vivere il tempo dedicato alla vacanza. Emerge l’interesse verso mete alternative, lontane dai percorsi abituali, che permettano di esplorare ed entrare in contatto con il territorio e la sua comunità attraverso un approccio responsabile e rispettoso del patrimonio e dei valori immateriali locali. Insieme al turismo d’arte delle grandi città, il turismo culturale nei borghi e varie forme di turismo esperienziale mostrano trend positivi sia tra i viaggiatori italiani che tra gli stranieri7. Il periodo della vacanza è sempre più spesso accostato ad un momento di crescita culturale e personale, oppure rappresenta uno strumento per alimentare le proprie passioni e per recuperare la consapevolezza di sé. Tale necessità orienta il viaggiatore verso quelle destinazioni che offrono un pacchetto variegato di attività, ponendo attenzione al turismo esperienziale e permettendo agli ospiti di effettuare escursioni, degustazioni di prodotti della gastronomia locale, partecipazione ad eventi e festività tradizionali, con lo scopo di trasmettere al viaggiatore la giusta chiave di lettura del territorio che sta visitando. La richiesta di autenticità da parte di questo tipo di visitatori rappresenta anche un modo per preservare la memoria locale, le sue tradizioni e i saperi accumulati in secoli di storia, per tutelare e non stravolgere il senso del paesaggio. La questione è come comprendere i valori autentici dei paesaggi. È una questione che si pone – o meglio, che occorrerebbe porsi – nel momento in cui si attivano delle forme di promozione di un territorio – ufficiali o informali, pubbliche o private – attraverso le immagini dei suoi paesaggi. Lo spazio turistico, prima di essere reale, è un’immagine mentale: fatta di fotografie trasmesse dalle riviste specializzate e sempre più dai blog e dai social network, oltre che di testi letterari o giornalistici e di conversazioni reali e virtuali con amici. L’immagine turistica di un territorio nasce dalla possibilità e dal bisogno di lasciare il luogo del quotidiano per immergersi nei luoghi degli altri. Miossec sottolinea che 7 E. Becheri, I. Nuccio, Italiani in viaggio: come cambiano le preferenze, Mercury s.r.l. – Turistica, Firenze 2015. 136
il valore di sorpresa della teoria dell’informazione è per un verso legato all’originalità dell’ambiente e per l’altro alla capacità dell’individuo e del gruppo di decodificare il messaggio8. L’immagine turistica deve dunque comunicare la sensazione di un cambiamento, il quale tuttavia non può essere eccessivo per non interferire negativamente con il bisogno di sicurezza. Da una parte, il campo delle destinazioni si è ampliato da quando è aumentata la conoscenza e la comprensione di ambienti diversi, sia naturali che culturali; il turista è così in grado di cogliere (di riconoscere) dei segni che in un mondo diverso hanno la capacità di rassicurarlo. Dall’altra parte, le suggestioni dell’industria turistica sono spesso riduttive e volte ad una semplificazione eccessiva dell’immagine. Mentre le aspirazioni dei turisti sono nel tempo aumentate, le immagini offerte sono rimaste perlopiù evocatorie, più che altro utili per suggerire un’atmosfera ma generalmente riduttive e stereotipate.
Un caso studio sulla percezione del potenziale turistico dei paesaggi rurali La ricerca che qui presentiamo9 prende in considerazione le aree rurali, in particolare quelle italiane, come luoghi di natura, tradizioni e radici, ma anche di modernità, con contraddizioni economiche e sociali nel loro interscambio con le aree urbane, e come ambienti ricchi di risorse in cui natura, cultura e patrimoni sono suscettibili di essere trasformati in prodotti turistici. Essa si interroga sull’importanza dell’auto-riconoscimento da parte delle comunità locali per lo sviluppo del turismo sostenibile e più specificamente sull’uso della fotografia di paesaggio per la costruzione di un’immagine condivisa nelle aree rurali con potenziale turistico non sfruttato. I processi di urbanizzazione e globalizzazione hanno infatti rafforzato la necessità di una vita autentica, a contatto con la natura, guidando gli abitanti delle città verso nuove esplorazioni della campagna, mossi dall’attrattiva dei paesaggi rurali. L’industria del turismo ha accompagnato queste esigenze offrendo immagini e valori estetici sempre più stereotipati, promuovendo quelli di alcune regioni ben conosciute (Toscana, prima di tutto, e Chianti in particolare), creando un effetto frontiera e inserendo nuove regioni nei cataloghi turistici via via che le prime si andavano saturando, trascurandone altre meno famose e più marginali. Le regioni finora trascurate conservano ancora natura e culture autentiche e pertanto sono oggi sotto osservazione, soprattutto da parte di operatori turistici internazionali alla ricerca di nuovi spazi per il turismo rurale e che considerano generalmente il paesaggio come un’attrattiva di grande potenzialità. 8 J. M. Miossec, L’image touristique comme introduction à la géographie touristique, in «Annales de Géographie», 1977, pp. 55-70. 9 Per l’inquadramento della ricerca e i risultati di un primo studio esplorativo si rimanda a M. Meini, D. Ciliberti, La fotografia di paesaggio come specchio per l’auto-rappresentazione. Linee metodologiche e primi risultati di una ricerca sui paesaggi rurali in Molise, in B. Castiglioni, F. Parascandolo, M. Tanca (a cura di), Landscape as Mediator, Landscape as Commons. Prospettive internazionali di ricerca sul paesaggio, CLEUP, Padova 2015, pp. 165-181. Gli obiettivi del progetto di ricerca e alcuni primi risultati sono stati presentati per la prima volta alla Conferenza Eugeo 2013, mentre a Eugeo 2015 sono stati discussi i risultati di una seconda fase del progetto, che ha perfezionato gli strumenti di analisi usati nella fase esplorativa. 137
Lo scopo della nostra indagine è di approfondire la relazione tra comunità locale e paesaggio prendendo avvio da alcune domande: fino a che punto l’utilizzo di immagini attraenti di paesaggio può essere uno strumento di valorizzazione per le aree rurali? la fotografia di paesaggio può essere considerata come un mediatore tra abitanti e turisti? si può creare una piattaforma di confronto per la costruzione di immagini condivise di paesaggio? Saranno presentate sinteticamente le linee metodologiche della ricerca e alcune riflessioni a partire dai risultati di un’applicazione ai paesaggi del Molise, una delle regioni più rurali d’Italia, connotata da un elevato grado di valore ambientale e da patrimoni intangibili legati ai valori e alle tradizioni del mondo contadino, in grado di attrarre nicchie di mercato orientate verso il turismo rurale e paesaggistico10. L’impostazione della ricerca riflette gli orientamenti della geografia umana poststrutturalista11 e ruota intorno alla riflessione critica su alcuni temi e questioni di attualità come il valore patrimoniale del paesaggio, la rappresentazione cognitiva e il senso di appartenenza ai luoghi. Un asse importante riguarda la rappresentazione cognitiva del paesaggio12, indagata attraverso un metodo che integra dati visuali e dati verbali. Con riferimento ai paesaggi simbolici di Knox e Marston13, si cerca di identificare alcuni paesaggi potentemente evocativi come tipi rappresentativi di una regione. Una serie di fotografie viene selezionata come identificativa di paesaggi tipici di quella regione, quindi mostrata ad un campione di persone presenti a vario titolo nell’area di studio per verificarne la riconoscibilità e innescare un processo di analisi critica volto a sollecitare risposte, attraverso interviste semistrutturate, sul senso del luogo, sull’appartenenza territoriale, sul significato attribuito al paesaggio rurale e sulle visioni progettuali in merito allo sviluppo del territorio. Nel caso specifico, sono state selezionate 15 immagini rappresentative dei paesaggi regionali, situate in diverse aree del Molise. La ricerca combinata delle parole “Molise” e “paesaggio” è stata effettuata usando come fonti privilegiate i principali social media per la condivisione di foto (Panoramio, Flick’r, Instagram, Pinterest, Facebook); sui risultati prodotti è stata operata una selezione esperta delle fotografie, sia sulla base della loro ricorrenza sia perché rappresentative della varietà di ambienti presenti nella regione, includendovi alcuni iconemi ricorrenti nei risultati della ricerca in Internet e in grado di trovare corrispondenza nel senso di appartenenza ai luoghi da parte della popolazione locale (sito archeologico di Sepino, trabucco di Termoli, Santuario di Castelpetroso, Lago di Guardialfiera). 10 M. Meini, Per una valorizzazione delle potenzialità territoriali del Molise, in «Ambiente Società Territorio. Geografia nelle Scuole», n. 1, 2006, pp. 11-14; D. Ciliberti, Paesaggi agro-culturali ed ecomusei: le vie della memoria nel Basso Molise, in «Annali del turismo», 1, Geoprogress Edizioni, Novara 2012. 11 D. Gregory, Geographical Imaginations, Blackwell, Oxford 1994; R. PEET, Modern Geographical Thought, Blackwell, Oxford 1998. 12 Si vedano: D. Cosgrove, Social formation and symbolic landscape, Croom Helm, London 1984; F. Farinelli, I segni del mondo. Immagine cartografica e discorso geografico in età moderna, La Nuova Italia, Firenze 1992; Id., Geografia. Un’introduzione ai modelli del mondo, Einaudi, Torino 2003. 13 P. Knox, S. Marston, Places and Regions in Global Context, Prentice Hall, Upper Saddle River 1998. 138
Le immagini selezionate sono state successivamente utilizzate durante le interviste a un campione di residenti, imprenditori e operatori nei settori dell’agricoltura e del turismo, funzionari e amministratori pubblici14, cercando di rispondere alle seguenti domande di ricerca: i paesaggi nelle foto vengono riconosciuti come paesaggi molisani? Quali sono i paesaggi che più richiamano l’attaccamento al luogo e il senso di appartenenza? Qual è la partecipazione emotiva delle persone intervistate nel vedere i propri paesaggi ‘ordinari’ rappresentati come immagini-cartolina? Sono pronti a condividerli con visitatori esterni? Qual è la loro posizione in merito alla valorizzazione turistica di questi paesaggi? La traccia dell’intervista tocca le diverse dimensioni della rappresentazione cognitiva del paesaggio, così riassumibili: identificazione e percezione dei segni materiali dei paesaggi rurali (sfera sensibile); descrizione delle emozioni nella rievocazione dei paesaggi rurali (sfera emotiva); valutazione del rapporto tra comunità locale e paesaggio rurale (sfera analitica); attribuzione di valore territoriale agli elementi del paesaggio rurale (sfera progettuale). Per potere effettuare il confronto tra diverse prospettive, parte delle domande poste agli insiders sono state utilizzate anche nelle interviste ai turisti italiani e stranieri, accanto ad altre specifiche dell’esperienza turistica volte a comprendere il grado di attrattività dei paesaggi rurali molisani e la loro forza di attrazione. Il grado di partecipazione alle interviste è stato molto alto e i questionari predisposti hanno dimostrato di essere un valido strumento per l’autorappresentazione, per rafforzare la consapevolezza della varietà dei paesaggi nella regione e per riflettere sul loro potenziale di attrattività. I risultati sul riconoscimento dei luoghi rappresentati nelle fotografie di paesaggio hanno dato una risposta molto più positiva nella seconda indagine rispetto a quelli ottenuti nel primo studio esplorativo. Questo aspetto può essere ricondotto a vari motivi: la ridotta dimensione del campione nello studio esplorativo; l’inserimento, nella seconda selezione di foto, di alcuni paesaggi di chiara leggibilità come immagini consolidate del territorio molisano; una più ampia conoscenza di contenuti e immagini geografiche all’interno della popolazione locale attraverso un uso crescente di visual social media; una maggiore attenzione da parte dei locali verso il paesaggio, anche ordinario, stimolata da azioni di empowerment condotte con il sostegno dell’Università del Molise al fine di arricchire l’offerta turistica regionale, soprattutto nelle zone rurali e fuori dai sentieri battuti. La regione registra l’interesse da parte del turismo straniero soprattutto per gli aspetti ambientali e paesaggistici e per il turismo rurale, ma manca una vera patrimonializzazione di questi aspetti da parte degli autoctoni, con conseguente spreco di occasioni d’impresa, mancanza di servizi adeguati, rischi di colonizzazione culturale, scollamento di visioni strategiche. Nel gruppo degli insiders, emerge una conoscenza superficiale della geografia regionale da parte degli operatori turistici, rispetto a residenti e amministratori locali. Il dato, che emerge soprattutto negli operatori molisani di nascita, è significativo dell’incapacità di proporre un’offerta turistica innovativa a livello endogeno (fig. 1).
14 Tra popolazioni permanenti e temporanee, in Molise sono state raccolte 84 interviste nella seconda indagine e 20 nella prima indagine esplorativa. 139
Nella generalità dei casi, gli attori locali sanno identificare le risorse (almeno in parte) e sono consapevoli della necessità di una governance locale, ma non ne riconoscono quella parte che attraverso la sua valenza simbolica dovrebbe essere spesa nella produzione di valore aggiunto territoriale. In questo contesto sembra carente la capacità di utilizzare il paesaggio rurale in maniera innovativa per identificare il territorio e renderne riconoscibili le trame identitarie. Questa difficoltà comporta il rischio che i beni paesaggistici – difficili da riconoscere, da salvaguardare e rimettere in circolo, quindi da riterritorializzare – finiscano con l’essere considerati non essenziali, come presenze obsolete o di intralcio, privando di fatto il contesto locale di quello che dovrebbe essere uno degli elementi centrali del suo milieu. Ben lontano dalle risultanze di studi analoghi condotti nella campagna veneta15, qui la conoscenza e la coscienza del territorio, il senso dei luoghi, la consapevolezza del genius loci sembrano appartenere ancora alla popolazione locale, o almeno ad una parte di essa. Tuttavia non vi è fiducia che possano avviarsi processi virtuosi di mantenimento di un’identità profonda come quella rurale molisana, allo stesso tempo rendendola sostenibile e competitiva attraverso nuove forme di economia, di sostegno, di governo del territorio. Molti intervistati considerano il paesaggio rurale come un potenziale inespresso per la valorizzazione turistica del territorio, ma ritengono che ci sia da lavorare ancora molto per fornire strumenti coerenti con le prospettive intraviste.
Qualche riflessione per concludere La ricerca qui presentata si inserisce nel dibattito sul ruolo delle aree rurali nell’attivare processi di sviluppo neo-endogeno sfruttando le risorse locali nel quadro di un mercato turistico globale16. Ci si interroga sulle percezioni dei vari soggetti interessati nei processi di sviluppo rurale, sull’importanza dell’auto-riconoscimento da parte delle comunità locali come strumento essenziale per uno sviluppo rurale sostenibile e più specificamente sull’utilizzo della fotografia di paesaggio per la costruzione di un’immagine condivisa in regioni con potenziale turistico inespresso. La fotografia di paesaggio ha assunto negli ultimi anni una notevole rilevanza scientifica per l’emergere di un approccio visuale nelle scienze sociali17. Essa è sempre stata uno strumento utile in geografia, impiegata in più modi e con obiettivi diversi, principalmente per documentare la realtà geografica sia nella fissità del presente sia nei suoi processi evolutivi18. Nella nostra ricerca è stata impiegata anche come strumento per comunicare con i residenti, con gli operatori che lavorano nel territorio, con 15 Castiglioni B., M. De Marchi, V. Ferrario, S. Bin, N. Carestiato, A. De Nardi, Il paesaggio ‘democratico’ come chiave interpretativa del rapporto tra popolazione e territorio: applicazioni al caso veneto, in «Rivista geografica italiana», 117, 2010, pp. 93-126. 16 C. Ray, T. N. Jenkins, Putting postmodernity into practice: endongenous development and the role of traditional cultures in the rural development of marginal regions, in «Ecological Economics», 34, 2000, pp. 301-314. 17 E. Bignante, Geografia e ricerca visuale. Strumenti e metodi, Laterza, Roma-Bari 2011. 18 L. Cassi, M. Meini, Aldo Sestini. Fotografie di paesaggi, Carocci, Roma 2010. 140
Fig. 1 Il modo diverso di guardare il Molise tra insiders e outsiders è mostrato in queste due immagini. Da un lato, come suggerito dal tam tam mediatico che la campagna #molisenonesiste ha suscitato, il Molise è forse la regione meno promossa e meno conosciuta dagli italiani. D’altra parte, possiamo trovare un fascino originale e autentico nella pubblicità realizzata da un tour operator inglese, con il motto Non c’è altro posto come il Molise sovrascritto su un’immagine paesaggistica piuttosto interessante per la composizione di elementi simbolici che presenta. Fonte: www.facebook.com/molisnt; Molise 4 Seasons Ltd Tour Operator.
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gli amministratori locali e con gli osservatori esterni, i turisti. In questo contesto la fotografia ha rappresentato uno strumento per apprendere come questi percepiscono il paesaggio rurale, come lo vivono e quali valori ad esso attribuiscono. La fotografia di paesaggio viene usata dunque sia come mezzo per comprendere le visioni di paesaggio veicolate ad un pubblico ampio attraverso Internet sia come spunto di analisi per il riconoscimento di “segni” da parte di vari soggetti e dei “significati” ad essi attribuiti, ovvero delle rappresentazioni cognitive di diversi attori sociali19, con lo scopo di selezionare alcune immagini come elementi di una “rappresentazione per condividere”20 da mettere a disposizione per nuove progettualità e una nuova coscienza dei luoghi che incroci le varie prospettive e i diversi punti di vista. Ci si muove dunque su un piano antitetico rispetto a quello del marketing turistico tradizionale, orientato a sfruttare il potenziale attrattivo del paesaggio per l’immaginario collettivo e quindi a selezionare immagini fortemente semplificate e stereotipate. In questa prospettiva, la distinzione insider/outsider non sempre risulta appropriata, tanto più con riferimento al paesaggio, che è una costruzione continua a cui anche il turista col proprio sguardo partecipa, in maniera solo apparentemente passiva21. È opportuno interrogarsi sull’apporto dei diversi attori locali e distinguere anche all’interno dei diversi gruppi di abitanti temporanei, poiché un rapporto limitato nel tempo può essere non meno significativo di un rapporto duraturo, se consideriamo l’esistenza di gradi differenti di interesse e di coinvolgimento. Secondo questo approccio, non sono soltanto gli abitanti del luogo a partecipare legittimamente alla costruzione di nuovi immaginari territoriali, ma possono concorrere alla loro definizione tutti coloro che a un determinato territorio sentono di appartenere22. Il processo di creazione di patrimonio generalmente non tiene conto di fattori cruciali come le esperienze dei visitatori e la loro valutazione di artefatti culturali, né considera l’impatto della vasta gamma di soggetti interessati che sono direttamente o indirettamente coinvolti nel processo di valorizzazione del passato locale. Serve superare questa negligenza e promuovere una interpretazione interattiva dei paesaggi rurali in cui visitatori e residenti siano chiamati a interpretare insieme il senso dei luoghi attraverso piattaforme di dialogo, di confronto dei vari punti di vista. Le differenze qualitative nella percezione del valore paesaggistico e le esigenze delle varie ‘popolazioni’ devono essere integrati per tempo e in modo adeguato nel processo di pianificazione e di decisione, per operare una ricomposizione tra la soggettività delle percezioni e l’oggettività degli studi scientifici, tra approccio estetico e approccio razionale al paesaggio. 19 G. Rose, Visual methodologies: an introduction to the interpretation of visual materials, Sage, London 2001; B. Castiglioni (a cura di), Paesaggio e popolazione immigrata: primi risultati del progetto link, in «Materiali del Dipartimento di Geografia», 31, 2011. 20 D. Poli, Democrazia e pianificazione del paesaggio: governance, saperi contestuali e partecipazione per elevare la coscienza di luogo, in «Rivista Geografica Italiana», 120, 2013, pp.343-361. 21 M. Stock, Habiter dans les sociétés à individus mobiles: l’exemple des pratiques touristiques, 2005, EspacesTemps.net. 22 M. Meini, Dinamiche di mobilità e processi di sviluppo locale: l’opportunità di nuovi approcci, in Id. (a cura di), Mobilità e territorio. Flussi, attori, strategie, Pàtron, Bologna 2008, pp. 260-268. 142
Tutte le dinamiche di sviluppo locale, secondo l’idea del territorio come sistema spaziale aperto, si fondano contemporaneamente su spinte endogene ed esogene capaci di produrre innovazione territoriale, attraverso interventi che rendano i sistemi locali più ricchi di capitale sociale e quindi più capaci di esprimere progettazione autoriferita23. Un territorio si trasforma grazie all’apporto, consapevole o inconsapevole, di diversi gruppi di popolazione che con quel territorio entrano in contatto, per i motivi più vari e secondo modalità che si differenziano sia per gli spazi interessati che per la durata del contatto. Tra questi diversi gruppi, alcuni sono tendenzialmente interessati ad uno sfruttamento immediato delle risorse senza preoccuparsi degli impatti e delle ricadute. Altri invece, essendo più attenti alla gestione delle risorse nel lungo periodo e al mantenimento del patrimonio territoriale, partecipano direttamente o contribuiscono indirettamente alla sua identità, al riconoscimento di valori comuni, alla costruzione di senso, ai processi di sviluppo endogeno. Il riconoscimento del potenziale turistico dei paesaggi rurali per la produzione di nuovo senso territoriale non sfugge a queste logiche e può essere concepito solo come una costruzione plurale, la cui sostenibilità dipende dalla capacità di includere nella progettazione e di portare a sistema una molteplicità di prospettive.
23 M. Tinacci Mossello (a cura di), La sostenibilità dello sviluppo locale: politiche e strategie, GRISS, Gruppo di ricerca interuniversitario sullo sviluppo sostenibile, Pàtron, Bologna 2001, p. 31. 143
Il valore del paesaggio nel turismo enograstronomico
Carlo Cambi
Giornalista, critico gastronomico, autore di Linea Verde
Insieme a Magda Antonioli e a Donatella Scenelli Colombini sono fondatore del Movimento Turismo del vino, quello delle cantine aperte. Da cosa nacque quell’idea? Dalla constatazione che i francesi facevano vini sostanzialmente peggiori dei nostri, ma li vendevano quasi tutti in cantina. Quando abbiamo cominciato a fare cantine aperte, contavamo una centocinquantina di cantine aderenti, con una presenza media di un migliaio di persone che andavano a visitarle. Oggi mille cantine hanno aderito al progetto e ogni cantina in Italia è aperta. Cosa significa? Se si gusta il vino nel luogo dove si produce e qualcuno lo spiega, è meglio del berlo in solitudine. Tutto sta nelle percezioni. Anche il paesaggio esiste perché noi lo percepiamo, altrimenti non ci sarebbe. Il prodotto agroalimentare ha un senso se noi lo percepiamo, altrimenti il suo valore non viene definito. Il nostro stato d’animo, quindi il desiderio di andare, di fare turismo, di generare un altrove, da cosa deriva? Dal fatto che percepiamo la necessità di stare in un altro luogo. Nel turismo ci sono due grandezze fondamentali, l’ucronia e l’eunomia. Secondo l’ucromia vado in un posto dove genero il mio tempo, non ho un tempo imposto (tanto è che la prima sensazione, quando si è in ferie, è di “uccidere” la sveglia); e l’eunomia mi consente di non mettermi la giacca e la cravatta, ma i bermuda tranquillamente, perché vivo in uno spazio mio. Facendo mia questa relazione spazio-temporale, percepisco di vivere bene un momento dell’esistenza, quindi ne percepisco un vantaggio. Altro aspetto fondamentale è che la percezione è alla base di tutta la relazione dell’enogastronomia. Ora, al di là del fatto che il linguaggio dei sommelier è spesso e volentieri inadeguato e criptico, è anche vero che il vino, ma anche un olio, o un grande riso, comunque un prodotto che abbia una sua consistenza gusto-olfattiva rilevante, utilizza un meta-linguaggio, cioè parla ai sensi. Da sempre mi sforzo nel dire che non facciamo comunicazione del vino ma facciamo comunicazione sul vino, perché il vino, di per sé, ha una sua forma di comunicazione. E d’altra parte Marcel Proust ha affidato a una madeleine, un dolcetto anche abbastanza banale, l’incipit di un viaggio all’interno della sua memoria, della sua consistenza. Perciò tutto ciò che è percezione finisce per innescare meccanismi di partecipazione. Allora il paesaggio rurale deve diventare lo strumento che innesca 145
nel visitatore, ma anche nel consumatore, la percezione del valore aggiunto di quella produzione. Se posso da qui fare un appello, c’è un elemento, nonostante tutti gli studi paesistici agricoli in questo paese, che è morto, ed è l’antropologia rurale. Se togliamo gli uomini dagli ambiti rurali, da quelli enogastronomici, possiamo anche fare a meno di occuparcene. Il paesaggio, peraltro, nella sua definizione, è un elemento che prevede l’interferenza dell’uomo con il naturale, o il paesaggio non esisterebbe. Però, a noi, di come le popolazioni rurali abbiano cambiato comportamenti, di quanta memoria della ritualità, anche druidica, delle nostre campagne si sia perduta, di quanto il calendario agrario sia stato stravolto, di quanto le comunità si siano disperse perché non hanno più radici dal punto di vista insediativo negli ambiti rurali, non ci importa assolutamente nulla. Però continuiamo a parlare di agricoltura. Il gusto è l’elemento centrale dell’esperienza eno-gastronomica e dunque del turismo legato ai prodotti enogastronomici, ma il gusto è anche, per esempio, la facoltà di giudicare su ciò che rende universalmente comunicabile, senza mediazione, un concetto, il sentimento suscitato da una data rappresentazione. È quanto cercavo di spiegare prima sul vino, sul riso, sul salame, sul salame mangiato magari sotto un salice. Riporto un episodio: una signora che vive sopra Ravascletto, un paesino della Carnia, sognava di fare la pittrice, l’artista. La famiglia di origine contadina, non le aveva permesso di fare l’Accademia di Belle arti a Trieste e lei ha ripiegato sull’idea di fare la modista. Così ha realizzato cappelli, polsetti ricamati a fiori per cinquant’anni della sua vita. Con i soldi racimolati cosa ha fatto? È tornata a Ravascletto e ha aperto un ristorante in una antica stazione di posta; i tavoli sono cinque e lei ogni giorno cambia vestito, cappello, fiori dentro il ristorante e non fa sedere se prima non si è reso omaggio al glicine plurisecolare che gli sta di fronte. E lei racconta che lì esiste la fata della natura e che lei prima di cucinare deve rispettare la liturgia della fata della natura. È prenotata fino al 2080... e non ci arriverà, ovviamente. Questo per dimostrare come gli elementi narrativi insiti nel paesaggio diventano elementi di valorizzazione, in termini propriamente economici. Marsilio Ficino, che aveva studiato Plotino, ci dice che la materia non ha la forza in sé per darsi forma; perché ciò accada è necessario che incontri l’anima. Ora l’anima è lo spirito creativo, è l’intelletto, è l’elemento umano. Quando la materia incontra l’anima, la manifestazione dell’incontro è la bellezza, e il grado della bellezza è la qualità. Noi, in ambito rurale, per costruire turismo e valorizzare il prodotto, dobbiamo necessariamente operare così, cioè dimostrare che il disboscamento non è affatto un delitto, perché se prevale il selvatico non c’è l’elemento creativo, che il colto ha un dialogo creativo con il prodotto e il prodotto è ciò che viene offerto perché chi è in ambito rurale ha una dimensione altra dell’esistenza. È questa la catena del valore rispetto a cui noi possiamo motivarci. Ovviamente per fare questo abbiamo bisogno di piani paesistici, di piani regolatori agricoli, di mantenimento di presidi antropici negli spazi rurali, di certificazione di qualità ambientale del prodotto. Se c’è un buco nelle DOP e nelle IGP è la mancanza di riferimento alla qualità territoriale. C’è un’enorme differenza fra un parmigiano reggiano fatto in stalla in pianura e un parmigiano reggiano fatto sulla pietra di Bismantova, perché diverso è il pascolo, diversa è la condizione dell’animale, diverso è il periodo di stagionatura. 146
Completamente diversa è la percezione dell’unicità del prodotto. Se si percepisce il reale attraverso i sensi, tutto ciò che contribuisce all’amplificazione della sensorialità acquisisce valore. Ma che cos’è il turismo? Per altro John Locke (il filosofo autore del saggio sull’intelletto umano, a metà del ‘600 in Inghilterra, padre del liberalismo) è l’inventore del Grand Tour, cioè l’inventore della pedagogia dei luoghi. Per avere l’idea della classicità non si può fare altro che frequentare la classicità. Quindi per avere idea della qualità rurale non si può fare altro che frequentare la qualità rurale. Se il fondatore è Adam Smith, David Ricardo è l’affinatore della teoria dell’economia classica; la sua principale teoria è quella del valore, che purtroppo domina ancora il mondo, in base alla quale per misurare il valore delle merci bisogna osservare la quantità di lavoro incorporato. Teoria che sarà poi ripresa da Marx. Il concetto centrale è che le merci vanno moltiplicate in forza del lavoro che viene immagazzinato, per avere successo occorre avere un mercato così ampio dove più multipli si fanno, più quattrini si guadagnano. Sostanzialmente è lo schema fordista, però, dice lui stesso, vi sono alcune merci il cui valore è determinato soltanto dalla loro scarsità. Nessun lavoro può aumentare la quantità di simili oggetti e perciò il loro valore non può diminuire in seguito ad un aumento dell’offerta. Alcune statue e pitture rare, vini di qualità speciale, che possono essere prodotti, le cui uve possono essere raccolte, solo in un determinato terreno di estensione assai limitata, sono tutti di questo tipo: il loro valore è del tutto indipendente dalla quantità di lavoro necessario a produrli e varia con il variare delle disponibilità e dei gusti di coloro che sono desiderosi di possederli. Ora, in Italia, abbiamo un problema: stiamo continuando a ricercare anche in agricoltura delle produzioni massive, incapaci di ragionare sulla necessità della massima valorizzazione dell’identità e specificità di quei prodotti, in modo tale che la loro scarsità ne posa determinare il valore. Come possiamo noi competere con la cerealicoltura canadese, o americana? Il kamut è un grano molto particolare che si fa in America? No, è un grano africano che si chiama khorasan. In Italia c’è un grano esattamente uguale, anzi c’è un gruppo di grani che si chiamano saragolle, con la differenza che non vi abbiamo messo un marchio sopra. Anzi, li abbiamo estirpati e abbiamo impiantato le varietà a spiga bassa del Canada. Oggi chiunque vada a mangiare una pizza, chiede una pizza fatta con la farina di kamut. Ecco dove abbiamo sbagliato. E allora perché chiudere la filiera agrituristica su questi connotati? Perché il gusto va interpretato come un altrove. Abbiamo mai visto, con le tecnologie che abbiamo a disposizione oggi, un produttore di salame di Felino che abbia messo un QR code sulla confezione del salame per raccontare la cascina, il Po, ammesso che ce ne rimanga una striscia, o semplicemente la storia dei fratelli Cervi, che fanno parte del paesaggio? Ma l’elemento antropologico fa parte del paesaggio. Perché succede ciò? Perché le agenzie di comunicazione ritengono che un agriturismo si debba vendere copiando gli stilemi dell’albergo, ma non si deve vendere la struttura agrituristica! Molti anni fa, con l’allora direttrice dell’APT di Siena, cercai una strada per convincere il turista che quella piccola provincia ha quattro siti appartenenti al patrimonio dell’umanità, che non si può girare per Siena, Pienza o San Geminiano 147
con gli zoccoli perché si spezzano le pietre. Ma come dirlo ai turisti tedeschi che partono in pullman a quindici euro tutto compreso? Bisogna informarli prima della partenza sulla fragilità e sul valore dei luoghi che stanno per visitare. Abbiamo cercato di mettere in atto l’operazione Cittadini delle terre di Siena: stessi diritti di cittadinanza temporanea ma anche stessi doveri. Il “cittadino temporaneo” paga, per esempio, il caffè esattamente come lo paga il cittadino di San Gemignano, quindi niente sovrapprezzo, ma in cambio si pretende che quando entra nella spezieria di Santa Fina eviti di scrivere I love sugli affreschi del Pinturicchio. Bisogna perciò educare alla percezione della fragilità, della complessità e del valore dell’esperienza che si vuole intraprendere. Così, se i turisti che sbarcano dalle navi da crociera a Venezia non ne conoscono la fragilità, perché nessuno ha imposto alla compagnia di navigazione di tenere loro una conferenza informativa sulla fragilità di Venezia. Altro esempio: prima di andare in Chianti o nella Langa occorre rapportarsi con la complessità valoriale del sito. Ma il punto di crisi dove sta? Sta nel fatto che non ci sono più residenti radicati in molti ambienti rurali, non c’è più memoria della continuità antropologica. Non c’è una narrazione, se non quella dei bugiardini degli agriturismi, cioè la narrazione è standardizzata, non è una testimonianza. Quando un architetto progetta un restauro, innanzitutto procede con un’analisi storica, oppure, per determinare la funzionalità di uno spazio, si chiede a cosa dovrà servire. Il turista va posto nella stessa condizione, in maniera fortemente partecipativa e narrativa, perché, per altro, ce lo chiede, ci chiede learning, esperienza e confidenza. Ma in ambito rurale si è smesso di farlo, questo è il punto! Sono convinto che il valore del turismo in ambito rurale sia, prima di tutto, il valore dell’esperienza, della percezione. Dobbiamo prima di tutto salvaguardare le identità dei paesaggi rurali, perché sono le identità l’elemento di scambio. Esiste un rapporto simbiotico tra la qualità ambientale e la qualità del prodotto, perché è vero che il prodotto enogastronomico è marcatore territoriale, e dunque anche ambasciatore dei territori (si racconta nelle degustazioni all’estero che assaggiando l’Amarone si “assaggia” il paesaggio della Valpolicella), ma è altrettanto vero che ciò è possibile solo se prima si è dato l’idea del paesaggio da cui viene quel determinato prodotto. E questo perché esiste, appunto, uno strettissimo rapporto tra la percezione della qualità del paesaggio e la percezione della qualità del prodotto. E tutto questo va preteso dai produttori medesimi. I comuni vitivinicoli sono quelli dove ci sono i redditi più alti, al contrario delle amministrazioni comunali di tali comuni, che sono tra le più povere d’Italia. E questo perché non c’è nessun trasferimento, in una fiscalità folle come quella italiana, nessuna tassa è richiesta o data per il mantenimento dell’ambiente, del paesaggio che consente la produzione di questi prodotti di alta qualità. Nessun euro viene preteso o chiesto o dato dal consumatore al mantenimento della qualità ambientale e paesaggistica. Gli stessi produttori, d’altro canto, non si rendono conto che esiste questo rapporto strettissimo tra la percezione del paesaggio e la percezione della qualità del prodotto. Ma questa è anche la malattia di tutti gli operatori turistici. Uno dei valori fondamentali del turismo è lo sfruttamento del bene pubblico puro, ma questo non è percepito come qualcosa che deve essere remunerato. Il paesaggio è 148
banalmente un bene pubblico puro, ancorché costituito da un insieme di beni pubblici, privati e semi-pubblici, però, di fatto, è un bene di cui tutti possono fruire senza barriere. Tuttavia, solo alcuni ne traggono profitto economico, e costoro non sono minimamente disponibili a pagare per il suo mantenimento e la sua valorizzazione. Sarebbe interessantissimo, quindi, introdurre una fiscalità di tutela del paesaggio. E sarebbe anche fondamentale chiarire in che modo garantire il mantenimento dell’integrità rurale e paesaggistica attraverso il contributo della presenza sui luoghi dei contadini: al contadino non basta dare delle sovvenzioni, servono situazioni di abitabilità pari a quelle della città. Se gli ospedali vengono tutti concentrati a valle, se gli scuolabus non viaggiano sulla collina, se il wi-fi è un sogno a 700 metri di altezza, i figli, i nipoti del contadino abbandonano quei luoghi. O si mette al centro del sistema paese la questione del mantenimento dello sviluppo rurale come motore economico, o tutti i discorsi sono assolutamente inutili. È questo il metodo, sia per quel che riguarda il prodotto enogastronomico, sia per il turismo legato all’enogastronomia. Se manca l’ambito, si tratterà sempre e solo di un “piccolo turismo”, non in grado di contaminare positivamente il tessuto economico. Perché il prodotto diventi una cinghia di trasmissione è necessario che tutto il sistema territoriale sia curvato verso quel tipo di attività. Tanto è vero che i nostri ristoratori della grande qualità cercano di mantenersi intorno un coltivato o un paradigma territoriale che giustifica la qualità stessa della loro cucina (Massimo Bottura narra prodotto per prodotto, ingrediente per ingrediente, racconta chi è l’artigiano, chi è il contadino…), un forte ancoraggio territoriale che fa da sfondo al cibo. Su questo noi dobbiamo lavorare in termini di incremento della qualità percepita, intrinseca alla fruizione del bisogno e del valore materiale Non esiste altro ambito come quello rurale dove la manifestazione di qualità complessiva è possibile, perché tutti gli elementi dell’ambito rurale sono dei moltiplicatori del valore, a condizione che siano sinergici e tenuti insieme da un disciplinamento di qualità o, se si preferisce, da un progetto territoriale che li lega. L’ambito rurale si porta dietro l’identità del naturale. Noi abbiamo un compito straordinario in Italia: convincere i nostri governanti che la partita economica che il nostro paese deve giocare non sta sul mercato della globalità, ma sta sul mercato dell’unicità, come unici sono i nostri paesaggi rurali, finché Dio ce li conserva.
Trascrizione dell’intervento rivista dall’autore.
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Turismo, paesaggio e capitale culturale dei luoghi rurali Una proposta di qualificazione dei territori nella prospettiva dello sviluppo sostenibile Luigi Costanzo, Alessandra Ferrara
Istat, Direzione centrale per le statistiche ambientali e territoriali
Il contributo che vogliamo condividere quest’anno con i partecipanti alla Summer School Emilio Sereni è centrato sui risultati di un lavoro sperimentale1, sviluppato in Istat, finalizzato a individuare i territori dove paesaggio e patrimonio culturale sono oggetto di una valorizzazione virtuosa che, al contempo, ne metta a frutto le potenzialità per lo sviluppo locale e non ne comprometta l’integrità. Per pervenire ai risultati che vi presentiamo abbiamo in prima battuta classificato le regioni agrarie2 (aggregati di comuni) secondo la loro capacità d’attrazione turistica; ne abbiamo quindi descritto due profili, considerando alcuni elementi rappresentativi della valorizzazione del territorio rurale e del patrimonio culturale; abbiamo infine incrociato gli indicatori che misurano, per gli stessi territori, l’intensità di erosione dello spazio rurale ad opera della dispersione urbana e del fenomeno dell’abbandono dei territori rurali. Sovrapponendo tali informazioni si disegna una mappa che mostra la distribuzione geografica di territori qualificati sulla base di una buona attrattività turistica, dalla valorizzazione del patrimonio rurale e non affette (quantomeno, non in misura significativa) da erosione dello spazio rurale. Territori, quindi, che sono stati in grado di conciliare lo sviluppo locale con la tutela e la valorizzazione del proprio patrimonio, dimostrando la praticabilità di un percorso di sviluppo che tenga insieme sostenibilità e benessere economico.
Geografie e temi, fonti, indicatori e metodi Geografia di riferimento Le regioni agrarie sono le 804 unità territoriali di analisi selezionate per l’applicazione dello studio. In questa mappatura le unità amministrative (comuni) tra 1 Gli autori ringraziano i colleghi Maria Teresa Santoro e Lorenzo Cavallo (Fruizione turistica), Mario Adua e Giulio Bianchi (Aziende agrituristiche e Produzioni agricole di qualità), Alessandra Federici e Silvia Talice (Musei e altre dotazioni culturali) per il prezioso contributo alla selezione degli indicatori utilizzati per l’analisi. 2 Per le singole definizioni si veda il successivo paragrafo relativo a fonti e metodi utilizzati per l’analisi. 151
loro contigue sono aggregate in funzione della prevalente omogeneità dei rispettivi territori, in termini di caratteristiche naturali (clima, geologia, elementi geomorfologici quali i rilievi, le pendenze e le esposizioni …) e agricole (le coltivazioni che vi sono praticate). Le aree sono poi classificate in regioni agrarie sulla base della prevalente zona altimetrica ove ricadono e della provincia amministrativa di riferimento. Si tratta quindi di una geografia tematica che, pur esaustiva del territorio nazionale, considera caratteri che ne qualificano specificatamente la parte rurale e, in virtù di tale specificità, è sembrata quella che meglio si adattasse ad articolare gli studi che l’Istat sta promuovendo sui paesaggi rurali3.
Dimensioni tematiche Attrazione dei flussi turistici Per la misura di questa componente sono stati utilizzati, combinandoli tra loro, due indicatori di intensità del movimento turistico: • Presenze negli esercizi ricettivi per abitante (anno 2015), misurate come prodotto degli arrivi (singoli turisti registrati come clienti degli esercizi ricettivi) per il numero di notti trascorse (da ciascun cliente), rapportato alla popolazione residente. Fonte: Istat, Movimento dei clienti negli esercizi ricettivi • Variazione delle presenze negli esercizi ricettivi (intervallo 2011-2015), misurate come variazione percentuale delle presenze riferite all’anno 2015 rispetto al 2011. Fonte: Istat, Movimento dei clienti negli esercizi ricettivi Cosa misurano gli indicatori Il primo indicatore è una misura del livello (riferita all’ultimo anno disponibile) che possiamo considerare una proxi della fruizione turistica dei luoghi, anche se ovviamente la misura è meno specifica via via che ci si allontana dal luogo di effettiva presenza delle strutture ricettive. Per le finalità della nostra osservazione, le strutture direttamente presenti nei territori rurali sono largamente rappresentative di una fruizione dei relativi luoghi. Per le presenze che potremmo definire “urbane”, misurate cioè in città medio-grandi, non sono disponibili indicatori di flusso che ci diano una misura diretta della fruizione dei luoghi rurali raggiungibili in un intorno, e l’analisi integra quindi, come di seguito descritto, indicatori di offerta culturale. Il secondo indicatore è invece una misura della dinamica di capacità di attrazione dei flussi turistici. Classificazione applicata E’ stata applicata una parametrizzazione (rappresentata nello schema della Fig. 1) in tre classi percentili alla distribuzione dei valori dei due indicatori, attribuendo dei punteggi alle combinazioni dei livelli delle due misure e derivandone una classificazione delle regioni agrarie per alto, medio e basso livello di presenze turistiche 3 In particolare si vedano i Rapporti BES, prodotti dall’Istat per gli anni dal 2013 al 2017: Istat (2013-2017). 152
(primo indicatore) e in declino, stabili e in crescita sulla base della dinamica delle presenze stesse (secondo indicatore). Sono state individuate come dotate di buona capacità attrattiva le aree con punteggio pari o superiore a 0,75: queste regioni agrarie sono quelle poi considerare nel processo finale di qualificazione dei territori.
Fig. 1 Attrattività turistica (presenze negli esercizi ricettivi 2015 e variazione % 20112015). Fonte: Elaborazione su dati Istat, Movimento dei clienti negli esercizi ricettivi
Valorizzazione del territorio rurale Per definire l’orientamento alla valorizzazione del territorio rurale sono stati considerati, combinandoli tra loro, altri due indicatori: uno riferito alla diffusione dell’agriturismo e l’altro alla presenza delle produzioni agricole di qualità nei territori. • Densità delle aziende agrituristiche (anno 2015), misurata come numero di aziende per chilometro quadrato. Fonte: Istat, Rilevazione delle Aziende agrituristiche • Presenza di produzioni agroalimentari di qualità (anno 2015), misurata come numerosità dei prodotti a denominazione di origine protetta (Dop) e a indicazione geografica protetta (Igp), riconosciuti dell’Unione europea e con produzioni effettivamente attive nei territori per l’anno di riferimento. Fonte: Istat, Rilevazione dei prodotti agroalimentari di qualità 153
Cosa misurano gli indicatori Il primo indicatore è una misura di densità delle aziende agrituristiche, una specificità del turismo rurale nazionale. La multifunzionalità delle aziende agricole che esercitano, oltre alla diretta pratica agricola, anche una o più attività agrituristiche è uno dei cardini su cui si fondano le politiche di sviluppo rurale. Le aziende agrituristiche offrono una serie di servizi che spaziano dall’offerta di ospitalità (alloggio, degustazione e ristorazione) ad attività ricreative, di pratica sportiva (equitazione, escursioni e trekking, ecc.), culturali e didattiche (osservazione naturalistica, corsi tematici o fattorie didattiche, ecc.) che coniugano la pratica agricola e di presidio territoriale con quelle della condivisione di valori ed esperienze tipici dei contesti rurali. Il secondo indicatore è invece una misura della capacità dei territori di valorizzare le caratteristiche specifiche dei luoghi attraverso produzioni agroalimentari di qualità certificata. I prodotti considerati (a marchio Dop e Igp) si identificano per l’essere originari e prodotti di una specifica zona geografica ed avere caratteristiche dovute, essenzialmente o esclusivamente, a un particolare ambiente geografico, considerando sia i fattori naturali sia quelli antropici. Sono quindi espressione di una valorizzazione del patrimonio locale in termini di dotazioni naturali, ma soprattutto del mantenimento di tradizioni culturali di produzione e trasformazione dei prodotti agroalimentari, oltre a rappresentare fattori di competitività economica delle realtà agricole locali sul mercato nazionale e internazionale. Classificazione applicata E’ stata applicata una parametrizzazione (rappresentata nello schema della Fig. 2) in tre classi percentili alla distribuzione dei valori dei due indicatori, attribuendo dei punteggi alle combinazioni dei livelli delle due misure e derivandone una classificazione delle regioni agrarie per alto, medio e basso livello sia di densità delle aziende agrituristiche (primo indicatore) sia di presenza di produzioni agroalimentari di qualità (secondo indicatore). Sono state individuate come orientate alla valorizzazione del territorio rurale le aree con punteggio pari o superiore a 0,75: queste regioni agrarie sono quelle poi considerare nel processo finale di qualificazione dei territori. Valorizzazione del patrimonio culturale Per la misura di questa componente sono stati utilizzati, combinandoli tra loro, due indicatori di dotazione culturale: • Densità di musei e istituzioni similari (anno 2015), misurata come numero di musei e istituzioni similari (gallerie, collezioni, aree e parchi archeologici, monumenti e complessi monumentali), pesato per il numero di visitatori, per chilometro quadrato. Fonte: Indagine sui musei e istituzioni similari • Presenza di riconoscimenti di qualità del tessuto urbano dei centri minori (al 31.12.2015), misurata come numero di Bandiere arancioni (secondo la qualificazione proposta dal Touring club italiano - Tci) e/o Borghi più belli d’Italia (secondo la qualificazione proposta dall’Associazione nazionale comuni italiani - Anci). Fonti: Tci (http://www.bandierearancioni.it/) e AnciAssociazione Borghi più belli d’Italia (http://borghipiubelliditalia.it/). 154
Fig. 2 Valorizzazione del territorio rurale (aziende agrituristiche per km2 e numero di produzioni agroalimentari di qualità riconosciute e attive. Anno 2015). Fonte: Elaborazione su dati Istat, Rilevazione Aziende agrituristiche e Rilevazione Prodotti agroalimentari di qualità
Cosa misurano gli indicatori Il primo indicatore è una misura di densità di dotazione culturale che, secondo la definizione del Ministero di riferimento (Mibact), include le istituzioni, pubbliche o private, aperte al pubblico, che espongono e studiano testimonianze materiali e immateriali dell’umanità e del suo ambiente. Si possono definire, in senso lato, luoghi della cultura: musei, gallerie, collezioni, aree e parchi archeologici, monumenti e complessi monumentali diffusi sul territorio nazionale con concentrazioni nelle grandi città ma anche largamente distribuiti sul territorio. Si tratta di oltre 5 mila istituzioni, la maggior parte delle quali di piccole dimensioni: tre istituti su quattro registrano meno di 10 mila visitatori all’anno, ma nel loro insieme rappresentano oltre il 60% dei visitatori. Contribuiscono quindi a disegnare l’attrattività dei territori, anche rurali e più periferici. Proprio per esaltare questa specifica funzione del patrimonio diffuso, il valore della presenza di questi siti è stato pesato in funzione del numero di visitatori. Ancora più orientato a misurare la valorizzazione del patrimonio culturale in ambiente rurale, il secondo indicatore descrive la presenza dei borghi a qualità certificata, per valore storico culturale e ambientale e caratteristiche dell’accoglienza ai visitatori. La misura tiene conto della numerosità sul territorio di questi piccoli 155
e piccolissimi centri storici, micro tessuto urbano conservato e vissuto, punti di valorizzazione delle aree rurali.
Classificazione applicata Anche in questo caso, è stata applicata una parametrizzazione (rappresentata nello schema della Fig. 3) in tre classi percentili alla distribuzione dei valori dell’indicatore di densità dei musei (alta, media, bassa) e, sempre in tre classi ma calcolate sulla numerosità (due o più, uno, nessuno), dei borghi, attribuendo dei punteggi alle combinazioni dei livelli delle due misure e derivandone una classificazione delle regioni agrarie. Sono state individuate come orientate alla valorizzazione del patrimonio culturale le aree con punteggio pari o superiore a 0,75: queste regioni agrarie sono quelle poi considerare nel processo finale di qualificazione dei territori. Erosione del paesaggio rurale da dispersione urbana e da abbandono Per la misura di questa componente sono stati utilizzati due indicatori di erosione dello spazio rurale che derivano dall’applicazione di un’unica procedura di classificazione delle unità di analisi (regioni agrarie). In estrema sintesi, sono considerate affette da Erosione da dispersione urbana (urban sprawl) le regioni agrarie
Fig. 3 Valorizzazione del patrimonio culturale (musei e istituzioni similari per km2 e numero borghi con riconoscimento di qualità. Anno 2015). Fonte: Elaborazione su dati Istat, Indagine sui musei e istituzioni similari; Tci, Bandiere arancioni; Anci, Borghi più belli d’Italia. 156
che presentano anomali incrementi della popolazione sparsa4 e anomali decrementi della superficie agricola utilizzata (Sau)5 nell’intervallo considerato o sono comunque interessate da forme di urbanizzazione estensiva ed elevata densità di popolazione. Sono considerate affette da Erosione da abbandono, invece, le regioni agrarie che presentano anomali decrementi sia della Sau sia della popolazione sparsa, bassa densità di popolazione e non risultano interessate da forme di urbanizzazione estensiva6.
Cosa misurano gli indicatori e la classificazione applicata La qualità del paesaggio rurale dipende da una molteplicità di fattori, difficili da catturare con analisi quantitative, ma soprattutto dalla sussistenza di uno spazio rurale dotato di sufficiente continuità e autonomia, visiva e funzionale. L’integrità di questo spazio è aggredita da due principali forme di degrado, che formano ai suoi margini terre di nessuno più o meno estese: di transizione dal rurale all’urbano, per le aree affette dal fenomeno dell’urban sprawl, e di transizione dal rurale all’incolto, per le aree interessate da processi di dismissione e rinaturalizzazione (abbandono). Questo fenomeno si può assimilare, appunto, a un processo di erosione, attivo su due fronti intorno a un nucleo di aree agricole stabili o attive, non interessate o toccate solo marginalmente dalla perdita di superficie agricola e demograficamente poco dinamiche (Fig. 4). Attraverso l’applicazione di una procedura che traduce in un algoritmo la schematizzazione concettuale sotto riportata, si procede all’identificazione delle regioni agrarie stabili nell’intervallo osservato (2001-2011) e di quelle dove lo spazio rurale è stato eroso, da un lato dalla proliferare della dispersione urbana (riduzione della Sau accompagnata dalla crescita della densità della popolazione residente in ambito extra-urbano), dall’altro dall’abbandono dei luoghi e delle pratiche colturali (diminuzione della Sau e contemporanea diminuzione della densità della popolazione residente).
Fig. 4 Schema interpretativo della classificazione delle regioni agrarie sulla base dei gradienti di diffusione urbana e di abbandono dei territori
Dalla rappresentazione dei dati (Fig. 5) emerge come, rispetto alla situazione rilevata nel 2001, nel decennio successivo siano avanzate entrambe le forme di erosione dello spazio rurale: più velocemente quella da abbandono (dal 28,5 al 36,1 per cento del territorio nazionale), meno quella da urban sprawl (dal 19,9 al 22,2 del territorio nazionale). 4 Popolazione residente in località di case sparse (Fonte: Istat, Censimento generale della popolazione e delle abitazioni, Popolazione per tipo di località abitata). 5 Fonte: Istat, Censimento generale dell’agricoltura. 6 Per una descrizione completa dell’algoritmo di classificazione si rimanda a Costanzo L., Ferrara A., Indicatori di erosione del paesaggio rurale basati su dati di censimento, XXXVI Conferenza italiana di scienze regionali, Arcavacata di Rende 2015 (https://www.aisre.it/ images/aisre/55ad2185054bc9.01351804/Costanzo1.pdf).. 157
In conseguenza di queste dinamiche, la superficie complessiva delle aree non affette da erosione si è ridotta dal 52,2 al 42,4 per cento (in media, di un punto percentuale l’anno).
Fig. 5 Erosione dello spazio rurale da urban sprawl e da abbandono per regione agraria (Anno 2011 - mappa e anni 2001 e 2011 - grafico). Fonte: Elaborazione su dati Istat, Censimento generale dell’agricoltura e Censimento generale della popolazione
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Risultati Regioni agrarie con buona attrattività turistica per tipo di orientamento alla valorizzazione dei territori rurali La geografia dell’attrattività turistica evidenzia come circa il 40 per cento delle Regioni agrarie (pari al 44 per cento del territorio nazionale) esercita una buona/ elevata attrazione sui flussi turistici. Intersecando questo universo (322 aree) con le geografie dei territori che, sulla base dei parametri utilizzati (maggiormente descrittivi di contesti rurali o comunque non dei grandi ambiti urbani) mostrano i diversi orientamenti alla valorizzazione dei territori (Fig. 6a), emerge che 91 regioni agrarie (poco meno del 30%) mostrano uno specifico orientamento alla valorizzazione del territorio rurale. Questa caratteristica qualifica diverse regioni agrarie della pianura Padana, dal Piemonte al Veneto; appenniniche Tosco-emiliane (collina); litoranee tirreniche tra Piombino e Fondi e, nel Mezzogiorno, diverse aree litoranee della Sardegna settentrionale. Il prevalente orientamento alla valorizzazione del patrimonio culturale emerge in 32 aree (circa il 10%) e mostra una polarizzazione territoriale marcata caratterizzando, in particolare al Nord, le regioni delle colline litoranee liguri e quelle alpine/prealpine Piemontesi e Lombarde; nelle Isole, la costa tirrenica della Sicilia e quella sarda tra Sassari e Bosa. Sono infine 52 le regioni agrarie che coniugano entrambe le forme di valorizzazione del territorio. Sono fortemente concentrate nelle aree interne di Toscana e Umbria e sul litorale Marchigiano, al Centro; mentre al Nord si distribuiscono lungo la valle dell’Adige e nell’area del Garda (tra Trentino e Veneto), nelle Langhe e lungo la costa ligure tra Chiavari e La Spezia. Nel Mezzogiorno la classe è rappresentata solo dalle Murge.
Regioni agrarie con buona attrattività turistica e orientamento alla valorizzazione dei territori, non affette da erosione dello spazio rurale Nelle aree affette da erosione da urban sprawl si verifica una disgregazione dell’unità visiva e funzionale del paesaggio rurale, che comporta la distruzione dei suoi valori storico-documentali, biologico-funzionali o estetici. Nelle aree affette da erosione da abbandono la criticità può apparire meno evidente. La dismissione di colture e pratiche agricole tradizionali comporta perdita di biodiversità e di patrimonio culturale e, nelle zone collinari e montane, il rischio di dissesto idrogeologico. C’è, inoltre, un problema di qualità dei processi di rinaturalizzazione, il cui esito non può considerarsi a priori positivo in termini ambientali. Per questo, identifichiamo in questa analisi le aree non affette da erosione dello spazio rurale come quelle che sono riuscite a preservare, più di altre, l’integrità del proprio capitale territoriale, cioè le risorse rappresentate dal paesaggio rurale. Nelle altre il paesaggio non può considerarsi valorizzato: o perché consumato dalle dinamiche dell’economia locale (urbanizzazione diffusa e/o evoluzione verso la monocoltura industriale), o perché non più “coltivato” dall’uomo (degrado da abbandono, rinaturalizzazione spontanea). Selezionando quindi fra le unità orientate alla valorizzazione del territorio rurale e/o del 159
patrimonio culturale, quelle non affette o non interessate in misura rilevante da erosione da erosione dello spazio rurale emergono 53 regioni agrarie (20 al Nord, 25 al Centro, 8 nel Mezzogiorno, v. Prospetto 2), di cui 20 significativamente orientate ad entrambe le forme considerate di valorizzazione del territorio. Per quasi l’80 per cento si tratta di territori collinari, 13 per cento di montagna e 8 per cento di pianura. Queste 20 regioni agrarie descrivono luoghi che coniugano valorizzazione del territorio rurale e del patrimonio culturale, e rappresentano esempi positivi di conciliazione fra sviluppo rurale, turismo e tutela del paesaggio e del patrimonio culturale. Si tratta infatti di aree dove paesaggio e patrimonio culturale (con particolare riguardo al paesaggio rurale e al patrimonio «minore») sono oggetto di una valorizzazione intelligente, che ne mette a frutto le potenzialità per lo sviluppo locale senza comprometterne l’integrità. Le regioni dove questi indirizzi sembrano più diffusamente applicati sono il Trentino e la Toscana, l’Umbria e le Marche.
Prospetto 1 - Classificazione delle regioni agrarie
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Fig. 6 Regioni agrarie ad elevata attrattivitĂ turistica e orientamento alla valorizzazione del territorio rurale e/o del patrimonio culturale. Anno 2015
a) Tutte b) Non affette da erosione dello spazio rurale
Fonte: Elaborazione su dati Istat 161
Prospetto 2 - Regioni agrarie ad elevata attrattività turistica e orientamento alla valorizzazione del territorio rurale e/o del patrimonio culturale, non affette da erosione dello spazio rurale. Anno 2015 LEGENDA
Orientamento alla valorizzazione del territorio rurale Orientamento alla valorizzazione del patrimonio culturale Entrambi gli orientamenti
RIPARTIZIONE REGIONE
ZONA REGIONI AGRARIE CLASSIFICATE PER ALTIMETRICA TIPO DI ORIENTAMENTO
Nord
Montagna
Piemonte
Alta Valsesia (VC) Valle Ossola (VB)
Collina
Medio Monferrato Astigiano (AT) Colline dell’Alto Monferrato Alessandrino (AL) Colline della Bassa Langa di Alba (CN)
Lombardia Pianura
Pianura tra Ticino e Lambro (MI) Pianura dell’Oltrepò Pavese (PV) Pianura di Cremona (CR) Pianura di Mantova (MN)
TrentinoAlto Adige
Montagna
Val d’Adige di Merano (BZ) Valli di Cembra e di Pinè (TN) Val Lagarina (TN) Val d’Adige di Salorno (BZ) Val d’Adige di Trento (TN)
Veneto
162
Montagna
Montagna del Benaco Occidentale (VR)
Collina
Colline del Progno e dell’Alpone (VR)
Pianura
Lagunare di Caorle (VE)
FriuliVenezia Giulia
Pianura
Bassa Friulana (UD)
EmiliaRomagna
Pianura
Pianura tra Tagliamento e Cellina (PN) Pianura di Busseto (PR)
Centro
Marche
Montagna
Montagna del Misa (AN) Montagna dell’Alto Nera e del Fiastrone (MC)
Collina
Colline di Urbino (PU) Colline litoranee di Senigallia (AN) Colline del Basso Potenza e del Fiastra (MC) Colline litoranee di Macerata (MC) Colline litoranee di San Benedetto del Tronto Ascolane (AP)
Toscana
Collina
Colline del Greve e del Pesa (FI) Colline del Mugello (FI) Colline dell’Ombrone (GR) Colline litoranee dell’Albegna (GR) Colline della Val d’Elsa Inferiore (FI) Colline della Media Val di Chiana (AR) Colline di Arezzo (AR) Colline dell’Alta Val d’Elsa (SI) Colline di Val d’Arbia (SI) Colline del Fiora (GR)
Umbria
Pianura
Pianura di Grosseto (GR)
Collina
Colline di Todi (PG) Colline di Terni (TR) Colline del Marroggia e del Clitunno (PG) Colline di Assisi (PG) Colline di Montefalco (PG)
Lazio Mezzogiorno
Collina
Colline del Lago di Bolsena (VT)
Pianura
Pianura del Fiora e del Marta (VT)
Abruzzo
Montagna
Valle del Sagittario (AQ)
Puglia
Pianura
Pianura di Otranto (LE)
Sicilia
Collina
Colline litoranee di Noto (SR)
Sardegna
Collina
Colline litoranee di Taormina (ME) Colline litoranee di Castelsardo Sassaresi (SS) Colline litoranee di Bosa (OR) Colline litoranee di Orosei (NU) Pianura
Campidano di Oristano (OR)
163
Bibliografia Costanzo L., Ferrara A., Indicatori di erosione del paesaggio rurale basati su dati di censimento, XXXVI Conferenza italiana di scienze regionali, Arcavacata di Rende 2015 (https://www.aisre.it/images/aisre/55ad2185054bc9.01351804/Costanzo1.pdf). Costanzo L., Ferrara A., Well-being Indicators on Landscape and Cultural Heritage: the Experience of the BES Project, in F. Maggino (ed.), A New Research Agenda for Improvements in Quality of Life, Springer 2015 (https://www.springer.com/ la/book/9783319159034). Istat, Rapporto BES. Il benessere equo e sostenibile in Italia, Cap. 9 – Paesaggio e patrimonio culturale, 2015 (https://www.istat.it/it/files//2015/12/09-Paesaggiopatrimonio-culturale-Bes2015.pdf). Istat, Rapporto BES. Il benessere equo e sostenibile in Italia, 2013-2017 (https:// www.istat.it/it/benessere-e-sostenibilit%C3%A0/misure-del-benessere/il-rapportoistat-sul-bes).
164
La Convenzione di Faro La valorizzazione dell’eredità culturale in Italia
Maria Cristina de Filippo
Studentessa, Università della Campania L. Vanvitelli
La Convenzione di Faro (STCE n°199), o Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore del patrimonio culturale per la Società, prende il nome dalla località portoghese dove il 27 ottobre 2005 si è tenuto l’incontro di apertura alla firma degli Stati membri del Consiglio d’Europa e all’adesione dell’Unione europea e degli Stati non membri; essa è entrata in vigore il 1° Giugno 2011. La firma italiana, avvenuta il 27 febbraio 2013 a Strasburgo, ha portato a 21 il numero di Stati Parti fra i 47 membri del Consiglio d’Europa; di questi, 14 l’hanno ratificata. Ultima nata fra le Convenzioni culturali internazionali, muove dal concetto che la conoscenza e l’uso dell’eredità culturale rientrano fra i diritti dell’individuo a prendere parte liberamente alla vita culturale della comunità e a godere delle arti, sancito nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (Parigi 1948) e garantito dal Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali (Parigi 1966). La
Fig. 1 Artigiano del vimini a Valgrisenche 165
Convenzione non si sovrappone agli strumenti internazionali già esistenti ma li integra, chiamando le popolazioni a svolgere un ruolo attivo nel riconoscimento dei valori dell’eredità culturale, e invitando gli Stati a promuovere un processo di valorizzazione partecipativo, fondato sulla sinergia fra pubbliche istituzioni, cittadini privati, associazioni. Essa accorda le politiche di valorizzazione europee su uno spartito che tiene conto dei processi in atto di democratizzazione della cultura e di open government, poiché vede nella partecipazione dei cittadini e delle comunità la chiave per accrescere in Europa la consapevolezza del valore del patrimonio culturale e il suo contributo al benessere e alla qualità della vita. Si tratta di un testo rivoluzionario, che rinnova profondamente il concetto stesso di patrimonio culturale. Essa introduce un concetto molto più ampio e innovativo di eredità-patrimonio culturale, considerato un insieme di risorse ereditate dal passato che le popolazioni identificano, indipendentemente da chi ne detenga la proprietà, come riflesso ed espressione dei loro valori, credenze, conoscenze e tradizioni, in continua evoluzione, e che comprende tutti gli aspetti dell’ambiente che sono il risultato dell’interazione nel corso del tempo fra le popolazioni ed i luoghi (art. 2); inoltre introduce il concetto di comunità di eredità-patrimonio, cioè un insieme di persone che attribuisce valore ad aspetti specifici del patrimonio culturale, e che desidera, nel quadro di un’azione pubblica, sostenerli e trasmetterli alle generazioni future (art. 2). Chiarissimi sono gli obiettivi della Convenzione, finalizzata (art. 1) a: a) riconoscere che il diritto all’eredità culturale è inerente al diritto a partecipare alla vita culturale, così come definito nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo; b) riconoscere una responsabilità individuale e collettiva nei confronti dell’eredità culturale; c) sottolineare che la conservazione dell’eredità culturale, ed il suo uso sostenibile,
Fig. 2 Toscana, paesaggio rurale 166
hanno come obiettivo lo sviluppo umano e la qualità della vita; d) prendere le misure necessarie per applicare le disposizioni di questa Convenzione riguardo: • al ruolo dell’eredità culturale nella costruzione di una società pacifica e democratica, nei processi di sviluppo sostenibile e nella promozione della diversità culturale; • a una maggiore sinergia di competenze fra tutti gli attori pubblici, istituzionali e privati coinvolti. Si sottolinea non solo che chiunque, da solo o collettivamente, ha diritto a trarre beneficio dall’eredità culturale e a contribuire al suo arricchimento (art. 4), ma si ribadisce anche la necessità della partecipazione democratica dei cittadini al processo di identificazione, studio, interpretazione, protezione, conservazione e presentazione dell’eredità culturale nonché alla riflessione e al dibattito pubblico sulle opportunità e sulle sfide che l’eredità culturale rappresenta (art. 12). Si evidenzia inoltre la necessità che l’eredità culturale sia finalizzata all’arricchimento dei processi di sviluppo economico, politico, sociale e culturale e di pianificazione dell’uso del territorio, ricorrendo, ove necessario, a valutazioni di impatto sull’eredità culturale e adottando strategie di mitigazione dei danni (art. 8). Protagonisti sono dunque i cittadini, per cui bisogna promuovere azioni per migliorare l’accesso all’eredità culturale, in particolare per i giovani e le persone svantaggiate, al fine di aumentare la consapevolezza sul suo valore, sulla necessità di conservarla e preservarla e sui benefici che ne possono derivare (art. 12).
Fig. 3 Telaio 167
È un testo rivoluzionario e perfettamente coerente con lo spirito dell’articolo 9 della nostra Costituzione, con la sua innovativa e ampia concezione di paesaggio e patrimonio storico e artistico della Nazione e lo stretto legame tra tutela e promozione dello sviluppo della cultura e della ricerca scientifica e tecnica. È anche la dimostrazione che l’Europa può essere non solo burocrazia e finanza, ma princìpi e valori. Proprio l’eredità culturale, intesa come l’insieme complesso delle diverse eredità culturali, può peraltro costituire l’ambito privilegiato per affermare gli ideali, i princìpi e i valori, derivati dall’esperienza ottenuta grazie al progresso e facendo tesoro dei conflitti passati, che promuovono lo sviluppo di una società pacifica e stabile, fondata sul rispetto per i diritti dell’uomo, la democrazia e lo Stato di diritto (art. 3). Come ha ben precisato Massimo Montella, direttore de Il Capitale Culturale, siamo di fronte a un profondo rovesciamento complessivo: dell’autorità, spostata dal vertice alla base; dell’oggetto, dall’eccezionale al tutto; del valore, dal valore in sé al valore d’uso e, dunque, dei fini: dalla museificazione alla valorizzazione. Si passa cioè - ha osservato Daniele Manacorda - “dal valore in sé dei beni al valore che debbono poterne conseguire le persone, dal diritto del patrimonio culturale al diritto al patrimonio culturale ovvero al diritto, individuale o collettivo, di trarre beneficio dal patrimonio”.
Fig. 3 Veduta di Castell’Arquato (PC)
Bibliografia P. Feliciati (a cura di), La valorizzazione dell’eredità culturale in Italia, in «Il Capitale Culturale», V supplemento, Eum edizioni Università di Macerata 2016.
168
PARTE III TURISMO SOSTENIBILE E PAESAGGIO Nei contesti regionali
Il pensiero paesaggistico per il turismo culturale rurale Concetti e strumenti nella costruzione del ‘tour nella bassa reggiana’ Emiro Endrighi
Università di Modena e Reggio Emilia
Il Tour nella bassa reggiana è da considerare come un laboratorio di studio e sperimentazione di turismo esperienziale in ambito rurale dove vengono impiegati e sperimentati specifici concetti e strumenti connessi al termine paesaggio. Operativamente si tratta di una versione ridotta di un pacchetto turistico della durata di qualche giorno imperniato sulle diverse componenti – ambientali, culturali, storiche, produttive – di quel territorio dai confini abbastanza laschi detto Bassa reggiana che, nel caso qui trattato, comprende una fascia larga circa quindici Km che, costeggiando l’argine destro del Po ed estendendosi verso sud, parte da Brescello e arriva a S. Benedetto Po, collocandosi quindi tra i due affluenti del Po, il torrente Enza a Ovest e il fiume Secchia a Est. Nel presente testo le tre componenti sostanziali dell’evento sono trattate in sequenza mentre nella concreta attuazione sono fortemente intersecate. All’inquadramento storico-geografico del territorio considerato – che rappresenta il momento introduttivo rivolto ai partecipanti – segue la specificazione dell’apparato concettuale-metodologico adottato nella costruzione e realizzazione di tale percorso esperienziale. Di tale apparato, ai partecipanti vengono presentati ed illustrati i tratti essenziali e funzionali, ossia tali da costruire le pre-condizioni per lo svolgimento di una esperienza culturale e operativa piena e coinvolgente in grado di produrre soddisfazione e arricchimento culturale duraturo. Infine vengono dettagliate alcune delle fasi del tour di maggiore significato ed interesse rispetto alle quali i partecipanti sono stati guidati ad applicare i concetti e gli strumenti interpretativi precedentemente presentati.
Inquadramento storico-geografico della Bassa reggiana e dei territori della bonifica. La zona settentrionale dell’Italia – delimitata dalle Alpi e dalla porzione ligureemiliano-romagnola dell’Appennino – è assimilabile ad un catino aperto da un lato, quello orientale. Aspetto caratteristico di quest’area – sovrapponibile in buona misura all’attuale pianura padano-veneta - è la presenza dell’acqua, che nel corso delle diverse fasi storiche ha segnato in maniera determinante questo territorio. 171
All’inizio fu il mare; in continuità con l’Adriatico, infatti, l’acqua copriva tutto il bacino padano fino alla sommità dell’Appennino emiliano. Importanti e significativi reperti e collezioni museali1 confermano una storia di milioni di anni e consentono di comprendere l’attuale configurazione e geomorfologia di quest’area. In un ideale percorso storico-geografico – dal pleistocene all’attualità, dall’alto Appennino alla bassa pianura – che combina reperti e territorio, grazie ad un continuo reciproco rimando fisico e virtuale allo stesso tempo, è possibile delineare un quadro d’insieme da porre come base per la comprensione della natura e configurazione della pianura padana nell’attuale stato, che rimanda all’evoluzione storica lontana e recente2. Dopo il Pleistocene, che portò allo svuotamento del bacino padano dall’acqua, nella lunga fase della Padania paludosa (a partire da circa 12.000 anni fa), i primi insediamenti risalgono alle Terremare, comunità palafitticole in cui l’uomo imparò a convivere con l’acqua limitandone i condizionamenti tramite un approccio per lo più passivo, le palafitte. Venne poi la centuriazione romana (di cui vi è ampia traccia sul territorio padano), poco più di 2000 anni fa, con le prime bonificazioni – interventi attivi dell’uomo per limitare i condizionamenti dell’acqua - seguite da altre nei secoli successivi (basso medioevo e rinascimento in primis) per giungere alle opere di bonifica recenti (inizio del XX sec.) della bassa Pianura Padana (tra cui emergono gli impianti idrovori di Moglia e S. Benedetto Po) realizzate grazie ai nuovi macchinari frutto dell’innovazione tecnologica. L’uomo è così riuscito ad addomesticare la natura per renderla funzionale ai propri bisogni. Bonificare significa infatti intervenire su un terreno per renderlo abitabile, salubre e sicuro e adatto all’attività agricola. Ciò che non fu per molto tempo quella zona. Infatti, le acque piovane convergenti verso la Bassa e quelle che esondavano dai deboli argini dei torrenti appenninici, non potendo sfociare direttamente nel Po a causa dell’impedimento rappresentato dagli argini di quest’ultimo, determinavano ampi ristagni e la formazione delle Valli (Fig. 1). Da qui la necessità di garantire l’allontanamento, tramite canali e impianti specifici, di queste acque stagnanti che si distinguono in acque alte e acque basse. Le prime si trovano nelle zone aventi altitudine di almeno 25 metri sul livello del mare e sono collocate nella parte meridionale del comprensorio considerato, ossia maggiormente distanti dal Po. Queste acque vengono convogliate, attraverso vari cavi, in un unico collettore, il cavo Parmigiana-Moglia che corre parallelo al Po a circa 10-15 Km e va a scaricare le acque per caduta libera nel fiume Secchia in località Bondanello (Moglia). Quando il fiume Secchia è in piena, le chiaviche di Bondanello si chiudono, per evitare il rientro delle acque dal fiume, e le acque del cavo Parmigiana-Moglia vengono smaltite dall’adiacente impianto idrovoro di Mondine che tramite le idrovore le solleva per scaricarle nel Secchia. 1 Si fa riferimento, in particolare, ai fossili, soprattutto di Echinidi, scoperti a Montese (700 m s.l.m. nell’Appennino modenese) nel corso dell’’800, che compongono la collezione dell’Abate Mazzetti e da Questi donata all’Università di Modena nel 1886 ed ora conservata presso la sezione di Paleontologia del Polo Museale della medesima Università. 2 Un progetto turistico/culturale imperniato su tali componenti – percorso storico/geografico che intreccia reperti e territorio – è stato predisposto nell’ambito della ricerca Le tecnologie informatiche e le nuove realtà per la conoscenza, il networking e la valorizzazione del patrimonio culturale scientifico: il ruolo della rete dei musei universitari ed è riportato nel sito www. retemuseiuniversitari.unimore.it. 172
Le acque basse scorrono al di sotto di tale quota altimetrica, nella parte settentrionale della pianura, quella che sta tra il cavo Parmigiana-Moglia e il Po; in tale area vi è sostanziale assenza di canali strutturati con argini. Le acque basse quindi confluiscono verso est in un cuneo di territorio alla confluenza del Secchia nel Po dove vengono raccolte dal Canale Emissario che le convoglia all’impianto idrovoro di S. Siro; qui vengono sollevate e immesse nel Secchia. Queste terre basse prima delle bonifiche di inizio ‘900 erano zone povere, incolte e caratterizzate da ambienti paludosi. Mezzo comune di spostamento era la barca e ampie erano le zone inabitate. I pochi abitanti di queste zone, dette valli, erano considerati i più miseri, poiché abitavano un territorio inadatto alla coltura dei cereali, sfruttato prevalentemente per la caccia e la pesca3. Le bonifiche cancelleranno la maggior parte delle zone umide, lasciandone tracce nelle aree vallive, oggi spesso tutelate come oasi naturalistiche. Tutto ciò ci porta a definire la Pianura Padana un ‘territorio culturale’, ossia frutto dell’intervento umano. La Bonifica Bentivoglio è l’opera più importante e razionale di bonifica idraulica dal XV al XIX secolo nella bassa padana. L’aumento della popolazione, la spinta a mettere a coltura nuovi terreni tra quelli sommersi ed incolti ma potenzialmente fertili, le richieste di bonificazione da parte delle comunità locali, anche attraverso le ‘congregazioni di bonificazione’, la progressiva presa di coscienze da parte dei regnanti 3 Così veniva descritto il paesaggio della Bassa nei primi decenni del XX secolo. ...la vite si dirada, quindi scompare d’un tratto, l’olmo a sua volta cede il posto al pioppo, l’orizzonte si apre, appaiono i salici, il suolo si abbassa, la strada non è più al livello di quello, ma corre sul ciglio di piccoli rialzi.... (Cesco Tomaselli, in «Corriere della Sera», 1924).
Fig. 1 La Bassa Reggiana dopo il Mille. B. Gabbi, La Bonifica Bentivoglio-Enza, Diabasis. Reggio Emilia 2001, p. 64 173
e signorotti dell’epoca dell’utilità di tali interventi, crearono le condizioni per l’avvio di una grande opera di bonifica. Fu iniziata dal marchese Cornelio Bentivoglio che, alla metà del XVI secolo, fece costruire, sfruttando un vecchio alveo del fiume Po, un collettore detto Fiuma, nel territorio di Gualtieri, con l’intendimento di immettere le acque di scolo nel cavo Parmigiana-Moglia per poi scaricarle in Secchia a Bondanello. Per la realizzazione di questo cavo si dovette sottopassare il Crostolo – che ha direzione sud-nord e si getta nel Po - con una costruzione sotterranea in muratura (realizzata nell’anno 1576) lunga 77 metri, in sostanza un tunnel, detta Botte Bentivoglio. Delle condizioni e degli interventi di quei periodi sono disponibili disegni e piante, per lo più recuperati e ripristinati (Fig. 2); si tratta di materiale iconografico di rilevante significato in merito sia alla storia della scienza e della tecnica sia alle più ampie questioni dell’abitare ed utilizzare la terra (e la Terra) da parte dell’uomo. In particolare, evidente è il mutamento nella configurazione idraulica di quell’ampia area che sta tra il Po e la via Emilia nel corso di un secolo; grandi paludi (valli) intorno al 1500 (Fig. 3, parte superiore), decisamente prosciugata quella pianura all’inizio del XVII sec. (Fig. 3, parte inferiore) dopo la regimazione delle acque ottenuta con la Grande Bonifica iniziata dal Bentivoglio nel 1566 e proseguita nei successivi decenni. In varie sedi, museali e non4, sono presenti altri disegni e rappresentazioni dell’epoca, realizzati con l’impiego di varie tecniche, aventi come soggetto il territorio della pianura e le opere di bonifica. L’impiego del materiale iconografico per la conoscenza ed interpretazione del territorio, della sua fisionomia e, quindi, dell’intervento umano, è di estrema importanza. Esso, da un lato, tocca in maniera rilevante la questione del significato da attribuire al termine paesaggio – in particolare come rappresentazione di uno spazio/luogo – e, dall’altro, rimanda alla questione dei mezzi/strumenti cui fare ricorso per perseguire la conoscenza della configurazione del territorio in epoche passate. Testimonianza di particolare valore a tale proposito è il libro di Emilio Sereni sulla Storia del paesaggio agrario; in esso l’Autore fa esclusivo impiego di materiale iconografico piuttosto che descrittivo o di altro tipo adducendo che se nello studioso che abbia viva la conoscenza dell’unitarietà del processo storico, è sempre presente il disagio di una pur necessaria specializzazione della ricerca, che rischia tuttavia di frammentare quell’unitarietà in tanti distinti filoni5 ciò che porta all’interesse per i problemi di storia del paesaggio è proprio il fatto che, in questa disciplina, quella frammentarietà tende a ricomporsi, a ridivenire storia. A tale proposito il Sereni ritiene che le fonti iconografiche possano con quella rappresentatività e con quella intuizione del ‘tipico’ che dell’opera d’arte costituisce appunto una nota saliente, fornirci un materiale illustrativo non solo più suggestivo per il lettore ma anche più pertinente al carattere della nostra indagine6. Un concetto, un approccio, un metodo per il turismo esperienziale in area rurale Il percorso culturale nei territori della Bassa, è costruito e viene proposto assumendo, dal punto di vista teorico-metodologico, una particolare triade composta 4 Tra le sedi non museali, particolarmente ricche di tale materiale, ci sono le sedi (uffici e locali espositivi) dei consorzi di bonifica. 5 E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Laterza, Roma-Bari 1982, p. 25 6 ibidem, p. 23 174
Fig. 2 Disegni e prospetti della Botte Bentivoglio, B. Gabbi, La Bonifica BentivoglioEnza.,Diabasis, Reggio Emilia 2001, p. 89
da un concetto, un approccio ed un metodo, specifici e strettamente connessi. Alla base si pone la particolare accezione (tra le non poche accolte dalle varie discipline) di paesaggio: si propone infatti di considerarlo come immagine del territorio, ossia costruzione mentale (perciò culturale) che sta tra il mero reale e i concetti, formulazioni astratte indispensabili per favorire la conoscenza7. Da un lato 7 M. Meschiari, La mente in viaggio. Insegnare il paesaggio nelle scuole. Ambiente Società Territorio, in «Rivista italiana degli insegnanti di geografia», 52/1, 2007, pp. 33-36; M. Meschiari, Terra sapiens. Antropologie del paesaggio, Sellerio, Palermo 2010; C. Raffestin, Dalla nostalgia del territorio al desiderio di paesaggio. Elementi per una teoria del paesaggio, Alinea, Firenze 175
del processo, comunque recursivo, della conoscenza rispetto ad un luogo, si colloca il territorio, realtà materiale sui generis, risultato di profonde e ripetute interazione tra uomo e ambiente, tra natura e cultura, e perciò sottoposto a continui mutamenti. Dall’altro si pone il bagaglio concettuale che produce, su stimolo degli effetti dello sguardo, il paesaggio come immagine, un modo non solo per descrivere la materialità, ma anche per spiegarla sotto i diversi profili. In tal senso, le immagini sono gli utensili che permettono di esplorare il territorio catturandone gli elementi essenziali. La composizione, la connotazione di tale immagine dipende fortemente dal bagaglio concettuale – nozioni, concettualizzazioni, teorie, idee – relativo a tutto ciò che può comporre un territorio e i diversi territori. La mente deve quindi essere ben ricca per produrre un’immagine – il paesaggio – con cui interpretare il territorio. Come dire, in sostanza, un secondo strumento, meno astratto dei pensieri, dei concetti e delle idee, che si costruisce sulla base dello stimolo che deriva dall’incontro di ciò che viene colto dallo sguardo con i concetti8; è fuori dubbio che il paesaggio che si costruisce come immagine e che, in prima battuta, magari si pensa di vedere, è ben diverso da ciò che l’occhio, come organo umano, fisiologicamente cattura dell’esterno9. Se il reale è costituito da singoli elementi – alberi, animali, sassi, case, persone, ecc. – l’occhio coglie dei segni che vengono elaborati e composti per costituire le singole immagini e la complessiva immagine di ciò che in un dato momento sta dentro l’orizzonte dello sguardo. Si tratta in sostanza di un costrutto che combina questi stimoli componendo un’immagine come insieme di segni a loro volta composti su influenza delle idee e che aiutano a interpretare quel reale di cui non si cattura l’essenza. Il pensiero paesaggistico impiega innanzitutto lo strumento della frattura – discontinuità cromatica e formale – che, trasformandosi in segno, rende visibili e intellegibili le componenti di un territorio; è la discontinuità e non l’omogeneità che consente di cogliere le variazioni, le componenti, la dinamica di un territorio. Tali segni fanno apprendere il contesto territoriale. Indispensabile è uno sguardo consapevole e preparato, ossia una azione volontaria di guardare con capacità di vedere grazie a concetti e strumenti adeguati a cogliere una visione complessiva del territorio e delle sue componenti e, da qui, costruirne l’interpretazione. E’ quanto mai opportuno aiutare il visitatore a dotarsi di un pensiero paesaggistico10, che agevoli ed orienti l’interpretazione del territorio e delle sue componenti. Ne deriva che la capacità di vedere il territorio e le sue componenti attraverso il paesaggio come immagine mentalmente costruita sullo stimolo dello sguardo può e deve essere costruita e allenata. Chi non è preparato non vede, guarda nel vuoto (un vuoto di immagini); perché, come dice Kant, l’occhio innocente è cieco e la mente vergine vuota.
2005; C. Raffestin, L’analisi del territorio attraverso le immagini del paesaggio in «Rivista Interdisciplinare di Studi Paesaggistici», 1, 2007, pp. 22-29. 8 C. Raffestin, Dalla nostalgia del territorio al desiderio di paesaggio. Elementi per una teoria del paesaggio, Alinea, Firenze 2005 9 M. Venturi Ferriolo, Percepire paesaggi. La potenza dello sguardo, Bollati Boringhieri, Torino 2009. 10 Ibidem. 176
Fig. 3 Il territorio della Bassa Reggiana prima (parte superiore) e dopo (parte inferiore) la Bonifica Bentivoglio. Fonte: Gabbi B., La Bonifica Bentivoglio-Enza. DIABASIS. Reggio Emilia 2001, p. 120 177
“Vedere significa conoscere la forma finale del mondo offerta agli occhi dell’osservatore e distinguere i particolari di una totalità. Significa soprattutto entrare in un luogo e svelare la sua essenza e comprendere le relazioni tra ciò che ha luogo: l’accadere”11. “Paesaggio è movimento; è interpretazione, critica, sentire e comprendere l’ambiente circostante, discutere lo spazio concreto per individuare il futuro, ma anche per giudicare il passato. In un concetto: il paesaggio critico, mostrato, raccontato”12. “Un accadere di cose… forma un paesaggio, immagine univoca dai molteplici elementi, dove le singole cose hanno rilevanza per la loro appartenenza a una determinata totalità, dove opera una relazione tra il singolo e l’universale. Gli elementi semplici, nella loro individualità e con una propria esistenza concreta, hanno un significato se inseriti in una data totalità, dove costituiscono una comunità con le altre parti in un’esistenza complessiva, universale: un’esistenza paesaggistica”13. [In sostanza] “il modo di guardare è una maniera di vedere, di dire, di descrivere e di dipingere. La propria maniera di vedere è fisiologicamente individuale, ma l’interpretazione dipende molto dalla società alla quale si appartiene”14;
i mediatori in sostanza dipendono dalla società; educare al paesaggio è educare a vedere ed interpretare territori e ciò che li compone, in termini statici e dinamici. Ciò favorisce innanzitutto la lettura denotativa del territorio, volta a riconoscerne i diversi elementi costitutivi, le relazioni che li legano, i fattori fisici, biologici, socioeconomici e culturali che ne sono all’origine; un modo non solo per descriverne la materialità, ma anche per spiegarla da diversi punti di vista secondo il linguaggio che si adotta15. Dall’altra, immagini istantanee distribuite nel tempo supportano la lettura diacronica del territorio, per immaginarne l’evoluzione, catturando i modi in cui l’uomo ha lasciato il segno del suo passaggio e del suo agire. La lettura connotativa infine, campo delle sensazioni e delle emozioni, ha proprio nel paesaggio il medium culturale generatore16. Dotarsi di un pensiero paesaggistico significa essere in grado, guardando il territorio dell’oggi, di vedere quello di ieri, a partire da tutte le tracce e le testimonianze reperibili in loco o nei musei. Questo sguardo profondo riempie di un significato nuovo e performativo il concetto di paesaggio, che diventa attività di costruzione di immagini, capacità di decifrare i segni e di integrare la realtà visibile con ciò che era presente nei secoli precedenti. L’immagine, produzione mentale umana, mentalmente impiegata per interpretare il territorio, può trovare una sua traduzione verso l’esterno, in chiave comunicativa, tramite l’impiego di uno o più linguaggi umani. I principali: quello descrittivo, che fa ricorso alla parola, parlata o scritta, medium convenzionale di facile impiego ma spesso povero di capacità traslativa, e quello artistico, per lo più pittorico, decisamente 11 Ibidem, p. 52. 12 Ibidem, p. 67. 13 Ibidem, p. 79. 14 C. Raffestin, Dalla nostalgia del territorio al desiderio di paesaggio. Elementi per una teoria del paesaggio, Alinea, Firenze 2005, p. 48 15 B. Castiglioni, Educare al Paesaggio, Museo di Storia Naturale e Archeologia di Montebelluna, Treviso 2010. 16 Ibidem. 178
Fig. 4 La Grande mappa, di M. Nizzoli (Reggio Emilia, Palazzo Prampolini, sede Consorzio Bonifica Emilia Centrale)
più ricco strumentalmente ma spesso limitato nella sua padronanza d’impiego. Strumento di particolare utilità rispetto a tale approccio in relazione al territorio della bonifica si rivela la Grande mappa Nizzoli (Fig. 4) Si tratta di una rappresentazione – costrutto mentale tradotto in opera grafica – che enfatizza determinati segni scelti proprio in funzione del tema che, osservando un dato territorio, si intende comprendere ed approfondire; nel caso in questione i segni dei canali e dei vari manufatti legati al sistema di bonifica, proprio per comprendere quest’ultimo fenomeno. La Grande mappa fu costruita tra il 1928 e il 1930 da Marcello Nizzoli, (Boretto, 2 gennaio 1887 – Camogli, 31 luglio 1969) designer, architetto, pittore e pubblicitario italiano17. Tramite la Grande mappa si propone una (possibile) traduzione percepibile – in termini di elaborato grafico-pittorico - dell’immagine del territorio della bonifica che un osservatore costruisce in sé; una sorta di mappa concettuale con cui vedere, prima, e comprendere, dopo, il fenomeno terra bonificata, dove le componenti meno interessanti rispetto a tale finalità sfumano o sono appena abbozzate, mentre quelle costitutive del sistema della bonifica risaltano. Con la mappa ci si allena ad uno sguardo attento, educato a vedere la composizione del territorio e, quindi, a cogliere le fratture cromatiche e le variazioni delle forme che 17 Di Marcello Nizzoli si ricorda, in particolare, la realizzazione delle sei mappe delle città d’Italia (Assisi, Napoli, Padova, Pisa, Bologna, Trieste), affrescate sulle pareti della sala d’aspetto di terza classe della stazione centrale di Milano, poi trasformata in Libreria Feltrinelli, e la progettazione di macchine da scrivere e calcolatrici, tra cui la famosa Lettera 22, macchina per scrivere meccanica portatile della Olivetti, ora esposta nella collezione permanente di design al Museum of Modern Art di New York. 179
si incontrano entrando nel territorio reale e che portano ad interrogarsi sulla natura e ragione di tali segni specifici ed a risalire alla loro origine concreta: le opere della bonifica, frutto del lavoro umano volto a rendere abitabili e coltivabili quelle terre, quindi addomesticate e non più selvagge. L’apprendimento di un pensiero paesaggistico pone le persone nella condizione, una volta trasferitesi nel territorio, di cogliere segni specifici che altrimenti rimarrebbero non visti e le aiuta ad evitare che l’immagine-paesaggio, che comunque si produce, sia una macchia uniforme (effetto marmellata) che non consente di leggere ed interpretare un dato territorio. Per favorire i migliori risultati durante le visite nel territori, vengono fornite indicazioni mirate relative non solo ai luoghi da visitare ma anche ai percorsi con cui avvicinarsi ad essi, la direzione verso cui volgere lo sguardo, i punti panoramici da dove puntare lo sguardo, le fratture e gli elementi puntuali da cogliere e da connettere. La traslazione nel reale delle mappe e dei disegni tecnici relativi alle varie opere di bonifica – a cominciare da quelle del XVI sec. – integrate dall’inquadramento dettagliato (zoomato) di specifici oggetti/ fenomeni precedentemente illustrati – il canale, la botte, l’impianto idrovoro – porta lo sguardo ad aprirsi a grandangolo per osservare, leggere ed interpretare l’intero complesso territoriale. Si è di fronte ad un insieme di elementi posti nel luogo, che la combinazione tra sguardo e pensiero paesaggistico porta a comporre in un mosaico intelligibile che sostiene una mappa concettuale con cui cogliere e interpretare l’elevata complessità generata dall’intrecciarsi di fisionomie geografiche, processi storici, azioni umane nel bacino padano lungo i secoli fino all’oggi.
Fig. 5 La Botte Bentivoglio e i canali (http://www.bininipartners.it consultato il 26/06/2018) 180
Caratteri essenziali del percorso Per immergersi nei territori della bassa Pianura Padana con intendimenti turisticoculturali, quindi conoscitivi, è richiesta preparazione e attenzione. L’intensa evoluzione realizzatasi in tali aree in termini economici, sociali ed ambientali e, quindi, di uso dei suoli e di sovrastrutturazioni stratificatesi nel tempo, con modifiche significative delle connotazioni orografiche ed ambientali delle zone coinvolte, ha prodotto un reticolo talmente denso da rendere difficoltosa l’identificazione dei vari elementi e l’interpretazione stessa del territorio. Le fratture – formali e cromatiche – diventano lo strumento essenziale per cogliere i segni sul territorio da usare sia per collocare gli elementi che lo compongono sia per costruire la mappa/immagine mentale. L’elevata densità di fratture che lo sguardo incontra – generate dall’intenso e spesso eccessivo intervento umano: canali e strade di varia dimensione, costruzioni industriali e civili, diffuse in un territorio fortemente antropizzato – richiedono uno sguardo affinato, capace di penetrare nei segni, la cui eccessiva densità induce alla con-fusione degli stessi ed alla incapacità di selezionare quelli fondamentali per l’interpretazione, base per la costruzione della immagine. In generale, il viaggio – momento di conoscenza, di scoperta, di potenziamento delle proprie capacità di comprendere il mondo – attraverso i territori della bonifica può avere un carattere random, dove lo sguardo, attento e sufficientemente allenato, incontrando le varie emergenze territoriali fa scattare la curiosità interpretativa sulla natura, la causa e gli effetti delle stesse e, sistemandole in una propria mappa cognitiva, compone la sua propria visione, ossia il proprio paesaggio della bonifica. Alternativamente può essere compiuto un viaggio guidato, ossia dei tragitti predefiniti e funzionali alla evidenziazione delle componenti territoriali di maggiore e più rilevante significato sotto i diversi profili: ingegneristico, idraulico, agronomico, ambientale e sociale, in senso sincronico e diacronico. Il tour realizzato utilizza l’argine del torrente Crostolo per trasferirsi dal Po, dove esso sfocia, al complesso Botte Bentivoglio – Torrione, in mezzo alla pianura. Il tratto finale di tale torrente, che nasce in Appennino, è pressoché rettilineo, segno evidente di una incanalatura da parte dell’uomo. Lungo il percorso, effettuato sull’argine, sufficientemente sopraelevato, lo sguardo, sostenuto dal pensiero paesaggistico, coglie le fratture che disegnano il territorio e costituiscono i pilastri per la sua interpretazione. Quelle formali, originate dalla presenza dei canali minori, che interrompono la forma orizzontale/piatta dei campi con la funzione di raccogliere le prime acque di sgrondo della campagna; quelle cromatiche, che inducono a percepire la presenza di diverse colture (interrogandosi sulle ragioni e sulla relativa funzione); quelle, allo stesso tempo formali e cromatiche, dovute alla presenza di talune alberature funzionanti da frangivento e quelle generate dagli insediamenti rurali, una parte in evidente stato di abbandono, che ci interrogano sul loro destino e ci chiedono di riflettere sulle cause di tale condizione. Punto centrale del tour è senza dubbio il complesso Botte Bentivoglio – Torrione, ancora oggi snodo centrale del funzionamento del sistema di bonifica e di quello di irrigazione. Per un efficace processo conoscitivo del complesso e dei canali connessi, si suggerisce, stando sull’argine (punto più elevato in quella zona), di passare dall’inquadramento del complesso Torrino-Botte all’osservazione in senso centrifugo 181
dei due canali – prima e dopo la botte – alzando gradualmente lo sguardo sino all’orizzonte, sia verso ovest che verso est, per coglierne lo sviluppo che li porta ad incunearsi nel cuore della campagna come evidenzierebbe una immagine aerea (Fig. 5). Ritornando al micro, dopo essere scesi davanti alla Botte Bentivoglio se ne apprezza la configurazione odierna notando le due aperture per l’ingresso dell’acqua (botte a doppia luce) in primo piano e l’argine sinistro del Crostolo alle spalle dell’edificio soprastante la botte stessa (Fig. 6). Assolutamente da non trascurare è la dimensione micro del sistema della bonifica dato che la gestione delle acque impone particolari operazioni a livello dei campi coltivati da parte dei singoli agricoltori. Innanzitutto occorre conferire una determinata forma ai campi per favorire lo sgrondo dell’acqua verso i fossi di primo livello. E’ per tale ragione che i campi assumono un profilo bombato, detto baulatura (Fig. 7), noto e prescritto nei manuali di agronomia da secoli. D’altra parte è fondamentale la pulizia dell’intricatissima rete dei fossi, realizzata oggigiorno per lo più meccanicamente. Componente molto importante dell’esplorazione, e tappa del percorso, è l’ex impianto idrovoro di Boretto, ora trasformato in Museo della Bonifica. Si tratta di un museo multimediale di recente costruzione collocato dentro la struttura parzialmente dismessa dell’impianto di sollevamento posto a Boretto. Tale impianto, benché collegato al sistema della bonifica è funzionale al sistema di irrigazione della zona reggiana della Pianura Padana. Infatti, in quel punto le acque del Po vengono deviate dal corso del fiume, convogliate in un bacino laterale e da qui prelevate tramite un impianto specifico per essere spinte, tramite canali, in parte coincidenti con quelli della bonifica, e per mezzi di impianti di sollevamento, verso l’interno della pianura fino a fare arrivare l’acqua in prossimità della città di Reggio Emilia. In tale modo viene messa a disposizione dell’agricoltura della zona un’ampia dotazione di acqua da impiegare per l’irrigazione durante i mesi estivi. L’elevato fabbisogno d’acqua di queste zone è dovuto alle caratteristiche stesse del terreno, molto argilloso, che nel momento in cui è privato dell’acqua stagnante (grazie alla bonificazione) tende a prosciugare eccessivamente limitando la produttività delle colture.
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Fig. 6 L’ingresso della botte Bentivoglio (Consorzio Bonifica Emilia Centrale)
Fig. 7 Campo baulato (foto dell’Autore)
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Turismo sostenibile e aree interne Per una strategia di valorizzazione del patrimonio territoriale della Sicilia interna Fabiola Safonte
IRPAIS ‒ Istituto di Ricerca e Promozione delle Aree Interne della Sicilia
Affrontare temi come quelli relativi al viaggio è un compito assai arduo. Da tempi immemori infatti gli esseri umani percepiscono il viaggio come possibilità di mettersi in gioco, allargando i propri orizzonti e sperimentando nuove identità. Tali questioni rendono l’esperienza turistica una delle attività umane più complesse e interessanti, giacché tali pratiche, appaiono inadeguate a essere categorizzate in definizioni o modelli teorici rigidi e definiti. Tuttavia, nel breve spazio di tempo assegnato, proverò a tracciare un quadro, dai contorni magari un po’ sfumati, in cui poter collocare concetti come quelli di turismo, sostenibilità e aree interne che troveranno una declinazione attraverso la breve analisi del progetto MATHER Central Sicily (Mapping and Analisys of Territorial Heritage in Central Sicily ‒ Mappatura e analisi del patrimonio territoriale del Centro Sicilia) orientato alla mappatura e geolocalizzazione del patrimonio territoriale al fine di poter successivamente definire gli attrattori a livello locale, nella considerazione che le risorse turistiche vengono identificate nelle risorse territoriali che possiedono caratteristiche di unicità ed eccellenza tali da influenzare la scelta di una destinazione di viaggio. I territori rurali e le aree interne ‒ caratterizzate da una bassa densità demografica e da un contesto rurale che evidenzia ancora una forte presenza dell’agricoltura, in cui il patrimonio storico-artistico è poco noto ma di qualità e le cui dinamiche economicosociali e paesistico-insediative fanno riferimento a valori quali la reciprocità, la fiducia tra i residenti e tra le imprese ‒ dalla seconda metà del secolo scorso sono stati vittime di un lungo e progressivo processo di marginalizzazione e abbandono in favore delle aree urbane e da un processo di indebolimento dei servizi alla persona. Colpiti inesorabilmente da “derive territoriali”1, i cui effetti principali sono stati lo spopolamento, l’emigrazione, la rarefazione sociale e produttiva, l’abbandono della terra e le modificazioni del paesaggi2. Ulteriori effetti negativi sono stati generati 1 M. Toscano, Derive territoriali, Le Lettere, Roma 2011. 2 M. Marchetti, S. Panunzi, R. Pazzagli. Aree interne. Per una rinascita dei territori rurali e montani, Rubbettino, Soverina Mannelli 2017; R. Pazzagli, Un Paese scivolato a valle. Il patrimonio territoriale delle aree interne italiane tra deriva e rinascita, in Aree interne. Per una rinascita dei territori rurali e montani, M. Marchetti, S. Panunzi, R. Pazzagli (a cura di), Rubbettino, Soveria Mannelli 2017. 185
da interventi pubblici o privati volti a estrarre risorse senza generare innovazione o benefici locali a causa, da un lato, delle condizioni negoziali di debolezza dovute alla scarsità dei mezzi finanziari e, dall’altro, da fenomeni di comunitarismo locale chiuso a ogni apporto esterno. Territori dell’osso non è infatti solo una citazione, ma anche la metafora della struttura portante e la rappresentazione plastica della marginalita3 che ha colpito le aree interne della Sicilia, che, in questa regione, assumono una connotazione solo metaforicamente geografica, giacché più che la posizione fisica, ad influire nella relativa concettualizzazione sono le situazioni di svantaggio, di parziale privazione dei diritti sostanziali e le limitate opportunità di sviluppo. La collina interna in Sicilia è stata la vittima sacrificale dello sviluppo economico, colpita inesorabilmente da effetti negativi anche sul piano ambientale: dalla vulnerabilità idrogeologica, alle trasformazioni paesaggistiche, dalla ri-naturalizzazione incontrollata, alla perdita dei valori antropici. Tuttavia, questi stessi territori sono anche il luogo di un cospicuo patrimonio territoriale4, inutilizzato, ritenuto strategico per il rilancio e la crescita del sistema Paese. In tala direzione si muove la Strategia Nazionale Aree Interne (SNAI), i cui ambiti di intervento e gli elementi di attivazione della crescita locale attengono alla tutela del territorio, alla valorizzazione delle risorse naturali e culturali e al turismo sostenibile, ai sistemi agro-alimentari, al risparmio energetico e alle filiere locali di energia rinnovabile, al saper fare e all’artigianato, cui si affiancano l’adeguamento dei servizi essenziali di salute, istruzione e mobilità (Safonte, Trapani et al. 2018)5. Direttrici di sviluppo che troviamo anche nel PST (Piano Strategico del Turismo) 2017-2022, frutto di un inedito processo di partecipazione e condivisione, avviato a livello nazionale, con gli Stati Generali del Turismo (ottobre 2015 e aprile 2016) e già approvato dal Comitato permanente per la promozione del turismo e dalla Conferenza Stato-Regioni, in cui si prevede la valorizzazione delle aree interne per diversificare l’offerta turistica con l’obiettivo di indirizzare i flussi verso territori poco frequentati ma ricchi di potenzialità quali aree rurali, piccole e medie città d’arte, parchi naturali e marini. In tali territori il PST punta a promuovere prodotti turistici basati sulla fruizione responsabile, sul rafforzamento degli elementi di sostenibilità del turismo, sull’innovazione e sulle attività produttive originali, che dovrebbero così contribuire alla costruzione di territori vivibili e in grado di offrire ospitalità e forme di sviluppo turistico leggere e integrate con altre attività. In tali ambiti, viene promosso infatti uno sviluppo turistico fortemente integrato con la valorizzazione del paesaggio, dei 3 R. Pazzagli, Un Paese scivolato a valle. Cit. 4 A. Magnaghi, Il patrimonio territoriale: un codice genetico per lo sviluppo locale autosostenibile, in A. Magnaghi (a cura di), Il territorio degli abitanti. Società locali e autosostenibiità, Dunod, Milano 1998, pp. 3-20; A. Magnaghi, La rappresentazione identitaria del patrimonio territoriale. G Dematteis, F. Ferlaino (a cura di), Il Mondo e i Luoghi. Geografie dell’identità e del cambiamento, IRES Piemonte, Torino 2003, pp. 13-19; G. F. Safonte, F. Trapani, A theoretical and methodological framework for the analysis and measurement of environmental heritage at local level, in «Energy Procedia» 115, Elsevier, 2017, pp. 487-501. 5 F. Safonte, F. Trapani, C. Bellia, Regionalization processes in agricultural and environmental policies. A regional typologies comparative analysis to identifying fragile areas, «Quality-Access to Success», 19, 2018. 186
Fig. 1 Classificazione dei comuni della Sicilia secondo la SNAI Strategia Nazionale Aree Interne. Fonte: nostra elaborazione su dati SNAI
prodotti tipici, dei beni culturali ed ambientali, delle risorse enogastronomiche, delle tradizioni popolari, della storia e delle identità locali. Se i suoi principi guida sono sostenibilità, innovazione e accessibilità, quattro sono i suoi obiettivi fondamentali: a) diversificare l’offerta turistica; b) innovare il marketing del brand Italia; c) accrescere la competitività e d) migliorare la governance del settore. Da quanto illustrato sembra evidente come le azioni strategiche di policy messe in atto siano basate su strumentazioni di governo delle trasformazioni territoriali e su sperimentazioni di governance place based a seconda delle tipologie territoriali e dei loro livelli di declino. Il turismo sostenibile sembra inserirsi in modo utile nelle strategie di resilienza dei territori, dove il concetto di sostenibilità si presenta come un paradigma che coinvolge, da un lato, le generazioni future e la riproducibilità nel tempo delle risorse e, dall’altro, l’equa distribuzione delle stesse a livello sincronico e spaziale. È il rapporto Our Common Future del 1987 a cura della Commissione mondiale sull’ambiente e lo sviluppo (WCED meglio nota come Commissione Brundtland) che per la prima volta definisce il principio di Sviluppo Sostenibile come uno sviluppo che soddisfi bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri. Il World Trade Organization un anno dopo precisa il concetto di turismo sostenibile stabilendo che “È quel turismo che va incontro ai bisogni dei turisti e delle aree ospitanti attuali e che, allo stesso tempo, protegge e migliora le opportunità per il futuro [...], costituendo il principio-guida per una gestione delle risorse tale che i bisogni economici, sociali ed estetici possano essere soddisfatti e, contemporaneamente, possano essere preservate 187
l’integrità culturale, gli equilibri fondamentali della natura, la biodiversità ed il miglioramento della qualità della vita. […] Le attività turistiche sono sostenibili quando si sviluppano in modo tale da mantenersi vitali in un’area turistica per un tempo illimitato, non alterano l’ambiente (naturale, sociale ed artistico) e non ostacolano o inibiscono lo sviluppo di altre attività sociali ed economiche”.
Successivamente, anche come naturale conseguenza del lavoro della Commissione Brundtland, furono numerosi i tentativi6 di elaborare definizioni di turismo sostenibile che si caratterizzarono dall’essere più che definizioni una specie di raccolte di principi, di indicazioni di politica e di suggerimenti gestionali. Nell’analisi del legame fra sostenibilità e comparto turistico deve essere messo in evidenza come la sostenibilità debba essere considerata uno dei principali temi di studio della competitività territoriale in ambito turistico, giacché in tale comparto i servizi utilizzano come materie prime proprio le risorse locali. Al contempo, lo sviluppo turistico dipende in gran parte dalle risorse naturali e socio-culturali di un’area, il cui eventuale sfruttamento non ne riduce solo l’attrattività turistica, ma anche quella per i residenti, che vedono nel depauperamento di tali risorse una limitazione del proprio benessere e della qualità della propria vita. Diventa pertanto necessario definire e declinare il concetto di sostenibilità7, concetto integrato che richiede di coniugare nello sviluppo sostenibile tre dimensioni strettamente correlate: ambientale, economica e sociale. La sostenibilità sociale8 include l'equità, l’accessibilità, l'empowerment, la partecipazione, l'identità culturale e la stabilità istituzionale. La sostenibilità economica9 è data dalla capacità di generare reddito e occupazione in modo duraturo e soddisfacente per la popolazione. La sostenibilità ambientale10 consiste nella capacità di mantenere qualità e riproducibilità delle risorse naturali e quindi di mantenere integro l’ecosistema. In tale contesto lo sviluppo turistico diviene pertanto un processo di sviluppo sostenibile qualora sia in grado di affiancare allo sviluppo economico durevole un uso razionale e meno dissipativo del patrimonio territoriale e dell’identità socio-culturale locale, senza che una delle tre dimensioni dello sviluppo ‒ economica, sociale ed ambientale ‒ possa prevalere sulle altre. 6 J. Clarke, A framework of approaches to sustainable tourism, in «Journal of sustainable tourism» 5(3), 1997, pp. 224-233; C. Hunter, Sustainable tourism as an adaptive paradigm, in «Annals of tourism research» 24(4), 1997, pp. 850-867; B. Garrod, A. Fyall, Beyond the rhetoric of sustainable tourism? in «Tourism management» 19(3), 1998, pp. 199-212; S. Place, C. M. Hall and A. Lew, Sustainable tourism: A geographical perspective, Longman, Harlow 1998; R. W. Butler, Sustainable tourism: A state-of-the-art review, in «Tourism geographies» 1(1), 1999, pp. 7-25; Z. Liu, Sustainable tourism development: A critique, in «Journal of sustainable tourism» 11(6), 2003, pp. 459-475.
7 A. Tencati, Managing sustainability, in Ethics in the Economy. Handbook of Business Ethics, Peter Lang AG - European Academic Publishers, Svizzera 2002. 8 S. McKenzie, Social sustainability: towards some definitions, Univesity Of South Australia, Magill 2004. 9 F. Pigliaru, Economia del turismo: note su crescita, qualità ambientale e sostenibilità, Centre for North South Economic Research, University of Cagliari and Sassari, Sardinia 1996. 10 R. Camagni, Sostenibilità ambientale e strategie di piano: le questioni rilevanti, Il Mulino, Bologna 1999. 188
Seguendo tale approccio si sviluppano i nuovi turismi11, orientati a promuovere contestualmente atteggiamenti e comportamenti pro-ambientali, responsabili ed etici in un’ottica che mira a superare le problematiche connesse alla scarsa sostenibilità tipiche del turismo di massa e che mirano ad utilizzare le specificità locali come leva competitiva, evidenziando altresì talune specificità comuni quali ad esempio: il rispetto e la salvaguardia degli ecosistemi e della biodiversità12, la riduzione dell’impatto ambientale delle attività collegate al turismo, il rispetto e la salvaguardia
11 F. Bencardino, G. Marotta, Nuovi turismi e politiche di gestione della destinazione: prospettive di sviluppo per le aree rurali della Campania, FrancoAngeli, Milano 2004; A. Albanese, S. Pozzi, E. Bocci, Nuovi turismi, nuovi turisti: il turismo intergenerazionale. Esperienze-ricerche del Laboratorio Incontri Generazionali sul territorio nazionale, in G. Sangiorgi (a cura di), Turista e turismi. Contributi psicologici allo sviluppo del settore, CUEC, Cagliari 2005; L. Gemini, In viaggio. Immaginario, comunicazione e pratiche del turismo contemporaneo, Franco Angeli, Milano 2008. 12 H. Coccossis, Sustainable tourism and carrying capacity: a new context, in H. Coccossis, A. Mexa (eds.), The Challenge of Tourism Carrying Capacity Assessment, Routledge, Londra 2017, pp. 19-30.
Fig. 2 Composizione del campione secondo le classi di reddito, la tipologia di area di residenza, il comune di provenienza e l’età (in percentuale) 189
della cultura tradizionale dei residenti locali13 e la relativa partecipazione attiva nella gestione delle imprese turistiche e nella condivisione dei benefici socio-economici derivanti dal turismo, la ricerca individuale nella soddisfazione di desideri personali, sfruttando le tecnologie telematiche disponibili e ormai largamente diffuse. In particolare, si distinguono: il turismo responsabile14 che concentra il proprio interesse sugli aspetti della sostenibilità relativi al rapporto tra visitatore e comunità ospitante in un’ottica di condivisione dell’esperienza e di equità nella ripartizione dei profitti e minimizzando gli impatti negativi (ambientali, sociali e culturali)15; il Nature Based Tourism relativo alla dimensione ambientale della sostenibilità concepita in chiave di contemplazione della natura16; l’eco turismo o turismo green che sostiene la protezione delle aree naturali attraverso. la creazione di vantaggi economici per le comunità ospitanti, le organizzazioni e gli enti che amministrano le aree protette con fini di tutela e la creazione di posti di lavoro alternativi17. Lo slow tourism18, forma di turismo all’avanguardia caratterizzato dall’essere etico, responsabile, non omologato, intrinsecamente auto diretto e difficilmente standardizzabile oltreché in grado di attivare nuove politiche di consumo, essendo altresì contraddistinto dalla presenza di elementi di qualità quali la ruralità, la lontananza dalle grandi direttrici del turismo di massa, il capitale sociale della comunità locale e una mobilità lenta propria di alcuni territori che alcuni studi19 definiscono appunto territori lenti, evidenziando non una 13 B. B. Boley, N. G. McGehee, A. T. Hammett, Importance-performance analysis (IPA) of sustainable tourism initiatives: The resident perspective, in «Tourism Management» 58, 2017, pp. 66-77. 14 M. Ruisi, L. Picciotto, Per una definizione di turismo responsabile bilanciata tra motivazioni di viaggio e aspettative della comunità locale: l'analisi dell'intermediazione offerta da taluni operatori siciliani, in M.A. La Torre (a cura di), Dal turismo sostenibile alla responsabilità sociale d'impresa, Quaderni della ricerca scientifica-Serie Turismo, Università degli Studi Suor Orsola Benincasa, Napoli 2013, pp. 33-61. 15 R. Caruana, S. Glozer, A. Crane, S. McCabe, Tourists’ accounts of responsible tourism, in «Annals of Tourism Research» 46, 2014, pp. 115-129; T. Mihalic, Sustainable-responsible tourism discourse–Towards ‘responsustable’ tourism, in «Journal of Cleaner Production» 111, 2016, pp. 461-470. 16 P. Valentine, Nature-based tourism, Belhaven Press, Londra 1992; S. A. Moore, K. Rodger and R. Taplin, Moving beyond visitor satisfaction to loyalty in nature-based tourism: A review and research agenda in «Current Issues in Tourism» 18 (7), 2015, pp. 667-683. 17 H. Ceballos Lascuráin, Ecoturismo: naturaleza y desarrollo sostenible, Diana, Mexico 1998. 18 S. Heitmann, P. Robinson, G. Povey, Slow food, slow cities and slow tourism, in P. Robinson, S. Heitmann, P. Dieke (eds.), Research themes for tourism, CAB International, Londra 2011, pp. 114-127; S. Fullagar, K. Markwell, E. Wilson, Slow tourism: Experiences and mobilities, Channel View Publications, Bristol 2012. 19 E. Lancerini, A. Lanzani, E. Granata, S. Carbonara, M. Robiglio, G. De Rita, Territori lenti, in R. Innocenti, et al. (acura di), Mutamenti del territorio e innovazioni negli strumenti urbanistici, FrancoAngeli, Milano 2005; V. Calzati, Territori lenti: nuove traiettorie di sviluppo, in V. Calzati, P. De Salvo, E. Nocifora (a cura di), Territori lenti e turismo di qualità. Prospettive innovative per lo sviluppo di un turismo di un turismo di qualità, Franco Angeli, Milano 2011; E. Nocifora, P. De Salvo and V. Calzati. Territori lenti e turismo di qualità, prospettive innovative per lo sviluppo di un turismo sostenibile. Franco Angeli, Milano 2011; A. Rizzo, Declining, 190
Fig. 3 Composizione del campione multi-case. Nostra elaborazione su dati rilevati mediante indagine qualitativa
Fig. 4 Articolazione del patrimonio territoriale locale. Nostra elaborazione mediante rilevazione diretta
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situazione di ritardo o di arretratezza ma una traiettoria di sviluppo non centrata sul concetto di crescita ma fondata sul binomio tradizione e innovazione che tentano di coniugare crescita economica, sociale e tutela ambientale. Il concetto integrato e plurisettoriale di turismo sostenibile, che coniuga le tre dimensioni fondamentali di Ambiente, Economia e Società con quella Istituzionale, assume pertanto un significato più ampio, indicando le modalità di gestione dello stesso e riferendosi a una politica di gestione del prodotto/destinazione in grado di produrre benefici per tutti i soggetti coinvolti20. In sintesi la responsabilità del turista si delinea come un importante elemento della sostenibilità del turismo evidenziando il ruolo che anche la domanda può esercitare per la diffusione di una visione etica nella definizione dei contenuti e delle modalità dell’offerta turistica in grado di ridurre i pericoli della omologazione e della sottrazione di identità nei luoghi attrattori della domanda21. La mappatura del patrimonio territoriale costituisce pertanto una base conoscitiva imprescindibile per il policy maker ai fini della formulazione di una pianificazione strategica mirata alla creazione di una offerta turistica integrata. A tal proposito il progetto MATHER Central Sicily, prima anticipato, ha previsto quale obiettivo della prima fase di ricerca, a livello macro, la ricostruzione della fisionomia contestuale, economica e sociale che abita il territorio oggetto d’indagine per procedere poi all’analisi del patrimonio territoriale – effettuata in termini di analisi delle performances, fotografate dagli indicatori di riferimento – integrata dai risultati sia di un’indagine campionaria (Fig. 2), diretta a valutare il vissuto e il livello percepito di qualità territoriale che ha fatto fa ricorso ad un disegno di campionamento complesso a tre stadi. A livello micro, tali risultati sono integrati dalle evidenze emerse da una multicase study, effettuata sia attraverso un’analisi desk e l’osservazione sul campo, sia mediante colloqui in profondità con gli stakeholders territoriali e focus groups con gli attori locali (Fig. 3). Il successivo processo di mappatura digitale e geolocalizzazione del patrimonio territoriale ha riguardato una prima complessa fase di acquisizione dati, risultato di un confronto tra molteplici banche dati e siti web, per la cui precisione e adeguatezza si sono resi necessari numerosi sopralluoghi in loco che ha permesso, allo stato attuale. l’identificazione, nel territorio provinciale, di un rilevante insieme di risorse territoriali (paesaggistico ambientali, storico-monumentali, minerarie e rurali) come si evince dall'analisi dei valori della Fig. 4, che nel presente contributo per brevità non prende in considerazione i centri storici di pregio, il patrimonio ecclesiastico, enogastronomico, artigianale, i servizi turistici.
transition and slow rural territories in southern Italy Characterizing the intra-rural divides. in «European Planning Studies» 24 (2), 2016, pp. 231-253. 20 T. Pencarelli, S. Splendiani, Il governo “sostenibile” delle Destinazioni Turistiche, in Marketing e Management del turismo, T.Pencarelli (a cura di), Edizioni Goliardiche, Trieste 2010; A. Magliulo, Un modello per la competitività sostenibile delle destinazioni turistiche, in «Rivista di Scienze del Turismo-Ambiente Cultura Diritto Economia» 3(2), 2014, pp. 51-77. 21 J. B. Ritchie, G. I. Crouch, The competitive destination: A sustainable tourism perspective, Cabi 2003. 192
Fig. 5 Carta del patrimonio rurale e della civiltĂ contadina di rilevante interesse in Sicilia. (D. Gulotta, F. Naselli, F. Trapani, A. Battaglia, Motris, microcentralitĂ
relazionali nel Mediterraneo: una ricerca per la mappatura dell'offerta di turismo relazionale integrato in Sicilia, Gulotta Editore, Palermo 2004.)
Fig. 6 Profilo del capitale culturale a livello locale secondo i residenti nel territorio oggetto d’indagine (punteggi medi; giudizi espressi mediante punteggio in una scala da 1 a 5). Nostra elaborazione su dati rilevati mediante indagine quantitativa
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In effetti, il territorio della Sicilia centrale e centro-meridionale riassume in sé un’ampia dotazione di caratteri di specificità storica e culturale che ne fanno un laboratorio di straordinario interesse, giacché risulta dotato di un consistente patrimonio culturale storico-monumentale composto dai borghi storici medievali e barocchi, dalle architetture fortificate, dal rilevante sistema delle aree archeologiche, dal pregevole patrimonio ecclesiastico ed artistico, dal patrimonio naturalistico ambientale oltre ad essere fortemente caratterizzato dalla presenza di una memoria storica, non sempre condivisa, basata sulla tradizione contadina (Fig. 5) e su quella delle solfare (zolfare secondo la denominazione locale). Il territorio comprende infatti uno dei più importanti bacini minerari d’Europa denominato altipiano solfifero che ricopre una vasta area dell’entroterra siciliano estendendosi per circa 5 mila kmq e occupando gran parte delle province di Agrigento, Enna e Caltanissetta, anche se le caratteristiche dei giacimenti variano da luogo a luogo, sia nei riguardi degli strati che li compongono, sia per la loro giacitura. Sicuramente la posizione geografica del capoluogo, che in un primo tempo dovette essere svantaggiosa per l’incidenza del trasporto dello zolfo, dovette rivelarsi nel corso del tempo di estremo vantaggio, facendo sì che divenisse il centro e la capitale dello zolfo siciliano, da una parte fonte di sperimentazione scientifica e, dall’altra, di investimento di ingenti capitali. Le antiche miniere sono così testimoni silenti del sogno del miracolo economico della Sicilia centrale che ha profondamente segnato la vita degli abitanti e i cui segni sono ancora oggi leggibili nelle strutture dismesse che costituiscono un’importante presidio di archeologia industriale: le discenderie, i forni Gill, i castelletti e gli edifici del 1800. Allo stesso tempo, il complesso minerario è legato strettamente alla storia della civiltà delle solfare, rappresentandone un compendio di tutte le difficoltà, delle contraddizioni, dello sfruttamento della forza lavoro, spesso anche minorile, proveniente dai comuni vicini al capoluogo, manodopera che veniva utilizzata nelle solfare senza nessuna prevenzione agli infortuni, con orari lavorativi e con salari al limite dell’umano. In tale complessa articolazione di strutture geologiche e paesaggi dalla morfologia variegata – che già di per sé costituiscono un collante naturale tra le diverse emergenze antropologiche, esaltando le specificità di un’archeologia industriale legata a un passato che lentamente tende a sfumare nella memoria dell’uomo – è necessario sottolineare come il patrimonio culturale antropologico minerario sia fortemente correlato alle secolari tradizioni religiose, profondamente radicate e interconnesse alle vicende storiche locali, che riecheggiano annualmente durante il periodo pasquale, creando momenti di meraviglia e di profonda commozione, in cui l’arte s’intreccia con la memoria, con la cultura e con una profonda fede e in cui riecheggia la sofferenza degli uomini di miniera e il modo di vivere la religiosità22. Il territorio è fortemente contraddistinto, oltreché dalla presenza di numerose emergenze naturalistiche, da presenze paesistiche d’altissimo significato, sintesi culturali di una sicilianità specificatamente rurale, monumenti della civiltà contadina, la cui importanza è data dal valore architettonico e dagli elementi indissolubili dell’intero paesaggio caratterizzato dalla predominanza agricola che traspira 22 G. F. Safonte, Itinerari di Pietra. Viaggio tra paesaggi e castelli al centro della Sicilia. Lussografica edizioni, Caltanissetta 2016. 194
attraverso i numerosi mulini ad acqua, i pagghiari, i casalini, i borghi ma soprattutto le masserie, che – radicate nelle condizioni ambientali e storiche, riproducendo le gerarchie sociali e dell’organizzazione della produzione – in ogni feudo, garantivano il controllo e la sopravvivenza degli uomini e dei territori, dando così origine ad una ruralità in grado di estrinsecarsi in una varietà di tipologie rurali che mostrano vari aspetti di interesse e che rappresentano la testimonianza di come l’architettura rurale ci abbia sorprendentemente tramandato sistemi costruttivi e tipologie edilizie risalenti agli albori degli insediamenti umani23. Attraversando un paesaggio di splendidi, bucolici ed infiniti campi di grano che si inseguono a perdifiato, in questi luoghi si osserva infatti uno dei paesaggi più suggestivi dell’intera Sicilia agricola, immersi in un paesaggio collinare dalle forti pendenze, mentre lungo i corsi d’acqua, il paesaggio diviene pianeggiante proseguendo, nella zona meridionale del territorio, con una vasta presenza di complessi insediativi rurali dalle tipologie abitative articolate che vanno dalle grandi masserie alle ville suburbane, a testimonianza di una forte presenza di grossi proprietari terrieri o di un’aristocrazia che diede origine ad un diverso rapporto tra uomo e territorio con una conduzione di tipo capitalistico. Oltre che per la loro imponenza spaziale, tali insediamenti sono sempre percepibili a distanza per la presenza al loro intorno di particolari essenze arboree, come prova dell’esistenza di un preciso codice linguistico e simbolico cui fanno riferimento i gesti di chi opera per la costruzione consapevole del paesaggio in tutte le sue configurazioni24. Dall’esame degli indicatori di soddisfazione, degli indicatori di accessibilità, dall’analisi dei profili del capitale culturale (Fig. 6) e del materiale di ricerca relativo ai colloqui effettuati e ai focus groups, emerge tuttavia come le risorse del patrimonio territoriale, siano poco conosciute, all’interno tra gli stessi residenti e all’esterno, e non siano fra essi raccordate. In effetti, in parecchi casi rilevati durante l’indagine campionaria. il patrimonio paesaggistico e culturale sembra essere ben lontano dall’assumere quella connotazione identitaria di manifestazione empirica della territorialità25, non essendo associato, spesso, da coloro che lo abitano ne alla bellezza ne al valore naturale o culturale, e nemmeno ai relativi caratteri di eccezionalità, essendo spesso assenti, da una parte, la Mente Locale26 e la consapevolezza del notevole patrimonio culturale e paesaggistico presente nell’area e, dall’altra, quei legami identitari che scaturiscono da quel processo di negoziazione costruito sull’alterità, che rende quindi l’identità medesima un costrutto mutevole ed evolutivo che, per la sua natura sociale, ne provoca la scomposizione in tante diverse sfaccettature quante sono le appartenenze del soggetto, configurandola come un’entità tutt’altro che monolitica. In altri termini, quella che si verifica localmente è una sorta di amnesia dei luoghi o meglio atopia, ossia l’assenza dai luoghi27. 23 G. F. Safonte, Itinerari di Pietra., cit. 24 Idem 25 A. Turco, Paesaggio: pratiche, linguaggi, mondi, Diabasis, Reggio Emilia 2002, p. 280.
26 F. La Cecla, Mente locale: per un'antropologia dell'abitare, Elèuthera, Milano 2011. 27 E. Turri, Il paesaggio e il silenzio, Marsilio Editori, Venezia 2010. 195
Se è vero che l’identità rimanda a un processo in parte consapevole di autoriconoscimento, attraverso cui l’individuo o la collettività in generale si appropriano di elementi di una data cultura, a volte modificandoli e rielaborandoli in maniera consistente28, l’identità culturale rimanda a processi spesso inconsapevoli e legati all’insieme di attività, usi, costumi, modi di vita e valori che un certo gruppo umano – caratterizzato da forti relazioni sociali al suo interno e insediato in un territorio, per il quale nutre forte senso di radicamento – utilizza come chiave di lettura della realtà, tramandoli di generazione in generazione29. Tradizione e appartenenza all’ambiente di vita diventano quindi a loro volta la base dell’identità culturale della comunità, fornendo ai suoi membri coesione e senso continuità con il passato. Si tratta di riferimenti esistenziali importanti, la cui intensità può permanere nel tempo, anche nel caso in cui si verifichino mutamenti nella struttura sociale o si affermino nuovi sistemi valoriali attraverso cui dare senso alla realtà. In tale contesto, nonostante si tratti di un tema coltivato da una ampia letteratura, bisogna purtroppo considerare che in generale la rappresentazione del paesaggio siciliano non nasce dall’amore dei siciliani per la propria terra. Al contrario. Spazio fisico ed insieme proiezione del proprio substrato culturale, delle proprie origini e della propria identità, nel suo essere e nel suo evolversi, il paesaggio siciliano è spesso stato visto con un certo sospetto dai suoi stessi residenti che ne hanno colto, perlopiù, l'inospitalità e l'ambiguità, volgendo spesso lo sguardo a realtà generalmente lontane 28 C. Lévi-Strauss, J. M. Benoist, L'identità: Seminario, Sellerio, Palermo 1986. 29 A. Vallega, Geografia culturale. Luoghi, spazi, simboli, UTET Università, Torino 2003; A. Vallega, A. M. Calcagno, F. Palmisani, Indicatori per il paesaggio, Franco Angeli, Milano 2008; E. Turri, Il paesaggio e il silenzio, Marsilio Editori, Venezia 2010; E. Turri, La conoscenza del territorio: metodologia per un'analisi storico-geografica, Marsilio Editori, Venezia 2011; E. Turri, Semiologia del paesaggio italiano, Marsilio Editori, Venezia 2014.
Fig. 7 Flussi turistici in Sicilia per provincia (2016; valori assoluti, in migliaia). Nostra elaborazione su dati tratti da Dipartimento Turismo, Sport e Spettacolo della Regione Sicilia e Istat 196
Fig. 8 Consistenza recettiva in provincia di Caltanissetta (2016). Nostra elaborazione su dati tratti da Dipartimento Turismo, Sport e Spettacolo della Regione Sicilia e Istat.
Fig. 9 Visitatori nei siti culturali regionali in provincia di Caltanissetta e in Sicilia (2016; in migliaia, valori assoluti). Nostra elaborazione su dati tratti da Assessorato dei Beni Culturali e dell’Identità Siciliana della Regione Sicilia 197
e antitetiche. La sua contraddittoria bellezza ci è stata storicamente trasmessa, infatti, per lo più dai numerosissimi resoconti dei viaggiatori e dalle guide della Sicilia30 che hanno consegnato alla storia un’immagine soggettiva, a volte falsata e stereotipata, spesso incapace di restituire la sua complessità socio-economico-culturale pur restando tuttavia fedele ad una oggettiva trasposizione paesaggistico-documentaria. Tuttavia, rarissime sono le rappresentazioni iconografiche relative alle aree interne in grado di permettere una puntuale ricostruzione del paesaggio che fu. Diventa pertanto fondamentale in questi luoghi l’analisi del paesaggio agrario e rurale, che, con i suoi specifici caratteri formali e strutturali, costituisce il tessuto connettivo entro cui si colloca in modo prevalente il patrimonio paesaggisticoambientale e storico-culturale del centro Sicilia che articola il sistema e in cui persistono importanti tracce di quel paesaggio storico, che per lungo tempo si è mantenuto intatto. Esso rappresenta spesso, l’orizzonte visivo e lo spazio di accesso, in una varietà di situazioni che vanno da contesti altamente qualificanti a paesaggi problematici, in condizioni di scarsa accessibilità. Si tratta di un tessuto connettivo denso perché carico di valori storici e ambientali. Tuttavia dietro tale immagine oleografica si celano conflitti e differenze rilevanti nella percezione e nella presentazione dei valori del territorio: diversa è infatti, a livello locale, la valutazione del patrimonio archeologico diffuso, diverso il contributo del paesaggio all’identità e alla progettualità delle comunità locali. A fronte del considerevole stock di capitale storico-culturale e naturalistico, paesaggistico e ambientale, sedimentazione delle vicende storiche artistiche e culturali del territorio, da rilevare è la scarsa capacità di protezione, di cura, di salvaguardia, di gestione e di valorizzazione degli stessi, come si evince anche dalla analisi dell’indice di dotazione delle strutture culturali e ricreative, dall’analisi dei dati relativi al comparto turistico (Figg. 7 e 8) e dall’analisi dei dati relativi alla fruizione dei beni culturali locali (Fig. 9). Guardando, infatti, all’indice di dotazione delle strutture culturali e ricreative (Tab. 1) è evidente come in tal senso la dotazione infrastrutturale territoriale sia comunque ben distante dai livelli medi regionali. Il territorio risulta deficitario di un prodotto turistico unico, costituito da una varietà di servizi (trasporti, opportunità di visita, ristorazione di buon livello, pernottamento, svago) mancando le proposte capaci di stimolare un soggiorno lungo o il pernottamento in loco superiore ad una notte, e un’offerta attraente per un turismo stanziale, così come servizi ed infrastrutture per favorire la mobilità all’interno dell’area.
30 Si ricordano Bourquelot, Reclus, De Maupassant, Brydone, Goethe, Gubayr. Per ulteriori approfondimenti si vedano C. Ruta, Viaggi in Sicilia nel primo Ottocento, Edi.Bi.Si., Palermo 1999; C. Ruta, Viaggiatori in Sicilia. L’immagine dell’isola nel secolo dei Lumi, Edi.Bi.Si., Palermo 1998; H. Tuzet, Viaggiatori stranieri in Sicilia nel XVIII secolo, Sellerio, Palermo 1995. Un contributo fondamentale per le prime rappresentazioni iconografiche del paesaggio siciliano moderni è stato dato dall’abate Jean-Claude Richard de Saint-Non (Parigi 1727-1791), cultore delle arti, d’antiquaria ed incisore, che tra il 1759-61 compie il suo Grand Tour in Italia, JeanPierre Houël (1753 –1813), pittore e architetto francese, è invece l’autore del Voyage pittoresque des isles de Sicile, de Malta et de Lipari, corredato da oltre 200 tavole. 198
Tab. 1 Indicatore di dotazione delle strutture culturali e ricreative in provincia di Caltanissetta, in Sicilia e in Italia (2011; in numeri indice, Italia=100) Ripartizioni geografiche
Strutture culturali e ricreative*
Caltanissetta
27,01
SICILIA
47,4
ITALIA
100,00
Nostra elaborazione su dati tratti da Unioncamere – Istituto Guglielmo Tagliacarne * Tenendo in considerazione le peculiarità locali, l’indicatore si riferisce alle seguenti variabili: numero musei, numero biblioteche, Numero di rappresentazioni teatrali, numero di biglietti per attività teatrali, numero di giorni spettacoli cinematografici, numero di biglietti venduti per spettacoli cinematografici, numero di locali cinematografici, numero di palestre, numero di giardini zoologici, acquari, orti botanici e riserve naturali, numero di materiali grafici, spese annuali per la gestione biblioteche.
Nonostante l’agriturismo sia ben lontano dai livelli di sviluppo di altre aree, regionali e nazionali, anche grazie alla politica di sviluppo rurale europea, si è registrato un crescente numero d’interventi di ristrutturazioni di fabbricati agricoli destinati ad attività agrituristica. Da una parte, l’assenza, di diversificazione dell’offerta di servizi turistici rurali che determinerebbe, una forte concentrazione turistica nei mesi estivi, prevalentemente da parte degli emigrati, e una scarsa presenza turistica in tutti gli altri mesi dell’anno (ad eccezione del periodo di Pasqua durante il quale la Settimana Santa di Caltanissetta fa registrare il tutto esaurito) e, dall’altra, la mancanza di elementi di richiamo per i visitatori italiani e, soprattutto, stranieri, in concomitanza alla quasi totale assenza di presenze turistiche in periodi diversi dai mesi estivi, mette in evidenza la marginalità rivestita da tale settore nella economia complessiva del territorio. Tale situazione è con ogni probabilità da addebitare alla scarsa conoscenza da parte del turista straniero del territorio che, essendo decentrato rispetto alle risorse di richiamo che rendono famosa la Regione all’estero, non risulta adeguatamente pubblicizzato. Infine, nonostante gli sforzi effettuati di recente grazie a talune iniziative finanziate alla politica comunitaria di sviluppo rurale, la ricettività rurale e l’offerta di prodotti tipici e di qualità non sembrerebbero essere ancora le principali manifestazioni dell’integrazione dell’agricoltura con il turismo giacché, anche in questo caso, si registra un limite fondamentale nell’incapacità di coordinamento e di azione collettiva degli attori del territorio; la frammentazione dell’offerta e l’incapacità di promozione unitaria frenano fortemente lo sviluppo del settore. Il censimento, la mappatura digitale, la geo-localizzazione delle risorse e dei servizi per la fruizione turistica, la relativa categorizzazione in base alle differenti motivazioni di interesse e la valutazione delle specificità rilevate in ciascuna micro-area che potrà permettere l’individuazione delle vocazioni e delle potenzialità dell’intero territorio, potranno consentire di mettere a sistema il ricco ma nascosto patrimonio territoriale, non adeguatamente conosciuto e valorizzato, attraverso itinerari turistici tematici di 199
offerta, che potrebbero rappresentare un fattore strategico in grado di generare un valore aggiunto al momento difficilmente stimabile, ma tutt’altro che trascurabile. È evidente, infatti, la necessità di sviluppare una strategia basata sulla specificità del territorio incrementandone la capacità attrattiva, nell’ottica della costruzione di un’immagine turistica, che parta dalla conoscenza delle risorse precedentemente mappate, in modo tale da avviare un meccanismo virtuoso anche attraverso sinergie con le altre attività economiche e con la governance locale che sia orientata non soltanto alle modalità di produzione dei beni ma anche alla coltivazione dei valori, delle conoscenze e delle istituzioni che al territorio sono legati. È necessario far si che la differenziazione dell’offerta di turismo sostenibile si integri perfettamente alla domanda culturale, esperienziale e relazionale, agevolando la costruzione di un’offerta turistica locale finalizzata a consistenti nicchie di mercato alternativo (naturalistico, culturale, sportivo, enogastronomico ecc.) e dei differenti tipi di interesse per i luoghi, per i prodotti e per i processi legati alla storia e alla tradizione.
200
Archeologia dei paesaggi e strategie per la valorizzazione e la fruizione turistica in ambito rurale
Alfonso Santoriello Università di Salerno
…Se vuoi qualcosa che non hai mai avuto, devi fare qualcosa che non hai mai fatto T. Jefferson Benevento e il territorio a est della città sono oggetto di un programma di indagini e ricerche condotto dall’Università di Salerno nell’ambito del progetto Ancient Appia Landscapes, con l’obiettivo di riconoscere i fenomeni ambientali, le attività socioeconomiche e produttive che hanno contribuito alle dinamiche insediative e di popolamento lungo l’Appia nel territorio sannita. Gli studi, condotti in un’ottica di analisi globale dei paesaggi, hanno consentito di formulare un’ipotesi di sviluppo del percorso viario in questo comparto territoriale (da Benevento al cd. Ponte Rotto nei pressi di Apice) e di mettere in luce, oltre a un frustulo del tracciato della Regina Viarum, anche resti di strutture relative ad un complesso artigianale e, più in generale, l’organizzazione della campagna dal primo impianto della colonia latina (268 a.C.), della successiva colonia triumvirale (42/1 a.C.), fino alla prima età imperiale. Oltre agli aspetti strettamente scientifici, un ulteriore filone di attività è stato dedicato alla diffusione e comunicazione degli esiti della ricerca e alla valorizzazione del territorio oggetto di indagine, nel quadro degli orientamenti e delle indicazioni contenuti nella Convenzione di Faro. In tale direzione, il progetto mira a sorreggere ed arricchire la conoscenza del contesto in tutti gli aspetti e le forme, fino a far risaltare non solo il rapporto tra ambiente e Comunità, ma anche le componenti culturali quali risorse funzionali allo sviluppo e all’autoconservazione, attraverso una serie di idee progettuali e protocolli di intesa finalizzati alla promozione e fruizione anche in chiave turistica del tessuto rurale.
La ricostruzione del paesaggio antico e il potenziale archeologico Il paesaggio è un’entità culturale complessa, composta da molteplici forme ed elementi, in relazione con le attività umane, che si modifica dinamicamente. Già negli anni Ottanta del secolo scorso una certa tradizione antropologica aveva 201
osservato come l’assenza o la sottovalutazione della dimensione storica avesse portato i piccoli centri abitati e i villaggi di aree rurali alla disarticolazione della comunità dal contesto politico ed economico in cui da secoli si è progressivamente inserita. Questo in molti casi ha causato una perdita di identità territoriale, pur mantenendosi all’interno di un insieme più ampio, come tessere di un mosaico che si disallineano dalla trama generale. Nel susseguirsi delle trasformazioni è fondamentale riconoscerne le peculiarità, la memoria dei luoghi, le eventuali manifestazioni di degradazione e le mutazioni occorse nel tempo per provare a definire e progettare nuove forme di gestione e valorizzazione che abbiano come obiettivo comune la sopravvivenza dei luoghi identitari e il loro sviluppo sostenibile. Probabilmente, una chiave di lettura ma anche una svolta nelle strategie da intraprendere risiede nel recupero del concetto sereniano di paesaggio non come richiamo di cornice, ma in qualità di protagonista, nella sua dimensione oggettiva, formale e percettiva. Soltanto la conoscenza del paesaggio, delle sue forme e delle sue strutture, è in grado di fornire una base concreta all’intervento economico e sociale. L’organizzazione e la cura degli elementi naturali e dei sistemi produttivi lo rendono visibile, ne costituiscono lo specchio esatto della capacità (o difficoltà) delle comunità di mantenere il loro territorio nello stato di produrre. Uno dei punti critici, importante, della tutela di un paesaggio concepito «in continuo movimento» è sicuramente legato alla capacità di esaltarne le attività che continuamente lo trasformano, garantendone al tempo stesso la sopravvivenza. Partendo da strumenti legislativi e pratiche economiche di tutela e crescita top down, quali ad esempio il decreto legislativo sull’Archeologia Preventiva acquisito, come il precedente, anche nella recente rielaborazione del Codice degli Appalti Pubblici (D. Lgs. 50/2016, art. 25) o i piani di Sviluppo Rurale (che puntano al finanziamento di attività compatibili con il territorio e le sue risorse, con l’obiettivo di risollevare o potenziare attività economiche sostenibili), una importante traccia per la tutela e la valorizzazione bottom up ci arriva, invece, dai principi e dagli orientamenti della Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore del patrimonio culturale per la società, incentrata, tra le altre cose, su una nuova visione del patrimonio, materiale e immateriale, che ingloba i luoghi intorno ai quali si aggregano le persone e si formano dei gruppi che lo tutelano quotidianamente, anche attraverso nuove normative a loro disposizione. Un punto di forza del progetto di ricerca è stata, senza dubbio, la fondamentale collaborazione tra le istituzioni che lo hanno promosso (Soprintendenza Belle Arti, Archeologia e Paesaggio delle province di Caserta e Benevento, il Dipartimento di Scienze del Patrimonio Culturale dell’Università degli Studi di Salerno) o che sono coinvolte nella collaborazione (Università del Sannio, Università del Molise, Centre Jean Bérard di Napoli, IMAA-CNR). Ma l’aspetto, per così dire vincente, è stato il supporto di enti e associazioni territorialmente radicati quali, ad esempio, l’UNPLI, che hanno portato ad un progressivo coinvolgimento delle comunità di persone che vivono i luoghi interessati dalla ricerca. Tali rapporti hanno portato al conseguimento di due dei principali obiettivi prefissati nell’ambito del lavoro: la realizzazione della carta archeologica e del potenziale della città di Benevento e l’elaborazione dell’ipotesi di funzionamento del tracciato dell’Appia antica e delle dinamiche insediative nel 202
territorio a sud della città1. Ancient Appia Landscapes è stato condotto con un approccio sistemico e integrato tra diversi specialismi che ha portato all’acquisizione di dati finalizzati a una approfondita conoscenza del territorio, a partire dalla comprensione delle attività socio-economiche e produttive stratificate nel tempo, fino alla definizione delle dinamiche insediative e di popolamento. In un’ottica transdisciplinare sono stati realizzati survey sistematici e tematici, saggi stratigrafici di verifica, indagini geomorfologiche, ricerche di archivio e cartografia storica, analisi di supporti telerilevati, survey geofisici, studio e misure archeometriche dei manufatti, analisi paleobotaniche. Queste analisi integrate hanno portato all’individuazione sul terreno di tracce, spesso mute o non immediatamente percepibili a occhio nudo, e all’identificazione dei processi morfodinamici e ambientali responsabili della sopravvivenza o della degradazione di trame del passato. L’adozione del metodo regressivo nella lettura del paesaggio contemporaneo ha consentito di intercettare forme di continuità e permanenza nel tempo e identificare, in questo modo, fenomeni di lunga e media durata. Portare alla luce ecofatti e artefatti attraverso la relazione dialogica tra le mappe storiche e gli altri documenti cartografici aiuta a chiarire i processi di trasformazione del paesaggio, favorendo la comprensione del palinsesto storico e la determinazione della cronologia relativa. Evitando la definizione di una scala gerarchica, si tiene conto della variabilità delle forme del territorio e della potenziale qualità spaziale del dato, anche in relazione alle forme conservate del paesaggio, quali ad esempio le tracce di centuriazione, terrazzamenti, indicatori fitosociologici e colturali, ecc., fino a chiarire i meccanismi di popolamento e di sfruttamento che hanno interessato i paesaggi della via Appia e definire il tracciato della via consolare. Quest’ultimo è stato identificato attraverso il riconoscimento di alcuni tratti sia in forma fossile, sia come sopravvivenza nella viabilità ordinaria. L’individuazione di siti particolari identificati con le stationes menzionate dalle fonti2, ad Calorem (al X miglio dalla città) e Nuceriola (o Nucriola, al IV miglio), è stata possibile, per il primo, sulla base di un’anomala quantità di materiali nei pressi di Ponte Rotto, in un settore prossimo alla riva sinistra del fiume Calore, nel secondo in località Masseria Grasso/Centofontane, grazie a indagini infrasito fondate sull’integrazione di dati storici, cartografici e da survey. In questa zona, interessata anche da rinvenimenti attestanti aree di sepolture e a destinazione votiva già dalla fine del IV secolo a.C., è stato messo in luce un percorso stradale (largo 5,60 m e conservato con certezza per 14 m). I livelli di frequentazione più antichi datano il periodo iniziale di vita dell’infrastruttura tra la fine del IV e il III secolo a.C., o più verosimilmente in connessione con la fondazione della colonia latina di Beneventum nel 268 a.C.3 Una continuità d’uso del tracciato viario si evince 1 Sulla Carta archeologica e del potenziale della città di Benevento, A. Santoriello, A. Terribile, Geomatica, paesaggi storici e fruizione sostenibile: il caso di Beneventum, in Atti XXI Conferenza Nazionale ASITA, Salerno, 21-23 Novembre 2017, Milano, Federazione italiana delle Associazioni Scientifiche per le Informazioni Territoriali e Ambientali, Milano 2017, pp. 947-954. 2 Tab. Peut. (Pars. VII - Segm. VI). 3 Sui primi risultati dello scavo e sull’apporto delle prospezioni geofisiche circa le potenzialità del sommerso dell’area, si veda A. Santoriello, C. B. De Vita, D. Musmeci, A. Terribile, 203
dalla successione stratigrafica di livelli di terreno che testimoniano ripetuti interventi di manutenzione almeno fino a età imperiale e tardoantica, quando continua a vivere come uno degli assi centuriali dell’impianto catastale. La strada antica così individuata ha un orientamento di N 42°E, concorde, in questo comparto territoriale, con le divisioni agrarie dell’impianto prima della colonia latina (16 x 25 actus) e di quella triumvirale-augustea (20 x 20 actus) poi, riconosciute attraverso la conservazione di allineamenti, tracce iso-orientate e forme fossili ad esse riconducibili (Fig. 1 a- b)4. A nord-ovest della strada è stata rinvenuta un’area produttiva, articolata per ambienti e zone di lavorazione di cui si conservano almeno due fornaci (Fig. 2). È degno di nota, tra l’abbondante materiale ceramico recuperato, il numero proporzionalmente elevato di frammenti di ceramica a pareti sottili, a volte pertinenti a individui ricostruibili per intero o con difetti di cottura e scarti di lavorazione; sembra verosimile l’ipotesi della presenza di un’attività produttiva di questa tipologia ceramica tra l’età augusteotiberiana e la metà del I secolo d.C. Questo dato, insieme al passaggio della viabilità primaria e all’ampio areale di materiali evidenziato dalle indagini di superficie, induce a riflettere sull’importanza e sul ruolo della statio di Nuceriola all’interno del territorio beneventano, dimostrando l’elevato livello gerarchico che tale sito occupa quale punto nodale nella strutturazione territoriale a partire almeno dal IV secolo a.C.5.
Ancient Appia Landscapes Project: per una strategia a supporto del territorio Se, da un lato, i risultati sembrano confermare ipotesi coerenti e correlabili con gli obiettivi primari di indagine rivolti allo studio dell’organizzazione della viabilità e della campagna, dall’altro, una specifica attenzione, in coerenza con i presupposti e la complessiva filosofia del progetto, è stata dedicata alle strategie di marketing e comunicazione. Il progetto si propone di analizzare, a partire da una ricerca scientifica pura di base, l’applicabilità degli orientamenti e delle indicazioni contenuti nella Convenzione di Faro condensabili nell’assunto che: […] the conservation of cultural heritage and its sustainable use have human development and quality of life as their goal6. G. De Martino, F. Perciante, E. Rizzo, Measuring ancient spaces: land use and framework of a hidden landscape. Ancient Appia Landscapes (AAL), in Proceedings of 1st International Conference on metrology for Archaeology, Benevento October 22-23, 2015, IMEKO, 2015, pp. 439-444.. 4 A. Santoriello, Paesaggi agrari della colonia di Beneventum, in C. Lambert, F. Pastore (a cura di), Miti e popoli del Mediterraneo antico. Scritti in onore di Gabriella d’Henry, Arci Postiglione, Salerno 2014, pp. 257-265; A. Santoriello et alii, Measuring ancient spaces, cit. 5 A. Santoriello, L’Appia tra Beneventum e ad Calorem: riflessioni e nuovi spunti di ricerca, in AA.VV., Percorsi. Scritti di Archeologia di e per Angela Pontrandolfo, Vol. 2, Pandemos, Paestum 2017, pp. 235-252. 6 La Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore del patrimonio culturale per la società, nota come Convenzione di Faro, è stata siglata nel 2005 (art. 1c) da numerosi paesi europei. Per i riferimenti specifici si veda: Council of Europe Framework Convention on the Value of Cultural Heritage for Society http://www.coe.int/it/web/conventions/full-list/-/conventions/rms/0900001680083746; A. Santoriello, Dalla Convenzione di Faro alle Comunità: raccontare l’archeologia e le vocazioni storiche di un territorio. L’esperienza di Ancient Appia Landscapes, in S. Pallecchi (a cura di), Raccontare l’archeologia. Strategie e tecniche per la 204
Fig. 1 Il tracciato dell’Appia e l’organizzazione del territorio della colonia in età repubblicana (a), età imperiale e tardoantica (b) (elaborazione grafica di C. B. De Vita e A. Terribile)
Fig. 2 Il complesso artigianale e le due fornaci (elaborazione grafica di C. B. De Vita e D. Musmeci) 205
Per dare valore sociale alla ricerca sul patrimonio archeologico in quanto tassello strutturante per la costruzione di un’Eredità Culturale è essenziale rafforzare e ampliare, con la diffusione a più livelli delle attività e dei risultati, la presenza e il coinvolgimento non solo di una platea specializzata, ma anche, e soprattutto, dei non addetti ai lavori, mediante l’utilizzo di un linguaggio efficace, in grado di rendere accessibile la complessità del dato scientifico e delle sintesi prodotte. L’intento principale è condividere conoscenze ed esperienze per offrire, attraverso una presentazione a tutto campo del percorso della ricerca, una visione contestuale delle risorse territoriali, ambientali e archeologiche, in cui i diversi elementi caratterizzanti l‘identità storico-culturale dei luoghi siano esaltati (l’arte, il patrimonio ambientale, la memoria, la storia, i culti, le peculiarità enogastronomiche, ecc.). La componente culturale diviene un fattore sempre più determinante nella programmazione della conoscenza e dell’esplorazione di un determinato territorio e, di conseguenza, aumenta l’importanza di esaltare le qualità di un contesto (territoriale, culturale, economico, turistico, ecc.), la cui crescita sarà tanto più sostenibile e costante, quanto maggiore sarà la capacità di combinare armonicamente i più diversi fattori di attrattiva e condivisione. L’approccio globale della ricerca ha arricchito la conoscenza del territorio beneventano in molteplici direzioni, fino a valorizzare il rapporto tra ambiente e comunità e la promozione delle essenze culturali quali risorse funzionali allo sviluppo e all’autoconservazione. Significativa, tra le varie iniziative, è stata la produzione di un vino con etichetta dedicata, risultato di un efficace connubio tra ricerca scientifica ed imprese locali, i cui proventi, in forme percentuali, finanziano le attività di ricerca7. In questo scenario, il Ponterotto. Aglianico dell’Appia (Fig. 3), basato sulla selezione di vitigni autoctoni del territorio, si colloca quale esito dei risultati della ricerca: le vocazioni storiche dei luoghi contestualizzano e certificano la valenza di Indicazione di Origine Storica del prodotto. Questo è solo il primo passo di un’esperienza che, attraverso il coinvolgimento delle realtà imprenditoriali, punta a valorizzare una filiera agroalimentare che affonda le sue radici nel passato e del passato mantiene i metodi e i sistemi di produzione. Il progetto e il suo marchio (Fig. 4), che rappresenta le rovine di un ponte quale elemento materiale forte dell’Eredità Culturale condiviso tra più comunità, contribuiscono inoltre alla rinascita dell’antico borgo di Apice, abbandonato a seguito degli eventi sismici del secolo scorso, che attraverso politiche tese a favorire l’imprenditoria giovanile, vede il ripopolarsi di attività ricettive, eno-gastronomiche e di riuso e restauro degli edifici storici quali centri polifunzionali per esposizioni, meeting, conferenze (Fig. 5 a- b). Nella stessa direzione, volta a un rilancio culturale, economico e sociale di contesti territoriali dotati di un patrimonio ricco di potenzialità, si colloca il Protocollo di Intesa firmato nel giugno scorso, e ratificato nell’aprile 2017, comunicazione dei risultati delle ricerche archeologiche, All’Insegna del Giglio, Firenze 2017, pp. 103-113. 7 Il vino è stato prodotto in collaborazione con Genti delle alture, startup che ha come obiettivo di preservare ed esaltare le origini e gli antichi sapori del Sannio beneventano e dell’Irpinia, nel pieno rispetto delle tradizioni, nonché di valorizzare le eccellenze enogastronomiche tipiche del territorio. 206
Fig. 3 Screenshot del Ponterotto. Aglianico dell’Appia dalla pagina Facebook del progetto Ancient Appia Landscapes
Fig. 4. Dalle rovine al disegno: la realizzazione di un logo (dis. R. Pinedo Valdiviezo) 207
tra la Rete dei Comuni dell’Appia dei territori beneventani e avellinesi, Associazioni di professionisti e il supporto di Federculture. Tra i traguardi fondamentali del progetto, la creazione di un Museo Lineare (Fig. 6) lungo il cammino dell’Appia con la funzione di promuovere la conoscenza del paesaggio ad essa connesso, creando una maggiore consapevolezza dell’importanza della tutela e della buona gestione, al fine di preservarne i caratteri peculiari e garantirne la valorizzazione8. Il Museo Lineare prende origine da una sede principale collocata in una struttura storica abbandonata o in disuso (masseria, convento, palazzo nobiliare) e si sviluppa in diversi punti di osservazione individuati da ogni Comune aderente al Patto lungo il cammino, all’interno dei quali prevedere aree di sosta e ristorazione incentrate sulla promozione delle eccellenze locali e delle risorse culturali e ambientali collegate al passaggio dell’Appia e costituire, al tempo stesso, luoghi fisici con funzioni di incubatori di startup e spinoff (Fig. 7). Oltre al tracciato storico dell’Appia e le sue diramazioni, che attraverso «cammini lenti» consentono di individuare ed apprezzare i valori, i luoghi e i simboli del paesaggio (Fig. 8), un ulteriore spunto di interesse è collegato ai percorsi paralleli che, sfruttando la rete di strade interpoderali e il sistema delle masserie e palazzi storici possono definire nuovi itinerari turistici, quali possibili scenari della realizzazione di eventi/performance culturali (teatrali, musicali, sportive) percorribili e raggiungibili anche con mezzi di trasporto alternativi e divenire presidi di legalità che consentono di monitorare in qualsiasi momento la variazione e la trasformazione dei luoghi. 8 L’idea progettuale nasce in seno al Comitato Tecnico della Rete dei Comuni dell’Appia Regina Viarum. Un ringraziamento particolare all’arch. Amata Verdino per lo scambio di riflessioni e le idee presentate in occasione della IX Summer School.
Fig. 5 a. Il Borgo antico di Apice (BN) prima 208
La scelta da perseguire è quella di una tutela che vada al di là della sola conservazione, risultando evidente che i veri pubblici fruitori del paesaggio sono le persone che lo abitano. La partecipazione delle comunità al processo di individuazione dei valori culturali avviene tramite il riconoscimento del patrimonio in quanto risorsa di sviluppo sostenibile. La definizione di eredità culturale, che ingloba beni materiali e immateriali, porta a considerare anche i paesaggi come pienamente appartenenti a questa dimensione, a prescindere dalla loro più o meno recente storicità. Tale visione necessita però di una base fondamentale: la conoscenza ampia e varia di ciò che si deve rispettare, tutelare e valorizzare. Il binomio conoscenza-tutela acquista ancor più significato nel momento in cui si è ormai consapevoli che vasti territori, un tempo vivi e produttivi, sono attualmente abbandonati, condannati ad un degrado insito nella marginalizzazione9. Contesti come quello beneventano si presentano con forme ecologiche e sociali differenziate, con settori tuttora attivi nella loro continuità d’uso, ma minacciati da dinamiche decostruttive che aggrediscono il territorio. In un quadro normativo vigente che non risponde ancora appieno alle minacce e alle necessità, una programmazione ex ante consentirebbe di portare alla piena consapevolezza che il paesaggio deve essere considerato bene comune e risorsa economica10. Affinché il paesaggio contribuisca alla crescita non basta renderlo 9 Per un quadro di sintesi sia sulla decrescita, sia sullo sviluppo delle aree marginali e interne italiane, si veda: F. Barca, P. Casavola, S. Lucatelli (a cura di), Strategia nazionale per le aree interne: definizione, obiettivi, strumenti e governance, in «Materiali» Uval, 31, 2014. 10 Per una visione completa e aggiornata sulle problematiche, criticità del paesaggio italiano e sulle politiche di intervento si veda il primo Rapporto sullo stato delle politiche per il paesaggio, a cura del Ministero dei Beni e delle attività culturali e del turismo (Mibact).
Fig. 5 b. Il Borgo antico di Apice (BN) in fase di rigenerazione 209
oggetto di mero consumo turistico, assoggettato a richieste di massa; è essenziale invece una cultura del cambiamento, dove il paesaggio visibile e tangibile rappresenta il volano della produzione e rigenerazione dell’attività culturale. Perché sia accessibile a tutti è necessario che per il paesaggio venga affrontato il divario tra squallori e bellezza degli spazi comuni e che i siti non siano più concepiti come meri elementi di svago delle élite, ma che riprendano e rilancino la propria connotazione di luoghi di vita e produzione per chi resta ad abitarli. Citando un recente intervento di Fabrizio Barca è fondamentale che i cosiddetti riproduttori del paesaggio, ovvero coloro che continuano ad abitare queste aree, abbiano l’opportunità di esprimere le proprie idee
Fig. 6. La proposta progettuale del Museo lineare e il protocollo di intesa della Rete dei Comuni dell’Appia Regina Viarum
Fig. 8. Paesaggi sanniti resilienti 210
Fig. 7. La I Spring School Documentare il paesaggio storico (maggio 2017), tenutasi nel comune di Apice e nei territori dei comuni aderenti al Protocollo di Intesa.
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sull’uso e il godimento del territorio, che li aiuti a viverlo in maniera felice11. Mettere a disposizione democraticamente i risultati di una ricerca, concepita come base di una piramide rovesciata la cui sommità è costituita dai paesaggi culturali continuamente alimentati dalle Comunità e dai «riproduttori di paesaggio», probabilmente, potrà aiutare progettisti, enti locali e abitanti a recepire gli spazi come un segno della loro resistenza, costruita dal basso tramite rapporti cognitivi, culturali e produttivi sorretti da una visione a lungo termine luogo per luogo. La condivisione partecipata di tutti gli attori del paesaggio a questi obiettivi, consentirà, un giorno, di fruirne in modo serenamente ordinario e non come evento straordinario godibile per pochi.
Bibliografia M. Antrop, Why Landscapes of thePpast are Important for the Future, in Landscape and Urban Planning, Volume 70, Issues 1–2, 15, January 2005, pp. 21-34. F. Barca, P. Casavola, S. Lucatelli (a cura di), Strategia nazionale per le aree interne: definizione, obiettivi, strumenti e governance, in «Materiali» Uval, 31, 2014. G. P. Brogiolo, Comunicare l’archeologia in un’economia sostenibile, in «PCA European Journal of Post Classical Archaeologies», vol. 4, May 2014, SAP Società Archeologica s.r.l., Mantova 2014, pp. 331-342. D. Manacorda, Archeologia tra ricerca, tutela e valorizzazione, in «Il Capitale Culturale. Studies on the value of Cultural Heritage», vol. 1, Macerata 2010, pp. 131-141. D. Manacorda, M. Montella, Per una riforma radicale del sistema di tutela e valorizzazione, in G. Volpe (a cura di), Patrimoni culturali e paesaggi di Puglia e d’Italia tra conservazione e innovazione, Atti delle Giornate di Studio, Foggia, 30 settembre e 22 novembre 2013, Edipuglia, Bari 2014, pp. 75-85. A. Santoriello, Paesaggi agrari della colonia di Beneventum, in C. Lambert, F. Pastore (a cura di), Miti e popoli del Mediterraneo antico. Scritti in onore di Gabriella d’Henry, Arci Postiglione, Salerno 2014, pp. 257-265. A. Santoriello, Dinamiche di trasformazione territoriale e assetti agrari: Benevento, Paestum, Pontecagnano, in F. Longo, A. Santoriello, A. Serrietella, L. Tomay, Continuità e trasformazioni attraverso l’analisi di due aree campione: il territorio beneventano e il golfo di Salerno, in Atti del LII Convegno di Studi sulla Magna Grecia (Taranto, 27-30 settembre 2012), ISAMG - Istituto per la Storia e l’Archeologia della Magna Grecia, Taranto 2015, pp. 249-333.
11 Il concetto è stato espresso, nel corso di un intervento più articolato, da F. Barca nella relazione tenuta, in qualità di chairman della sessione Paesaggio: bene comune e risorsa economica, agli Stati Generali del paesaggio, Roma, Palazzo Altemps, 25-26 ottobre 2017. 212
A. Santoriello, Dalla Convenzione di Faro alle Comunità: raccontare l’archeologia e le vocazioni storiche di un territorio. L’esperienza di Ancient Appia Landscapes, in S. Pallecchi (a cura di), Raccontare l’archeologia. Strategie e tecniche per la comunicazione dei risultati delle ricerche archeologiche, All’Insegna del Giglio, Firenze 2017, pp. 103-113. A. Santoriello, L’Appia tra Beneventum e ad Calorem: riflessioni e nuovi spunti di ricerca, in AA.VV., Percorsi. Scritti di Archeologia di e per Angela Pontrandolfo, Vol. 2, Pandemos, Paestum 2017, pp. 235-252. A. Santoriello, C. B. De Vita, D. Musmeci, A. Terribile, G. De Martino, F. Perciante, E. Rizzo, Measuring ancient spaces: land use and framework of a hidden landscape. Ancient Appia Landscapes (AAL), in Proceedings of 1st International Conference on metrology for Archaeology, Benevento October 22-23, 2015, IMEKO, 2015, pp. 439-444. A. Santoriello, A. Terribile, Geomatica, paesaggi storici e fruizione sostenibile: il caso di Beneventum, in Atti XXI Conferenza Nazionale ASITA, Salerno, 21-23 Novembre 2017, Milano, Federazione italiana delle Associazioni Scientifiche per le Informazioni Territoriali e Ambientali, Milano 2017, pp. 947-954. E. Sereni, Storia del Paesaggio agrario italiano, Laterza, Bari 1972. A. Terribile, C. B. De Vita, The Landscapes of the Ancient Appia Project: Formation and Degeneration Processes in Landscapes Stratification of the Benevento Area, in LAC 2014 proceedings, 3rd International Landscape Archaeology Conference (Rome, 17-20 September), [S.l.], p. 11, oct. 2016. Available at: <http://lac2014proceedings.nl/article/ view/38>. C. Tosco, Il paesaggio come storia, Il Mulino, Bologna 2007. G. Volpe, Archeologia, paesaggio e società al tempo della crisi: tra conservazione e innovazione, in M.C. Parello, M.S. Rizzo (a cura di), Archeologia pubblica al tempo della crisi, Atti delle giornate gregoriane, VII edizione (29-30 novembre 2013), Edipuglia, Bari 2014, pp. 183-191. G. Volpe, De Felice, Comunicazione e progetto culturale archeologia e società, PCA European Journal of Post Classical Archaeologies, vol. 4, May 2014, SAP Società Archeologica s.r.l., Mantova 2014, pp. 401-420.
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Comunità locali, patrimonio e territorio: la sfida per un turismo sostenibile
Barbara Tagliolini
Studi e ricerche sul territorio, Milano
È evidente come ci sia una conoscenza ancestrale, come anche una tecnicoscientifica, però io credo che entrambe debbano rispettarsi reciprocamente. A me non insegna un professore, però mi insegnano gli spiriti dei miei antenati, anche questo è saggezza e conoscenza, giorno dopo giorno io parlo con gli alberi, l’acqua mi insegna cose, le pietre mi proteggono, l’albero mi da ombra, l’acqua mi toglie la sete e questo anche è conoscenza.
Wilson Galleguillos della comunità di Chiu Chiu*.
La nostra ricerca si delinea in base ai materiali acquisiti durante la realizzazione di un piano di sviluppo turistico, svolto per conto di Enel (EGP) ed Enel Green Power Chile Ldta (EGPC) in Cile, nell’area d’influenza della centrale geotermica Cerro Pabellón e incaricato dalle comunità indigene dell’Alto Loa. La visione adottata considera il turismo come un campo sociale, nel seno del quale interagiscono numerosi attori, nel tempo e nello spazio, in maniera sia fisica che virtuale e si propone di analizzare il contesto storico, geografico e sociale nel quale si è maturata questa richiesta1. Si parte dall’ipotesi che il paesaggio anziché essere scenario per la pianificazione dello sviluppo turistico sia in cambio un concetto dinamico e costitutivo dell’identità dei popoli originari. In questa direzione si assume qui il concetto di paesaggio come luogo della totalità dell’esistenza, progetto del mondo umano, fonte di creatività e di cambiamento2. Si tratta di un quadro di vita con le sue forme visibili e invisibili, materiali e immateriali, in un processo di trasformazione continua. Sul piano teorico ci si è basati sull’esperienza di terreno del metodo etnografico arricchito da altre discipline, una realtà viva, vissuta e influenzata dalla variabilità e soggettività delle relazioni interpersonali e dall’estrema varietà del suo teatro d’azione. 1 N. Leite, N. Graburn, L’Anthropologie pour étudier le tourisme, in «Mondes du Tourisme», n. 1, pp. 17-28, 2010. 2 M. Venturi Ferriolo, Etiche del paesaggio. Il progetto di un mondo umano, Editori Riuniti, Roma 2002. * P. Ayala, S. Avendaño, M. Bahamondes, U. Cárdenas, A. Romero, Comentarios y discusiones en el encuentro Reflexión sobre patrimonio cultural comunidades indígenas y arquelogía, in «Chungara», vol.35, n. 2, pp. 379-409, p. 385, 2003. 215
Questo ci ha permesso di elaborare un Piano di sviluppo strategico turistico fondato sulla piena partecipazione delle comunità come autrici materiali del proprio sviluppo nella sua formulazione, disegno e creazione. Di questo vasto progetto, si è scelto di presentare solo il caso del villaggio di Toconce come esemplificativo di una cultura di comunità che, con il suo insieme di norme, valori e interpretazioni, conferisce significato al suo patrimonio e conferma come la cultura sia inseparabile dai rapporti sociali a cui dà senso. La zona di studio si situa nel Nord del Cile, nel comune di Ollagüe, provincia del Loa e regione di Antofagasta. Geograficamente quest’area è parte del deserto di Atacama, il più arido del pianeta ed è definito dal bacino idrografico del fiume Loa e i suoi affluenti, gli altipiani, le montagne e i vulcani della Cordigliera delle Ande. Si tratta di un habitat estremamente fragile per il precario equilibrio ecologico che lo caratterizza e per questa ragione considerato vulnerabile. In questo settore desertico, a 4.500 m. s.l.m., in una località denominata Pampa Apacheta, i gruppi multinazionali di energia EGP, EGPC e l’impresa statale cilena Empresa Nacional de Petrólio (ENAP) hanno costruito la centrale geotermica Cerro Pabellón3. La concessione totale dell’area comprende una superficie di 81 km2 che appartiene alle comunità indigene atacamene di Toconce, Conchi Viejo, Taira e Cupo e quechua di Estación San Pedro e Ollagüe4. Una zona che include realtà territoriali molto diverse tra loro, connotate da piccoli centri e insediamenti rurali, di cui alcuni abbandonati, marginalizzati dall’esodo degli abitanti verso la città di Calama o i centri minerari. Alcuni di questi sono pueblos sagrados che tornano a rivivere solo in occasione delle feste rituali dei Santi Patroni, le cerimonie delle Limpias de Canales e gli Enfloramientos5. Nel contesto degli accordi tra l’impresa EGPC e il tavolo di lavoro con le comunità dell’Alto Loa, il Consiglio dei popoli originari, Consejo de Pueblos Originarios, oltre alle misure di compensazione e mitigazione per l’impatto ambientale dell’impianto, ha sollecitato la redazione di un Piano di sviluppo strategico del turismo, focalizzato sulla componente archeologica ed etnica locale. Nella visione della popolazione autoctona esse si intersecano in quanto si collegano al processo di rivendicazione etnica, centrata sul riconoscimento delle popolazioni indigene in quanto antichi abitanti del territorio, la cui presenza è stata ricostruita sulla base delle ricerche archeologiche nella regione6. Il patrimonio culturale dei popoli originari è anche il fulcro delle linee d’azione del programma nazionale per il turismo dove il Governo cileno si impegna a metterlo in valore, riscattando e proteggendo le sue tradizioni, identità e cultura per convertire 3 Cerro Pabellón è un impianto a ciclo binario ad alta entalpia, il fluido geotermico estratto dai pozzi di produzione, una volta completato il ciclo di generazione nell’impianto viene reimmesso nel sottosuolo, assicurando la disponibilità a lungo termine e la sostenibilità della risorsa geotermica. Cfr. enelgreenpower.com 4 In questa sede si utilizzano anche i risultati dei terreni di ricerca svolti tra il 2007 e il 2015 e dei vari incontri con le comunità nel ruolo di consulente per il turismo di San Pedro di Atacama nel 2012. 5 La pulizia rituale dei canali di irrigazione e il Floramiento, la marchiatura del bestiame con piccoli fiocchi di lana multicolore sono antiche cerimonie comunitarie. 6 P. Ayala, Relaciones entre atacameños, arquelógos y estado en Atacama (Norte de Chile), in «Estudios Atacameños», n. 33, pp. 133-157, 2007. 216
gli elementi culturali in attrattivi turistici7. Secondo il Servicio Nacional de Turismo (Sernatur) nella provincia del Loa si registrano più di mille siti censiti, centinaia di siti inediti, luoghi patrimoniali, culturali e naturali8. La forma con la quale si definisce l’offerta si sostiene su una visione di patrimonio delineata dall’Unesco nel 1972 con la Convenzione sulla protezione del patrimonio mondiale culturale e naturale che si riferisce a categorie di pensiero e di valore occidentali, trasformati già in concetti di riferimento universale9. Un patrimonio fondamentalmente storico, funzionale, che evidenzia i manufatti, siano essi opera della natura o dell’uomo, estrapolati dal contesto contemporaneo di cui fanno parte. Nella prima Carta del Turismo culturale, firmata nel 1976 dal Consiglio Internazionale dei Monumenti e dei Siti (ICOMOS) e l’organizzazione Mondiale del Turismo (OMT-UNWTO) oltre a vari organismi professionali, il turismo culturale è quello che ha per oggetto, tra gli altri obiettivi, la scoperta dei siti e dei monumenti ed esercita su di essi un considerevole effetto positivo, nella misura in cui per i suoi propri fini concorre al loro mantenimento in vita e alla loro protezione10. Una definizione che verrà poi ampliata sino ad includere le nozioni di identità culturale, patrimonio immateriale o intangibile e più recentemente di diversità culturale, mentre, per riconciliare uno dei più pervasivi dualismi del pensiero occidentale, basati sull’opposizione di natura e cultura, il Comitato per il Patrimonio dell’Umanità dell’Unesco ha adottato la categoria di paesaggio culturale. In realtà come si vedrà più avanti, nella percezione andina del cosmo, la natura, l’uomo e la Pachamama, la Madre Terra, sono un tutto i cui componenti vivono in relazione perpetua. Come scrive Philippe Descola, il paesaggio non è una realtà trascendente, bensì il soggetto di una relazione sociale e sacra che include piante, animali e persone11 . Le comunità hanno delimitato il loro territorio in funzione del controllo e della gestione di un bacino o micro bacino dove ha particolare importanza il diritto ancestrale sulle sorgenti, fiumi e lagune e sulle corrispondenti zone produttive agricole o di pastorizia. Si tratta di una modalità di occupazione e insediamento di tipo disperso, articolato intorno a un nucleo abitativo centrale e vincolato alle risorse idriche e vegetali che si estende lungo un gradiente altitudinale12. L’organizzazione territoriale ha determinato un sistema di circolazione e relazioni interetniche e meticce, marcate da alleanze, reti di parentela e di padrinato, tra gruppi che oggi appartengono al Sud della Bolivia, Nordest Argentino (NOA) e Nord del Cile. Allo stesso modo, la varietà delle diverse zone ecologiche e delle risorse ha influito sulla percezione e l’organizzazione dell’ambiente, creando una configurazione spaziale alla quale corrisponde una territorialità definita e marcata da pratiche sociali, 7 Gobierno de Chile, Subsecretaría de Turismo, Estrategia Nacional de Turismo 2012-2020 8 Gobierno de Chile, Sernatur, Plan de Desarrollo Turístico de la Región de Antofagasta 2011-2014 9 F. Choay, L’allégorie du patrimoine, Seuil, Paris 1992. 10 S. Cousin, De L’Unesco aux villages de Touraine: les enjeux politiques, institutionnels et identitaires du tourisme culturel, in «Autrepart» vol. 4, n. 40, pp. 15-30, pp. 19-20, 2006. 11 P. Descola, Par-delà nature et culture, Gallimard, Paris 2005. 12 J. Murra, Población, medio ambiente y economia, IEP Ediciones, Lima 2002. 217
simboliche e religiose. In accordo a ciò gli autoctoni lo ripartono in diversi ambiti culturali e lo designano con nomi che alludono alla sua fisionomia e al suo utilizzo: Cerro (montagna), Campo (campo) e Chacra (orto). La cosmovisione integra i distinti aspetti della vita quotidiana a una forma di pensare, sentire e percepire il mondo che include la sfera economica, sociale ed ecologica nella trama di una religiosità tessuta con consuetudini ancestrali e elementi della cristianità. Perché la terra produca, perché cresca il foraggio, perché l’acqua permetta l’abbondanza, scrive Victoria Castro: Bisogna rispettarla. E il rispetto si manifesta con il sacrificio, con l’offerta, con il lavoro e con molta allegria13. Una visione in linea con le istanze eco-socialiste di Claude Calame che propone per il futuro: non più il dominio (capitalista) dell’uomo sulla natura, ma una signoria democratica delle comunità umane su di un ambiente animale, vegetale e fisico14. La richiesta di sviluppare turisticamente l’area da parte delle comunità non si può comprendere appieno se non si ricostruisce l’ambito in cui essa è stata formulata, vale a dire la prossimità a San Pedro de Atacama, capitale archeologica e astronomica, oltre che prima destinazione turistica del Paese e il processo di etnogenesi, come elaborazione, costruzione o invenzione dell’identità etnica atacamena a esso strettamente legato15. San Pedro si situa a 2.440 m. s.l.m., sulle Ande, all’estremità del Salar di Atacama, vicino alla foce del fiume Loa ed è composto da 12 ayllus, unità sociali e geografiche perfettamente circoscritte nello spazio e i suoi margini, dove si sono creati nuovi quartieri e di conseguenza nuove realtà politico-spaziali16. La storia del turismo si può far risalire agli anni Novanta, con gli scavi archeologici, la personalità del Padre Le Paige, la creazione del Museo e una fiorente attività di ricerche scientifiche che diedero notorietà al villaggio indigeno, decretando la sua fortuna. Molti turisti vi si trasferirono, alcuni sposarono i locali, comprarono terreni, case, aprirono agenzie turistiche e ristoranti. La pressione di questa nuova popolazione, diversa in molti aspetti per lingua, religione e tradizione determinò una netta cesura tra gli afuerinos, stranieri o cileni che vi si erano stabiliti per motivi occupazionali e gli abitanti del luogo, una dinamica conflittuale ancora presente17. In questo periodo, analogamente a quanto stava avvenendo in altri paesi dell’America Latina, un gruppo sociale compatto, auto-denominatosi atacameno, in quanto antico abitante di una terra chiamata Atacama, scese in campo a difesa del suo patrimonio, in particolare per difendere le acque del fiume Loa dall’industria mineraria
13 V. Castro, V. Varela, Ceremonias de tierra y agua. Ritos milenarios andinos, FONDART Fundación Andes, Santiago 1994. 14 C. Calame, Avenir de la planète et urgence climatique. Au-delà de l’opposition NATURE/ CULTURE, Lignes, Fécamp 2005, p. 17, 2015. 15 B. Tagliolini, Processi territoriali: turismo e patrimonio a San Pedro de Atacama, in «Territorio», n. 66, 2013, pp.132-138. 16 L’ayllu, termine di origine preincaica, è l’organizzazione andina formata da un insieme di persone legate da vincoli di sangue o affini che conformano un nucleo di produzione economica e politica. 17 F. Barth Ethnic Groups and Boundaries. The social organizacion of Culture Difference, Universitetsfolaget, Bergen, Oslo 1969. 218
Codelco Chile18. La strategia identitaria si accompagnò di pari passo a quella delle ONG, antropologi, archeologi e studiosi che ricostruirono la loro continuità storica nel territorio attraverso il riconoscimento dei resti materiali, nonostante la perdita della lingua originaria Kunza. La relazione tra le comunità autoctone atacamene o quechua e il turismo ha pertanto una valenza storica e assume il significato di conservazione e rivendicazione della cultura materiale e spirituale del loro quadro di vita. Gli abitanti di tutti i villaggi indigeni inseriti nel progetto posseggono la condizione di poblanos, ossia sono cittadini con diritti e doveri, basati sostanzialmente sulla proprietà della terra tramite titoli legalmente riconosciuti19. Un titolo riconosciuto dal gruppo multinazionale di energia ma non dal Cile che di fatto non ha mai consegnato la terra alle comunità. La comunità è la forma di organizzazione collettiva andina, nonostante si sia indebolita e trasformata nel tempo, continua ad occupare un ruolo centrale ed è una struttura di potere gerarchico organizzata per mezzo di relazioni esterne con le agenzie statali, imprese minerarie o di energia e interne di tipo parentale20. Costituite con la Legge Indigena n. 19253 sono infatti organizzazioni con personalità giuridica per mezzo della quale lo Stato può canalizzare le risorse. C’è da aggiungere che le società indigene, lungi dall’essere un gruppo omogeneo, sono in realtà attraversate da forti divisioni sociali e da conflitti tra gruppi integrati e quelli meno favorevoli all’integrazione, che utilizzano l’etnicità per accedere ai fondi stanziati per ricerche e progetti. La zona di Cerro Pabellón coincide con l’area di sviluppo indigena ADI Alto El Loa, riconosciuta dallo Stato cileno come uno spazio ancestrale, con alta densità di popolazione indigena, esistenza di terre comunitarie, omogeneità ecologica e gestione propria delle risorse naturali21. In un ecosistema desertico e in piena crisi dell’industria estrattiva, più specificamente quella del rame, il turismo appare per le comunità locali l’unica strada possibile da percorrere per poter accedere al benessere economico; anche se la drammatica trasformazione di San Pedro in un polo turistico transnazionale fa riflettere. Con una popolazione fluttuante di circa 10.000 persone, quasi tutte immigrate e impiegate nel settore turistico, il villaggio indigeno ha di fatto cambiato la sua immagine. I grandi progetti di investimento pubblici e privati in strutture ricettive, servizi e opere di modernizzazione non hanno portato il benessere auspicato, anzi la ricchezza si è concentrata nelle mani degli afuerinos e si sono perse le attività tradizionali di agricoltura e pastorizia. I locali parlano di invasione, vissuta come una seconda colonizzazione e identificata come una violenza. In quest’ottica le comunità 18 Rivera Flores, Entorno neoliberal y la alteridad étnica anti-flexible de los atacamenos contemporaneos, in «Revista de antropologia», n. 18, pp. 59-89, 2005-2006. 19 Questo si trasmette ai successori tramite eredità, un atto di acquisto o di vendita, diritti amministrativi o una cessione di diritti. 20 H. Gundermann, J.I. Vergara, Comunidad, organización y complejidad social andina en el norte de Chile, in «Estudios Atacameños», n. 38, pp. 107-126, 2009. 21 Le Adi, secondo la sua definizione, sono spazi territoriali determinati nei quali gli organi dell’amministrazione dello Stato debbono focalizzare la sua azione per il miglioramento della qualità di vita delle persone di origine indigena che vi abitano. Art. 26, Legge n. 19253. 219
non riconoscono più i luoghi del loro abitare, diventati scenari per la messa in scena di una cultura cosiddetta andina in un’ottica mercantile e chiedono pertanto di gestire in prima persona il turismo, di modo che gli stranieri non distruggano i loro luoghi, le loro tradizioni, il loro patrimonio, la loro Pachamama. Il caso di Toconce evidenzia come la volontà della comunità di mettere a risorsa turisticamente il loro territorio ancestrale sia in realtà contradditorio e costituisca di fatto una strategia perché la comunità possa, non solo continuare a utilizzarlo, ma anche esercitare su di essa un diritto. Una forma politica di negoziazione che si basa sul riconoscimento del valore patrimoniale, prima a livello nazionale con il Ministerio de Bienes Nacionales (MBN), poi da Sernatur e ultimo a livello internazionale dai gruppi multinazionali di energia. Gli antecedenti si situano nella Legge Indigena del 1993 e nella conseguente creazione della Corporación Nacional de Desarollo Indígena (Conadi) il cui fine è di promuovere, coordinare ed eseguire azioni statali in favore dello sviluppo integrale delle popolazioni indigene, a cui è seguita la creazione di una specifica area di patrimonio culturale dei popoli indigeni nel Consejo de Monumentos Nacionales (CMN). Il Cile pertanto riconosce la componente indigena come un elemento costitutivo della sua identità, riconosce il suo patrimonio ma legalmente esso resta di proprietà statale. Il villaggio di Toconce si situa in una posizione panoramica, a 3355 m.s.l.m, in mezzo alle vaste infrastrutture agricole dei terrazzamenti preincaici e si affaccia su di un crepaccio nel cui fondo scorre il fiume omonimo. Era era un’antica estancia, un luogo di sosta vicino alle sorgenti d’acqua e al foraggio nel quale si allevava il bestiame, che, quando si riabilitarono gli antichi canali di irrigazione preispanica, si costruirono nuovi cammini e nuovi edifici in pietra, si popolò con famiglie provenienti da Ayquina e dalla regione di Lípez in Bolivia22. Attualmente vi risiedono più o meno trenta abitanti, molti dei quali sono pensionati di Calama che hanno deciso di ritornare al paese per coltivare i loro orti, però ci sono anche persone che vivono ancora in città e tornano tutti i fine settimana per occuparsi delle loro coltivazioni. Alcuni di questi si costruiscono nuove case nei terreni familiari di cui la maggior parte è in cemento con tetti in allumio poichè, come spiegano, la paglia è cara e non ci sono più persone che possano aiutare. L’agricoltura è di sussistenza, per il consumo personale di mais, patate, fave e la vendita nel mercato interno degli eccedenti e si coltiva in piccoli appezzamenti all’interno dei limiti del paese e in altri lontani anche varie ore di camminata. E’ancora presente, anche se in sparizione, la tipica modalità andina di mobilità tra le differenti nicchie ecologiche per raccogliere piante medicinali, o per la pastorizia di ovini, caprini e lama. C’è da segnalare che le comunità atacamene e quechua usano solo una minima porzione della portata acquifera dei loro fiumi, in quanto la maggior parte di questi è da tempo impiegata per rifornire i grandi giacimenti minerari e i centri urbani della zona. La questione dell’acqua è un tema che soggiace a qualunque conversazione ed è anche il principale conflitto con le industrie minerarie poiché ha influito sullo sviluppo economico locale limitando l’agricoltura. 22 J. L. Martínez, Somos restos de gentiles: El manejo del tiempo y la construccion de diferencias entre comunidades andinas, in «Estudios Atacameños», n. 39, pp. 57-70, 2010. 220
Toconce dispone di una stazione di Carabinieri, copertura per le comunicazioni mobili ed anche energia, sia da un gruppo elettrogeno che dai pannelli solari23. I pochi viaggiatori che vi arrivano sono accompagnati dalle guide turistiche di San Pedro, passeggiano in paese, a volte si fermano a mangiare o a comprare cibo o artigianato, molto raramente si fermano a dormire. Questo nonostante il paese disponga di strutture ricettive che possono accogliere fino a 28 ospiti, inoltre vi è un ristorante per 25 coperti e due piccoli negozi di alimentari. Nel 1999 Jacqueline Anza con altri giovani del posto aveva creato un’agenzia turistica Puri - Linzor che offriva circuiti archeologici e camminate24. L’impresa ha lavorato alcuni anni con successo, finché come racconta il vecchio direttivo non l’ha chiusa, imputando la decisione a un conflitto interno alla comunità. Nell’ipotesi di tornare a lavorare con il turismo la sua posizione è di sfiducia ed è contraria all’apertura del paese ai turisti. Invece altre persone hanno manifestato il desiderio di poter partecipare ad un corso ufficiale di guida turistica per poter apprendere i lineamenti della professione. Toconce amministra con la comunità di Caspana i Geisers del Tatio, una delle mete più importanti della regione con 120.00 turisti l’anno e in proprio l’area di Aguas Calientes dove sono state investiti parte dei fondi di compensazione dati da EGP per la realizzazione di piscine di acqua termale. L’impianto, costruito con pietre a secco e sentieri di collegamento, prevede anche uno spogliatoio, due bagni con doccia, una caffetteria con prodotti naturali e tipici e un centro di medicina ancestrale. Vicino alla strada che conduce al paese sorgono le rovine di Likan, importante sito cerimoniale preincaico25. Circondato su più lati da un basso muretto di recinzione in pietra, non presenta nessuna segnalizazione, nè un punto vendita per i biglietti, il che determina che chiunque possa entrare. La posizione della maggior parte delle persone intervistate è quella di non mettere cartelli per evitare che i turisti o gli operatori turistici trovino la strada e si rubino tutto come già avvenuto in passato. Lo stesso avviene a Tchulqui, Melcha, Potrero e il centro agricolo di Patillón, i quali sono comunque segnalati dai locali con i linderos, mucchietti di pietra, un metodo utilizzato localmente per definire i confini o evidenziare una zona specifica. Per le comunità del Loa questi sono i Gentilares, i luoghi degli antenati e vengono considerati sacri, spazi e cose che bisogna rispettare e temere, nei quali può pigliarti la terra o possono afferrarti gli antenati e produrti malattie, per cui è meglio non molestarli, nè visitarli, ne prendere nulla da lì26. Siti archeologici, sentieri, confluenze di fiumi, canyon dipinti con pitture rupestri, adoratori in cima alle montagne, una geografia di segni, un codice del sacro per la popolazione locale e un offerta turistica per i tour operatori nazionali e internazionali. 23 Nel 2012 un progetto di EGP e del Programma de la ONG Barefoot College ha formato in India 5 donne della zona per imparare a istallare e riparare i collettori. 24 Comunicazione orale, novembre 2015. 25 V. Castro, C. Aldunate, J. Berenguer, Orígenes altiplánicas de la fase Toconce, in
«Estudios Atacameños», n. 7, pp. 159 -178, 1984.
26 I Gentili, Abuelos o Antiguos sono termini intercambiabili che si riferiscono ad una umanità che non è l’attuale, ma nella quale rientrano tutti gli antenati dalla quarta gnerazione all’indietro, fino all’epoca del re Inka. Cfr. P. Ayala, Relaciones entre atacameños, arqueólogos y estado en Atacama (Norte de Chile), cit. p. 137. 221
Questa narrativa del paesaggio presuppone una lettura differente, sensibile, attenta, che contempli la profondità, che accolga l’anima degli edifici, luoghi, opere d’arte, della natura, ovvero l’anima dei luoghi27. Come dicono i locali esige rispetto, nelle parole di Nolvia Berna Cruz: Uno quando entra a casa della gente chiede permesso28. E’ noto come il patrimonio sia il processo di una costruzione, che gli accorda un certo significato dandogli un valore simbolico. L’oggetto patrimoniale si costruisce tramite la proiezione di rappresentazioni collettive e sociali che gli danno un senso, in funzione dei bisogni, attese, progetti o aspettative. Con il proposito di proteggere il territorio il direttivo della comunità di Toconce ha incaricato la redazione di un’ordinanza comunitaria per regolare l’esercizio delle attività turistiche che dà potere decisionale alla comunità. In questo senso si evidenzia la preoccupazione di essere spogliati dei propri beni, sia dallo Stato che dai turisti. Il patrimonio assume pertanto un ruolo preponderante in un gioco di forza tra lo Stato che ne detiene il possesso e lo usa turisticamente e le comunità che lo considerano proprio e intendono gestirlo. La posizione dei singoli attori è dinamica e soggetta a cambiamenti. La ricerca ha evidenziato come il turismo sia uno strumento politico, in un rapporto di potere tra le comunità locali, lo Stato e gli enti sovranazionali. Seguendo questa prospettiva le comunità con la richiesta di un piano di sviluppo turistico hanno voluto proteggere il loro quadro di vita ossia il loro paesaggio. Il progetto di Cerro Pabellón si è basato sulla piena partecipazione delle comunità nella formulazione, disegno e creazione del piano turistico sostenibile. Una dinamica aperta di pianificazione che ha considerato la specificità di ogni centro abitato in funzione dell’attivazione patrimoniale, modellata sulla selezione e interpretazione di quegli elementi scelti dalla stessa comunità per una loro condivisione e valorizzazione. Una scelta di sviluppo, nei termini della sostenibilità, atta a migliorare la qualità di vita nel beneficio della popolazione locale. Solo in questo modo il progetto, diventa un attrattivo di interesse patrimoniale per i locali e i non residenti29.
27 J. Hillman, L’anima dei luoghi. Conversazione con Carlo Truppi, Rizzoli, Milano 2004. 28 Comunicazione orale Toconce 27 novembre 2015. 29 Si ringraziano le comunità che hanno permesso all’autrice del testo di conoscere e condividere i loro paesaggi, in particolar modo a Floridor Yufla, Abel Bartolo, Nolvia Berna, Delfina Escalier, Jaqueline Anza di Toconce. Un ringraziamento speciale a Antonella Pellegrini di EGPC, a David Barrera e Justo Zuleta, senza del quale non avrei mai scoperto la bellezza dei popoli del deserto di Atacama. 222
Bibliografía Aldunate, J. Berenguer, V. Castro, L. Cornejo, J.L. Martinez, C. Sinclaire, Sobre la cronología del Loa superior, in «Chungara», nn. 16-17, 1986, pp. 333-346. P. Ayala, S. Avendaño, M. Bahamondes, U. Cárdenas, A. Romero, Comentarios y discusiones en el encuentro Reflexión sobre patrimonio cultural comunidades indígenas y arquelogía, in «Chungara», vol. 35, n. 2, 2003, pp. 379-409, p.385. P. Ayala, Relaciones entre atacameños, arqueólogos y estado en Atacama (Norte de Chile), in «Estudios Atacameños», n. 33, 2007, pp. 133-157. P. Ayala, Políticas del pasado: indígenas, arquelógos y Estado en Atacama, Ocho Libros, Santiago 2008. F. Barth, Ethnic Groups and Boundaries. The social organizacion of Culture Difference, Universitetsfolaget, Bergen, Oslo 1969. V. Castro, C. Aldunate, J. Berenguer, Orígenes altiplánicas de la fase Toconce, in «Estudios Atacameños», n. 7, 1984, pp.159 -178. V. Castro, C. Aldunate, V. Varela, Ocupación humana del paisaje desértico de Atacama. Región de Antofagasta, in «ARQ», n. 57, 2004, pp. 1-6. V. Castro, V. Varela, Ceremonias de tierra y agua. Ritos milenarios andinos, FONDART Fundación Andes, Santiago 1994. F. Choay, L’allégorie du patrimoine, Seuil, Paris 1992. Consejo de Monumentos Nacionales, Lista Tentativa de Bienes Culturales de Chile a ser postulados como Sitios del Patrimonio Mundial, Segunda Serie, n. 30, 2004. 2 ed., Cuadernos del Consejo de Monumentos Nacionales, 2004. C. Calame, Avenir de la planète et urgence climatique. Au-delà de l’opposition NATURE/CULTURE, Lignes, Fécamp 2015, p. 17. S. Cousin, De L’Unesco aux villages de Touraine: les enjeux politiques, institutionnels et identitaires du tourisme culturel, in «Autrepart» vol. 4, n. 40, 2006, pp. 15-30. P. Descola, Par-delà nature et culture, Gallimard, Paris 2005. Gobierno de Chile, Subsecretaría de Turismo, Estrategia Nacional de Turismo 2012-2020. Gobierno de Chile, Sernatur, Plan de Desarrollo Turístico de la Región de Antofagasta 2011-2014. 223
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Tra architetture e paesaggi, tra sacralità e senso civico Valorizzazione, trasmissione e potenzialità del paesaggio culturale, civile e religioso Chiara Visentin
Unità ricerca Architettura e Paesaggi della Produzione, IUAV Venezia
Un paesaggio umanizzato È un excursus, quasi un prologo, questo saggio che intende chiarire come il paesaggio sia di fondamentale importanza e assuma in sé un altissimo potenziale per l’individuazione del patrimonio culturale di una nazione. L’Italia in particolare. Un patrimonio culturale che qui si individua in due specifiche accezioni: quello legato all’identità civica della collettività1 e quello più propriamente religioso. Ormai ben conosciamo come sia da sfatare la considerazione comune sul cosiddetto paesaggio naturale che alcuni pensano tuttora di avere. Non esiste praticamente più un paesaggio naturale, almeno in Italia e in gran parte dell’Europa2. Il nostro è infatti un paesaggio storico, antichissimo e stratificato, dove l’uomo in ogni dove ha manipolato per sue necessità, di sostentamento, di esistenza, per ragion di Stato e così via, la morfologia e i segni dei territori in cui viveva o in cui transitava. Il paesaggio italiano è dunque un territorio compiuto, umanizzato. La nostra responsabilità individuale e consapevolezza collettiva si devono fare carico della tutela di questo ambiente, dei nostri scenari, delle nostre città, delle loro arti e architetture perché tutto questo è il patrimonio materiale che faticosamente l’uomo ha costruito nel tempo, corredandolo di beni immateriali preziosissimi strettamente collegati al contesto. Sono due le fondamentali categorie di paesaggi segnalati da Enti di Tutela come UNESCO che riconoscono e individuano come la sacralità di un luogo e l’identità della comunità interagiscano attivamente e condividano i propri significati e integrità con l’ambiente naturale ove si collocano. Per UNESCO, e ICOMOS organo consultivo di UNESCO, queste tipologie di luoghi vengono definite paesaggi di tipo associativo o evolutivo3. In specifico, il 1 Cfr. R. Gubert (a cura di), L’appartenenza territoriale tra ecologia e cultura, Reverdito, Trento 1992. 2 C. Visentin, M. Vanore, Heritage of Water. Patrimonio e paesaggi di bonifica, Istituto Cervi Editore, Gattatico (Reggio Emilia) 2015. 3 E. Berti, Itinerari culturali del consiglio d’Europa tra ricerche di identità e progetto di paesaggio, Firenze University Press, Firenze 2012, p. 34; si veda anche la Convenzione per la tutela del patrimonio mondiale culturale e naturale adottata a Parigi il 16 novembre 1972, 225
paesaggio di tipo associativo è quello nel quale fenomeni religiosi, artistici o culturali sono strettamente associati all’elemento naturale; un paesaggio essenzialmente di tipo evolutivo è il risultato di un’esigenza in origine sociale, economica, o religiosa, che deve la sua forma attuale alla sua associazione e correlazione con l’ambiente naturale. Tali paesaggi, interazione tra uomo e ambiente, che riflettono processi evolutivi di tangibile importanza nella loro forma e composizione, si distinguono in altre due categorie: il paesaggio reliquia, nel quale il processo evolutivo in passato si è arrestato ma le cui caratteristiche essenziali restano materialmente visibili e il paesaggio vivente, che conserva un ruolo sociale attivo nella società contemporanea, strettamente associato ai modi di vita tradizionali, nel quale il processo evolutivo continua: un paesaggio che mostra testimonianze evidenti della sua evoluzione nel corso del tempo. Vere e proprie realtà antropologiche, non solo naturalistiche o culturali, dense di significati e di storie che si compenetrano. Luoghi di memoria, fortemente identitari. Per quanto riguarda il patrimonio intangibile poi, l’UNESCO ne collega la definizione all’esistenza stessa di una comunità di valori. Secondo l’art.1 della Convenzione del 20034 sulla salvaguardia del patrimonio intangibile, è patrimonio intangibile quell’insieme di prassi, rappresentazioni, espressioni, conoscenze e knowhow che le comunità, i gruppi e in alcuni casi gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale. Il patrimonio culturale intangibile può essere inteso quale motore evolutivo della vita sociale dell’umanità proprio perché è costantemente ricreato dalle comunità e dai gruppi in risposta al loro ambiente, alla loro interazione con la natura e alla loro storia e dà loro un senso di identità e di continuità, promuovendo in tal modo il rispetto per la diversità culturale e la creatività umana (art.1). Si spiega, dunque, perché esso sia un fattore fondamentale per riavvicinare gli esseri umani e assicurare gli scambi tra loro (Preambolo). La Convenzione del Consiglio d’Europa sul valore del patrimonio culturale per la società, adottata a Faro nel 20055, rappresenta, infine, nell’ambito di questa riflessione, un riferimento giuridico fondamentale per il riconoscimento dell’importanza pubblica della tutela dei beni culturali: abolisce la distinzione tra patrimonio tangibile e intangibile e affianca alla definizione di patrimonio culturale il principio di comunità di eredità (heritage community). In questo modo i due concetti diventano fortemente partecipi l’un l’altro. Ma cos’è una comunità di eredità e da chi è costituita: da un insieme di persone che attribuisce valore ad aspetti specifici dell’eredità culturale e che desidera sostenerli e trasmetterli alle generazioni future. L’articolo 1 della Convenzione di Faro recita come il patrimonio culturale sia l’insieme delle risorse ereditate dal passato nelle quali le persone si identificano … come riflessione ed espressione dei loro valori, credenze, conoscenze e tradizioni in continua evoluzione. Il senso civico di appartenenza, e quindi di responsabilità, fa parte dunque del patrimonio culturale (immateriale) fondamento di una società democratica. È l’eredità comune, che si esplicita anche in senso tangibile nei luoghi e nelle loro memorie, a riaffermare con continuità tale senso di appartenenza. infine AA.VV., Politiche europee per il paesaggio: proposte operative, Gangemi Editore, Roma 2007. 4 Si legga il testo in: https://ich.unesco.org/doc/src/00009-IT-PDF.pdf. 5 Si legga il testo in Aedon 1/2013, rivista di atti e diritto on-line: http://www.aedon.mulino. it/archivio/2013/1/convenzione.htm. 226
Non a caso, infatti, la definizione di patrimonio comune dell’Europa, formulata all’articolo 3 della stessa Convenzione, comprende, in un concetto unico, sia le forme di patrimonio culturale che costituiscono una fonte condivisa di memoria, comprensione, identità, creatività (valori materiali tra cui inseriamo anche il paesaggio) che gli ideali, i principi e i valori […] che sostengono lo sviluppo di una società pacifica e stabile, fondata sul rispetto per i diritti umani, la democrazia e lo stato di diritto (valori immateriali in cui inserirei a pieno diritto la storia e le memorie dei luoghi). In queste accezioni la dimensione educativa è fortemente presente: siamo tutti chiamati a prendere parte alla vita culturale e civile dei luoghi con cui interagiamo, a vario grado e titolo. La Convenzione dell’UNESCO invita infatti gli Stati Parti, a sforzarsi con tutti i mezzi appropriati, particolarmente con programmi di educazione e di informazione, a consolidare il rispetto e l’attaccamento dei loro popoli al patrimonio culturale e naturale definito dalla Convenzione (art.27). Comprendendo tutto questo assumono particolare importanza per la società quei luoghi, quei paesaggi, quelle traiettorie territoriali, divenuti simbolo nel tempo, nella storia, negli accadimenti dell’espressione specifica di una comunità. E diventa di particolare urgenza mantenerne l’identità e l’integrità attraverso una cura attiva che non significhi solo conservazione ma uso responsabile6.
Un paesaggio palinsesto Si è puntualizzato poc’anzi come il territorio in cui viviamo possa essere considerato un paesaggio umanizzato. Ebbene cos’è il territorio italiano se non anche e soprattutto un paesaggio completo? Non solo quindi umanizzato. È la legislazione fondamentale sul paesaggio e sui beni culturali che ce lo ricorda. Nella nostra stretta attualità, resi forti (o deboli) dalle molteplici esperienze sui territori (paesaggio palinsesto), dagli accadimenti (guerre e unificazioni) e normative (di tutela, pianificazione e conservazione), è interessante osservare come e quanto la complessità e varietà del patrimonio paesaggistico italiano venga valorizzata e tutelata. Dei numerosi Enti di Tutela che controllano i nostri paesaggi, molti identificano in quest’ultimi il loro essere paesaggi palinsesto. Paesaggio palinsesto7, definizione usata nel memorabile discorso tenuto al Senato da Carlo Alberto Argan nel 1985 a difesa della legge Galasso, non solo come ambito naturale di stratificazione spontanea, ma anche e soprattutto come prodotto di azioni consapevoli, coscienti, insomma un immenso libro. Il paesaggio italiano è un vero e proprio palinsesto. Il periodo storico Post-Unitario, da citare come esempio tra molti, ha lasciato una potente eredità nell’identità paesistica 6 S. Settis, Paesaggio Costituzione cemento. La battaglia per l’ambiente contro il degrado civile, Einaudi, Torino 2012. 7 Molti sono gli autori che riconoscono nel paesaggio il suo valore di continuità, di memoria e identità nello spazio-tempo: C. Norberg-Schulz, Genius Loci. Towards a Phenomenology of Architecture, Rizzoli, New York, 1980 (trad.it. Genius Loci. Paesaggio ambiente architettura, Electa, Milano 1986); M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano 2003; E. Turri, Il paesaggio come teatro. Dal territorio vissuto al territorio rappresentato, Marsilio, Venezia, 1998; E. Turri, Antropologia del paesaggio, Comunità, Milano 1974; F. Farinelli, Geografia, Einaudi, Torino 2003. 227
nazionale. A partire dal 1860 l’Italia va mutando radicalmente (come mai prima di tale momento) la caratterizzazione vegetale del suo paesaggio urbano e quello delle zone monumentali, modificando sostanzialmente l’immagine paesaggistica nazionale. Una scelta di specifiche essenze arboree - pini, lecci, palme, cipressi, allori - non tanto per le qualità estetiche o l’idoneità funzionale, quanto per le qualità evocative che determinate piante sembravano avere per una nuova storia nazionale in costruendo. Una ideologizzazione vegetale8, uno sforzo di dare all’Italia, all’epoca nazione forte delle radici antiche ma alquanto confusa e disorganica, fatta di culture locali e tradizioni diverse, una storia condivisa e soprattutto, per quello che interessa a noi in questo saggio, un paesaggio comune. Questa operazione di ideologizzazione vegetale precedette l’avvento del fascismo, che la porterà avanti con continuità, in una identificazione tra propaganda, modernizzazione, simbologia, utilizzo agro-silvo-pastorale da dare a un nuovo (ma storicizzato) paesaggio italiano. Lo scenario geografico è stato l’intera Penisola, il suo cuore ideale è Roma. Nel 1924 il musicista Ottorino Respighi dedica una delle sue più celebri composizioni, I pini di Roma, a questa essenza arborea onnipresente nella città eterna: i pini in effetti sembrano da sempre la scenografia storica della capitale, sono invece il prodotto di una artificiosa naturalità del paesaggio urbano moderno di ispirazione antica. Lo sforzo a cui furono chiamati gli intellettuali dell’epoca fu infatti quello di creare 8 Termine usato da Paolo Avarello nel suo interessante testo sugli aspetti legislativi in materia di paesaggio in F. Moschini (a cura di), Paesaggio Sopravvivenza e trasformazione, Quaderni della didattica (a cura di), n. 6, Accademia Nazionale di San Luca; F. Gottardo e P. Portoghesi (a cura di), Segnare il Paesaggio, Accademia Nazionale di San Luca, Roma 2012.
Fig. 1 I pini di Villa Borghese a Roma 228
una cultura comune: una lingua, una letteratura, un’architettura, e appunto, anche se sembra inconsueto, un paesaggio. Il pino ebbe la più larga diffusione: il “Pinus Pinea” diventa l’albero per eccellenza per qualunque sito archeologico. Come del resto altre essenze arboree: nel paesaggio vegetazionale del cosiddetto Cimitero degli Eroi ad Aquileia è il cipresso ad accogliere le salme dei caduti nel Carso9. E ancora le palme che arrivano in Italia in epoca romana seguendo il grande interesse verso l’Egitto e Cleopatra. Scompariranno poi fino all’Ottocento, età nella quale ricompaiono come evidente segno di inclinazione verso un esotismo e un eclettismo orientaleggiante10 in voga nei revivals ottocenteschi e di primo Novecento. Le palme le troviamo da questo momento in poi in tutti i giardini di villa da Nord a Sud della Penisola e come filari nelle risistemazioni urbane dei nuovi assetti viari delle grandi città dal centro al Sud dell’Italia fascista. Ma per la nuova Italia è il Leccio (Quecus ilex) a rappresentarne il carattere: pianta autoctona del paesaggio spontaneo, si conforma a una retorica arborea ben precisa che entra in associazione con il carattere del popolo italico: povero ma tenace. Il fascismo lo utilizzerà moltissimo e arriverà poi all’apoteosi di un paesaggio in bilico tra modernismo e storicismo. La trasmissione del valore culturale e identitario del paesaggio di una nazione è anche questa, all’interno di una storia che per questo bisogna saper leggere senza disincanti. 9 Edificato nel 1915, sarà negli anni Venti del XX secolo ad essere completamente risistemato nella decorazione arborea e ombreggiato appunto con i cipressi. 10 C. Visentin, L’equivoco dell’Eclettismo. Imitazione e memoria in architettura, con introduzione di P. Portoghesi, Pendragon, Bologna 2003, pp. 67-74.
Fig. 2 I cipressi al Cimitero degli Eroi di Aquileia 229
Una legislazione amica del paesaggio culturale Il paesaggio e il concetto di patrimonio culturale compaiono già nella nostra Costituzione11. Partendo dall’articolo 9 della Costituzione della Repubblica Italiana, fino all’attuazione del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio del 2004, si evidenzia la centralità del territorio della nostra Nazione quale ricchissimo contenitore di risorse plurali che vanno dalle produzioni agricole agli insediamenti umani, dai caratteri ambientali e storici alle tradizioni culturali. Una sempre crescente consapevolezza del paesaggio come espressione dell’identità socioculturale della comunità e della sua evoluzione. Intorno a noi ci sono paesaggi che aiutano, con evidente bellezza e forza emozionale oltre che storica, tale coscienza. L’Italia è stato il primo paese in Europa ad occuparsi del tema del paesaggio in modo concreto, almeno sotto l’aspetto legislativo. Trascuriamo le leggi più remote, la prima legge organica in materia di paesaggio è la legge cosiddetta Bottai del 1939, n.1089, con approvazione del regolamento di attuazione. Su questa base le Soprintendenze si occuparono di redigere i piani per il paesaggio che riguardavano per lo più parti di territorio considerate eccellenze in termini essenzialmente visuali (come la penisola sorrentina). I piani saranno solo una ventina in tutto. Allora si usavano le mappe catastali per redigere i piani, non si prevedeva l’utilizzo di mappe geografiche e tantomeno di foto aeree: il territorio non riuscì dunque a essere rappresentato nella sua completezza, nella sua concretezza. Ma fu un buon inizio. Successivamente la legge Galasso (1984-1985 n.431) impone alle Regioni di dotarsi di piani paesistici indicando in via generale le categorie di beni ovvero i paesaggi da tutelare: le categorie finalmente ora esistevano concretamente ma l’indicazione era provvisoria e, come accade spesso in Italia dove già la regola non viene attuata, figuriamoci quando le direttive non ci sono, non fu mai assunta pienamente. Le competenze nel 1990 saranno attribuite alle Province. Sarà poi il momento dei Testi Unici: il T.U. 490 (Melandri) e il Codice Urbani (legge 42), entrambi utili ma ancora alla ricerca di una disciplina per la tutela dei beni culturali e del paesaggio e ancora nell’idea (soprattutto il primo) del paesaggio legata al concetto di eccellenza e canonica bellezza. È nel 2000 che finalmente si fa ordine con la Convenzione Europea del Paesaggio12, con una filosofia inconsueta per l’Italia, dove fino a quel momento la gran parte della legislazione in materia si era concentrata sul bel paesaggio. La Convenzione riconosce il valore di tutti i paesaggi anche quelli non belli dal punto di vista naturalistico o artistico ma importanti dal punto di vista sociale, antropologico e storico13, fors’anche per fare rientrare i molti 11 P. Maddalena, A. Leone, T. Montanari, S. Settis, Costituzione incompiuta. Arte, paesaggio, ambiente, Einaudi, Torino 2013. 12 Per una ricostruzione del percorso di elaborazione della Convenzione europea del paesaggio, si veda M. Montini, E. Orlando, La tutela del paesaggio tra Convenzione europea del paesaggio e normativa italiana, in V. Piergigli, A. L. Maccari, Il Codice dei beni culturali e del paesaggio tra teoria e prassi, Giuffrè, Milano 2006, p. 633 e ss., e più in generale, sul rapporto tra Codice dei beni culturali e del paesaggio e Convenzione europea sul paesaggio, G. F. Cartei, Codice dei beni culturali e del paesaggio e Convenzione Europea: un raffronto, relazione presentata alla Biennale del Paesaggio Toscano, Firenze, 12-15 novembre 2008. 13 La Convenzione Europea del Paesaggio di fatto estende a tutto il territorio la qualifica di 230
e diversi paesaggi di un’Europa disunita e discorde pure per quanto riguarda il suo territorio. Non è un caso che il varo italiano della Convenzione, anche se ratificata a Firenze, avvenga ben sei anni dopo: le scelte sempre un po’ italianostriste che hanno accompagnato tutta la nostra legislazione in materia e ancora incise nei testi unici del 1999 e del 2004 le ritroviamo ancora oggi presenti con una certa costanza nel nostro dna culturale e sociale.
Patrimoni paesaggistici: dell’identità civile e religiosa Un’introduzione fino a qui necessaria per concentrarci ora nel racconto concreto di esemplificativi luoghi di valore. Quattro patrimoni paesaggistici, contemporanei seppur antichi, del Bel Paese: fortemente legati alla nostra identità civile e collettiva da un lato e profondamente connessi al sacro, intrisi di religiosità e misticismo da un’altro. Laicità e sacralità: categorie inscindibili del nostro arcaico territorio. Quattro fondamenti patrimoniali indivisibili dal paesaggio ove sono collocati. Una saldatura e relazione biunivoca tra elementi: territorio/comunità e architettura/paesaggio. Luoghi da vivere e incontrare oggi, soprattutto nel nostro contesto attuale, luoghi di conoscenza e insegnamento, fatti di percorsi tra natura e cultura, connessi a persone, storie e comunità che hanno costruito la nostra storia contemporanea. Di patrimoni paesaggistici come quelli raccontati nei paragrafi che seguono in Italia ce ne sono moltissimi, legati agli accadimenti succeduti nella storia, si pensi alle grandi guerre dell’Ottocento e Novecento, ai siti religiosi, alle personalità tra arte, scienza, politica e religione che hanno contraddistinto un territorio e fondato l’identità del nostro Paese. Luoghi che sono, da decenni o da secoli, e che devono diventare nel prossimo futuro, grandi attrattori per cultura, coscienza identitaria, memoria, turismo. Dalle grandi potenzialità. Un piccolo campione di ciò che troviamo tra mare e montagna, tra pianure e colline, tra isole e sistemi fluviali, nei più di 300.000 km2 della penisola italiana. Sono i paesaggi associativi ed evolutivi enunciati nelle prime pagine di questo saggio, dove religione e identità civile fissano ulteriori importanti riferimenti nella componente culturale di un territorio. Dunque a cosa si riferisce patrimonio religioso? UNESCO definisce il patrimonio religioso come ogni forma di proprietà con associazioni religiose o spirituali: chiese, monasteri, reliquie, santuari, moschee, sinagoghe, templi, paesaggi sacri, boschi sacri, altri elementi paesaggistici, etc”. Circa il sito sacro dichiara che comprende le aree con significato spirituale speciale per le popolazioni e le comunità. E ancora il termine sito sacro naturale indica aree di terra o acqua che hanno un significato spirituale speciale per i popoli e le comunità. Infine definisce come il patrimonio religioso vivente abbia caratteristiche specifiche che lo distinguono da altre forme di patrimonio. Riguardo ai siti sacri infine, espone: Sono le aree protette più antiche del pianeta e hanno un’importanza vitale nella salvaguardia della diversità culturale e biologica per le generazioni attuali e future. paesaggio includendo non solo i paesaggi eccezionali ma anche quelli della vita quotidiana, persino quelli degradati per i quali si prevede la valorizzazione, il recupero e il ripristino, insomma una gestione attiva e non solo vincoli per un paesaggio umanizzato. 231
Per concludere: Nel complesso, le proprietà religiose e sacre comprendono le diversità culturali e naturali ed ognuna dimostra lo spirito di un luogo particolare. Genius loci A cosa invece attribuire la definizione di patrimonio d’identità civile? Il legame tra patrimonio culturale e collettività indica certamente un’importanza complessiva per lo sviluppo della società. UNESCO nella Convenzione per la protezione del patrimonio culturale e naturale mondiale del 1972 unisce alle definizioni di patrimonio culturale e patrimonio naturale (art.1 e art.2) il riconoscimento della responsabilità condivisa per la loro protezione, un dovere che spetta all’intera umanità (art.6): la perdita o il danneggiamento dei beni riconosciuti come parte del patrimonio mondiale costituisce “un grave impoverimento del patrimonio di tutte le Nazioni del mondo”. Una comunità di valori per promuovere democrazia e diritti umani attraverso la tutela del patrimonio, che trae ispirazione da: • principi contenuti negli strumenti legislativi promossi a livello nazionale e internazionale per la tutela e promozione dei beni culturali/paesaggio; • partecipazione culturale attivata attraverso l’educazione14.
Museo Casa Alcide De Gasperi e il Giardino d’Europa Un patrimonio civile per tutti noi è indiscutibilmente il Museo Casa Alcide De Gasperi e il Giardino d’Europa a Pieve Tesino in provincia di Trento. Custodire l’eredità umana e politica del più grande statista italiano è la sfida raccolta dalla Fondazione Trentina Alcide De Gasperi, istituita nel 2007 dalla Provincia autonoma di Trento e dall’Istituto Luigi Sturzo di Roma, che gestisce il Museo Casa De Gasperi15. Le stanze di questo piccolo edificio ottocentesco, diventato casa-museo aperto al pubblico nell’agosto del 2006, offrono ai visitatori la suggestiva ambientazione di un viaggio che documenta le radici di Alcide De Gasperi e del suo legame, mai cessato, con questa zona del Trentino. Dai luoghi cari del Trentino, fino al palcoscenico della grande storia del Novecento, dall’Impero austro-ungarico alla Repubblica italiana: il suo viaggio parla delle tragedie e delle grandi speranze che hanno plasmato il mondo di oggi, fino alle prospettive dell’Europa unita. Il Museo è nato proprio per questo: ha lo scopo di far conoscere al visitatore la vita e l’opera di uno dei padri della Nuova Europa, realizzato nell’edificio che diede i natali a De Gasperi. Nell’interessante filosofia gestionale del Museo vuole essere forte il messaggio: la struttura non conserva reliquie, ma idee. Nel 2015 il Museo Casa De Gasperi ha ottenuto dalla Commissione europea il riconoscimento Marchio del Patrimonio europeo. Il marchio è stato assegnato a 29 siti in 14 L’accento sull’azione educativa trova sempre uno spazio rilevante (anche nella Convenzione di Faro del 2005): favorire l’inclusione delle tematiche relative al patrimonio culturale a tutti i livelli di istruzione, non necessariamente come argomento trattato in sé, ma anche come fertile fonte d’ispirazione per lo studio di altre materie (art. 13, Convenzione del Consiglio d’Europa). 15 Fondazione Trentina Alcide De Gasperi (a cura di), Museo Casa De Gasperi dal Trentino all’Europa: Luoghi, simboli, suggestioni, Fondazione Trentina Alcide De Gasperi, Trento 2009. 232
Fig. 3 Le finestre illuminate della casa-museo De Gasperi (Foto della Fondazione Trentina Alcide De Gasperi)
Fig. 4 Installazione museale nella casa-museo De Gasperi. La culla di Alcide (Foto della Fondazione Trentina Alcide De Gasperi) 233
tutta Europa ed il Museo è ad oggi l’unico in Italia ad averlo ricevuto. In accordo con la Convenzione di Faro è di grande interesse l’aspetto educativo portato avanti in questa sede espositiva e di ricerca: la dimensione locale e quella europea si intrecciano nelle strutture che la Fondazione gestisce, per farne un valido strumento di supporto per l’attività didattica negli ambiti dell’educazione alla cittadinanza, della storia, della letteratura e dell’educazione ambientale, aiutando gli studenti a maturare una propria identità legata al territorio di appartenenza, e nel contempo, a pensarsi come soggetti di storie plurime. Le voci di tutte le epoche si armonizzano nel concerto europeo. Esse si fondano in una tradizione le cui radici sono classiche, ma che si estendono in ramificazioni lussureggianti e folte, una tradizione che ci ispira unendoci.
Sono queste le parole di De Gasperi nel discorso intitolato La nostra patria Europa16. Il Giardino realizzato nel 2010 sempre a Pieve Tesino è un omaggio allo sforzo dello statista italiano perché l’unione dei popoli europei si potesse fondare su solide basi: egli riteneva come fosse necessario che l’Europa fosse intrisa di un’idea architettonica unitaria in grado di armonizzare differenti tendenze in una prospettiva condivisa. Il Giardino: un simbolo dell’Europa unita, dei valori di democrazia e libertà. Con la sua forma ad anfiteatro ricorda il Parlamento e il teatro classico, luoghi che educano i cittadini alla partecipazione, riprodotto in una sinergia tra essere comunità dei cittadini e natura. Nel paesino trentino di poco più di 600 abitanti un notevole itinerario culturale-naturalistico accompagna dalle stradine di ingresso, affiancate ancora da muretti a secco, i visitatori nei luoghi di maggior interesse: la casa-museo, il Giardino d’Europa e l’Arboreto del Tesino. Non importa dunque essere collocati sui grandi tracciati infrastrutturali, ambientali e urbani per fare la storia e continuare a condividerla con la collettività: l’assetto morfologico dell’Italia e le sue aree interne17 ci insegnano che i patrimoni d’identità civile spesso sono proprio i luoghi più distanti da importanti traiettorie e che per questo devono essere salvaguardati: L’Italia è una e una sola. Un unico plurale fatto di metropoli, città medie, borghi, villaggi e infiniti paesaggi. Per comodità possiamo lavorare parte per parte, ma questo non può trasformarsi in una trappola dove alcuni, sotto sotto, imparano a disinteressarsi degli altri e altri attendono il proprio turno per diventare come i primi o trasferirsi là dove sono i primi. Siamo tutti dentro un ecosistema. Il nostro Paese è come l’immagine di un puzzle: quando i 10000 pezzi sono tutti al loro posto, ci restituiscono una serena rappresentazione della sua società.18
Biblioteca-Archivio Emilio Sereni e Parco agricolo Istituto Alcide Cervi
16 La nostra patria Europa è il titolo del discorso pronunciato da Alcide De Gasperi il 21 aprile 1954 a Parigi alla Conferenza parlamentare europea. 17 Si legga l’interessante raccolta di saggi in Urban Tracks Sentieri Urbani, in «Journal of urban planning», rivista trimestrale di urbanistica, anno X, n. 26, marzo 2018, Italy is an internal area L’Italia è un’area interna, Bi Quattro Editrice, Trento 2018. 18 P. Pileri, R. Moscarelli, Quell’area interna chiamata Italia, in Sentieri Urbani, L’Italia è un’area interna, cit., p. 16, 2018. 234
Fig. 5 Il Giardino dâ&#x20AC;&#x2122;Europa a Pieve Tesino (Foto della Fondazione Trentina Alcide De Gasperi)
Fig. 6 Il Giardino dâ&#x20AC;&#x2122;Europa a Pieve Tesino (Foto della Fondazione Trentina Alcide De Gasperi) 235
Inutile raccontare all’interno di questa notevole raccolta di saggi cosa è la Biblioteca-Archivio Emilio Sereni. Un luogo di ricerca e di studio da molti conosciuto e continuamente vissuto nelle molteplici occasioni di confronto scientifico che la struttura da anni programma e realizza. Moltissimi gli scritti che la raccontano e ne enucleano le importanti raccolte librarie e documentali19. Nel podere agricolo di Gattatico in provincia di Reggio Emilia che raccoglie l’Istituto Alcide Cervi con la Casa-Museo Cervi, si trova dal 2008 la Biblioteca-Archivio intitolata a Emilio Sereni, statista e uno dei più autorevoli studiosi italiani del mondo contadino e del paesaggio agricolo (suo il best seller Storia del paesaggio agrario italiano, edito da Laterza nel 1961), il cui patrimonio librario venne da lui donato all’Istituto Cervi di cui fu uno dei fondatori. La Biblioteca-Archivio contiene oggi più di 22.000 volumi, 300.000 schede bibliografiche, 1600 faldoni d’archivio, 200 riviste di storia e agricoltura, libri antichi tutti riguardanti il paesaggio, in particolare il paesaggio agrario, ma non solo. Raccogliendo il patrimonio di valori rappresentato dalla figura di Alcide Cervi, insieme alla memoria dei suoi sette figli martiri, l’Istituto Cervi parte dalla esperienza della campagna emiliana per lavorare con coerenza e impegno per la salvaguardia dei valori alla base della Costituzione Repubblicana. Gattatico: anch’esso un’area interna20, un territorio rurale di quasi 6.000 abitanti diventato luogo nazionale di identità civile e collettiva proprio per la presenza di questa attiva istituzione. Accanto al Fondo 19 Si legga l’esaustivo saggio di G. Bonini, Emilio Sereni, l’eredità di un intellettuale e il metodo di indagine dello storico del paesaggio agrario italiano, in G. Bonini, C. Visentin (a cura di), Paesaggi in trasformazione. Teorie e pratiche della ricerca a cinquant’anni dalla Storia del paesaggio agrario italiano di Emilio Sereni, prefazione di M. Quaini, Editrice Compositori, Bologna 2014, pp. 29-33. 20 C. Visentin, Riabilitare il valore dei paesaggi ordinari, in Sentieri Urbani, L’Italia è un’area interna, cit., pp. 61-65, 2018.
Fig. 7 La casa-museo della famiglia Cervi, sede dell'Istituto A. Cervi di Gattatico (RE) 236
librario Sereni sorge la concretezza della campagna che si racconta in modo tangibile: il Parco agricolo si sviluppa in una porzione del podere annesso alla casa in cui visse e lavorò la famiglia Cervi, e rappresenta un itinerario guidato nell’ambiente naturale e culturale della media pianura padana, poiché mantiene e ricrea spazi naturali promuovendo pratiche agronomiche rispettose dell’ambiente.
La Via Francigena L’antica strada che nel Medioevo univa Canterbury a Roma (e ai porti della Puglia) è ormai da molti anni riscoperta dai moderni viandanti, che si mettono in cammino lungo un percorso di grande fascino. Dal 2001 l’Associazione Europea delle Vie Francigene ha sviluppato un itinerario storico che, attraversando l’Italia e l’Europa, ripercorre la storia dell’antica Europa21. Nel 2014 sono stati celebrati i vent’anni del riconoscimento come Itinerario culturale del Consiglio d’Europa. E dal 2016 la Via Francigena è in corsa per essere riconosciuta come patrimonio dell’umanità dall’UNESCO. Lunga circa 1.800 chilometri, di cui 850 in Italia, divisa in una settantina di tappe, nel 990 d.C. venne attraversata dall’arcivescovo Sigerico di Canterbury, il quale lasciò un diario di viaggio molto dettagliato, in cui aveva annotato l’intero percorso fino alla città eterna, incluse le stazioni dove i pellegrini potevano pernottare. Da allora l’itinerario della Francigena è continuo veicolo di scambio tra culture e Paesi e sta diventato un utile strumento per consolidare quell’identità europea sempre più in crisi: anche da questi presupposti è nata con forza la richiesta di candidarla a bene dell’umanità, patrimonio da salvaguardare e da estendere alle nuove generazioni per la sua eccezionale particolarità ed importanza, sia sotto il profilo culturale/religioso che 21 C. Tosco, Il paesaggio storico. Le fonti e i metodi di ricerca tra Medioevo ed Età Moderna, Laterza, Roma 2009.
Fig. 8 Verso la Via Francigena (Foto di C. Menghini) 237
naturale. Un vasto paesaggio associativo che conserva un reale ruolo attivo sebbene in alcuni suoi tratti rimanga un paesaggio reliquia, nel quale il processo evolutivo si è arrestato, salvaguardando così la bellezza e l’integrità naturalistica e lasciando le antichissime caratteristiche essenziali materialmente visibili. Chi sono oggi i viandanti in cammino? Cosa cercano? Tra le motivazioni si trovano la ricerca personale, una forte idea di spiritualità, la sfida (anche agonistica) con sé stessi, oppure il semplice voler star bene, in un viaggio che avvicina alle persone, tradizioni locali, natura e prodotti tipici. La motivazione iniziale legata alla religione rappresenta circa il 15% che probabilmente può sembrare limitata sebbene non tenga conto del termine del viaggio: l’intensa spiritualità percepita durante il cammino dal viaggiatore, che lentamente si è trasformato in pellegrino, aumenta considerevolmente tale percentuale22. Non per caso, agli occhi di molti europei il cosiddetto ritorno del sacro è sembrato così inatteso e sorprendente, quasi un rigurgito del pre-moderno o dell’anti-moderno, più che la giusta riaffermazione del fatto che, anche dentro ogni processo di grande trasformazione storica, centrale è sempre l’uomo, la sua vita, la vita della sua comunità di appartenenza […] Se il sacro è sembrato ritornare di soprassalto e inaspettato dentro i comportamenti quotidiani e nella visione politica del futuro dell’Europa, ciò è avvenuto perché troppo a lungo si è pagato il prezzo di concezioni della modernità che non solo assegnavano alla religione un ruolo sempre più marginale rispetto al vivere associato, a quello pubblico e alla stessa democrazia, ma che individuavano anche, come inarrestabile tendenza di lungo periodo, la secolarizzazione di ogni ambito della convivenza umana23. Questo patrimonio paesaggistico così articolato e pregno di storia è fondamentale per molti motivi: - memoria, cioè luogo di ricordo e riflessioni su eventi storici (monumentum); - espressione del concetto di bellezza artistica o naturale; - luogo fondativo di identità collettive; - luogo di educazione delle nuove generazioni; - luogo d’uso per il tempo libero: turismo culturale (e religioso); - infine luogo di culto, di cui i credenti usufruiscono quotidianamente o come pellegrini. La Convenzione Universale per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale, adottata (senza alcun voto contrario) a Parigi il 17 ottobre 2003 dalla Conferenza Generale dell’UNESCO, ha ben espresso anche per questa tipologia di paesaggi culturali, densi di patrimoni materiali e immateriali, come la protezione di soli paesaggi e ambienti materiali ha poco senso senza la conservazione delle culture e delle espressioni sociali e religiose che li hanno custoditi, abbelliti, amati, formati. Un siffatto paesaggio è cultura oltre che spiritualità: L’uomo vive di una vita 22 C. Visentin, Patrimonio paesaggistico e Patrimonio religioso. Riconoscimento, analogie e sublimazioni mistiche, in O. Niglio, C. Visentin (a cura di), Conoscere, conservare, valorizzare il patrimonio culturale religioso, Vol.3, Collana Patrimonio culturale religioso, Aracne Editore, Roma 2017, pp 283-289. 23 F. Follo, Perché torna il sacro, «Avvenire», 13 novembre 2008 (Mons. Francesco Follo è Osservatore Permanente della Santa Sede presso l'UNESCO). 238
Fig. 9 La Via Francigena in Italia (Foto di F. Dallari)
Fig. 10 A cavallo sulla Via Francigena (Foto di F. Dallari)
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veramente umana grazie alla cultura24, ha detto Giovanni Paolo II nel suo discorso all’UNESCO, nel 1980. Da questo punto di vista già la Dichiarazione UNESCO di Città del Messico del 1982 aveva esplicitamente chiarito come il concetto di eredità culturale includesse anche le espressioni della spiritualità dei popoli. Nel gennaio 2016 è stata emanata dal Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo la direttiva Anno dei Cammini d’Italia che definisce i cammini come gli itinerari culturali di particolare rilievo europeo e/o nazionale percorribili a piedi o con altre forme di mobilità dolce sostenibile e che rappresentano una modalità di fruizione del patrimonio naturale e culturale diffuso, nonché un’occasione di valorizzazione degli attori naturali, culturali dei territori interessati. Il cosiddetto cammino o via diventa quindi espressione di identità e riconoscibilità per una nazione, e nello specifico nei paesaggi sacri soprattutto europei25 e nel sistema di itinerari e corridoi ad essi collegati: qui si individua una necessaria valorizzazione del patrimonio diffuso nelle aree interne, offrendo alle regioni coinvolte un’importante occasione di sviluppo territoriale. Il Bosco di San Francesco e il Terzo Paradiso
Recuperato dal FAI, Fondo per l’Ambiente Italiano, tra il 2009-2013 e restituito alla cittadinanza, il cammino nel Bosco di San Francesco ad Assisi si lascia alle spalle la grandiosa Basilica, segue lo stretto sentiero e giunge a fondovalle. Attraversare il Bosco di San Francesco e il suo paesaggio polisemico significa intraprendere anche un profondo viaggio interiore nella natura, nella storia e nel sacro26. La natura del luogo va in questo caso letta in relazione con la storia e l’attività degli ordini religiosi che qui hanno vissuto e lavorato. È ispirandosi a questo sistema storico-paesaggistico che nel Bosco vengono a connettersi tre chiavi di lettura, intrecciabili tra loro e tra loro sovrapponibili: naturale, storica e spirituale. In ogni dove e a ogni passo si può ancora percepire nel rapporto con la natura l’autentico spirito francescano: secondo una tradizione i frati, quando veniva chiesto loro di mostrare il chiostro, aprivano le braccia in un gesto che abbracciava non un edificio, ma l’intero paesaggio circostante, costruendo inconsciamente la cultura collettiva della religiosità di questo luogo come ancora noi oggi la viviamo. L’Italia, secondo stime dell’UNESCO, possiede circa il 50% dei beni culturali di tutto il mondo, di cui i beni ecclesiastici sono una percentuale intorno al 70, all’80%27, 24 http://w2.vatican.va/content/john-paul-ii/it/speeches/1980/june/documents/hf_jp-ii_ spe_19800602_unesco.html. 25 F. Dallari, The Heritage from Cultural Turn to Inclusive Turn. The Cultural and Sacred Landscapes of the UNESCO List: a Sustainable Track to overcome the Dichotomy between Tangible and Intangible Heritage?, in L. Bassa, F. Kiss (a cura di), Proceedings of TCL 2016 Conference Tourism and Cultural Landscapes: Towards a Sustainable Approach, Foundation for Information Society (INFOTA), Budapest 2016. 26 C. Visentin, Patrimonio paesaggistico e Patrimonio religioso. Riconoscimento, analogie e sublimazioni mistiche, cit., p. 285. 27 Da un’inchiesta svolta dalla Conferenza Episcopale Italiana, i beni ecclesiastici appaiono in una dimensione enorme: circa 95.000 chiese, 3.000 biblioteche, circa 28.000 archivi parrocchiali, diocesani, a cui affiancare paesaggi sacri, itinerari, cammini. 240
Fig. 11 Assisi. Il Bosco di San Francesco e il Santuario (Foto Fai)
Fig. 12 Nel Bosco di San Francesco. I percorsi (Foto Fai)
Fig. 13 Il Terzo Paradiso. Lâ&#x20AC;&#x2122;installazione di Land Art di Michelangelo Pistoletto 241
sezione dunque particolarmente impegnativa e importante. Ciò si inscrive nel grande problema della tutela del patrimonio artistico e culturale italiano. In questa considerevole percentuale rientrano appieno anche i paesaggi sacri, come il Bosco di San Francesco. Come valorizzarlo, trasmettendone nel nostro contemporaneo tutte le potenzialità di spazio trascendente e nel contempo la sua qualità di bene comune per la comunità civile? La risposta si è cercata con la straordinaria opera permanente di Land Art donata nel 2010 dall’artista Michelangelo Pistoletto: 160 ulivi in un’area di 3.000 mq disposti a doppio filare sono stati piantati per disegnare il simbolo del Terzo Paradiso, segnato ulteriormente da un sentiero in pietrischetto realizzato tra gli olivi. Al centro dell’opera è infissa un’asta in acciaio inox di 12 metri di altezza, simbolo dell’unione tra il cielo e l’acqua presente nel sottosuolo. Ma cosa è il Terzo Paradiso? Questa la risposta del suo autore: È la fusione tra il primo e il secondo paradiso. Il primo è il paradiso in cui gli esseri umani erano totalmente integrati nella natura. Il secondo è il paradiso artificiale, sviluppato dall’intelligenza umana, un luogo fatto di bisogni artificiali, di comodità artificiali, di piaceri artificiali e di ogni altra forma di artificio. Il pericolo di una tragica collisione tra la sfera naturale e quella artificiale è ormai annunciato in ogni modo. Il progetto del Terzo Paradiso consiste nel condurre l’artificio, cioè la scienza, la tecnologia, l’arte e la politica a restituire vita alla Terra, congiuntamente all’impegno di rifondare i comuni principi e comportamenti etici, in quanto da questi dipende l’effettiva riuscita di tale obiettivo. Il Terzo Paradiso è il nuovo mito che porta ognuno ad assumere una personale responsabilità. Il Terzo Paradiso è raffigurato da una riconfigurazione del segno matematico dell’infinito. Con il Nuovo Segno d’Infinito si disegnano tre cerchi: i due cerchi opposti significano natura e artificio, quello centrale è la congiunzione dei due e rappresenta il grembo generativo del Terzo Paradiso.
Un segno, quello del Terzo Paradiso che sul pianeta si può ripetere all’infinito28, là dove serve, in quei paesaggi e territori che possano diventare monito per la collettività, che entra a fare parte in questo modo di un paesaggio esperienziale dove ciascuno si costruisce una sua mappa emotiva attraverso una rappresentazione simbolica del territorio che riflette il punto di vista individuale e collettivo di chi lo sta vivendo. La trasmissibilità di tutte le forme di paesaggio è di particolare importanza, la loro valorizzazione è necessaria. Un primo modo per valorizzare questi patrimoni collettivi è quello di usarli come beni comuni: una delle sfide più importanti nella nostra società è infatti quella di passare dalla cultura dell’appartenenza alla cultura 28 Nel 2003 Pistoletto scrive il manifesto del Terzo Paradiso e ne disegna il simbolo, costituito da una riconfigurazione del segno matematico d’infinito. Da quel momento molte installazioni di questo simbolo sono state realizzate dall’artista in giro per il mondo. L’installazione permanente Rebirth-Terzo Paradiso realizzata a Parco Ariana davanti al Palais des Nations a Ginevra nel 2015 (per il settantesimo anniversario delle Nazioni Unite) vuole rappresentare con 193 pietre provenienti dai vari paesi in forma di blocchi non scolpiti i 193 stati membri dell’organizzazione: 54 metri di installazione che rappresenta l’auspicio di una rinascita della comunità mondiale fondata sui valori del dialogo fra gli opposti. 242
della partecipazione. C’è la speranza che i paesaggi in questo saggio raccontati ci aiutino a intraprendere questa strada. Come ha scritto Salvatore Settis, considerare il paesaggio come Bene Comune vuol dire avere una visione lungimirante, vuol dire investire nel futuro, vuol dire preoccuparsi della comunità, vuol dire responsabilità intergenerazionale29, e, aggiungo, riuscire a passare dal paesaggio estetico (da guardare) al paesaggio etico (da vivere).
29 S. Settis, L’etica dell’architetto e il restauro del paesaggio, dalla prolusione della lectio magistralis tenuta all'Università di Reggio Calabria il 14 gennaio 2014 per il conferimento della laurea honoris causa in Architettura.
Fig. 14 Rebirth. Il Terzo Paradiso a Ginevra per le Nazioni Unite (Foto Fondazione Pistoletto)
Fig. 15 Michelangelo Pistoletto. Il Terzo Paradiso (Foto Fondazione Pistoletto) 243
Paesaggio e turismo in Irpinia
Daniela Stroffolino
Ricercatrice presso Consiglio Nazionale delle icercheR
L’Irpinia è una delle tante provincie italiane a ridosso dell’Appennino che a seguito della profonda crisi che ha colpito tutti i settori produttivi, ha riposto le sue speranze di ripresa in quelle attività che sono insite nella storia del suo territorio: in primo luogo l’agricoltura, intesa oggi più che mai come valorizzazione delle eccellenze, dei prodotti tipici, delle biodiversità, della qualità e che, in tale ottica, ha forti ricadute anche nel settore del turismo enogastronomico e rurale. Ad oggi si contano circa 120 strutture agrituristiche, spinte con le ultime ‘misure’ del Piano di Sviluppo Rurale 2014-2020 ad associarsi per incentivare lo sviluppo e il miglioramento del turismo, lì dove la singola impresa di piccole dimensioni non riesce ad intercettare le opportunità nascoste in quella immensa ricchezza rappresentata dalle risorse ambientali e paesaggistiche e dai borghi rurali di pregio. Proprio i borghi rurali (cioè la gran parte dei nostri piccoli paesi) sono stati oggetto di altre ‘misure’ per la riqualificazione e valorizzazione del patrimonio naturale ed architettonico, con il conseguente obbiettivo di spingere i privati a investire in attività turistiche e ridurre contemporaneamente il fenomeno dello spopolamento che affligge queste realtà. Numerosissime le comunità, le associazioni, i blog, i siti internet, le manifestazioni, i progetti, gli eventi culturali, le sagre, le feste folkloristiche, le feste patronali, gli itinerari, i prodotti tipici, i vini… ma allora? Quali sono i numeri del turismo in Irpinia? Molto bassi in realtà quelli dei pernottamenti, che nonostante la buona ricettività, che spazia dagli alberghi ai B&B, non decollano, anzi sono in leggera flessione. Se si guarda all’offerta turistica della provincia se ne comprendono facilmente i motivi: unica manifestazione a livello nazionale e internazionale che riesce effettivamente a superare la visita giornaliera è lo Sponz Festival organizzato da Vinicio Capossela a Calitri suo paese nativo, oppure, fino a qualche anno fa, Cairano 7x invenzione dello show maker Franco Dragone originario di Cairano che, insieme al paesologo Franco Arminio e all’architetto Angelo Verderosa (l’anima letteraria e l’anima architettonica dell’Alta Irpinia) aveva saputo infondere nuova linfa nelle vite assopite dei 350 abitanti di questo paesino appollaiato su una rupe affacciata sulla valle dell’Ofanto. Per il 2017 è stata annullata anche un’altra importante manifestazione Il grande spettacolo dell’acqua in programmazione per tutto il mese di agosto a Monteverde paese dell’Alta Irpinia inserito nell’elenco – insieme a Nusco, Savignano Irpino, Zungoli – dei Borghi più belli d’Italia. 245
Per quanto importanti questi eventi non possono da soli alimentare il turismo della provincia, potrebbero al più essere usati quali attrattori, utili a far conoscere il territorio. Territorio che, grazie ad una rete turistica ben organizzata, impiantata sui borghi rurali, i monasteri, i castelli, la natura, il cibo dovrebbe, poi, poter procedere autonomamente. Troppe volte ci si imbatte in progetti finanziati che vivono il tempo dell’erogazione del finanziamento, per poi perdersi nel nulla, senza lasciare tracce, senza aver messo in moto nessun processo duraturo. Solo il web ne mantiene il ricordo, dando la possibilità di recuperare pagine cristallizzate, mai più aggiornate, di eventi passati. Nei giorni della Summer School si sono susseguiti diversi interventi che analizzavano esempi di turismo rurale, in particolare ho rivisto nello studio presentato da Monica Meina per il Molise, molto dell’Irpinia - con l’aggravante o la fortuna - che questa provincia è circondata da luoghi che da sempre sono mete turistiche fra le più belle al mondo. Quanti tour operator propongono nell’ambito di un viaggio in Campania almeno una tappa in Irpinia? E quanti turisti fai da te, cercando un luogo per trascorrere una vacanza scelgono di visitare questa nostra terra? Pochissimi direi - senza timore di smentita. Solo grazie alla caparbietà del già nominato Angelo Verderosa, difensore e sostenitore dei paesaggi e della ruralità irpini, questa provincia è entrata negli itinerari proposti dal Touring Club italiano, attraverso il Club di Territorio Paesi d’Irpinia che organizza per l’appunto eventi finalizzati alla scoperta di questa terra. Lo stesso Verderosa fu curatore, nel 2005, di un volume Il recupero dell’architettura e del paesaggio in Irpinia. Manuale delle tecniche di intervento, che dava notizia di un progetto di recupero dei centri storici di quattro borghi dell’area irpina Terminio-Cervialto (Castelvetere sul Calore, Volturara Irpina, Calabritto (Quaglietta), Taurasi), accomunati da una forte vocazione turistica. Il progetto proposto nel 1996, partito nel 1999 con l’apertura dei primi quattro cantieri, vide alcuni anni dopo, i primi significativi risultati, descritti appunto nel volume, come il completo recupero del borgo di Castelvetere trasformato in un albergo diffuso. I dibattiti, le proposte, il coinvolgimento delle istituzioni che sempre più convogliano le risorse sui progetti che riguardano il paesaggio rurale e il turismo, fanno ben sperare, ma non basta. L’intervento di Annunziata Berrino è stato tanto esplicito quanto spiazzante in tal senso, chiarendo, quanto il turismo – quello che muove le grandi masse - sia in realtà lontano dalle aree interne dell’Appennino. La storia del turismo ne individua i luoghi e ne interpreta le dinamiche. Questo mi ha ho ripensare ai non pochi articoli notati con sorpresa, sfogliando le pagine del «Corriere dell’Irpinia», giornale stampato ad Avellino a partire dagli anni Venti, in cui giornalisti illuminati, già in quegli anni, cercavano di risvegliare gli abitanti di questa provincia da una congenita indolenza per spingerli verso lo sviluppo del turismo. I dibattiti e le argomentazioni di allora non erano granché diversi da quelli di oggi! Protagonista indiscusso – segno di grande lungimiranza per l’epoca - il paesaggio con i suoi borghi e i suoi castelli. In realtà l’Irpinia, terra di passaggio per molti dei viaggiatori diretti in Puglia fra il Settecento e l’Ottocento, è sempre stata celebrata per la bellezza del paesaggio, la frescura, la ricchezza del verde, dei boschi e delle acque. Uniche attrazioni, per cui valeva la pena fare una sosta o una deviazione dal percorso principale - la così detta Via delle Puglie - erano il Santuario di Montevergine e la valle d’Ansanto. Il primo, 246
meta di folkloristici pellegrinaggi legati all’immagine della Vergine in esso custodito, la seconda per essere indicata da Virgilio nel VII libro dell’Eneide come il luogo in cui le Erinni discendevano negli Inferi: Vi è un luogo nell’Italia del Centro, tra alte montagne, celebre e in molte regioni famoso: le Valli d’Ansanto. Tutt’intorno stringe l’oscuro confine di un bosco denso di ricco fogliame, nel mezzo un torrente impetuoso manda sonanti fragori di sassi e frenetici gorghi. Non c’era viaggiatore che non si facesse trascinare dalla curiosità di visitare questa valle, nonostante il pericolo per i gas mortiferi sprigionati dall’acqua. Ma le attrazioni finivano qui per chi sceglieva questo percorso per raggiungere la Puglia; quello che invece appare condiviso dai più, rileggendo i diari di viaggio, è la bellezza del paesaggio. Ognuno di essi la paragona ai luoghi più ameni che conservano nella memoria: Berkely all’Irlanda, Stolberg alla Svizzera. Il confronto con la Svizzera diventa un classico specie quando, sul finire dell’Ottocento, iniziano i primi tentativi di sviluppare un turismo montano nella regione, caratterizzata dalla presenza dei massicci del Terminio, del Partenio e del Cervialto. Iniziano le escursioni del nascente Club Alpino Italiano, fondato a Torino nel 1863, mentre nel 1871 è inaugurata la sede napoletana, e pubblicati i primi articoli e testi che rendicontano tali escursioni.
L’Irpinia del Club Alpino Italiano Nel 1880 Giustino Fortunato, attivo meridionalista, amante delle nostre belle montagne pubblica il suo primo volume dal titolo Il Partenio e il Terminio, in cui racconta i viaggi realizzati nel 1878 lungo i sentieri che s’inerpicano su queste montagne:
Fig. 1 Michele Lenzi, Costruzione del rifugio sul Laceno, 1877 (Pinacoteca Provinciale, Avellino) 247
Una escursione alla giogaia del Terminio era, da qualche anno il mio disegno preferito. Ma quasi affatto sconosciuta agli studiosi di Botanica e di geologia1, mancava al mio intento ogni benchè minima notizia d’un possibile itinerario; e d’altra parte la poca sicurezza de’luoghi, sebbene oramai non si udisse più a parlare d’alcuna banda di briganti, rendeva quasi vana, fra gli amici della sezione alpina napoletana, ogni proposta di tentativo. Pure, mirando spesse volte dal Vesuvio quell’ammasso di monti e cime isolate, io non sapeva addirittura rassegnarmi ad abbandonare la impresa2.
Parte, infatti, il 28 luglio per raggiungere il 30, non senza difficoltà, alle 8 del mattino la sommità del monte Terminio: […] il leggendario e già tanto pauroso Terminio. […] La veduta era estesissima a noi intorno, e dappertutto veramente - dai poggi irpini ai contrafforti lucani, dall’acuminato Vesuvio all’ampio Vulture sorridente, su monti e valli di mille colori, fra cielo e mare di una sola tinta cilestrina, dappertutto regnava dolcissima una quiete serena e splendeva ineffabile una luce tersa e dorata, una luce benigna, che dava all’animo non so che impressione profonda di calma e di riposo.
Dopo la delusione per l’impossibilità di trovare una guida fino al Cervialto, gli alpinisti decidono di recarsi a Bagnoli dall’amico Michele Lenzi, pittore e sindaco del paese. Domandammo della casa del signor Michele Lenzi, il simpatico Lenzi, valoroso garibaldino quanto egregio pittore, che sapemmo tramutato da un sol mese in sindaco del comune. Insieme, il mattino seguente, si recarono sul Piano del Laceno: magnifica prateria bislunga, dominata in fondo dal gran dosso boscoso del Cervialto. […] Un poggio affatto isolato s’erge a picco sulle flave acque ricoperte di ninfee, ed in cima ad esso biancheggia piacevolmente la Cappella del Salvatore […]. È una massiccia e bella fabbrica rifatta di pianta dal nostro Lenzi che volle di un umile rifugio di cacciatori fare addirittura un ospizio di alpinisti3.
Il desiderio del Lenzi di far conoscere l’area di Bagnoli e di sviluppare nella stessa il nuovo turismo montano, è evidente nell’impegno che egli profuse nel rendere innanzitutto più facilmente raggiungibili queste zone. Nota è l’ostinazione con cui affrontò la lotta politica per far realizzare la linea ferroviaria Avellino-Rocchetta 1 Nel 1842 fu pubblicato un volumetto da Michele Tenore, Relazione di una escursione al Terminio; del cav. M. Tenore, letta alla Reale Accademia delle Scienze nell’adunanza del 6 settembre 1942, in cui il botanico descriveva l’ascesa al cosidetto Montagnone fatta il 23 luglio insieme ai giovani nipoti. 2 S. Pescatori (a cura di), L’Irpinia: i suoi monti, le sue valli e le sue tradizioni di civiltà e di cultura nel ricordo di Giustino Fortunato, , Ente provinciale per il turismo, Avellino 1969, p. 38. 3 Ivi, p. 42 248
Fig. 2 Achille Martelli, Lista del pranzo (R. Sica, Michele Lenzi: pittore bagnolese dell’Ottocento (1834-1886), Laurentiana, Napoli 1986).
Sant’Antonio e la celerità con cui portò a termine la nuova strada per raggiungere proprio il Laceno, come testimonia il bell’articolo pubblicato da Nicola Lazzaro su «L’illustrazione italiana» nel 1881. Il Lazzaro racconta dell’invito del Lenzi a partecipare alla festa del Salvatore organizzata sull’altopiano del Laceno: Quante volte viaggiando per le nostre provincie, io ho ammirato spettacoli, orizzonti e panorami di gran lunga superiori a quelli degli stranieri! […] La mancanza di celeri e facili comunicazioni, lo stato arretrato di civiltà nelle popolazioni agricole, la mancanza di comodi luoghi di residenza, sono le cause principali che ci fanno ignorare le bellezze di cui sono ricche le catene dei nostri Appennini4. 4 Ivi, p. 79. 249
Il 6 agosto alle 5.00 del mattino prende il via la lunga processione che da Bagnoli attraverso la nuova strada, realizzata dall’ingegnere Ottavio Rossi, lunga 5,2 chilometri con pendenza media del 10%, raggiunge Laceno: Giunti sull’altipiano, è come uno spettacolo fantastico. […] Il Lenzi aveva organizzato una festa campestre cui nulla mancava: corse di cavalli intorno al lago, fiera nel lago stesso, giuochi popolari ed una lotteria di beneficenza5.
Gli elogi degli alpinisti continuano con Errico Abbate, segretario della Sezione di Roma del Club Alpino Italiano, il quale nell’Annuario del 1887 in seguito alla scalata del Terminio scrive: Oh! Se maggiore iniziativa vi fosse tra noi, quanti centri di villeggiatura si formerebbero in queste splendide contrade, nelle quali forse molti credono regni un’africana temperatura. […] Accorrete, turisti, verso queste incantevoli regioni. Non vi troverete tutti gli agi della vita, diventati ormai un’abitudine, ma vi assicuro che non rimpiangerete tale mancanza; chè vi troverete in cambio abitanti i quali, dal più povero al più ricco, dal nobile al popolano, faranno a gara per rendervi piacevole il soggiorno fra di loro, i quali vi colmeranno di premure, di gentilezze, di cortesie cordiali, i quali vi saranno graditi compagni nelle escursioni, i quali offriranno a voi per i primi i migliori prodotti dei loro paesi, e vi proveranno che l’ospitalità non è ancora parola vana; vi troverete splendidi panorami, deliziose passeggiate, boschi pittoreschi, temperatura mitissima nei grandi calori estivi, acque copiose, pure e freschissime, vini eccellenti, pesca e caccia abbondantissime. E frutta squisita6.
Il paesaggio irpino e “l’industria del forestiero” Qualche anno dopo, nel 1906, in occasione del centenario dell’elevazione di Avellino a capoluogo di provincia appaiono sui giornali di Napoli e su quelli locali, articoli che affrontano il problema della povertà dell’Irpinia e delle strade da intraprendere per superare un lungo periodo di crisi economica. Leggere queste pagine non può lasciarci indifferenti, specie nel constatare che a distanza di 110 anni, le denunce della stampa da una parte e i discorsi demagogici dei politici dall’altra affrontano i medesimi temi di allora. Due le strade possibili per la rinascita economica: l’agricoltura e il turismo. Michele Severini, studioso altavillese, è autore di alcuni di questi articoli, riuniti nel 1917 in un volumetto dal titolo Irpinia sconosciuta7. L’autore sottolinea a distanza di dieci anni l’attualità dei suoi articoli, ben più grave è rilevarla a distanza di un secolo! A proposito del turismo scrive: Da noi si tiene, per esempio, in poco o nessun conto quell’«industria 5 Ivi, p. 83. 6 S. Marano, Bellezze ignote: noterelle di viaggio, tip. Nazionale, Salerno 1888, pp. 19, 25. 7 M. Severini, Irpinia sconosciuta, Pergola, Avellino 1917. 250
del forestiere», che altrove forma una delle più importanti e ricche fonti di benessere. […] Noi abbiamo, invero, i più belli orizzonti d’Italia, una campagna lussureggiante, un clima saluberrimo, acque potabili copiose e pure, e una infinita varietà di paesaggi, sempre incantevoli e pittoreschi, che ben possono stare a pari di quelli della Svizzera. Ma non abbiamo buoni e comodi alberghi, muniti di tutti i conforti richiesti dalla civiltà e dal progresso; non abbiamo mezzi di comunicazione celeri, moderni, economici, e soprattutto, l’indispensabile spirito d’iniziativa e d’associazione8». L’autore continua elencando le località famose con le quali le contrade irpine, per il verde e il fascino, potrebbero facilmente gareggiare: Saint Moritz, Villombrosa, Interlaken Abetone, Carlsbad, Lugano e lamenta il totale disinteresse verso lo sfruttamento di risorse come le sorgenti d’acque termali presenti nella provincia, ma anche delle tante bellezze artistiche. Le parole con cui Severini chiude il suo articolo risuonano poi con profetica veemenza: «Perciò, con ogni mezzo, a ogni costo, è necessario che tutte le forze vive e fattive della regione si stringano in un sol fascio, di fratellanza, di amore, di solidarietà, per raggiungere, uniti, il grande intento9.
Queste prime isolate voci, diventano un coro che s’innalza unanime nel periodo fascista, quando lo Stato organizza un’incisiva campagna turistica, intesa contemporaneamente come propaganda politica. Come ho anticipato, soprattutto sfogliando le pagine del «Corriere dell’Irpinia», ci rendiamo conto dell’interesse che viene rivolto alla questione dello sviluppo turistico, affrontata in numerosi articoli tesi ad esaltare le bellezze dell’Irpinia: dagli interessanti siti archeologici, alle stazioni sciistiche, ai turriti castelli, al pregio di opere artistiche e architettoniche, all’insuperabile bellezza del paesaggio, alla ricchezza dei corsi d’acqua anche termali10. La voce che per prima si alza in questo senso, è quella forte, icastica di Alfonso Carpentieri, divenuto direttore del «Corriere dell’Irpinia» in seguito alle dimissioni di Guido Dorso del 18 luglio 1925. Esordisce con un articolo sulle sorgenti di acqua minerale presenti a solo cinque chilometri da Avellino, in una località chiamata Pozzo del Sale, sfruttate da sempre dalla popolazione locale per l’approvvigionamento di sale, ma anche a fini terapeutici, sorgenti che a suo parere avrebbero potuto, e dovuto, essere valorizzate con l’impianto di veri e propri stabilimenti termali, offrendo così, alla provincia tutta, l’occasione per sviluppare il settore turistico11. Il passaggio da questa idea a quella di realizzare una completa e approfondita guida turistica fu immediato.
8 Ivi, p. 25. 9 Ivi, p. 26. 10 E’ attualmente in corso di stampa un mio volume in cui sono collazionati gli articoli
pubblicati fra la fine dell’Ottocento e il Ventennio Fascista, riguardanti questo tema.
11 Il tentativo di creare nella città di Avellino degli impianti termali si può far risalire ai primi anni del Novecento, sull’argomento si veda A Massaro, Avellino …città termale mancata, Parthenos Editore, Avellino 1998. 251
Le guide turistiche 1925-1935 La prima guida turistica di cui abbiamo notizia è la Guida per la provincia di Avellino utile per uomini d’affari, commercianti, avvocati, pretori, esattori ed uscieri, pubblicata nel 1881, abbastanza completa e precisa, ma, come si evince dal titolo, con finalità ben diverse da quelle turistiche. Pertanto l’8 agosto del 1925 Alfonso Carpentieri, pubblica una lettera indirizzata all’On. Carlo Vittorio Cicarelli, presidente della Provincia, per sottoporgli il progetto di una guida illustrata dell’Irpinia, sottolineando che, quella del Touring Club Italiano o ancor più la Guida Treves, avevano dedicato alla provincia di Avellino solo poche pagine, ritenendo, invece, indispensabile per lo sviluppo de l’industria del forestiere, la diffusione di guide nitidamente stampate su carta di lusso, straricche di ottime fotografie, di piantine topografiche e di ogni più raffinata e seducente civetteria tipografica12. Carpentieri attribuisce la colpa del generale disinteresse nei confronti della nostra bella provincia, alla melensa e placida apatia delle istituzioni irpine, ma anche della popolazione, ciechi di fronte al degrado in cui versa il capoluogo. L’articolo descrive nel particolare il progetto editoriale per la compilazione della Guida illustrata della Provincia di Avellino, alla cui redazione va preposta una Commissione per la stesura dei testi riguardanti la parte geologica, orografica, idrografica, forestale, storica, letteraria, artistica, monumentale, panoramica, folkloristica, economica, industriale, commerciale, scientifica, etnica, agraria ecc. ecc.. La guida deve essere ricca di fotografie, piantine topografiche e geografiche. Seguiamo i pochi passi che nei mesi successivi, si riuscirono a compiere per la stesura della guida. A novembre Carpentieri scrive un nuovo articolo in cui ricorda che nel 1914 già il prof. Alessandro Trotter, accademico della Superiore Scuola Enologica, aveva iniziato un simile progetto inviando ai sindaci dei 128 comuni che formano la provincia, un questionario per recuperare i dati necessari. Solo 43 risposero. Carpentieri, da parte sua, ha viva fiducia di riuscire nell’impresa e di svegliare la Cenerentola Irpinia. Il 26 dicembre apre la prima pagina del Corriere, un nuovo articolo dal titolo Per la Guida Illustrata dell’Irpinia: Come procede il lavoro, in cui Carpentieri riporta il testo della lettera inviata dal Prefetto Almansi a tutti i sindaci dei paesi delle Provincia, oltre ai quattordici argomenti che si sarebbero dovuti affrontare nella parte generale della guida: Corografia, L’Irpinia nella storia, L’Irpinia intellettuale, L’Irpinia eroica. Agricoltura, Industria e commercio, Istituzioni culturali, Igiene e problemi sociali, Educazione fisica e sport, Economia, Demografia, Culto, Giustizia, I sodalizi; segue la Parte speciale con l’elenco delle linee ferroviarie, delle strade, e degli itinerari possibili. Carpentieri elenca anche gli autori dei capitoli della parte generale e con orgoglio riporta le lettere delle autorità che hanno aderito all’iniziativa versando un contributo. Contestualmente a questi articoli viene pubblicata, sempre dall’Editore Pergola e come supplemento al numero 43 del 1925, una Lettera aperta a tutti gli irpini residenti fuori provincia, in Colonia e all’estero, in cui Carpentieri incita gli Irpini residenti all’estero a rendere possibile con un contributo la realizzazione della guida. Il testo riprende in gran parte quello della lettera al presidente della provincia, ma più ampia 12 A. Carpentieri, Bellezze d’Irpinia, in «Corriere dell’Irpinia», n. 32, agosto 1925, p. 1. 252
e dettagliata nei contenuti specie del progetto editoriale, inoltre è già essa una sorta di guida, illustrata con panorami e fotografie di opere d’arte, per ricordare agli stessi Irpini le bellezze di cui è ricca la loro terra e risvegliarne l’orgoglio nazionale. Il dettagliato progetto editoriale spaventa per la vastità e l’impegno anche economico, si prevede: - di far eseguire tutte le piante topografiche dall’Istituto Geografico De Agostini di Novara; - di istituire una speciale Commissione di tecnici che dovrà percorrere e visitare, palmo per palmo, l’estesissima provincia, per collazionare le carte dello Stato Maggiore, ed
Fig. 3 Sports invernali a Montevergine, Pergola, Avellino 1934. 253
apportarvi, massime nei dettagli di altimetrie, distanze e comunicazioni intercomunali; - di pubblicare l’opera almeno in diecimila esemplari per poterla distribuire in tutte le Biblioteche d’Italia, tutti gli Istituti di cultura e tutti i principali alberghi del Regno. Di contro Carpentieri è consapevole di non poter recuperare la somma, occorrente per attuare il vasto programma, attraverso i canali istituzionali quali Comuni, Provincia, Camera di Commercio a causa delle scarse risorse economiche e di dover invece riporre tutte le sue speranze nella generosità dei privati. A questo scopo nasce la lettera, anche se l’autore commette, a mio parere, il grave errore di criticare aspramente le numerose feste patronali per le quali venivano annualmente spese cospicue somme, spesso elargite proprio dagli emigrati. A loro viene chiesto in quest’occasione uno sforzo concreto, per un progetto importante, che non si esaurisce nel giro di pochi giorni, che rimarrà nel tempo e servirà per l’avvenire di questa nostra terra nativa, per la sua rinascita, per la sua valorizzazione, per la sua difesa e per la sua grandezza13. Il progetto, forse troppo ambizioso, non vedrà mai la luce. L’ultimo articolo del Carpentieri sull’argomento risale al settembre del 1928, in cui esprime con penna arguta e pungente, tutta la delusione per il fallimento del progetto evidenziando le conseguenze negative che da esso scaturiscono per l’inesorabile perdita di un’ennesima occasione. Nel 1932 la tipografia Pergola pubblica Irpinia. Piccola guida della provincia di Avellino. Nella premessa firmata dagli editori Armando e Riccardo Pergola si fa riferimento ai due importanti progetti che messi in cantiere, miseramente erano falliti per motivi economici; in particolare si scrive che la succitata lettera del Carpentieri era riuscita a raccogliere solo poco più di un migliaio di lire, devolute, in seguito, alla Biblioteca Provinciale Scipione e Giulio Capone. Ammaestrati dall’esperienza concludono i due fratelli ma pur nondimeno volendo contribuire a quel risveglio economico e intellettuale dell’Irpinia, […] ci siamo addossati l’onere e il dispendio di questo saggio, al quale hanno con encomiabile disinteresse collaborato alcuni studiosi della nostra Provincia14. Dieci anni dopo questo secondo tentativo del Carpentieri, la guida diventa nuovamente una priorità, questa volta per il prefetto in carica Nicola Enrico Trotta (1933-36). La monografia sulla provincia viene annunciata da un primo articolo il 19 ottobre del 1935: Innamorato della nostra terra per la quale ha speso e spende la sua opera autorevole […] il Prefetto Trotta ha preso l’iniziativa per la realizzazione di quello che finora è stato il sogno di ogni buon Irpino: una pubblicazione che faccia conoscere al resto d’Italia la nostra Provincia, nella sua storia, nelle sue bellezze, nelle sue risorse, nel poderoso contributo offerto in ogni tempo e in ogni campo dai suoi cittadini. L’idea era di realizzare non una semplice guida, ma un’opera più ampia e colta con saggi firmati dai massimi esperti negli argomenti prescelti: la storia dell’Irpinia, le caratteristiche fisiche e le bellezze naturali, la vita sociale ed economica, la viabilità, l’istruzione pubblica, le tradizioni e il folklore, l’archeologia e l’arte. Da questa prima parte a carattere generale si passava poi a quella di analisi di ogni Comune, secondo itinerari 13 A. Carpentieri, Lettera aperta a tutti gli irpini residenti fuori provincia, in Colonia e all’estero, Pergola, Avellino 1925. 14 Irpinia. Piccola guida della provincia di Avellino, Tip. Pergola, Avellino 1932. 254
Fig. 4 Ente Provinciale per il Turismo, Lâ&#x20AC;&#x2122;Irpinia Pittoresca, Avellino 1940. 255
e aree geografiche. La pubblicazione anche in questo caso prevedeva un gran numero di illustrazioni di paesaggi e panorami, opere d’arte, monumenti, località storiche, che l’avrebbero resa più attraente. Nel discorso pronunciato sulle opere svolte dal regime, il 30 maggio del 1936 durante il Consiglio generale, il prefetto Trotta riferisce i nomi dei collaboratori al volume con gli argomenti da trattare e con grande soddisfazione annuncia che alcuni degli esperti avevano già consegnato i propri saggi, nonostante i termini non fossero ancora scaduti. Il lavoro di revisione e coordinamento sarebbe stato svolto da Salvatore Pescatori, all’epoca direttore della Biblioteca provinciale15. Purtroppo dopo la scadenza del mandato del Trotta, nel luglio del ’36, si perdono completamente le notizie sulla monografia. Probabilmente il progetto si arenò nuovamente per mancanza di fondi o perché non sembrò una priorità per il nuovo prefetto Tullio Tamburini. Sempre nel 1936 inizia la sua attività, l’Ente Provinciale per il Turismo, istituito con decreto del Ministero per la Stampa e la Propaganda l’11 gennaio del 1935. Nel discorso inaugurale, pubblicato sulle pagine del «Corriere dell’Irpinia» il 14 marzo del 1936, sempre il Trotta ricorda il duplice compito che compete all’Ente: «anzitutto, quello di organo esecutivo e periferico del Ministero per la Stampa e la Propaganda, per la disciplina e il coordinamento delle attività turistiche provinciali; in secondo luogo, quello di organo dirigente e propulsore di tutto il movimento turistico e di ogni iniziativa diretta alla valorizzazione del turismo, nell’ambito del territorio provinciale». Come presidente fu nominato l’ing. Valerio Maggiorotti, affiancato da un consiglio in cui spiccano i nomi di tutti quelli che in quegli ultimi anni si erano distinti nell’organizzazione di eventi: l’on. di Marzo ideatore del Circuito Principe di Piemonte, l’avv. Capuano fondatore dello Sci Club Irpino e conseguentemente del primo rifugio a Montevergine, Gramignani organizzatore della I e della II Fiera Irpina inaugurate rispettivamente nel luglio del 1932 e del 1933. Qualche giorno dopo viene trascritto il discorso pronunciato dal presidente Maggiorotti sempre nella seduta inaugurale. La prima questione affrontata è quella finanziaria, in quanto l’Ente non sarebbe stato supportato da sovvenzionamenti da parte del Ministero e l’Irpinia, non avendo una tradizione turistica, mancava di comuni che applicavano di norma la tassa di soggiorno. Gli unici contributi obbligatori erano quelli, sicuramente esigui, dell’Amministrazione Provinciale, del Comune capoluogo e del Consiglio dell’Economia (Camera di Commercio). L’Ente da parte sua riponeva grandi aspettative sui già noti attrattori della provincia, il Santuario di Montevergine e quello di Materdomini, il lago Laceno e Bagnoli, ma anche la stessa città di Avellino con la Scuola Enologica, la scuola di Ceramica e il Museo Irpino, su questi bisognava concentrare gli interventi per migliorarne l’organizzazione turistica, la capacità di accoglienza con particolare attenzione agli alberghi. L’Ente del Turismo pubblicò nel 1940 un pieghevole Irpinia pittoresca per promuovere il territorio. La brochure riporta sulla copertina una mappa tematica della provincia con le maggiori attrazioni e produzioni, seguono fotografie di Avellino, Montevergine, segnalata sia per il Santuario che come località sciistica, e poi una sequenza di fotografie riproducenti splendidi panorami di valli ricche di acque, 15 Presso l’Archivio di Stato di Avellino è presente l’archivio privato dell’intellettuale bagnolese, donato dalla nipote nel 2014, ma ad oggi ancora non consultabile da parte degli utenti perché in fase di riordino. 256
di boschi rigogliosi, di superbe montagne. Già allora nel breve testo di corredo alle illustrazioni si scriveva: Chiuso in se stesso, fiero della sua terra e della sua famiglia, il contadino dà anch’esso, un carattere peculiare a questa provincia che, priva dei sussulti delle grandi città, è rimasta per troppo tempo sconosciuta a se stessa. La vita patriarcale trova in questi paesi la sua sede naturale e si svolge in ritmo pacato all’ombra di montagne maestose e tra il mareggiare di ampie distese a grano. L’isolamento - specie di alcune aree della provincia - e conseguentemente la genuinità di questa terra e della sua gente, già negli anni ‘40 era evidenziata come un fattore di attrazione per il turista che poteva ritemprarsi dalla vita frenetica della grande città – Napoli in questo caso – e godere della verde frescura di queste montagne, ma anche del buon cibo e della semplice, ma cordiale ospitalità della popolazione.
Bibliografia «Corriere dell’Irpinia», nn. 1-43, Pergola, Avellino 1923-1942. A. Carpentieri, «Bellezze d’Irpinia», in «Corriere dell’Irpinia», n. 32, agosto 1925. A. Carpentieri, Lettera aperta a tutti gli irpini residenti fuori provincia, in Colonia e all’estero, Pergola, Avellino 1925. A. D’Amato, Cultura regionale, critica letteraria, folklore: saggi, Pergola, Avellino 1931. Irpinia. Piccola guida della provincia di Avellino, Tip. Pergola, Avellino 1932. S. Marano, Bellezze ignote: noterelle di viaggio, tip. Nazionale, Salerno 1888; Montevergine gemma dell’Irpinia, Pergola, Avellino 1940. S. Pescatori (a cura di), L’Irpinia: i suoi monti, le sue valli e le sue tradizioni di civiltà e di cultura nel ricordo di Giustino Fortunato, Ente provinciale per il turismo, Avellino 1969. M. Severini, Irpinia sconosciuta, Pergola, Avellino 1917.
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Turismo culturale e pascolo vagante
Simona Messina
Parco Regionale dell’Appia Antica
Dal 23 al 26 novembre 2017 si è svolta a Roma, presso la sede del Parco Regionale dell’Appia Antica, patrocinatore dell’evento, la II Edizione del Seminario di Pastorizia Urbana e Periurbana, dal titolo: Esplorando il rapporto tra il patrimonio culturale, la viabilità storica e la pastorizia estensiva. La II Edizione è stata organizzata in continuità con la Prima Edizione del novembre 2016, durante la quale si è discusso delle radici storico-culturali della pastorizia estensiva di derivazione transumante e delle sue prospettive attuali nel contesto metropolitano contemporaneo, partendo da una ricerca condotta dall’autore sullo stato dell’arte della pastorizia estensiva semibrada nell’Agro romano, supportata da una lettura critica di alcune esperienze italiane ed Europee di pastorizia urbana. Alla Seconda Edizione hanno partecipato studiosi e ricercatori di alto profilo scientifico, nonché rappresentanti di istituzioni e amministrazioni locali provenienti dall’Italia, dalla Spagna (Tenerife, Isole Canarie) e dalla Svezia. L’edizione 2017 è stata occasione di approfondimento per quanto riguarda le forme di transumanza praticate in Italia, Svezia e Spagna e le loro interazioni con il territorio, con particolare attenzione all’individuazione dei tracciati di percorrenza, del loro recupero fisico e delle possibili strategie di riuso e rifunzionalizzazione. Il tema trattato presenta una felice continuità con il tema che la Scuola Estiva Emilio Sereni ha proposto la scorsa estate, dedicando l’Edizione al turismo rurale come forma di promozione del territorio. Si è immediatamente rilevata una straordinaria convergenza di interesse con i temi trattati a Roma, particolarmente nell’esplorazione dei possibili e potenziali legami tra paesaggio, patrimonio culturale e turismo, meritevole di essere approfondita.
Per un progetto di Rete degli itinerari di Transumanza Europea Allo scopo, a conclusione del II Seminario romano, si è costituito un gruppo internazionale di lavoro al quale hanno aderito alcune istituzioni di Tenerife (Spagna), Svezia e Italia, con l’obiettivo generale di esplorare le relazioni tra i cammini storici legati alla transumanza e la potenziale offerta turistica, ponendosi come obiettivo di 259
medio termine la candidatura presso il Consiglio d’Europa di una Rete di Itinerari della Transumanza Europea. La premessa culturale di questo progetto risiede nell’assunto che la pastorizia tradizionale estensiva, semi-brada e transumante, sia un elemento culturale fondativo che attraversa tutta la civiltà europea. Questa antica forma di uso estensivo del suolo è in effetti una perfetta risposta adattativa dell’uomo a particolari condizioni ambientali ed ecologiche, nonché, si potrebbe dire, la conferma antropologica che l’uomo sia emerso dalla natura attraverso il lavoro1. In funzione di questi fattori si è evoluta l’interazione con il territorio e conseguentemente le strategie produttive della tradizione, che hanno originato forme e modalità differenti di pascolo vagante. Alcune di queste forme sono state individuate in riferimento ai Paesi che aderiscono al suddetto Progetto di Rete: nell’Isola di Tenerife, la cui fisionomia e morfologia sono fortemente caratterizzate dalla presenza del vulcano Teide, che si innalza di oltre i 3000 metri sul livello del mare lasciando poco margine alla fascia costiera, la forma di movimentazione degli animali consolidata nel tempo è la monticazione, ovvero lo spostamento di breve periodo tra le piane salmastre della costa e le stazioni di pascolo sulle pendici del Teide; in Svezia la pastorizia estensiva assume forme diverse tra il meridione, dove il carattere è prevalentemente semi-stanziale, con necessità di ricoverare gli animali durante l’inverno a causa della rigidità delle temperature, e il settentrione, dove le comunità nomadi dei Sami, tradizionali allevatori di renne, animali tuttavia semi-selvatici, praticano la transumanza in un ampio territorio semi desertico ai margini del Circolo Polare Artico. Infine, in Italia per secoli si è praticata con grande esito, la transumanza orizzontale appenninica, quella che dai pascoli invernali delle grandi pianure costiere muoveva ogni stagione migliaia di capi verso i freschi pascoli estivi montani seguendo itinerari e tracciati codificati attraverso i millenni.
Transumanza e turismo rurale In effetti, i percorsi della transumanza offrono un patrimonio di cammini tradizionali, che attraversano territori interni, divenuti marginali a seguito della progressiva decadenza dell’economia rurale a vantaggio dell’economia industriale urbanizzata. La pastorizia e il pascolo vagante rappresentano un patrimonio etnografico ricchissimo, legato a determinati territori rurali e alle comunità che da sempre li hanno abitati, inesorabilmente destinato all’oblio a causa del progressivo spopolamento e della perdita delle pratiche legate a saperi tramandati, di cui ormai rimangono depositari pochi testimoni. La conservazione di tale eredità costituisce un obbligo culturale e al contempo rappresenta una opportunità di rilancio sociale ed economico dei territori d’origine. Come evidenziato da recenti studi e ricerche antropologiche2, le pratiche economiche 1 G. Angioni, Il sapere della mano, Sellerio, Palermo1986. 2 Su questi temi cfr. gli scritti dell’antropologa Anna Rizzo, che da tempo studia la comunità residuale del borgo di Frattura in Abruzzo; in particolare vedi l’ottimo contributo da lei portato al convegno: Transumanza. Popoli, vie e culture del pascolo, dedicato alla transumanza e alla 260
locali, spesso presenti in forma residuale, sono legate al territorio e allo sfruttamento delle risorse che la natura offre. Emerge come, laddove non siano mai state del tutto interrotte tali pratiche, originarie e fondative della comunità che le rappresenta, sia stata assicurata la continuità identitaria e la sopravvivenza della comunità stessa, nonostante le calamità naturali, il calo demografico o la marginalità economica. Questa accezione si giova delle tesi antropologiche della cultura del ricordo3, intesa come fonte di continuità e di legami identitari per le comunità di afferenza. Allo stesso modo, la memoria culturale preserva elementi della tradizione che altrimenti andrebbero perduti, cancellati dal tempo che passa. Tanto il ricordo individuale che la memoria culturale hanno bisogno di monumenti, luoghi e simboli, quali elementi su cui consolidare l’identità collettiva, attraverso cui lasciar fluire e rendere accessibile il portato narrativo dei luoghi. Da queste considerazioni si può desumere un prezioso indirizzo strategico per la promozione del ritorno verso i territori e le attività liminari, orientato ad azioni volte alla riattivazione degli aspetti funzionali e delle leve culturali del territorio. Lungo i tracciati della transumanza si offrono spontaneamente potenziali attrattori di natura archeologica, etnografica, ecologica, culturale e gastronomica, attraverso cui è possibile ricostruire una memoria, ovvero esplicitare una narrazione, con cui ogni visitatore può interagire individualmente, in funzione del proprio retroterra culturale e delle proprie inclinazioni. É questo, in effetti, il fondamento del turismo cosiddetto esperienziale, verso cui sempre più si orienta una parte consistente della cultura urbana volta alla ricerca di una interazione individuale e personale con i luoghi di visita, le loro tradizioni, i simboli, la storia, la cultura, il contesto ambientale e paesaggistico, le produzioni locali tipiche, l’artigianato tradizionale. La consapevole messa a sistema di questi molteplici fattori può facilmente incontrare la domanda crescente posta dall’aspirazione a forme alternative di turismo attratte dalla specificità dei luoghi, con cui cercano un contatto non mediato da terzi. Contrariamente al turismo intensivo, in cui tutto è organizzato altrove e assolutamente indifferente al contesto, il turismo esperienziale, che nell’ambito delle lingue anglosassoni è definito con felice espressione creativo (creative tourism), ricerca nei luoghi visitati una esperienza individuale e soggettiva. É questo un turismo di impronta leggera, che non produce trasformazioni irreversibili del territorio, predilige per i propri spostamenti mezzi di trasporto a basso impatto ambientale e strutture locali per il soggiorno, favorendo così forme di ricettività diffusa che possono essere direttamente gestite da operatori locali. Occorre ricordare come anche questa forma di ricettività abbia bisogno di un orientamento strategico di ampio respiro, per evitare il rischio di innescare una mera conservazione degli aspetti folkloristici esteriori dei luoghi, occultando viceversa una radicale trasformazione e la definitiva perdita del genius loci. Il fenomeno è noto per essere in corso in alcuni centri storici, che ormai rischiamo di conoscere solo cultura pastorale dalla preistoria ai nostri giorni, svoltosi a Roma il 4 e 5 maggio 2018 presso il Museo delle Civiltà Preistorico Etnografico L. Pigorini, nell’ambito di Archeofest, V Edizione del festival di archeologia sperimentale. 3 J. Assmann, Das kulturelle Gedächtnis. Schrift, Erinnerung und politische Identität in frühen Hochkulturen, C.H. Beck, München 1992. 261
attraverso fenomeni generalizzati come gli affitti temporanei promossi dai privati attraverso piattaforme virtuali, che fanno in realtà capo a strutture sovranazionali indifferenti, specularmente a quanto avviene con le strategie di turismo intensivo. Tralasciando per il momento di questo aspetto, che sarà opportuno tenere ben presente nelle fasi progettuali, si ritiene che il turismo esperienziale possa offrire molte opportunità in relazione al fenomeno della transumanza, ai suoi itinerari consolidati nel tempo e al suo portato culturale. In effetti, la transumanza è per sua natura itinerante, basata sullo spostamento stagionale di uomini e animali o, in alcuni casi, di periodo più corto se non addirittura giornaliero. Lungo i suoi tracciati si sono sviluppati insediamenti umani, legati a funzionalità produttive o alla sosta e al ricovero temporaneo, che in molti casi sono diventati stabili, originando città nella cui struttura urbanistica e paesaggistica è ancora possibile individuare caratteri fondativi comuni4. Le pratiche di allevamento prevedevano la necessità di luoghi di stazionamento e di mercato o l’accesso a riserve di sale e acque sulfuree indispensabili per la cura periodica degli animali. In questi luoghi venivano posti dei segni o edificati santuari, in cui, l’assolvimento degli aspetti funzionali dell’allevamento e della pastorizia assumeva significato simbolico, cultuale e religioso5.
Alcune esperienze virtuose I Paesi afferenti al progetto di Rete sopra menzionato, hanno intrapreso alcuni felici progetti volti a coniugare le risorse locali delle aree più marginali con forme di turismo diffuso e sostenibile, che meritano di essere menzionati. La Spagna a partire dagli anni 1990 con il progetto nazionale Red de las Vias Pecuarias ha già fatto molto in termini di valorizzazione della rete interregionale storica dei propri itinerari di transumanza, supportata sul piano istituzionale da un mirato intervento legislativo, con cui viene riconosciuta alla rete dei tracciati di transumanza la qualità di patrimonio culturale pubblico. In particolare, a Tenerife è stata celebrata quest’anno la XIII edizione della Ruta del Camino del Hermano Pedro6, un’esperienza attiva di filiera conoscenza-tutela-valorizzazione che si svolge annualmente con il patrocinio dei comuni locali e delle istituzioni universitarie. L’evento consiste nella riproposizione in chiave di turismo escursionistico e pellegrinaggio di fede di uno degli antichi tracciati della rete di percorsi di transumanza verticale che solcano i versanti dell’Isola, presumibilmente percorso tra il XV e il XVI secolo da Hermano Pedro, per spostare il suo gregge dal litorale ai pascoli d’altura. Il tracciato, lungo circa 20 chilometri, unisce il villaggio di Vilaflor de Chasna, situato sul versante meridionale 4 S. Messina, Il Paesaggio del Morso. Integrazione dei pascoli residuali nel contesto periurbano contemporaneo, Parco Regionale Appia Antica, Roma 2016. 5 B. Frizell Santillo, La lana la carne il latte. Paesaggi pastorali tra mito e realtà, Pagliai, Firenze 2010. 6 Figura storica di pastore locale vissuto nel XVI secolo, emigrato in Guatemala dove si avvicinò alla Chiesa, generando un collegamento culturale fortissimo tra l’isola di Tenerife e il Guatemala. 262
Fig.1 Tenerife, Ruta del Camino del Hermano Pedro, XII Edizione aprile 2017. In primo piano un vecchio pastore che in occasione dell’evento ripercorre il tratturo in compagnia di una pecora Pelibuey (Foto S. Messina 2017)
Fig.2 Svezia, progetto Grace. Animali al pascolo estivo sull’Isola di Härön. (Foto S. Messina 2017) 263
di Tenerife a circa 1400 metri sopra il livello del mare, con la grotta in cui Hermano Pedro, stazionava con le sue capre nell’immediato retro-duna della costa meridionale della Montaña Roja. In occasione di questa festa il territorio interno, normalmente escluso dai consueti itinerari turistici, viene riscoperto dal pubblico dei camminanti, che si attardano lungo il percorso, alloggiando nei piccoli villaggi e ristorandosi presso i guachinche7 piccole osterie a gestione familiare di antichissima tradizione, in cui si possono gustare prodotti della tradizione rurale locale, preparati al momento con ricette tramandate oralmente e che infatti differiscono spesso da osteria a osteria. Nella Svezia meridionale, nelle isole dell’Arcipelago Occidentale, sono stati avviati con successo progetti di restauro del paesaggio di habitat semi-naturali rari in cui lo strumento di gestione è proprio il pascolo stagionale estensivo, tra cui in particolare il progetto Grace8, per l’Isola di Härön per il recupero e la conservazione delle brughiere a erica. Su queste aree sono stati istituiti regimi di protezione che incentivano gli allevatori e facilitano l’accesso turistico, offrendo una attrattiva che produce ricadute positive sulle economie locali. Dello stesso segno l’esperienza privata condotta sull’Isola di Pilane che è stata trasformata dal proprietario, con la collaborazione delle autorità locali, in un museo stagionale all’aperto di consolidato successo, che rievoca e reinterpreta la tradizione rinascimentale fantastica dei Giardini di Bomarzo, offrendo così al proprietario la possibilità un introito aggiuntivo grazie ai visitatori, che gli permette di mantenere l’allevamento estensivo tradizionale di pecore di razza autoctona molto belle e inclini al contatto col pubblico, le quali pascolando tra le sculture contribuiscono alla suggestione paesaggistica dei luoghi. Anche in Italia esistono alcune isolate esperienze legate alla rivisitazione di tradizioni locali, come l’iniziativa della ormai famosa Carmelina Colantuono, che in Molise ha trasformato l’inizio della transumanza in una festa pubblica e in un’occasione di turismo partecipato che fornisce una risorsa economica – ancorché occasionale – al turismo locale. In questa direzione si annoverano anche progetti innovativi e sperimentali di condivisione, come il Progetto Pasturs, promosso in collaborazione con il Parco delle Alpi Orobie bergamasche, che propone una forma di turismo consapevole in cui gruppi selezionati di volontari trascorrono le proprie vacanze estive in alpeggio, fornendo in cambio di vitto e alloggio manodopera per l’accudimento del bestiame o per la produzione del formaggio. Se adeguatamente supportate da una visione strategica, queste forme di turismo alternative al turismo intensivo possono effettivamente offrire un efficace strumento per la promozione dei territori marginali, ordinariamente esclusi dalle mete consuete, favorendo così il rilancio delle produzioni locali e delle potenzialità economiche del territorio, nel rispetto delle caratteristiche ambientali e dell’eredità culturale dei luoghi.
7 Guachinche sono chiamati i primi colonizzatori dell’isola, che giunsero dal Marocco portando al seguito le loro pecore, da cui discende l’attuale razza ovina Pelibuey, considerata rappresentativa dell’isola. 8 Attuazione del Progetto Life Grace per il restauro degli habitat rari, elaborato tra novembre 2010 e aprile 2016 per le regioni svedesi di Västra Götaland, Halland, Blekinge e Stoccolma, finanziato con fondi europei. 264
Bibliografia e sitografia E. Agazzi, V. Fortunati (a cura di), Memoria e saperi: percorsi transdisciplinari, Universale Meltemi, Booklet Milano, 2007. https://books.google.it/books?id=oVO5ttKNTIwC&pg=PT131&lpg=PT131&dq =cultura+del+ricordo+Assmann+1992&source=bl&ots=OutEf5dhS5&sig=53Lkga7 DHYSxPRGmNGlDpTxwZNo&hl=it&sa=X&d=0ahUKEwjEyZzuicTbAhVIBsAKH dSkDTgQ6AEISDAD#v=onepage&q=cultura%20del%20ricordo%20Assmann%20 1992&f=false G. Angioni, Il sapere della mano, Sellerio, Palermo1986. J. Assmann, Das kulturelle Gedächtnis. Schrift, Erinnerung und politische Identität in frühen Hochkulturen, C.H. Beck, München 1992. B. Frizell Santillo, La lana la carne il latte. Paesaggi pastorali tra mito e realtà, Pagliai, Firenze 2010. S. Messina, Il Paesaggio del Morso. Integrazione dei pascoli residuali nel contesto periurbano contemporaneo, Parco Regionale Appia Antica, Roma 2016.
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Agriturismo tra territorio e impresa Il caso Apella in Lunigiana La famiglia Maffei dell’Agriturismo Montagna Verde Fabrizio Frignani
Docente e geografo public historian
Barbara Maffei
Titolare dell’agriturismo Montagna Verde
Apella ed il suo territorio non possono essere semplicemente descritti, ma vanno raccontati in quanto custodi e testimoni silenziosi delle storie di tutte le persone che hanno vissuto questi luoghi e contemporaneamente costruito un paesaggio che per lungo - troppo tempo - non ha potuto mostrarsi in tutta la sua bellezza. Una bellezza, un fascino nei quali si può leggere la fatica, la perseveranza, la maestria delle popolazioni di montagna nel sapere governare un territorio difficile, duro, aspro, che non regala niente. Ciglioni, gradoni, muretti a secco (elementi paesaggistici più volte narrati da Emilio Sereni) hanno permesso di strappare alla montagna porzioni di terreno pianeggianti o più semplicemente addomesticate, sulle quali queste genti hanno sviluppato un’agricoltura di sopravvivenza, ma che permetteva di mantenere contemporaneamente la famiglia e in vita questo patrimonio territoriale.
Fig. 1 Alpella abbandonata, foto d’epoca. 267
Non esistono fonti testuali di questo sapere, il testo è lì nel paesaggio, scritto con un linguaggio difficile da tradurre in quanto privo di grammatiche e solo l’osservazione attenta permette di percepirne i segni lasciati dall’uomo. Tratti che, messi in relazione tra loro e contestualizzati nel luogo, diventano le parole tutte da leggere, di quello specifico spazio geografico. Tutto ciò è rimasto in vita fino a quando, non vedendo più futuro, padri di famiglia prima, intere famiglie poi, sono scese verso la costa dove l’estrazione del marmo, l’industria chimica ed il turismo, hanno portato lavoro ed un’economia che ha permesso a più persone di migliorare la qualità della vita. Terra di Lunigiana, un territorio severo, che ha sempre visto la presenza dell’uomo fin dai tempi più antichi; ne sono traccia le enigmatiche stele rappresentazioni di una cultura antichissima pezzi di roccia dalle sembianze umane maschili e femminili; le antiche vie di collegamento commerciale che attraverso i passi appenninici mettevano in comunicazione l’Emilia con la Toscana, il Nord con il Sud, il Po con il mare Tirreno; la via Francigena, cammino di pellegrinaggio dai forti significati simbolici, una prima autostrada culturale, di scambio, conoscenza, tra popoli che inconsapevolmente stavano gettando le basi della futura Europa. Apella si trova nel comune di Licciana Nardi, porta (Sud) del Parco Nazionale dell’Appenino Tosco emiliano. Salendo da Licciana verso il Passo del Lagastrello, le valli cambiano fisionomia, diventano più accentuate, tutto è più verticale; per arrivare ad Apella si lascia la valle del Rio Taverone e si risale la valle del Rio Taponecco. Una valle piccola, stretta, corta, delimitata da quattro cime non elevatissime, il M. Cavallino (1196 m), il Tecchio dei Merli (1644), il M. Losanna (1856), il M. Bocco (1856), questi ultimi due sono posti sul crinale dell’Appennino Tosco Emiliano ed in autunno sono spesso l’affaccio delle prime nevi che guardano il mare, proprio a rendere ancora più magico questo luogo. Una valle, quella del Rio Taponecco, avvolta da una coperta fatta con le chiome dei castagni, dall’alto o da lontano non si può percepire cosa ci sia sotto quella coltre che cambia colore secondo le stagioni. Solo i tetti delle case di due piccoli ma caratteristici borghi emergono con il loro colore rosso dei coppi o, più raramente, il colore grigio nerastro delle tradizionali piagne di roccia. Percorrendola si possono vivere momenti unici, dove si percepisce il fascino del tempo che si è fermato o per lo meno sembra aver preso una pausa dal mondo frenetico sempre più accelerato appena lasciato alle spalle abbandonando la strada Provinciale 74 (Massese) che porta al lago ed al passo del Lagastrello (Paduli). Sotto le chiome, una fitta rete di vecchie strade dal fondo sconnesso, delimitate dalle radici antiche di qualche castagno e da muretti a secco in pietra ricoperti dal muschio e da una vegetazione minuta, emerge dal bosco disegnando una trama che evidenzia la presenza antica e vera dell’uomo ed indica visivamente al camminatore-viandante una via, che diventa conosciuta solo man mano che la si percorre, perché i tronchi e le chiome dei grandi castagni secolari non permettono di allungare lo sguardo in un orizzonte aperto. Si cammina in un mondo dal silenzio assoluto quasi irreale, dove ognuno può isolarsi, pensare e scoprire quel qualcosa che altrove non esiste più. Il vecchio ponte che attraversa il Rio Taponecco sembra irreale, pensato da un autore di fiabe o di un film di fantasy; è li sospeso con un’unica arcata che appoggia su due pilastri che da tantissimo tempo resistono all’impetuosa forza dell’acqua che scorre giù in fondo. 268
Non ci sono protezioni sulle sue spalle, l’unica sicurezza è una traccia libera dall’erba che indica dove altri sono già passati, perfettamente nel mezzo, perché non si può guardare di sotto, laggiù le acque calme e limpide possono trasformarsi in un qualcosa che mette paura, anche perché nell’orrido questo scorrere impetuoso può trasformarsi velocemente da melodia gradevole in un rumore assordante, la vera voce della forza della natura. Sentieri e luoghi che sono stati percorsi prima da personaggi importanti della storia del Risorgimento italiano come Biagio e Anacarsi Nardi, dopo, durante la resistenza, dai partigiani dei due battaglioni della Brigata Garibaldi Leone Borrini, guidata dal Comandante Francesco Isola Tino e dal Commissario Giovanni Giampietri Primo. Dopo un lungo periodo di una storia comune a tantissimi borghi di montagna, dove è prevalsa l’emigrazione con il conseguente abbandono progressivo del luogo ed il ritorno del selvaggio, con i fabbricati che crollano e si trasformano in rovine, ad Apella, intorno agli anni ‘90 del Novecento, succede qualcosa che ne consentirà la rinascita. Nel 1995 la famiglia Maffei comincia a scrivere una nuova storia di questo territorio. Una visione, un’idea, la consapevolezza che quel luogo non più vivo, poteva rinascere, producendo economia, distribuendo reddito, con un nuovo modo di concepire il turismo, partendo proprio dalla storia di quel luogo, ridando e facendo riscoprire nel contesto generale quei valori sociali, culturali, antropologici, paesaggistici, dimenticati nel tempo, ma ancora presenti sotto le macerie, tra le rovine, sotto le chiome dei castagni. In realtà la capacità imprenditoriale di questa famiglia, non è sufficiente a spiegare il successo di Montagna Verde, si deve andare ben oltre; in tutto questo processo di riscoperta di un borgo-luogo, i Maffei erano e sono legati con una grande passione confidenziale, affettiva, a questo territorio, ai suoi contenuti, alla sua storia, alla sua gente.
Fig. 2 Parte dell’edificio limitrofo alla torre (foto d’epoca) 269
Questo legame ha fatto sì che fin dall’inizio la visione dei proprietari dell’agriturismo diventasse una sperimentazione attiva di quanto oggi è chiamato turismo sostenibile. La cultura di questa gente montanara ha radici profonde e forti nel terreno che da loro da vivere e sostentamento, il rispetto del territorio, degli elementi naturali, dei tempi della natura, la convivenza in questo contesto ambientale paesaggistico, porta per forza di cose a sviluppare comportamenti sostenibili. Prima il recupero dell’antica Torre di Apella (XIV sec., su un probabile impianto risalente al 1187. Davide Frediani), poi il successivo restauro di alcuni fabbricati del borgo, hanno sempre visto questa famiglia cercare nella cultura locale, nelle storie narrate dagli anziani, ciò che poteva essere utile per ricostruire con le tecniche tradizionali. Questo è sicuramente un momento importante, perché la volontà di sviluppare l’attività imprenditoriale non passa attraverso una semplice ricostruzione o peggio una costruzione ex novo di volumi dove svolgere l’attività ricettiva, ma è passata attraverso un’idea molto innovativa per l’Italia, si parla di albergo diffuso. Utilizzare quello che è già esistente, creare nuovi spazi dentro spazi già occupati, dove sono state vissute storie famigliari di altri tempi che si connettono con le storie dei turisti, creano curiosità. L’albergo diffuso, un idea innovativa, dove non si toglie, ma si recupera per non dimenticare, per non arrivare all’oblio. Un esempio che può permettere alla maggior parte dei piccoli borghi di montagna di rivivere e ritornare ad essere abitati, in quanto il turista può entrare nel luogo e vivere emozioni diverse dal quotidiano, leggere le storie che i muri raccontano. Il borgo riaperto ridiventa uno spazio vissuto, un’avanguardia al degrado del territorio. Riportando persone in un luogo abbandonato, quel luogo diventa un patrimonio e come tale ce se ne prende cura. Si ricomincia a guardare nel contesto spaziale, intorno solo castagneti abbandonati, ma il castagno è sempre stato una risorsa, perché non potrebbe esserlo
Fig. 3 La torre risalente al XIV secolo allo stato di abbandono (foto d’epoca) 270
di nuovo? Si ripuliscono i castagneti, si riaprono le strade di servizio, si risistemano muretti e ciglioni, le acque meteoriche ritornano ad essere governate, il castagneto rinasce. Il patrimonio comunitario di questo territorio, che sono i boschi, i terreni, le acque, ritornano ad essere governati. Questo non è un bene solo per i locali, ma è un bene (patrimonio) anche per le popolazioni che abitano giù in valle. Apella ritorna a vivere, molte case vengono ristrutturate e destinate ad ospitare i turisti, altre rimarranno rovine, forse non belle da vedere, ma affascinanti perché sono testimonianza dell’abbandono, un segno del tempo andato, la realtà vissuta dal borgo. Allora, attraverso una fessura, uno scuro semiaperto, una porta socchiusa che si apre, chiunque può cercare quel qualcosa che incuriosisce, un oggetto qualsiasi che racconta una storia di cui il turista non conosce niente, ma che potrebbe permettergli, ricollocando l’oggetto nella propria storia, di rivivere un pezzo della propria vita. Una storia personale che si arricchisce tramite le esperienze che avvengono. Le rovine sono lì a raccontare il fenomeno dell’emigrazione, che ha visto questa gente prima andare sulla costa toscana o ligure, poi cercare fortuna anche all’estero. Infatti, il problema del recupero è proprio legato alla difficoltà di ritrovare tutti ed i tanti eredi, che possono rivendicare il diritto di proprietà. Questo è un problema per il recupero generale del borgo, così anche di tutti questi luoghi dimenticati nel tempo, ma legati con il diritto di proprietà agli uomini. Ad un certo punto della nuova storia di Apella, arriva il Parco Nazionale dell’Appennino Tosco Emiliano, anche in questo caso questi imprenditori capiscono che il parco, che a molti fa paura in quanto è abitudine associare parco a monumentalizzazione, parco a difesa ad oltranza della natura e l’uomo relegato ad osservatore, può essere un’opportunità. Una abitazione viene trasformata in centro visita del parco ed ospita anche il museo di Casa Nardi, dove sono state raccolte le
Fig. 4 La torre come si presenta oggi (foto F. Frignani) 271
storie di questo luogo che, raccontate, tornano a vivere e lottano contro l’oblio. Il turista che ascolta capisce che sta vivendo in un luogo autentico e che permetterà a queste storie di rivivere, storie che allo stesso tempo sono una parte degli attrattori. La narrazione è il recupero e la trasmissione delle tradizioni. I turisti vivono il luogo, ma vivono anche l’agriturismo; oltre alle passeggiate nei castagneti è possibile imparare a vivere con il territorio; conoscere gli animali e le specie vegetali tipiche della tradizione delle terre di Lunigiana, pecore di Zeri, animali da cortile, frutti scomparsi; si possono ammirare ma anche studiare nel bioparco della biodiversità. è questo un altro patrimonio dell’azienda che viene concesso al pubblico per un uso didattico educativo, ma soprattutto per trasmettere memoria. Altro obiettivo è il cibo biologico a chilometro zero, forse una delle sfide maggiori, in quanto si deve portare avanti una filosofia culinaria legata alla stagionalità e a quanto il territorio può dare. Una proposta difficile perché comunque, per produrre piatti anche belli ed eleganti, servono tanti prodotti. Questa criticità è stata superata coinvolgendo nel progetto e nella vision anche la comunità produttiva circostante. Tra l’altro, si può affermare che la crescita culturale esperienziale, di chi trasforma questi prodotti a chilometro zero in piatti prelibatissimi, ha fatto sì che, mentre un tempo i ristoratori erano coloro che davano da mangiare a chi passava da quel luogo, oggi questi cuochi (artisti) sono a loro volta attrattori, un valore aggiunto al paesaggio e all’ambiente. Sicuramente ci troviamo di fronte ad una nuova visione e percezione del concetto e di valore di un luogo. Essendo parte del parco, questo territorio viene automaticamente inserito in un’area Mab Unesco. Limite o altra opportunità? L’area Mab (Man and Biosphere) in realtà nasce sull’altro versante a Nord dell’Appennino, quello della fascia climatica continentale dove si ferma la neve, di qua a Sud c’è il clima mediterraneo, c’è sempre una temperatura mite anche in inverno, non a caso ad Apella si coltivano gli olivi per produrre un olio dalle caratteristiche particolari, per il fatto che è una coltivazione di olive tra le più elevate, altimetricamente parlando, in Italia. Ma perché un territorio diventa area Mab? Principalmente perché in esso vi si trova una ricca biodiversità, perché tra la gente sono ancora ben radicate le tradizioni culturali, sociali, antropologiche, perché queste tradizioni sono ancora vive e rendono attivo quel territorio, perché vi sono esempi unici al mondo di identità di appartenenza, di comunità, che generano un valore aggiunto al territorio. Territorio che ha permesso di tramandare nel tempo i mestieri antichi e la sapienza per produrre prodotti tipici unici al mondo. Un mondo rurale, caratterizzato da un paesaggio umanizzato, dove è possibile ancora vedere greggi di pecore nelle praterie in alta quota ed i boschi gestiti in forma comune regolamentati dagli usi civici. Un territorio gestito da un’altra democrazia, quella dove la comunità (i cittadini tutti) ha il diritto di uso del bosco e del pascolo ed in cooperativa i prodotti vengono trasformati e venduti al turista o nei diversi punti vendita; borghi dove la comunità produce ancora il pane per tutti e non solo. Allora l’area Mab è sinonimo di un giusto modo di governare il territorio e l’obiettivo primario diventa quello di sviluppare economicamente il territorio, ma contemporaneamente bisogna educare al mantenimento di questo delicato equilibrio che ha permesso di raggiungere un tale obiettivo. Le aree Mab nel mondo sono ad oggi circa 700, al centro di esse c’è e deve esserci l’uomo, che ha imparato a vivere in modo sostenibile con tutto ciò che lo circonda. 272
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Però una domanda viene spontanea. Queste attività produttive, come l’Agriturismo Montagna Verde, le Coop di Comunità di Succiso Valle dei Cavalieri, ed i Briganti del Cerreto, che ruolo hanno avuto in questa partita della Mab Unesco? Sicuramente sono stati attori attivi e principali, perché sono l’esempio che un territorio può essere tutelato e contemporaneamente produrre economia-reddito, può attirare turisti, può svilupparsi senza realizzare progetti faraonici sfruttando tutto ciò che è già presente, che ha ed è già storia, che deve solo essere riscoperta e riletta con occhi diversi da quelli imposti da un’economia spregiudicata consumistica del mordi e fuggi. La realtà economica dell’Agriturismo Montagna Verde è sorretta da obiettivi e numeri che vengono realizzati attraverso azioni mirate e specifiche nel contesto. Dalla relazione centro visita 2017: Obiettivi: sviluppo di un turismo sostenibile e di un’agricoltura biologica, a mantenimento del paesaggio rurale circostante. Azioni: ospitalità: camere e appartamenti, agriturismo albergo diffuso, azienda agricola biologica coltivazioni su piccola scala: produzione di farina di castagne DOP, miele, ristorazione, menu km 0, tutto viene prodotto nell’azienda orti giardino e carne allevata allo stato brado, educazione attraverso il bioparco, aumentare la ricettività, aumentare l’uso delle energie rinnovabili, gestire un bene pubblico il territorio con i castagneti per un totale di circa 600 Ha tra proprietà ed affitto.
Dati economici L’Agriturismo Montagna Verde ha chiuso l’anno 2017 con un bel risultato in termini di andamento turistico. L’annualità appena scorsa per il centro Visita di Apella, dal punto di vista dei flussi turistici, ha infatti evidenziato una crescita significativa di arrivi e presenze associata, oltre che a un generale miglioramento del movimento turistico nella Lunigiana nell’anno in oggetto, anche a un aumento della capacità ricettiva della struttura dovuta a un potenziamento dell’Agriturismo in termini di alloggi collocati nel borgo. Questo ha comportato un incremento di offerta secondo la modalità di ospitalità diffusa, che è risultata di interesse crescente. Dal punto di vista dell’analisi dei flussi, si evidenzia una buona presenza di turismo straniero, che si attesta intorno al 30% in arrivi e 45 % in presenze. In termini di nazionalità, il segmento Nord Europa – Europa Centrale (Danimarca Svezia Norvegia Finlandia Polonia Olanda Belgio Germania e Francia) risulta quello maggiormente interessato all’offerta del nostro centro visita, con picchi nel mese di luglio quando la proporzione tra turismo straniero e italiano è del tutto invertita, con soggiorni hanno una durata media di 5 notti. Rimane comunque maggioritaria sull’annualità la presenza del turismo italiano con capofila le regioni settentrionali, in particolare la Lombardia.
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FLUSSI TURISTICI UFFICIALI CENTRO VISITA APELLA (COMPLESSI TORRE+BORGO) arrivi totali ospiti
arrivi ospiti stranieri
arrivi ospiti italiani
presenze tot. ospiti
presenze ospiti stranieri
presenze ospiti italiani
2015
1200
350
850
4300
1750
2550
2016
1753
493
1260
5238
2541
2697
2017
2721
796
1925
7665
3425
4240
Tab. 1 Tabella dei flussi nelle ultime tre annualità.
Negli ultimi anni, al crescere dell’offerta turistica, si è registrato anche un aumento del numero degli impiegati nell’azienda: 2017 Soci/Partners N°24: 4 Aziende Agricole – Farms 20 Persone-People (Local People) 2017 Dipendenti non soci/Employees N° 23: 15 Donne/Women – 8 Uomini/Men 2017 Residenti ad Apella/ Resident Citizens in Apella N° 7 2017 N° Dipendenti under 35 / Employees under 35: N°9 - 39% 2017 N° Dipendenti residenti in Lunigiana / Employees resident in Lunigiana: 78% Aziende socie – Partener Farms : MUTUALITA’ PREVALENTE - PREVALENT MUTUALITY; Oltre 80% prodotto da fornitori soci e locali / over 80% products come from local and partner farms Il Centro Visita nel corso del 2017 ha sviluppato un calendario eventi molto ricco di iniziative volte a valorizzare la biodiversità del territorio, mettendo, dove possibile, sempre in luce l’appartenenza a un luogo riconosciuto dal giugno 2015 RISERVA BIOSFERA APPENNINO MAB UNESCO. L’Agriturismo a dicembre 2017 ha fatto richiesta formale di adesione al BRAND I care Appennino e ha promosso l’evento sulla Valorizzazione della Castagna Carpinese, collaborando sinergicamente con l’associazione Castanicoltori della Garfagnana e della Lucchesia Apella adesso non vede più emigrare le persone, ha cambiato fisionomia, non è più un luogo residenziale, ma è diventato un luogo dove la gente arriva e vi soggiorna per vivere una nuova esperienza. Un luogo ripensato. Gli utilizzatori sono altri, non ci sono più le famiglie che hanno cercato fortuna altrove, coloro che sono migrati con dignità e si sono dispersi nel mondo fanno parte di un altro tempo, però le loro storie 275
sono in quel che resta delle loro case, nei muri che raccontano, in attesa forse anche di potere ri-narrare le storie di queste genti. Oggi i fruitori sono altri che cercano in questo particolare turismo di nicchia qualcosa di particolare, arrivano incuriositi dopo avere consultato il web, conoscono vivendolo attivamente il luogo, vivono emozioni, apprendono le conoscenze e l’eredità culturale di un tempo che, sapientemente, gli operatori servono come quel valore aggiunto intrinseco, in modo esclusivo ed unico di queste terre, di questa area Mab. Chi va via da Apella, non è più il migrante, ma è una persona, una coppia, un nucleo famigliare che non racconterà di un luogo dove non c’è niente, dove non ci sono opportunità, ma racconterà di un posto speciale, unico, dove si possono vivere esperienze indimenticabili, dettate e costruite esclusivamente sul valore del paesaggio e degli uomini che lo hanno modellato. Allora i confini geografici di Apella, ma anche quelli dell’area Mab e delle piccole comunità rurali che vivono su questo territorio, non sono più limitati dalla valle del rio Taponecco, ma si espandono fino al luogo dove il turista vive abitualmente. Con esperienze imprenditoriali come Montagna Verde o le cooperative di comunità, attraverso i turisti si producono nuove relazioni, nuove mappe geografiche con nuovi confini amministrativi. Con queste iniziative si aprono nuovi rapporti con la geografia politica e fisica del mondo; queste località sconosciute diventano un riferimento nel planisfero, diventano note, semplicemente attraverso il racconto dei turisti stessi che narrano la loro esperienza. Ecco perché Apella non si può descrivere. Apella va raccontata perché tutto vive e rivive intorno alla narrazione. Raccontare permette di guardare anche nel non definito, nell’irreale nell’immaginario, permette di sognare e credere nei sogni. Si entra a fare parte di altre storie legate a quei luoghi, si fanno conoscere luoghi dove si può re-imparare a vivere con più semplicità.
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Del paesaggio agrario in Terra di Lavoro I Regi Lagni e la Real tenuta di Carditello
Gaetano Andreozzi
Dottore in Architettura, Università della Campania L. Vanvitelli
I regi lagni allo stato attuale Tutta l’area compresa tra il comune di San Tammaro ad est, i monti Tifata a nord, e i Regi Lagni a sud racconta di una ricchezza culturale remota e pur ancora presente che possiamo ritrovare nei resti di opere di centuriazione risalenti all’antica Roma e nelle testimonianze archeologiche affiorate nel corso delle lavorazioni agricole sul territorio. Terra fertile, tanto da meritarsi il nome di terra felix, sebbene si presentasse fortemente paludosa gli antichi romani ne fecero oggetto di bonifica idraulica sviluppando una rete idrica con l’irreggimentazione delle acque del fiume Clanius. La centuriazione e, in molti casi i limites, erano costituiti o erano fiancheggiati da canali afferenti la bonifica e l’irrigazione delle terre. Il disboscamento, la bonifica idraulica e la creazione di reti viarie favorirono l’incremento demografico della pianura ma il successivo abbandono del territorio negli anni del medioevo riportò l’area allo stato di pianura paludosa seppur ricca di vegetazione e fauna.
Fig. 1 I Regi Lagni 277
Furono gli Aragonesi, nel XI secolo, a dare nuova vita alla piana bonificando il territorio e dando inizio al fiorire di attività agricole, in modo particolare alle attività zootecniche con allevamenti di pregiate razze di cavalli. Ma l’attuale assetto territoriale della piana campana si deve all’opera di ingegneria idraulica denominata Regi Lagni (da Clanius-Lagni) con cui si irreggimentarono le acque del fiume Clanius creando una serie di canali artificiali che drenavano bonificando tutto il territorio della pianura. La bonifica ebbe inizio nel 1610 quando il viceré spagnolo diede incarico a Domenico Fontana di progettare una risoluzione al problema idraulico e all’annoso problema dei terreni paludosi. Il progetto ingegneristico si sviluppò rendendo salubre il territorio circoscrivendo ed eliminando dall’area la diffusione della malaria. Il recupero incrementò la produzione agricola e in conseguenza si assiste ad un incremento demografico con sviluppo di nuovi insediamenti. Negli anni non adeguata e non sufficiente fu la manutenzione e con il tempo furono frequenti le inondazioni con ristagni delle acque dei canali che riportarono il territorio alle antiche condizioni di palude. In epoca borbonica si ampliò e si perfezionò l’assetto della rete idrica con opere di canalizzazione artificiale e di drenaggio delle acque. Per evitare inondazioni e frane dell’alveo le sponde furono ricoperte di pioppi e olmi. Carlo III di Borbone deliberò, il 7 gennaio del 1749, di piantare fino a 6000 pioppi in un anno e, lungo tutto l’argine, sulle due sponde, sorsero olmi e pioppi. Giungendo da nord è possibile individuare il paesaggio rurale dei Regi Lagni, si osserva all’altezza di Capua, una volta attraversato il Volturno, una doppia fila di pini marittimi che costeggiano gli argini dell’asta idrica maggiore del canale di bonifica. Al fine della tutela del territorio il 16 giugno del 1833 i Borboni emanarono un Regolamento per la polizia dei Regi Lagni in Terra di Lavoro; con sanzione da applicare ai soggetti che tendevano ad inquinare le acque, era sanzionato persino l’abbeveraggio degli animali, fatta eccezione per gli ovini al pascolo. La rete storica dei Regi Lagni, che fino agli anni cinquanta del 900 erano ancora un luogo salubre, è oggi in gran parte cementificata o coperta e le sue acque inquinate da scarichi legali o illegali.
Fig. 2 La Real tenuta di Carditello 278
Il real sito di Carditello, fotografia di Amedeo Benestante La monarchia borbonica, insediatasi nel 1734 con Carlo III al governo del regno di Napoli, contrastò l’arretratezza e l’accentramento della proprietà feudale introducendo nel regno riforme economiche e sociali ispirate alle idee illuministiche con l’intento di conseguire la modernizzazione dell’apparato statale e il potenziamento delle istituzioni laiche nonché, lo sviluppo economico e la realizzazione di una società più equa e più stabile. L’intento innovatore dei Borboni, con i governi di Carlo III e Ferdinando IV, apportò riflessi innovatori in campo economico, giuridico, commerciale e militare. Non da meno si fece per le opere pubbliche e le arti che in questo periodo storico ebbero grande splendore. La ricerca e le scoperte di antichità furono incoraggiate dando inizio, nel 1748 sotto Carlo III, agli scavi di Pompei. Il ruolo dell’agricoltura nel rinnovamento del tessuto sociale si palesava agli intellettuali e agli aristocratici illuminati. Nuovi metodi e tecniche furono incentivati in agricoltura e lo stesso sovrano spronava al rinnovamento dando l’esempio del miglioramento agricolo nelle terre di sua proprietà e presso i siti della Real casa. La strategia dei Borboni, volta al recupero del territorio, parte dall’acquisizione delle aree alla casa reale con successiva trasformazione del fondo, prima in riserva di caccia, poi in siti reali con casini e residenze e un coerente sviluppo di infrastrutture in modo da collegare i siti tra loro e con la capitale. Su questi territori si incentivano le attività produttivi agricole, in particolar modo in San Leucio e in Carditello. La tenuta di Carditello, sita nel vasto territorio pianeggiante in Terra di Lavoro, è a metà strada tra Napoli e Caserta. La tenuta, appartenente al conte dell’Acerra, fu presa in affitto da Carlo di Borbone che la ritenne adatta alla caccia e al perfezionamento delle razze equine. Le Reali Razze scelte di Carditello e di Persano fornirono alla Corte di Ferdinando IV di Borbone ed al Reggimento dei Liparoti (guardie del corpo del Re) magnifici corsieri da guerra e da caccia, ambiti da tutta la nobiltà europea. Inseguito Federico IV ampliò la tenuta con diversi territori acquistandoli o rivalendosi di diritti che le leggi gli accordavano. Principale fu l’allevamento di cavalli, di vacche (lodigiane) e bufale. Così come per i cavalli, fu perfezionato l’allevamento bufalino e fu incrementata la produzione dei prodotti caseari. Un particolare sviluppo incontrò la commercializzazione della mozzarella grazie al ricco allevamento di bufali presso la Real casa e sul territorio. La mozzarella nasce come un sottoprodotto della produzione della provola e dall’uso delle rimanenze di latte bufalino non più utilizzabile per la produzione del prodotto principale. Si presenta come prodotto fresco e difficilmente conservabile per lunghi periodi tant’è che il consumo era strettamente riservato alla famiglia dei casari. La grande produzione di latte ottenuta presso la tenuta di Carditello invogliano a presentare sul mercato il prodotto. La ritroviamo sui banchi dei mercati, soprattutto a Capua, venduta avvolta in foglie di castagno e disposto in cassettine. Oggi è il prodotto tipico campano con il riconoscimento del marchio D.O.P. La trasformazione del primitivo fabbricato fu affidata all’architetto regio Francesco Collecini allievo del Luigi Vanvitelli. Il Real casino sorge all’incrocio dei quattro stradoni principali dell’area antistante l’edificio e da qui tre si protendono verso sud e il quarto verso la strada per Capua. Alessandro D’Anna (1746-1810), in un acquarello conservato al museo nazionale S. Martino in Napoli, pone in particolare risalto gli spazi antistanti gli edifici del Real casino di Carditello. 279
Il fabbricato dispone al centro di locali destinati ai sovrani e di una cappella, a seguire i corpi di fabbrica dedicati alle attività agricole e agli allevamenti. L’area antistante, in terra battuta destinata a pista dei cavalli, richiama la forma dei circoli romani. Obelischi, fontane e un tempietto la abbelliscono. Nella fattoria annessa si faceva buon burro e formaggio parmigiano e all’interno vi era una gran panetteria che faceva il pane per gli operai, diversi altri edifici per l’agricoltura e gli appartamenti per quelli che in inverno abitavano sul posto, così scriveva Filippo Hackert, pittore regio e direttore dei lavori. Hackert aveva ricevuto anche l’incarico di decorare con statue e pitture tutto il palazzo Carditello. Ritroviamo nei suoi dipinti la famiglia reale vestita con abiti popolari di contadini e operai. Il sito reale di Carditello si evolve in un esempio di masseria moderna da cui si irradiavano sul territorio moderne tecniche in campo agronomico e di allevamento. Era il cuore di una vasta tenuta ricca di boschi, seminativo e di pascoli che si estendevano per circa 2.100 ettari. Circa 1034 moggi risultano coltivati a cereali, foraggi, canapa, lino e legumi mentre il restante lasciato al pascolo. I nuovi metodi, le nuove macchine e la tecnologia rendevano possibile un’opera illuminata d’istruzione e rigenerazione del tessuto sociale che muoveva dall’agricoltura. Il sito di Carditello era l’iconografia dell’azienda agricola moderna, la coniugazione dell’uso ideale del territorio che si esplicava attraverso la rappresentazione delle qualità agricole, dei suoi prodotti e delle sue coltivazioni, grazie alla complessa organizzazione territoriale del sito. Nel 1834 l’ufficio Topografico di Guerra stilò una dettagliata mappa della Real difesa di Carditello individuando quattordici fondi divisi in sessantanove parchi, delimitati da fossi argini e siepi che si estendevano in boschi, seminativo o a pascolo per 6057 moggi. Il bosco, che già preesisteva, si estendeva intorno alla residenza reale per 1591 moggi. Dalla Real casa si snodavano sistemi viari che attraversavano tutta la tenuta collegando il sito con Napoli e gli altri siti reali. Su un terreno prima paludoso sorgevano coltivazioni di cereali, legumi, foraggio, legumi, canapa e lino. È arduo oggi immaginare un tale paesaggio ma possiamo ritrovarlo in dipinti dell’epoca che riproducono la frescura e i colori della campagna, degli alberi e della “vite maritata” che con i suoi lunghi tralci, sostenuti da corde poste a grande altezza tra tronchi di alberi tutori, donano al paesaggio un particolare splendore. Le viti sviluppano i loro rami tra i tronchi disposti a filari, pioppi o olmi, la cui altezza è tra i 15 e i 20 metri. Il vino prodotto prendeva, e tuttora prende, il nome di Asprino di Aversa, vino tipico del territorio. Lo si ritrova negli scritti dell’epoca: la regione generalmente è piena di piante fruttifere […] i campi sono coperti di olmi e pioppi, ed ambedue di viti […] Questa pratica è antichissima e si usa perché non si voglio perdere i prodotti del suolo […] I vini di arbusto possono essere molto generosi: quelli dell’agro Aversano e di Capua fanno l’asprino, ch’è un vino acido, che si consuma a buon pranzo e si compra da Genovesi (Galanti 1790, IV). Il vino della provincia di Caserta è definito leggero e poco spiritoso e piuttosto aspro (Zuccagni- Orlandini 1845- suppl. XI). Il paesaggio agrario è quella forma che l’uomo, nel corso ed ai fini delle sue attività produttive agricole, coscientemente e sistematicamente imprime al paesaggio naturale1, la storia, la geografia, l’arte, la letteratura, l’urbanistica, l’agronomia, la filosofia, la 1 E. Sereni, La storia del paesaggio agrario, Laterza, Bari 1961, p. 21. 280
sociologia creano il paesaggio e lo rendono congeniale al momento storico. Creare un’agricoltura paesaggistica implica l’individuazione di azioni e politiche volte a tutto il territorio agricolo, una politica che crei legami e arreca bene comune e qualità del paesaggio. Carditello fu l’ideale effigie di paesaggistica dell’agricoltura. Tutte le campagne dei dintorni, fino a Napoli sono coperte di vigne sostenute da alberi, pioppi o aceri, piantati in linea retta a formare degli ampi viali. Si tirano i tralci nella direzione degli alberi e al momento in cui riescono a toccarsi reciprocamente, si legano insieme in questo modo quando la foglia cresce e i grappoli crescono sui tralicci allungati orizzontalmente, il peso dà loro una curvatura a festoni, che produce un effetto affascinante. Figuratevi tutta una campagna così ornata di ghirlande, di verdure e di frutti che prendono colore e le terre al di sotto ben coltivate a grano, tuberi, ortaggi o prati artificiali di questo eccellente e bel paese… In pianura il colpo d’occhio è limitato; ci si trova come in una foresta; ma la minima altura dispiega con pompa e magnificenza tutte queste ricchezze della natura (La Platière, 1780- Vol. II).
Il paesaggio della pianura campana nel tempo ha subito evoluzioni e alterazioni. La regione adiacente il complesso architettonico di Carditello è stata parcellizzata in superfici agrarie a coltivazione intensiva di cereali e, negli ultimi tempi, anche di tabacco. Sono attive nelle aree circostanti aziende per l’allevamento bufalino per la
Fig. 3 La piantata aversana 281
produzione di mozzarella. La tenuta è ancora riconoscibile ma del tutto scomparsi i boschi e le foreste. Restano visibili le antiche vigne disposte ad alberata con appoggio su pioppi o acero a localizzare il territorio agrario. Il paesaggio, ad andamento orizzontale con filari di pioppi, viti o siepi delimitano i campi. Le masserie sono sparse in piccoli poderi a conduzione diretta e a mezzadria con coltivato a seminativo misto ad alberi di frutta ed a pascolo. Resta lo storico sistema viario lungo il quali si aprono stradine sterrate d’accesso ai presidi colonici, spesso affiancate da canali o da file di alberi.
Dell’attuale situazione Fin qui le vicende storiche che hanno data vita e lustro al territorio ma agli anni di splendore fa seguito un lungo periodo di decadenza che vedono la grande opera idraulica dei Regi Lagni e la Real Tenuta di Carditello sprofondare nella decadenza e nell’abbandono. Nel 1799 l’arrivo dell’armata Napoleonica e l’istaurazione della Repubblica Partenopea vedono la Real tenuta di Carditello spogliata degli arredi e danneggiata nei decori e nelle pitture murali. Federico I di Borbone, tornato a Napoli dopo il periodo francese, ordinò il restauro della tenuta che tornò ad essere utilizzata dai suoi successori. Nel 1859 Francesco II fu costretto ad abbandonare il regno per l’arrivo delle truppe garibaldine e con l’unità d’Italia e i Savoia il sito fu abbandonato e preda di atti di vandalismo. Dopo la prima guerra mondiale la tenuta fu concessa all’Opera Nazionale dei Combattenti per poi passare al patrimonio del Consorzio di Bonifica del Bacino inferiore del Volturno. Nel 1968 la Cassa del Mezzogiorno finanziò alcuni lavori di consolidamento e creò un museo dell’agricoltura nel sito. Negli anni successivi resta ancora patrimonio del Consorzio di Bonifica del Bacino inferiore del Volturno ma abbandonato a se stesso e sito di traffici illeciti. Nel 2011 il tribunale di Santa Maria Capua Vetere, su istanza della Sga società di recupero crediti del Banco di Napoli, emette un’esecuzione immobiliare per la vendita all’asta del sito, istanza presentata in seguito al forte indebitamento del Consorzio di Bonifica del Bacino inferiore del Volturno. Il volontario Tommaso Cestrone, a cui viene dato l’appellativo di angelo di Carditello, si prende cura del sito e lo sorveglia per impedirne ulteriori atti di vandalismo. Si risveglia anche l’interesse della società civile che con le associazioni Agenda 21, FAI e Touring Club attraggono l’attenzione delle istituzioni. Nel 2014 il Ministero dell’Economia e delle finanze, attraverso una società controllata, partecipa all’asta e si aggiudica il sito trasferendolo poi nella disponibilità del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo. La fase successiva vede, nel 2015, la stipula di un accordo tra il Ministero, la Regione, la Prefettura di Caserta e il Comune di Tammaro volto alla valorizzazione del sito con la costituzione di una fondazione e lo stanziamento di tre milioni di euro per i primi restauri. La Fondazione Real Sito di Carditello è stata costituita nel febbraio del 2016 dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali e del Turismo, dalla Regione Campania e dal Comune di San Tammaro quali Soci fondatori, ottenendo il riconoscimento giuridico nel marzo dello stesso anno. 282
Fig. 4 Cavalli e cavalieri, Real sito di Carditello (Foto di Giovanni Ricci Novara)
Fortemente voluta dal Ministro On. Dario Franceschini, la Fondazione non ha scopo di lucro ed è nata per promuovere la conoscenza, la protezione, il recupero e la valorizzazione del complesso del sito. La Fondazione è stata presieduta da marzo a luglio 2016 dalla dott.ssa Mirella Stampa Barracco. Successivamente, il dott. Luigi Cimmino, membro del CdA, ha assunto l’incarico pro tempore. Dal 9 settembre 2016 è stato nominato Presidente della Fondazione Real Sito di Carditello il prof. Luigi Nicolais. Dal 1 settembre 2016 al 15 novembre 2017 ha svolto l’incarico di Direttore della Fondazione la dott.ssa Angela Tecce ed è attualmente in corso la procedura per la selezione del nuovo Direttore. Nell’ottobre del 2016 la riapertura della Real casa si inaugura con una manifestazione rievocativa che coinvolge il IV Regimento Carabinieri a Cavallo e il Ministro dei Beni Culturali, Dario Franceschini. La conclusione di questa parte dei lavori hanno reso possibile la percorribilità dei locali e la loro messa in sicurezza ma molto vi è ancora da fare per raggiunge il risanamento del sito nonché dell’intero territorio. Tenui tentativi sono stati intrapresi ma con risultati inadeguati a far fronte alla reale situazione emersa dal “Rapporto ecomafie 2003” di Legambiente, rimanendo ancora attuale e opprimente l’alto rischio ecologico. Una prima opera di bonifica, attuata sui Regi Lagni, fu realizzata nel 1973 con il Progetto Speciale n. 3 della Cassa per il Mezzogiorno di disinquinamento del golfo di Napoli che portò all’installazione e la messa in opera di 5 mega depuratori per il trattamento delle acque. Gli studi effettuati nel 2001 dall’ENEA, in collaborazione con il Ministero dell’Ambiente, e successivamente nel 2007 e 2010 con le procure della Repubblica dei Tribunali di Santa Maria C.V. e di Nola, portarono alla luce problematiche che tutt’oggi non hanno trovato valide soluzioni evidenziando lo stato critico nel trattamento dei reflui. Nel 2010 i 5 mega depuratori furono sottoposti a sequestro e fu richiesto un ammodernamento strutturale dei cicli di trattamento dei reflui con processi depurativi conformi alle vigenti normative. 283
Tutta l’area dei Regi Lagni richiede una riqualifica urgente con politiche volte ad uno sviluppo sostenibile. Nel 2009 la Regione Campania dispose uno studio al fine della predisposizione del progetto Corridoi ecologico dei Regi Lagni rivolto al risanamento del territorio, alla valorizzazione e alla salvaguardia dell’area. Il progetto mirava alla realizzazione di un’opera di riqualificazione e recupero paesaggistico, guardando a quanto realizzato nel bacino del Ruhr in Germania, dove è stato possibile, con l’opera IBA Emscher Park, trasformare l’area industriale in territorio capace di conquistare nel 2010 il titolo in capitale europea della cultura. Nell’intento della progettazione si mirava alla realizzazione dei Regi Lagni giardini d’Europa e al recupero della Real Reggia di Carditello nonché di altri siti con valore storico culturali. Nel novembre del 2009 fu firmato un protocollo d’intesa tra il Consorzio di Bonifica del Bacino Inferiore del Volturno e i sindaci di 26 comuni attraversati dall’asta principale dei Regi Lagni e un protocollo d’intesa per la realizzazione dell’Orto della Biodiversità nel Real Sito di Carditello tra Regione Campania, Consorzio di Bonifica del Bacino Inferiore del Volturno, l’Università degli Studi Federico II di Napoli, la Seconda Università di Napoli, facoltà di medicina veterinaria e facoltà di agraria. I primi interventi furono operati nel 2010 presso il ponte di Napoli, all’ingresso di Acerra, con opere di rimozione dei rifiuti e alberatura del tracciato dei Regi Lagni. I 6 mila metri quadrati lungo l’asta principale dei Regi Lagni erano il primo passo verso il Parco dei Regi Lagni di Acerra, verso il miglioramento dell’assetto idraulico e la riqualificazione paesaggistica del territorio. Si prevedeva di suddividere il territorio in 4 ambiti così individuati: il litorale e le terre basse, comprendenti i comuni di Castel Volturno, Villa Literno, Cancello Arnone; il parco agricolo, con i comuni di Grazzanise, S. Maria La Fossa, S. Tammaro, Casaluce, Frignano, Villa di Briano, Casal di Principe; la green belt metropolitana, con i comuni di S. Maria Capua Vetere, Marcianise, Acerra, Afragola, Caivano, Orta di Atella, Succivo, Gricignano d’Aversa, Carinaro, Teverola: il parco archeologico, con i comuni di Brusciano, Mariglianella, Marigliano, Cimitile, San Vitaliano. Per problemi di bilancio regionale si sospesero le attività già avviate e fu interrotto il progetto. Ad oggi le aspettative future si concentrano sull’incremento del turismo internazionale interessato agli itinerari borbonici e sulla produzione agricola locale che sono da rilanciare. Architettura, ecologia e temi sociali con la predisposizione di laboratori, mostre e residenze sono i temi da sviluppare per incrementare l’interesse internazionale sul territorio. La Convenzione Europea del Paesaggio, Firenze 20 ottobre 2000, ratificata dall’Italia con la Legge n. 14 del 2006, recita: il paesaggio svolge importanti funzioni di interesse generale, sul piano culturale, ecologico, ambientale e sociale e costituisce una risorsa favorevole all’attività economica, e che, se salvaguardato, gestito e pianificato in modo adeguato, può contribuire alla creazione di posti di lavoro; … Persuasi che il paesaggio rappresenta un elemento chiave del benessere individuale e sociale, e che la sua salvaguardia, la sua gestione e la sua pianificazione comportano diritti e responsabilità per ciascun individuo.
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Piazza Carlo Felice: verde pubblico per un paesaggio urbano a Torino nell’Ottocento
Alice Pozzati
Dottoranda, Politecnico di Torino
Certo, un Italiano che arrivi qui, coll’idea di trovare una città uggiosa, e un po’ triste, come i dispettosi soglion definire Torino – un villaggio ingrandito – un mucchio di conventi e di caserme – deve provare un disinganno piacevole, uscendo dalla stazione di Porta Nuova in una bella mattinata di primavera. Alla vista di quel grande Corso, lungo quanto i Campi Elisi di Parigi, chiuso a sinistra dalle Alpi, a destra dalla collina, davanti a quell’infilata di piazza, a quelle fughe di portici, a quel verde rigoglioso, a quella vastità allegra, piena di luce e di lavoro, deve esclamare: - È bello! – o tirare almeno uno di quei larghi respiri, che equivalgono ad una parola d’ammirazione.1 Edmondo De Amicis offre al lettore una descrizione di Torino alla fine dell’Ottocento che poco si discosta dall’immagine attuale della città. L’attenzione del viaggiatore, che esce per la prima volta dalla stazione di Porta Nuova, è sicuramente catturata dal verde e in particolare da piazza Carlo Felice che appare come un luogo dalle forme architettoniche unitarie e dialoga armoniosamente con il verde del giardino di Sambuy2. In realtà, il dibattito che ha innescato il progetto a scala urbana è stato un processo decisionale durato alcuni decenni che ha coinvolto diversi attori. Piazza Carlo Felice, originariamente grand place di matrice francese, negli anni ’50 del XIX secolo assume un ruolo cruciale per la storia della città: oltre a rappresentare la cucitura tra il tessuto storico consolidato e le nuove espansioni, diviene anche il luogo dove contemporaneamente vanno in scena i temi della città del progresso e del loisir borghese3. Con la definizione della stazione di Porta Nuova, nuova porta 1 E. De Amicis, La città, in AA. VV., Torino 1880, Bottega D’Erasmo, Torino 1978 (ristampa anastatica, prima edizione: Roux e Favale, Torino 1880), pp. 28-29. 2 Il giardino è intitolato a Ernesto di Sambuy, sindaco della città di Torino durante l’esposizione internazionale del 1884. Per approfondimenti: M. C. Visconti Cherasco, Ernesto Balbo Bertone di Sambuy soprintendente ai giardini, in V. Comoli Mandracci, R. Roccia (a cura di), Torino città di loisir. Viali, parchi e giardini tra Otto e Novecento, Archivio storico della città, Torino 1996, pp. 221-237. 3 V. Comoli Mandracci, Torino tra “progresso” e loisir, in V. Comoli Mandracci, R. Roccia 287
urbana, la piazza assume un compito di evocazione e rappresentanza: appare come il biglietto da vista della città che si sta preparando a diventare capitale d’Italia. Il disegno della piazza deve, quindi, prevedere tutte le attrezzature che la moderna società richiede: verde pubblico attrezzato, cafè, ristoranti e alberghi. Il contributo si propone, dunque, di indagare il processo di definizione di questo luogo emblematico, ponendo l’attenzione sui servizi pensati per i viaggiatori che arrivano in città.
Il disegno del verde urbano Durante la Restaurazione, quando la città si trova a dover fare i conti con le imposizioni del precedente governo napoleonico4, l’Amministrazione comunale si interroga sulla risoluzione di questo nodo urbano dal forte valore simbolico. Infatti, la piazza in questione, si trova all’intersezione di due assi portanti di Torino: la contrada Nuova (oggi via Roma), importante arteria storica che direziona gli ampliamenti della città a partire dal XVII secolo5, e il viale del Re (oggi corso Vittorio Emanuele II) che rappresenta sia il limite del tessuto storico che il primo passo verso la definizione della città ottocentesca6. In affaccio su questo nodo, inoltre, nel corso degli anni Quaranta, si decide di posizionare lo scalo della stazione di Porta Nuova, progettata dall’architetto Carlo Ceppi e dall’ingegnere Alessandro Mazzucchetti7. Nel 1819 Gaetano Lombardi propone una soluzione aulica per l’ingresso verso sud della città. Il progetto della piazza8 presenta un impianto semiellittico con architetture (a cura di), Torino città di loisir, cit., p. 43. 4 Napoleone durante i primi anni dell’Ottocento impone a Torino, come in numerose altre realtà, la smilitarizzazione della città demolendo la cinta difensiva. La scelta, strategica e politica, innesca una stagione caratterizzata da una rilevante quantità di progetti che si interrogano sulla sistemazione dei terreni nei pressi delle fortificazioni. Per approfondimenti V. Comoli Mandracci, Le politiche territoriali del periodo napoleonico e il "Plan Général d’embellissement" (1809), in Ead., Torino, Laterza, Roma-Bari 1983 (ed. consultata 2010), pp. 93-117; A. Barghini, Le fortificazioni in periodo napoleonico: Torino e le piazzeforti della 27° Divisione militare, in G. Bracco (a cura di), Ville de Turin 1798-1814, vol. I, Archivio storico della città, Torino 1990, pp. 241-274. 5 V. Comoli Mandracci, L’invenzione e la fortuna del modello urbanistico barocco e la costruzione della capitale come emblema dello Stato assoluto, in Ead., Torino, cit., pp. 3-44. 6 I terreni a sud del viale, infatti, diventano negli anni ’50 del secolo il luogo prescelto per il Piano d’Ingrandimento della Capitale, definito da Carlo Promis. Per approfondimenti: V. Comoli Mandracci, Il "Piano d’ingrandimento della Capitale" (1850) tra cultura urbanistica e strategia militare, in in Ead., Torino, cit., pp. 149-168; V. Comoli Mandracci, V. Fasoli (a cura di), 1851-1852. Il piano d’ingrandimento della capitale, Consiglio comunale di Torino, Atti consiliari – serie storica, Archivio storico della Città, Torino 1996. 7 Politecnico Di Torino, Dipartimento Casa-Città, Beni culturali ambientali nel comune di Torino, Società degli Ingegneri e degli Architetti in Torino, Torino 1984, p. 393; A. Sassi Perino, Stazioni ferroviarie, in B. Gambarotta, S. Ortona, R. Roccia, G. Tesio (a cura di), Torino: il grande libro della città, Edizioni del Capricorno, Torino 2004, pp. 962-964. 8 ASCT, TD, 40.4.1/A/3, Gaetano Lombardi, Progetto per l’ampliamento ed abbellimento della Città, verso Porta Nuova […]. 288
Fig. 1 Lorenzo Lombardi, Pianta de Terreni della Fortificazione di Torino e suoi limiti, 1817 (ASCT, TD 21.2.7A_2)
Fig. 2 Gaetano Lombardi, Ampliazione della CittĂ verso Mezzogiorno/figura perimetrale pei due fabbricati proposti costruirsi in capo alla Contrada Nuova per la formazione di un maestoso Ingresso a detta Contrada [...], 1822 (ASCT, TD 62.3.52) 289
uniformi e un arco di trionfo per la maestosa porta urbana9: il riferimento al Potere – riproposto come assoluto anche nella visione e nella descrizione simbolica della città fisica – emerge chiaramente nel progetto, che enfatizza l’ingresso con muro di cinta, Porta e Torrioni […] un maestoso ingresso per la porta nuova quale guida direttamente al Real Palazzo10. Nel 1822, tuttavia, la Municipalità sceglie di approvare un’altra proposta di Lombardi [Fig. 2] che, riprendendo soluzioni di poco precedenti11, appare economicamente più sobria, caratterizzata da un quadrato dagli angoli smussati in planimetria al posto della soluzione curvilinea del 1818. A partire dal 1825 inizia la realizzazione dell’attestamento meridionale della via Nuova da parte di privati, incentivati dall’esenzione delle imposte fondiarie12. Il vasto spiazzo ottagonale non verrà mai portato a termine, nonostante ciò, la soluzione di piazza aperta sul territorio garantisce la monumentalità dell’ingresso urbano risultando come un semiottagono porticato con fabbricati dilatati in maniche laterali imponenti, risolto con impianto simmetrico rispetto all’asse attestato sul Palazzo Reale e con grandi timpani di sicura cifra neoclassica13. Il secondo tassello che va a definire la piazza è collegato alla figura di Carlo Promis14. Questo nuovo progetto propone una completa riorganizzazione dello spazio antistante la stazione. L’idea della grand place sovradimensionata viene abbandonata a favore di un impianto planimetrico più contenuto circoscritto da blocchi di fabbrica uniformi e coerenti al progetto di Lombardi, a queste date già costruito. La rigida assialità verso il cuore politico della città è mantenuta nonostante Promis sia attento alle nuove necessità urbane. Infatti, il suo disegno compatto e funzionale prevede, inoltre, la sistemazione di piazze, laterali alla principale Carlo Felice, su cui si attestano le due strade foranee, di Nizza e di Stupinigi, che costeggiano la strada ferrata. Questa nuova disposizione non soltanto reintegra pienamente significato e portata culturale dell’antico asse primario della città attestato su Palazzo Reale, ma anche dell’asse traverso del secondo ampliamento seicentesco della città (via dell’Arco o della Posta, attuale via Accademia Albertina)15. Per quanto riguarda il linguaggio architettonico, Promis, a differenza di Lombardi, abbandona il linguaggio neoclassico 9 V. Comoli Mandracci, Urbanistica e architettura, in U. Levra (a cura di), Storia di Torino VI. La città nel Risorgimento (1798-1864), Giulio Einaudi Editore, Torino 2000, pp. 396-397. 10 Ibidem. 11 ASCT, TD, 62.3.52, Gaetano Lombardi, Ampliazione della Città verso Mezzogiorno […]. 12 Un ampio settore del piano infatti, corrispondente ai terreni della piazza d’Armi di San Secondo, e alla zona gravitante attorno alla stazione e alla piazza antistante, fu risolto con un piano di lottizzazione pubblica, progettato alla scala edilizia e assoggettato ad obbligo di costruzione secondo i disegni «somministrati al Municipio», il quale gestì anche l’operazione fondiaria della vendita dei lotti (V. Comoli Mandracci, Urbanistica e architettura, in U. Levra (a cura di), Storia di Torino VI. La città nel Risorgimento (1798-1864), cit., p. 418). 13 Ivi, pp. 396-397. 14 M. Savorra, Ad vocem: Promis, Carlo Lorenzo Maria, in Dizionario Biografico degli italiani, Vol. 85 Treccani, 2016 (ultima consultazione online aprile 2018: http://www.treccani. it/enciclopedia/carlo-lorenzo-maria-promis_(Dizionario-Biografico)). 15 V. Comoli Mandracci, Urbanistica e architettura, in U. Levra (a cura di), Storia di Torino VI. La città nel Risorgimento (1798-1864), cit., p. 419. 290
internazionale che aveva caratterizzato i primi decenni dell’Ottocento per aderire ad una concezione dell’architettura già sostanzialmente eclettica16, con profonde radici in quegli stili nazionali, a cui avrebbero dovuto portare il genius loci regionale con adesione convinta ad un sistema di relazioni complesso e inedito17. La scelta, inoltre, di attestare la stazione di Porta Nuova al termine della contrada Nuova, ora via Roma, in opposizione prospettica a palazzo Reale, enfatizza un’interpretazione simbolica, tipica della cultura ottocentesca: la stazione, simbolo del progresso tecnologico dell’epoca assume il ruolo di nuova porta della città18. Un elemento in particolare, tuttavia, della grande place del 1822 di Gaetano Lombardi, è mantenuto: il carattere di spazio aperto alberato19. Il verde pubblico, progettato e attrezzato, nella città ottocentesca gioca un ruolo fondamentale: promenade alberate, parchi pubblici, giardini e squares rientrano tra i servizi pubblici che una municipalità aggiornata deve prevedere20. Già con la costruzione del viale del Re (oggi corso Vittorio Emanuele II) si assiste a una innovazione21: per la prima volta la città offriva ai suoi abitanti di censo privilegiato una scelta di insediamento alternativa allo storico territorio, decisamente extraurbano e di residenza non continuativa, della collina, inserendo le case dei nuovi soggetti economici prevalenti – la borghesia - in una dimensione più aperta, in grado di mediare alcuni amati caratteri delle vigne e delle maison de plaisance barocche con la vita cittadina, in una nuova dimensione del paesaggio e del loisir borghese22. Per risolvere piazza Carlo Felice si ricorre al modus operandi, già sperimentato a Parigi e non solo23, dello square24: un giardino recintato, aperto e offerto a tutta la cittadinanza nelle ore del giorno e chiuso durante la notte. La scelta della municipalità di trasformare la piazza in square, risponde alla necessità, da tempo avvertita nelle maggiori capitali europee, di dotare la città di giardini e parchi intesi come espressione di benessere, igiene, salute e decoro ed è connessa con le problematiche morali e sociali 16 R. Gabetti, Eclettismo, in Dizionario Enciclopedico di Architettura e Urbanistica, diretto da Paolo Portoghesi, vol. II, Roma 1968. 17 V. Comoli Mandracci, Urbanistica e architettura, in U. Levra (a cura di), Storia di Torino VI. La città nel Risorgimento (1798-1864), cit., p. 419. 18 Ibidem. 19 Ibidem. 20 C. Roggero Bardelli, Modelli per una capitale europea, in V. Comoli Mandracci, R. Roccia (a cura di), Torino città di loisir, cit., p. 73. 21 V. Comoli Mandracci, Torino tra progresso e loisir, in Ivi, p. 44. 22 V. Comoli Mandracci, Urbanistica e architettura, in U. Levra (a cura di), Storia di Torino VI. La città nel Risorgimento (1798-1864), cit., p. 431; V. Comoli Mandracci, Torino tra progresso e loisir, in V. Comoli Mandracci, R. Roccia (a cura di), Torino città di loisir, cit., p. 51. 23 C. Roggero Bardelli, Modelli per una capitale europea, in V. Comoli Mandracci, R. Roccia (a cura di), Torino città di loisir, cit., pp. 87-91. 24 V. Fasoli, Dalla piazza allo square. Il programma di «abbellimento» per una capitale nazionale, in «Bollettino della società piemontese di archeologia e belle arti», Nuova serie – XLVI, 1994, Celid, Torino 1995, p. 232. 291
evidenziate dal pensiero utopista francese intorno agli anni Trenta dell’Ottocento. […] Per dilatare la dimensione degli spazi verdi anche piccoli come gli squares, si ricorre a uno degli espedienti più consolidati della finzione del jardin paysager che consiste nell’aumentare il tracciato dei percorsi pedonali con l’introduzione e il prevalere della linea curva. Questa si presta inoltre a fornire una maggiore varietà di punti di vista e quindi a garantire la sorpresa in chi la percorre e contrasta fortemente con il disegno dei boulevards che si confermano quale unico strumento in grado di distribuire in modo uniforme l’elemento naturale nello spazio urbanizzato e in molte occasioni di isolare da quest’ultimo lo square25. L’incarico per il disegno è affidato a Jean Pierre Barillet Deschamps26, definito nei documenti di corrispondenza con il Comune di Torino Architecte de jardins27. Al progettista, sono richieste competenze difficilmente riunibili in eguale misura in un’unica figura professionale. Egli deve essere in grado sia di dominare discipline matematico-geometriche proprie del misuratore e dell’agrimensore, sia di conoscere le tecniche pittoriche e grafiche oggetto di studio nelle Accademie di Belle Arti, e ancora, in fase di realizzazione del progetto, di essere preparato nei campi dell’orticoltura, della botanica, del giardinaggio28. Una volta arrivato a Torino, nel settembre del 186029, Barillet si preoccupa di visitare tutte le piazze e giardini pubblici della città proponendo diverse soluzioni a squares30. In particolare, per piazza Carlo Felice, a seguito del sopralluogo elabora due progetti differenti per numero di
25 Ivi, p. 233. 26 Jean Pierre Barrillet (Sant Antoine du Rocher prsso Tour 1824 – Vichy 12 settembre 1873) nato da una famiglia di coltivatori, da 1845 è già impegnato in qualità di surveillant et moniteur du jardinage nella colonia agricola e nel penitenziario di Mettray. Su consiglio del direttore M. Dumetz si perfeziona in horticulteure du jardin des Plantes a Parigi (dopo questo soggiorno aggiunge al proprio cognome quello di Deschamps) e al suo ritorno si stabilisce a Bordeaux dove nel 1853 si fa conoscere […] comme un architecte paysagiste […] per la realizzazione del giardino d’inverno di Longchamp e delle grandi serre. È qui che dal 1850 Haussmann ricopre la funzione di prefetto dell’Yonne (de la Gironde), fonda con il Duca Decazes e M. DUffour Dubergier la Société d’Horticulture de la Gironde per la quale Barillet cura l’importazione di orchidee e piante rare (V. Fasoli, Dalla piazza allo square. Il programma di abbellimento per una capitale nazionale, cit., pp. 235-236). Braccio destro di J.-C.-A. Alphand nella realizzazione dei parchi parigini, curatore dell’allestimento del settore di legumi e alberi da frutta, delle grandi serre, nonché della mostra di parchi e giardini e della libreria dedicata alle riveste di orticoltura nel Jardin Réservé dell’Esposizione di Parigi del 1867, Barillet interviene infatti in lavori di grande rilievo come l’adeguamento del Prater di Vienna e nel progetto di parco annesso al castello che il Barone Adolphe de Rothschild si era fatto costruire a Pregny presso ginevra e fino a oggi attribuito a Joseph Paxton (V. Fasoli, Piani urbanistici e abbellimento: nuove figure professionali, in V. Comoli Mandracci, R. Roccia (a cura di), Torino città di loisir, cit., p. 190). 27 ASCT, Affari Lavori Pubblici, rep. 38, cart., 5, fasc. 1, 1860-1861. 28 V. Fasoli, Dalla piazza allo square. Il programma di abbellimento per una capitale nazionale, cit., p. 234. 29 V. Fasoli, Piani urbanistici e abbellimento: nuove figure professionali, in V. Comoli Mandracci, R. Roccia (a cura di), Torino città di loisir, cit., p. 194. 30 Non trovano realizzazione, tuttavia, i progetti per: piazza Castello, piazza Maria Teresa, giardini Lamarmora, piazza Susina, piazza Carlina e del Valentino (V. Fasoli, Dalla piazza allo square. Il programma di abbellimento per una capitale nazionale, cit., p. 243). 292
Fig. 3 Gaetano Lombardi, Piano regolare dellâ&#x20AC;&#x2122;ampliamento della CittĂ alla Porta Nuova e progetto di rettifica della gran Piazza del Re, stralcio, 1825 (ASCT, Ragionerie, 1825, vol. 21) 293
ingressi al giardino31. La fruibilità dello spazio verde è una necessità particolarmente sentita, rispetto ai parchi urbani, negli squares, a causa della loro forte connotazione urbanistica32. Tipicamente, nel disegno dello square, si ricorre a un’alberatura sia perimetrale, come filtro e isolamento dello spazio edificato esterno, sia per sottolineare i percorsi interni. Gli accessi vengono previsti in punti facili all’attraversamento stradale e i percorsi interni si sviluppano tenendo conto delle assialità di strade importanti di sbocco sulla piazza33. Nel caso di piazza Carlo Felice gli ingressi allo square godono di particolare attenzione: i due accessi laterali sono posti all’altezza delle due piazzette Lagrange (a est) e Paleocapa (a ovest), verso nord l’ingresso è in asse con l’odierna via Roma mentre dal lato meridionale verso la stazione due aperture sono poste in asse ai portici di viale Vittorio Emanuele II. Sia le alberature che la fontana monumentale34 all’interno dello square sono pensati per non ostacolare la prospettiva prevista sull’edificio della stazione35 verso sud e da via Roma attestata su Palazzo Reale verso nord36. Per quanto riguarda la realizzazione dello square, Barillet assegna l’incarico della direzione dei lavori a due suoi stretti collaboratori: l’architecte de jardins Georges Aumont e le conducteur des traveaux Marc Louis Quignon37. In particolare Marc Louis Quingnon, attraverso il costante contatto con Barillet, garantisce il rispetto al progetto originale e avvalendosi del sostegno del conte Felice Rignon nominato da poco Assessore Delegato ai Giardini Pubblici, per la fornitura delle essenze38. Inoltre, la grande disponibilità e abilità, congiunte a onorari decisamente contenuti, convincono gli 31 Gli elaborati in questione sono stati persi durante il trasporto ferroviario, ma ne rimane traccia in una lettera destinata al Sindaco di Torino data 3 ottobre 1860: J’ai l’honneur de vous donne avis que j’ai remis aujourd’hui au chemin de fer de Lyon une caisse à vostre adresse, contenant sis square et jardin pour la Ville de Turin, avec une note explicative pour l’intelligence de les plans. […] J’ai en devoir vous faire deux project pour la Place Charles Felixe. Dans le project n° 1, j’ai fait cinq entrées et conservé la forme ronde du bassin actuel, dans ce project il est peut être à craindre quel es deux entrées en face les arcades engagent trop les gens ayant besoin de traverser, à le servis de ce passage, ce qui nuirait aux promeneuse le but principal de ces sortis de jardin est de les reservess autant que possible à la promenade. Le project n° 2 qui n’a que trois entrée serait donc préférable vous ce point de vue, la pièce d’eau irrégulireerè du centre serait aussi d’un plus joli effet dans ce jardin payssages. (ASCT, Affari Lavori Pubblici, rep. 38, cart., 5, fasc. 1, 1860-1861). 32 V. Fasoli, Dalla piazza allo square. Il programma di abbellimento per una capitale nazionale, cit., pp. 239-240. 33 Ibidem. 34 La fontana è stata donata alla comunità torinese dalla Società della Condotta dell’Acqua Potabile nel 1859 (Si veda: Primo tratto di acquedotto in www.museotorino.it ultima consultazione aprile 2018). 35 Lo scalo per la strada ferrata è stato realizzato da Pietro Spurgazzi nel 1851, anche se a distanza di pochi anni è stata prevista la costruzione della nuova stazione realizzata tra il 1865 e il 1868 dall’ingegnere Alessandro Mazzucchetti e dall’architetto Carlo Ceppi (V. Fasoli, Piani urbanistici e abbellimento: nuove figure professionali, in V. Comoli Mandracci, R. Roccia (a cura di), Torino città di loisir, cit., p. 204). 36 V. Fasoli, Dalla piazza allo square. Il programma di abbellimento per una capitale nazionale, cit., pp. 240-241. 37 Ivi, p. 242. 38 Ibidem. 294
Fig. 4 Pianta Regolare della Città di Torino, stralcio, 1831 (ASCT, 64.4.12)
Fig. 5 Barone Marocco, Piano Regolatore delle nuove fabbriche tra i viali del Re e di S. Salvatore presso la Città di Torino, 1846: [...] Il colore Bleu indica li terreni pubblici fabbricabili domandati dalla Società fondatrice di detto ingrandimento [...] (ASCT, TD 39.2.34) 295
amministratori della città a offrire a Quignon l’opportunità di assumere la direzione dei giardini e alberate e quindi il titolo di "Giardiniere della Città" (dal 1861 al 1866) con il compito di sovrintendere alla loro manutenzione e curare l’esecuzione di altri39. Con la conclusione dei lavori per lo square, piazza Carlo Felice arriva alla completa definizione. A partire dagli anni ’80 del XIX, tuttavia, le attenzioni dei tecnici municipali ritornano su questo luogo, di primaria importanza per la città. Proprio in piazza Carlo Felice fa una delle sue prime comparse l’illuminazione pubblica elettrica. Infatti, nel fondo Affari e Lavori Pubblici dell’Archivio Storico della Città di Torino è possibile rintracciare una copiosa corrispondenza tra attori diversi, tecnici e politici40, che si interrogano sulla sistemazione di moderni apparecchi elettrici in vista dell’esposizione generale del 188441. L’occasione, infatti, si rivela essere per Torino un momento ideale di sperimentazione e manifestazione delle più moderne e aggiornate tecnologie. Si va a definire, in questo modo, il paesaggio urbano dal forte valore simbolico: un biglietto da visita che deve essere in grado di comunicare al visitatore e non solo, l’essenza di una città sensibile al verde urbano ma anche attenta al progresso tecnologico.
Bibliografia G. Bracco (a cura di), Ville de Turin 1798-1814, vol. I, Archivio storico della città, Torino 1990. V. Comoli Mandracci, Torino, Laterza, Roma-Bari 1983 (ed. consultata 2010). V. Comoli Mandracci, V. Fasoli (a cura di), 1851-1852. Il piano d’ingrandimento della Capitale, Consiglio comunale di Torino, Atti consiliari – serie storica, Archivio storico della Città, Torino 1996. E. De Amicis, La città, in AA. VV., Torino 1880, Bottega D’Erasmo, Torino 1978 (ristampa anastatica, prima edizione: Roux e Favale, Torino 1880). V. Fasoli, Dalla piazza allo square. Il programma di abbellimento per una capitale nazionale, in «Bollettino della società piemontese di archeologia e belle arti», Nuova serie – XLVI, 1994, Celid, Torino 1995, pp. 225-247. R. Gabetti, C. Olmo, E. Tamagno, Contributi alla formazione di una storia dell’edilizia in Piemonte nei secoli XIX e XX, Istituto di critica dell’architettura e progettazione, Torino 1974.
39 Ibidem. 40 Si richiede una consulenza al Prof. Ferraris, esperto risiedente a Vienna. Mentre la ditta scelta per la sistemazione dell’impianto è una società ungherese. ASCT, Affari Lavori Pubblici, 135/8, 1883. 41 ASCT, Affari Lavori Pubblici, 135/8, 1883. 296
B. Gambarotta, S. Ortona, R. Roccia, G. Tesio (a cura di), Torino: il grande libro della città, Edizioni del Capricorno, Torino 2004. U. Levra (a cura di), Storia di Torino VI. La città nel Risorgimento (1798-1864), Einaudi, Torino 2000. D. Murtas, Innovazioni tipologiche e tecnologiche. Caratteri della cultura tecnica e professionale, in Torino, alla metà dell’Ottocento: un’ipotesi di lavoro su piazza Carlo Felice, Tesi di Laurea, Rel. Anna Maria Zorgno, Politecnico di Torino, Facoltà di Architettura, a.a. 1987-1988. Politecnico di Torino, Dipartimento Casa-Città, Beni culturali ambientali nel comune di Torino, Società degli Ingegneri e degli Architetti in Torino, Torino 1984. S. Ronco, La stazione di Torino Porta Nuova, in Studi geografici su Torino e il Piemonte, G. Giappichelli, Torino 1954. P. Scarzella (a cura di), Torino nell’Ottocento e nel Novecento. Ampliamenti e trasformazioni entro la cerchia dei corsi napoleonici, Politecnico di Torino, Dipartimento di ingegneria dei sistemi edilizi e territoriali, Celid, Torino 1995.
Sitografia (ultima consultazione aprile 2018) http://www.museotorino.it http://www.treccani.it
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Il turismo esperienziale ed il valore del paesaggio: un’esperienza nell’Alto Molise
Stefano Rinaldi e Laura Sterlacci
Studenti, Università del Molise
La Convenzione Europea sul Paesaggio, che si pone come scopo quello di promuovere la salvaguardia, la gestione e la pianificazione dei paesaggi e di organizzare la cooperazione europea in questo campo, nell’Art. 1 dichiara che: Il Paesaggio designa una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni. Considerando che, il paesaggio è un elemento irriproducibile e competitivo per il nostro Paese, il turismo, in particolar modo quello esperienziale, potrebbe dare un mano a difendere il paesaggio rurale dalla desertificazione e dallo spopolamento, soprattutto nelle aree interne dell’Italia. Salvaguardare il paesaggio non vuol dire cristallizzarlo, ma cercare di preservare quelle peculiarità legate all’identità culturale dei suoi abitanti e le trame storiche che testimoniano il suo processo di formazione. Ad oggi potremmo distinguere tra: paesaggi che producono alta qualità della vita e dei prodotti alimentari, e paesaggi con elevato degrado ambientale che non generano benessere sociale. Chiarito ciò, deduciamo che, presumibilmente, un paesaggio ben conservato (e ben coltivato) assume, prima di tutto, un valore profondo legato all’insieme delle immagini di chi lo osserva e, successivamente, una rilevante importanza economica. Inoltre, sarebbe riduttivo considerare i paesaggi solo come elementi di valore estetico, cioè come semplici panorami. È giusto perciò, che da scienziati del turismo, dovremmo essere quanto meno allenati a commentare quello che osserviamo. Sappiamo, di conseguenza, che il paesaggio non è uguale per tutti, ma che dipende dal punto di vista dal quale lo osserviamo e dal nostro modo di vedere le cose. E così, se ad esempio ci focalizzassimo su un paesaggio montano, metteremmo in moto un processo mentale che attraversa una fase temporale, dentro la quale, piano piano assimiliamo dapprima, gli elementi macroscopici (es. notiamo immediatamente le cime più aguzze) e di seguito, gli elementi microscopici (es. notiamo la presenza di piccoli insediamenti, di sentieri, di animali…). Il settore turistico deve svolgere, pertanto, un ruolo fondamentale nel far apprendere ai viaggiatori un modo più autentico e non esotico di viaggiare e di guardare al paesaggio; quindi, bisognerebbe educare gli individui alla sua tutela, alla sua valorizzazione e alla sua fruizione. Il turismo è, e può diventare, un effetto frontiera che 299
crea nuovi spazi in regioni poco conosciute e sottosviluppate che si possono vendere, soprattutto nel Mezzogiorno. Qui, fino agli anni Settanta, si è tentato di sviluppare il turismo mediante piani d’industrializzazione miseramente falliti, e la pressione turistica locale ha creato uno sviluppo casuale, disorganico, scoordinato anche dal punto di vista economico. Gli insediamenti industriali e petroliferi in corrispondenza di aree a forte vocazione turistica ne hanno compromesso lo sviluppo assieme alla più generale vivibilità. Inoltre, la speculazione edilizia, legata alla ricettività, ha deturpato o cancellato il paesaggio ed i modelli di sviluppo abitativo hanno fatto ricorso a paradigmi ricettivi poco commerciabili o addirittura dannosi come le seconde case. Il sistema dei trasporti ha giocato il suo ruolo con i binari ferroviari a lambire le immacolate spiagge della Calabria e della Sicilia o di tutta la riviera Adriatica. Si è così puntato esclusivamente su pochi poli tradizionalmente venduti come immagine (Capri, Taormina, Costa Smeralda, riviera Romagnola ecc.), senza dare adeguato rilievo ai centri minori. Questo modello di sviluppo ha toccato solo in parte le grandi realtà metropolitane, ha sfiorato alcuni insediamenti archeologici importanti, toccato appena i parchi naturali, e ha disatteso del tutto il territorio interno e rurale, denso di piccoli e grandi tesori artistici ed ambientali quasi del tutto sconosciuti. E tutto ciò senza che le località circostanti potessero indirettamente godere degli effetti indotti dal flusso dei visitatori. Come già detto precedentemente, non si può pensare di imbalsamare i paesaggi più fragili del made in Italy, siti soprattutto lungo le aree interne del Paese, poiché: …l’obiettivo non è l’appiattimento di questi paesaggi ma bensì partire da essi per rafforzare il valore dei patrimoni di comunità creando una nuova consapevolezza di paesaggio fra abitanti e turisti. Assimilata l’importanza che riveste il turismo, ci soffermiamo sul tipo di turismo a nostro avviso, il più adatto a mettere in risalto il valore del paesaggio. Parliamo di turismo esperienziale, caratterizzato da viaggiatori sempre pronti a nuove esperienze, a conoscere profondamente l’identità etica di nuove culture e scoprirne l’unicità. Nel turismo esperienziale infatti, la differenza non la fa la destinazione, ma piuttosto le attività che quel luogo offre, attraverso le quali rivela la sua anima e quella dei suoi abitanti. Ed è proprio quest’ultimo passaggio che rende così speciale questo tipo di viaggi. Tali peculiarità vengono fuori solo se si rispetta una banalissima formula matematica, ovvero la (combinazione) somma tra il prodotto offerto e il territorio.
Fig.1 fonte: nostra elaborazione 300
Se quindi l’obiettivo primario è riuscire ad emozionare il turista, bisogna tenere a mente che è l’esperienza che si vive che verrà ricordata nel tempo e che si deve venire così a creare una relazione tra i visitatori ed il luogo visitato e perciò maggiore sarà l’attenzione prestata per la qualità di tale episodio, maggiore sarà la percezione di tale unicità. A sostegno di ciò, come sostenuto da Carlo Cambi, le strutture ricettive come ad esempio gli agriturismi o gli alberghi diffusi, che si prestano più facilmente ad offrire un’esperienza unica e reale, non dovrebbero più far leva sul modello ormai superato come quello delle 4S (Sea, Sun, Sand, Sex) ma basarsi sul modelli di sviluppo economico più sostenibili come quello delle 4L (Landscape, Living, Leisure, Learning). Ciò significa che non si deve più incentrare la vendita sulla particolarità di struttura, ma di esperienza offerta.
Il caso di Castel del Giudice: esperienza di Borgo Tufi Restando nel Mezzogiorno, l’area più ricca d’Italia di zone rurali secondo il MIPAAF, un case study di portata nazionale che ha suscitato curiosità ed interesse è l’albergo diffuso nato a Castel del Giudice (IS), un piccolo borgo dell’Alto Molise ai confini con l’Abruzzo. Un luogo che fino a pochi anni fa rischiava di scomparire, rinato dal connubio vincente tra corretta amministrazione e voglia di reinventarsi. Un’identità tenace che ha portato la comunità a ripartire dalle risorse presenti sul territorio. Attori locali, privati e pubblici, insieme hanno partecipato attivamente a questo progetto di riqualificazione costituendo una public company mossa da un obiettivo comune: partire dalle debolezze!, ovvero lavorare su quelle che possiamo considerare le mancanze per poi sviluppare una serie di servizi necessari non solo alla popolazione locale ma soprattutto all’accoglienza del fenomeno turistico. L’idea di un albergo diffuso nasce per soddisfare la mancanza di strutture ricettive e la necessità di riqualificare le stalle dei contadini ormai in abbandono. Ed è così che, con il nome di Borgo Tufi, queste strutture sono state rimesse in sesto minuziosamente, utilizzando pietre locali e materiali di riciclo, trasformandole in quelle che ora sono camere per gli ospiti. Sapete qual è l’attrazione principale di questo posto? Il silenzio! La tranquillità
Fig. 2 Castel del Giudice 301
assordante che permette ai visitatori di udire il benvenuto datogli dalla natura, lo stesso che spaventa i cittadini del paese. Spesso i paesaggi rurali, come questo, vengono sottovalutati e considerati non importanti per il fenomeno turistico, poiché il loro apporto non produce servizi utili. E questo non è affatto vero! Al contrario, esattamente come accade per le più comuni località costiere, tale fenomeno può produrre notevoli risultati. L’unico vero problema è la necessità di un impegno maggiore da parte dell’amministrazione pubblica, che deve comprendere come valorizzare al meglio il patrimonio culturale presente nel territorio, come evidenzia Annunziata Berrino.1 Castel del Giudice è la dimostrazione di come le piccole dimensioni del paese non rappresentino un ostacolo, ma al contrario, se adeguatamente valorizzate, possono essere un punto di forza, che aiuta i cittadini a rimboccarsi le maniche più facilmente e (ri)scommettere sul valore del territorio. Come è stato fatto per Borgo Tufi, anche Melise, una società agricola che ha riconvertito 40 ettari di terreno, un tempo utilizzati per il pascolo, in un esteso meleto che ogni anno dà vita a 52 varietà diverse di mele. Una scommessa fatta per ridare valore al paesaggio; non a caso l’azienda opera rigorosamente secondo i canoni dell’agricoltura biologica, che affonda le sue radici nella conoscenza del territorio e che ha come obiettivo quello di commercializzare un prodotto autentico, come la terra dalla quale le mele maturano. Lo scopo primario per questa comunità, non è stato quello di replicare gli storici modelli di sviluppo ormai obsoleti, ma cercare di trovare nuovi modi per trarre opportunità di ripartenza, senza piangersi addosso ma, al contrario, facendosi trovare pronti al cambiamento. Come spiegato dal sindaco Lino Gentile durante un’intervista: Un piccolo comune […] non può e non deve concentrarsi su grandi progetti poiché rischierebbe di fallire ancor prima di iniziare, ma deve focalizzarsi su pochi progetti strategici per lo sviluppo del paese, che vadano a creare posti di lavoro, attrarre nuove opportunità ed abitanti. Borgo Tufi non è solo un albergo diffuso, ma è un laboratorio, un contenitore di esperienze dell’Alto Molise.2 E così in questa terra, il paesaggio così naturale, le mani e i volti delle persone che ti sorridono quando ti incontrano, profumano nell’aria e ti inebriano di amore per la propria casa.
L’importanza delle esperienze nell’era del virtuale Coloro che non hanno radici, e sono cosmopoliti, si avvicinano alla morte della passione e dell’umano: per non essere provinciali occorre possedere un villaggio vivente nella memoria, a cui l’immagine e il cuore tornano sempre di nuovo, e che l’opera di scienza o di poesia riplasma in voce universale.3
Il viaggiatore non nasce tale! Infatti per distinguersi dalla comune massa di persone che ogni anno si sposta durante i così detti periodi caldi, così chiamati 1 A. Berrino, Il paesaggio come patrimonio culturale, Summer School Emilio Sereni, Gattatico 2017. 2 L. Gentile, riflessioni sui modelli di sviluppo da applicare nelle piccole comunità, intervista ad opera degli studenti dell’Università degli Studi del Molise (Termoli), Castel del Giudice 2018. 3 E. de Martino, L’etnologo e il poeta, in La collana viola. Lettere 1945-1950 (Cesare Pavese, Ernesto De Martino), Bollati Boringhieri, Torino 1991. 302
Fig. 3 Le antiche stalle ristrutturate, oggi ad uso alberghiero
non solo per le alte temperature legate alla stagione, ma anche, e soprattutto, per il lungo periodo che per varie ragioni porta tali individui a viaggiare, a spostarsi dal loro normale luogo di residenza per ragioni di svago. La differenza con tali soggetti consiste banalmente nell’attenzione prestata nell’approccio con la nuova località ed i suoi abitanti, il risultato di un processo silenzioso che si sviluppa in ogni viaggiatore grazie alle emozioni, gli incontri e all’interpretazione suscitata dai luoghi visitati. Un’ esperienza deve dare senso ad un luogo, e un luogo deve dare un senso all’esperienza!4 Un connubio vincente che funziona solo se ci si relaziona con consapevolezza. Parafrasando Ernesto de Martino, potremmo dire che solo chi ha vissuto tale tipo di esperienza, conservandone vivo il ricordo riesce ad essere un cittadino cosmopolita. Solo chi ha provato la bellezza dell’autenticità è cosciente del suo valore e dell’importanza del preservarla. Preservare un paesaggio, non vuol dire proteggere solo il suo patrimonio tangibile, ma significa salvaguardare l’identità del luogo, ovvero i suoi abitanti. Che senso avrebbe preservare una casa rurale, se non c’è nessuno che ci abbia vissuto che possa raccontarci la sua storia, i suoi profumi legati all’identità enogastronomica, i canti che rallegravano le mura, le tradizioni?! Il valore aggiunto di tali viaggi, di tali esperienze sono le persone, coloro che si mettono a nostra disposizione per raccontarsi, che non lo fanno solo per un ritorno economico, ma per pura volontà di condivisione e di trasmettere l’identità del loro luogo e del loro paesaggio.
4 S. Rinaldi, Riflessioni personali sul turismo esperienziale, Termoli 2018. 303
PARTE IV REPORT WORKSHOP E LABORATORI
Sviluppo turistico in aree rurali deboli: fra tradizione e innovazione
Luciano Sassi
Presidente Ecomuseo Isola
Organizzare un laboratorio, quindi attivo e simulante, sul tema di cui sopra non è stato facile. In primo luogo perché, come è intuibile, le percezioni dei luoghi non sono per tutti le medesime. L’individuazione delle peculiarità “culturali” – intendendo come tali tutto quanto può essere stimolante in un percorso di fruizione extralavorativa – di un ambiente rurale è cosa assai difficile. La difficoltà principale sta soprattutto nell’uscire dall’idealizzazione attribuita all’ambiente rurale. Mitizzare il mondo contadino serve da una parte a scoprire il meraviglioso percorso che ha permesso sin dall’impero romano di formare e trasformare il paesaggio italiano ma dall’altra parte può solo servire ha vedere un mondo fortemente idealizzato e romantico, non consono alla realtà. Il flusso turistico che in questi ultimi anni si è rivelato sempre più sensibile verso il mondo rurale, è innanzitutto un flusso proveniente dalle città, che quindi necessità e richiede di rientrare in contatto con un modo che vede normalmente da lontano. In questi anni la Summer School Emilio Sereni ha tentato di dare gli strumenti per leggere il paesaggio fra antico e contemporaneo, esaminando tanti aspetti, anche nuovissimi che potrebbero sfuggire ai più nell’esame generale della storia del paesaggio agrario di cui Sereni fu il promotore. Nel percorso di studio per il riconoscimento e la valorizzazione del paesaggio agrario, il turismo diviene uno degli obiettivi principali per il contributio al mantenimento delle aree rurali anche come supporto al redito agrario. È chiaro che identificare il significato di turismo rurale è necessario per sapere cosa e come offrire agli ospiti che intendono vedere con buoni occhi il paesaggio agrario. La definizione di turismo rurale non è del tutto chiara, riporto qui il tentativo di interpretare il termine che vuole identificare questo nuovo, ma non troppo, settore di interesse culturale: Il panorama degli studi sul turismo nelle aree rurali è frammentato. Si compone di una moltitudine di riflessioni che si riferiscono a discipline e metodologie diverse. Il termine stesso turismo rurale non ha una definizione condivisa. In alcuni lavori, è usato indiscriminatamente per includere tutte le attività turistico ricreative che si svolgono nello spazio rurale, in altri si concentra unicamente sulle attività che riguardano l'agricoltura, la trasformazione o la produzione locale. 307
La Commissione Europea propone una delle prime definizioni di turismo rurale come qualsiasi attività turistica che si svolge nelle zone rurali (Commissione Europea, 1986). Lane (1994) definisce il turismo rurale come il turismo situato in zone rurali che integra le caratteristiche uniche del patrimonio, come l’ambiente, l'economia e la storia. Busby e Rendle (2000) raccolgono cronologicamente tredici definizioni al fine di illustrare un graduale cambiamento di ciò che si intende per turismo rurale. Essi sostengono che il legame tra turismo e agricoltura diventa progressivamente più debole, passando da un turismo presso aziende agricole ad un turismo presso aziende turistiche. Cawley e Gillmor (2008), sostengono che il turismo può definirsi rurale, quando esistono forti vincoli con le attività economiche e produttive del territorio e sono presenti tre caratteristiche principali: l'integrazione, la sostenibilità e l’endogeneità.”1
Promuovere paesaggi agrari ambientalmente ed antropologicamente splendidi e facile. Proporre il mondo agrario che circonda le dolomiti o la valle d’Aosta o il Chianti o gli uliveti di Puglia, per fare alcuni esempi mettendo a disposizione bellezze naturali che già di per sé aiutano, spesso hanno più bisogno di una regolamentazione del turismo che dell’attirare quest’ultimo. Si è partiti nel laboratorio da una riflessione collettiva attorno ad un tavolo ricercando termini, o meglio titoli, che dovrebbero essere l’indice da seguire per analizzare e progettare la fruizione turistica di un paesaggio agrario non attualmente 1 https://agriregionieuropa.univpm.it/it/content/article/31/27/agricoltura-e-turismo-nuovereciprocita-aree-svantaggiate-del-mediterraneo. Questa nota deriva da un lavoro d’esame per la valorizzazione delle aree rurali svantaggiate che appunto nella loro realtà non sono comparabili con molte aree sì agricole, ma con contenuti ambientali in quel momento poco rilevanti.
Fig. 1 La Cooperativa dei Briganti del Cerreto 308
inserito nell’offerta turistica o agrituristica. La politica del fenomeno agrituristico non è stata affrontata nella sua complessità perché soprattutto molto diversa sul territorio nazionale soprattutto per le regolamentazioni regionali e la conseguente attenta applicazione delle medesime, ma anche per le forti contraddizioni che all’interno di questo settore si presentano e che quindi avrebbero avuto necessità di una sessione laboratoriale specifica. La riflessione in aula serviva per costruire degli “occhiali” con cui osservare l’uscita in ambiente fatta poi in bicicletta ed in motonave lungo il Po e dentro il suo alveo. È chiaro che lo strumento analitico che si è proposto attraverso la discussione è stato solo un inizio per costruire una griglia di studio possibile, aiutata dall’esperienza della cooperativa dei Briganti del Cerreto che ha esposto il percorso di un progetto difficile ma di successo cioè quello di mantenere giovani in un territorio ruralmente fortemente abbandonato ma che tenta di riscattarsi anche attraverso il turismo ed altre attività lavorative compatibili con l’ambiente2. L’esperienza della Cooperativa dei Briganti del Cerreto mette anche in evidenza la necessità di leggere un paesaggio con gli occhi di ieri se si vuole comprendere l’oggi. La conquista di mono varietà arboree di antichissime aree coltivate, da qualche decennio abbandonate, evidenzia un ambiente forestato solo in apparenza naturale. Un ambiente bellissimo, povero ma estremamente dignitoso che chiede sforzi e fatiche a volte importanti propone strade da percorrere per poter creare lavoro, cultura e svago.
2 http://www.ibrigantidicerreto.com/chi/
Fig. 2 Edificio recuperato al centro di Cerreto Alpi per l'ospitalità 309
Fig. 3 Schiocchi, 1970
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Valeria Di Cola
Assegnista di Ricerca, Università di Roma Tre
Il lavoro di gruppo1 svolto sul tema dello sviluppo turistico in ambito rurale ha portato in luce molti e interessanti spunti di riflessione a partire dalla discussione di un’esperienza concreta. Sull’esempio della decennale attività della Cooperativa I Briganti di Cerreto, che opera sul territorio fra servizi forestali e animazione di comunità, è nata infatti una riflessione collettiva tesa a focalizzare i nodi concettuali e critici alla base di un buon progetto di promozione culturale, tagliato sulle aree rurali deboli. Quale debolezza? Secondo quanto è emerso sin da subito nel dibattito, dalla viva voce di chi vi opera quotidianamente, il paesaggio emiliano ha l’apparenza di un mondo intatto e incontaminato ma nella sostanza patisce le pene di un uso violento e prolungato delle tecnologie produttive intensive, messe in atto per assecondare le richieste del mercato interazionale. Allo stravolgimento dei terreni e delle colture si accompagna una ricomposizione della fauna locale, che, a causa di apporti esterni, involontari o premeditati, è ad oggi quanto di più lontano possa esistere dal paesaggio emiliano autoctono. Il fianco debole di tale contesto paesaggistico è dunque il disaccordo tra l’aspetto esteriore e la complessa sostanza interiore, o per dirla con il linguaggio della biologia, tra fenotipo e genotipo. Volendo comunicare tale complessità, bisognerebbe, prima di tutto, rimuovere mentalmente l’involucro che avvolge la campagna emiliana o forse, ancor meglio, rimuovere il filtro del paesaggio intatto dai nostri occhi. Ma una volta predisposti, quale potrebbe essere il modo migliore di raccontare un contesto così complesso, profondamente trasformato e, a suo modo, stratificatosi nei secoli, ad un pubblico che, suo malgrado, è convinto di trovarsi in un luogo incontaminato? Questo il quesito sul tavolo della discussione. Va rilevato, prima di entrare nel cuore del dibattito, che un grande pregio dell’esperienza di confronto è stata la composizione molto eterogenea del gruppo di partecipanti, di età compresa fra i 20 e i 70 anni, provenienti da molte regioni d’Italia (Piemonte, Veneto, Emilia, Lazio, Campania, Sardegna), appartenenti a diverse categorie professionali (studenti e ricercatori, liberi professionisti e volontari) 1 Il testo costituisce la sintesi di quanto emerso durante il workshop: i concetti chiave evidenziati in grassetto sono il frutto della discussione e del confronto fra i membri del gruppo di lavoro, la rielaborazione e il commento sono a cura di chi scrive. 311
e operanti in molteplici settori (agricoltura, istruzione, archeologia, scienze del turismo, volontariato). Tornando alla domanda sul tavolo, come si può costruire, dunque, il racconto di un paesaggio rurale complicato, complesso e fondamentalmente invisibile? Presupposto irrinunciabile è la testimonianza. Un esempio in proposito è stato fornito dalla cofondatrice della Cooperativa I Briganti di Cerreto sopra ricordata, la quale, venendo in aula a raccontare la propria esperienza, fatta di rinunce, sacrifici, investimenti e soddisfazioni, ha rappresentato una fonte diretta sincera, concreta, circostanziata, ma soprattutto emotivamente coinvolgente. Si è compreso che testimoniare un’esperienza produce consapevolezza. La presa di coscienza di un concetto o di un problema è un momento fondamentale del processo di formazione e acculturazione, che se ben affrontato genera senza dubbio conoscenza, ponendosi quindi come un vantaggioso investimento per il futuro. E se tale processo si avviasse a partire dai primi anni della formazione scolastica, si porrebbero le basi per uno sviluppo culturale radicato, tale da tradursi in un approccio più disinvolto e consapevole, appunto, al patrimonio culturale e, dunque, anche al paesaggio. Portare il racconto dei luoghi nelle scuole, dagli asili agli istituti di studi superiori, significa poter costruire ponti fra le persone, le istituzioni e i luoghi depositari della memoria collettiva, valutando anche l’opportunità di studiare percorsi paralleli per gli adulti-genitori, sì che ciascuno, con le proprie risorse cognitive, possa immergersi nei paesaggi culturali e mentali di cui l’Emilia e tutta Italia sono ricche. Non v’è dubbio, quindi, che la consapevolezza sia lo strumento in grado di far riconoscere, e di conseguenza far desiderare, la qualità. Una qualità che spazia dalla cura riposta nell’organizzare un’esperienza, in natura o in museo, al livello dei contenuti di un racconto al cospetto di un pioppeto in riva al Po come di un’emergenza architettonica. La qualità, dunque, non può essere sottovalutata, anche perché, riflettendoci, quando essa è carente il prodotto offerto non solo è scarso, ma ingenera un progressivo abbassamento del livello culturale generale, che a lungo andare crea una frattura che inevitabilmente separa e allontana le persone dai luoghi e dalle cose, l’uomo dall’ambiente. In un paesaggio come quello emiliano, che in fondo non si discosta così tanto, in termini di problematiche di fruizione, da un paesaggio archeologico frutto di una stratificazione, la trasmissione delle informazioni sui contesti dovrebbe essere affidata a un mediatore: una figura altamente preparata che funga da anello di congiunzione fra i luoghi e i loro fruitori. La preparazione, si badi bene, è un requisito imprescindibile: che essa derivi da una prolungata formazione in ambito accademico o da esperienza di vita, deve essere alla base della formazione del mediatore, il quale dovrebbe poi dimostrarsi abile e versato nel comprendere il potenziale dei luoghi ma anche delle persone a cui quei luoghi racconta, sì da creare una sinergia che produca conoscenza condivisa, nutrendosi dell’apporto dei partecipanti. Il paesaggio rurale emiliano, tuttavia, si discosta da un paesaggio più marcatamente archeologico per la mancanza o la labilità delle evidenze monumentali. Ma entrambi sono ricchi di storie, leggende, feste e tradizioni, che non avendo esiti monumentali possono soltanto vivere nella memoria di chi le ricorda e nelle parole di chi le racconta. La memoria, dunque, ha bisogno del racconto, di una narrazione che faccia emergere dal sottosuolo quell’immenso patrimonio immateriale che per quanto inafferrabile, 312
non quantificabile, né monetizzabile, costituisce il DNA di un popolo e della sua terra. Un racconto può snodarsi tra le sale di un museo, come la Casa Cervi che ha ospitato la IX Summer School Emilio Sereni, o nei campi, lungo il fiume, in una centrale idroelettrica, in tutti i luoghi dove la presenza umana ha stratificato azioni e, quindi, trasformazioni. Un racconto che può essere ascoltato dalla viva voce di un mediatore (che sia un abitante del luogo o un esperto del paesaggio), o che può essere letto, su supporti cartacei trovati lungo il percorso oppure contenuto in apposite applicazioni per smartphone, ossia in ogni strumento di cui la nostra comunità possa dotarsi, non disdegnando di stare al passo con i tempi. È questione di linguaggi più che di contenuti, e se l’obiettivo è raggiungere ogni tipo di pubblico si dovrà lavorare sulla costruzione del giusto linguaggio. Qual è il motore in grado di attivare quella creatività capace di evocare un racconto sul paesaggio? Da un lato il senso di appartenenza ai luoghi, proprio di chi costruisce il racconto così come di chi desidera ascoltarlo, anzi, forse proprio chi lo ascolta crea la domanda richiedendo servizi o frequentando i luoghi stessi. Dall’altro la genuinità, di un prodotto tipico, come di un’esperienza: del resto non possiamo non riconoscerci nel turista che andando sulla costa desideri mangiare del buon pesce o che dirigendosi in montagna abbia voglia di respirare aria pulita gustando del buon formaggio. Ambiente e prodotti locali sono di fatto il patrimonio da raccontare in un paesaggio rurale, accanto alle storie sulla rivoluziona agricola o sulla Resistenza: il caso della famiglia Cervi di Gattatico è esemplificativo di come un nucleo familiare possa essere depositario di tutto questo, diventando così il tema di un racconto. Di fronte a tanta ricchezza e complessità, il requisito minimo in possesso di chi si occuperà di divulgare le storie del paesaggio rurale è la responsabilità rispetto alla qualità delle informazioni e alla costruzione dei racconti, cioè l’etica del turismo, se così vogliamo definirla per commisurarla al più vasto mondo in cui il paesaggio rurale è solo una delle tante mete possibili. Senza assunzione di responsabilità non c’è comunicazione efficace e non esiste sviluppo culturale. C’è il business, quello sì, che andrebbe visto come risorsa da investire nel miglioramento della fruizione dei luoghi, più che come semplice obiettivo non strutturato nel Sistema, che arricchisce pochi enti, talvolta esterni ed estranei ai contesti in cui operano. Un possibile antidoto alla commercializzazione dei luoghi senza una loro effettiva valorizzazione in termini di conoscenza e diffusione del patrimonio informativo e culturale potrebbe essere la costanza. Un buon progetto che venga abbandonato poco dopo un avvio energico e subito remunerativo è un progetto, in fondo, fallito: un dispendio di risorse ed energie cui non fa riscontro la lunga durata. Sarebbe forse più produttivo, anche in termini meramente economici, investire nella continuità più che nelle opportunità spot: in tal modo si porrebbero le basi per un ampio e diffuso percorso di ristrutturazione della valorizzazione dei luoghi, ancor più se rurali, che sia in grado di creare una controtendenza rispetto alle linee dettate dal mercato del turismo. Già, perché una riflessione a questo punto è d’obbligo: secondo le scienze del turismo, cui si è fatto cenno più volte durante le sessioni di formazione, le forme del turismo cambiano così rapidamente da non lasciare il tempo materiale per costruire qualcosa di duraturo. In aggiunta, secondo i sociologi, l’uomo, oggi, cerca la sicurezza, che sia essa alimentare, nei prodotti genuini sopra evocati, o strutturale, alludendo a luoghi ed edifici al riparo da disastri naturali o accidentali, cui si somma una 313
costante, ossia la ricerca dell’alterità dalla quotidianità nell’esperienza turistica. Una riflessione portata anche al tavolo della discussione durante il workshop, generando uno sconforto diffuso di fronte alla rigida predeterminazione, e senza scampo, dei fenomeni turistici. La reazione del gruppo di lavoro è stata però istantanea, ferma e decisa: deve esistere un algoritmo per modificare la tendenza. In fondo, turisti siamo anche noi e come tali conosciamo i nostri bisogni e le nostre esigenze e tuttavia essi non si allineano alla tendenza generale registrata dai grandi operatori dell’informazione o dagli organi statali. Perché questo iato? Riflettendo sulle modalità di acquisizione dei dati relativi al turismo si è constatato che tendenzialmente essi vengono forniti da strutture alberghiere, ristoranti, siti archeologici, musei, luoghi culturali in generale. Il dato quindi è del tutto realistico ma parziale, non tenendo in debito conto i fattori immateriali, come la sensibilità, l’emotività, la frustrazione: come i tanti operatori nel campo della didattica museale e scolastica presenti alla discussione hanno osservato, dissentendo dalla visione generalista, nelle valutazioni si tende a non diversificare un turista dall’altro. Ciascuno di noi ha più volte toccato con mano l’atmosfera creativa e coinvolgente che si produce durante una visita guidata in un luogo culturale con un gruppo di turisti, cioè di persone che convengono in un dato luogo in un dato momento per motivazioni varie. Quell’immenso patrimonio di emozioni, di scambi umani, di perplessità e curiosità che maturano durante un’esperienza collettiva difficilmente giunge in sede di valutazione, giacché il dato concreto sul quale si basa il calcolo è l’acquisto di un servizio. E dunque esiste un grande bagaglio di umanità e cultura, che si forma e cresce nei contesti dove avvenga una mediazione, come un’escursione o una visita guidata; bagaglio, che tuttavia non sembra essere adeguatamente considerato, ma che d’altra parte fa sperare nella possibilità di creare una controtendenza. Se è l’alterità dal quotidiano che il turista cerca, allora gli sarà offerta l’estraneazione: un’esperienza fondata sul catturare l’attenzione di chi ascolta attraverso il rapimento, interagendo con la sfera emotiva e aprendo così la strada alla comunicazione, di qualità, inutile dirlo, dei fatti e delle storie. Dal punto di vista dell’archeologia, che per formazione personale conosco meglio, un simile percorso didattico funziona sempre. Condividere insieme a un gruppo di curiosi o di studiosi la meraviglia di fronte a una parete dipinta della Domus Aurea oppure a una massa di ruderi che un tempo furono il tempio del Divo Cesare al Foro Romano è una scelta vincente per lavorare alla costruzione di un sentire comune, che poi di fatto si traduce nella trasmissione di un approccio al patrimonio culturale. Del resto la sensibilità umana è un elemento niente affatto secondario: pur adattandosi alle tendenze di un’epoca, la percezione emotiva di un contesto è un denominatore comune, a prescindere dalla formazione scolastica o dalla estrazione sociale. Siamo dunque convinti che questa modalità comunicativa possa essere efficace tanto per le architetture quanto per i campi di granturco, perché la sfida è di farli parlare, con l’aiuto dei mediatori che calibreranno i linguaggi (non i contenuti) in rapporto ai luoghi e al pubblico. Volendo tirare le fila della discussione, si è individuato nel termine stratificazione il nesso concettuale che accomuna tutti i contesti chiamati in causa. La debolezza individuata all’inizio nel paesaggio rurale emiliano risiedeva proprio nella difficoltà di dare conto della stratificazione, non solo fisica dei suoli, ma anche astratta delle tradizioni immateriali e dei paesaggi: in una parola, culturale. Percepire la stratificazione, così come ho avuto modo di imparare dai miei maestri, significa 314
scegliere di porsi in relazione con uno spazio, che si trasforma, e un tempo, che scorre. Essendo parte di un divenire, storico e culturale, abbiamo straordinarie opportunità di conoscenza se accordiamo a noi stessi il permesso di non fermarci alla superficie dei luoghi e delle persone, ma di andare oltre, giù in basso fino alle viscere e poi lontano verso l’orizzonte, ma anche indietro a ricercare le origini. Non dubitiamo che il tempo sia nostro alleato, a condizione che si comprenda il ritmo proprio di ciascun luogo. Il paesaggio rurale, ad esempio, ha un ritmo duplice: alla lentezza suggerita dalla tranquillità ambientale, fa riscontro il dinamismo della continua trasformazione, proprio quella che con tante difficoltà si cerca di comunicare e trasmettere al turista. Forse la scelta migliore per porci in relazione con un paesaggio rurale è quella di concederci un buon tempo a disposizione: inforchiamo, dunque, la nostra bicicletta e cominciamo a pedalare.
Fig. 1 L'antico milino di Cerreto ALpi, oggi recuperato come struttura ricettiva
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Il turismo nelle campagne: esperienze territoriali
Valeria Volpe
Dottoranda presso IMT Scuola Alti Studi Lucca
Coerentemente inserito nel fitto programma della Summer School E. Sereni 2017, il workshop Il turismo nelle campagne: esperienze territoriali, coordinato da Chiara Visentin (IUV Venezia) e ampiamente partecipato, ha avuto come obiettivo quello di affrontare il tema della mobilità lenta (a piedi, in bici, a cavallo, in barca) come motore di sviluppo turistico nelle aree rurali e interne. Nonostante definire ‘motore’ ció che per sua stessa natura ha un basso impatto ambientale possa sembrare una contraddizione in termini, che l’investimento in mobilitá lenta costituisca uno dei piu efficaci modi di differenziazione e incremento della capillaritá e della qualitá dell’offerta turistica, soprattutto in quella vasta porzione di territorio italiano a destinazione rurale e nelle aree ‘di frontiera’ e interne, é stato punto di vista condiviso nel corso del workshop e, in generale, nell’indirizzo scientifico e etico della Scuola. Che peró tali interventi debbano basarsi su rigorosi criteri scientifici e solide basi di progettazione e programmazione continua rappresenta parimenti una imprescindibile conditio sine qua non. Questo breve contributo si propone di ripercorrere e riassumere i punti salienti dell’animata discussione avvenuta nel workshop e, per questo motivo, va considerato più ‘prodotto collettivo’ che lavoro esclusivo di chi scrive. A introdurre i principali problemi, le domande e, soprattutto, a presentare un caso studio é stato Giovanni Pattonieri, direttore del Gal del Ducato, delineando scelte e metodologie messe in atto nel progetto Aggregare per innovare, volto al finanziamento e al supporto delle filiere e dei sistemi produttivi locali e allo sviluppo di forme di turismo sostenibile nei territori di Parma, Reggio e Piacenza, investendo principalmente nella riattivazione e fruizione di tratturi e itinerari giá esistenti. Rinviando al suo contributo per i dettagli del progetto, mi sembra peró importante sottolineare come giá dalla sua intitolazione si capisca come l’aggregazione, il lavorare insieme, il mettere a sistema fornendo risorse finanziare ma anche e soprattutto formazione e sistemi di facilitazioni a imprese e associazioni locali, siano il cuore di questo prezioso lavoro sul territorio emiliano. In Italia, negli ultimi anni, seppur con ritardi e modalità ancora non perfettamente istituzionalizzate e entrate a regime, l’infrastrutturalizzazione e la valorizzazione di 317
reti di itinerari per la mobilità lenta hanno rappresentato uno dei settori di intervento del MiBact: come il 2016 è stato l’anno dei cammini, il 2019 sarà dedicato al turismo lento, permettendo così di proseguire e implementare il lavoro di individuazione, georeferenziazione e valorizzazione dei 44 cammini italiani riconosciuti dal Ministero1. A questo tipo di intervento si aggiungono, sempre a livello nazionale, le direttive del Piano Strategico per il Turismo 2017-20222 e la programamzione della Strategia Nazionale per le Aree Interne3, entrambi volti alla diversificazione dell’offerta, all’indirizzo programmatico del turismo verso le aree interne e ai temi di sostenibilitá ambientale e turistica4. Innumerevoli sono poi gli strumenti legislativi e le iniziative locali: basta pensare, solo per citarne alcuni, agli interventi in Puglia5, Toscana6, Piemonte7, ai lavori per la via Francigena del sud8, oltre ovviamente al coraggioso e innovativo progetto interregionale della ciclovia VENTO9. La strada da percorrere è ancora molto lunga, nonostante la domanda di questo tipo di turismo sia aumentata negli utimi anni: nuovi turisti per un nuovo turismo, lento e consapevole. Come anche messo in luce negli interventi di Erica Lemmi e Fabiola Safonte, crescono, infatti, le presenze di visitatori cosidetti ‘nomadi e digitali’, alla ricerca di destinazioni alternative ai luoghi del turismo di massa, orientati verso la scelta di localitá rurali e interne, più responsabili e aperti allo slow tourism e alla mobilitá dolce. È questo un turismo di qualitá, sostenibile a livello ambientale e sociale e competitivo a livello economico e l’investimento in mobilitá lenta puó essere, infine, la chiave per attrarre turismo nelle aree rurali. Scegliere di viaggiare a piedi, in bici, a cavallo o in barca implica lo spostarsi, il muoversi in una porzione di territorio, urbano o rurale, in ogni caso paesaggio storico e, in quanto tale, prodotto e bene culturale, composto di valori materiali (strutture storiche, centri urbani, campi, strade, coltivazioni) e immateriali (conoscenze, 1 Si veda www.beniculturali.it/camminiditalia.it 2 http://www.turismo.beniculturali.it/wp-content/uploads/2017/07/Piano-Strategico-del-Turismo_2017_IT.pdf 3 http://www.agenziacoesione.gov.it/it/arint 4 Mi sembrano ulteriormente degni di nota l’approvazione con A.S. n. 2670 del 2 agosto 2017 del DDL Disposizioni per l’istituzione di ferrovie turistiche mediante il reimpiego di linee in disuso o in corso di dismissione situate in aree di particolare pregio naturalistico o archeologico, cosí come il progetto Cammini e Percorsi dell’Agenzia del Demanio per l’affidamento di case cantoniere e immobili di proprietá dell’Anas lungo percorsi cicloturistici e pedonali (http:// www.agenziademanio.it/opencms/it/progetti/camminipercorsi) . 5 Il progetto Puglia 365 (http://www.puglia365.it) ha finanziato iniziative di cicloturismo, su percorsi culturali e enogastronomici nell’estate e autunno 2017. 6 La Regione Toscana con decreto dirigenziale n. 2685 del 28 febbraio 2017 ha approvato il bando Sostegno ad interventi di mobilità urbana sostenibile: incremento mobilità dolce-piste ciclopedonali in ambito urbano, stanziando 3.750.000 euro. 7 Con delibera del Consiglio regionale del 16 gennaio 2018, n. 256-2458, il Piemonte ha approvato il Piano regionale della mobilità e dei trasporti. 8 http://www.viefrancigenedelsud.it/ 9 P. Pileri, A. Giacomel, D. Giudici, Vento. La rivoluzione leggera a colpi di pedale e paesaggio. The gentle revolution cycling its way through the landscape, Corraini, Mantova 2015. 318
tecnologie, tecniche agricole, arti). Per questo motivo, il binomio mobilità lentapaesaggio è centrale: muoversi con mezzi alternativi all'automobile privata e agli invasivi autobus turistici si profila come il modo più coerente e adeguato, forse l’unico davvero possibile, per vivere una esperienza di paesaggio totalizzante e profonda e per godere al meglio di quel diritto collettivo al territorio10 di cui le comunitá dispongono e che bisogna reclamare. A seconda dei luoghi e delle vicende insediative e storiche locali, si potrá scegliere se creare nuovi o riattivare vecchi sentieri e ciclovie, seguendo rotte naturalistiche, attraversando i paesaggi storici, percorrendo strade di pellegrinaggio o intraprendendo percorsi enogastromici. Inoltre, in rapporto ai beni culturali presenti nel territorio (siti archeologici, monumenti, chiese, aree produttive, ecc.), la realizzazione e la cura di itinerari nelle campagne assume una duplice valenza: da una parte l’itinerario trae beneficio della presenza di strutture e paesaggi storici e l’esperienza turistica si arricchisce di valenze materiali e immateriali; dall’altra i tracciati a mobilitá lenta possono funzionare come elemento di valorizzazione e aiutare la fruizione da parte del pubblico dei luoghi della cultura marginali, spesso poco noti e frequentati. Nel corso del workshop, per orientare al meglio la discussione e rendere più concrete e ordinate le tante proposte e i differenti punti di vista, il gruppo di lavoro, su indicazione del coordinatore, ha deciso di stilare un elenco di dieci punti. Senza avere la presunzione di essere vere e proprie linee guida, essi vanno piuttosto considerati come indicazioni e temi da tenere a mente nel corso della progettazione, realizzazione, fruizione, gestione e programmazione continua, ovvero in quella lunga filiera di attivitá, intrensicamente legate le une con le altre, inscindibili e sensibili di successo solo se integralmente compiute. Si riporta di seguito tale decalogo; ogni punto é arricchito da una breve spiegazione volta a meglio contestualizzare l’indicazione. 1. Progettazione partecipata: facciamola insieme, la strada Progettazione partecipata significa andare oltre la pianificazione, in favore di una co-pianificazione che riesca a coinvolgere tutti i potenziali stakeholders, dando avvio al progetto su solide basi. Da qualunque istituzione, pubblica o privata, provenga l’impulso alla pianificazione, l’integrazione tra i diversi piani istituzionali (stataleregionale-provinciale-comunale) sará necessaria: attraverso tavoli tecnici partecipati, tutti i portatori di interesse dovranno essere chiamati a collaborare, responsabilizzati, formati e messi nelle condizioni di partecipare attivamente e in maniera propositiva. Progettare in maniera partecipata significa, dunque, anche aprirsi a una profonda conoscenza del territorio. Il paesaggio inteso come una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni (CEP 2000, art.1) é intrensicamente suscettibile di percezioni differenti, portatore di una molteplicitá di interessi, valori, identitá, strutture. Come tale, va conosciuto in tutte le sue sfaccettature. Nessun 10 P. Maddalena, Il territorio, bene comune degli italiani. Proprietà collettiva, proprietà privata e interesse pubblico, Donzelli, Roma 2014. 319
restauratore interverrebbe mai su un reperto senza conoscerne a fondo i materiali che lo compongono, il contesto di provenienza, la cronologia di riferimento e senza aver prodotto una documentazione attenta; allo stesso modo non si potrá avere la presunzione di intervenire su un territorio senza dominarne con consapevolezza la storia, la sua evoluzione nel tempo, le caratteristiche salienti, le comunita del passato e del presente che quel paesaggio hanno costruito e abitato. Bisogna quindi conoscerne le rappresentazioni e il valore culturale e identitario, sviluppando e rafforzando le capacitá endogene delle comunitá locali. Di quali strumenti ci si puó servire? Questionari, open days, mappe di comunitá, attivitá laboratoriali, gruppi di lavoro, incontri periodici, ecc.
2. Disponibilitá alla contaminazione, ovvero della difficile arte di affrontare la complessità Perché il punto precedente sia coerentemente messo in atto e si riesca effettivamente a tenere testa alla complessità del paesaggio e a intervenire in maniera efficace e completa, già in fase di progettazione, e comunque nel corso di tutto l’iter, si dovrà favorire e garantire la collaborazione e il confronto tra insiders/outsider per il riconoscimento e la definizione degli elementi di valore percepiti dall’interno e di quelli provenienti dall’esterno, valori spesso in contrasto tra loro. Dando rilievo alla complessitá, si potranno comunque identificare alcuni punti chiave, selezionare alcune rappresentazioni comuni tra i vari attori e su di essi costruire percorsi condivisi di sviluppo turistico.
3.
Non la meta, ma il viaggio
Il visitatore che sceglie di viaggiare in modo lento, di affrontare la strada, ha, come l’Ulisse di Costantino Kavafis, sempre in mente la meta (e le tappe intermedie), ma dando valore al proprio viaggio. Che sia il viaggio, dunque, l’esperienza da valorizzare, facilitando ma lasciando libertá nell’organizzazione del tour, creando percorsi ad anello, intrecciando più itinerari, ma soprattutto che il progetto di mobilità lenta parta da casa! La partnership tra livelli di amministrazione centrale/locale e con le agenzie di trasporto deve esplicarsi in particolar modo nella capacità di integrazione di infrastrutture/trasporti/servizi e, nello specifico, tramite la definizione di regole comuni per il trasporto delle biciclette e delle attrezzature sportive, orari coordinati, punti informativi e segnaletica chiare. Il turismo rurale aiuta a differenziare, integrare e arricchire anche il reddito agricolo: la creazione di una rete di strutture per la ristorazione, il pernottamento, il nolo delle attrezzature costituisce un primo intervento di impatto e di miglioramento della vita quotidiana delle comunitá insediate nel territorio e allo stesso tempo risponde alle necessitá del viaggiatore.
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4. Cucire addosso: rimedi alla globalizzazione e alla standardizzazione dell’offerta Per evitare l’attuazione di modelli standardizzati, unici e ripetibili ovunque, che non rispecchino l’ídentitá dei luoghi é d’obbligo modulare e arricchire la propria offerta in base alle specificità locali, sulla base del condiviso progetto culturale da cui si prende le mosse. Conoscere le esperienze e le storie di altri contesti aiuta senza dubbio a individuare best practices e metodologie di indagine e realizzazione, ma occorre tenere in mente che un modello unico non esiste. La minaccia da allontare é l’effetto Disneyland e presepe vivente: non sará necessario intervenire restaurando equilibri territoriali ormai perduti (se pure sono mai esistiti), ma instaurandone di nuovi e più efficienti attraverso la produzione di nuovo territorio11 valorizzando e inserendo nei percorsi le conoscenze e le produzioni locali autentiche ma senza atteggiamenti nostalgici e localistici. Un ritorno al territorio che non sia un ritorno al passato, ma uno sguardo al futuro. Con l’espressione cucire addosso si intende anche saper individuare i valori e specificitá dei luoghi e creare un brand e un logo riconoscibili, esplicativi e coerenti con l’offerta culturale.
5.
Reponsabilitá e controllo: binari differenti e paralleli
Responsabilitá di progettazione e di gestione e controllo di qualitá compongono un binomio indispensabile, le cui azioni devono tuttavia necessariamente esplicarsi su piani diversi e paralleli. Per la prima, affidata a attori singoli o associati, di natura sia privata che pubblica, bisogna applicare i principi di accountability, agency e rendicontazione sociale. Il controllo invece deve essere preferibilmente pubblico, dal momento che pubblico é l’interesse da preservare e comuni i beni su cui si agisce, evitando con accuratezza eventuali situazioni di collisione di interessi. Che il controllo dunque ci sia e sia serrato, ma non burocratico, identificando giá in fase di progettazione i criteri per una corretta valutazione dell’impatto dell’operazione.
6. Gestione affidata: il lavoro come responsabilitá sociale e crescita del territorio Che l’intervento provenga da un ente pubblico o privato, esso deve diventare un’occasione di lavoro qualificato. In questo senso, è da preferire l’affidamento a privati associati, organizzazioni no profit, a nuove assunzioni ad hoc. Il lavoro dei volontari, singoli o associati, che in Italia rappresenta una realtá ben affermata e di vitale importanza, può e deve affiancare la squadra di lavoro, ad esempio nella gestione straordinatria, negli interventi di ripristino, in specifici e concordati programmi di attivita’, ma non sostituire il lavoro dei professionisti di settore.
11 A. Magnaghi, Riterritorializzare il mondo, in «Scienze del Territorio», Ritorno alla terra, n. 1, 2013, p. 52. 321
7.
Popolare la strada: l’importanza di una promozione efficace
Segnalare un sentiero, sul campo e su internet, non basta a popolarlo. La promozione e la diffusione delle informazioni é uno dei capisaldi dell’intera filiera: far conoscere e mettere il visitatore nella condizione di poter ottenere tutte le infomazioni utili a programmare e a intraprendere il viaggio é un dovere, significa restituire al pubblico il lavoro fatto (spesso tra l’altro realizzato con fondi pubblici). Senza la creazione di una rete per la promozione degli itinerari e una comunicazione dell’offerta in maniera differenziata ma coerente, sfruttando e mantenendo aggiornati tutti i possibili canali (siti web, app, piattaforme social, contatti con operatori turistici), é difficile che la strada si popoli e che l’intervento, pur sulla carta portato a termine, possa essere considerato di successo.
8.
Educazione: il valore di una classe a cielo aperto
Il mantenimento e la nuova creazione degli elementi di valore passa anche attraverso l’educazione e la formazione continua. Che i percorsi siano quindi usati come risorsa educativa (per gite scolastiche, escursioni, attivitá sportive e di orienteering, campi estivi, summer schools) e come luoghi per produrre arte e cultura (ad esempio attraverso l’offerta di residenze per giovani artisti e concorsi di arte). Immersi nel territorio, questi luoghi devono ambire a diventare vere scuole di paesaggio, grazie ai quali il visitatore possa entrare in contatto con le comunità e i monumenti e allo stesso tempo apprendere e esperire la nozione di paesaggio culturale.
9.
Valorizzare le competenze, ricomporre gli specialismi
Questo punto é trasversale ai precedenti: valorizzare le competenze vuol dire, in fase di progettazione e nella gestione ordinaria, collaborare in maniera continuativa con le universitá, gli istituti di ricerca e con quanti lavorano sul territorio, rendendo i cammini laboratori di divulgazione e ricerca. Il paesaggio é il luogo in cui gli specialismi possono incontrarsi e ricomporsi, ognuno con le proprie competenze: archeologi del paesaggio, architetti, agronomi, storici, geografi, esperti di gestione turistica e pianificatori lavorino insieme per creare un progetto olistico condiviso.
10. Il viaggio continua: per una progettazione continua Il lavoro non finisce con la realizzazione dei tracciati. Deve esserci un continuo aggiornamento, sulla base di un vero e proprio progetto scientifico e educativo, attuando un continuo controllo dei tracciati e la ridefinizione degli stessi in base ai cambiamenti stagionali e sistemici. La vera sfida sta nella gestione ordinaria e nell’ideazione di nuovi modi di vivere il paesaggio che, per sua stessa natura, quale organismo vivente complesso, non é mai statico, ma sempre in continua evoluzione. Ripercorrendo, per la stesura di questo contributo, non solo gli appunti del workshop ma anche i materiali e le annotazioni degli interventi della Scuola, appare evidente come i temi qui affrontati siano stati in realtá temi ricorrrenti e in alcuni 322
casi veri e propri fili conduttori nei giorni trascorsi assieme: un segno positivo, che ci conferma quanto il workshop abbia ben centrato l’obiettivo piú generale, prefisso dalla summer school, ovvero quello di indagare il rapporto tra turismo, patrimonio culturale e paesaggio. Di primo piano e trasversali mi sembrano i concetti di partecipazione democratica e cittadinanza attiva; il bisogno di ideare per il paesaggio, in quanto patrimonio culturale, modalitá di fruizione compatibili con le necessitá di tutela e conservazione; l’educazione come momento di trasmissione e ideazione di valori identitari e sociali; la valorizzazione delle professionalitá e competenze, in un clima di rispettoso confronto, ma soprattutto l’opportunitá di un turismo sostenibile come volano per lo sviluppo delle aree rurali. In conclusione, come abbiamo visto, costruire un piano di mobilitá lenta per lo sviluppo del turismo nelle aree rurali è una grande opportunità, che però non si risolve solo nell’azione quasi meccanica di individuazione dei sentieri e di definizione di itinerari e percorsi. Non basta, insomma, unire i punti con delle linee: é un processo assai più complesso, tanto quanto complesse sono le implicazioni che il paesaggio stesso sottintende. Non per questo il viaggio deve spaventarci: disponiamo nelle nostre universitá, nel mondo dell’associazionismo e delle imprese per la cultura e il turismo, di competenze e sensibilitá che hanno le carte in regola per rendere questo indirizzo di sviluppo una concreta realtá.
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L’arte del truciolo nella bassa reggiana e modenese Ipotesi di un tinerario tra Carpi e la Bassa reggiana Matilde Teggi
Studentessa, Accademia di Belle Arti di Brera, Milano
L’arte del truciolo nella Bassa reggiana e modenese Le origini dell’arte del truciolo sono piuttosto complesse da inquadrare con esattezza. Tuttavia numerose fonti, scritte e orali, testimoniano che essa è un’attività molto antica ed estremamente radicata nella tradizione italiana. Arte o artigianato che sia, essa rappresenta un vero gioiello del Rinascimento1. Prime notizie certe del commercio di cappelli de treza de legno o paja2 si hanno intorno al 1531, attestate dai libri delle Gabelle carpensi. L’inventore della pratica di intrecciare il truciolo per realizzare i cappelli di legno viene identificato tradizionalmente nella figura di un certo Nicolò Biondo. Quest’ultimo è definito anche come gubernatore de li boschi, nel 1437, fra i tagliduri che baschavano legne e già Gubernatore de li boschi de Medicina e negoziante di vini nel 1440. Altra versione di questo personaggio è fornita dallo studioso Policarpo Guaitoli, nipote dell’abate Paolo Guaitoli di Carpi, esperto di storia locale, raccoglitore di notizie e documenti; egli afferma, in una sua ricerca: è lecito concludere che quest’arte (del truciolo) non era conosciuta in Carpi anteriormente ai primi anni del secolo decimosesto”, facendo risalire quest’altro da una stirpe il cui padre era Trombetti alias Biondi detta prima de’ Carpi di Milano trapiantata a Carpi verso la metà del sec. XV e da Agostino nacque Nicolò inventore dell’arte del Truciolo, del quale un documento del necrologio della Cattedrale di Carpi segnerebbe la morte nell’anno 1516. Nel 1782 il pittore Antonio Montanari, detto Postetta, realizzò il primo dipinto che ritraeva Nicolò Biondo che fissa con la mano sinistra il ramo di salice e ne ritaglia, con la mano destra, le fettucce di legno che serviranno a ricavare i paioli da intrecciare3.
1 G. Bertacchi, Un’arte italica-il truciolo, Carpidiem, Carpi 2015 p. 16. 2 Dipartimento Istruzione e Cultura Comune di Carpi, L’arte del truciolo a Carpi, Centro stampa del Comune, Carpi 1998, p. 4. 3 Cfr. F. Canova, C. Bulgarelli, L’arte della treccia e del cappello di paglia: origini, storia, attività da Carpi a Villarotta di Luzzara, Collezioni Modenesi, Finale Emilia 2009, p. 9 325
Il Biondo apparteneva, inoltre, come laico, alla comunità degli agostiniani e furono proprio questi ultimi a diffondere la nuova pratica del truciolo, da Carpi al resto d’Italia e d’Europa. I frati, che in quel periodo stavano sperimentando la coltivazione della cipolla in territorio padano, colsero l’importanza di questa invenzione come oggetto efficace da utilizzare anche per la protezione dal sole durante il lavoro nei campi, tanto che istituirono una sorta di scuola per il suo insegnamento. I cappelli di paglia erano talmente diffusi all’epoca che, tra il 1443 e il 1447, Antonio Pisano (detto il Pisanello), pittore che operava tra Mantova e Ferrara, dipingeva la Vergine in gloria e i Santi Giorgio ed Antonio abbigliati secondo la moda del tempo, mettendo in capo a San Giorgio, alias Lionello d’Este, signore di Ferrara, un grande cappello di paglia sicuramente di truciolo; ciò si deduce proprio dalla sua dimensione, che non sarebbe stata tollerabile se costituito di paglia. Scriveva, infatti, Giovanni Spinelli: L’ampiezza eccezionale del copricapo di Lionello, almeno ai confronti degli odierni costumi, lascia pensare che se esso fosse stato costruito con paglia di frumento o spelta sarebbe risultato di peso tanto molesto da riuscire inservibile, come assai difficilmente le sue larghe tese avrebbero potuto reggersi orizzontali.4
Benozzo Gozzoli dipinge, nel ciclo di affreschi al Camposanto a Pisa del 1465 alcune scene dell’Antico Testamento e, in un particolare vediamo che vi sono tre cavalieri dipinti con cappelli di paglia in testa. I cappelli di paglia erano, in effetti, già molto diffusi per la loro leggerezza e per proteggersi dal sole. L’industria, a inizio Cinquecento, era talmente prospera che si dovette proibire, sotto pena di venticinque scudi d’oro, di spigolare e far lavori di paglia, treccia di legno ai tempi del raccolto dal 20 giugno a tutto il luglio5. La lavorazione della treccia occupava specialmente donne e bambini, i quali preferivano tale occupazione rispetto alla più faticosa lavorazione dei campi. Erano stati stabiliti tre giorni a settimana per la vendita del truciolo, che avveniva al mercato di Carpi. Autorità e proprietari terrieri si dimostrarono preoccupati di vedere trascurato il lavoro nei campi in favore della fabbricazione della treccia e ciò è testimoniato dal documento del Podestà Fantini del 1612 che riporta che li cappelli di legno tirano assai denaro forestiero e sono negotio di molto utile et di stima6. Nel 1631, i cappellari furono addirittura tassati di cento lire, salite a quattrocentocinquanta nel 1635. Intorno al 1630 nelle campagne arriva, inoltre, la peste, che coinvolge la popolazione e influenza negativamente ogni cosa, compresa la produzione del truciolo. La necessità, poi, di difendersi dalle imposte ducali aveva spinto produttori e mercanti a dare vita ad una Corporazione dei Cappelari di legno, costituita definitivamente il 5 marzo 1594, in cui i cappellai erano rappresentatati da Pietro Pederzoli, massaro dell’arte de’ copie di legno. Questa è la prima organizzazione 4 A. G. Spinelli, Memorie sull’arte del truciolo in Carpi. Contributo alla storia delle industrie nazionali, Modena Rossi, Carpi 1905, p. 34. 5 F. Canova, C. Bulgarelli, L’arte della treccia e del cappello di paglia: origini, storia, attività da Carpi a Villarotta di Luzzara, Collezioni Modenesi, Finale Emilia 2009 6 Ibidem. 326
dei lavoratori del settore di cui si abbia notizia7. Il Massaro doveva diffinire e far ragione sommaria nelle cose appartenenti all’esercizio di detta arte; doveva avere un libro in cui tener l’esatto conto delle quote in denaro che gli sarebbero pervenute: se qualcuno si opponeva o contestava lui era l’unico a poter dire at ver el liber (ti apro il libro). Era lui a dare licenza di comprare o esportare treccia o cappelli. Nel 1637 vengono redatti degli Statuti o Capitoli dell’arte del Truciolo, che istituivano una vera e propria politica protezionista, la quale prevedeva la restrizione del monopolio della fabbricazione agli iscritti, l’impedimento di compravendita fuori dal mercato e l’obbligo di pagamento dei sussidi per i venditori di treccia. Inoltre, si stabiliva che nessun forestiere potesse essere accettato nell’arte se non domiciliato in Carpi da dieci anni e, nel 1638, un Bando del Duca di Modena proibiva la emigrazione ad altra città per esercitarvi l’arte dei cappelli di legno tanto che era prevista pena capitale e confisca dei beni per chi trasgrediva8. Nella corporazione si incontravano gli interessi dei mercanti e dei produttori diretti, descritti in un documento del 1599 come migliaia di infelicissimi poverini che lavoravano la treccia tutta notte nelle stalle. Tuttavia, molto presto, emersero i primi conflitti di classe, in merito, ad esempio, ai rapporti con la tassazione ducale che i mercanti facevano gravare sui lavoratori o alle retribuzioni degli operai. Dal 1642 furono, infatti, istituiti due Massari per la rappresentanza ufficiale dell’arte del truciolo: uno per i mercanti e uno per gli operai. Da questo momento fu fondamentale anche l’intervento del Comune, che, agendo da mediatore, imponeva la nomina del massaro e di supervisori alla fase di pesatura della treccia e assegnava la quota di tasse, i luoghi e gli spazi. Progressivamente si aprivano nuovi mercati e, per affrontare la concorrenza, l’Arte del Truciolo dovette subire un aggiornamento e una riorganizzazione. Nei nuovi capitoli dell’Arte emanati dal Duca il 13 aprile 1750 si stabilisce la nuova struttura gerarchica: vi è un Consiglio dei membri dell’Arte, con un primo e un secondo console (entrambi con i rispettivi vice), un giudice per le controversie, un cancelliere per le registrazioni e immatricolazioni. Si distinguevano i lavoratori iscritti in sopraffini, fini, ordinari, in base alla qualità del prodotto che fornivano. Il Massaro e i Consoli avevano il dovere e la podestà di controllare la qualità della materia prima smerciata a Carpi. Il registro delle mutazioni di classe e di produzione doveva, inoltre, essere aggiornato costantemente. Si vietava il commercio ai non iscritti, l’insegnamento delle tecniche di produzione ai forestieri e permanevano la pena di morte e la confisca dei beni per chi avrebbe osato esercitare l’arte fuori dal Ducato. Il motivo per cui furono stabilite misure tanto rigorose fu probabilmente per proteggere il prodotto e la produzione carpigiana, minacciata dalla crescente concorrenza dei cappelli di paglia di Firenze. Intorno al 1750 il mercato dei cappelli di paglia si estese in Inghilterra, grazie al Duca Francesco III che incaricò l’abate, diplomatico e agente commerciale degli Estensi, Antonio Grossatesta, di selezionare i prodotti tipici della zona da esportare a Londra. Egli analizzò le carni e i vini di Modena, la seta di Reggio Emilia, ma fu solo 7 Dipartimento Istruzione e Cultura Comune di Carpi, L’arte del truciolo a Carpi, Centro stampa del Comune, Carpi 1988, p. 6. 8 C. Contini, Il cappello di paglia nella storia e nell’arte, Artioli Editore in Modena 1995, pp. 11-16; V. Montuoro, Fortuna plurisecolare del cappello di legno di Carpi, in «Il giornale d’Italia», 12 giugno 1954, p. 3. 327
grazie a Carlo Francesco Scacchetti che i cappelli e le trecce carpigiane sbarcarono nella società inglese. Lo Scacchetti, figlio di aromatori che preparavano la mostarda, aveva due suoi agenti a Londra, che avevano costituito la ditta Cugnoni Bornis & co. L’abate Grossatesta si accorse molto presto di Scacchetti, il quale usufruiva evidentemente di una privativa (in altre parole un monopolio), e sollecitò il duca all’utilità che può derivare allo Stato da questo piccolo traffico. Francesco III decise, dunque, di concedere la privativa allo Scacchetti, ma, in breve tempo, partì una campagna denigratoria da parte di un gruppo di banchieri e commercianti ebrei: si tratta di Norsa e Usiglio. La Camera Ducale decretò che lo Scacchetti sarebbe rimasto unico titolare della privativa nella zona di Carpi, mentre Norsa e Usiglio avrebbero goduto dello stesso privilegio a patto che fosse esercitato oltre i confini del Tresinaro, a Correggio. Grossatesta constatò che a Londra si faceva largo uso del cappello di paglia in quel periodo, specialmente da parte delle donne. Scacchetti si fece progettare nel 1753 una villa dall’architetto Carlo Lugli e nella chiesetta fece collocare una tela con un’immagine della Madonna fra S. Eurosia, patrona dei campi e S. Vincenzo Ferrerio, eletto qualche anno prima patrono dell’Arte del Truciolo. Secondo la leggenda egli fu un domenicano di Valencia che donò il suo cappello intessuto di foglie di palma a una donna in misere condizioni, assicurandole che finché avesse avuto il cappello non le sarebbe mancato il pane. Nel 1750 il duca considerava Scacchetti un suo famigliare perché s’applicò ad introdurre e promuovere varie arti in particolare i cappelli detti di truciolo9. Molti erano convinti che si stesse verificando una crisi economica visibile nell’evidente povertà della popolazione, e la responsabilità di tale crisi venne attribuita proprio alla privativa; a tal proposito importante è la figura dell’avvocato Giuseppe Vellani, il quale sosteneva che la privativa avesse sempre il pubblico interesse come obiettivo. Egli propose di occupare i bisognosi in una filanda (che poi prese il nome di Telonio) e, grazie al comune, a Raffaele Namias e a Norsa e Usiglio, si arrivò ad adattare un edificio accanto alla chiesa di S. Francesco. Tuttavia, il problema economico rimaneva e la superproduzione che non trovava riscontro nei paesi esteri provocò una vera e propria crisi. Gian Carlo Scacchetti sembrò non preoccuparsi della situazione e continuò a sperperare il denaro della famiglia. Nel 1781 la concessione di privativa fu comunque rinnovato per altri nove anni. Nel 1786, però, il Telonio venne chiuso e quattro anni dopo la compagnia Norsa Usiglio decise di rinunciare alla privativa, dati tutti gli svantaggi che essa presentava. I lavoratori esclusi, praticando il contrabbando o la vendita clandestina, generarono la presenza di prodotti di bassa qualità, provocando così periodiche crisi del truciolo e assecondando la diffusione del cappello fiorentino. A questo punto si fece avanti Giovanni Antonio Tini che, nel 1791, assunse la privativa e si impegnò a realizzare un prodotto che assecondasse il gusto della moda. Egli istituì il Premio della Virtù, ricompensa annuale che consisteva in una medaglia d’oro da assegnare, a sorte, a una lavoratrice. Inoltre Tini volle coinvolgere anche gli uomini dell’Arte: quindi acquistò 6000 pali di salice che cedette poi ai pagliari. Tuttavia, tale scelta si rivelò negativa: nel 1794, alla spesa di 5200 lire per l’acquisto
9 C. Contini, Il cappello di paglia nella storia e nell’arte, Artioli, Modena 1995, p. 103 328
dei pali corrispose infatti un rimborso dei pagliari di sole a 549 lire10. Fu, infine, nel 1798 che si abolì la pratica della privativa e si stabilì il rapporto diretto tra Società Commerciale e singoli produttori. Con un decreto di Napoleone, nel 1800, venne, infine, abolita la Corporazione dell’Arte del Truciolo. Ruolo fondamentale nel corso del XIX secolo ebbe la Ditta Menotti, di Carpi, costituita inizialmente da Giuseppe e dal figlio Ciro, maggiormente noto per esser stato martire del Risorgimento italiano. I due introdussero anche la paglia di Firenze nella lavorazione. Ciro ebbe, inoltre, l’intuito di introdurre delle macchine a vapore nelle sue fabbriche, così da accelerare il lavoro manuale di tessuti e sete nella filanda. Egli le attivò nel 1823 a Saliceto Panaro con un macchinario ordinato a un tale Leonardi di Milano. Con l’entrata di questo nuovo strumento, il Menotti chiese, inoltre, al sovrano Francesco IV di essere esentato dal dazio; ma l’esito fu negativo. La produzione, comunque, aumentò di molto e il Duca di Modena e Reggio definì il proprietario benemerito. Il 26 maggio 1831 Ciro Menotti fu decapitato. Alla sua morte, Giuseppe si rifugiò con la famiglia in Francia, lasciando nelle mani del fidato Angelo Sammarini l’azienda carpigiana. Quest’ultimo si rivolse alla Camera Ducale in cerca di un aiuto ma il Duca rispose facendo chiudere la fabbrica, con un passivo di 66.730 lire. Nel 1839, in ogni caso, si assistette, però, ad una ripresa: venne infatti costituita una società che univa tutti i Menotti (anche i figli di Ciro) da cui nacque la Società Celeste Menotti e Nipoti, in cui fu determinate il contributo di Adelaide Menotti, soave creatura e creatrice, che nel ’72, non ancora trentenne, ebbe irrigidite dalla morte le mani donde il fiore del truciolo fiore di insuperata bellezza…11. Fu Adelaide, intorno al 1835, a risollevare l’industria del truciolo a Carpi, con l’invenzione di nuovi tipi di intreccio, ella conquistò di nuovo i mercati, arrivando perfino in America. Con l’Unità d’Italia le condizioni economiche della popolazione si fecero precarie, la disoccupazione aumentò e sempre più persone si trovarono in uno stato di miseria. Nel 1865 Comunale compie un’inchiesta sul numero dei miserabili delle ville di Carpi. Si dà l’incarico ai parroci di formare l’elenco delle famiglie assolutamente indigenti domiciliate nella loro parrocchia. […] 202 le famiglie, approssimativamente 609 individui, che non hanno alcun mezzo di sussistenza, cioè vivono di elemosina, quando non muoiono di fame12. Tra il 1872 e il 1879 ci fu, quasi inaspettatamente, una straordinaria crescita della domanda dai mercati francese, inglese, belga e americano, portando un momento di benessere nel carpigiano. A cavallo del XIX secolo si confezionavano cappelli che sembravano di merletto o di tulle, di una leggerezza incredibile: per gli uomini fu di moda la magiostrina o la paglietta di origine lombarda; per le donne i cappellini di varie fogge, con ornamenti diversi, in modo speciale con le costosissime piume di struzzo. Talora venivano ornati da una veletta che copriva il viso o legati sotto il mento da un vaporoso e colorato nastro di o seta13. 10 Ivi p. 115 11 G. Bertacchi, Un’arte italica-il truciolo, Carpidiem, Carpi 2015 p. 16. 12 F. Pagliani, L’arte del truciolo a Carpi, Tesi di laurea, Anno Accademico 1961-62, p. 108-111. 13 F. Canova, C. Bulgarelli, L’arte della treccia e del cappello di paglia: origini, storia, attività da Carpi a Villarotta di Luzzara, Collezioni Modenesi, Finale Emilia 2009, p. 20. 329
La fortuna e i risvolti sociali Gli elementi da considerare per spiegare la fortuna del truciolo nella zona del carpigiano sono numerosi: sicuramente la posizione geografica, strategica per gli spostamenti delle merci; la crescita ricca e spontanea del salice e del pioppo; la capacità di mantenere il monopolio, anche dopo la caduta della privativa, testimoniata anche da «La Gazzetta dei Cappellai»14 che presentava Carpi come unico centro importante di produzione del truciolo fino al gennaio-febbraio 1920 e a cui aggiungeva solo Villarotta di Luzzara nell’anno successivo. La manodopera femminile e minorile permetteva, inoltre, di abbassare i costi. Se è vero che il lavoro affidato a donne e bambini può apparire come una prima forma di emancipazione degli stessi, non bisogna dimenticare che, soprattutto per quanto riguarda il decennio 1871-79, si dovrebbe parlare più di sfruttamento. La presenza dei fanciulli nel lavoro del truciolo era talmente ordinaria da spingere il Comune a stabilire che in scuole e asili ci fosse una maestra incaricata di insegnare la produzione della treccia; in una proposta intorno all’istruzione elementare nel Comune di Carpi, presentata al Consiglio comunale nella primavera del 1871 A inizio Novecento nulla appare mutato come appare evidente dalla denuncia di Aristide Loria, proprietario di una fabbrica di trecce e cappelli a Carpi, sulle pagine di «Luce» del 12 agosto 1900. Egli descrive le scuole di truciolo come luoghi di sofferenza, sfruttamento; umide camerette in cui cinquanta, sessanta, ottanta fanciulli divengono sudditi di una donna che li sgrida continuamente. Inoltre sostiene che questo sfruttamento non abbia conseguenze unicamente sui bambini, ma anche su un sistema lavorativo ed economico più ampio dichiarando che le trecce delle scuole di bimbi si comperano spesso a pressi irrisori e creano un’atroce concorrenza a quella delle operaie adulte[…]15. A peggiorare ulteriormente le condizioni di queste lavoratrici contribuiva l’insalubrità dei luoghi dove si lavorava e si confezionava il truciolo, fattore che provocava conseguenze non indifferenti sulla salute delle trecciaiole. A tal proposito Namis (Odndino o Nando) Miselli (1888-1985) compose una poesia in dialetto che descrive Valentina, una giovane trecciaia morta di tisi e l’ambiente dove viveva, caratterizzato da un rumore assordante e odore di zolfo. Le origini della crisi dell’industria del truciolo si fanno risalire alla sua stessa configurazione sussidiaria all’industria agraria. Nel marzo 1907 gli industriali carpigiani lamentano su L’Unione Costituzionale che l’industria del truciolo si presenta come sussidiaria all’agricoltura e va contemplata come tale, senza pensare di poterla sostituire all’agricoltura. Questo carattere di sussidiarietà e la tipologia di lavoro a domicilio hanno fatto sì che quest’industria non si sia organizzata attorno a nuclei forti che potessero tutelare il lavoro stesso. Non ci fu mai uno sciopero, né alcuna dimostrazione di autocoscienza del proprio ruolo da parte degli operai. Molti altri sono stati, tuttavia, i fattori negativi che hanno portato a una crisi nella produzione del truciolo; la materia prima, il salice, 14 Rivista industriale e commerciale mensile, Torino, Tipografi Enrico Schioppo, consultabile presso la Biblioteca Nazionale di Torino e la Braidense di Milano. 15 L. Nora, Aspetti dell’Industria del Truciolo, Carpidiem, Carpi 2015, p. 3. 330
iniziava a scarseggiare e fu sostituito dal pioppo, di qualità inferiore; la manodopera a domicilio riduceva il controllo della qualità produttiva a tutti i suoi livelli; l’offerta superava di molto la domanda del mercato, ridotta anche a causa della diminuzione di qualità del prodotto. L’industria del truciolo viene riformata dal Senatore socialista carpigiano Alfredo Bertesi, fondatore del periodico «Luce». Il 25 settembre 1904 egli costituì la società anonima Il Truciolo, nata dall’unione delle ditte Benzi e Tirelli e accresciuta dalla Menotti, dalla Rebuttini e dalla Bulgarelli. I soci erano: Pontremoli ing. Giuseppe, domiciliato a Milano, industriale; Ruffini dott. Pietro, domiciliato a Carpi, industriale; Bertesi deputato Alfredo, domiciliato a Carpi, commerciante16. Bertesi sosteneva che la classe operaia carpigiana, specialmente legata al truciolo, richiedesse una maggiore tutela lavorativa ed economica e cercò, dunque, di riorganizzare l’industria. Egli cercò, quindi, di riorganizzare il settore e di recuperare capitale dal mondo dell’alta finanza milanese, di assorbire le maggiori aziende carpigiane, di aprire nuovi mercati (costituì una società a Londra, un deposito a Parigi e alcune agenzie a New York e in Sud America), di assecondare le innovazioni tecnologiche con la definitiva introduzione di pioppo, treccia di canapa Manlia (Tagal) e fibre artificiali di provenienza orientale. L’iniziativa di Bertesi non fu accolta positivamente dagli industriali carpigiani, che temevano di essere oppressi. Essi temevano i “forestieri”, negando di apparire campanilisti ma difendendo il monopolio carpigiano e rifiutando che il popolo di Carpi andasse In mano a quei rappresentanti di capitalisti e di industriali che si ammantano di difensori del popolo predicando la lotta di classe […]17. Bertesi fu, però, l’unico ad attuare quel progetto di unificazione d’impresa che nessuno era riuscito ad affrontare. Egli sposò innovazioni tecnologiche e strutturali, che portarono Carpi a competere in campo internazionale. Fondamentale fu la sua comprensione dell’importanza della promozione di immagine, processo che risultò nella destinazione di uno spazio di rappresentanza, adibito appositamente all’esposizione di opere d’arte e riproduzioni celebrative del cappello di truciolo, manufatti esemplari e documenti, all’interno dell’azienda stessa. Bertesi ideò inoltre delle forme di pubblicità estremamente innovative, tra cui una monografia sul truciolo ad opera dello scrittore Giovanni Bertacchi di Chiavenna, che, in realtà, non fu mai edita. Lo scoppio della Prima Guerra Mondiale provocò sconvolgimenti anche nell’azienda; tuttavia, Bertesi seppe affrontare anche quel momento tragico, adeguando la produzione al momento bellico e trasformandola in fabbricazione di stuoie mimetiche. Durante il regime fascista la produzione continuò, disciplinata in ogni sua fase. Nel 1959 erano sessantaquattro le industrie del truciolo che operavano ancora nei dintorni di Carpi. Nel 1964-65, sono menzionate 13 aziende industriali produttrici di cappelli in truciolo, 2 artigiane, 1 commerciante, 3 raccoglitori contro le 89 camicerie e i 138 maglifici con il loro corollario di imprese di servizio. Tuttavia, dagli anni 70 la produzione del truciolo diminuì progressivamente. I pochi pagliari rimasti andarono in pensione, chiudendo, e Carpi dovette rivolgersi a Villarotta di Luzzara per l’approvvigionamento delle paglie per cui erano rimasti non più di tre distributori. 16 Ibidem. 17 Ivi p. 7. 331
Le trecciaiole erano sempre più anziane e molte iniziarono a scomparire; la loro maestria venne comunque richiesta anche quando si ritirarono nella locale casa di riposo. Divenne raro trovare anche delle partitanti; le due rimaste, Irne Galloni e Lea Gasparini che all’epoca avevano abbondantemente superato i settant’anni, decisero di terminare la loro attività. Anche il lavoro di intreccio venne definitivamente orientato verso Villarotta. A metà anni ‘70 cessò l’attività anche la Cooperativa trecciaie di Fossoli; quella di Migliarina sopravvisse invece fino ai primi anni ‘80, riconvertendo la produzione sul tagliato. Ha resistito fino al 1979 un mercato del truciolo a Carpi che si teneva il mercoledì presso la vecchia tintoria Campagnano in Via Ugo Sbrillanci, dove le fabbriche, sia locali che marchigiane, potevano rifornirsi di trecce ed ordinare la loro tintura attraverso sistemi piuttosto obsoleti ma che, tuttavia garantivano quelle tinte pastello che permettevano di produrre col truciolo cappelli mediamente fini. Nel 1980 Manlio Campagnano si ritirò e per la tintura di paglie e trecce si fece quindi ricorso a sistemi più che artigianali, utilizzando le aniline base dai colori sgargianti, più idonei alla produzione dei cappelli di Carnevale. È interessante ricordare però, che proprio intorno agli anni ’50 del secolo scorso l’espansione del mercato nazionale ed europeo suggerì alle imprese di convertire le competenze manuali ed organizzative della lavorazione dei cappelli di paglia alla produzione di maglie e camicie. Da questa intuizione nacque il Distretto industriale di Carpi, incentrato proprio sull’attività della maglieria, che fece di Carpi la capitale europea del settore tessile-abbigliamento. A Villarotta continuavano a servirsi i cappellifici carpigiani ormai quasi esclusivamente commercianti del prodotto in truciolo.
Un tinerario tra Carpi e la Bassa reggiana: paesaggio tradizioni artigianato Per raccontarvi questo itinerario è necessario partire dall’inizio. Tutto ciò che è contenuto in questa guida emerge dall’esigenza di realizzare un intervento di valorizzazione del Museo del Truciolo di Villarotta di Luzzara, o meglio ancora, dellatradizione locale che questo piccolissimo luogo tenta di conservare. Villarotta fu un centro importantissimo per la produzione di trecce e cappelli, tanto da essere indicata nelle mappe e nei documenti come la Villa de’ Cappelli. Verso la metà del ‘700, i cappelli di Villarotta iniziarono ad essere esportati persino in Inghilterra, rendendo l’arte della treccia un’attività talmente importante da far regredire o scomparire altre attività artigianali e da far parlare e scrivere di una Scuola di Villarotta, per le tecniche di lavorazione, in contrapposizione alla Scuola di Carpi. Il Museo del Truciolo nasce nel 2009 grazie all’intervento profondamente sincero di alcuni abitanti che desideravano mantenere vivo il ricordo di una tradizione che gli apparteneva. Il museo viene inserito all’interno di una vecchia chiavica restaurata e viene concepito come un vero e proprio laboratorio nel quale vengono (di)mostrati direttamente ai visitatori i vari passaggi di questa attività, dalla rifilatura del pioppo alla cucitura del cappello. Nel 2017 vengono incaricati alcuni professionisti di proporre una inizitiva di valorizzazione efficace nel rispetto del luogo e della natura di questa tradizione. Le 332
Fig. 1 Percorso con le diverse tappe
operazioni sono state fondamentalmente tre: 1. Uno studio approfondito sulla treccia e sul cappello in relazione al loro ruolo geografico, sociale, artistico e di costume ha portato alla pianificazione di mostre temporanee all’interno della vicina Biblioteca di Luzzara, che diventa luogo complementare al Museo; in questo modo conoscenza e la fruizione della tradizione locale possono essere integrate da argomenti più ampi ma comunque attinenti; 2. L’istituzione di un concorso biennale in cui artisti contemporanei sono chiamati a reinterpretare ed utilizzare il truciolo, durante una residenza d’artista di una settimana; questo è un modo per sperimentare nuovi valori artistici del truciolo come materiale e riflettere sulla dimensione dell’intreccio, evitando di rimanere ancorati alla sua dimensione troppo folcloristica. 3. Infine, si è cercato di costruire un discorso più generale sulla zona geografica in cui si è sviluppata la tradizione della treccia. L’area fluviale della pianura permette, da sempre, la coltivazione di salice e pioppo, entrambi materia prima del cappello di legno di Villarotta. È importante, in una visione di questo tipo, tenere conto di luoghi culturali, spazi naturali e dettagli curiosi che possono, allo stesso tempo,generare una comprensione più autentica edessere loro stessi valorizzati. Così è nata questa guida, che illustra un itinerario attraverso il paesaggio, le tradizioni e l’artigianato, proponendo alcune tappe significative. Il percorso non è certamente caratterizzato dalle tipiche attrazioni del turismo di massa, ma al contrario, è finalizzato a instaurare il desiderio di scoperta di un territorio naturale e anche culturale, piuttosto decentrato e poco frequentato. Un scelta, dunque, più legata al cosiddetto turismo responsabile, ovvero quel turismo che riconosce la centralità della comunità locale ospitante e il suo diritto ad essere protagonista nello sviluppo turistico sostenibile e socialmente responsabile del proprio territorio e che funziona attraverso una equilibrata cooperazione tra viaggiatore/operatore turistico/ abitanti. 333
Questa guida propone un percorso che non è solo fisico ma che si fa esperimento: di apprendimento e di partecipazione. Un cammino da percorrere umilmente, per sé e per gli altri, servendosi degli indizi qui contenuti.
Tappa 1 - Istituto Alcide Cervi / Archivio Emilio Sereni Emilio Sereni (Roma 1907-1977) è stato un partigiano, un politico e soprattutto uno storico del paesaggio. Maggiormente conosciuto per la sua Storia del paesaggio agrario italiano, ha dedicato tutta la vita allo studio dell’agricoltura, alla difesa dei diritti e della miseria dei contadini e alla ricostruzione del Paese. Nell’ultima parte della sua vita si impegna nella creazione dell’Istituto Alcide Cervi, sottolineando la necessità di costruire un’istituzione che potesse ereditare le sue ricerche e affidarle a qualcuno che le portasse avanti. Alla sua morte il suo archivio diventa Fondo Emilio Sereni e i suoi libri costituiscono una Biblioteca, entrambi gestiti dell’Istituto Cervi. Circa 22000 libri, suddivisi in quattro sezioni (agricoltura, economia, storia e antropologia) compongono la biblioteca; mentre il fondo conserva una grandissima quantitàdi illustrazioni, appunti bibliografici dello stesso Sereni, voci, articoli di giornale. Nel 2008 è stato realizzato un edificio adiacente alla Casa Museo Cervi, appositamente per la Biblioteca Archivio Emilio Sereni. Inoltre, dal 2009 ogni anno viene svolta una scuola estiva di paesaggio dedicata ad Emilio Sereni. Tappa 2 - Alberto Manotti Re del Po Hai visto cosa c’è qua? Non ce l’ha nessuno al mondo afferma Alberto Manotti nella video intervista che gli ha dedicato Repubblica. Personaggio definito Naif, Alberto è assoluto protagonista del regno che ha costruito con le sue mani e che dedica a tutti i bambini. Un parco giochi naturale di 30 metri, costruito con circa 25 mila tronchi di pioppo che egli ha recuperato dal Po. Manotti, che nella vita è stato operaio in una fabbrica di mobili, dal 2009 sta costruendo quotidianamente una straordinaria opera ambientale sulla sponda del fiume Po; un’opera fatta per le persone e per il Po: un’asimmetrica cattedrale vegetale, una nave (chiamata Jolanda), una grande scultura, un percorso gremito di punti panoramici pensati e costruiti da questo straordinario personaggio. In questo regno è facile incontrare il re e anche farsi raccontare l’idea di questo luogo, immaginato per essere vissuto e rispettato. Tappa 3 - Museo Multimediale della Bonifica Questo edificio è una chiavica di presa irrigua, costruita secondo evidenti canoni legati allo stile littorio, che, solenne, si impone nel piatto paesaggio padano. Il Consorzio dell’Emilia Centrale e la Fondazione Telecom hanno fortemente voluto realizzare un allestimento multimediale all’interno del piccolo museo, al fine di mostrare in modo semplice e diretto il significato della Bonifica e la sua importanza per la sicurezza del territorio. All’interno dell’unica sala che compone il museo vi è, inoltre, esposta la mostra Il Paesaggio della Bonifica – Storia Territorio Sicurezza, caratterizzata da proiezioni che mescolano virtuale e reale mostrando la storia di questo territorio, con i suoi paesaggi naturalistici e agricoli; si tratta di una performance visiva che ha la durata di venti minuti. Il racconto di questo museo si suddivide in sei capitoli: acqua e natura, la macchina della bonifica, natura coltivata, il lavoro dell’uomo, la città, la cartografia. 334
Tappa 4 - Museo del Po e della navigazione interna Inaugurato tra il 1997 e il 1999 il museo si inserisce nell’ala occidentale dei cantieri dell’ex Azienda Regionale per la Navigazione Interna, offrendo un percorso dedicato alla memoria del fiume Po. In parte danneggiato dalla piena del 2000, viene chiuso, ristrutturato e riaperto nel 2006 adottando il nuovo nome di Po 432. Museocantiere della navigazione e del governo del fiume Po, poiché si trova a 432 km dalla foce sul Monviso. Un museo di archeologia industriale che mostra una ricca raccolta di oggetti, strumenti, macchinari utilizzati fino alla metà del Novecento dal Genio Civile per la manutenzione dei fondali e la regolamentazione della navigazione. Un vasto sguardo sull’immagine e l’identità del Grande Fiume raccontato da segnali, catene, timoni, motori, canoe che rappresentano i reperti archeologici di un’era non troppo lontana ma ormai conclusa. Tappa 5 - Botte Bentivoglio La Botte Bentivoglio è un condotto lungo 77 m che consente alle acque del canale di bonifica di sottopassare il letto del torrente; un grosso sifone a due gallerie in muratura con arco a tutto sesto. Questa costruzione rappresenta uno dei più importanti lavori di bonifica della Pianura Padana compiuti nella metà del Cinquecento. Edificio in muratura, di tipologia a torre, su tre livelli e con copertura a padiglione in coppi di laterizio, presenta una lapide in marmo decorata che ne testimonia la costruzione per volere del marchese Cornelio Bentivoglio datandola all’agosto del 1576. Effetto quasi immediato delle opere di bonifica fu l’aumento della redditività del suolo, che perdurò fino ai primi del ‘700. Le opere di bonifica proseguirono poi per tutto il XX secolo al fine di affrontare il problema della subsidenza del territorio e l’esigenza di approvvigionare acqua irrigua in relazione alle nuove tecniche produttive agricole. L’interno non è visitabile, ma la sua struttura esterna e gli elementi di matrice classica sulle quattro facciate impreziosite da decori in stile liberty ne fanno un oggetto degno di visita. Tappa 6 - Museo del Truciolo Il museo nasce nel 2000 da un’associazione di abitanti del comune. Esso si trova nella Chiavica della Rotta, che sorge sul canale Tagliata e fu costruita intorno alla prima metà del ‘400. La sua funzione di regolamentazione idraulica è durata fino alla Seconda Guerra Mondiale, dopodiché è stata adibita ad abitazione civile. È stato molto complesso raccogliere materiale e testimonianze, poichè il materiale del truciolo è piuttosto fragile e il prodotto finito era destinato specialmente a un utilizzo agricolo, dunque non sono rimasti trecce e cappelli particolarmente antichi. Inoltre, molti villarottesi non volevano ricordare i tempi in cui facevano la treccia, poichè sinonimo di condizione di povertà. Fortunatamente i fratelli Nullo e Bruno Ruina, ultimi truciolai professionisti, donarono al nascente museo i loro tre macchinari per la rifilatura dei tronchi di pioppo, così come Angelo Leidi con la sua macchina da rifilatura del Settecento. In questo modo prese forma quello che ora è il piccolissimo Museo del Truciolo, la cui configurazione somiglia a quella di un laboratorio dove l’attività della treccia viene mostrata, o meglio dimostrata, ai visitatori. 335
Tappa 7 - Valli di Novellara e Reggiolo Ampio territorio poco urbanizzato e destinato principalmente ad attività agricole, esso rappresenta un’iconica immagine del paesaggio della Bassa reggiana. Si estende per quasi 2000 ettari, da Reggiolo a sud verso Novellara e a ovest verso Guastalla e il Po. Un tempo occupata da estese paludi, e alimentata dai terreni dell’Enza e del Crostolo, è stata oggetto di una progressiva, secolare bonifica, intrapresa dai Gonzaga e terminata nella prima metà del Novecento. Queste valli erano utilizzate fino alla fine degli anni ’40 per la coltivazione estensiva della canapa. Oggi esse sono costituite da una fitta rete di canali dagli argini rilevati, di fossati e piccoli bacini e sono diventate Area di Riequilibrio Ecologico, ossia zona di protezione speciale per conservare la biodiversità e tutelare specie animali e vegetali rari e minacciati (Trifoglio aquatico, Ninfea comune e gialla, Senecio palustre; Tarabusino, Cavaliere d’Italia, Martin pescatore, Averla piccola). Vi sono anche alcuni bacini destinati alla pesca e la superficie agricola è caratterizzata da pioppeti artificiali. Tappa 8 - Museo della città, Palazzo dei Pio Il Palazzo dei Pio, comunemente chiamato Il Castello, è l’edificio più rappresentativo di Carpi; imponente manufatto costituito da diverse strutture realizzate in differenti epoche si estende da piazza Re Astolfo fino alla più conosciuta Piazza Martiri. Sarà Alberto Pio a dare la definitiva configurazione cinquecentesca all’insieme. Oggi il Palazzo è luogo d’incontro e di valorizzazione delle ricchezze di Carpi attraverso tre percorsi museali: il Museo del Palazzo, il Museo Monumento al Deportato, realizzato dai BBPR e, infine, il Museo della Città. Quest’ultimo mostra una parte legata proprio alla tradizione del truciolo, che nacque a Carpi e si diffuse poi a Villarotta. Questa tradizione artigianale viene raccontata qui attraverso attrezzi, macchinari e soprattutto fotografie, realizzate da Mario Cresci, che nel 2012 fece un lavoro di ricerca sul territorio carpigiano in occasione di una mostra temporanea legata a questa tematica.
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L'azienda agricola tra turismo e paesaggio
Camilla Zoppolato
Studentessa in Scienze Agrarie, Università di Milano
È noto che l’agricoltura come attività umana influenza il paesaggio e quindi è in grado di rendere più o meno attrattivo un contesto rurale anche dal punto di vista turistico. Più in generale, possiamo affermare che l'azienda agricola come attività economica finalizzata alla produzione di beni primari può avere delle ripercussioni su altre attività economiche e ricreative che si basano sulla stessa risorsa paesaggio. Allo stesso modo l'azienda, ampliando e adattando le proprie attività, può tentare di utilizzare la risorsa paesaggistica per sviluppare nuove fonti di reddito. L'influenza che agricoltura esercita sul territorio in termini ambientali, sociali e paesaggistici, viene riconosciuta in termini giuridici dal concetto di multifunzionalità che assegna all'azienda agricola dei ruoli e delle finalità che si sviluppano congiuntamente alla produzione di beni primari. Il primo accenno alle diverse funzioni dell’agricoltura risale al contesto internazionale della conferenza ONU di Rio de Janeiro nel 1992, in cui si dichiarò l'importanza degli agricoltori nella tutela del territorio e nello sviluppo sostenibile. Venne inoltre dichiarata la necessità di promuovere la diversificazione delle attività delle aziende agricole che non sono in grado di praticare agricoltura intensiva. A seguire, un altro documento importante per l’affermazione di questa visione dell’agricoltura è la Conferenza europea sullo sviluppo rurale di Cork del 1996 in cui viene riconosciuto che gli agricoltori svolgono un ruolo di custodia delle aree rurali, considerate importanti per la qualità della vita della popolazione europea. Nel 1998 viene infine definito un vero e proprio concetto di multifunzionalità dall’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE): Oltre alla funzione primaria di fornire cibo e fibre, l'attività agricola incide anche sul profilo territoriale, apporta benefici quali la conservazione del territorio, la gestione sostenibile di risorse naturali rinnovabili e la preservazione della biodiversità, oltre a contribuire alla fruibilità di molte zone rurali. L'agricoltura risulta multifunzionale quando svolge diverse funzioni oltre alla produzione di beni agricoli.
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Successivamente al riconoscimento formale di natura giuridica, nel 1999 con l’approvazione del documento Agenda 2000, la multifunzionalità inizia a trovare un riscontro di tipo politico applicativo nella politica comunitaria europea, trovando seguito nei Piani di Sviluppo Rurale volti ad affrontare i cambiamenti socio-economici e le problematiche ambientali e di abbandono delle aree rurali. Questo comporta l'introduzione di possibili risvolti economici per le aziende agricole; a partire dal regolamento CEE 1257/99 per la programmazione 20002006 dei Piani di Sviluppo Rurale, gli agricoltori iniziano ad avere la possibilità di ricevere dei finanziamenti per migliorare le proprie prestazioni, per svolgere alcune azioni finalizzate alla tutela ambientale e per diversificare le proprie fonti di reddito sviluppando attività connesse. Questo tipo di finanziamenti vengono resi disponibili in maniera più articolata con il regolamento CE 1698/2005 per la programmazione 2007-2013 e con l’attuale programmazione 2014-2020 definita dal regolamento UE 1305/2013. I Programmi di Sviluppo Rurale anche se non si rivolgono esclusivamente agli agricoltori, danno la possibilità alle aziende agricole di ricevere delle risorse economiche per retribuire la loro multifunzionalità; accanto a questi pagamenti troviamo i finanziamenti della Politica Agricola Comune, la quale tuttavia non ha basato i propri criteri di retribuzione sulla multifunzionalità se non per alcuni aspetti di tipo ambientale, in particolare con il pacchetto greening della PAC 2014-2020. Il professor Mauro Agnoletti nel suo intervento ci fa notare , citando estratti regolamenti per la definizione dei PSR 2007-2013, come tutti e tre gli aspetti finanziati dai Piani di Sviluppo Rurale, abbiano una connessione con la risorsa paesaggio; si afferma infatti che la competitività del settore agro-forestale debba trarre vantaggio dalla risorsa paesaggio; il miglioramento dell'ambiente e dello spazio rurale debba avere come obiettivo il recupero, la conservazione e la valorizzazione dell'identità dei paesaggi locali; ed infine l'aspetto paesaggio viene riconosciuto come criterio importante pure per la qualità della vita nelle zone rurali e la diversificazione dell'economia rurale. Queste risorse pubbliche vengono quindi spese per sostenere economicamente gli agricoltori anche nella loro azione di conservazione del paesaggio, mentre le conseguenti ripercussioni sul turismo in questo contesto non vengono considerate. Secondo un'altra prospettiva di conservazione del paesaggio, si può ipotizzare che il flusso turistico stesso possa contribuire economicamente al suo mantenimento. Questa considerazione viene portata avanti dal professor Bas Pedroli nel suo intervento, aggiungendo anche che però la disponibilità a pagare da parte del turista è tendenzialmente bassa, perché normalmente considera il paesaggio agrario come una risorsa scontata e non ne sente minacciata la conservazione. Con queste premesse la possibilità per le aziende agricole di utilizzare direttamente la risorsa paesaggistica per ricavare nuove fonti di reddito sembra un'operazione di difficile realizzazione, ma lascia intravedere la possibilità di adoperare il paesaggio per promuovere le attività connesse dell'azienda agricola. Infatti un modo in cui l'imprenditore agricolo può ampliare le proprie entrate è la diversificazione delle attività aziendali come previsto dall'articolo 2135 del codice civile:
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È imprenditore agricolo chi esercita una delle seguenti attività: coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento di animali e attività connesse. Per coltivazione del fondo, per selvicoltura e per allevamento di animali si intendono le attività dirette alla cura ed allo sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessaria del ciclo stesso, di carattere vegetale o animale, che utilizzano o possono utilizzare il fondo, il bosco o le acque dolci, salmastre o marine. Si intendono comunque connesse le attività, esercitate dal medesimo imprenditore agricolo, dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione che abbiano ad oggetto prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo o del bosco o dall'allevamento di animali, nonché' le attività dirette alla fornitura di beni o servizi mediante l'utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell'azienda normalmente impiegate nell'attività agricola esercitata, ivi comprese le attività di valorizzazione del territorio e del patrimonio rurale e forestale, ovvero di ricezione ed ospitalità come definite dalla legge. La domanda da porsi è dunque se queste attività connesse possano fondarsi anche sulla risorsa paesaggistica, in particolare per quanto riguarda l'attività di ricezione e ospitalità come pratica di turismo. L'accoglienza di utenti in azienda avviene principalmente nella forma dell'agriturismo regolamentato dalla normativa quadro nazionale Legge n. 96 del 20 febbraio 2006 e poi definito da specifiche leggi e regolamenti regionali. La professoressa Enrica Lemmi nella sua relazione sul turismo rurale ci presenta alcuni dati riguardanti gli agriturismi italiani: il loro numero è in crescita (+2,3% nel 2015 rispetto all'anno precedente) e sono aumento anche le presenze di clienti (+4,9% nel 2015). In generale viene riscontrata una tendenza degli agriturismi a diversificare i servizi proponendo contemporaneamente attività di alloggio e ristorazione e anche altre attività. Questa propensione all'aumento del numero di agriturismi può darci informazioni sulla presenza e il successo del turismo nelle aree rurali, ci domandiamo tuttavia se questo dato numerico possa essere una garanzia di proporzionale qualità del paesaggio nelle aree rurali. A questa domanda può darci una risposta il rapporto Istat finalizzato a valutare il grado di valorizzazione del paesaggio e del patrimonio culturale delle aree italiane, illustrato dal dottor Luigi Costanzo e dalla dottoressa Alessandra Ferrara. In questa relazione il numero di aziende agrituristiche per km² viene usato come indicatore per definire un potenziale orientamento alla valorizzazione del patrimonio rurale. Accanto a questo parametro viene considerata anche la presenza di produzioni di qualità ovvero prodotti Dop/Igp che anche il giornalista Carlo Cambi all’interno della relazione Valore dei prodotti, sapore dei territori individua come potenziale indicatore del valore del paesaggio agrario. Tuttavia la presenza di agriturismi o di produzioni di qualità non viene ritenuta sufficiente da ISTAT per valutare la valorizzazione del paesaggio rurale; è necessario considerare anche il grado di erosione dell'area dovuta all'urban sprawl o all'abbandono delle aree analizzate che può comprometterne la valorizzazione. 339
Possiamo affermare quindi che l'esercizio dell'attività agrituristica e la presenza di turismo nelle aree rurali non sono indicatori direttamente correlati alla qualità del paesaggio. Tuttavia la potenzialità delle risorse paesaggistiche per lo sviluppo di turismo rurale viene riscontrata ad esempio dalla professoressa Monica Meini nei risultati delle ricerche svolte in Molise in base alle interviste poste agli outsiders i quali ritengono attrattivo il paesaggio rurale locale. A questo riconoscimento però si accompagna una scarsa fiducia da parte degli insiders nella capacità di utilizzare le risorse paesaggistiche presenti. La mancata messa a frutto delle potenzialità del paesaggio viene evidenziata anche dall'intervento del professor Mauro Angoletti; viene infatti mostrato come alcuni agriturismi posti in contesti paesaggistici di pregio come le colline del prosecco, del Chianti, in Val d'Orcia sul loro sito internet considerino poco o per nulla l'elemento paesaggio nella loro presentazione. Emerge quindi che il paesaggio agrario è una caratteristica non completamente utilizzata e valorizzata dalle aziende agrituristiche per promuovere le proprie attività, anche quando ne avrebbe le potenzialità. Il dottor Mario Calidoni nel suo intervento ha messo in luce come il paesaggio agrario possa essere un elemento di grande potenziale educativo multidisciplinare per il mondo della scuola; in questo senso l'attività di fattoria didattica svolta da alcune aziende agricole o agriturismi potrebbe essere un'opportunità per sfruttare le potenzialità della risorsa paesaggio. Una possibile conferma del valore aggiunto che il paesaggio può dare alle aziende agrituristiche all'interno del workshop Patrimonio rurale immateriale il geografo Fabrizio Frignani, presenta come caso di studio un agriturismo di grande successo che compare tra i cinque più quotati d'Europa. Si tratta dell'agriturismo e albergo diffuso Montagna Verde, situato nel cuore della Lunigiana. Esso è costituito dall'intero borgo medievale di Apella comprendente anche un monastero e trova all'interno di una riserva di 600 ettari, un'area riconosciuta dal 2015 come Riserva MAB UNESCO. L'azienda pratica agricoltura biologica e tutela varietà e razze locali; all'interno è presente un bioparco e numerosi servizi e attività per i visitatori. Il successo di questo agriturismo deriva probabilmente da molte caratteristiche, tra le quali sicuramente la capacità imprenditoriale della famiglia conduttrice, ma ci conferma che l'interesse del pubblico per la qualità del paesaggio rurale e del contesto, in questo caso di grande pregio. Ritengo sarebbe utile trovare delle modalità nuove per supportare gli agricoltori che praticano attività agrituristiche e didattiche a sviluppare al meglio il loro potenziale attrattivo tramite la valorizzazione mirata della risorsa paesaggio. Certamente i finanziamenti dei Piani di Sviluppo Rurale sono un importante forma di sostegno, ma forse l'aspetto economico non è l'unico che necessita di essere supportato; potrebbe essere necessario aiutare l'agricoltore a divenire maggiormente consapevole del potenziale valore della risorsa paesaggio nel rendere attrattive le attività connesse. In questo modo anche il turista potrebbe iniziare a considerare il paesaggio agrario come una risorsa non scontata e potrebbe aumentare la disponibilità a pagare per la fruizione e la conservazione.
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Bibliografia: L. Casini, Guida per la valorizzazione della multifunzionalità dell’agricoltura, Firenze University Press, Firenze 2009. A. Galasso, F. Fratto, U. Selmi, R. Buonumore, Agriturismo e multifunzionalità dell’azienda agricola, strumenti e tecniche per il management, Pubblicazione realizzata con il contributo FEASR nell'ambito della Rete Rurale Nazionale 2014-2020 Mipaaf Autorità di gestione, 2016. M. Boschetti, G. Lo Surdo, Azienda agricola multifunzionale, le attività per integrare il reddito, Edizioni L’informatore Agrario, Verona 2016. C. Nazzaro, Sviluppo rurale, multifunzionalità e diversificazione in agricoltura, FrancoAngeli, Milano 2008. R. Finocchio, Processi di diversificazione multifunzionale nelle imprese agricole marchigiane, Associazione Alessandro Bartola, studi e ricerche di economia e politica agraria, PhD studies series: volume 3, 2008.
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NASSE/LAAI* Laboratorio di Arte Ambientale Itinerante Installazione collettiva a cura di Antonella De Nisco Antonella De Nisco e Nila Shabnam Bonetti
Nassa strumento per la pesca, contenitore intrecciato in giunco e altro, una rete chiusa, di forma ovoidale, con un’apertura che consente l’ingresso ma dalla quale è impossibile uscire. Entrare nella nassa significa rimanere preso in un imbroglio, restare imprigionati. L’installazione di improbabili Nasse, costruzione simbolica e reale degli arnesi usati da pescatori, rimanda a concetti di spazio, precarietà e importanza della natura, ricordandoci che oggi, nelle nostre quotidiane distrazioni, i pescati siamo noi. Nasse è l’idea di una installazione eseguita collettivamente, allusione al paesaggio fluviale, attraverso la costruzione di segni-manufatti realizzati ad intreccio con materiali della lavorazione palustre ad evocare luoghi reali e metaforici, suoni, rumori, sibili e silenzi1.
Presentazione dell’installazione NASSE di Nila Shabnam Bonetti Il lavoro che sviluppa Antonella De Nisco affonda le radici nella storia dell’uomo. È molto importante capirne l’importanza, perché l’intreccio ha segnato una svolta radicale nell’evoluzione della specie. Il susseguirsi di nodi forma trappole, luoghi contenitivi, trame che proteggono e avvolgono. Sulla base dell’intreccio, anche metaforico, si sviluppa la complessa società umana. Sinapsi, relazioni, punti che uniscono, creando forza nell’unione e vincoli inscindibili. Tessere, nel senso più ampio del termine, rappresenta la proiezione all’esterno di una sorta di codice che compone la nostra struttura interna e trasforma la realtà secondo una forma che ci appartiene. È la manifestazione più pura dell’uomo nel mondo. Da qui si arriva alla creazione di solide strutture, funzionali ed estetiche, che raggiungono altissimi livelli di complessità. In ogni luogo della Terra si tesse, appartiene alla tradizione artigianale * Il lavoro artistico di LAAI (Laboratorio di Arte Ambientale Itinerante) di Antonella De Nisco e Giorgio Teggi ha tra le finalità principali quelle di segnalare, far riposare e riparare i luoghi, attraverso costruzioni metaforiche realizzate ad intreccio e poco invasive che non interrompono il transito ma creano qualità simboliche aggiuntive ai luoghi. 343
specifica di tutte le culture, perché intrecciare fili, rami, metalli è una necessità. E nel Novecento molte delle mani che impugnano fili si affrancano dall’artigianato artistico per gridare (o sussurrare) le proprie emozioni nel registro linguistico dell’arte contemporanea. Intrecciare è una prerogativa femminile, così molte artiste si appoggiano a questa disciplina che da costrizione quotidiana della donna diventa strumento di emancipazione. E non va sottovalutato che con l’arrivo delle fabbriche e la meccanicizzazione delle tecniche, ricorrere a un metodo lento e concentrato è un chiaro messaggio di controtendenza e protesta verso la disumanizzazione tecnologica. Le Nasse, progetto della De Nisco, disegnano un dentro e un fuori definito da nodi di giuntura, sono luoghi nei luoghi. Sono architetture che si ancorano al paesaggio e in esso portano tutto il loro carico di senso. L’invito aperto alla partecipazione conferisce all’opera il suo vero peso. Non si tratta solo di tramandare e condividere una tecnica, ma di ridefinire il ruolo dell’artista come veicolo conduttore di un patrimonio universale, attraverso Sé alla società, così che l’azione sublime appartenga integralmente alla collettività. E intendere questo messaggio nel suo senso più profondo, va ben oltre sia al manufatto che all’arte. Si tratta di un principio spirituale e sociale, parliamo del valore sacro dell’essere uno nella molteplicità. In tal senso, il Museo Cervi è un luogo simbolico, elettivo per questo lavoro. Così, l’azione dell’intrecciare diventa un mantra, eludendo il tempo e allo stesso tempo essendone vittima. Qui si prende contatto con l’energia del luogo e con l’ambivalenza delle Nasse. Potrebbero essere trappole per la caccia e la pesca, o per il tempo che scorre, così simili a clessidre. O bozzetti di luoghi abitabili per l’uomo del futuro. O trame per lo sviluppo di piante rampicanti. Ed è nell’essere ciò che più vi aggrada, nel far giocare la vostra fantasia, che troviamo il semplice valore poetico di una vera opera d’arte.
NASSE/LAAI di Antonella De Nisco Da anni metto in atto pratiche artistiche nei luoghi, spazi di margine nelle città, paesi, dentro spazi naturali di giardini, scuole e musei con installazioni che sono anche un tentativo di impegno civico, nel riferimento alla memoria collettiva, emozionale e anche soggettiva. Con l’architetto Giorgio Teggi ho fondato LAAI (Laboratorio di Arte Ambientale Itinerante) con l’intento di sperimentare, attraverso l’azione artistica partecipata, una riflessione possibilmente reale e poetica, in una società complessa, che fatica a riconoscersi come comunità. Il rapporto dell’artista con il pubblico mette in atto pratiche relazionali che si possono tradurre in una indagine semantica e soprattutto simbolica, nella gestione dei segni e dei manufatti realizzati. La socializzazione della creatività può essere uno strumento trasversale, dal momento che lo spettatore, chiamato ad essere co-creatore nell’azione didattico-laboratoriale, partecipa ad un’esperienza spaziale di relazione e di vita. L’autoproduzione nello spazio, attraverso l’esercizio dell’intreccio di forme archetipiche, ancestrali, da ri-guardare con sorpresa, può aiutarci in una riflessione sulla fragilità umana, sul rispetto della natura e del territorio, realizzata nella pratica, attraverso produzioni, anche effimere. 344
Fig. 1 Nasse
Fig. 2 Nasse
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La nostra esperienza quotidiana ha che fare, sempre più spesso, con una realtà frammentata in compartimenti, siamo incasellati in situazioni, dentro caleidoscopi di immagini, spesso lontani gli uni dagli altri, sradicati da situazioni che meglio potrebbero essere definite, vivibili. Ci siamo distanziati dalla dimensione che potremmo definire rurale, una condizione che presenta in sé caratteristiche di connessione, appartenenza al territorio, riconoscimento di luoghi e comunità locali. La dimensione fragile dell’esistenza dei nostri giorni, rende urgente la comunicazione tra le persone, i luoghi che abitano e, distrattamente, percorrono. Come artista, che esce dal sistema delle gallerie, devo far fronte alla gestione della partecipazione, legandomi al territorio e alle istituzioni, provando ad intercettare i bisogni della società civile. Mi chiedo se, come operatore estetico, posso individuare delle connessioni tra lo spazio e la società con interventi di cultura per tutti. Credo che la partecipazione possa assumere una valenza critica e sperimentale, anche e soprattutto, nell’ uso gioioso e democratico dello spazio. Il laboratorio può diventare una procedura d’indagine che serve a ri-guardare, capire, entrare in relazione, come esperienza capace di riconnettere luoghi e persone. L’artista si fa mediatore e attraverso il laboratorio le persone possono scoprire aspetti della loro identità, sentirsi parte di un rito collettivo. Durante le azioni installative, chiamo le persone a prendersi cura dei luoghi, agire nello spazio, con interventi site-specific, che non vogliono imporsi, ma cercare di sorprendere, unire, creare dialogo. L’intento del laboratorio ha un ruolo sperimentale, ma anche critico è formativo, un tentativo sincero di usare la creatività come processo d’integrazione tra etica ed estetica. Credo nella co-partecipazione e nell’ arte relazionale come possibile veicolo di approfondimento, capace di generare nuovi modi di percepire i luoghi, di sondare margini di città/campagna/periferia, attraverso azioni creative e sperimentali che possano essere una risorsa culturale e di buona pratica. Anche il laboratorio Nasse, pensato per la IX edizione della Summer School Emilio Sereni, PAESAGGIO, patrimonio culturale e turismo, intende essere una proposta di avvicinamento all’arte ambientale, che allude al paesaggio fluviale, attraverso codici e modalità semplici, che non necessitano di conoscenze pregresse nel campo. L’arte intesa, dunque, come qualcosa che appartiene a tutti e alla nostra intima natura e crea nuovi livelli di socialità, per un paesaggio non contemplativo ma attivo, che può essere anche personale, arbitrario, ma vivo.
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Fig. 3-4-5-6 Nasse di Antonella De Nisco (2017), installazione visibile presso il Museo del Po e della Navigazione Interna, Boretto (RE). Museo dedicato al Grande Fiume con esposizione dâ&#x20AC;&#x2122;imbarcazioni fluviali e materiali per la navigazione sul Fiume Po. Indirizzo e contatti - Via Argine Cisa, 11 - 42022 Boretto, 0522-965601/963811 - info@ infrastrutturefluviali.it
Fig. 7 Nasse, Antonella De Nisco, Summer School Emilio Sereni, Museo Cervi, 2017 347
ESERCIZIO: Fish and chips Antonella De Nisco - Liceo Matilde di Canossa Reggio Emilia classi: 2/4 K- 3/4 A - 3D - 3E anno scolastico 2017/18
Fish and chips Pesce e patatine, fritti a puntino, possono finire nelle nasse Le nasse sono strumenti per la pesca, contenitori intrecciati in giunco e altro, una rete chiusa, di forma ovoidale, con un’apertura che consente l’ingresso, ma dalla quale è impossibile uscire. Entrare nella nassa significa rimanere preso in un imbroglio, restare imprigionati. Non siamo pesci ma le nasse, intese come trappole, circondano la nostra vita, sempre in agguato, anche tra le nostre stesse mani, ci distraggono rubandoci il tempo. Da qui il tentativo di fare una riflessione sui concetti di spazio/ tempo in riferimento al mare di reti in cui viviamo, sempre pronte ad inghiottirci. Ci troviamo, instabili, dentro ad una precarietà che rende necessaria una maggiore attenzione al nostro corpo, allo spazio, alla natura e quel paesaggio che quotidianamente attraversiamo, con il rischio di essere continuamente fritti e mangiati. Nell’ approfondimento e nello studio delle opere d’arte e dei simboli, attraverso l’esercizio scritto-grafico, indaghiamo anche le nostre esperienze quotidiane, frammentate in compartimenti, incasellati in situazioni, dentro caleidoscopi di immagini che disorientano, nella ricerca di una comprensione della forma che è sempre simbolo da riconoscere, per non essere inghiottiti. La storia dell’arte ci insegna che l’indagine sulla forma e sul simbolo, attraverso l’iconografia e l’iconologia è imprescindibilmente legata ad aspetti della storia e della società, dunque il nostro esercizio/installazione finale co-partecipato, eseguito collettivamente, con disegni-intrecciati tra loro si arricchisce di significati nei contributi personali delle/dei ragazze/i e della loro giovane esistenza. L’esercizio, approfondimento/studio sui simboli e l’elaborato scrittografico (pesce) diventa una riflessione sulla complessità del reale. Attraverso pratiche relazionali di lavoro di gruppo e analisi dei significati simbolici delle immagini, con le fonti (libri e internet) abbiamo realizzato una ricerca parziale ma utile alla conoscenza dei segni/simboli, nella scelta e gestione delle opere, nella lettura di articoli, testi e soprattutto alla socializzazione della creatività, attraverso lo strumento trasversale dell’azione didattico-laboratoriale. Il laboratorio diventa una procedura d’indagine che serve a ri-guardare, capire, entrare in relazione. L’approfondimento, di didattica dell’arte ci permette, attraverso uno studio trasversale, di scoprire aspetti relativi all’ identità di ciascuno, di sentirsi parte di un rito collettivo, prendersi cura dei luoghi, agire nello spazio, con interventi site-specific, che non vogliono imporsi, ma cercare di sorprendere, unire, creare e dialogo come risorsa culturale e di buona pratica.
Davide è tardi sono le sette e quarantadue (Eppure una volta C’era tempo) Sempre più il tempo in cui viviamo è misurato su scadenze perentorie, istanti cruciali, appuntamenti da rispettare assolutamente. 348
Anche nei momenti di relax, in vacanza, non riusciamo più a liberarci dalla fretta, dallo stress e dalla condizione di permanente mobilità. È in questa instabilità, fondamentalmente, che si vive e si percepisce lo spazio urbano: nell’uso la dimensione estetica della città è ignorata. Tutto quello che si frappone tra noi e la meta immediata, il negozio, l’ufficio o la chiesa, costruisce, oltre che un ostacolo, un fastidio: la città stessa nel suo insieme risulta essere, dunque, la somma di una serie di elementi di disturbo. Nella quotidianità la condizione con la quale si percepisce lo spazio urbano è, dunque, la distrazione. La città è letta come sfondo ai nostri ed altrui movimenti. Non l’architettura, l’arte, i monumenti ci attirano ma, semmai, le vetrine dei negozi che, come veri teatrini urbani, sembrano gli unici punti in grado di suscitare attenzione, costruire frammenti di spettacolarità urbana e determinare relazioni visive, seppur effimere. Gli architetti nelle boutiques realizzano alla perfezione la messa in scena della illusione, del sogno, del futile, del banale, dello straordinario, dello chic, del volgare, del giovane, del vecchio, del vuoto, del pieno, del niente...”. Considerare la città come ambiente significante in senso lato, osservare che essa trasmette in continuazione e rilevare, comunque, che è fruita nella disattenzione da parte dell’abitante rispetto al turista, indurrebbe a considerare approfonditamente la gerarchia delle sorgenti imminenti e la loro efficacia comunicativa singola o reciproca. Principalmente qui interessa annotare come nell’ambiente complesso della città gli elementi di maggior interesse sembrano essere quelli di più ridotta materialità. Ci muoviamo in percorsi, in circuiti urbani legati alla produzione ed al consumo, percorsi nei quali l’architettura, si potrebbe dire, è anch’essa sopportata come ridondante e superfluo elemento di disturbo, è considerata pure elemento necessario
Fig. 8 Il tempo è immagine mobile dell’eternità (Il Timeo, Platone). 349
come fatto quantitativo, edilizio, ma ad essa non si chiede altro che di servire a qualcosa di pratico. E, dunque, ci si chiede se è proprio vero che l’architettura emetta messaggi più o meno percepiti nella loro dimensione qualitativa o se, invece, il predominio dell’effimero sia tale da annullare l’architettura stessa che, di fatto, esce dal sistema di comunicazione. In effetti l’architettura è attesa e osservata, quando va bene, solo dagli architetti, come, probabilmente, la poesia dai poeti, la storia dagli storici, la filosofia dai filosofi e l’economia dagli economisti. D’altronde il livello di qualità dello spazio, anche nella città storica, è, prevalentemente e correntemente, commisurato alla quantità di prestazioni, servizi, benefici più che alla qualità estetico/artistica degli spazi. Secondo il gusto e la cultura non tanto consumista ma telecratica attuale se nelle città sparissero i negozi o le loro immagini, forse le città apparirebbero ai più inospitali se non invivibili. Conosciamo persone a cui piace andare al supermercato a curiosare fra le merci anche senza comperare. Più che il bisogno di cose v’è il bisogno di immagi, bisogno che quando non viene soddisfatto può generare disagio anche in presenza di altre e più profonde qualità. Immagini semplici, rapide, facili e immediate pena la caduta di interesse e l’interruzione della comunicazione. Davide ubbidisce e rincasa dimenticandosi di guardare il colore del cielo2.
Il telefono che mostro! Chiave di volta dell’intera vita sociale odierna, quest’ordigno meccanico sbrigativo sostituito dagli antichi messaggi nonché della penna d’oca (e perfino della scostante matita a sfera) è oggi la bonne a tout faire delle relazioni umane, nessuna esclusa. Con queste parole la scrittrice napoletana Clotilde Marghieri descriveva, in una cronachetta dall’eloquente titolo il mostro in casa, l’innovazione che aveva rivoluzionato il vivere moderno: il telefono. Conferendo vita al manufatto Marghieri, lo rappresenta come un essere dispettoso, guastafeste per definizione, pronto a disattendere le aspettative dei suoi utenti, restando muto quando ci si augura che suoni e trillando allorché si vorrebbe che tacesse, ed è una fortuna che ll mostro sia senza occhi considera la scrittrice, ignara di ciò che sarebbe accaduto al tempo del salto di paradigma tecnologico, nei giorni in cui la creatura reciderà il cordone ombelicale del filo per imboccare la strada dell’evoluzione della specie, guadagnando nuovi sensi e abilità molteplici, in grado di catturare immagini e riprodurre suoni articolati, l’ultimo stadio della mutazione ha abbandonato gli ambienti separati della casa, acquisito la piena mobilità e rivoluzionato le relazioni sociali. Soprattutto, è il garante della connessione permanente alla rete telematica, viatico per il world wide web. Sono bastati 20 anni per trasformare le promesse in condanne 2 Frase rivolta, dal balcone di un condominio, da una madre al proprio figlio Davide, che giocava nel cortile sotto casa in un giorno qualsiasi del 1995: Davide è tardi sono le sette e quarantadue, in A. De Nisco, G. Teggi, Piazza dell’Innamorato, storie, sprazzi, spruzzi e lazzi, Ed’A, Pescara 1996, pp. 81-82. 350
e rilevare gli inganni. I mega dispositivi del controllo capillare permanente, svelati da Edward Snowden, ha cancellato i miraggi di libertà. E lo stesso hanno fatto le immense concentrazioni di informazioni su forme di vita, attitudini individuali, gusti personali, inclinazioni religiose o tipologie di consumo all’origine dei cosiddetti Big Data. E a questo punto i paragoni si sprecano. C’è chi tira in ballo il grande fratello di George Orwell. E c’è chi evoca il celebre Panopticon, il carcere progettato da Geremy Bentham e studiato da Michel Foucault, in cui i detenuti potevano essere sempre osservati da un guardiano che tutto scorgeva senza poter essere visto. Paragoni che alludono solo parzialmente alla sofisticatezza delle attuali forme di controllo. Attraverso l’ultima evoluzione del mostro, combinata alla diffusione dei social network, cade ogni confine tra l’obbligo di essere osservati e la volontà di mostrarsi. La tendenza a fagocitare qualunque aspetto dell’esistenza umana, a metterne valore le abilità comunicative, la sfera relazionale, le esperienze più intime, ha raggiunto un livello di pervasività totale da aver investito perfino l’inconscio. Così il vincolo passa dall’esterno all’interno, dal corpo alla psiche. Il soggetto al tempo del capitalismo estrattivo vive un’illusione di libertà, sviluppa un’autonomia debole di continuo ricompensa nella logica di estrazione del valore, massimizzata le proprie performance, estende in modo indefinito la propria produttività e si racconta come imprenditore di sé stesso. Il sorvegliante è all’apparenza svanito ha lasciato il centro del Panopticon, e attraverso i poteri telepatici sviluppati dal mostro - si è radicato nei stati più profondi della psiche. Questa nuova fase, che segue quella della biopolitica, è stata definita dal filosofo coreano Byung-Chul Han psicopatia. L’Io che transita attraverso la connessione globale non ha più niente della potenza immaginifica e multiforme espressa dl vecchio spot di Tony Kaye. Al contrario è un ego imprigionato nella propria singolarità, rigido esecutore di auto imposizioni…La riflessione sulla Rete, oggi, procede su un filo sottile sospeso tra lo sciame digitale di cui parla Byung-Chul Han e il popolo come frutto di un’attività di storytelling praticata dalle forze antisistema. Il mostro di cui narrava Clotilde Marghieri, invece, è ancora là, sempre a interrogarci. E secondo uno psicologo Michal Kosinski, il nostro smartphone è un vasto questionario psicologico che stiamo continuamente compilando, sia consciamente sia inconsciamente3.
3 G. M. Brera, Il telefono che mostro!, in «La lettura», 26/11/2017, p. 7. 351
ESERCIZIO Fish and chips Liceo Matilde di Canossa Reggio Emilia classi: 2/4 K- 3/4 A - 3D - 3E anno scolastico 2017/18
Fig. 9 Escher, studio di pesci che risalgono in superficie
Il simbolo è un elemento della comunicazione, che esprime contenuti di significato ideale dei quali esso diventa il significante.
ESERCITAZIONE SCRITTO-GRAFICA: SIMBOLO e TEMPO a. disegno libero di un pesce (schizzo in bianco e nero) b. ricerca sui Generi Iconografici e Attributi di Santi/Divinità c. lavoro di gruppo sulle fonti/slide ricerca di gruppo: - opera pittorica simbolo/parola chiave/descrizione - lezione contenuti del lavoro/letture/riferimenti iconografici d. schizzi/disegni: - schizzi/rielaborazioni personali successivi all’approfondimento - PESCE/Autoritratto e. studio dei Generi Iconografici/Esposizione/Autovalutazione 352
Fig. 10 a. disegno libero di un pesce (schizzo in bianco e nero) e parte dellâ&#x20AC;&#x2122;esercitazione scritto-grafica: SIMBOLO e TEMPO
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Fig. 11 b. Esempio della ricerca condotta dalle classi, sui Generi Iconografici e Attributi di Santi/DivinitĂ e la costruzione di un manuale di indagine sui simboli come parte dellâ&#x20AC;&#x2122;esercitazione scritto-grafica: SIMBOLO e TEMPO 354
Fig. 12 b. Esempio della ricerca condotta dalle classi, sui Generi Iconografici e Attributi di Santi/DivinitĂ e la costruzione di un manuale di indagine sui simboli come parte dellâ&#x20AC;&#x2122;esercitazione scritto-grafica: SIMBOLO e TEMPO 355
Fig. 13 c. Pagine/esempio delle ricerche/lavoro di gruppo condotte dalle classi sulle opere pittoriche/simbolo/parola chiave/descrizione attraverso le fonti (scritte/internet) con realizzazione di un manuale e impegno in lezioni sui contenuti del lavoro/letture/ riferimenti iconografici con valutazione/autovalutazione. Lâ&#x20AC;&#x2122;indagine fa sempre parte dellâ&#x20AC;&#x2122;esercitazione scritto-grafica: SIMBOLO e TEMPO 356
Fig. 14 c. Pagine/esempio delle ricerche/lavoro di gruppo condotte dalle classi sulle opere pittoriche/simbolo/parola chiave/descrizione attraverso le fonti (scritte/internet) con realizzazione di un manuale e impegno in lezioni sui contenuti del lavoro/letture/ riferimenti iconografici con valutazione/autovalutazione. Lâ&#x20AC;&#x2122;indagine fa sempre parte dellâ&#x20AC;&#x2122;esercitazione scritto-grafica: SIMBOLO e TEMPO 357
INSTALLAZIONE Fish and chips Liceo Matilde di Canossa Reggio Emilia classi: 2/4 K- 3/4 A - 3D - 3E anno scolastico 2017/18 Ogni singolo pesce delle/gli allieve/i ha tanto da raccontare e tutti insieme stretti, stretti sono diversi e amici. Nelle versioni scritto-grafiche emergono tantissime considerazioni sui social, a volte negative ma con la consapevolezza di possedere una compagnia che dobbiamo saper controllare, comportandoci bene. Se oggi il medium può manipolare la nostra vita, creando dipendenza, noi dobbiamo imparare a difenderci, cambiando le nostre abitudini. Emerge la necessità di saper scegliere per il nostro benessere personale, così come accade per il cibo, dobbiamo saper fare una dieta. Uno degli ingredienti per non finire nella rete è l’uso della CONOSCENZA, libera dall’ossessione della velocità e quantità, nel prezioso riconoscimento del nostro TEMPO che dobbiamo preservare, controllare e rispettare.
Fish and chips: oltre le nasse Lorizio Sara - classe IV^ A Linguistico Articolo - Giornalino Scolastico Liceo Matilde di Canossa, RE - primavera 2018 Internet, televisione, smartphones e social media: siamo nell’era del digitale, nessun posto ci sembra troppo lontano e ogni persona è raggiungibile grazie ad un click. Tutto questo all’apparenza può sembrarci un nuovo, eccitante mondo che si apre davanti a noi e si mette nelle nostre mani con mille opportunità, non dico che non sia così eppure… paradossalmente lo stare così spesso a contatto con tante persone, essere continuamente esposti a chiunque è come se da un lato ci imprigionasse, senza riuscire più ad uscirne, e diventasse una trappola per la nostra individualità, rendendoci tutti troppo vicini al punto da non sembrare più distinguibili, come i pesci in una nassa, uno strumento per la pesca, una rete chiusa da cui è impossibile uscire. E quante ce ne sono di nasse al mondo, sempre in agguato, spesso proprio nelle nostre mani, come ad esempio in un telefono. Del resto, ricordiamocelo, anche Internet è altresì detto rete. E quindi cosa possiamo fare per orientarci in un mondo di marchi e immagini caleidoscopiche che ci distraggono, disorientano e ci tendono nasse ad ogni angolo? Cosa per recuperare la nostra individualità? Abbiamo tentato di approfondire e rispondere a queste domande con l’esercizio di didattica dell’arte proposto dalla nostra prof.ssa di Storia dell’Arte Antonella De Nisco che ci ha proposto una indagine approfondita e articolata sulla forma e sul simbolo con un progetto molto interessante: attraverso lo studio e l’analisi dei simboli, utilizzati nelle più celebri opere d’arte che ci troviamo ogni giorno sotto il naso nei libri e pratiche razionali di lavoro di gruppo, abbiamo riflettuto sull’importanza e sul ruolo dei simboli nella storia dell’arte. ma anche nella nostra vita quotidiana, in televisione, sui giornali, su internet e nelle pubblicità, tutto ciò che ogni giorno ci circonda, ci influenza e a cui raramente prestiamo attenzione. 358
Fig. 15-16 d. Installazione co-partecipata con i PESCI/Autoritratto: schizzi/disegni/ rielaborazioni personali successivi allâ&#x20AC;&#x2122;approfondimento/esercitazione scritto-grafica: SIMBOLO e TEMPO 359
In questo modo non solo ci siamo addentrati nella complessità del reale e in molte delle le sue sfaccettature, ma abbiamo anche portato nella nostra quotidianità qualcosa che ci sembrava solo molto teorico e lontano da noi, riportato nei libri di testo che ogni giorno sfogliamo (studiamo) chiedendoci in che modo ci riguarda. In seguito a questa ricerca, abbiamo affiancato un elaborato scritto-grafico: ognuno di noi, partendo da una sagoma di un pesce uguale per tutti, l’ha resa unica con le sue riflessioni e l’utilizzo di colori, tempere, gessetti, fogli di giornale, spighe di grano, carta stagnola… ma non importa cosa abbiamo usato, né se rispondeva a canoni estetici o più o meno bello di quello della/del compagna/o di banco, non è giusto o sbagliato, ogni elaborato racconta di noi, attraverso un pensiero che grafico, irregolare o perfetto nella sua particolarità. Tutti questi pesci sono stati poi intrecciati insieme con molta pazienza, diventando una opera collettiva che allude alla vita e al nostro andare tutti d’accordo quando essere nel posto giusto non è facile, all’interno di una rete, che però non ci imprigiona ma ci unisce nella nostra diversità. Inseguito il tutto è stato esposto nell’atrio della scuola, quasi fosse la nostra foto profilo. Attraverso un esercizio con l’arte abbiamo preso coscienza della nostra individualità e allo stesso tempo consapevolezza del fatto che possiamo e dobbiamo rimanere noi stessi anche in un mondo che ci vuole, inspiegabilmente, tutti uguali.
Fig. 17 Immagine 34 Installazione co-partecipata SIMBOLO e TEMPO, presso Liceo Matilde di Canossa, RE (particolare) 360
Bibliografia generale M. Battistini, Astrologia, magia, alchimia, Mondadori, Milano 2004. M. Battistini, Simboli e allegorie, Mondadori, Milano 2002. M. Battistini, Santi, 2002, Mondadori, Milano 2002. M. Battistini, L. Impelluso, Il libro dei simboli. Scoprire il significato delle opere d’arte, Mondadori, Milano 2012. N. Bourriaud, Estetica relazionale, Ostmedia Srl, Milano 2010. G. M. Brera, Il telefono che mostro!, in «La lettura», 26/11/2017. A. Cerinotti, Atlante illustrato dei miti greci e di Roma antica, Giunti, Firenze 2003. C. Cordié, Enciclopedia de miti garzanti, Garzanti, Milano1990. R. Giorgi, Simboli, protagonisti e storia della Chiesa, Mondadori, Milano 2004. R. Giorgi, Inferno e Paradiso, Mondadori, Milano 2014. R. Giorgi, Angeli e demoni, Mondadori, Milano 2003. V. Gravano, Paesaggi attivi. Saggio contro la contemplazione. L’arte contemporanea e il paesaggio metropolitano, Mimesis Nosmos, Milano 2012. R. Dalisi, Decrescita. Architettura della nuova innocenza, Corraini, Mantova 2009. C. De Capoa, Episodi e personaggi dell’Antico Testamento, Mondadori, Mialno 2003. C. De Capoa, S. Zuffi, La Bibbia nell’arte, Mondadori, Milano 2013. A. De Nisco, G. Teggi, Piazza dell’Innamorato, storie, sprazzi, spruzzi e lazzi, Ed’A, Pescara 1996. E. Del Giudice, A. Giasanti, L. Marchino, Esseri Umani. Prospettive per il futuro, FrancoAngeli, Milano 2013. U. Eco, Soria della bruttezza illustrata, Bompiani, Milano 2010. U. Eco, Storia della Bellezza illustrata, Bompiani, Milano 2012. M. Heidegger, Sein und Zeit, Halle, trad. it. Essere e Tempo, Longnesi, Milano 2005 (ed. orig. 1927). 361
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PARTE V CONCLUSIONI
Il paesaggio e il turismo tra rischi e opportunità
Rossano Pazzagli Università del Molise
Quando si conclude qualcosa c’è sempre un misto di sollievo e di dispiacere: sollievo per lo sforzo che abbiamo condotto e che giunge a compimento; dispiacere perché si interrompe un’esperienza che è andata crescendo nei giorni della Scuola e che ha rappresentato un incontro e una modalità di apprendimento, di trasferimento di conoscenze, con il piacere di stare insieme, come dimostra anche la bella partecipazione che ha resistito fino alla fine, con la sala Cervi ancora piena come quando abbiamo incominciato. È stata un’esperienza utile. Naturalmente non è una scuola che deve educare qualcuno o trasferire nozioni elementari: in questo caso gli allievi sono già tutti portatori di sensibilità e competenze, altrimenti non sarebbero qui. L’unico auspicio che voglio esprimere è che queste giornate siano servite a coltivare – per restare in tema agrario - quelle vostre sensibilità e quelle vostre competenze, ad affinarle, ad aggiornarle, a confrontarle con quelle degli altri, di altre regioni, di altre discipline, di altri contesti. Il titolo che ho dato a questa relazione finale - Tra rischi e opportunità – è giustificato dal fatto che l’innesto del turismo sul tema del paesaggio ci ha fatto vedere entrambi queste dimensioni. Ci muoviamo cioè su un terreno dove le opportunità sono tante, ma anche i rischi sono alti. Paesaggio rurale, patrimonio culturale, turismo: queste sono le parole che ci hanno guidato. Il paesaggio c’è, come abbiamo visto. Malgrado tutto c’è, ed è il prodotto di quelle stratificazioni storiche che ricordavamo prima sulla scia di Emilio Sereni, lo specchio dell’esercizio dell’attività agricola e della vita in campagna, più in generale dell’organizzazione della società e del territorio. Abbiamo detto paesaggio e patrimonio culturale; bene, adesso sappiamo con certezza che possiamo mettere un accento su quella e: paesaggio è patrimonio culturale. La scuola si è aperta con la relazione di Carlo Tosco e con l’interrogativo su come il paesaggio diventa patrimonio. E su questo mi sembra che i contributi di questi giorni, le lezioni e il dibattito siano stati concordi. Un misto di identità estetica e identità culturale. Questa parola identità è emersa molte volte: l’identità del paesaggio o piuttosto il paesaggio come fattore di identità. Io di solito quando pronuncio la parola identità abbasso la voce, perché secondo me è una parola insidiosa, un concetto ambiguo che può portarci anche su vie pericolose, a volte buie e che ci impediscono di vedere il paesaggio, che è anche un paesaggio di valori e di civiltà. Un concetto statico di 365
identità farebbe tra l’altro venir meno il nostro protagonismo di individui e di comunità. Eppure dai contributi che qui si sono raccolti è emersa la necessità di un nuovo protagonismo delle persone, dei territori, delle realtà locali e delle comunità. Le identità non sono le radici; le radici sono date, poiché da qualche parte ciascuno di noi è nato e cresciuto. L’identità invece è un processo, come lo è il paesaggio: non è solo ciò che siamo stati, ma è anche ciò che siamo, e può essere pure ciò che vogliamo essere, che vorremmo essere. Allora, in questa visione processuale il protagonismo è possibile. Se noi invece prendiamo l’identità come dato, un codice scritto una volta per tutte, allora siamo spinti più verso la passività che verso il protagonismo. Sul turismo, Pietro Clemente, parafrasando Croce, diceva che non possiamo non dirci turisti. E Enrica Lemmi (il cui contributo purtroppo non è presente in questo volume) ci ha dato anche una definizione molto suggestiva del turista come soggetto nomade e digitale. Ma ci chiedevamo con Fabrizio Frignani se forse non converrebbe porci anche un problema di educazione del turista, di formazione del turista. La scuola, ricordava Mario Calidoni, forma cittadini; certo, ma quei cittadini sono anche turisti. Si tratta di un aspetto che può stare nella filiera degli studi, in chi lavora negli istituti secondari a indirizzo turistico, o nei corsi di laurea sul turismo all’università (in particolare i corsi d laurea in Scienze del turismo e quelli di laurea magistrale in Progettazione e gestione dei sistemi turistici). Questa edizione della scuola è stata molto sereniana, nel senso che ha insistito molto sui processi e sulla natura dinamica e viva del paesaggio e così deve essere per il paesaggio. Nella prima giornata Giulio Volpe e Daniele Manacorda hanno entrambi parlato del paesaggio come organismo vivente. Organismo vivente e prodotto storico, frutto della cooperazione e dell’incontro tra uomo e natura. Paesaggio come prodotto che si trasforma, ma anche come fattore propulsivo per il turismo. Quindi una prima conclusione è questa: il territorio, il territorio rurale in particolare è la prima risorsa dell’Italia e deve tornare al centro del processo di sviluppo. Si può fare questo? La nostra scuola può essere la spinta per una strategia che qualcuno, come ha fatto qui Monica Meini, definisce ri-territorializzazione dei processi di sviluppo, dopo che questi hanno avevano seguito piuttosto un percorso di de-territorializzazione. Ecco, allora in questa prospettiva l’agricoltura riveste un ruolo di primo piano, anche se questa edizione è stata una scuola meno agraria di quelle precedenti, ma l’agricoltura è sempre presente, è rimasta su uno sfondo culturale e anche fisico, coi campi qui intorno a casa Cervi e nella Bassa reggiana, lungo il Po, che abbiamo visitato grazie alla regia esperta di Emiro Endrighi. Sono emersi alcuni temi forti, da custodire e da approfondire. Tra questi il tema dei paesi, dei borghi. Soprattutto nella prima parte della scuola, in effetti, chi parlava di campagne si riferiva ai borghi rurali, ai villaggi, ai piccoli paesi, più che ai contadini e alle case disseminate nella campagna. Dalla relazione di Pietro Clemente, ma anche nelle altre lezioni, questo tema dei paesi è tornato continuamente, ponendo il problema delle comunità locali che, come il paesaggio, hanno subito processi di rarefazione, di abbandono, di depotenziamento. Dal canto nostro invece è emersa, anche nei workshop, la necessità di un rafforzamento delle comunità locali. Questo è un punto critico, molto critico perché di questo ci sarebbe bisogno, mentre invece stiamo andando in direzione opposta, cioè mentre noi parliamo di rinascite territoriali, di empowerment delle comunità locali, di riorganizzazione dei territori… 366
continuano in gran parte delle aree rurali italiane lo spopolamento, l’abbandono, la desertificazione produttiva e la sottrazione di servizi ai territori. Questo è un grande problema, evidenziato in quasi tutti i contributi. Praticamente tutti, da Antonio Santoriello a Barbara Tagliolini e a Bas Pedroli ci hanno rimandato a quel processo duplice che abbiamo incontrato anche nelle giornate precedenti e anche nelle passate edizioni: un processo apparentemente contrastante che però produce un effetto convergente di degrado: da un lato l’abbandono di gran parte del territorio italiano (le aree interne), dall’altro la polarizzazione, la concentrazione, l’urbanizzazione, la cementificazione in più ristretti ambiti di territorio. Abbiamo finito per produrre un abbassamento della qualità della vita e del paesaggio sia nelle aree di partenza che in quelle di arrivo: il doppio danno di un unico processo. Ecco perché parlavo all’inizio di rischio e di opportunità come due facce della stessa medaglia. Per cogliere le opportunità dobbiamo conoscere molto bene i rischi, altrimenti le opportunità, che quando colte, restano effimere, non durature, quindi non sostenibili dal punto di vista sociale e ambientale. Ma torniamo al rapporto tra paesaggio e turismo. Non basta il paesaggio per avere il turismo. Serve un sistema di organizzazione delle risorse, di tutela, di fruizione. A questo proposito io penso che ci voglia più tutela, non meno tutela. Ma non voglio entrare sulla questione della revisione della legge 394 sui parchi, a cui ha accennato il Ministro. C’è il problema della comunicazione e quello della qualità, che è stato un altro grande tema al centro dei nostri ragionamenti; penso alla relazione di Mauro Agnoletti per cui la qualità del paesaggio diventa qualità complessiva: qualità ambientale, qualità dei prodotti, qualità del cibo e qualità della vita. Ho avuto già modo, nel dibattito, di apprezzare ancora una volta, come avviene da diverse edizioni, la relazione di Luigi Costanzo e Alessandra Ferrara dell’Istat, che si impegnano ogni anno alla ricerca di nuovi indicatori del benessere, che superino il Pil andando verso una lettura ulteriore dei puri dati censuari e per adottare indicatori che arricchiscano la nostra capacità di valutare il benessere delle popolazioni. I rischi sono stati evidenziati molto bene, in primo luogo collegati al fatto che il turismo tende a produrre modelli di consumo omologanti e standardizzati. L’ha detto nella prima giornata Annunziata Berrino e l’ha ripetuto successivamente Monica Meini: sviluppo rurale si, ma colonizzazione rurale no, perché la conseguenza è una perdita d’identità, di valori, di indebolimento del patrimonio culturale custodito nelle nostre campagne. Si tratta di un aspetto che emergeva anche nella relazione di Barbara Tagliolini in termini di espulsione degli abitanti (agricoltori) dai luoghi tradizionali; la relazione di Pedroli sull’Olanda era molto esplicita ed evocativa su questo: fare turismo nelle aree rurali non deve significare allontanare i protagonisti di quelle aree, coloro che le hanno vissute e organizzate nel tempo. Del resto, non deve succedere quello che è successo nei centri storici delle città d’arte, dove il turismo ha cacciato via attività quotidiane, abitanti, i bambini che giocano in strada e gli anziani che stanno sulle panchine… perché è diventato troppo costoso abitare e vivere lì. Comunità locali, comprensione, partecipazione, consapevolezza – appunto – come aspetti necessari. Ci sono anche gli aspetti positivi, le cose che ci diceva Annunziata Berrino che, pur avendo una visione prospettica non ottimistica sul turismo rurale, ci ricordava quello che è successo in Francia negli anni ‘80 e poi anche in Italia dagli anni ‘90 con la costituzione di associazioni, di realtà locali, di territori, di prodotti; 367
anche questo sarebbe un grande tema da sviluppare, ma il tempo è sempre tiranno nelle giornate di questa Scuola. Il tempo è passato in fretta. Bah, si dice che il tempo passa, ma forse siamo noi che si passa, mentre il tempo resta lì immobile a guardarci. Noi diciamo sempre che il tempo fugge, ma è il tempo che scorre o siamo noi che scorriamo? Scusate la parentesi filosofica. Però il nostro approccio dev’essere serio, a parte le battute, dev’essere un approccio scientifico, certo ricco di pathos, ma non religioso. Abbiamo bisogno di ragionamenti, non di prediche, di ricerche, non di pour-parler. Questo è molto importante secondo me sul piano metodologico, come ci ha mostrato anche la lezione di Fabiola Safonte relativa alla Sicilia, con il suo progetto di ricerca-azione per andare a misurare il benessere nelle singole realtà suscettibili di sviluppare le loro potenzialità turistiche. Sembrava suggerire una sorta di equazione tra qualità della vita e attrazione turistica: il turista va dove si sta bene. Allora le prime politiche non dovrebbero essere strettamente turistiche, ma dovrebbero essere politiche urbanistiche, ambientali, sociali. Perché se in un territorio si sta bene, anche il paesaggio è più bello, come avrebbe detto Sereni. Egli sosteneva infatti, come è noto, che Il paesaggio è il farsi di una certa società in un certo territorio. Ecco qui l’anello mancante a cui accennavo presentando la scuola al Ministro Galletti, cioè il legame tra il lavoro culturale e formativo, che noi facciamo, e le politiche. Che ricadute può avere il nostro lavoro, il nostro impegno di questi giorni come delle passate edizioni della Scuola? Andiamo via di qui, e poi? Beh, sarebbe già molto se ciascuno di noi, ciascuno di voi contaminasse con le cose e le consapevolezze che ci siamo scambiati la propria azione quotidiana, ognuno nel suo ambito, nelle sue attività di amministratore, di docente, di studioso, di professionista, di operatore del territorio. In questi giorni abbiamo studiato e abbiamo vissuto come in una piccola, ma non tanto piccola, comunità di apprendimento e di scambio; abbiamo anche praticato qualcosa come una significativa esperienza di turismo lento, al quale più volte si è fatto riferimento qui: la bicicletta, la nave sul Po, gli spostamenti a piedi… non sono stati solo mezzi per spostarsi, ma anche modi per cambiare il punto di vista. Il punto di vista di un fiume visto da dentro il fiume, ad esempio, è un punto di vista assolutamente insolito, inusuale. Ecco, dovremmo provare tanti e diversi punti di vista per avvicinarsi al patrimonio, tutto il patrimonio e non solo quello codificato. Perché il patrimonio, codificato o no, è qualcosa a cui si attribuisce un valore e qui abbiamo incontrato un patrimonio, anche nelle aree rurali della bassa pianura. Il patrimonio è l’insieme dei valori che gli abitanti di una comunità, ma anche chi la osserva dall’esterno, attribuiscono alle cose. La stessa cosa, ovviamente con mezzi diversi dalla bicicletta e dalla nave, si potrebbe fare per la montagna, per le colline, per le aree costiere e palustri del nord, del centro o del sud, per quell’Italia senza voce a cui noi sentiamo la necessità di ridare la parola, che attende di essere considerata prima di morire davvero per sottrazione di abitanti, di energie e di risorse. Ai fini dell’integrazione agricoltura-cultura-turismo c’è dunque molto da fare. È un campo molto aperto, interessante in cui progettare, fare, realizzare e applicare la filiera che lega conoscenza, tutela e valorizzazione. L’approccio che abbiamo seguito è un approccio multidisciplinare; questa ormai è una cosa consolidata. L’abbiamo visto benissimo nell’ultima giornata e in parte anche nella penultima, per esempio: una serie di contributi molto ancorati a ricerche vere, in corso o appena svolte. 368
Ma ricerche di chi? Di un archeologo, di una geografa, di un economista, di uno storico, di un’antropologa, con l’obiettivo necessario di ricomporre attorno all’idea di paesaggio i saperi e le discipline. È scaturita inoltre, come ogni anno, l’indicazione del rapporto con la scuola, al quale ci richiama sempre con la consueta maestria e acutezza Mario Calidoni. Affrontare la questione dell’educazione e della formazione al paesaggio significa l’inserimento di questo nel turismo scolastico, ma soprattutto nei programmi. Qui si è aperto anche l’orizzonte delle fattorie didattiche, mentre non si è parlato più di esperienze che sono diffuse sul territorio, ma che evidentemente hanno necessità di essere aggiornate, dopo essersi moltiplicate negli anni ’70-’80: mi riferisco ai cosiddetti musei della civiltà contadina. Mi aspettavo che questo tema emergesse di più, ma non è emerso; questo vuol dire che quelle cose, nate in una stagione diversa da quella di oggi, hanno mantenuto forse un approccio non adeguato alla fase attuale. Magari erano nate nel momento dell’addio al mondo contadino, con un impeto simile a quello del naufrago che si aggrappa perché vuole salvare qualcosa, magari trasmettendo anche la malinconia del tempo che se ne va. Non abbiamo bisogno di malinconia, per quanto esso non sia necessariamente un sentimento negativo; abbiamo bisogno di conoscenza, così come abbiamo bisogno di prospettiva, non di nostalgia. Insomma, abbiamo detto tante cose, più o meno problematiche. Ora, l’osservazione generale potrebbe essere: Ma si può fare tutto questo? la risposta secondo me la dava Clemente, riprendendo un’espressione di Alberto Magnaghi: Saranno utopie? Si, ma utopie concrete. Sul piano metodologico è emerso, ancora una volta, il tema della partecipazione. C’è chi ha parlato di condivisione, coinvolgimento delle comunità locali ecc… Ma pur sotto varie declinazioni, questo tema della partecipazione è emerso chiaramente ed esprime un disagio diffuso nei territori e nelle comunità locali; il disagio legato al fatto che i cittadini contano sempre meno e che le comunità locali sono sempre più depotenziate. Invece sarebbe necessario che cittadini e comunità tornassero ad essere il terreno primario per attivare o riattivare i meccanismi di partecipazione. Il tema della partecipazione, la sua attualità, ci sta spingendo – come comitato scientifico della Summer school - ad ipotizzare come argomento per l’edizione del 2018 il rapporto tra Paesaggio e democrazia, con un sottotitolo che dovrebbe suonare più o meno così: Partecipazione e governo del territorio nell’età della rete o delle reti. Riguarderà insomma le forme, gli strumenti della partecipazione, le modalità per incidere realmente sui processi decisionali e quindi rianimare, ripopolare la democrazia. Infine, un’ultima considerazione. Quando abbiamo aperto questa edizione della Scuola, come sempre ci siamo lanciati delle domande, due in particolare. Ci siamo domandati quale agricoltura? e quale turismo? Poi abbiamo lasciato queste due domande in sospeso, aleggiare, qualcuno le ha riprese nei propri interventi, come ha fatto Saverio Russo, assidua e rigorosa presenza della Scuola. La domanda su quale agricoltura, implica la messa in discussione di fondamenti economici su cui si regge al giorno d’oggi l’agricoltura industriale; lo abbiamo visto anche nella visita sul campo. Richiede di interrogarsi appunto sulle strutture della produzione e dello scambio. Comporta la conoscenza, il riconoscimento e la gestione diffusa dei beni comuni: terre, acque, paesaggio, sovranità alimentare, saperi agronomici. Insomma un’agricoltura che sia consapevolmente multifunzionale, in grado di consentire un’offerta diffusa 369
di beni alimentari e servizi ecosistemici, come qui giustamente sono stati richiamati nella lezione di Ilenia Pierantoni. Quindi quest’attenzione per il locale, ma in una visione integrata, di area (che si chiami distretto, bioregione, parco, altre tipologie di sistema locale…). Il tema dell’agricoltura implica di interrogarsi sul modello, anche su forme di nuova economia. Perché se noi operiamo a modello economico invariato, non potremo fare niente delle cose che abbiamo detto e se le facciamo non dureranno. Come sempre abbiamo bisogno di porre la nostra azione nell’orizzonte di un cambiamento di paradigma, altrimenti le nostre armi sono spuntate. Siamo andati avanti, e ci siamo chiesti quale turismo? Hanno risposto in molti: Safonte, Tagliolini, Meini e quasi tutti gli altri. Tutti hanno detto sostenibile, responsabile, lento, esperienziale, e così via. Insomma, una fuga dal turismo di massa, massificato e concentrato, impattante. Nell’ambito del legame agricolturaterritorio-turismo si è parlato dell’enogastronomia, che non è una invenzione astratta – come sembrava emergere dall’intervento di Carlo Cambi. Anche l’enogastronomia, cioè l’insieme delle produzioni agricole riconducibili al gusto e al territorio, è un patrimonio reale, importante di tutte le regioni italiane, insieme appunto ai centri storici, alle aree protette, alle testimonianze archeologiche, a tutto il patrimonio culturale in senso lato, compreso quello immateriale delle feste, delle tradizioni ecc... Ecco, il paesaggio è così: ci serve per rimettere insieme le cose, per ricomporre le fratture e le separazioni del nostro tempo. Vorrei ora, per concludere, ringraziare moltissimo l’Istituto Alcide Cervi, rivolgendomi in particolare alla sua presidente Albertina Soliani, e tornare a Emilio Sereni, che quest’anno è stato particolarmente ricordato, per il quarantennale della sua scomparsa, grazie ai bei ricordi della figlia Anna Sereni e di Daniele Manacorda e agli studi di Emanuele Bernardi. Sereni scrisse in conclusione del suo intramontabile libro sulla Storia del paesaggio agrario italiano: Il presente e il divenire del paesaggio agrario, restano affidati non già ad un indagine pur approfondita che sia che possa esaurirsi sul piano della teoria, bensì alla pratica di milioni di donne e di uomini in lotta per la vita e per il progresso civile delle nostre campagne, di tutta la nostra società nazionale. Il paesaggio è visto dunque come impegno civile, e allora noi speriamo che la nostra Scuola, questa Summer School, sia servita a questo: ad una crescita della coscienza del paesaggio, del rapporto tra il paesaggio agrario e la gestione e la valorizzazione del patrimonio culturale ricco e diffuso, che si lega inscindibilmente anche al turismo. Non è semplice, è una matassa di problemi, un groviglio non facile da dipanare, un intreccio anche più complicato di quello bellissimo che abbiamo osservato al Museo del truciolo di Villarotta, che abbiamo visitato nel corso della Scuola. Non voglio sembrarvi masochista, né pessimista, se vi lascio con questo messaggio: per capire le cose, bisogna innamorarsi dei problemi, non delle soluzioni.
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APPENDICE A Piero Camporesi nel ventennale della scomparsa
Piero l’artigiano, Camporesi l’alchimista
Gian Carlo Roseghini
Istituto di Istruzione Superiore G. Romani, Casalmaggiore (CR)
E molti qui davanti ignorano quel tarlo mai sincero che chiamano pensiero.1 Piero Camporesi, professore di Letteratura Italiana presso l’Università di Bologna. Studioso, lettore e scrittore quanto mai prolifico e fecondo. Il Pane Selvaggio, Le vie del Latte, Il Paese della Fame, La carne impassibile, Le officine dei sensi, La casa dell’Eternità, La Terra e la Luna. Questi alcuni dei suoi testi. Quale lo rappresenta di più? E’ forse la riscoperta di libri perduti che ne dovrebbe consacrare la fama imperitura? O magari Il governo del corpo, raccolta degli articoli di terza pagina per il Corriere della Sera, che negli anni ha raggiunto migliaia di lettori, potrebbe contribuire a serbarne il ricordo? Ci sembra opportuno a vent’anni dalla sua morte e a venticinque dalla pubblicazione di Le belle contrade tornare a riflettere sulla figura di questo poliedrico intellettuale. In particolare ragionare su un testo così significativo sia per quanto riguarda gli studi di letteratura e di cultural studies che per le implicazioni che possono riguardare altre discipline, quali la storia, l’antropologia e la geografia umana. In questa ricerca Camporesi segue la strada che porta alla definizione del paesaggio come materializzazione dei processi2 per giungere ad un’idea di paesaggio integrale3 che per lui è anche la lunga marcia verso il reale4. Dentro questo percorso, assieme ai tanti che l’autore compie lungo la sua carriera di docente e di scrittore, vi sono i molti perché, le molte domande cui l’accademico di nulla accademia tenta di dare una risposta. Ad esempio, nel testo in questione, si chiede come e perché queste contrade divengano belle. Tipico di Camporesi. Nulla viene dato per scontato, nulla è definito e cristallizzato per sempre. Nessuna domanda è preclusa allo studioso, anche se non si occupa specificamente, come in questo caso, di geografia. Già, un italianista che si occupa di paesaggi? Inconsueto forse, ma non è un caso unico. Sempre parlando 1 F. Guccini, Canzone di notte n. 2, in Via Paolo Fabbri 43, EMI, 1976. 2 Cfr. P. Camporesi, Le belle contrade, Il saggiatore, Milano 2016. 3 Ibidem. 4 Ibidem. 373
di paesaggio pensiamo ad un altro grande italianista bolognese, Ezio Raimondi, che ci fornisce, riguardo le suggestioni paesaggistiche, una definizione illuminante e convincente. In fondo leggere un paesaggio è come leggere un libro, o meglio, un palinsesto stratificato, dove le forme rimandano all’avvicendarsi di uomini e istituzioni. Ma proprio per questo occorre una cultura dello sguardo, un’educazione percettiva che abbia una forza indagante e congetturale, che sappia rendere conto di una realtà contemplata e ne riscopra la dinamica interna, una natura naturans che diviene cultura, racconto e forse confronto.5
Perché dentro ad un paesaggio vi sono continui rimandi alle vicende degli uomini e agli eventi naturali e si possono leggere, in controluce, i rapporti tra visibile e invisibile. Inevitabile dunque, in conseguenza delle premesse sin qui elaborate, che i percorsi di Camporesi intreccino e incrocino le idee attorno alla formazione del concetto di paesaggio. E come sempre accade, non mancano davvero suggestioni originali, fecondi ragionamenti, spunti affascinanti.
Camporesi artigiano Camporesi artigiano della letteratura, scopritore di opere perdute e valorizzatore di letterati misconosciuti. Camporesi alchimista sarà poi colui che fonde i vari elementi, nuovi e antichi, che emergono di continuo dai suoi variegati e molteplici studi. L’opera letteraria è per Camporesi l’angolo visuale per indagare l’uomo e la società. Da essa infatti si possono ricavare indizi che riguardano la vita materiale, l’inconscio collettivo, le idee dominanti dei vari autori, i sogni e le speranze diffuse. Come sempre le voci sono le più disparate: c’è Ariosto e Folengo, c’è Filarete e Vannoccio Biringuccio, Tasso e tanti altri, non solo letterati in senso stretto. Il racconto della visione del paesaggio richiede che un’epoca intera parli nelle sue mille sfaccettature. E non un’epoca qualsiasi. Parliamo dell’Italia tra Quattro e Cinquecento, Umanesimo e Rinascimento, due dei fenomeni culturali tra i più complessi e variegati di sempre. Ciascuna epoca elabora, oltre a linguaggi e interessi propri, anche modalità espressive autonome, inserite in precisi e codificati sistemi semantici. Ad uno storico acuto, come era Guicciardini, la descrizione di un territorio doveva servire a dar conto della condizione economica del paese attraversato, qualche nota sulla geografia fisica del territorio, qualche attenzione agli insediamenti militari. Nulla di più. Bei paesaggi, belle viste, scorci suggestivi, sono fuori dall’orizzonte culturale di questo protagonista della storia letteraria italiana. Eppure gli uomini del Cinquecento sono anche quelli che ridisegneranno il volto dell’Italia, nelle colline e nelle campagne, oltre che nelle città. La sistemazione razionale delle coltivazioni (vite, olivo, grano dove possibile) è frutto della disciplina umanistica. Nessuno o poco spazio all’incolto, al saltus dei romani, e le poche aree boschive sopravvissute vanno, in qualche modo, governate. Così come governate devono essere le acque, piovane e reflue, ma anche 5 E. Raimondi, Una cultura dello sguardo, in http://rivista.ibc.regione.emilia-romagna.it/xw200902/xw-200902-a0001, consultato in data 02/07/2018. 374
quelle superficiali che vanno razionalizzate, bacinizzate, canalizzate. La natura deve incontrare l’opera dell’uomo, diventando tanto più interessante e portatrice di frutto quando quest’ultima entra in profondità modificando l’ambiente selvatico. L’uomo è al centro, con le sue opere, che testimoniano concretamente il suo ingegno. Per questo motivo il paesaggio che Camporesi descrive è anche e soprattutto un paesaggio umano. La formazione del concetto di belle contrade, un concetto solo in parte estetico, non può prescindere dal clima culturale della società che lo elabora. E il clima culturale che respira una società non può prescindere dalle condizioni materiali in cui essa vive e opera. Per questo la descrizione della società quattro-cinquecentesca, con le successive evoluzioni, passa necessariamente da parole di uomini che raccontano altri uomini, anche di bassa condizione. Pertanto la letteratura che Camporesi predilige è la letteratura minore. Quella letteratura che consente una visione dal basso, estremamente concreta e vivace. Non che fra le citazioni, numerosissime e preziose, manchino i nomi dei capisaldi del nostro canone letterario (Macchiavelli e Guicciardini, Ariosto e Tasso, Dante e Petrarca), ma le pagine più sapide e stimolanti arrivano dal recupero di autori sconosciuti, di uomini le cui opere erano sepolte in remote stanze di antiche biblioteche, e che l’artigiano recupera e vivifica. Così ci troviamo immersi in una società vivace e variegata, di fabbri, osti, filatrici di seta, società che non viene descritta con intenti ironici o macchiettistici, ma dall’interno, restituendoci appieno il contesto materiale. Perché è proprio da qui che si parte, dalla materialità, da ciò che si vede, si tocca e si gusta, per comprendere i percorsi che portano all’elaborazione di ciò che non si vede, dei sogni e degli ideali di un’epoca. Camporesi artigiano dunque. L’infaticabile cercatore degli angoli più segreti dell’Archiginnasio e di tante altre biblioteche più o meno illustri, capace di scoprire inediti, da Di Breme al Libro dei Vagabondi, come di rivalutare e rivitalizzare opere dimenticate. Artigiano che guarda con curiosità e interesse a ciò che viene prodotto dalle genti meccaniche, dai genieri, coloro che le cose fanno e sperimentano nella vita prima che nella letteratura. Trattatisti che, come coloro che accompagnano l’inizio dell’esplorazione dell’Italia ne Le Belle Contrade, prendono sul serio il motto di Leonardo da Vinci di partire dalla scienza della natura e di cominciare l’iter conoscitivo dai particolari, anche quelli apparentemente secondari o marginali, ed esaminarli con estrema diligenza. Artigiano che diviene artiere e artista, dalla prosa fulminante e dalla citazione preziosa, capace di unire Vasari e Pulci, G. C. Croce, Alberti, Tasso padre e Fioravanti, la cultura alta e quella bassa. Il folklorico, la letteratura religiosa, il cronista locale e il poeta popolaresco, nulla è trascurato per ritrovare le tracce e i legami che uniscono le letterature con la letteratura, che ci restituiscono l’affresco di quel mondo mai prima di lui camminato6 in questo modo. Integrale e corretta -quale invano cerchiamo- nella grande letteratura, tradizionalmente intenta a lavorare su archetipi, su effetti stilizzati […]. Non sempre capace di leggere e interpretare realtà nuove, non contemplate negli statuti letterari.7 6 Cfr. P. Camporesi, Camminare il mondo. Vita e avventure di Leonardo Fioravanti medico del Cinquecento, Garzanti, Milano 2007. 7 L. Gambi, Provocazioni paesistiche in Piero Camporesi, in M. P. Guermandi e G. Tonet (a cura di), La cognizione del paesaggio. Scritti di Lucio Gambi sull’Emilia Romagna e dintorni, 375
Camporesi alchimista Comporre un quadro a tinte così vivaci di ogni epoca, sia Rinascimento che Controriforma, a quale disciplina afferisce? Quale studioso può accingersi al compito? Lo storico, il letterato, l’antropologo, il geografo, lo storico dell’arte, il filologo, il filosofo, il semiologo, l’epigrafista o tutti questi assieme? Magari mischiando, sperimentando, citando, scavando nelle pieghe dei testi, interpretando le tracce di ciò che era, e di ciò che rimane? Spesso, come le tessere di un puzzle, l’alchimista come per magia ricostruisce il quadro. E l’insieme emerge con la sua verità. Nell’introduzione al Libro dei Vagabondi scritta da Franco Cardini di Camporesi veniva citato il sovvertimento metodologico euristico e concettuale8, descrivendo la sua figura come quella di un soggetto che rivoluziona schemi storici e letterari, spregiudicato battistrada di nuovi sentieri interdisciplinari. E, per citare la definizione di Marco Belpoliti, l’alchimista Camporesi è stato soprattutto uno scrittore, un particolare tipo di scrittore, scrittorelettore. I suo libri trasudano la prosa dei volumoni antichi che ha lungamente compulsato. Egli è stato uno scrittore barocco nell’Italia postmoderna: autore decisamente controcorrente che ha interpretato perfettamente con la sua apparente eccentricità lo spirito di un’epoca di forte mutamento antropologico e sociale. La sua prosa è un esempio straordinario di lingua italiana. Scrittore e insieme narratore, proprio per l’attenzione spasmodica al dettaglio, al particolare, alle storie minime e minute, e dunque storico-scrittore, oltre che scrittore-lettore.9
Ma in che cosa consiste realmente l’alchimia? Quando parliamo di Camporesi non parliamo sicuramente di un mestierante, dove la tuttologia rischia in ogni istante di trasformarsi in tautologia. Nella sua opera è totalmente assente il pressapochismo, la faciloneria. La vera alchimia consiste nel selezionare con sapienza diversi punti di vista, mutuati da angoli disciplinari differenti. Il tutto senza alcun sincretismo, senza alterare in alcun modo gli statuti epistemologici delle varie discipline, concependo però un disegno che va oltre e travalica il singolo sapere, componendo infine un affresco più ampio. Questa è la lunga marcia verso il reale10 di cui lo stesso Camporesi ci parla. Ogni pagina da lui scritta è mille miglia lontana dal luogo comune, dal sentito dire, dalla tradizione sterile e trita, ripetuta innumerevoli volte, fino a quando questa ripetizione diventa il fondamento della verità dell’enunciato stesso. I meccanismi della trasmissione orale sono ben conosciuti da Camporesi e proprio questa internità nella modalità del raccontare lo porta a smontare, sine ira ac studio, tanto del già detto, del già sentito, del già scritto. Per arrivare a questo risultato però è necessario moltiplicare i punti di vista, rivolgersi ai contributi delle più diverse discipline. Il reale è complesso, non dimentichiamo. Nel denso saggio di Pietro Clemente Il paesaggio degli antropologi Bononia University Press, Bologna 2008, p. 329. 8 F. Cardini, Introduzione, in Il Libro dei vagabondi, , Garzanti, Milano 1973. 9 M. Belpoliti (a cura di), Piero Camporesi, in Riga, Marcos y Marcos, Bologna 2008. 10 P. Camporesi, Le belle contrade, cit., 2016. 376
non mancano spunti di riflessione che possano in qualche modo incrociare i percorsi di ricerca e la produzione di Camporesi. Gregory Bateson, che è un autore straordinariamente utile per lavorare in dialogo con altri studi […] scriveva: C’è voluto molto pensiero per fare la rosa. Mi sembra interessante trasferire questa espressione al paesaggio, alla sua maturazione e recente espressione, aperta e ambigua. C’è voluto molto tempo per fare il paesaggio. Il paesaggio è legato alla mente e ai processi che lui chiama creaturali, che sono quelli evolutivi.11 Una delle storie che vengono raccontate in Le belle contrade riguarda proprio quanto pensiero, quanta elaborazione sono state necessarie per giungere alla definizione del Bel Paese, del bel panorama, della bella veduta. Ciò che stimola l’elaborazione intellettuale è una sensazione, una percezione che passa, necessariamente, per uno degli organi di senso. Il senso più intellettuale, osserva acutamente lo storico Lucien Febvre, è la vista. La narrazione di Camporesi è, come spesso accade, narrazione diacronica e sincronica al medesimo tempo. Ovviamente nel corso del testo, in vari capitoli che lo compongono, si racconta dell’evoluzione del concetto di paesaggio, dell’idea di bella contrada, di come lo sguardo di pittori, architetti, intellettuali, ma anche di genieri e uomini meccanici si posi sulle opere della natura e dell’uomo. Ma questo racconto è anche sincronico, nella misura in cui nel Cinquecento, ad esempio, coesistono vari modi di posare lo sguardo sul mondo. Le visioni di Folengo e di Bartolomeo Fontana, entrambe riportate da Camporesi, sono diametralmente diverse tra loro. La città di Folengo è un organismo vivente, che respira e si nutre. In questo contesto, ad esempio la qualità dell’aria è di fondamentale importanza. L’Italia folenghiana è patria di tutte le arti, ma non un bel paese. C’è di tutto […] ma non c’è il bello; ci sono i meloni e le uve, i prosciutti e le quaglie […] ma non c’è il bello. C’è quello che si sente e si tocca, si gusta e si odora, ma non c’è ciò che si vede […]. Perché del bello si aveva una percezione più sfaccettata di quanto un’estetica riduttiva e post romantica non sia in grado di comprendere.12 E
Nel quadretto che Fontana traccia della città di Ferrara invece non c’è niente in questo breve schizzo che esuli dalla sfera del bello, qualsiasi altro riferimento è abolito. Ciò significa che coesistevano due modi per delineare il profilo della città, due sistemi interpretativi usati in chiave alternata. Anche per questo è forse azzardato continuare a credere che il Cinquecento non avesse la vista coordinata con gli altri sensi, che il bisogno di conoscere non passasse anche per l’occhio.13
11 P. Clemente, La bonifica idraulica, in G. Bonini, R. Pazzagli (a cura di), Quaderno 10, Paesaggio, culture e cibo, Istituto Alcide Cervi, Reggio Emilia 2015, p. 164. 12 P. Camporesi, Le belle contrade, cit., pp. 87-88. 13 P. Camporesi, Le belle contrade, cit., pp. 131-133. 377
Al lettore contemporaneo la descrizione di una città basata su un concetto come la qualità dell’aria, ad esempio, potrà sembrare singolare. Oltretutto oggi quest’idea di salubrità è strettamente connessa con quella di industrializzazione, lontanissima dall’epoca di cui stiamo ragionando. Eppure le strade che portano alla scoperta del paesaggio possono passare anche dalla rotta della salute, sulla pista dell’acqua e dell’aria non corrotte da miasmi e da cattivi venti.14 Un paesaggio bello in alcuni momenti fu anche un paesaggio sano. L’idea di salute ambientale dipendeva da precetti galenici, almeno fino al trionfo della scienza sperimentale. Aria dunque, si diceva. Ma anche acqua che faceva vivere e prosperare una città o un luogo quale si voglia. La cui qualità poteva essere misurata attraverso sensazioni visive e olfattive.
Materiale e immateriale L’attenzione di Camporesi per quella che viene detta letteratura minore è anche e soprattutto attenzione per gli strati bassi della popolazione, per gli ultimi, per i marginali. Questa moltitudine di persone spesso non lascia traccia di sé nella letteratura alta, impegnata a ragionare sui massimi sistemi. Ma indagare la mentalità di un’epoca è sempre il fondamentale corollario per comprendere il perché di alcune scelte estetiche come per esaminare la costruzione di determinati concetti. Chiavi di lettura variegate, diversi punti di vista, per indagare lo stesso paese, l’Italia, che può essere il luogo de Le belle contrade o Il paese della fame, per citare due testi dell’autore. E se dunque il punto di vista fosse quello della fame? Come passare a descrizioni di paesaggi oltremondani attraverso i paesaggi di un’Italia affamata? L’inferno degli affamati in terra, quello dei dannati nell’aldilà. Il materiale e l’immateriale. Due temi importanti su cui ci soffermiamo brevemente. La cucina e l’alimentazione dipendono dalle condizioni materiali di un singolo o di una parte della popolazione, le quali rispecchiano i rapporti di forza tra gruppi e classi sociali, divenendone la manifestazione tangibile. Ecco allora il paesaggio italiano della fame, delle plebi meridionali con i loro pani di grano e cereali inferiori, l’Italia dell’olio e dei frutti mediterranei. Le popolazioni dell’Italia centrale, della collina e della montagna, con le farine di castagne, i confini incerti geograficamente eppure netti dal punto di vista culinario delle paste secche e di quelle fresche, dei ripieni e delle farcìe, del grano duro e di quello tenero. Camporesi descrive le genti delle zone padane, l’Italia del burro e del lardo, del maiale come animale totemico, ma anche dei contadini pellagrosi, del monofagismo maidico, di un regime alimentare di polenta ad formenton e acqua ad fos.15 Nel tempo lento delle trasformazioni economiche dell’Italia pre-industriale è questo un mondo che resterà sostanzialmente invariato per secoli, come testimoniano oscuri trattatisti di epoca rinascimentale o barocca, fino ai documenti dell’inchiesta Jacini già ripresi da Emilio Sereni ne Il capitalismo nelle campagne del 1947.
14 P. Camporesi, Le belle contrade, cit. 15 P. Camporesi, La terra e la luna, Garzanti, Milano 1989, p.196. 378
A questo punto la storia della cucina e dell’alimentazione diventano sensibile strumento per l’esplorazione concreta non solo del reale, ma anche del profondo: uno dei molti occhi che la meditazione degli uomini ha inventato per spiare nel cuore della scienza del vissuto, dentro le funzioni non visibili della vera natura umana, e che la lettura dell’alfabeto simbolico degli alimenti ci insegna a meglio penetrare, perché: la cuisine d’une sociètè est un langage dans lequel elle traduit inconsciemment sa structure.16
Nemmeno i paesaggi infernali sono esenti dalle trasformazioni materiali. Materialità che spesso è rivelatrice di strutture più profonde, fortemente legate al cibo e alle simbologie da esso derivate, così come ai cicli stagionali. Inevitabile che anche i paesaggi infernali legati ai culti agrari siano connessi a queste simbologie. Camporesi ne ricostruisce le complesse reti, i cicli agrari, la dialettica morte-vita incardinata nell’eterno ritorno. Anche in questo caso non sono dati acquisiti per sempre, ma si tratta di indagare, nelle varie epoche storiche, quali profonde tracce rimangono nella storia culturale e nell’immaginario. Neanche Dante, cui non si può certo imputare scarso interesse per la teologia del suo tempo, rimane indifferente ai residui sedimenti di un passato pagano, come descritto nel canto XXII dell’Inferno, con il corteo dei diavoli, che altro non è se non una sfilata carnascialesca. La rappresentazione infernale e il paesaggio connesso, assieme alla simbologia e all’iconologia ad esso collegato, risentono inevitabilmente delle epoche in cui essa viene elaborata. Anche in questo caso le condizioni materiali delle popolazioni indicano il punto di partenza per qualunque indagine. Nel corso dei secoli l’inferno ha puntualmente registrato il mutamento della scena sociale modificando i propri scenari, ritoccando i propri statuti. Spazio componibile, ha allestito rappresentazioni cangianti, innalzando fondali a sorpresa, mutato scene, ha travestito i suoi terrori, riverniciato i suoi mostri, svuotato i magazzini, rifondato le sue paure, reinventato i suoi demoni, la sua fauna, la sua flora; ha rimisurato i suoi confini, ristudiato il sistema idraulico, riprogettato l’impianto urbanistico, i sistemi di aerazione e di drenaggio, riconvertito le sue officine, riformato i suoi lazzaretti, perfezionato i suoi tormenti, licenziato funzionari inutili o in sovrannumero, ripensato gli organici, abbattuto simulacri vani e liquidato obsolete mostruosità allegoriche, allargato e ristretto i suoi spazi accogliendo nuove, benemerite categorie del peccato.17
Storie di paesaggi: Camporesi, Sereni, Gambi Scrittore dunque, in primo luogo, ricercatore e distillatore di suggestioni delle più diverse provenienze, Camporesi possiede solidi punti di riferimento, almeno inizialmente, quando ragiona su concetti riguardanti il paesaggio. Lucio Gambi ci 16 P. Camporesi, La terra e la luna, cit., p. 272. 17 P. Camporesi, La casa dell’eternità, Garzanti, Milano 1978, pp. 17-18. 379
viene in aiuto, cercando di scavare all’interno dei molteplici riferimenti culturali de Le belle contrade. La storia del paesaggio, scrive citando lo stesso Camporesi, si incrocia con quella del lavoro, cioè quella dell’addomesticamento del territorio selvaggio, strappato al dominio della gran maestra natura dalle tecniche lavorative dell’uomo.18 Subito da questa premessa vengono ribadite alcune questioni fondamentali, meglio precisate più sotto. E per tale motivo, l’idea di paesaggio esce da una convergenza sinergica fra operosità creativa e visualizzazione della realtà. Quindi, specialmente chi ha gli strumenti per esercitare e svolgere questa operosità –l’architetto, l’idraulico, l’artigiano, il contadino– o chi ha l’occhio sperimentato a leggere nella sua genesi o nelle sue strutture questa realtà –lo storico, il geografo, il dipintore, il viaggiatore– può ricostruire una immagine integrale e può trasmettere una immagine corretta del paesaggio.19
Se ne deduce che il paesaggio quale interazione fra uomo e ambiente rappresenti un concetto in divenire sia per quanto riguarda la sua natura intrinseca sia per quanto riguarda un eventuale osservatore; pertanto lo studioso, di qualsivoglia disciplina, dovrà tener conto di questo dato. Anche Emilio Sereni, nella prefazione alla Storia del paesaggio agrario italiano, esprime, all’interno di un ragionamento più esteso, diversi punti di contatto con alcune considerazioni riportate più sopra. Quel dato paesaggistico stesso diverrà insomma per noi una fonte storiografica solo se riusciremo a farne non un semplice dato o fatto storico, ancora una volta, bensì un fare, un farsi di quelle genti vive: con le loro attività produttive, con le loro forme di vita associata, con le loro lotte, con la lingua che di quelle attività produttive, di quella vita associata, di quelle lotte era il tramite, anch’esso vivo, produttivo e perennemente innovatore.20
Con la differenza che Camporesi è diversamente interessato alla prospettiva storica, nella misura in cui il suo precipuo intento consiste nella ricostruzione del contesto materiale prima, culturale poi in cui i racconti sono maturati. I racconti e le condizioni materiali e culturali vengono utilizzati per definire la maturazione dei concetti riguardo ai vari paesaggi possibili nelle epoche storiche di riferimento. A Camporesi interessa ricostruire il presente dell’epoca storica trattata, assieme ai percorsi che hanno portato alla definizione di determinati concetti estetici. Presente, badiamo bene, mai visto come immobile, come dato per sempre acquisito. I primi capitoli de Le belle contrade, a questo proposito, sono illuminanti laddove Camporesi cita punti di vista contemporanei divergenti tra loro, fotografando un hic et nunc, ma disegnando acutamente anche un prima e un dopo. Sereni invece, nel solco delle suggestioni di Bloch, tende ad analizzare le strutture che portano alla formazione del paesaggio nella sua materialità e nella sua rappresentazione, 18 L. Gambi, Provocazioni paesistiche in Piero Camporesi, cit. p. 329. 19 Ibidem. 20 E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Laterza, Bari 1961, p. 19. 380
valutando la loro persistenza alla luce del concetto storico di lunga durata. Per raggiungere questo obiettivo utilizza un approccio multidisciplinare, che coinvolge storia, geografia, agronomia, contribuendo ad ampliare l’orizzonte interpretativo della storia agraria italiana. Un altro ambito di interesse comune tra Camporesi e Sereni è dato dalla disciplina pittorica quale fonte di ispirazione per riflettere sul tema del paesaggio. Mentre Sereni sembra dare per scontata la presenza di solidi canoni paesaggistici, e le sue riflessioni prendono costantemente spunto dai paesaggi della pittura, Camporesi invece ricostruisce come l’idea del bello entra nella rappresentazione dell’Italia attraverso i secoli decisivi di Umanesimo e Rinascimento, individuando i percorsi che portano dalla rappresentazione materiale all’elaborazione intellettuale. Le prime pagine de Le belle contrade delineano questo passaggio dal paese al paesaggio. Il territorio qui sembra il protagonista delle prime descrizioni riportate; l’intuizione di Leonardo da Vinci, per cui la scienza della pittura deve partire dalla scienza della natura, è in questo senso illuminante. La lunga marcia verso la conquista del reale e l’autonomia del paesaggio come forma pittorica fin qui indipendente dovrà snodarsi ancora per non pochi decenni.21
Così Camporesi definisce la conquista di una visione integrale del paesaggio, supportata dalle considerazioni di Eugenio Turi, autore nel 1974 del testo Antropologia del paesaggio. L’acquisizione culturale del paesaggio, nota lo stesso Turi, nasce lentamente e faticosamente dalla realtà naturale e geografica. Ragionando sul già citato passo di Guicciardini, Turi nota come nessuna dimensione di carattere spaziale e nessun eco affettivo traspaiano dal racconto. Ed è proprio confrontandosi col diario di viaggio di Guicciardini, nello specifico con la descrizione della Spagna presso Girona, che Turi osserva l’ambiente sottintende l’esserci, il viverci mentre il paesaggio è la manifestazione sensibile dell’ambiente, la realtà spaziale vista e sentita […], organismo vivo intessuto di relazioni interdipendenti tra le forme che lo compongono.22 Per l’uomo del Cinquecento dunque il paesaggio è un dato non ancora acquisito, ma un concetto in fase di maturazione. Scavando ancora più a fondo tra le numerose suggestioni culturali cui Camporesi dona nuovo sviluppo e spessore, Gambi individua anche la voce di Umberto Toschi, geografo conosciuto dall’autore ai tempi della frequenza dell’Ateneo bolognese. Toschi si era rivolto in più di un’occasione –sia pure con una certa sbrigatività– ai problemi fondanti del concetto di paesaggio da una posizione decisamente sensistica. Il suo più significativo lavoro in questa direzione è Tipi di paesaggio e paesaggi tipici: la Puglia e l’Emilia, edito nel 1952.23
È bene citare un brano di quel lavoro per vedere se le domande poste da Toschi 21 P. Camporesi, Le belle contrade, cit., p. 37. 22 L. Gambi, Provocazioni paesistiche in Piero Camporesi, cit., p. 331. 23 Ibidem, p. 332. 381
non siano confluite nella riflessione di Camporesi. Non intendo le ragioni di limitare le sensazioni del paesaggio a quelle che ne può dare la vista, ed escluderne altre: ché pure particolari, caratteristiche, distintive, possono darcene l’udito, l’olfatto, il tatto e perfino, se pure eccezionalmente, il gusto […]. Perché dovremmo escludere dai componenti concreti, sensibili e caratteristici di taluni paesaggi il profumo resinoso e lo stormire dei rami delle abetaie? O il fracasso delle macchine e l’odor di carbone e lubrificanti di certi centri industriali? O il vocìo delle persone, il muggito del bestiame e il fetore di fimo di certi agglomerati urbani rurali?24
Camporesi sviluppa e dilata enormemente ciò che Toschi aveva intuito. I paesaggi che vengono delineati nei suoi testi risentono di questa personalissima impostazione sensistica, ma sviluppa una riflessione ulteriore, legata ad una visione sinestetica quale interazione tra i sensi. Per Camporesi la via alla definizione integrale di paesaggio, la strada verso la conquista del reale, passa dagli organi di senso in dialogo tra loro. L’ideazione di nuove delizie e nuove bellezze […] doveva sorprendere e incantare i due sensi più raffinati, la vista e l’udito, con meraviglie foniche e seduzioni visive. I fruscii, i timbri, le note liquide cospiravano insieme alle sorprese dell’occhio per fare del giardino una camera delle meraviglie all’aperto. Il paesaggio viene avvertito dall’occhio in sinestesia col senso dell’udito: l’occhio agisce con l’orecchio alla reintegrazione globale delle percezioni, così come -in situazioni e ambienti diversi- sono il gusto e l’olfatto a completare e ridisegnare le mappe tracciate dall’occhio.25
Conclusioni I percorsi che si potrebbero agire all’interno dell’oceano di carta prodotto da Camporesi sono veramente molti. Tanti per cui anche il lettore più accorto potrebbe rischiare di perdersi. Il piacere della lettura però consiste anche in questo, nel ritrovarsi dopo essersi smarriti. Le storie che Camporesi racconta non sono semplici fossili che lo studioso, il filologo ha riesumato scavando le sabbie del tempo. Sono piuttosto una sorgente di pensiero che sgorga e che fluisce, trasformando se stessa e ciò che incontra, come un rivo o una sorgiva d’acqua che rende feconda la terra che bagna. Per questo, pur nell’assoluta sobrietà dei suoi scritti e nell’assoluta mancanza di retorica, troviamo una partecipazione e un coinvolgimento unico nelle vicende narrate, che affascina e trascina, liberando dalla sterile celebrazione del buon tempo andato. Ancora oggi, quando approcciamo Camporesi, affrontiamo una lettura coinvolgente, ma non facile e piana, che chiama le nostre energie intellettuali e il nostro cuore ad una continua opera di mediazione e di elaborazione.
24 Ibidem. 25 P. Camporesi, Le belle contrade, cit., p. 122. 382
è tranquillizzante pensare che, in fondo, l’uomo rimane fedele al suo passato, ancora legato alle innumerevoli generazioni che hanno lottato e faticato per portare alla bocca, ogni giorno, con stento e fatica, ma anche con gioia e speranza, qualcosa di conteso alla natura e agli altri, per continuare ad abbracciare la vita; a quelle schiere infinite, inesorabilmente spazzate dal tempo che per una zuppa o un pezzo di pane hanno affrontato stenti, privazioni, pericoli, e che sentiamo dietro di noi, alle nostre spalle, con tutta la loro incalzante presenza umana, come i vettori del nostro presente. Idealmente, ogni giorno, ci sediamo con loro a tavola, e compiamo, all’incirca, gesti e atti rimasti identici nei secoli, e proviamo, attraverso i sapori e le percezioni delle cose, ciò che anche essi sentivano e ci hanno insegnato a provare.26
Rileggere e riappropriarsi dei contenuti proposti da Camporesi vuol dire gettare uno sguardo sul futuro, consapevoli, senza fraintendimenti, di ciò che è stato. Certo, il futuro. Perché l’immaginario, come ci ha insegnato, è in fieri. Viene voglia davvero di chiedersi in che clima Camporesi abbia concepito i suoi scritti, quale aria respirava quando lavorava all’Università. Con un orecchio al suono delle voci dei vicoli e delle strade di Bologna si potevano udire strane canzoni. E sentire anche qualcuno che, dando voce agli ultimi, parlava di sogni e di riprendersi un futuro. Anche noi dunque, una volta terminata la lettura, pensando ai tanti che hanno duramente campato la loro vita, diremo con Claudio Lolli riprendiamoci la vita, la terra, la luna e l’abbondanza.27
26 P. Camporesi, La terra e la luna, cit., p. 272. 27 C. Lolli, Ho visto anche degli zingari felici, dall’omonimo album, EMI, 1976. 383
Bibliografia M. Belpoliti, Piero Camporesi, Marcos y Marcos, Milano 2008. P. Camporesi, La casa dell’eternità, Garzanti, Milano 1988. P. Camporesi, La Terra e la Luna, Garzanti, Milano 1995. P. Camporesi, La carne impassibile, Garzanti, Milano 1994. P. Camporesi, Le belle contrade, Il saggiatore, Milano 2016. P. Camporesi, Le officine dei sensi, Garzanti, Milano 1991. P. Camporesi, Il governo del corpo, Garzanti, Milano 1995. P. Camporesi, Il paese della fame, Garzanti, Milano 1978. P. Camporesi, Il pane selvaggio, Garzanti, Milano 1980. G. Capitelli, La lezione di Piero Camporesi, Università degli Studi della Calabria, 1998. E. Casali, Academico di nulla Academia. Saggi su Piero Camporesi, Bononia University Press, Bologna 2006. E. Casali, Piero Camporesi e la renovatio artusiana, IRIS Università degli Studi di Bologna, Bologna 2009. L. Gambi, a cura di Maria Pia Guermandi e Giuseppina Tonet, La cognizione del paesaggio. Scritti di Lucio Gambi sull’Emilia Romagna e dintorni, Bononia University Press, Bologna 2008. A. Natale, Percorsi infernali in Piero Camporesi, in http://www.griseldaonline.it/ percorsi/archivio/Natale_Inferni_Camporesi.htm, 2012. L. Rodler, Piero Camporesi, antropologo della letteratura italiana, http://www. griseldaonline.it/camporesi/popolo/piero-camporesi-antropologo.html, 2013. E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Laterza, Bari 2010. E. Sereni, Il capitalismo nelle campagne, Einaudi, Torino 1971.
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Autori
Andreozzi Gaetano Dottore in Architettura, Università della Campania Luigi Vanvitelli. Berrino Annunziata Docente di Storia Contemporanea dell’Università di Napoli Federico II, Dipartimento di studi umanistici, è componente del Consiglio di gestione del Centro interdipartimentale di ricerca sull’iconografia della città europea dello stesso Ateneo e del Comitato editoriale di FedOAPress (Federico II University Press) dal 2012. Nel 2002 fonda, e ancora dirige, la collana «Storia del turismo. Annale», edita dal Franco Angeli; nel 2015 fonda, e ne è condirettrice con Alfredo Buccaro, la rivista «Eikonocity». È componente dal 2009 dell’Advisory Board di «Journal of Tourism History», Routledge - Taylor & Francis Group, U.K. Nila Shabnam Bonetti Artista, scrittrice, curatrice e critico d’arte con laurea in Conservazione dei Beni Culturali. È membro fondatore e Presidente dell’Associazione Culturale Laboratorio Alchemico, per cui realizza eventi culturali, mostre, performance, laboratori didattici. Collabora con l’Associazione Arsprima, Amy_d Arte Spazio, Lobodilattice, Artribune, Equipèco, Exibart e Kritika. Bonini Gabriella Responsabile scientifico della Biblioteca Archivio Emilio Sereni dell’Istituto Alcide Cervi, convegnistica, pubblicazioni, Summer School Emilio Sereni Storia del Paesaggio agrario italiano, Scuola di governo del territorio SdGT E. Sereni. Docente di Italiano e Storia nella Scuola superiore, Dottore di Ricerca in Scienze Tecnologiche e Biotecnologiche Agroalimentari, Università di Modena e Reggio Emilia. Tra le pubblicazioni e curatele: Paesaggi in trasformazione. Teorie e pratiche della ricerca a cinquant’anni dalla Storia del paesaggio agrario italiano di Emilio Sereni (Compositori 2014); Geografie, Storie, Paesaggi per un’Italia da cambiare (Aracne, 2013); Riforma fondiaria e paesaggio. A sessant’anni dalle Leggi di Riforma: dibattito politico sociale e linee di sviluppo (Rubbettino 2012). Inoltre, la Collana Quaderni dell’Istituto Cervi che raccoglie di anno in anno i materiali delle Summer School Emilio Sereni: dal Quaderno 5 al Quaderno 14 (edizione 2018, in corso 385
di pubblicazione) e la Collana Taccuini didattici con i materiali di relatori e docenti che animano il Corso di formazione Paesaggio e paesaggi a scuola (in corso di pubblicazione il N. 3). Del 2006 è il volume Narrazioni intorno a Filippo Re (Diabasis) e del 2018 Italia contadina. Dall’esodo rurale al ritorno alla campagna (Aracne).
Calidoni Mario Già insegnante, dirigente e ispettore del MiUR per la scuola secondaria di I grado, è membro esperto della Commissione Educazione e mediazione di ICOM Italia. Coordina progetti per l’educazione al patrimonio e cura pubblicazioni didattiche e divulgative sul patrimonio del territorio. è da anni consulente didattico dell’Istituto Cervi, per il quale, nelgi ultimi anni ha curato in particolare la collana «Taccuino didattico». Cambi Carlo Fonda nel 1997 «I viaggi di Repubblica» primo e unico settimanale di turismo in Italia che dirige fino al 2005 e giornalista per «Espresso», «Venerdì di Repubblica», «Affari e Finanza», «Epoca», «Panorama», «Resto del Carlino», «Nazione» e «Giorno». Ha fondato il mensile «Wine Passion» e ha collaborato con «Vie del Gusto» di cui è stato direttore editoriale. È autore televisivo e radiofonico e relatore in numerosissimi convegni nazionali ed internazionali, insignito di numerosi riconoscimenti e premi accademici e giornalistici: tra questi Oscar del Vino, il Verdicchio d’oro, Olivo d’oro, l’Anfora d’oro. Sommelier ad honerem dell’Ais, è tra i fondatori del Movimento Turismo del Vino; è stato presidente del comitato scientifico dell’Enoteca Italiana, membro del comitato scientifico della Fondazione Qualivita per i marchi europei. È attualmente membro del Comitato Scientifico della Fondazione Symbola, presidente della Strada del Vino Terre di Arezzo e delle Strade dei Sapori del Casentino e della Val Tiberina, consulente strategico per l’Apt di Siena, per la provincia di Siena, di Grosseto e di Arezzo, per Agriconsulting, per la Camera di Commercio di Macerata, per la CCIAA di Siena, per la Regione Toscana, la Regione Umbria e la Regione Marche, per l’Unioncamere. E’ stato uno dei conduttori della trasmissione di Rai Uno La Prova del Cuocoe ospite fisso alla trasmissione sempre di Rai Uno Uno mattina verde; attualmente autore di Linea Verde di cui cura anche la conduzione. Ha all’attivo oltre trenta titoli di economia del turismo, enogastronomia, marketing territoriale. Clemente Pietro Professore ordinario di Discipline Demoetnoantropologiche (ora in pensione), ha insegnato Antropologia culturale all’Università di Firenze; è membro del Dottorato in Scienze Etno-antropologiche della Sapienza - Università di Roma e del dottorato in Antropologia Storia Testo Cultura dell’Università di Siena e del SUM; insegna Antropologia del patrimonio nella Scuola di Specializzazione in Beni Culturali Demoetnoantropologici (Università di Perugia, Firenze, Siena) e nella Scuola di Specializzazione in Beni Culturali Demoetnoantropologi della Sapienza – Università di Roma. Le sue ricerche hanno riguardato soprattutto la cultura contadina, l’emigrazione, le forme del teatro e dell’arte popolare, vari temi della tradizione orale, la museografia demoetnoantropologica. Costanzo Luigi Laureato in architettura, è stato borsista del CNR, specializzandosi nell’analisi territoriale dei dati. Lavora in Istat dal 1999 come ricercatore e tecnologo e dal 2014 è nel settore delle 386
statistiche ambientali. È stato membro della Commissione scientifica per la misurazione del benessere e dal 2013 è co-responsabile del capitolo “Paesaggio e patrimonio culturale” del Rapporto BES.
De Filippo Maria Cristina Laureanda all’Università della Campania Luigi Vanvitelli. De Nisco Antonella Artista e docente di Disegno e Storia dell’Arte nella Scuola Superiore, affianca alle attività espositive collaborazioni in progetti, installazioni, eventi, lezioni e pubblicazioni. Ha ideato LAAI, Laboratorio di Arte Ambientale Itinerante, con il quale realizza installazioni territoriali intrecciate, tessute, assemblate. Raccoglie le esperienze artistiche nella serie tascabile Collane di Plastica. È l’artista che ogni anno interpreta artisticamente il tema delle edizioni della Summer School Emilio Sereni. Di Cola Valeria Archeologa, PhD in Storia e Conservazione dell’Oggetto d’Arte e di Architettura; assegnista di Ricerca presso l’Università di Roma Tre e Presidente dell’Associazione Culturale Gli Archeonauti. Endrighi Emiro Laureato in Scienze Agrarie e Scienze politiche e sociali all’Università di Bologna, è professore di Economia e Sviluppo rurale all’Università di Modena e Reggio Emilia dove è presidente del CdS in “Scienze e Tecnologie agrarie e degli alimenti’ e vice-direttore del Polo Museale. è stato Membro del “Comitato scientifico per le Denominazioni d’Origine” dell’UE, Presidente del “Consorzio per la valorizzazione dei prodotti dell’Appennino”, Presidente del GAL Antico Frignano e Appennino Reggiano; è membro del Comitato Scientifico dell’Istituto Cervi e di quello della Summer School Emilio Sereni sul paesaggio agrario. è membro del Comitato scientifico della Summer School sul Paesaggio Agrario ‘Emilio Sereni’. Ferrara Alessandra Geografa, ricercatore senior Istat, esperta di analisi spaziali e costruzione di sistemi di indicatori statistici. Coordina il progetto Analisi integrata delle infrastrutture e dei servizi in ambito urbano ed è referente per il progetto del Piano Statistico Nazionale Valenze e criticità dell’ambiente urbano e rurale – indicatori su paesaggio e consumo di suolo. Collabora a progetti finalizzati all’incremento dell’informazione statistica per livelli territoriali a piccola scala: mappatura nazionale di copertura del suolo; definizione delle aree urbane; indicatori per l’analisi dei paesaggi urbani e rurali e delle relazioni tra paesaggio e benessere. Frignani Fabrizio Laureato in lettere presso l’Università di Parma, ha conseguito il Master di II° livello in Public History presso l’Università di Modena e Reggio Emilia. Docente di Geogradia di Scuola Superiore. Ha pubblicato Paesaggi visti dal treno. Un viaggio sulla Reggio-Ciano (2015) e Il monte Pezzola (2016). Ha curato diverse mostre. Svolge attività didattico - laboratoriali 387
di docenza e formazione per l’Istituto Cervi e il Parco nazionale dell’Appennino toscoemiliano. Conduce ricerche nell’ambito della geografia umana e sul paesaggio prediligendo la fotografia storica per un’indagine comparativa iconografica dei cambiamenti avvenuti in questi campi.
Manacorda Daniele Archeologo e professore presso l’Università degli studi di Roma Tre. Ha diretto vari scavi archeologici stratigrafici specialmente a Roma, in Puglia e in Toscana ed ha organizzato l’allestimento di alcuni nuovi musei e parchi archeologici (Roma-Crypta Balbi, Piombino-Populonia, Narni). Ha pubblicato circa 250 contributi scientifici, occupandosi di metodologie della ricerca archeologica, storia dell’archeologia, archeologia urbana, produzione e circolazione di merci, relazione tra diversi sistemi di fonti archeologiche e storiche, archeologia e epigrafia, nonché di temi riguardanti la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale. Meini Monica Professore Ordinario di Geografia all’Università degli Studi del Molise, è Direttore del Centro Studi sul Turismo e membro del Consiglio scientifico del Centro di Ricerca per le Aree Interne e gli Appennini. Coordina, presso il Dipartimento di Bioscienze e Territorio, il MoRGaNA Lab dedicato allo studio della mobilità umana e dei comportamenti spaziali delle popolazioni temporanee. Messina Simona Architetto e PhD in Ambiente e Paesaggio (Landscape and Environment) alla Sapienza Università di Roma con tesi dal titolo Il Paesaggio del Morso. Integrazione dei pascoli residuali nel contesto periurbano contemporaneo. Attualmente nello staff del Parco dell’Appia Antica sui temi della progettazione ambientale, accessibilità e percorsi. Partecipa a Workshop internazionali sul Paesaggio in Italia e all’estero, conferenze, seminari e tavole rotonde con riconoscimenti e premi in concorsi di architettura. Svolge studi e ricerche sul paesaggio in collaborazione con il Dipartimento di Botanica presso l’Orto Botanico di Roma ed è autrice di articoli (Agriregioni, ISPRA) e saggi sull’analisi del paesaggio degli spazi aperti di derivazione pastorale e sui temi della multifunzionalità rurale legata alla pastorizia. Pazzagli Rossano Direttore della Summer School Emilio Sereni e membro del Comitato Scientifico dell’Istituto Cervi. E’ docente di Storia moderna e di Storia del territorio e dell’ambiente all’Università del Molise dove è anche Presidente dei corsi di laurea in Scienze turistiche e beni culturali e direttore del Centro di Ricerca per le Aree Interne e gli Appennini. È membro della Società dei Territorialisti, fa parte della direzione di varie riviste, tra cui «Ricerche storiche» e «Glocale». Si occupa di storia economica e sociale, con particolare attenzione per il territorio rurale, l’ambiente, il turismo, l’identità e le istituzioni locali. È autore e curatore di molti saggi e libri tra cui Il sapere dell’agricoltura (FrancoAngeli 2008), Il mondo a metà (ETS 2013), Il Buonpaese (Felici, 2014), Aree interne. Per una rinascita dei territori rurali e montani (Rubbettino 2017), Italia contadina. dall’esodo rurale al ritorno alla campagna (Aracne 2018). 388
Pierantoni Ilenia Architetto, Assegnista di Ricerca presso la Scuola di Architettura e Design dell’Università degli Studi di Camerino nell’ambito del Progetto Smart Urban Green: Governing conflicting perspectives on transformations in the urban rural continuum, Programma Europeo JPI Urban Europe. Dottore di Ricerca in Pianificazione Territoriale ed Urbana presso l’Università di Roma La Sapienza, ha conseguito nel 2011 il titolo di Master di II livello in Pianificazione e Gestione delle Aree Protette presso l’Università degli studi di Camerino e si è laureata con lode nel 2010 presso la stessa Università. Da diversi anni svolge attività di tutorato di supporto alla didattica e di ricerca nell’ambito della pianificazione del territorio e del paesaggio, con particolare attenzione agli ambiti montani e delle aree interne. Pozzati Alice Dottoranda in Beni Architettonici e Paesaggistici del Politecnico di Torino, svolge la sua ricerca nell’ambito della storia dell’architettura e della città in epoca contemporanea. Dopo essersi laureata in Architettura per il Restauro e la Valorizzazione del patrimonio nel 2014 (Politecnico di Torino), ha lavorato presso l’Archivio Storico della Città e il Polo museale della Liguria (vincitrice del bando “130 giovani per la cultura”, MiBACT, settembre 2015). Rinaldi Stefano Diplomato alla scuola Alberghiera, attualmente frequenta il corso di laurea di Scienze Turistiche dell’Università degli studi del Molise presso la sede di Termoli, dove è anche rappresentante degli studenti della triennale e della magistrale del mio corso di laurea. Roseghini Gian Carlo Docente di Lettere presso l’Istituto di Istruzione Superiore G. Romani di Casalmaggiore, si laurea nel 2000 in Storia contemporanea all’Università degli studi di Bologna, con la tesi dal titolo L’industria saccarifera italiana. Il caso dello zuccherificio di Casalmaggiore. Dal 2006 membro dell’AISO (associazione italiana di storia orale) e dal 2015 presidente dell’ANPI sezione di Casalmaggiore, si occupa di storia sociale e di storia locale in diversi consessi. Russo Saverio Insegna storia moderna presso l’Università di Foggia. Si occupa di storia economica e sociale del Mezzogiorno in età moderna ed ha dedicato numerose ricerche al paesaggio rurale pugliese e alla transumanza, collaborando alla redazione del Piano paesaggistico della Puglia. Safonte Fabiola PhD in Economia dell’agricoltura, consulente senior ricercatore presso diverse istituzioni italiane e presidente dell’Istituto per la ricerca e la promozione delle aree interne della Sicilia (IRPAIS). La sua ricerca si concentra sullo sviluppo del turismo sostenibile e nuove forme di agricoltura, sul miglioramento della qualità dei prodotti agroalimentari e sul patrimonio territoriale per lo sviluppo locale e rurale. Ha anche un forte interesse per le questioni relative all’attuazione di nuove strategie per la ricerca qualitativa e quantitativa per le politiche pubbliche e la valutazione delle politiche di sviluppo rurale. È pianificatrice e insegnante di master e corsi post-laurea e autrice di numerose pubblicazioni su riviste e conferenze internazionali. 389
Santoriello Alfonso Professore di Metodologie della Ricerca Archeologica presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Salerno e di Archeologia dei Paesaggi al corso magistrale in Archeologia e Culture Antiche; responsabile scientifico, per conto del Dipartimento di Scienze del Patrimonio Culturale, delle attività di Archeologia Preventiva. Il suo interesse è particolarmente rivolto allo studio del paesaggio antico e alla messa a punto di metodologie e tecniche specifiche per la ricerca sul campo sperimentata in Italia. È responsabile scientifico di programmi di ricerca e studio di telerilevamento, di indagini sistematiche di ricognizione e scavo, di attività di gestione e trattamento dei dati attraverso Sistemi Informativi Territoriali e Archeologici e per le attività di Design and Implementation of Field Investigations. È autore di monografie sul territorio dell’antica Volcei e sul centro etruscosannita di Fratte di Salerno e di articoli e saggi inerenti lo studio dei paesaggi antichi in Italia e in Grecia e di sistemi informativi per la gestione e il trattamento del record archeologico. Sargolini Massimo Architetto, Professore Ordinario di Urbanistica dell’Università degli Studi di Camerino. È coordinatore di ricerche internazionali sulle aree interne, sui rapporti tra pianificazione delle aree protette e pianificazione ordinaria, sulla qualità del paesaggio e qualità della vita. In particolare, è coordinatore del progetto di ricerca delle università marchigiane (Camerino, Macerata, Urbino e Ancona) su Nuovi sentieri di sviluppo per le aree danneggiate dal sisma del 2106. È responsabile scientifico della Strategia per le Aree Interne del Nuovo Maceratese. Svolge compiti di responsabilità scientifica in organismi nazionali e internazionali: World Commission on protected areas (WCPA) of IUCN, Commissione Aree interne e Ricostruzione dell’INU, Comitato tecnico-scientifico della Struttura del Commissario straordinario del Governo per la ricostruzione post sisma 2016. E’ direttore del Master di II livello dell’Università di Camerino in Paesaggi delle aree interne e autore di oltre 250 pubblicazioni sui temi della pianificazione paesistico-ambientale e delle aree protette. Sassi Luciano Diplomato all’Istituto Superiore di Roma in Conservazione di Beni archivistici e librari dal 1980 si occupa di ricerca storica e conservazione documentale. Dal 1990 ha orientato la ricerca storica sul rapporto fra alimentazione, gastronomia ed agricoltura con particolare attenzione agli aspetti sociologici e demo-antropologici. Dal 1994 si occupa di Disaster management nell’ambito dei beni culturali. Libero professionista, dal 2010 è presidente di Ecomuseoisola, Associazione che si occupa della valorizzazione storica del paesaggio agrario della bassa cremonese-mantovana con sede a Isola Dovarese (Cremona). È stretto collaboratore della Biblioteca Archivio Emilio Sereni. Sereni Anna Archeologa medievista, docente nel Corso di Laurea in Archeologia del Mediterraneo all’Università Kore di Enna. Ha partecipato e partecipa a numerosissime campagne di scavo archeologico e cantieri di restauro in tutta Italia. È membro del Comitato Scientifico dell’Istituto Alcide Cervi per il quale contribuisce alla promozione di varie iniziative, in particolare a tutte quelle legate alla figura del padre Emilio Sereni e dei suoi studi. Ha curato numerose pubblicazioni con contributi in volumi miscellanei, interventi a convegni 390
scientifici e conferenze. Sua è la monografia Case urbane nell’Italia altomedievale. Fonti archeologiche e testuali (EUE Roma 2002).
Sterlacci Laura Laureanda in Scienze Turistiche presso l’Università del Molise. Attualmente è attiva nell’ambito del sociale e sta svolgendo un tirocinio presso l’Azienda Autonomia di Soggiorno e Turismo di Termoli (Campobasso), che si occupa di promozione turistica e sviluppo di dinamiche territoriali locali. Stroffolino Daniela Architetto, ricercatore del Consiglio Nazionale delle Ricerche, si è occupata prevalentemente d’iconografia urbana e del paesaggio fra il XV e il XX secolo. È membro del comitato scientifico del Centro Interdipartimentale di ricerca sull’Iconografia della Città europea, Università degli Studi di Napoli Federico II, con il quale collabora assiduamente dalla sua fondazione. Attualmente svolge la sua attività di ricerca presso l’Istituto di Scienze dell’Alimentazione del Consiglio Nazionale di Ricerca, dove si occupa di storia del paesaggio agricolo. Tagliolini Barbara Storica dell’arte e antropologa, è specializzata nel campo del turismo, della comunicazione e della valorizzazione culturale in relazione al territorio e al suo patrimonio. La sua attuale prospettiva di ricerca verte in particolare sul rapporto tra turismo e popolazione locale per un’analisi e pianificazioni delle attività connesse alla gestione territoriale sostenibile. Ultimo progetto (2015 e ancora in essere), per ENEL Green Power Chile Ldta, di sviluppo turistico per le comunità cilene dell’Alto Loa. È coautrice di La guida al turismo culturale. Dalla formazione all’attività professionale (Carocci 2003). Teggi Matilde Laureanda all’Accademia di Belle Arti di Brera, Milano al Corso di 1° livello in Discipline della Valorizzazione dei Beni Culturali. Tosco Carlo Docente ordinario di Storia dell’architettura e direttore della Scuola di Specializzazione in Beni Architettonici e del Paesaggio al Politecnico di Torino. È autore di diversi volumi sull’arte medievale e sulla storia del paesaggio, tra cui: Il castello, la casa, la chiesa. Architettura e società nel Medioevo (2003); Il paesaggio come storia (2006); Il paesaggio storico. Le fonti e i metodi di ricerca (2009); Petrarca: paesaggi, città, architetture, Quodlibet 2011; I beni culturali: storia, tutela e valorizzazione (2014); L’architettura medievale in Italia (600-1200) (2016); Le abbazie cistercensi (2017). Visentin Chiara Architetto PhD, fellow researcher allo IUAV di Venezia nell’unità di ricerca Architettura e Paesaggi della Produzione. Ha studiato alla Columbia University di New York e alla HeriotWatt University di Edimburgo. Ha insegnato nelle facoltà di architettura delle Università di Parma, Genova, Padova, Pisa Campus di Lucca. L’impegno professionale iniziato nel 1998 si è fuso in seguito in Archiduestudio con Francesco Bortolini. Il suo lavoro di ricerca 391
e professionale si indirizza nella verifica della memoria nel paesaggio e nei contesti urbani e museali. Ha pubblicato numerosi studi e monografie sui temi del paesaggio, fra cui: Il fiume e la comunità (2010) e Il paesaggio della bonifica (2011), le curatele di Geografie, storie, paesaggi per un’Italia da cambiare (Aracne 2013) e Paesaggi in trasformazione Teorie e pratiche della ricerca a cinquant’anni dalla Storia del paesaggio agrario italiano di Emilio Sereni (Compositori 2014) .
Volpe Giuliano Archeologo, professore ordinario di Archeologia cristiana e medievale al Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Foggia di cui è stato Rettore dal 2008 al 2013. Dal 2017 è anche docente di archeologia tardoantica presso la Scuola archeologica italiana di Atene. Dirige riviste e collane di storia e archeologia; ha condotto numerose ricerche archeologiche e scavi terrestri e subacquei in Italia e all’estero pubblicando ben oltre 500 contributi scientifici. Gli interessi di ricerca si sono concentrati in particolare sulla Daunia, dove si occupa da trent’anni di cultura materiale, di paesaggi agrari, di ville romane e altri insediamenti rurali, di chiese e cristianizzazione delle città e delle campagne, con scavi a Canosa, Mattinata, Vieste, Lucera, Herdonia, Ascoli Satriano, ecc. Attualmente è Presidente della Fondazione Apulia Felix onlus, Presidente della Società degli Archeologi Medievisti Italiani e Presidente della Consulta Universitaria per le Archeologie Postclassiche. Fino al 15 giugno 2018 è stato Presidente del Consiglio Superiore per i Beni Culturali e Paesaggistici del MiBACT. Volpe Valeria Laureata in archeologia presso l’Università di Roma 3, è ora dottoranda di ricerca in Analysis and Management of Cultural Heritage presso l’IMT Scuola Alti Studi Lucca. Si occupa di studi di archeologia del paesaggio, seguendo due progetti di ricognizione archeologica e studio del paesaggio nella Valle del Cervaro e nel territorio di Salapia. Ha recentemente collaborato con la Fondazione Benetton Studi e Ricerche. Zoppolato Camilla Ha conseguito la laurea triennale in Produzione e protezione delle piante e sistemi del verde presso l’Università degli Studi di Milano con una tesi dal titolo Agrobiodiversità: concetto in evoluzione e tecniche di comunicazione. Attualmente è iscritta al corso di laurea in Scienze Agrarie presso l’Università degli Studi di Milano.
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I volti della Scuola Sessione inaugurale
Marina Regosa, Gaia Monticelli, Sara Catellani
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Giammaria Manghi
Barbara Tagliolini, i sindaci Ginni Maiola (Gattatico) e Germano Artioli (Campegine) 394
Dino Scanavino
Anna Sereni
Daniele Manacorda
Giuliano Volpe 395
Cerimonia di consegna delle borse di studio
Annamaria Mora (CIA Reggio Emilia) Gabriella Bonini consegna a Stefano Rinaldi consegna a Virginia Grossi
Assuero Zampini (Coldiretti) consegna a Dana Salina
Gabriella Bonini consegna a Matilde Teggi. 396
Ivano Gualerzi (FLAI â&#x20AC;&#x201C; CGIL) consegna a Laura Sterlacci
Assuero Zampini (Coldiretti) consegna a Valeria Volpe
Annamaria Mora (CIA Reggio Emilia) consegna a Maria Vittoria Tappari
Ivano Gualerzi (FLAI â&#x20AC;&#x201C; CGIL) consegna a Camilla Zoppolato
Premiazione concorso fotografico
Premio fotografico a Marco Marasi, ritira Francesca Artoni, consegna Matteo Colla (membro della giuria)
Premio fotografico a Daniela Dallâ&#x20AC;&#x2122;Aglio, consegna Claudio Panciroli (Circolo degli Artisti)
Premio fotografico a Fabrizio Frignani, consegna Enrico Manicardi (Circolo degli artisti)
Premio fotografico a Graziano Dallâ&#x20AC;&#x2122;Aglio, consegna Matteo Colla (membro della giuria)
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I protagonisti
Alessandra Ferrara, Luigi Costanzo (Istat, Roma) con Saverio Russo
Arianna Alberici con Sidraco Codeluppi
Emiliana Zigatti al lavoro! Carlo Cambi
Gian Luca Galletti e Albertina Soliani
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Emiro Endrighi
Gian Luca Galletti Galletti Ministro dellâ&#x20AC;&#x2122;Ambiente e della tutela del territorio e del mare
Mauro Agnoletti, Monica Meini e Carlo Tosco
Pietro Clemente
Rossano Pazzagli
Saverio Russo
Alberitna Soliani 399
Ilena Pierantoni Mario Calidoni
Nila Shabnam Bonetti
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Monica Meini
I laboratori
Laboratorio con Luciano Sassi
Laboratorio con Antonella De Nisco 401
Laboratorio col truciolo
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Escursione tra argini e pioppi
La partenza in biciletta dal Museo del Po di Boretto
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Visita agli impianti della Bonifica Bentivoglio, Gualtieri
Nel Museo dell Bonifica a Boretto
In battello 404
Nel Museo dei pontieri a Boretto
Le biciclette e il grande Fiume
Relitti sul Po 405
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Prati e chiese nel paesaggio della bonifica
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ISBN 978 - 88 - 941999 - 7 - 0
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