Paesaggio, CULTURE E CIBO
Mutamenti territoriali e tradizioni alimentari in Italia
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uaderni 10
edizioni istituto alcide cervi
Volume realizzato con il contributo di
Cura redazionale di Gabriella Bonini, Marika Davoli e Gaia Monticelli Editing e Grafica di Emiliana Zigatti
Copyright Š DICEMBRE 2015 ISTITUTO ALCIDE CERVI - BIBLIOTECA ARCHIVIO EMILIO SERENI via Fratelli Cervi, 9 42043 Gattatico (RE) tel. 0522 678356 - fax 0522 477491 biblioteca-archivio@emiliosereni.it www.istitutocervi.it ISBN 978-88-904211-9-8 I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore.
stampato su carta certificata
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uaderni 10
Paesaggio, CULTURE E CIBO Mutamenti territoriali e tradizioni alimentari in Italia
A cura di Gabriella Bonini e Rossano Pazzagli
edizioni istituto alcide cervi
Indice
Presentazione Albertina Soliani ........................................................................................ 11 Introduzione Gabriella Bonini, Rossano Pazzagli ......................................................... 13
PARTE I IL XXI SECOLO. TRAME PASSATE E SEGNI FUTURI ............................................. 17
La natura incorporata e il malgoverno della modernità Simone Neri Serneri ........................................................................................ 19 Paesaggi resilienti Catherine Dezio, Davide Pellegrino ........................................................ 25 Agricoltura e turismo Rossano Pazzagli ....................................................................................... 33 Trasformazioni territoriali recenti ed effetti sugli ecosistemi e sul paesaggio italiano Lorenzo Sallustio, Matteo Vizzarri, Marco Marchetti ................. 41 Il “senso del luogo” nella gestione del nostro paesaggio Angela Tavone ........................................................................................ 57
PARTE II SVILUPPO SENZA CRESCITA
...................................................................................... 65
Trasformazioni sostenibili del paesaggio rurale Roberto Gambino ........................................................................................ 67 Antico e Nuovo Franco Mancuso ........................................................................................ 77 Esperienze di prevenzione sismica e ricostruzione nei centri storici Irene Cremonini ........................................................................................ 81 Sviluppo senza crescita Bruno Gabrielli ........................................................................................ 91 Strumenti attuativi per la rigenerazione urbana Edoardo Preger ........................................................................................ 95 Verso una riforma della legge urbanistica regionale Michele Zanelli ........................................................................................ 99 Orti sociali nel paesaggio archeologico Alessandro Camiz ...................................................................................... 103
PARTE II Appendice
................................................................................................................... 119
Paesaggi visti dal treno Fabrizio Frignani ...................................................................................... 121 “Pae-SAGGIO” Mariamaddalena Gelao ........................................................................ 135 I paesaggi lenti Sara Maria Serafini ...................................................................................... 137
PARTE III IL PAESAGGIO AGRARIO
Il paesaggio, bene comune Rossano Pazzagli ....................................................................................... 149 Il paesaggio degli antropologi Pietro Clemente ...................................................................................... 155 La bonifica idraulica Chiara Visentin ..................................................................................... 169 La definizione dei paesaggi storici Arianna Brazzale ..................................................................................... 179 Devozione mariana e paesaggio Valentina Burgassi ...................................................................................... 189
PARTE III Appendice
................................................................................................................... 199
Il paesaggio, un contenuto da curricolo scolastico? Mario Calidoni ...................................................................................... 201 Paesaggio e letture interdisciplinari Gabriella Bonini ...................................................................................... 209 Riposatoid’Italia Antonella De Nisco ..................................................................................... 215
PARTE IV IL TERRITORIO
...................................................................................... 147
..................................................................................................... 221
Destino e progetto dello spazio pubblico Fabrizio Toppetti ...................................................................................... 223 Lo spazio pubblico come fattore identitario Stefano Storchi ...................................................................................... 231 Il paesaggio urbano storico Mario Piccinini ...................................................................................... 239
PARTE IV Appendice
.................................................................................................................. 243
Proposte per l’integrazione e la mitigazione dei capannoni industriali nel paesaggio agrario del Monferrato Valentina Quitadamo ........................................................................ 245 Osservazioni intorno al paesaggio degli spazi aperti periurbani Simona Messina ...................................................................................... 255 La qualità del paesaggio in relazione alle strutture funzionali alla produzione agricola e industriale Roberta Vignuolo ...................................................................................... 263 Progetto “Mappa emotiva” Mauro Rocchegiani ...................................................................................... 271
PARTE V I PAESAGGI DEL CIBO
L’evoluzione dell’agricoltura italiana Alessandro Cantarelli ....................................................................... 283 Il paesaggio, i prodotti, gli attori, le strategie per lo sviluppo del territorio rurale Gabriella Bonini ...................................................................................... 303 Peasaggi del vino e cultura del gusto Rossano Pazzagli ...................................................................................... 311 Un liquido paesaggio Luciano Sassi ............................................................................................... 323 Il terroir tra cibo, viaggio e territorio Erica Croce e Giovanni Perri .......................................................... 329 Musei e cibo Mario Calidoni ...................................................................................... 333
PARTE V Appendice
...................................................................................... 281
................................................................................................................... 339
10 domande sulla storia dell’alimentazione. Intervista a Massimo Montanari Giuseppe Di Tonto ...................................................................................... 341 Quattrocento panini imburrati di sotto e di sopra Mariano Fresta ...................................................................................... 349 Scrivere e giocare con il miele Giuliana Bondi ...................................................................................... 359 Pensieri su una civiltà degli animali Pietro Clemente ...................................................................................... 363
Autori ...................................................................................................................................... 367
Dedicato al prof. Bruno Gabrielli
Scomparso improvvisamente il 4 ottobre 2015, era nato a Genova il 18 aprile 1932. Il suo ultimo saggio che ci ha lasciato è riportato a pag. 91 ed è relativo all’intervento nella II Edizione (2014) della Scuola di Governo del Territorio SdGT Emilio Sereni. Città e territorio fra ricostruzione e rigenerazione. Il ricordo di Bruno Gabrielli nelle parole di Roberto Gambino da ilgiornaledellarchitettura.com del 14 ottobre 2015 Nell’ampio ventaglio degli interessi scientifici e culturali che ispirano le sue numerosissime pubblicazioni, le ricerche e gli atti di convegni, è ben riconoscibile, fin dalla prima fase d’attività, un tema principale, quello della tutela, del recupero e della rigenerazione del patrimonio storico-culturale…. un approccio critico ai problemi dei centri storici basato sulla stretta connessione delle riflessioni teoriche riguardanti i contesti, la città e il territorio (raccolte nella Carta di Gubbio) con le esperienze attuative proposte dalle amministrazioni locali e con gli esiti progettuali del Premio Gubbio istituito dall’Ancsa…. La storia di Gabrielli è intrisa di riferimenti ai piani e ai progetti urbanistici e territoriali: decine di città o di grandi aree urbane, come Genova e Torino, anche in paesi stranieri, province, regioni… grande umanità, saggezza di atteggiamento, passione civile, hanno sempre sorretto le sue attività, senza mai rinunciare a stimolare il confronto dialettico e l’apertura critica.
Presentazione
Albertina Soliani
Presidente Istituto Alcide Cervi
Paesaggio, culture e cibo, i mutamenti territoriali, le tradizioni alimentari. Un modo di essere Italia e di conoscerla. Un Paese unico al mondo nella visione globale del pianeta. Questa pubblicazione parla di questa Italia raccogliendo contributi che sviluppano la ricerca di Emilio Sereni, il nome che evoca il paesaggio agrario italiano. All’Istituto Alcide Cervi di Gattatico sono raccolte le carte del suo Archivio e si custodisce la sua Biblioteca. Nasce da lì la grande cultura che ha rinnovato il modo di pensare e di conoscere l’agricoltura italiana dalla metà del secolo scorso in poi. È intorno a questa cultura che hanno preso vita e vigore la Summer School, la Scuola di Governo del Territorio e le diverse iniziative che esplorano le vie nuove degli studi sul paesaggio agrario e sul paesaggio storico. Con questa consapevolezza e con questa responsabilità, il Comitato Scientifico, che ringrazio vivamente, ha approfondito questi temi guardando con interesse a EXPO 2015 e a Horizon 2020. È il tempo maturo per mettere a frutto la conoscenza storica e scientifica delle trasformazioni del paesaggio agrario italiano tra la fine del ‘900 e i primi anni 2000. Un paesaggio che è ormai percorso dalle dinamiche del mondo tra paesaggi rurali e città storiche, migrazioni, sostenibilità. Verso EXPO2015 è tutta orientata le sezione “paesaggi del cibo” che prende in esame i legami tra qualità dei paesaggi e qualità degli alimenti, la pianificazione del territorio rurale, la formazione, le produzioni agricole e il consumo consapevole. Temi di grande attualità che rimandano all’universo dei valori essenziali che l’umanità di oggi non può smarrire: il pianeta, che appartiene a tutti, specialmente alle nuove generazioni; la libertà e la giustizia, a partire dai contadini che lavorano la terra; il cibo come diritto alla vita per ogni persona. È il filo della responsabilità verso il pianeta, verso l’uguaglianza tra gli uomini. Chiama in causa la responsabilità di tutti, dei cittadini, delle istituzioni, della cultura, degli operatori, degli educatori, della politica. Ogni civiltà, in ogni parte del pianeta, ha vissuto il cibo come parte fondamentale di sé. Oggi la scienza e la tecnica ci offrono grandi possibilità insieme a grandi rischi. Solo il pensiero nutrito di libertà e di democrazia può dare speranza agli anni futuri dell’umanità. Nel suo messaggio all’EXPO2015 Aung San Suu Kyi, dalla Birmania, riferendosi all’Italia ha parlato del cibo come arte e come amicizia. Le filiere non sono soltanto categorie della produzione, sono anche i legami che cambiano 11
il corso della storia nella solidarietĂ tra i popoli. E il paesaggio evoca il lavoro delle persone, le idee che le ispirano, la convivenza che ha memoria del passato e pensa al futuro. Nella sofferenza dei popoli sta la grande saggezza. Come la memoria dei Cervi ci insegna. Da Casa Cervi, dove il mappamondo viaggiava sul trattore, la memoria cammina davanti a noi.
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Introduzione Paesaggio, culture e cibo. Mutamenti territoriali e tradizioni alimentari in Italia
Gabriella Bonini, Rossano Pazzagli
Le ricerche raccolte nel volume affrontano i temi del paesaggio agrario e delle economie alimentari, con particolare attenzione alle ricadute sull’ambiente e alle indicazioni per intraprendere efficaci politiche di governo del territorio. Il cibo, ciò che mangiamo, la cultura, il lavoro dell’uomo e il paesaggio che ne nasce, sono oggi un tema di forte attualità e importanza a livello globale. Expo 2015, nel corso dell’anno, ha fatto da stimolo a tanti eventi e anche questi contributi vogliono essere un approccio critico, in linea con il pensiero di Emilio Sereni per il quale il paesaggio è quella forma che l’uomo, nel corso ed ai fini delle sue attività produttive e agricole, coscientemente e sistematicamente imprime al paesaggio naturale. Sereni ci dice che l’uomo ha trasformato il paesaggio e continua a farlo plasmandolo, modellandolo, spesso migliorandolo con la produzione agricola e di cibo. Egli mette in valore la capacità dell’uomo, che ha forgiato nel tempo i paesaggi, di trovare un equilibrio tra esigenze alimentari e ambientali. I nodi principali della ricerca sono dunque la qualità e la quantità di terreno e di cibo disponibili, le ricadute di entrambi sul paesaggio, sull’economia e sull’ambiente, insieme alle modalità di risoluzione dei problemi ad essi connessi. Questioni che riguardano tutti e che mettono in luce quanto sia forte il rapporto tra storia, culture cibo e paesaggio. Se l’industrializzazione e il boom economico avevano generato nei decenni passati l’abbandono delle aree rurali, delle campagne, della valli alpine e delle zone appenniniche, con conseguenze considerevoli sul piano sociale, urbanistico e paesaggistico, oggi i progetti legati alla salvaguardia delle peculiarità alimentari dei territori, il chilometro zero e, più in generale, le teorie riassumibili sotto il concetto di smart food hanno portato a un’inversione di rotta. La valorizzazione degli spazi agricoli come luogo privilegiato per la soddisfazione del fabbisogno alimentare di qualità ha come effetto il recupero delle campagne, dei luoghi e della cultura rurale. Tanti luoghi finora considerati di scarso interesse stanno diventando luoghi di produzione alimentare di qualità, perché insistono sul grande valore paesaggistico, spesso con un impatto positivo anche sul turismo. I saggi dimostrano come l’Italia sia un paese ora più maturo e preparato verso il rispetto del suolo e dei suoi prodotti, in nome della salute e della qualità della vita. 13
La PARTE I - Il XXI Secolo. Trame passate e segni futuri - raccoglie la rielaborazione di alcuni degli interventi e delle ricerche presentate nella V Edizione (2013) della Summer School Emilio Sereni Storia del paesaggio agrario italiano con l’intento di mettere a frutto a fini culturali, didattici e politici, la conoscenza storica dei caratteri e delle trasformazioni del paesaggio agrario italiano tra la fine del Novecento e i primi anni Duemila, un periodo che ha rappresentato la fase più critica per quanto riguarda l’alterazione delle identità territoriali, il consumo di suolo agricolo e la rottura dell’equilibrio ambientale. La PARTE II - Sviluppo senza crescita. Città e territorio tra ricostruzione e rigenerazione focalizza la riflessione sul quadro complessivo delle esperienze che progettisti e amministrazioni pubbliche dedicano alla costruzione e alla ricostruzione in tempo di decrescita secondo due problematiche peculiari: l’attenzione per i centri storici/urbani e le forme del paesaggio rurale, con la trattazione di temi di carattere generale, esperienze ed esempi di rigenerazione urbana che hanno preso corpo in diverse città e territori, in ambito italiano. Il terremoto del 2012, che ha violentemente colpito la Bassa modenese e le zone limitrofe, ha atterrato tanta parte dello storico patrimonio rurale fino al rischio di avere un’agricoltura senza più un paesaggio rurale. Eppure la “campagna”, intesa come insieme armonico di architetture e campi coltivati, è necessaria non solo all’economia e all’alimentazione umana, ma anche alla qualità della vita delle persone e alla loro stessa identità. La ricostruzione post-terremoto in alcuni casi ha fornito l’occasione per recuperare questo paesaggio rurale con le sue architetture, per riqualificare quanto è rimasto e per sperimentare nuove soluzioni edilizie più funzionali alle esigenze dell’oggi. I testi riportati sono la rielaborazione di alcuni degli interventi della II Edizione (2014) Scuola di Governo del Territorio SdGT Emilio Sereni. Città e territorio fra ricostruzione e rigenerazione. La sezione contiene un’APPENDICE con Casi di studio sulla lettura del paesaggio i cui contenuti sono una rielaborazione di interventi e di lavoro di gruppo nella VI Edizione (2014) Summer School Emilio Sereni Storia del paesaggio italiano. Il paesaggio agrario: letture e interpretazioni. La PARTE III - Il paesaggio agrario: letture e interpretazioni - riporta il confronto tra le molteplici discipline che indirizzano l’attenzione al paesaggio, dal piano conoscitivo a quello interpretativo o anche solo operativo: storia, geografia, urbanistica, architettura, sociologia, agronomia, economia. Ogni disciplina sviluppa, a partire dal proprio statuto epistemologico e in funzione della sua stessa natura, uno specifico approccio al paesaggio, adotta e propone una sua lettura del paesaggio. I contributi di questa parte derivano dalla rielaborazione di alcuni degli interventi e delle ricerche presentate nella VI Edizione (2014) Summer School Emilio Sereni Storia del paesaggio agrario italiano di cui porta il titolo. Essi tendono quindi a promuovere un percorso di costruzione di paradigmi interdisciplinari essendo il paesaggio, quale forma visiva di un territorio, l’espressione dell’identità socioculturale e del percorso storico di una intera comunità. Questa parte comprende un’APPENDICE più propriamente didattica sulla lettura del paesaggio con attività che si prestano al lavoro in classe e con la classe nell’ambito del mondo scolastico. La PARTE IV - Il territorio fra paesaggio rurale e città storica - presenta un approccio al paesaggio storico e alla città considerando la diversità e la creatività culturale come risorse chiave per lo sviluppo umano, sociale ed economico. Queste ci forniscono gli strumenti per 14
gestire le trasformazioni fisiche e sociali e assicurare che gli interventi contemporanei siano integrati armoniosamente con il patrimonio in un ambiente (setting) storico e tengano in considerazione i contesti regionali. Non per altro, la gestione del territorio deve oggi tendere a promuovere una conservazione e una valorizzazione integrata alla scala territoriale delle risorse urbane e ambientali, attraverso l’acquisizione di un concetto di sostenibilità non più separato e distinto a seconda che ci si interessi di aree urbane o di territorio extra-urbano. Entrambe queste dimensioni concorrono a definire e a determinare le forme dell’habitat umano, ciò di cui oggi occorre prendersi cura. I testi sono la rielaborazione di alcuni degli interventi avvenuti all’interno della III Edizione (2015) Scuola di Governo del Territorio SdGT Emilio Sereni. Itinerari tra paesaggio urbano e rurale. La parte contiene un’APPENDICE con Casi di studio e applicazioni didattiche sulla lettura del paesaggio agrario. I contenuti sono una rielaborazione di interventi e lavori di gruppo avvenuti all’interno della VI Edizione (2014) Summer School Emilio Sereni Storia del paesaggio italiano. Il paesaggio agrario: letture e interpretazioni. La PARTE V - I paesaggi del cibo - si focalizza sui rapporti tra agricoltura, paesaggio e cibo e prende in esame alla scala italiana il nesso cibo-paesaggio così come si è venuto configurando nella storia e nell’attualità dell’agricoltura. Sono contributi a carattere storico, antropologico, geografico, sociale ed economico che evidenziano i legami tra qualità del paesaggio agrario e qualità degli alimenti, e pongono le basi per interventi e programmi operativi nell’ambito dei circuiti delle produzioni agricole, della pianificazione del territorio rurale, dell’agricoltura sostenibile, del consumo consapevole, della formazione e dell’educazione. Conclude questa parte un’APPENDICE con particolari rielaborazioni intorno al tema cibo-paesaggio. I testi appartengono in modo diretto o indiretto ad alcuni dei temi affrontati nella VII Edizione (2015) Summer School Emilio Sereni Storia del paesaggio agrario italiano di cui questa ultima sezione riporta il titolo.
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PARTE I IL XXI SECOLO. TRAME PASSATE E SEGNI FUTURI
La natura incorporata e il malgoverno della modernità nel secondo Novecento
Simone Neri Serneri
Si intende illustrare il rapporto tra società e ambiente nel Novecento, il secolo della modernità, una stagione che ora ben ci appare portatore di epiche e talora drammatiche novità nella storia dell’umanità. Di seguito, proverò a sviluppare qualche rapida considerazione su come quel rapporto si sia dipanato – che ‘governato’ sarebbe parola troppo impegnativa – in particolare nel nostro paese. Dunque, non tratterò del paesaggio agrario, non solo per motivi di competenza, ma perché sono convinto che una riflessione storica sul farsi del mondo urbano e industriale contemporaneo possa utilmente giovare, almeno sollevando qualche interrogativo, ai nostri lavori sul rapporto tra paesaggi tradizionali e paesaggi futuri. Vorrei iniziare riprendendo un’immagine usata da John McNeill nel suo volume Qualcosa di nuovo sotto il sole, pubblicato ormai un decennio fa, quando rimarcava come l’eccezionalità del Ventesimo secolo dal punto di vista della storia ambientale consista nel fatto che, mai come in passato, gli uomini hanno operato come “squali”, anziché “ratti”, ovvero hanno oltremodo specializzato le proprie attività e, di conseguenza, hanno trasformato massicciamente l’ambiente a proprio uso, anziché adattarsi ai diversi contesti. Questa modalità di operare ha consentito loro di massimizzare lo sfruttamento delle risorse disponibili ai fini della propria riproduzione. Così facendo, uomini e squali si sono posti al vertice delle gerarchie tra gli ecosistemi. A questa prima immagine, permettetemi di accostare una seconda – e ultima – citazione, per dire che la storia moderna pare aver pienamente applicato la massima coniata da Francis Bacon, il Bacone filosofo del primo Seicento considerato uno dei padri della moderna conoscenza scientifica, secondo il quale “il mondo è creato per l’uomo, non l’uomo per il mondo”. Cosa intendo sottolineare con questi richiami? A cosa alludono queste metafore? Voglio rimarcare come lo sviluppo moderno, il farsi di quella che chiamiamo modernità, dal punto di vista ambientale è stato caratterizzato da una realtà qualitativamente diversa da quella del banale sfruttamento delle risorse naturali, magari tale da giungere fino alla depredazione e al loro esaurimento localizzato, come poteva accadere ai nostri antenati raccoglitori e cacciatori o anche negli ultimi due millenni nelle società agricole tradizionali. La modernità otto-novecentesca si è sostenuta invece sviluppando una relazione tra uomini e natura assai più intensa, più profonda, più sistematica o forse più propriamente sistemica rispetto a quanto realizzato dalle società di antico regime. La potenza del moderno uomo19
squalo poggia infatti sulla capacità di asservire gli ecosistemi, dominandone ampiamente, attraverso la tecnologia, le dinamiche riproduttive. Per questo, tornado a Bacon, affermare che la modernità considera il mondo creato per l’uomo, significa propriamente affermare che gli uomini sono in grado di volgere a propria utilità larga parte dei processi naturali che costituiscono il mondo. Questo è quel che intendiamo quando parliamo di incorporazione della natura. Nel corso del Ventesimo secolo – e con una sostanziale rottura di continuità rispetto al passato – lo sviluppo delle società umane si è largamente sostenuto sulla capacità di inserire gli ecosistemi e in particolare i processi di riproduzione del mondo naturale all’interno dei meccanismi di produzione e riproduzione della stessa società umana. Dal ciclo dell’acqua alla riproduzione delle specie viventi, dai sistemi di accumulo e trasformazione dell’energia, alle dinamiche trasformative dei suoli, tutti questi processi sono stati inseriti e valorizzati nello sviluppo moderno. Mentre in passato gli uomini avevano variamente utilizzato i prodotti della natura, certo adoperandosi per assecondarne quanto più vantaggiosamente i cicli produttivi, la modernità novecentesca ha operato una svolta epocale, perché porzioni di quegli ecosistemi sono stati integrati – incorporati, hanno dato corpo – nei processi di produzione e riproduzione delle società antropiche. Lo sviluppo tecnologico ha infatti consentito non solo di controllare sempre più incisivamente i processi di riproduzione di porzioni di ecosistemi ai fini della produzione di beni alimentari, ma, ben più ampiamente e per la prima volta nella storia, per la produzione su vastissima scala di quantità innumerevoli di beni materiali e di risorse energetiche. Come chiunque sa, ciò si è tradotto in un eccezionale sviluppo e trasformazione di quelle società, ma anche in una pressione enorme sulle risorse disponibili. Soprattutto, ha determinato un’alterazione talora massiccia degli assetti ambientali e delle modalità di riproduzione degli ecosistemi: si pensi al prelievo di risorse energetiche fossili che si erano prodotte in milioni di anni, ma, più banalmente, al prelievo delle acque di falda secondo tempi assai più brevi di quelli necessari al loro accumulo o ai mutamenti nella composizione dell’atmosfera o alla copertura del suolo, che, lungi dall’essere una riduzione di terreno naturale, è una variazione di grande impatto in numerosi sistemi ambientali. Ancora, si pensi alle alterazioni dei cicli riproduttivi di innumerevoli ecosistemi, conseguenti alla manipolazione del ciclo delle acque tramite prelievi e immissioni, anche non particolarmente inquinanti. Incorporazione della natura significa dunque interconnessione e integrazione dei sistemi produttivi sociali e di quelli ambientali. E, se di integrazione si tratta, occorre certo misurare l’intensità degli scambi, ma anche considerare quanto – interagendo – quei sistemi si condizionino e modifichino reciprocamente. Occorre poi ricordare – altro passaggio cruciale – che nella seconda metà del Ventesimo secolo l’accumulo, l’intensità e la diffusione di questi processi, inizialmente localizzati, ha determinato trasformazioni qualitative di portata globale. Almeno dalla metà degli anni Ottanta esse sono divenute ben percepibili dagli specialisti e ormai sono ben note anche al largo pubblico, chiamato dai mass media e talora anche dalla diretta esperienza a confrontarsi con la deforestazione di vaste aree del pianeta, le alterazioni atmosferiche su larga scala, la cosiddetta desertificazione, la perdita diffusa di biodiversità, fino al riscaldamento globale e ai cambiamenti climatici. In una sorta di nemesi, l’incorporazione della natura su scala globale ha portato anche all’interconnessione delle crisi ambientali che, sorte in ambito 20
locale o regionale, accumulandosi e interagendo costituiscono minacce gravi per aree sempre più vaste e talora l’intero pianeta. Tra i molti indicatori possibili dei livelli di squilibrio e di rischio raggiunti, è sufficiente ricordare qui la cosiddetta “impronta ecologica”, la quantità di superficie biologica utilizzata da una certa società o, dall’insieme delle società umane, per riprodurre se stessa: se nel 1985 la domanda antropica, ovvero la superficie utilizzata per i consumi umani, aveva quasi raggiunto la capacità rigenerativa terrestre, adesso la eccede del 30%. La differenza è indicativa della mancata capacità – forse meglio: la mancata possibilità – di rigenerazione degli ecosistemi. Il quadro sommario fin qui tracciato consente di volgerci al tema del malgoverno, cioè al tema delle scelte in materia di gestione delle risorse e quindi alla nostra capacità di costruire meccanismi di incorporazione della natura che tengano conto dell’equilibrio, certo dinamico, ma necessario, tra riproduzione sociale e riproduzione degli ecosistemi. Così come è necessario che quell’equilibrio sia costruito su basi di equità sociale, tanto nel presente – in seno alle nostre società e tra le diverse aree del pianeta – quanto nel futuro, garantendo un’equa potenzialità di accesso alle risorse sia alla nostra che alle generazioni successive, nonché all’interno di queste ultime, ricomponendo tensioni e competizioni già ampiamente innescate dalle dinamiche di sviluppo fin d’ora in atto nei paesi asiatici e in genere nel cosiddetto “Sud” del mondo. In diversa prospettiva inoltre evocare il malgoverno significa anche invitare a riflettere sulle modalità concrete di utilizzo delle risorse, ovvero sulle tecnologie. Queste ultime giocano infatti un ruolo cruciale nel promuovere l’incorporazione della natura, sia in modo diretto – perché consentono materialmente di intervenire nel ciclo delle risorse: si pensi alle tecniche di perforazione del suolo, ai fertilizzanti, all’impego delle sega elettrica e di altri macchinari per il taglio del legname – sia indiretto, per le molteplici conseguenze – e la scarsa reversibilità delle conseguenti relazioni tra sistema sociale e ambiente – di numerose “catene tecnologiche”, che concatenano l’estrazione, la valorizzazione e l’uso produttivo e riproduttivo di varie risorse naturali. È il caso ad esempio delle tecniche costruttive, dalla produzione dei materiali da costruzione all’edificazione di abitazioni, insediamenti e infrastrutture, o della motorizzazione, dalla estrazione del petrolio e dei metalli, alla produzione dei carburanti e degli autoveicoli e delle infrastrutture viarie fino alla loro circolazione. Ecco perché, a proporre un giudizio certamente sommario, ma comunque critico sulle modalità di governo di quelle risorse abbiamo evocato la categoria del malgoverno, alludendo esplicitamente all’affresco con cui Ambrogio Lorenzetti raffigurò nel Palazzo pubblico di Siena, ormai molti secoli fa, raffigurava la dicotomia tra quanti erano capaci di governare la città e il contado – la società e la natura – secondo armonia e giustizia, impiegando adeguatamente tecnica e conoscenza, e quanti invece si dimostravano inadeguati a quelle responsabilità. L’esperienza del malgoverno, tanto in riferimento a singole scelte negative quanto più in generale alla incapacità di coniugare sviluppo sociale ed equilibri ambientali è bene evidente se passiamo a riconsiderare in modo giocoforza estremamente sintetico la storia del nostro paese. Il secondo Novecento è stato per l’Italia, ancor più che per altri paesi europei, un periodo cruciale anche in termini ambientali. Negli anni Cinquanta e Sessanta, la produzione e i consumi crebbero con notevolissima intensità, alimentati da un rapido ampliamento della base industriale, i cui stabilimenti si disposero sul territorio secondo tre principali modalità di localizzazione. Quella della concentrazione degli impianti attorno ai grandi poli 21
metropolitani, quella della disseminazione sul territorio (la cosiddetta industrializzazione diffusa), non solo nella cosiddetta Terza Italia, e infine quella dei grandi insediamenti isolati, solitamente privilegiati dall’industria siderurgica e dalla chimica di base. Queste diverse modalità di localizzazione rispondevano alle diverse esigenze di privilegiare rispettivamente la vicinanza con altre strutture produttive e terziarie nel primo caso, l’impiego della forza lavoro a basso costo disponibile nella società rurale e artigiana nel secondo e la possibilità di insediarsi in territori a bassa densità abitativa e a scarso sviluppo sociale nell’ultimo. Va però sottolineato che in termini ambientali l’industrializzazione nei grandi centri urbanoindustriali perpetuava – in modo decisamente più intensivo – la prassi della zonizzazione di attività limitatamente nocive o altrimenti della tolleranza dettata dal bisogno di lavoro. A sua volta, l’industrializzazione diffusa massimizzava i vantaggi della dispersione degli inquinanti in territori meno densamente abitati. Infine, i grandi poli industriali isolati perseguivano prioritariamente la possibilità di utilizzare senza restrizioni ingenti quantitativi di risorse idriche, ma anche di disperdere senza controlli le emissioni inquinanti nel suolo e in atmosfera. Ne derivò una pressione massiccia sulle risorse naturali e una crescita esponenziale delle emissioni inquinanti, nella sostanziale assenza di qualsiasi efficace tutela normativa della salute pubblica come del patrimonio ambientale. Negli anni Settanta il paese si trovò sull’orlo di una crisi ambientale incipiente, oltre a sperimentare una più generale crisi di governo del territorio. Nonostante alcuni gravi incidenti, quella crisi ambientale non precipitò con effetti catastrofici, ma ciò non accadde perché essa fosse stata affrontata con scelte consapevoli e incisive di politica e legislazione ambientale o per l’introduzione di radicali trasformazioni tecnologiche, quanto principalmente perché negli anni successivi la struttura industriale del nostro paese fu investita da profondi mutamenti di lungo periodo, che in sintesi ridussero significativamente il peso delle grandi fabbriche, nel generale declino del settore industriale, e specificamente ridimensionarono massicciamente quello della siderurgia e della chimica di base. Le eredità di quella stagione sono comunque tutt’oggi assai pesanti. Basti ricordare le numerosissime aree da bonificare (mi limito a menzionare da un lato il caso degli stabilimenti Caffaro, posti nel centro di Brescia, e dall’altro le condizioni dell’agro aversano, estesamente inquinato dalle discariche abusive di rifiuti industriali provenienti da tutto il paese), il sopravvivere di alcuni “dinosauri” come gli stabilimenti dell’Ilva di Taranto e di altri meno noti all’opinione pubblica. Se certamente vi è stato un contenimento, almeno in termini relativi, delle emissioni della piccola e media industria diffusa, l’impatto ambientale del settore industriale è comunque ancora notevole, anche se proporzionalmente ridimensionato rispetto ai decenni precedenti. Le dinamiche di incorporazione di numerosi territori nello sviluppo industriale, realizzate in “stile squalo”, si intrecciarono con lo sviluppo urbano, l’altro grandioso processo di trasformazione del nostro paese avviato negli stessi decenni. Per quanto brevemente, dobbiamo anzitutto ricordare che a cavallo del 1900 la prima modernizzazione del mondo urbano si era compiuta all’insegna della cultura igienista, sostanzialmente dislocando all’esterno degli abitati le produzioni inquinanti e le acque insalubri e allargando progressivamente l’area dei prelievi idrici di superficie e di falda. Alcuni decenni più tardi, nelle città medie e grandi, meta di un epocale accentramento della popolazione, il sovrapporsi dell’intensa industrializzazione postbellica e della coeva massiccia edificazione si tradusse in una formidabile pressione sui meccanismi di prelievo e allontanamento delle risorse, nelle falde come in atmosfera. Analogamente, nelle aree caratterizzate dall’intreccio 22
di industrializzazione e urbanizzazione diffusa si verificò una simmetrica, intensa, tendenza alla dispersione della pressione sulle risorse, nei prelievi come nelle emissioni. Per dare un’idea del tutto sommaria della rapidità e intensità di questi processi basta ricordare che tra il 1951 e il 1971 la popolazione urbanizzata crebbe dal 36% al 76% del totale. L’urbanizzazione – un fenomeno nient’affatto limitato alle città propriamente dette – notoriamente ha comportato una profonda ristrutturazione, oltreché estensione, degli spazi occupati da edifici e infrastrutture, destinati a funzioni diverse, principalmente, ma non esclusivamente, connesse con lo sviluppo delle attività secondarie e terziarie. Tale ristrutturazione ed estensione sono state, tra l’altro, foriere di immediate e profonde ripercussioni anzitutto sulla mobilità di uomini e merci. L’esito complessivo è stato quello di una ulteriore e massiccia meccanizzazione e artificializzazione del territorio, un esito non necessariamente negativo, se rispettoso e dunque compatibile con le esigenze riproduttive degli ecosistemi. Una condizione però generalmente non verificatasi. Al contrario, intensità e modalità dell’urbanizzazione hanno fatto sì che, al ridimensionamento pur relativo dell’impatto ambientale delle attività industriali, abbia corrisposto un incremento considerevole di quello della crescita urbana, anche perché condotta secondo criteri e prospettive di governo – o malgoverno – del territorio non troppo diverse da quelle che avevano presieduto alla crescita della realtà industriale. Già negli anni Ottanta, infatti, era ben evidente come la crescita, l’estensione e l’intensificazione del tessuto urbano nazionale avessero complessivamente alimentato una dominante tendenza alla dispersione urbana, propria di larga parte dell’Europa. Dopo una prima concentrazione attorno ai grandi poli urbani, culminata agli inizi degli anni Settanta, il carattere policentrico del nostro sistema metropolitano era nuovamente prevalso e l’incremento dell’urbanizzazione si era realizzato dispiegandosi e disperdendosi attorno alla persistente rete dei centri urbani minori, all’interno della quale erano però divenute dominanti le relazioni inter- e intra-urbane, anziché le tradizionali relazioni tra le singole città e le rispettive campagne, il contado d’un tempo ormai tramontato. L’esito di queste dinamiche è stato quello di una crescita estensiva e disordinata della superficie urbanizzata, approssimativamente raddoppiata tra gli anni Cinquanta e gli Ottanta e ulteriormente cresciuta di circa il 50% nell’ultimo decennio del secolo. Ne è conseguita una dispersione delle funzioni produttive e delle funzioni sociali in genere, che ha indotto a sua volta un disordinato moltiplicarsi dei sistemi e dei flussi di mobilità. Dal punto di vista urbanistico e anche ambientale erano infatti mancate – ecco il malgoverno – sia la salvaguardia di aree o fasce verdi o comunque libere tra i diversi insediamenti urbani, sia l’individuazione di nuclei e assi direzionali privilegiati per la localizzazione e l’aggregazione delle funzioni e la conseguente organizzazione dei flussi di mobilità, condizione quest’ultima necessariamente preliminare per imperniarli su sistemi di trasporto pubblici o collettivi tanto nella breve come nella media – oltreché nella lunga – distanza. In conclusione, in termini generali la tradizionale distinzione tra paesaggio urbano e paesaggio agrario è divenuta sempre più problematica, non solo per la crescente presenza in ciascuno dei due contesti di numerosi singoli elementi comuni, ma perché il paesaggio urbano proprio della modernità matura dopo aver inglobato ormai il paesaggio industriale e post-industriale pervade adesso ampiamente anche il paesaggio del tempo libero e quello delle attività agricole. Sul piano storico il bilancio di quanto è accaduto è poco confortante 23
per i costi pagati in termini sociali e ambientali e per l’odierno gravare di pesanti eredità. Non per caso, viviamo in un paese che da questo punto di vista complessivamente si colloca alla retroguardia del contesto europeo, come testimoniano molti indicatori, a cominciare da quelli del peso persistente e spesso determinante della motorizzazione privata. Non è una forzatura dire che anche le cronache dell’oggi dimostrano che abbiamo saputo apprendere assai poco dalle scelte – fatte o mancate – in precedenza. In termini culturali, dobbiamo concludere ribadendo che l’ambiente è uno spazio dinamico. Dinamico perché composto da sistemi – gli ecosistemi e i sistemi sociali – che si riproducono, ma anche perché permeato dalle relazioni tra quei sistemi e, dunque, attraversato da flussi di risorse. Le modalità di relazione tra questi sistemi condizionano perciò in modo determinante il grado di dissipazione di quelle risorse e dunque le capacità dei sistemi ambientali quanto sociali di riprodurre se stessi. Di tutto ciò, di queste dinamiche e di queste relazioni dovrebbe essere perciò ben consapevole la disciplina, forse ormai desueta, della programmazione territoriale, il cui compito – a ben guardare – sarebbe in ultima analisi forse proprio quello di organizzare secondo priorità coerenti l’utilizzo sostenibile delle risorse ambientali.
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Paesaggi resilienti la prospettiva socio-ecologica per l’analisi e il governo delle trasformazioni Catherine Dezio, Davide Pellegrino
Dalle pressioni sul paesaggio alla perdita di servizi ecosistemici Nel corso della storia l’interrelazione dell’uomo con i sistemi naturali ha dato vita al Paesaggio, le cui mutevoli forme sottendono continui processi di trasformazione, di crisi e di rielaborazione del territorio da parte delle società umane. La dinamicità dei cambiamenti e delle trasformazioni insieme alla complessità di fattori di diversa natura diventano gli attributi più congeniali per descrivere sinteticamente il Paesaggio (Dematteis, 1995), inducendo a non fermarsi soltanto agli aspetti più appariscenti e continuativi conservati sul terreno, ma ad osservare le forme come risultato delle interazioni dinamiche tra uomo e ambiente. Questi rapporti, basati sulla ricerca di un delicato equilibrio che solo attraverso successivi adattamenti è possibile mantenere, rimane intrinsecamente “fragile”, cioè soggetto ad innumerevoli pericoli e minacce. Il tema della fragilità è strettamente connesso all’analisi dei principali agenti di trasformazione (“driving forces”) del Paesaggio. Tra questi i fenomeni di urbanizzazione rappresentano un elemento centrale da cui partire. In Italia la superficie urbanizzata dagli anni ’50 al 2000 è aumentata del 500%. Si tratta di grandi estensioni di territori antropizzati attorno a polarità urbane, caratterizzati da un insieme di relazioni e da densità storiche, culturali e fisiche differenziate (conurbazioni, aggregazioni, megalopoli); i processi riscontrati sono numerosi, ma quello più evidente ed inarrestabile è definito dalla cosiddetta “città diffusa” o “urban sprawl”. Un ulteriore fenomeno in parte connesso all’urbanizzazione è la deforestazione. Nell’ultimo mezzo secolo il pianeta ha perso un terzo della copertura forestale con gravi conseguenze sugli ecosistemi naturali e semi-naturali. A questo si aggiungono i cambiamenti climatici che, oltre ad accrescere la frequenza e l’intensità dei fenomeni meteorologici, accelerano il processo di desertificazione mettendo a rischio la sicurezza alimentare globale. Quest’ultima dipende dalle attività agricole che nei secoli scorsi hanno rappresentato il principale agente modellatore del territorio dando origine a paesaggi agrari di alto valore ambientale, economico e sociale. Tuttavia nell’ultimo secolo l’intensivizzazione dei processi produttivi agricoli e l’abbandono delle terre marginali unitamente allo sviluppo industriale e alla forte espansione urbana hanno determinato una progressiva riduzione dell’eterogeneità del paesaggio e una sua effettiva banalizzazione. La cosiddetta “rivoluzione verde” in agricoltura basata sulla specializzazione produttiva e sull’elevato impiego di input esterni (acqua, combustibili 25
fossili, fertilizzanti, fitofarmaci) ha consentito, attraverso l’aumento delle rese produttive, di assicurare l’approvvigionamento alimentare degradando, però, le principali risorse naturali. Tutto ciò ha causato inesorabilmente la perdita di servizi ecosistemici (Davari, 2010; MEA, 2005), cioè di beni e servizi che tradizionalmente l’agroecosistema forniva alla popolazione locale, come il cibo e le fibre (servizi di approvvigionamento), il controllo dell’erosione, la conservazione della fertilità del suolo e la riduzione del rischio d’incendi (servizi di regolazione), o le opportunità ricreative e l’amenità del paesaggio (servizi estetico-culturali). In aggiunta, tali dinamiche hanno determinato elevati costi socio-economici e ambientali per le popolazioni locali e un danno all’agricoltura stessa che dipende fortemente dagli ecosistemi e dalla produzione di alcuni servizi ecosistemici come l’impollinazione, la fertilità del suolo, la regolazione del clima, ecc. (Zhang, 2007).
Figura 1 – Rappresentazione delle relazioni che intercorrono tra le pressioni di diversa natura a cui è sottoposto il Paesaggio. Fonte: elaborazione degli autori
Le infrastrutture verdi per aumentare la resilienza urbana Alle conseguenze negative delle pressioni sul paesaggio, soprattutto quello agrario, negli ultimi anni si sta cercando di porre rimedio attraverso approcci finalizzati alla conservazione della biodiversità e alla valorizzazione del capitale naturale e dei servizi ecosistemici da esso forniti. In considerazione dell’elevata frammentazione del territorio europeo (circa il 30% è classificato come moderatamente o fortemente frammentato a causa dello sprawl urbano, dell’infrastrutturazione e del cambiamento d’uso del suolo), la Strategia Europea per la Biodiversità mira a “preservare e valorizzare gli ecosistemi e i relativi servizi mediante l’infrastruttura verde e il ripristino di almeno il 15% degli ecosistemi degradati”. Da qui l’interesse per il tema delle “infrastrutture verdi”, definite come “reti di aree naturali e 26
seminaturali, elementi e spazi verdi in aree rurali e urbane, terrestri, costiere e marine” (Naumann, 2011), la cui realizzazione permette di aumentare la biodiversità, la fornitura di servizi ecosistemici e gli effetti positivi di mitigazione e adattamento rispetto ai cambiamenti climatici, quindi, nel suo complesso, la resilienza del paesaggio. Nelle aree urbane le infrastrutture verdi sono particolarmente utili dal momento che svolgono una serie di servizi tra cui quello di regolazione della temperatura riducendo il cosiddetto effetto “isola di calore” oppure quello di regolazione dell’acqua, migliorando la capacità d’infiltrazione idrica e di ricarica delle falde e riducendo il rischio di ruscellamento ed erosione. Le infrastrutture verdi rappresentano quindi uno strumento efficace per aumentare la resilienza delle aree urbane, intese come sistemi energivori (energy-consuming) e fortemente dipendenti dall’esterno per l’approvvigionamento alimentare. Per questo diventa importante declinare sul piano attuativo il riconoscimento e il potenziamento delle infrastrutture verdi identificando non solo gli strumenti di pianificazione paesaggistica e territoriale e di politica agraria adeguati, ma soprattutto integrando settori (urbanistica, ambiente, agricoltura, sviluppo rurale) e livelli di governo molteplici (nazionale, regionale e comunale). Nel momento in cui si sposta l’ottica dal singolo strumento all’approccio globale, però, parallelamente ad una riflessione sulle politiche e le normative applicative, sorge spontanea la necessità di un approfondimento della chiave di lettura e della metodologia che sta alla base di un approccio adattativo più ampio, che affronta con un’ottica resiliente le pressioni sul paesaggio, e in cui le infrastrutture verdi s’inseriscono solo come uno dei tasselli utili, in un quadro progettuale e procedurale molto più esteso e complesso.
Un approfondimento teorico sulla Resilienza: la risposta alle pressioni Dall’interazione delle problematiche descritte in precedenza, è ineludibile come non si possa pensare a una singola strategia di mitigazione e/o adattamento per garantire una stabilità a lungo termine, ma anzi si debba introdurre un approccio sistemico d’impronta coevolutiva all’analisi, alla progettazione e alla gestione del Paesaggio, ovvero in grado di coniugare la sfera ecologico-ambientale con quella socio-economica. A supporto di questo nuovo paradigma di sviluppo equilibrato ed effettivamente sostenibile ben si addice il concetto di “resilienza”, termine mutuato dalle scienze ingegneristiche ed ecologiche e generalmente definito come la capacità di un sistema di assorbire shock esterni, resistendo alle pressioni che tendono ad alterarne l’equilibrio. La risposta alle diverse pressioni ambientali, economiche e sociali descritte prima, che possono destabilizzare un paesaggio, può essere infatti misurata in termini di resilienza che introduce la comprensione di come la comunità e i propri territori possano affrontare e costruire scenari di sviluppo, in un quadro di riferimento condizionato da disturbi e da cambiamenti. Darwin sosteneva che “sopravvive chi si adatta ai cambiamenti”; pur riferendosi agli esseri viventi, sappiamo che lo stesso accade a livello degli ecosistemi (Holling, 1973), la cui resilienza è frutto di tre caratteristiche precipue: diversità, complessità e multifunzionalità. La forza della sopravvivenza di un paesaggio dipende quindi dal progetto di salvaguardia di alti valori di questi tre fattori. Un paesaggio resiliente sarà un paesaggio sostenibile, un ecosistema di fattori antropici ed ecologici in equilibrio, in grado di rispondere in maniera positiva alle molteplici pressioni cui sarà sottoposto. Tale paesaggio resiliente, e sostenibile, 27
si può facilmente identificare nel paesaggio agrario, e in particolar modo in quella tipologia di paesaggio agrario pregno di quei valori sintetizzabili nella parola, a volte fuorviante, ma ancora non facilmente sostituibile, di “culturale” (Andreotti, 1998). Protagonista di numerose ricerche sull’applicazione della capacità resiliente dei territori, il Paesaggio Culturale risulta essere, infatti, un prototipo di complessità, diversità, adattamento e resistenza.
Una tipologia di Paesaggio Resiliente: i Paesaggi Culturali Agricoli UNESCO La scuola accademica europea del paesaggio, a differenza di quella americana che non distingue l’ambiente naturale dal paesaggio e tantomeno dal paesaggio culturale, è conscia del valore di testimonianza storica ed estetica dei suoi territori e del rapporto continuo di forza uomo/ambiente (Andreotti, 1996). Per tale concezione, tutti i paesaggi, che sono il risultato della storia dell’uomo ed immagine della sua impronta, si dicono paesaggi culturali (Salter, 1971). Quindi si parte dal presupposto per cui le popolazioni sono parte integrante della natura e, come tali, danno luogo a forze evolutive trasformative (Taylor, 2002), incidendo segni antropogeni espressioni di tradizioni, di storia, di costumi e di usi, e caratterizzando così individualità paesistiche uniche e talvolta eccezionali (Piccardi, 1986). Il versante istituzionale del Comitato per il Patrimonio dell’Umanità attribuisce ai paesaggi culturali una categoria a sé stante nella lista UNESCO istituita nel 1992, definendoli come “opere miste e combinate di natura ed uomo” (ICOMOS, 2009). La categoria nasce come una delle evoluzioni più importanti della storia della Convenzione UNESCO del 1972 per la protezione del Patrimonio Culturale e Naturale Mondiale, ponendo l’accento, non solo sul declino dell’idea di natura incontaminata e sulla consapevolezza che molti ecosistemi disturbati sono importanti per la conservazione, ma anche su come l’agro-biodiversità sia una risorsa da tutelare tanto quanto la biodiversità selvatica, e come sia inscindibile dall’aspetto immateriale di tradizione e storicità. I Paesaggi Culturali Agrari rappresentano quindi più di tutti una simbiotica combinazione naturale e antropica, di aspetti materiali e immateriali, di complessità e diversità sia biologica che culturale. Si tratta d’incisioni artificiali nel naturale, di segni di civiltà nell’ambiente, riflessi materici di tecniche di uso sostenibile del suolo, portatori di valori di buone linee guida di gestione, patrimoni unici e inestimabili, pregni di una capacità illustrativa di elementi peculiari culturali locali ed identitari. Tali paesaggi identificano il consolidamento culturale di questi luoghi (Andreotti, 1996) e la loro immagine è il risultato di un insieme di relazioni tra un sistema sociale e un contesto territoriale (Marino e Cavallo, 2012). I Paesaggi Culturali Agrari sono un modello di uso del territorio caratterizzato da una corretta gestione e da un rispetto dei limiti e delle caratteristiche delle risorse naturali, in cui la produttività diventa un’identità territoriale e diversità e complessità sono caratteristiche valorizzanti che danno corpo a paesaggi con alte capacità di resilienza e adattamento.
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Figura 2 – Il Paesaggio Culturale vitivinicolo della regione Svizzera di Lavaux, tra Montreux e Losanna, affacciato sul lago di Ginevra e inserito nella lista UNESCO dal 2007. Fonte: Dezio, C.
Una tipologia distintiva di Paesaggi Culturali Agrari sono i Paesaggi Agrari Tradizionali, “in cui è massima l’integrazione tra fattori naturali e azioni antropiche” (Marino e Cavallo, 2012). Si tratta di Paesaggi presenti in un territorio da lungo tempo, stabilizzati o in evoluzione lenta, in cui sono conservate le funzioni ambientali, sociali, economiche e tradizionali (Marino e Cavallo, 2012). Definiti da Antrop (2005) come “strutture distinte e riconoscibili con relazioni tra la composizione e i valori tradizionali”, sono territori caratterizzati da una lunga storia evolutiva che è riflessa attraverso un’integrazione armoniosa di elementi abiotici, biotici, naturali e culturali. Le peculiarità dei Paesaggi Culturali Agrari Tradizionali risiedono nell’isolamento, nella morfologia difficile da meccanizzare (Solymosi, 2011), nella tecnologia limitata, nella piccola scala spaziale, nel basso uso di fertilizzanti, nella ricca biodiversità e nella gestione multifunzionale delle colture (Barbera e Culotta, 2010). Le pratiche agricole tradizionali, dalla coltura promiscua ai terrazzamenti, si sono rivelate essere i sistemi produttivi più sostenibili ecologicamente, non solo per la tutela della biodiversità in un ecosistema antropizzato, ma anche per la protezione dell’ambiente da rischi idrogeologici, frane e processi di desertificazione. Abbiamo già evidenziato come le pressioni della società minacciano i Paesaggi Culturali Agrari rischiando di causarne la scomparsa (Vos e Meekes, 1999). L’abbandono delle terre e l’intensificazione e meccanizzazione dell’agricoltura, con la conseguente intensivizzazione e omologazione dei territori, sono le minacce principali per la perdita della qualità biologica, l’impoverimento del patrimonio culturale e la scomparsa delle identità locali (Antrop, 2005).
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Figura 3 – La regione del Prosecco di Valdobbiadene (TV) che in questo periodo sta formulando il dossier di candidatura per la lista UNESCO. Fonte: Benvegnù, L.
Di fronte a tali minacce nascono necessità progettuali concrete, come l’inventario dei paesaggi agrari culturali, l’integrazione tra le discipline, uno studio a scale spaziali e temporali diverse, la partecipazione della popolazione residente, la valorizzazione della percezione del paesaggio, e un invito a una riflessione sull’interazione quanto mai attuale tra tradizione e modernità. È emblematico, alla luce di queste necessità imminenti, quanto l’ottica sistemica e socioecologica della resilienza e dell’approccio coevolutivo si propongano rispettivamente come metodo progettuale della cultura della sicurezza (e non dell’emergenza) e come chiave di lettura analitico- problematica e della reciprocità uomo-ambiente.
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Agricoltura e turismo Prodotti e mondo rurale tra crisi e rinascita del paesaggio agrario Rossano Pazzagli
Il paesaggio è un tratto identificativo del territorio e della società, prima ancora di divenire una componente essenziale dell’offerta turistica italiana. L’Italia è terra di città, ma è anche spazio composito di uno straordinario paesaggio rurale, quello creato dall’interazione tra natura e agricoltura, che assume forme particolari nei diversi sistemi agrari della penisola, fino a connotati mitici nelle regioni della mezzadria, dove l’alternanza di seminativi, alberi e case coloniche conferisce ai luoghi forme e colori che si integrano in particolari combinazioni. Il paesaggio agrario non è solo oggetto di studio, che sta conoscendo una ritrovata stagione d’impegno pluridisciplinare, ma anche ambito di riflessione sul declino e sul rilancio dell’Italia, fattore essenziale dell’identità dinamica, plurale e fragile del nostro Paese. Le ricerche sul paesaggio quindi possono costituire un contributo alle politiche territoriali, urbanistiche, ambientali ed economiche, le quali devono superare una visione settoriale per trovare proprio nei piani paesaggistici di nuova generazione e nelle normative sul governo del territorio un approccio integrato e collegato al tema costituzionale della partecipazione democratica. Il paesaggio rappresenta un nesso fondamentale tra campagne e turismo, un rapporto che storicamente è addirittura più lungo del turismo prima che emergesse il turismo moderno, segnato dal grand tour, dalle terme e dall’avvento del treno, esperienze come quelle delle ville romane, delle villeggiature rinascimentali o dei viaggi agronomici, hanno messo in relazione il mondo rurale con la città, i ceti contadini con le élite urbane, la pratica agraria e il sapere scientifico. Per questo è necessario adottare un’ottica di lungo periodo per comprendere come il paesaggio agrario diventa anche risorsa turistica e che ruolo gioca l’agricoltura in questo processo di patrimonializzazione della dimensione visibile delle campagne. Fin dall’inizio, almeno a partire dal viaggio in Italia di Michel de Montaigne, il grand tour degli aristocratici europei individuava il Bel Paese come meta privilegiata, ma i grandturisti pensavano soprattutto alle città, alle corti, alle università, alle accademie. Tuttavia questi viaggiatori colti si imbatterono nell’immagine delle campagne italiane, nelle quali le abitazioni dei contadini, le ville dei proprietari e le coltivazioni – specialmente quelle arboree disposte in filari o “maritate” tra di loro – formavano un paesaggio che gradualmente veniva assumendo un significato culturale e politico quasi pari a quello delle città. Dopo la rivalutazione settecentesca del paesaggio, alla quale dette un contributo intellettuale l’opera di J.J. Rousseau, l’Ottocento è il secolo del turismo moderno, figlio dell’industrializzazione e del treno. In questo la sensibilità romantica, già ravvisabile nel Viaggio in Italia di Johann 33
Wolfgang Goethe, valorizza lo spazio rurale tanto nella sua dimensione agraria, quanto richiamandosi al fascino della natura. Il rapporto tra paesaggio e turismo è molto articolato e nel ‘900 diventa ancora più complesso. La storia del turismo si intreccia, per molti aspetti, con la storia delle peggiori trasformazioni del territorio, con il deteriorarsi dei nostri comportamenti nei confronti del paesaggio, naturale e culturale, spazio privilegiato per la sua bellezza, ma sfruttato senza limitazioni, fino a fargli perdere, insieme all’integrità, anche quelle qualità originarie che erano state oggetto del richiamo turistico. È noto il ruolo dell’agricoltura come produttrice di paesaggio. La sensibilità per il paesaggio agrario è aumentata a seguito della questione ambientale esplosa tra gli anni ’60 e ’70 del ‘900, nello stesso periodo in cui la cosiddetta “rivoluzione verde” (mai definizione fu più impropria) determinava un impatto massiccio sulle campagne. Anche Rachel Carson – la biologa americana che con Silent Spring aprì a livello mondiale il filone contemporaneo della letteratura ambientale - accennava alla valorizzazione del paesaggio extraurbano a scopo turistico, per rilevare “la deturpazione dei bordi stradali, un tempo assai belli, ad opera degli erbicidi, i quali, ad una pittoresca flora di felci, fiori selvatici e arbusti adorni di boccioli e di bacche, sostituiscono una vegetazione giallastra e stentata”. Riferisce quanto una signora del New England aveva scritto a un quotidiano: “Stiamo facendo dei margini delle nostre strade un ricettacolo di sozzura di squallore… e questo non è ciò che il turista si aspetta, con tutto il denaro che viene speso in pubblicità per decantare le bellezze del panorama”1. Nell’orizzonte della crisi del mondo contadino, ma anche di quella attuale, di carattere più generale e strutturale, il turismo è croce e delizia delle aree rurali. Il turismo rurale è costituito da varie forme di accoglienza che hanno in comune la caratteristica di mettere a diretto contatto il viaggiatore con l’ambiente e il mondo rurale in tutte le sue valenze: un insieme di attività culturali, ricreative, sportive, gastronomiche. Non parliamo quindi solo dell’agriturismo, ma di varie forme di turismo. Può il turismo essere considerato una delle facce del ritorno alla terra? Il tema di un ritorno alla campagna non nasce oggi. Con la fine degli anni ‘70, a seguito dei guasti provocati dalla rapida urbanizzazione, dal decadere della “qualità” della vita urbana, è iniziato un “ritorno alla campagna” che si è manifestato sostanzialmente in due modi: da parte dei cittadini in un “turismo rurale” o “turismo verde”, e da parte delle istituzioni in un desiderio e in un impegno a recuperare e riqualificare i valori rurali, culturali e della tradizione e della cosiddetta “civiltà contadina”. Nell’ottica dello sviluppo rurale sostenibile, l’agriturismo costituisce uno strumento privilegiato rispetto ad ogni altro tipo di ricettività in campagna in quanto direttamente e strettamente collegato all’attività agricola, essendo definito attività “complementare” ed “integrativa” rispetto a questa. Dal punto di vista del turista, l’agriturismo si presenta oggi, soprattutto nelle campagne prossime alle coste (o in area collinare, montana o lacustre), come una valida alternativa alle caotiche vacanze balneari e alla ricettività in strutture urbane, come uno strumento capace di dare nuova spinta alla gestione complessiva delle risorse paesaggistiche e culturali degli ambienti agricoli collinari e montani interessati da un graduale abbandono. Esso si colloca bene nella fase che il turismo nel suo complesso sta attraversando, cioè quella della transizione dal turismo di massa al turismo dell’esperienza. L’agriturismo è promosso e sostenuto da una apposita legislazione che vuole favorire, insieme alla conservazione e alla tutela dell’ambiente agricolo, il recupero e il miglior utilizzo del patrimonio rurale, naturale ed edilizio, la valorizzazione dei prodotti tipici del luogo, la 1 R. Carson, Primavera silenziosa, Milano, Feltrinelli, 1966, p. 84. 34
tutela delle tradizioni culturali e un più equilibrato rapporto tra città e campagna. Si tratta di una forma che integra agricoltura e turismo, in grado di adattarsi e valorizzare la varietà dei paesaggi rurali d’Italia. Come scriveva Aldo Sestini (e prima di lui una lunga tradizione di scrittori, a partire da Stefano Jacini), “non è facile stabilire quanti siano i paesaggi italiani; anzi, diciamo senz’altro che è impossibile”2. Oltre all’agriturismo, altri strumenti di valorizzazione turistica della campagna e delle zone rurali sono rappresentati dalle strade tematiche, dalle fattorie didattiche e sociali, dalle reti escursionistiche nelle loro varie forme (trekking, bike, equitazione…), dagli ecomusei e dalle aree protette; sono tutti interventi e progetti che richiedono una ritrovata centralità, nelle politiche, del territorio e del ruolo delle istituzioni locali, dai Comuni alle Regioni. Tra i tanti prodotti agricoli che rappresentano una chiave di accesso al turismo rurale, praticamente in tutte le regioni italiane, c’è il vino. Un prodotto come il vino, che può sfruttare la sua notorietà a livello generale, può diventare un elemento significativo per la ridefinizione delle strategie di valorizzazione del paesaggio e più in generale di sviluppo rurale, così come si sono venute definendo anche a livello comunitario intorno alla metà degli anni ’90, dalla conferenza di Cork (1996) alla approvazione di Agenda 2000 da parte della Commissione europea (1997), fino alla nuova Pac. Le bottiglie che circolano su circuiti commerciali integrati, locali e internazionali, assumono, in tal senso, il valore di uno straordinario vettore dei valori paesaggistici delle zone di produzione. Anche una grande associazione nazionale come le “Città del Vino”, fondata a Siena nel 1987, poneva il paesaggio tra i fondamenti della propria azione: “Lo straordinario paesaggio agrario di queste terre – si legge nel Manifesto costitutivo - costruito nei secoli dal lavoro dei vignaioli, lo svilupparsi dei commerci e delle mescite di ristorazione nei centri storici delle antiche città italiane, la crescita del valore e del prestigio di tanti e grandi vini, hanno dato vita ad una cultura unica al mondo, che fa parte della conoscenza, dell’esperienza umana, dei sentimenti, dei gusti di tutti gli italiani e di quanti visitano e amano l’Italia.”3. Non solo vino. Anche altri prodotti rappresentano egregiamente il legame tra paesaggio agrario e turismo. Negli ultimi 25 anni c’è stato un fiorire di nuove associazioni, reti e circuiti sulle tematiche delle produzioni tipiche, del turismo e del territorio. Tale fenomeno sembra evocare quello che nell’ultima parte dell’Ottocento aveva provocato la nascita dell’associazionismo turistico e promozionale e i primi aneliti di tutela ambientale e culturale: dal Club Alpino Italiano (CAI, 1863) al Touring Club Italiano (TCI, 1894). L’8 novembre del 1894 un gruppo di 57 ciclisti fondò a Milano il Touring Club Italiano, la più importante associazione turistica del nostro Paese4. Esso nasceva in realtà come Touring Club Ciclistico Italiano, con l’obiettivo principale di conoscere e promuovere l’Italia attraverso due mezzi simbolo della modernità: la bicicletta e la macchina fotografica. Fin da subito il TCI orientò la sua opera agendo in varie direzioni: dall’abbellimento delle stazioni ferroviarie, ai rimboschimenti, dalla proposta delle prime piste ciclabili alla segnaletica stradale, dalla partecipazione alla fondazione di altre importanti associazioni, come l’Automobile Club d’Italia (ACI) sorta nel 1905, al sistematico impegno editoriale: nel 1895 pubblicava la prima guida turistica, alla quale seguirono gli Annuari generali, mentre nel 1914 e 1916 uscirono la Carta d’Italia, la prima a fini esclusivamente turistici, e i primi volumi della Guida d’Italia, la nota “guida rossa”5; l’anno seguente cominciava le pubblicazioni la rivista mensile “Le Vie d’Italia”. 2 A. Sestini, Il paesaggio, Milano, Touring Club Italiano ,1963, p. 12. 3 R. Pazzagli, Il Buonpaese. Territorio e gusto nell’Italia in declino, Pisa, Felici, 2014. 4 S. Pivato, Il Touring Club Italiano, il Mulino, Bologna 2006. 5 F. Ghersi, La signora in rosso. Un secolo di guide del Touring Club Italiano, a cura di M. Gatta, Macerata, Biblohaus, 2012. 35
Dopo le Città del vino (1987), sempre per iniziativa dei Comuni, nel corso degli anni ’90 del ‘900 sono nate altre associazioni nazionali promosse da Comuni intorno ad altrettanti prodotti caratteristici: si comincia con l’Associazione Città del tartufo, fondata a Alba nel 1990, e si prosegue con le Città dell’olio creata a Larino, in Molise, nel 1994. Nascono poi le Città del pane con sede a Altopascio, in provincia di Lucca, le Città dei paesi dipinti, promossa dall’APT del Varesotto nel 1994, e le Città della ceramica la cui associazione è istituita nel 1999. Nel 1998 era stata intanto costituita, partendo da Taranto, l’associazione nazionale delle Città del pesce di mare. Tra il 1998 e il 1999 vedevano la luce anche l’associazione Città del castagno e quella delle Città slow, una nuova associazione che si dette come sottotitolo “Rete internazionale delle città del buon vivere”. Ma è soprattutto nel decennio successivo, il primo del nuovo secolo, che l’impeto associativo conosce un ulteriore slancio, mosso da una aspirazione identitaria che da leggere come chiaro sintomo di una crisi di identità delle comunità locali, come reazione quasi disperata allo smarrimento della sbornia globale e delle sue contraddizioni, senza mai tralasciare un esplicito richiamo al paesaggio e al ruolo dei municipi: nel 2001 nasce il Club dei Borghi più belli, promosso dalla Consulta sul Turismo dell’Anci (l’associazione storica dei Comuni d’Italia), mentre il TCI aveva lanciato nel 1998 l’iniziativa della Bandiera arancione, cioè un marchio di qualità per i centri storici dell’entroterra; come conseguenza di questo progetto viene creata a Dolceacqua (Vt) nel 2002 l’associazione dei Paesi bandiera arancione. Nel 2002 viene fondata l’associazione Città del miele, nel 2003 le Città delle ciliegie, nel 2004 le Città della mela anurca partita da San Mango, in Piemonte, e le Città della nocciola, nel 2005 le Città della Chianina. Sul fronte artigianale, artistico e folclorico erano intanto nate le associazioni delle Città della terra cruda, che dal 2001 riunisce comuni della Sardegna, dell’Abruzzo e delle Marche, dei Borghi autentici nel 2002 e delle Città dell’infiorata promossa da alcuni comuni laziali nel 2005. Sempre nel 2002, intanto, con un atto notarile stipulato presso il Ministero per i Beni e le Attività Culturali era stata costituita l’associazione onlus Città dei sapori, partecipata dallo stesso Mibac, dall’Università di Perugia e da un centinaio di Comuni. Nel 2004 nasceva anche l’associazione delle Città del Bio, che superava l’identificazione con un prodotto specifico per mettere in valore il tema della qualità e della coltivazione e della trasformazione di vari prodotti secondo le metodologie dell’agricoltura biologica. A seguire si registra la comparsa delle Città della lenticchia (2008), delle Città del tabacco (2008), delle Città della bufala (2009), delle Città dei liquori e degli spiriti (2009), delle Città del riso (2010) delle Città delle grotte (2010). Oggi tutte queste associazioni, imperniate su prodotti, municipi e paesaggio, sono confederate nell’Associazione Res Tipica, un progetto partito nel 2003 per la promozione delle identità territoriali italiane e per salvaguardare il patrimonio ambientale, culturale, turistico ed enogastronomico dei Comuni piccoli e medi dell’Italia, valorizzando paesaggi, saperi e sapori. Res Tipica riunisce 27 Associazioni di identità, 40 Province, 51 Comunità Montane, 11 Camere di Commercio, 3 Unioni di Comuni, 8 Enti Parco ed 8 Strade del Vino, per un totale di 1968 Enti locali. Lo stesso impegno è stato rivolto verso un processo di internazionalizzazione delle forme associative di tipo identitario e di prodotto. È il caso di Recevin - Rete Europea delle Città del Vino - nata nel 1998 con sede a Strasburgo, finalizzata all’obiettivo principale di migliorare la qualità della vita nelle città europee a vocazione vinicola. Recevin associa circa 100 Città del Vino in tutta Europa (di cui 31 in Italia), coinvolgendo nella rete molti paesi oltre all’Italia, tra cui Spagna, Francia, Germania, Slovenia, Grecia, Ungheria e Portogallo. La direzione di Recevin di concerto con l’Associazione Nazionale Città del Vino ha proclamato il 2008 36
Anno Europeo dell’Enoturismo, ha promosso stage Internazionali per giovani viticoltori e rappresenta uno strumento chiave per rivendicare una legislazione europea in materia di enoturismo e strade del vino. “Il vino è componente essenziale dell’offerta turistica italiana: i visitatori apprezzano i vini italiani, li vivono lietamente, ne sanno apprezzare i valori di civiltà…” Con questa frase il giornalista piemontese Elio Archimede apriva la sua relazione al convegno “Turismo e vino” che l’Ente Nazionale Vini organizzò a Siena il 5 aprile 1986, una sorta di preludio alla fondazione dell’Associazione Città del Vino. A distanza di quasi trent’anni possiamo dire che il turismo del vino (o meglio il turismo enogastronomico) rappresenta per tutte le regioni italiane una buona opportunità economica e ancor più una occasione per rileggere il territorio. Il vino costituisce dunque uno strumento privilegiato di comunicazione e promozione per il turismo in ambito rurale, come dimostrano tra le altre le ricerche svolte ormai da molti anni da Magda Antonioli Corigliano6. La domanda enoturistica presenta tra i suoi tratti salienti un’ottima combinazione tra turisti italiani e stranieri, un interessante profilo socio economico del turista del vino e una significativa articolazione stagionale. Turismo del vino significa degustazione e acquisti di vino direttamente “in fattoria”, entrare in contatto con gusti e profumi che riflettono i terreni, le varietà di vite, il clima e – in una parola – il paesaggio. Sul turismo del vino sono stati condotti, negli ultimi anni diversi studi a cura soprattutto dell’Osservatorio sul Turismo del Vino, promosso dalla Associazione Nazionale Città del Vino. Il lavoro dell’Osservatorio, iniziato nel 1999, ci dice che negli ultimi 12 anni si è assistito ad una rapida evoluzione del fenomeno, con 3 milioni di italiani che hanno vissuto almeno un’esperienza di turismo enogastronomico e 5.5 milioni quelli che prevedevano di realizzarla nel 20117. Sarebbero oltre sei milioni i turisti del vino, con diversi livelli di interesse e di disponibilità alla spesa per la degustazione e l’acquisto diretto di vini presso le aziende vitivinicole. I rapporti annuali sul turismo del vino, dal primo realizzato in collaborazione con il Dipartimento di Scienze Statistiche dell’Università di Bologna ai successivi redatti da Censis Servizi spa, fino all’ultimo pubblicato nel 2012, indicano che la risposta alla crescente domanda di enoturismo è indiscutibilmente più organizzata e ragionata rispetto a dieci anni fa, a conferma che il turismo enogastronomico continua a rappresentare una straordinaria opportunità per i territori locali, anche se si stima che finora esso abbia sviluppato non più del 20% del suo potenziale, continuando a rappresentare quindi una straordinaria opportunità. In questo ha giocato un ruolo fondamentale la comunicazione attraverso forme evolute del web, ma soprattutto la capacità di molti territori di saper organizzare un’offerta e di utilizzare gli strumenti a disposizione nell’ottica di un rinnovato concetto di “service territoriale”. È Fabio Taiti a ricordarci come nell’ultimo decennio sia cambiato il modo di fare turismo, con l’affermazione di nuove tendenze: le vacanze brevi del week-end, i turismi di nicchia contrapposti al turismo di massa, forme di destagionalizzazione e altre tipologie che nell’insieme sembrano collocare alla base delle motivazioni e delle scelte dei turisti alcuni nuovi paradigmi. Tra questi rivestono sempre più peso la vocazione ambientalista e naturalista, il fare esperienze innovative di luoghi e di contesto, la volontà di combinare i fattori d’offerta per costruirsi un originale palinsesto di occasioni, eventi, incontri8. È proprio in uno 6 M. Antonioli Corigliano, Enoturismo. Caratteristiche della domanda, strategie di offerta e aspetti territoriali e ambientali, Milano, Franco Angeli, 1996. 7 IX Rapporto annuale dell’Osservatorio del turismo del vino: I nuovi dinamismi di un territorio di tendenza, a cura di F. Taiti, Città del vino - Censis servizi, 2011. 8 IX Rapporto annuale dell’Osservatorio del turismo del vino, parte I: La nuova mappa dell’offerta, a cura di F. Taiti, Città del vino - Censis servizi, 2012. 37
scenario del genere che si è andato prima sviluppando e poi segmentando il turismo del vino e della gastronomia con un panorama di soggetti d’offerta sempre più ampio (forse troppo) e ramificato, tale da metterci in guardia dal rischio della cosiddetta “coriandolizzazione”, alla quale è possibile rispondere con adeguiate politiche di area, sovracomunali o regionali. Uno strumento essenziale in grado di collegare al meglio paesaggio, turismo enogastronomico e turismo territoriale è rappresentato dalle strade del vino. Si tratta di un sistema di offerta turistica che integra in un unico percorso o itinerario cantine aperte al pubblico, vigneti, borghi, musei, monumenti, paesaggi, attrattive naturalistiche e sportive, esercizi ricettivi, ristoranti tipici e quant’altro concerne le risorse turistiche, con lo scopo di accrescere il flusso dei visitatori alle aree vitivinicole. La progettazione di una strada del vino richiede una analisi complessa e multidisciplinare, anche se occorre rispettare innanzitutto quattro requisiti principali: la qualità, la specificità del vino, la notorietà, le caratteristiche territoriali9. Una strada del vino si può istituire nell’ambito della legge dello Stato (L. 27 luglio 1999, n. 269) e delle rispettive leggi regionali. Le prime strade del vino sono sorte spontaneamente, prima che fossero varate leggi specifiche di riferimento, e realizzate a partire dalla metà degli anni ’70, come quella promossa dall’Agriturist Friuli Venezia Giulia (Strada del Vino nel Collio, Strada del Merlot). L’associazione Città del Vino si è impegnata molto nel processo di progettazione, promozione e organizzazione delle strade del vino, come dimostra la pubblicazione nel 1997 di un piccolo e pionieristico manuale per l’istituzione di una strada del vino10, seguita nel tempo da altre iniziative editoriali fino alla corposa “Guida alle strade del vino e dei sapori” curata da Iole Piscolla nel 2008, un grande mosaico di luoghi, prodotti e culture presenti nel territorio italiano11. Alla fine del 2009 esistevano in Italia 154 strade del vino, alcune delle quali, secondo il “Rapporto annuale sul Turismo del Vino” elaborato dalla Associazione Città del Vino e dal Censis, già ben organizzate (15%), altre in via di buona organizzazione (6%), altre ancora in fase di avviamento (30%), e le restanti non operative. Nel loro insieme le strade del vino in Italia interessano circa 1450 comuni, oltre 400 denominazioni di vino, e 3300 aziende agricole, con un potenziale di sviluppo economico e organizzativo ancora notevole. Sempre secondo il citato Rapporto, le strade del vino italiane avrebbero mosso nel 2009 un fatturato di circa due milioni e mezzo di euro. Si può affermare, in definitiva, che nelle regioni italiane il turismo enogastronomico è un cantiere aperto e ricco di potenzialità che, soprattutto nelle regioni del Sud, devono ancora esprimersi compiutamente. Una maggiore organizzazione ed integrazione dell’offerta appare necessaria per rispondere alle nuove tendenze della domanda turistica, che ha visto sorgere tra l’altro nuove figure di turisti, come quella del gastronauta, un neologismo coniato nell’ultimo decennio per indicare l’indole di una persona per la ricerca e la scoperta gastronomica12. Amante del viaggio, il gastronauta, oltre ad essere attratto dal mondo del cibo, è animato dal desiderio della convivialità, nonché da un interesse culturale che ricerca, dietro ad ogni prodotto, tradizioni folcloristiche, storiche e geografiche, in quanto il paesaggio è qualcosa di metaforico, frutto di una cultura collettiva che produce valori simbolici. In tale prospettiva è necessario che aziende e istituzioni, pubblico e privato, si incontrino nelle forme più appropriate per coniugare impresa economica, qualità e promozione territoriale 9 D. Cinelli Colombini, Manuale del turismo del vino, Milano, FrancoAngeli, 2003, p. 65; C. Bolognesi, Manuale del turismo enogastronomico culturale, Ci.Vin Editore, 2010. 10 In che strada siamo? Vademecum per la corretta istituzione di una strada del vino, Siena, Associazione Nazionale Città del Vino, 1997. 11 I. Piscolla, Arkevino. Guida alle Strade del vino e dei sapori d’Italia, Ci.Vin Editore, 2008. 12 D. Paolini, Il mestiere del gastronauta, Milano, Sperling & Kupfer, 2005. 38
in un connubio indissolubile nel quale la storia e le tradizioni profonde di una regione possano incontrarsi con l’innovazione e la fiducia nel futuro. Lo scopo deve essere quello di costruire un sistema integrato e coordinato fra imprese attraverso la condivisione di un disciplinare qualitativo comune, sviluppando un’azione congiunta di tipo territoriale per valorizzare e promuovere l’offerta turistica, agroalimentare ed enogastronomica tipica del territorio. Il profilo storico di questo insieme di risorse, accumulato essenzialmente nel tempo lungo della civiltà agricola e pastorale, risulta essenziale per coglierne appieno le potenzialità turistiche e le possibilità della sua patrimonializzazione anche in chiave economica oltre che culturale. Non solo la ricostruzione dell’origine e delle trasformazioni dei piatti tipici e delle abitudini alimentari della popolazione, ma anche una storia dell’ambiente e della natura (quindi del paesaggio, e specialmente del paesaggio agrario) come ad esempio la conoscenza delle varietà autoctone di piante e colture, può essere un fertile terreno di lavoro in cui coniugare ricerca, tutela e valorizzazione al fine di favorire così una più avanzata pianificazione e una cura degli aspetti ambientali e culturali. Sono necessarie, dunque, riflessioni sul governo del territorio e sul turismo, su quali forme privilegiare e su quali segmenti della ricettività insistere al fine di promuovere un turismo a misura d’uomo, che eviti il consumo irreversibile delle risorse e favorisca l’incontro con l’ambiente e la vita locale. Azioni come l’integrazione settoriale, l’allungamento della stagione, un mercato del lavoro più qualificato e meno precario e l’accoglienza del turista in un ambiente di qualità, sperimentando su scala locale la formula del learning and pleasure che rappresenta lo spirito originario nella storia del turismo, divengono in questa ottica strategia di base per una ricollocazione del turismo entro gli orizzonti della sostenibilità. Nel turismo le risorse sono innanzitutto il patrimonio naturale e quello culturale, dei quali il paesaggio sintetizza in sommo grado il valore, frutto del processo storico basato sull’incontro complesso e incessante tra uomo e natura, dove entrambi gli elementi sono da considerare finalmente soggetti attivi e non l’uno dominante sull’altra. Si tratta di una prospettiva che necessita quindi di politiche coordinate di conoscenza, tutela e valorizzazione del patrimonio, rispettando l’ordine consequenziale dei termini ed evitando improvvise quanto frequenti valorizzazioni senza tutela o tutele senza conoscenza. Ciò implica un consistente ripensamento e riorganizzazione dell’offerta turistica. Ma richiede anche di interrogarci sulla domanda, in particolare sul mutamento della domanda turistica, che sembra andare – come già accennato nella direzione di un turismo esperienziale, cioè verso un approccio con le realtà visitate più attento alla qualità della vita, ai comportamenti, alle tradizioni, alle diversità ambientali e culturali, alle specifiche identità nelle quali immergersi per qualche giorno o per qualche settimana. Si tratta di un mutamento che può ridare valore e attrattività a tutte quelle realtà – regioni o territori locali – ingiustamente marginalizzate dallo sviluppo del turismo di massa, dalla industrializzazione e dalla eccessiva specializzazione del settore turistico. Il turismo rurale può giocare un ruolo significativo anche per le politiche di coesione a livello italiano ed europeo, tese al superamento delle disuguaglianze socioeconomiche tra e all’interno delle regioni, nell’ambito di quella che è stata definita la riemersione del modello contadino13. Se considerati in questa ottica, l’agricoltura, l’ambiente e il turismo non sono antitesi, ma componenti fondamentali per il futuro del mondo rurale italiano.
13 J.D. Van der Ploeg, I nuovi contadini. Le campagne e le risposte alla globalizzazione, Roma, Donzelli, 2009. 39
Trasformazioni territoriali recenti ed effetti sugli ecosistemi e sul paesaggio italiano
Lorenzo Sallustio, Matteo Vizzarri, Marco Marchetti
Un inquadramento globale sui cambiamenti d’uso e copertura del suolo (LUCC) Le caratteristiche del paesaggio sono legate all’eterogeneità ambientale e funzionale di natura, agricoltura, insediamenti e attività antropiche, in grado, col loro fraseggio territoriale, di originare mosaici peculiari e mutevoli nel tempo. Tale considerazione è riscontrabile nelle stesse definizioni di paesaggio per cui esso rappresenta l’“elemento costitutivo dell’ambiente, cioè l’insieme di elementi naturali e interventi umani che conferisce ai luoghi una particolare identità o immagine”1. Nelle scienze naturali si è storicamente fatto sempre riferimento al concetto di Bioma quale unità omogenea dal punto di vista vegetazionale e morfologico, per l’analisi delle caratteristiche e funzioni dei sistemi naturali. Recentemente, diversi studi hanno dimostrato come questo concetto sia in realtà limitante per la comprensione dei processi ecosistemici e dell’impatto che l’uomo ha su di essi. Tale ridefinizione è necessaria in virtù del fatto che più del 75% delle terre emerse mostrano alterazioni forti per effetto della presenza dell’uomo, con meno di un quarto rimanenti come territori “wild”, in grado di supportare solo l’11% della produttività primaria netta terrestre2. Al fine di comprendere meglio le interazioni tra uomo ed ecosistema, è stato ulteriormente sviluppato il concetto dei biomi antropogenici, o anthromes3, dando quindi rilievo all’intervento antropico come fattore di modificazione4 e inserendo una prima discriminazione sostanziale tra used lands, date dalla somma di superfici agricole, pastorali e urbane, e unused lands (fig. 1).
1 R. Pazzagli, Paesaggio, politica e democrazia, in Il paesaggio della Toscana tra storia e tutela, ETS, Pisa, 2008, pp. 9-20. 2 E.C. Ellis, N. Ramankutty, Putting people in the map: anthropogenic biomes of the world. Frontiers in Ecology and the Environment, 2008, 6 (8): 439-447. 3 E.C. Ellis, K. Klein Goldewijk, S. Siebert, D. Lightman, N. Ramankutty, Anthropogenic transformation of the biomes. 1700 to 2000. Global Ecol. Biogeogr, 2010, 19: 589 -606. 4 L. Alessa, F.S. Chapin III, Anthropogenic biomes: a key contribution to earth-system science. Trends in Ecology and Evolution, 2008, 23: 529–531. 41
Fig. 1- Mappa delle used ed unused lands a scala globale e schema delle implicazioni ecologiche per livelli crescenti di antropizzazione (5).
L’aumento della domanda di beni, direttamente collegata all’aumento della pressione demografica, nel tardo Olocene ha rappresentato uno dei principali motivi alla base delle migrazioni di tribù e civiltà verso nuovi territori vergini e produttivi in grado di soddisfare i crescenti fabbisogni. Tali spazi, tuttavia, sono andati via via riducendosi e al precedente fenomeno di “estensivizzazione” è succeduto quello dell’“intensificazione”, in particolar modo delle pratiche agricole, che ha permesso di incrementare notevolmente la produttività unitaria6. A differenza della teoria malthusiana7 che vedeva nella limitatezza di risorse il principale limite allo sviluppo, Boserup8 è riuscito a dimostrare come in realtà l’aumento della domanda di beni funga da innesco a processi di intensificazione che incrementano la produttività delle risorse primarie, configurandosi quindi come risposta adattativa alle esigenze demografiche, sociali ed economiche in un determinato periodo. Tali dinamiche sono ben visibili osservando il Modello generale dell’intensificazione9 (fig. 2). 5 E.C. Ellis, Sustaining biodiversity and people in the world’s anthropogenic biomes. Current Opinion in Environmental Sustainability, 2013, 5: 368-372. 6 P.A. Matson, W.J. Parton, A.G. Power, M.J. Swift, Agricultural intensification and ecosystem properties. Science, 1997, 277 (5325): 504- 509. 7 Malthus T.R. (1798)- An Essay on the Principle of Population, as it Affects the Future Improvement of Society, with Remarks on the Speculations of Mr Godwin, M. Condorcet, and other writers. London, J. Johnson, pp 3–143. 8 E. Boserup, Population and Technological Change: A Study of Long Term Trends, University of Chicago Press, Chicago, 1981, pp 255. 9 E. Ellis, J.O. Kaplan, D.Q. Fuller, S. Vavrus, K.K. Goldewijk, P.H. Verburg, Used planet: A global history. PNAS, 2013, 110 (20): 7978- 7985. 42
Fig. 2- Schematizzazione del modello generale dell’intensificazione. Ad una prima fase di intensificazione, in cui le nuove tecnologie fanno sì che la produttività aumenti più velocemente della popolazione, segue l’involuzione, in cui l’aumento della produttività legato all’utilizzo di nuove tecnologie termina. Ulteriori successivi incrementi sono possibili unicamente aumentando gli input in termini di lavoro o risorse (Geertz, 1963). Il ciclo si conclude con una fase di crisi, in cui è impossibile aumentare la produttività e di conseguenza la produzione non è in grado di sostenere l’aumento demografico o dei bisogni in genere (Ellis et al., 2013).
Intensificazione relativa ai processi agricoli e industrializzazione sono i principali drivers della concentrazione della popolazione nei centri urbani, basti pensare che nel 1800 solo il 7% della popolazione vi risiedeva, passando al 16% nel 1900 e superando il 50% nel 200010. Lo sviluppo dei sistemi urbani ha prodotto un aumento del reddito medio della popolazione ed una serie di benefici sociali11 che a loro volta fungono da drivers per la migrazione dalla campagna alla città, con conseguente ulteriore crescita di quest’ultima12. Al processo di urbanizzazione e di intensificazione dell’uso delle risorse nei territori più produttivi si contrappone il progressivo spopolamento delle aree rurali, favorendo fenomeni di ricolonizzazione da parte del bosco13. È chiaro come i processi socio- economici quindi rivestano un ruolo chiave nelle modificazioni degli ecosistemi, dei processi funzionali e dei servizi ecosistemici ad essi riconducibili e in grado di influenzare in maniera più o meno diretta il benessere umano. 10 K.K. Goldewijk, A. Beusen, P. Janssen, Long-term dynamic modeling of global population and builtup area in a spatially explicit way: HYDE 3.1. Holocene, 2010, 20 (4): 565- 573 11 L.M.A. Bettencourt, J. Lobo, D. Helbing, C. Kühnert, G.B. West, Growth, innovation, scaling, and the pace of life in cities. Proc Natl Acad Sci USA, 2007, 104 (17):7301- 7306. E. Glaeser, Cities, productivity, and quality of life. Science, 2011, 333 (6042): 592- 594. 12 J.J. Dethier, A. Effenberger, Agriculture and development: A brief review of the literature. Econ Syst, 2012, 36 (2): 175–205. C.L. Redman, N.S. Jones, The environmental, social, and health dimensions of urban expansion. Popul Environ, 2005, 26 (6): 505- 520. 13 D.R. Foster, G. Motzkin, B. Slater, Land-use history as long term broad-scale disturbance: Regional forest dynamics in central New England. Ecosystems, 1998, 1 (1): 96- 119. T.K. Rudel, L. Schneider, M. Uriarte, B.L. Turner, R. DeFries, D. Lawrence, J. Geoghegan, S. Hecht, A. Ickowitz, E.F. Lambin, T. Birkenholtz, S. Baptista, R. Grau, Agricultural intensification and changes in cultivated areas, 1970–2005. Proceedings of the National Academy of Sciences, 2009, 106 (49):2067520680. P. Meyfroidt, E.F. Lambin, Global forest transition: Prospects for an end to deforestation. Annu Rev Environ Resour, 2011, 36 (1): 343- 371. 43
Cambiamento d’uso e copertura del suolo e Servizi Ecosistemici (SE) I SE rappresentano le condizioni e i processi attraverso cui gli ecosistemi naturali e le specie che li costituiscono, sostengono la vita dell’uomo e ne favoriscono il benessere14. Recentemente, i SE sono stati classificati a scala globale15, e sono stati progressivamente definiti, valutati e spazializzati 16. Con il Millennium Ecosystem Assessment 17, e successivamente con il programma The Economics of Ecosystems and Biodiversity18, la tematica dei SE ha fatto il suo ingresso nei contesti politici, sociali e scientifici. Per la prima volta a scala globale, MA ha predisposto una classificazione condivisa dei SE, suddividendoli in grandi raggruppamenti: (a) approvvigionamento (disponibilità di cibo, acqua potabile, fibra o altro materiale grezzo, materiale genetico, prodotti curativi e medicinali); (b) regolazione (miglioramento della qualità dell’aria, mitigazione dei cambiamenti climatici e degli eventi naturali catastrofici, formazione del suolo e rigenerazione, assimilazione del materiale di scarto); (c) supporto (conservazione degli habitat naturali, protezione del pool genetico e della funzionalità ecosistemica); (d) culturali, estetici e ricreativi (opportunità per il turismo e le attività ricreative, inspirazione artistica, culturale e religiosa). Molti dei SE sopra descritti sono fondamentali per la nostra esistenza (come ad es. la mitigazione del clima, la purificazione dell’aria, l’impollinazione delle colture erbacee), mentre altri la valorizzano (l’estetica o gli aspetti culturali e ricreativi)19. Ma il benessere dell’uomo, includendo le sue necessità vitali, è stato, e continua ad essere soddisfatto a spese dell’uso del suolo, del clima, dei cicli biogeochimici e della distribuzione delle specie animali e vegetali20. Specialmente negli ultimi 50 anni, a livello globale l’uomo ha modificato drasticamente la copertura del suolo, aumentando le superfici agricole21 e urbanizzate22, 14 G.C. Daily, Nature’s services: societal dependence on natural ecosystems. Island Press, Washington DC, 1997, 392. 15 R. Costanza, R. d’Arge, R. de Groot, S. Farber, M. Grasso, B. Hannon, K. Limburg, S. Naeem, R.V. O’Neill, J. Paruelo, R.G. Raskin, P. Sutton, M. van den Belt, The value of the world’s ecosystem services and natural capital. Nature, 1997, 387 (6630): 253- 260. R.S. de Groot, M.A. Wilson, R.M.J. Boumans, A typology for the classification, description and valuation of ecosystem functions, goods and services. Ecological Economics, 2002, 41 (3): 393- 408. doi: http:// dx.doi.org/10.1016/S0921-8009(02)00089-7. C. Kremen, Managing ecosystem services: what do we need to know about their ecology? Ecology Letters, 2005, 8 (5): 468- 479. doi:10.1111/j.1461-0248.2005.00751.x. G.W. Luck, R. Harrington, P.A. Harrison, C. Kremen, P.M. Berry, R. Bugter, T.P. Dawson, F. de Bello, S. Díaz, C.K. Feld, J.R. Haslett, D. Hering, A. Kontogianni, S. Lavorel, M. Rounsevell, M.J. Samways, L. Sandin, J. Settele, M.T. Sykes, S. van den Hove, Vandewalle M., Zobel M., Quantifying the Contribution of Organisms to the Provision of Ecosystem Services. BioScience, 2009, 59 (3): 223- 235. 16 R.S. de Groot, R. Alkemade, L. Braat, L. Hein, L. Willemen, Challenges in integrating the concept of ecosystem services and values in landscape planning, management and decision making. Ecological Complexity, 2010, 7 (3): 260- 272. doi: http://dx.doi.org/10.1016/j.ecocom.2009.10.006 17 MA, Millennium Ecosystem Assessment, Ecosystems and human well-being: current state and trends. Island Press, Washington DC, 2005, p. 23 18 P. Kumar, The economics of ecosystems and biodiversity. London, UK: Earthscan, 2010. 19 C. Kremen, op. cit. 20 MA, Millennium Ecosystem Assessment, op. cit., p. X. 21 H.M. Pereira, L.M. Navarro, I.S. Martins, Global Biodiversity Change: The Bad, the Good, and the Unknown. Annual Review of Environment and Resources, 2012, 37 (1): 25- 50. doi:10.1146/annurevenviron-042911-093511. 22 K.C. Seto, B. Güneralp, L.R. Hutyra, Global forecasts of urban expansion to 2030 and direct impacts on biodiversity and carbon pools. Proceedings of the National Academy of Sciences, 2012, 109 (40): 16083- 16088. doi:10.1073/pnas.1211658109. 44
ed alterandone lo status attraverso processi di degradazione, intensificazione dell’uso23, frammentazione24 e ripristino della vegetazione25. Tali modificazioni costituiscono le cause principali di alterazione delle strutture e funzioni degli ecosistemi e della capacità degli stessi di sostenere la fornitura dei servizi26. La figura 3 evidenzia in senso generale come la disponibilità di SE si riduca notevolmente all’aumentare dell’intensità dell’uso del suolo.
Fig. 3: Relazioni ipotetiche fra intensità d’uso del suolo, indice di abbondanza specifica media (Mean Species Abundance, MSA) ed altri SE (27).
Il principale fattore che determina le dinamiche di trasformazione del paesaggio e dei suoi processi di funzionamento è dunque l’uso del suolo, le cui modifiche alterano la fisionomia della copertura biofisica del suolo e influenzano lo svolgersi degli effetti ecologici intorno ai cambiamenti di stato degli ecosistemi e dei sistemi antropogenici. I dati disponibili per quantificare il Land Use and land Cover Change– LUCC, sono diversi sia a livello europeo che nazionale. Una prima differenziazione va fatta sulla tipologia del dato, potendo far riferimento a dati di tipo cartografico-vettoriale, come nel caso del programma Corine Land Cover (CLC) promosso dall’European Environment Agency (EEA), o di tipo inventariale-discreto come nel caso di LUCAS, promosso dall’Ufficio Statistico dell’Unione Europea (EUROSTAT). Entrambi gli approcci possiedono dei punti di forza e di debolezza. Nel caso dell’approccio inventariale, ad esempio, tra i punti di forza si possono menzionare la maggiore rapidità di realizzazione ed aggiornamento, che si traducono in una maggiore economicità del dato, e la possibilità di utilizzare un approccio prettamente statistico per la produzione di indicatori di cui siano note anche l’accuratezza ed affidabilità. 23 D. Lindenmayer, S. Cunningham, A. Young, Land use intensification: effects on agriculture, biodiversity and ecological processes. CSIRO Publishing Collingwood, Australia, , 2012, p. 156. 24 C.S. Mantyka-pringle, T.G. Martin, J.R. Rhodes, Interactions between climate and habitat loss effects on biodiversity: a systematic review and meta-analysis. Global Change Biology, 2012, 18 (4): 1239- 1252. doi:10.1111/j.1365-2486.2011.02593.x. 25 P. Meyfroidt, Rudel, E.F. Lambin, Forest transitions, trade, and the global displacement of land use. Proceedings of the National Academy of Sciences, 2010 ,107 (49): 20917- 20922. doi:10.1073/ pnas.1014773107. 26 G.M. Mace, K. Norris, A.H. Fitter, Biodiversity and ecosystem services: a multilayered relationship. Trends in Ecology & Evolution, 2012, 27 (1): 19- 26. doi: http://dx.doi.org/10.1016/j.tree.2011.08.006 . 27 L. Braat, P. ten Brink, The cost of policy inaction: the case of not meeting the 2010 biodiversity target. Study for the European Commission, DG Environment. Wageningen: Alterra report, 2008, 1718. 45
Di contro, l’approccio cartografico permette di avere la precisa localizzazione spaziale dei fenomeni e meglio si presta all’utilizzo semplificato nell’ambito di operazioni di modellistica dei fenomeni. Gli strumenti sia di tipo cartografico che inventariale attualmente disponibili a livello europeo, nazionale e regionale sono molteplici, ciascuno caratterizzato da metodologie, finalità, accuratezza e dettaglio tematico peculiari28 . I risultati della ricerca presentati in questo lavoro sono stati ottenuti utilizzando come strumento di analisi l’Inventario dell’Uso delle Terre in Italia (IUTI). Promosso dal Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare nell’ambito del Piano Straordinario di Telerilevamento Ambientale (PST-A), IUTI ha lo specifico compito di inventariare il territorio nazionale secondo categorie di uso delle terre rispetto a tre date di riferimento (1990, 2008 e 2012), in modo da poter poi stimare le superfici eleggibili secondo gli articoli 3.3 e 3.4 del Protocollo di Kyoto. IUTI si basa sull’attribuzione della classe d’uso del suolo a circa 1.206.000 punti di campionamento, mediante interpretazione di immagini ortofotografiche ed ha il vantaggio di poter rappresentare una possibile base di riferimento per approfondimenti tematici, come avvenuto ad esempio nel caso dell’Inventario Nazionale delle Foreste e dei Serbatoi di Carbonio29 30. I punti di sondaggio sono localizzati secondo uno schema di campionamento sistematico non allineato31. Il punto di sondaggio è posizionato in modo casuale all’interno di una maglia a celle quadrate di 0,5 km di lato. Il sistema di classificazione gerarchico utilizzato si basa sulle 6 categorie d’uso delle terre definite per GPGLULUCF (Good Practice Guidance for Land Use, Land Use Change and Forestry)32, integrata con sottocategorie di secondo e terzo livello, per un totale di 9 classi (tab. 1). Per ulteriori approfondimenti metodologici si rimanda a Marchetti et al.(2012)33 e Corona et al. ( 2012)34. 28 B. Romano, F. Zullo, Models of Urban Land Use in Europe: assessment tools and criticalities. International Journal of Agricultural and Environmental Information Systems, 2013, 4 (3): 1-17. M. Munafò, L. Salvati, M. Zitti, Estimating soil sealing rate at national level- Italy as a case study. Ecological Indicators, 2013, 26: 137-140. G. Pulighe, F. Lupia, S. Vanino, F. Altobelli, M. Munafò, S. Cruciani, Analisi dello stato dell’arte delle fonti informative di uso e copertura del suolo prodotte in Italia. Geomedia, 2013, 17 (22): 32-35. URL: http://www.mediageo.it/ojs/index.php/GEOmedia/article/view/272. M. Marchetti, R. Bertani, P. Corona, R. Valentini, Cambiamenti di copertura forestale e dell’uso del suolo nell’inventario dell’uso delle terre in Italia. Forest@, 2012, 9 (1): 170- 184. L. Salvati, M. Munafò, V. Gargiulo Morelli, A. Sabbi, Low-density settlements and land use changes in a Mediterranean urban region. Landscape and Urban Planning, 2012, 105: 43- 52. L. Martino, M. Fritz, New insight into land cover and land use in Europe - Land Use/Cover Area frame statistical Survey: methodology and tools. EUROSTAT, Statistics in focus 33, 2008, pp. 8. 29 F. De Natale, La prima fase del campionamento inventariale, procedure e risultati. In: Atti del Convegno “Incontro con le Amministrazioni Regionali. Obiettivi, metodologie e stato di avanzamento del progetto INFC”. Roma, 9 novembre 2004. Ministero delle Politiche Agricole e Forestali, Corpo Forestale dello Stato, INFC. URL: http://www.isafa.it/scientifica/pubblicazioni/pu_infc/Present. html#FLO 30 G. Chirici, S. Winter, R.E. McRoberts, National forest inventories: contributions to forest biodiversity assessment. Springer, Dordrecht, Heidelberg, London, New York, 2011 p. 224. 31 L. Barabesi, S. Franceschi, Sampling properties of spatial total estimators under tessellation stratified designs. Environmetrics, 2011, 22: 271- 278. - doi: 10.1002/env.1046 32 J. Penman, M. Gytarsky, T. Hiraushi, T. Krug, D. Kruger, R. Pipatti, L. Buendia, K. Miwa, K.T. Ngara, Tanabe, F. Wagner, LUCF Sector good practice guidance - Chapter 3: Annex 3A.1 Biomass Default Tables for Section 3.2 Forest land good practice guidance for land use. land-use change and forestry. The institute for global environmental strategies for the IPCC and the intergovernmental panel on climate change, Hayama, Kanagawa, Japan, 2003, pp. 21. 33 M. Marchetti, R. Bertani, P. Corona, R. Valentini, op. cit., p. X. 34 P. Corona, A. Barbati, A. Tomao, R. Bertani, R. Valentini, M. Marchetti, L. Fattorini, L. Perugini, 46
Tab. 1- Sistema di classificazione delle terre secondo IUTI.
L’interpretazione dei LUCC dal 1990 al 2008 si è avvalsa di matrici di transizione, in cui vengono riportate in righe e colonne le varie classi d’uso del suolo in anni diversi da comparare, permettendo di determinare in maniera semplice ed intuitiva l’entità delle superfici rimaste invariate e l’entità delle variazioni e dei flussi da e verso una determinata classe (tab. 2).
Tab.2- Matrice di transizione dei cambiamenti avvenuti nell’uso delle terre dal 1990 al 2008 in Italia (per il significato dei codici di uso delle terre, v. Tabella 1). I dati di superficie sono espressi in ettari (35).
La matrice mette in evidenza cambiamenti significativi avvenuti dal 1990 al 2008: evidenti sono l’aumento della superficie forestale (circa 500.000 ha) a scapito soprattutto delle superfici
Land use inventory as framework for environmental accounting: an application in Italy. iForest, 2012) 5: 204- 209. 35 M. Marchetti, R. Bertani, P. Corona, R. Valentini, op. cit., p. X. 47
agricole, che pur rimanendo la classe d’uso più diffusa sul territorio nazionale (33,4%) registra un saldo negativo che supera gli 800.000 ha; notevole risulta anche il dato relativo al consumo di suolo, con l’espansione delle aree urbanizzate parimenti vicino ai 500.000 ha (circa 28.000 ha all’anno) a scapito soprattutto di terreni precedentemente destinati ad uso agricolo (circa il 75%)36. Tali dinamiche, in termini relativi, sono osservabili in figura 4.
Fig. 4- Percentuale di copertura stimata da IUTI per ciascuna categoria d’uso delle terre al 1990 e al 2008 rispetto alla superficie nazionale. Per il significato dei codici di uso delle terre, vedi Tab. 1 (37).
In particolare poi, sulla transizione da terreni seminativi a superfici urbane, è stato condotto un approfondimento dell’analisi grazie all’utilizzo di strati informativi ausiliari come il modello digitale del terreno e il CLC. Il consumo di suolo- o urban sprawl- definito come il “passaggio da uno stato agricolo/naturale a uno stato urbano/artificiale/modellato dall’uomo” (Pareglio S., 22 aprile 2010), è il fenomeno che maggiormente preoccupa da un punto di vista ecologico per la sua irreversibilità e per la vasta serie di impatti negativi sull’erogazione dei già menzionati SE38. Dei circa 500 mila ha artificializzati tra il 1990 e il 2008 (+30% rispetto al dato del 1990), circa 380 mila sono a carico di ex coltivi. Tale fenomeno si è concentrato prevalentemente a quote più basse (l’88% entro i 400 m s.l.m.) e in aree praticamente pianeggianti (74% in terreni con pendenza inferiore al 5%, addirittura l’87% entro il 10%, figg. 5 e 6). Comparando il dato del consumo di suolo e quello della superficie urbanizzata al 2008, si può inoltre notare come la pressione sui terreni più appetibili dalla speculazione edilizia, e che al tempo stesso diventano sempre più scarsi e ricchi di habitat da tutelare, sia tutt’ora molto elevata39.
36 M. Marchetti, B. Lasserre, R. Pazzagli, L. Sallustio, Rural areas and urbanization: analysis of a change. Rivista della Società Italiana dei Territorialisti, in press. 37 Marchetti M., Bertani R., Corona P., Valentini R., op. cit., p. X. 38 B. Romano, F. Zullo, Land Urbanization in Central Italy 50 years of evolution. Journal of Land Use Science, 2012, DOI:10.1080/1747423X.2012.754963. 39 M. Marchetti, B. Lasserre, R. Pazzagli, L. Sallustio, op. cit., p. X. 48
Fig. 5- Distribuzione del tessuto urbano nel 2008 e del consumo di suolo dal 1990 al 2008 per fasce altitudinali in Italia.
Fig. 6- Distribuzione del tessuto urbano nel 2008 e del consumo di suolo dal 1990 al 2008 per classi di pendenza in Italia (40).
Dal punto di vista ecologico è inoltre importante rilevare come l’aggressione spesso avvenga ai danni di terreni agricoli relativamente marginali da un punto di vista economico, come dimostra la limitata presenza dei terreni irrigui tra quelli di nuova urbanizzazione (in fase di quantificazione con studi di dettaglio), ma estremamente importanti per la tutela della biodiversità. In figura 7 è infatti possibile notare come la maggior parte delle superfici consumate afferisca a terreni seminativi non irrigui (65%), anche se più preoccupante è l’aggressione ai danni delle colture agrarie con spazi naturali importanti e dei sistemi colturali complessi (32% complessivamente), aventi un’elevata valenza dal punto di vista ecologico. 40 M. Marchetti, B. Lasserre, R. Pazzagli, L. Sallustio, op. cit., p. X. 49
Fig. 7- Ripartizione dei suoli agricoli urbanizzati secondo le classi Corine Land Cover (41).
Un altro elemento di analisi è la relazione tra il consumo di suolo e l’andamento demografico. L’elaborazione di un semplice indice come il rapporto tra superficie consumata e saldo demografico nelle varie Regioni d’Italia per il periodo 1990-2008, ha evidenziato che diverse Regioni (Sardegna, Puglia, Friuli e Sicilia) presentano valori ben al di sopra di quello medio nazionale, ma soprattutto che Basilicata, Calabria, Liguria e Molise, a fronte di un saldo demografico negativo, continuano comunque a consumare ingenti superfici agricole e seminaturali (fig. 8). La lettura di tale fenomeno è resa ulteriormente evidente osservando la variazione della superficie media urbanizzata pro capite (fig. 9): a livello nazionale, la superficie media urbanizzata è aumentata di circa 64 m2, passando da 290 a 354 m2 per abitante. Anche in questo caso, gli incrementi maggiori si registrano nelle regioni in cui il saldo demografico è negativo o comunque vicino alla neutralità. In Basilicata, ad esempio, la superficie urbanizzata pro capite è aumentata del 49%, mentre in termini assoluti, nel 2008, le Regioni con le maggiori superfici urbanizzate per abitante risultano il Friuli, la Sardegna e la Valle d’Aosta (rispettivamente 562, 481 e 479 m2 per abitante).
41 M. Marchetti, B. Lasserre, R. Pazzagli, L. Sallustio, op. cit., p. X. 50
Fig. 8- Rapporto tra gli ettari di suolo consumati dal 1990 al 2008 ed il saldo demografico (42).
Fig. 9- Superficie urbanizzata pro capite al 2008 e variazione rispetto al 1991.
42 M. Marchetti, L. Sallustio, Dalla città compatta all’urbano diffuso: ripercussioni ecologiche dei cambiamenti d’uso del suolo. In “Il progetto di paesaggio come strumento di ricostruzione dei conflitti”. Franco Angeli Editore, 2012, pp.165- 173. 51
Come già accennato, i territori meno aggrediti dall’urban sprawl sono quelli montani, dove il fenomeno più diffuso è quello della ricolonizzazione di ex prati e pascoli da parte del bosco nelle diverse fasi di successione secondaria. Analizzando i cambiamenti avvenuti all’interno della cosiddetta “montagna legale”43, comprendente 218 Comunità Montane44, si è infatti osservato che qui, seppur consistente (130 mila ha), il consumo di suolo risulta relativamente più basso rispetto alla media nazionale (+23%). Attualmente non è possibile stabilire in termini analitici quanto questa sorta di preservazione sia il frutto di una storica minore appetibilità di tali territori e quanto il risultato di una serie di politiche di tutela e salvaguardia, come ad esempio quelle legate alle aree protette che proprio nelle zone montane sono maggiormente ubicati. L’analisi dei cambiamenti all’interno dei Parchi Nazionali, oltre a mostrare anche qui la forte dinamica di ricolonizzazione da parte del bosco a danno della tante superfici agricole e delle praterie, mostra che seppur la superficie urbanizzata al 2008 sia nettamente inferiore alla media nazionale (1% rispetto al 7,1%), il dato del consumo di suolo risulti comunque non trascurabile (3500 ha in più rispetto al 1990, +20%)45. Pur mancando informazioni che permettano di meglio comprendere il contributo dei vari fattori alla base di tali differenze (socio-economici, gestionali, orografici ecc.), risulta tuttavia evidente che il fenomeno dell’urban sprawl è tutt’altro che assente anche in contesti dediti principalmente alla conservazione delle risorse naturali. La storica scarsa efficacia di strumenti come il vincolo paesaggistico (“Legge Galasso”, 431/1985) è invece evidente in ambiti territoriali in cui il consumo di suolo è in assoluto la dinamica di cambiamento predominante, ovvero nei sistemi costieri. Utilizzando i dati IUTI per analizzare il consumo di suolo lungo tutta la fascia costiera nazionale, si può notare come la superficie urbanizzata sia nettamente superiore rispetto ai dati medi dell’intero Paese, come dimostrato anche da studi di dettaglio e di lunga durata condotti di recente su significative porzioni di costa46. Il grafico in figura 10 mostra la ripartizione tra le varie classi d’uso del suolo al 2008 in fasce a distanza crescente dal mare, mostrando come l’incidenza della superficie urbanizzata tende a decrescere man mano che ci si sposta verso l’entroterra. I valori osservabili sono comunque molto elevati rispetto a quello medio nazionale, arrivando addirittura a circa il 36% nella fascia dei 300 m dalla linea di costa, ovvero quella che dovrebbe essere maggiormente vincolata. Ragionando in termini relativi rispetto alla superficie urbanizzata al 1990, sembrebbe che il tasso di consumo di suolo si sia ridotto, risultando inferiore a quello medio nazionale man mano che ci si avvicina alla linea di battigia (fig. 11). In realtà il dato è dovuto alla già importante superficie urbanizzata a quella data: infatti, osservando i tassi di consumo relativi all’intera superficie della fascia considerata, si può vedere come essi abbiano un valore almeno doppio rispetto a quello medio nazionale, e particolarmente elevato nella fascia di 1 Km, ad indicare come probabile la veloce saturazione della fascia immediatamente prossima alla linea di costa (fig. 12).
43 G. De Vecchis, Da problema a risorsa: sostenibilità della montagna italiana. Kappa Editore, Roma, 1996, p. 312. 44 ISTAT, Atlante di geografia statistica e amministrativa, 2009, URL:http://www3.istat.it/dati/ catalogo/20090728_00/ 45 M. Marchetti, M. Ottaviano, R. Pazzagli, L. Sallustio, Consumo di suolo e analisi dei cambiamenti del paesaggio nei Parchi Nazionali d’Italia. Territorio, 2013, 66: 121- 131. 46 B. Romano, F. Zullo, The urban transformation of Italy’s Adriatic coastal strip: Fifty years of unsustainability. Land Use Policy, 2013, 38: 26- 36. 52
Fig. 10- Superficie urbanizzata al 2008 in Italia e in fasce di ampiezza diversa dalla linea di costa
Fig. 11- Consumo di suolo dal 1990 al 2008 relativo al dato della superficie urbanizzata al 1990, in Italia e in fasce di ampiezza diversa dalla linea di costa
Fig. 12- Consumo di suolo dal 1990 al 2008 in Italia e in fasce di ampiezza diversa dalla linea di costa, rispetto alle rispettive superfici totali
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Conclusioni In un quadro complesso di cambiamenti ed implicazioni più o meno dirette sull’ambiente e sul benessere umano come quello descritto, una notevole importanza risiede nella disponibilità di dati e modelli facilmente aggiornabili in grado di descrivere tali processi e permettere la creazione di scenari futuri di supporto ai decision makers pubblici e privati, in sede di pianificazione e progettazione. La valutazione degli effetti dei LUCC sulla biodiversità47 e il capitale naturale che sostengono i SE dovrebbero essere elementi primari di supporto ai processi di pianificazione. Quella che, potrebbe oggi apparire come una scelta legata a particolari sensibilità o a questioni di marketing per amministratori illuminati, imprese o comuni cittadini, è ormai chiaro che deve rappresentare il modus operandi, peraltro già stabilito a livello internazionale48. Numerosi sono gli sforzi sostenuti per inserire la valutazione dei SE all’interno di contesti decisionali. Nel 2012, ad esempio, è stato istituito l’IPBES (Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services) allo scopo di costruire un ponte tra comunità scientifica e policy makers per il riconoscimento e la valutazione dei SE nei processi decisionali e, al tempo stesso, mettere al corrente la prima su quelle che sono le necessità e bisogni nei contesti applicativi (http://www.ipbes.net/). È quanto mai opportuno quindi, sensibilizzare la comunità scientifica ad intraprendere un percorso di condivisione e messa a punto di nuove metodologie, strumenti ed obiettivi per la produzione di inventari, cartografie e altri strati informativi che ne massimizzino il valore informativo rendendoli ancor più funzionali come strumenti di supporto. Analogamente all’IPBES, in ambito Europeo l’azione 5 dell’EU Biodiversity Strategy 2020 esorta gli Stati Membri alla mappatura e valutazione dello stato degli ecosistemi e servizi erogati all’interno dei propri territori, allo scopo di supportarne il recupero e la conservazione. Per lo sviluppo di un quadro conoscitivo di supporto ai contesti ed esigenze dei diversi Stati, è stato istituito il Working Group “Mapping and Assessment on Ecosystems and their Services”49. A livello nazionale, negli ultimi anni la ricerca scientifica si sta muovendo sulle tematiche connesse ai LUCC ed ES grazie a progetti come il FIRB “MIMOSE” (Development of innovative models for multi scale monitoring of ecosystem services indicators in Mediterranean forests50), o al progetto ITALI (Integration of Territorial And Land Information) che, promosso da EUROSTAT, ha lo scopo di integrare e migliorare il potenziale informativo di diversi strati informativi presenti sul territorio nazionale riguardanti l’uso e copertura del suolo51. 47 M. Marchetti, A. Barbati, Cambiamenti di uso del suolo. In: Blasi C. et al., 2005. Stato della biodiversità in Italia. p. 108-115, Palombi, Roma, 2005. 48 M. Ruckelshaus, M. McKenzie, H. Tallis, A. Guerry, G. Daily, P. Kareiva, S. Polasky, T. Ricketts, N. Bhagabati, S.A. Wood, J. Bernhardt, Notes from the field: Lessons learned from using ecosystem service approaches to inform real-world decisions. Ecological Economics, 2013, http://dx.doi.org/10.1016/j. ecolecon.2013.07.009. 49 J. Maes, A. Teller, M. Erhard, C. Liquete, L. Braat, P. Berry, B. Egoh, P. Puydarrieux, C. Fiorina, F. Santos, M.L. Paracchini, Keune H., H. Wittmer, J. Hauck, I. Fiala, P.H. Verburg, S. Condé, J.P. Schägner, J. San Miguel, C. Estreguil, O. Ostermann, J.I. Barredo, H.M. Pereira, A. Stott, V. Laporte, A. Meiner, B. Olah, Royo Gelabert, R. Spyropoulou, J.E. Petersen, C. Maguire, N. Zal, E. Achilleos, A. Rubin, L. Ledoux, C. Brown, C. Raes, S. Jacobs, M. Vandewalle, D. Connor, G. Bidoglio, Mapping and Assessment of Ecosystems and their Services. An analytical framework for ecosystem assessments under action 5 of the EU biodiversity strategy to 2020. Publications office of the European Union, Luxembourg, 2013. 50 M. Vizzarri, F. Lombardi, L. Sallustio, G. Chirici, M. Marchetti, I servizi degli ecosistemi forestali ed il benessere dell’uomo: quali benefici dalla ricerca? Gazzetta Ambiente, Roma, Italia, in press. 51 G. Pulighe, F. Lupia, Vanino S., Altobelli F., Munafò M., Cruciani S., op. cit., p. X. 54
Altre azioni sono poi possibili per fronteggiare l’impatto negativo dei LUCC sui SE diverse: (i) l’incremento della produzione agricola per unità di superficie, per quantità di prodotto chimico impiegato e per volume d’acqua consumato52; (ii) l’adozione di pratiche per il mantenimento della sostanza organica nei suoli agricoli53; (iii) l’aumento delle aree verdi in ambito urbano; (iv) l’adozione di pratiche “agro-forestali” per la produzione congiunta di alimento e fibra, e per la conservazione degli habitat per le specie minacciate; (iv) il mantenimento della biodiversità locale, per il controllo dell’impollinazione e degli attacchi parassitari. Molte di queste strategie coinvolgono la gestione della struttura del paesaggio, che deve essere realizzata mediante il posizionamento strategico degli ecosistemi gestiti e naturali, in modo tale che i servizi e i beni erogati siano disponibili per l’intero mosaico del paesaggio54. A monte di ciò, è quindi di fondamentale importanza la volontà e la capacità di rivedere il concetto di pianificazione del paesaggio in un’ottica olistica che dia reale importanza a tutti quei beni comuni, processi e quindi servizi che il capitale naturale è in grado di fornire a supporto della vita dell’uomo e dell’intero Ecosistema, come emerge in diversi contesti europei (UK National Ecosystem Assessment, http://uknea.unep-wcmc.org/ Home/tabid/38/Default.aspx)55. In Italia, oltre a varie iniziative a livello locale e regionale, è di buon auspicio l’avanzamento del DdL per il contenimento del consumo di suolo ed il riuso del suolo edificato, che, al pari di quanto avvenuto in altri Paesi come la Germania56, dovrebbe avere come fine ultimo quello del “zero land uptake” entro il 2050.
52 C.C. Mann, Crop Scientists Seek a New Revolution. Science, 1999, 283 (5400): 310- 314. doi:10.1126/ science.283.5400.310. M.W. Rosegrant, X. Cai, S.A. Cline, World water and food to 2025: dealing with scarcity. Int. Food Policy Res. Inst. Washington, DC, 2002. C.R. Frink, P.E. Waggoner, J.H. Ausubel, Nitrogen fertilizer: Retrospect and prospect. Proceedings of the National Academy of Sciences, 1999, 96 (4): 1175- 1180. doi:10.1073/pnas.96.4.1175. K.G. Cassman, A. Dobermann, D.T. Walters, Agroecosystems, nitrogen-use efficiency, and nitrogen management. AMBIO, 2002, 31 (2): 132- 140. 53 R. Lal, Potential of Desertification Control to Sequester Carbon and Mitigate the Greenhouse Effect. Climatic Change, 2001, 51 (1): 35- 72. doi:10.1023/A:1017529816140. 54 J.A. Foley, R. DeFries, G.P. Asner, C. Barford, G. Bonan, S.R. Carpenter, F.S. Chapin, M.T. Coe, G.C. Daily, H.K. Gibbs, J.H. Helkowski, T. Holloway, E.A. Howard, C.J. Kucharik, C. Monfreda, J.A. Patz, I.C. Prentice, N. Ramankutty, P.K. Snyder, Global Consequences of Land Use. Science, 2005 309 (5734): 570- 574. doi:10.1126/science.1111772. 55 UK NEA, The UK National Ecosystem Assessment. Synthesis of the Key Findings. UNEP-WCMC, Cambridge, 2011. 56 ONCS, Osservatorio Nazionale sul Consumo di Suolo, Primo rapporto dell’Osservatorio Nazionale sul Consumo di Suolo, 2009, p. 120. URL: http://www.consumosuolo.org/Images/Pubblicazioni/rap09.pdf. 55
Il “senso del luogo” nella gestione del nostro paesaggio Riflessioni su un tema culturale Angela Tavone
“E così il signor Giuseppe, che tutti chiamavano zio Pè, rimase seduto a fissare lontano, con entrambe le mani sul manico del bastone, e il suo sguardo esprimeva disappunto. Ad un tratto, con un lieve scuotimento del capo, continuando a guardare lontano, disse: «Non riesco a crederci che l’hanno buttata giù! Proprio lì, dove c’è quel mucchio di pietre, un tempo c’era una piccola casa antica, con una fontana, sul punto più alto del paese. Andavo sempre a prendere l’acqua per portarla a casa quando ero bambino, e tanti altri facevano come me; un’acqua freschissima, che veniva direttamente dalla montagna e, mentre riscendevo, guardavo tutto il paesaggio, che era bellissimo, e questo non mi faceva sentire nemmeno il peso dell’acqua che trasportavo. Sempre lì c’era il muro della conta, quando giocavamo a nascondino. La famiglia che abitava quella piccola casa non si lamentava mai di sentire tutti noi altri gridare e scorrazzare intorno. Poi, col passare degli anni, sono morti tutti i suoi inquilini e nessuno si è preso più cura della casa. Inevitabilmente, l’ho vista cadere a pezzi, pietra dopo pietra, e infine il terremoto gli ha dato il colpo di grazia! Lo so che nessuno aveva i soldi per ricostruirla e, non so, farne due stanze da affittare ai turisti, ma potevano salvare almeno la fontana! Era il posto più bello del paese, ed ora non c’è più. Anche l’acqua sembra offesa, perché non vuole continuare ad uscire dalla montagna!». Allora zio Pè, amareggiato, si alzò, diede un’ultima occhiata al bellissimo paesaggio che dal punto più alto del paese si poteva godere e, lentamente, appoggiandosi al bastone, iniziò a scendere le scale del vicolo, per tornare a casa sua.” Il senso del luogo è un sentimento che ognuno può provare, che sia individuale o condiviso collettivamente, esso attribuisce significato di unicità, di identità e di appartenenza ad una data “porzione di spazio”. Non importa quanto sia grande questo spazio, ma conta l’insieme di valori in esso racchiusi che legano saldamente una persona, o un’intera comunità, ad un certo luogo, e perciò quest’ultimo può definirsi proprio. Si tratta di un concetto rintracciabile specialmente negli Stati Uniti, “a sense of place”, ma il suo significato è da considerarsi universale. Da sempre, infatti, un luogo viene identificato, per esempio attraverso un nome, per distinguerlo dallo spazio non definito che lo circonda. Tuttavia, ci sono alcuni luoghi che racchiudono un significato più forte di altri, espresso proprio dal nome stesso o dalle conoscenze custodite presso le comunità che lo abitano. Dunque, il senso del luogo è un fenomeno sociale, perché richiede indispensabilmente il coinvolgimento umano, e si genera con una sorta di stratificazione delle percezioni e dalle 57
esperienze degli individui. Spesso il sentimento di forte appartenenza ad un luogo viene ispirato dall’ambiente naturale, ma nella maggior parte dei casi è il paesaggio, lo spazio dove cultura e natura sono in stretta connessione, a possedere le giuste caratteristiche per cui le persone che lo vivono ne rintracciano la propria identità. Come apostrofa Wendell Berry “Non sai chi sei finché non sai dove sei1”, dunque l’esplorazione del senso del luogo è anche una scoperta del senso di se stessi. Esplorare il senso di un luogo vuol dire comprendere cosa è importante, cosa acquista significato e valore per la comunità che lo vive, quindi, in altri termini, significa trovare una via di accesso, fatta di racconti e di persone, per conoscere la storia sociale di quel luogo e interpretare le volontà future della gente che lo abita. In quest’ottica, il senso del luogo è una chiave interessante di cui tenere debitamente conto nei processi partecipativi, indispensabili per la pianificazione del paesaggio. La necessità di prendere in considerazione e di valorizzare la dimensione percettiva del paesaggio espressa dalla comunità è fortemente coerente con la definizione di paesaggio della CEP (Convenzione Europea sul Paesaggio): “una determinata parte di territorio, cosi come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni2”. I temi più interessanti e innovativi sottolineati dalla CEP sono proprio la percezione sociale e il paesaggio inteso come progetto; essa, dunque, invita a superare le politiche deterministiche di conservazione per costruire strategie condivise di valorizzazione, riqualificazione e innovazione del territorio nella prospettiva dello sviluppo sostenibile3. In una prospettiva decisionale occorrerebbe trovare il giusto modo per far emergere questi valori collettivi, renderli espliciti e tangibili cosicché le future azioni del piano del paesaggio possano supportarli, e, soprattutto, rafforzarli. Infatti, comprendere le qualità di un paesaggio sotto il profilo ecosistemico, produttivo, estetico, valoriale, significa anche contribuire a far emergere il suo senso del luogo. Un buon piano sa prendere in considerazione tutti questi aspetti e costruire una visione d’insieme che non trascuri le “lezioni apprese dalla storia”, al fine di pianificare al meglio il futuro del paesaggio e della sua comunità. La prospettiva storica è proprio uno degli approcci utilizzati in tutte le cinque edizioni della Summer School Emilio Sereni “Storia del paesaggio agrario italiano”, attraverso la quale si sono rintracciati i segni del passato e le trasformazioni operate nel tempo per scegliere poi gli strumenti giusti per interpretare le caratteristiche del paesaggio attuale, il tutto con la finalità di suggerire una gestione quanto più responsabile e sostenibile per il futuro. In quest’ottica, esperienze come quella organizzata dall’Archivio-Biblioteca Emilio Sereni e dall’Istituto Alcide Cervi consentono di confrontarsi sulle tematiche del paesaggio non solo tra tecnici, studiosi e specialisti della materia, bensì anche entrando in contatto con i veri protagonisti del paesaggio, vale a dire le comunità che vivono e lavorano sul territorio. Dunque, sicuramente nel corso dell’ultima edizione della Summer School è emerso il suo senso del luogo (anzi, dei luoghi), nel cui spirito essa si è svolta. Tanti uomini e tante donne che con forza e tenacia lavorano in terra d’Emilia, senza mai dimenticare che la loro vita, il loro benessere dipende fortemente dalla salute di quella terra così fertile e promettente: rispetto per il lavoro, rispetto per la storia, celebrando i luoghi e le persone che l’hanno fatta, rispetto per le tradizioni. In questo, e in molto altro, è racchiuso il senso del luogo del paesaggio emiliano. 1 Tradotto dall’originale “You can’t know who you are until you know where you are” (Wendell Berry). 2 CEP, 2000. 3 F. Balletti, S. Soppa, Paesaggio in evoluzione. Identificazione, interpretazione, progetto, Franco Angeli Urbanistica, Milano, 2005. 58
Interpretare il senso del luogo Uno degli approcci che potrebbe aiutare ad individuare e a codificare il senso del luogo per la pianificazione del paesaggio è l’interpretazione del patrimonio naturale e culturale, una disciplina ben codificata, nonché allo stesso tempo un efficace strumento comunicativo, che è possibile utilizzare in tutte le attività che richiedono di relazionarsi con il pubblico4. Interpretare il patrimonio naturale e culturale non significa solo tradurre delle informazioni, degli studi e delle ricerche, bensì comunicare oltre le apparenze, rivelare una verità più ampia che giace oltre una situazione di fatto, beneficiare della mera curiosità per arricchire la mente e lo spirito umano5. L’interpretazione intesa in questo senso oggi è utilizzata soprattutto dagli operatoriinterpreti del patrimonio naturale e culturale, adeguatamente formati, a beneficio dei visitatori. Considerando, però, il suo potenziale di strumento comunicativo, essa si presta molto bene per essere applicata nei processi partecipativi finalizzati alla pianificazione del paesaggio, e dunque, nell’ambito del tema principale qui affrontato, anche per stimolare le comunità locali a progettare l’espressione e la valorizzazione del senso del luogo. Ciò costituisce anche un percorso educativo, poiché stimola la percezione delle persone coinvolte nel processo di pianificazione e le guida alla scoperta degli elementi significativi sui quali costruire progetti futuri. E’ questo uno degli obiettivi di un approccio educativo americano, chiamato “place based education”, che coniuga l’interpretazione quale efficace strumento comunicativo alla necessità di connettere i discenti (che siano essi giovani o adulti) al luogo nel quale vivono, apprendendo le nozioni principalmente da ciò che li circonda. I cittadini, dunque, imparano a prendersi cura del mondo con attività dirette e collettive, partendo dalla comprensione del “proprio giardino”, per ampliare sempre più il raggio di interesse e di azione. Le motivazioni umane a partecipare agli affari della comunità – ad esempio, agire per la protezione delle persone, dell’ambiente naturale e della qualità culturale della vita – provengono direttamente da un forte senso del luogo e da un profondo interesse per il futuro del proprio territorio e della sua gente. In generale, le persone sono molto desiderose di prendere parte ad iniziative che esse stesse hanno aiutato ad identificare, riguardo le quali sentono di avere solide conoscenze e che vedono come rilevanti per le proprie vite. In una fase avanzata, il coinvolgimento civico può crescere e andare oltre l’insieme di azioni e impegni, per trasformarsi in un vero e proprio senso di appartenenza, vale a dire un’esperienza di investimento, di appropriamento e gestione del paesaggio per le comunità locali e regionali a cui i cittadini appartengono6. Ecco, dunque, che la place based education diventa il canale preferenziale attraverso il quale far emergere il senso del luogo e programmarne la sua valorizzazione con azioni concrete sul territorio; consente, quindi, di sviluppare la cittadinanza attiva e la capacità di questa di risolvere i problemi innanzitutto mediate dialoghi efficaci, nonché di partecipare alla gestione strategica di beni e luoghi pubblici.
4 Istituto Pangea (2001). 5 Tilden, 1957. 6 Clark, 2008. 59
Esperienze dal Vermont Dalla mia recente esperienza negli Stati Uniti, presso l’Università del Vermont, ho potuto conoscere da vicino alcuni programmi specifici finalizzati alla gestione del paesaggio mediante il coinvolgimento diretto delle comunità locali. In essi si riscontra una costante: la realizzazione degli obiettivi è in piena coerenza con la valorizzazione del senso del luogo. In particolare, il PLACE7 (Place-based Landscape Analysis and Community Engagement) è un programma elaborato da University of Vermont e Shelburne Farms National Historical Landmark con l’obiettivo di fornire a singole comunità del Vermont contenuti e strumenti per esplorare e comprendere la storia naturale e culturale del proprio paesaggio rurale. Sin dal suo avvio nel 2001, il personale del PLACE lavora direttamente con scuole locali, commissioni cittadine, società storiche ed organizzazioni di conservazione per esplorare e comprendere insieme ai residenti una visione comune per il futuro sostenibile del proprio territorio. Nel corso degli anni, in 13 comunità sono stati realizzati forum, presentazioni, uscite sul campo, workshop, brochure, eventi e attività di interpretazione, di volta in volta con la collaborazione di numerosi partner locali, per sviluppare analisi integrative e interpretative del paesaggio, del suo patrimonio culturale e del suo potenziale ecologico, integrando il tutto con le percezioni e le aspettative delle comunità. Il tentativo del PLACE è proprio quello di applicare l’analisi del paesaggio a interi sistemi di pensiero per promuovere il senso del luogo e traferirne i risultati nei piani di sviluppo sostenibile che le singole comunità elaborano. È questo il vero punto di forza del programma, poiché quando tutta la comunità sviluppa una visione di insieme, una lista di progetti a diverse scale di priorità e tutte le azioni necessarie per portarli a termine, ecco che i territori pubblici e l’intero paesaggio diventano una risorsa per tutta la comunità da utilizzare e di cui prendersi cura. Inoltre, se studenti, insegnanti, professionisti, cittadini percepiscono se stessi come partecipanti al progetto comune, come potenziale “forza lavoro” e come leader, gli obiettivi diventano realizzabili per l’intera comunità: tutelare la salute e il benessere delle persone e gestire in maniera sostenibile le risorse del territorio. Il PLACE è certamente un programma dinamico, che segue i cambiamenti sociali e adegua i propri strumenti di intervento in base alle esigenze delle comunità con cui si relaziona. Tuttavia, si rintracciano dei punti fermi, che sono coinvolgere sempre un’elevata eterogeneità di organizzazioni in qualità partner, facendo in modo di rappresentare la diversità quanto più possibile, e non difendere nessuna specifica condizione futura, bensì lasciare che essa emerga da un dialogo sempre aperto. Restando negli Stati Uniti, un altro interessante progetto, di forte ispirazione, finalizzato a raccogliere le percezioni e le prospettive di numerose comunità locali del Vermont riguardo il proprio paesaggio per farne un quadro di priorità e raccomandazioni al livello statale si chiama “Imagining Vermont: Values and Vision for the Future”8, realizzato da Council on the Future of Vermont nel corso del biennio 2007–2009, un’iniziativa del Vermont Council on Rural Development. L’obiettivo generale era quello di aiutare i cittadini del Vermont a sviluppare la loro capacità di costruire un futuro prospero e sostenibile mediante il coordinamento, la collaborazione e l’utilizzo efficace delle risorse pubbliche e private. Il Vermont Council on 7 http://www.uvm.edu/place/ 8 http://futureofvermont.org/ 60
Rural Development aveva espresso la necessità, in questi tempi di rapido cambiamento, di esaminare insieme alla popolazione una grade visione comune, valutare le opportunità e le sfide future, e prendere in considerazione le priorità dei cittadini del Vermont. La dovuta premessa è che in questo Stato c’è una profonda tradizione del coinvolgimento pubblico nella vita civica e di governo, per cui la fattibilità di questo progetto era molto elevata sin dall’inizio. Nello specifico, la gente è stata coinvolta mediante forum pubblici, piccoli gruppi organizzati nelle scuole, nelle chiese, nei luoghi di lavoro, con strumenti online e via telefono. Il Consiglio ha invitato tutti i partecipanti a condividere pensieri e idee per il futuro del Vermont durante i suoi incontri mensili e in totale oltre 3.900 cittadini hanno contribuito a questo processo. Il Consiglio ha tenuto quattordici incontri pubblici, uno per ogni contea dello Stato, e ha condotto più di novanta focus group con un’ampia varietà di categorie sociali: studenti delle scuole superiori e dell’università, agricoltori, insegnanti, infermieri, operai, veterani, pensionati, forestali, operai di miniere e gruppi di avvocati. Inoltre, ben trecento organizzazioni da tutto il Vermont sono state invitate a contribuire con le loro opinioni e idee a questo importante percorso conoscitivo. Tutte queste persone hanno parlato di ciò che il Vermont significa per loro, quali sono i valori collettivi da condividere, quali cambiamenti e opportunità vedono come importanti e quali sono le loro priorità per il futuro dello Stato. “The Future of Vermont” va certamente considerata una buona pratica di come un processo partecipativo che si muove dal basso dovrebbe essere incluso nella pianificazione del paesaggio: è proprio tra la gente che bisogna raccogliere le visioni, le necessità e i valori per poi trasformarli in priorità e raccomandazioni e infine consegnarli al livello dei decisori. È proprio questo ciò che è accaduto al termine del progetto e il Vermont Council on Rural Development si è fatto carico di riportare al livello di Stato i risultati di questa ampia indagine, la quale racchiude senz’altro molti “sensi dei luoghi”.
Conclusioni I citati progetti americani vogliono essere solo degli esempi di come nella pianificazione del paesaggio, che sia a scala locale, regionale o statale, una delle priorità è quella di comprendere profondamente “dove si sta andando” e con quale “bagaglio di valori e conoscenze” insieme alle comunità che abitano quel paesaggio. In Italia di certo non mancano buone pratiche di programmi partecipativi legati alla gestione del paesaggio che hanno ottenuto risultati positivi, ma rappresentano ancora delle perle rare. Occorrerebbe, invece, “modellizzare” l’inclusione delle comunità locali, con i suoi valori e le sue percezioni, nei piani del paesaggio, per far sì che essa diventi una norma, soprattutto efficace, a beneficio dell’intera collettività. Lo schema seguente vuole essere una sintesi di come il senso del luogo abbracci ed includa tutti i temi qui affrontati e come questi ultimi siano reciprocamente connessi tra loro. Tale visione di insieme potrebbe risultare utile per costruire un prossimo ipotetico progetto di pianificazione o valorizzazione del paesaggio, che parta innanzitutto dalla scoperta del senso del luogo. Probabilmente ciò implica un processo culturale piuttosto che tecnico, ma siamo davvero pronti per intraprenderlo?
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Rappresentazione delle possibili connessioni del “senso del luogo� nell’ambito del tema della gestione del paesaggio.
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Bibliografia F. Balletti, S. Soppa, Paesaggio in evoluzione. Identificazione, interpretazione, progetto, Franco Angeli Urbanistica, Milano, 2005. D. Clark, Learning to make choices for the future. Connecting public lands, schools, and communities through Place-based learning and civic engagement – (Partnership: National Park Service Conservation Study Institute, Marsh-Billings-Rockefeller National Historical Park, Shelburne Farms National Historical Landmark, Green Mountain National Forest, Northeast Office of the National Wildlife Federation), 2008. Consiglio d’Europa, Convenzione Europea sul Paesaggio, Firenze 20 Ottobre 2000. Istituto Pangea Onlus (a cura di), Piano di Interpretazione Ambientale. Ente Parco Nazionale Monti Sibillini, 2001. F. Tilden, Interpreting our heritage, The University of North Carolina Press, U. S., 1957, (2007).
Sitografia FUTURE OF VERMONT – VERMONT COUNCIL ON RURAL DEVELOPMENT http://futureofvermont.org/ ISTITUTO ALCIDE CERVI e BIBLIOTECA-ARCHICIO EMILIO SERENI http://www.fratellicervi.it/ PLACE PROGRAM - UVM http://www.uvm.edu/place/
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PARTE II SVILUPPO SENZA CRESCITA Città e territorio tra ricostruzione e rigenerazione
Trasformazioni sostenibili del paesaggio rurale
Roberto Gambino
Tra natura urbanizzata e rinaturalizzazione della città Da almeno un decennio i dibattiti sulla città contemporanea, soprattutto in Europa, chiamano in causa il tema del “consumo di suolo”: la contestazione sociale dei mali della città ha trovato in questa espressione, pur in carenza di solidi riferimenti diagnostici, un bersaglio largamente condiviso, a cui si collegano efficaci parole d’ordine, come la cementificazione del territorio, la devastazione dei paesaggi (soprattutto rurali), il degrado ed i rischi ambientali. Sebbene quelle parole abbiano ricevuto finora risposte scarse e inadeguate dal sistema politico (che anzi sembra spesso considerarle un lusso nei confronti dei temi sovrastanti della crisi economica ed occupazionale), la loro diffusione può essere in qualche misura indicativa di una crescente consapevolezza sociale dei rischi e delle minacce ambientali. Và in questa direzione la dilatazione del campo tematico, strappato dalle sue originarie dimensioni “tecniciste”: si parla ormai più propriamente di spreco del territorio, di “sindromi complesse” che hanno radici antropologiche e socio-culturali (la “cementificazione delle menti” che denuncia Carlo Petrini), di una necessaria revisione degli stessi approcci teorici dell’economia dell’ambiente (che possono peraltro riprendere le elaborazioni degli anni ’60 e ’70 riassumibili in contributi fondamentali come quelli di Georgescu-Roegen o di Amartya Sen). Ma soprattutto, sembra ormai impossibile tenere separate le interpretazioni del tema sommariamente evocato dal “consumo di suolo” dalle preoccupazioni connesse al “global change” e alle sue drammatiche conseguenze sugli ecosistemi locali. Basti pensare alla duplice rilevanza della “cura del territorio”, quale strategia di difesa preventiva dalle grandi “calamità pianificate” a scala continentale e modalità di gestione sostenibile a scala locale. In questa prospettiva l’agricoltura si carica di un significato salvifico, assumendo un ruolo fondamentale di produzione “secondo natura”, da contrapporre alle varie forme di produzione “contro natura” che sembravano ineluttabilmente caratterizzare i rapporti tra uomo e natura nella fase culminale dell’età moderna. Lo spazio occupato dall’agricoltura come spazio da difendere per resistere alle pressioni insostenibili dell’industrializzazione, della ingegnerizzazione del territorio e dello sfruttamento indiscriminato delle sue risorse. La difesa dell’agricoltura come scelta di campo per uscire dall’ambiguità dei processi in atto, in cui la profanazione totale dello stato di natura incrocia l’apparente “ri-naturalizzazione” 67
dei nuovi habitat urbani (Gambino 2004): la “ville-nature” tende a coesistere con la “natura urbanizzata” e più precisamente con le varie ibridazioni possibili della “campagna urbana” (Donadieu, 2006). Le osservazioni satellitari coi loro mosaici cromatici suggeriscono una commistione confusa di usi e coperture del suolo, che sembra difficilmente interpretabile sulla base della distinzione classica tra natura e cultura saldamente fissata dalle grandi utopie rinascimentali (“sostituire l’ordine razionale all’ordine naturale”). Distinzione o dicotomia cara ai fondamentalisti di vario colore e peraltro contestata dal pensiero filosofico che già con J. Stuart Mill contrastava “la comune forma di discorso in cui la natura viene opposta all’arte e il naturale all’artificiale”. Ma è la stessa evidenza empirica che costringe a mettere in discussione le idee di natura che si affacciano nei dibattiti e nelle ricerche contemporanee.(Giorello, 2008). Cambiamenti spesso rapidi ed importanti anche negli ultimi decenni hanno interessato non solo gli spazi della diffusione urbana e dello sprawl, ma anche quelli della gestione agricola e forestale, come l’espansione delle coperture boschive, anche all’interno delle aree metropolitane, a scapito delle aree coltivate e nonostante le riduzioni determinate dai consumi di suolo per l’urbanizzazione e le infrastrutture. O come la incipiente ripresa demografica ed economica di ambiti rilevanti nei territori montani precedentemente caratterizzati dal declino, la desertificazione, la marginalizzazione e l’abbandono, in particolare ma non solo quelle lambite dal turismo (Corrado, 2010). Cambiamenti di segno diverso o addirittura opposto si incrociano spesso negli stessi territori, nelle stesse aree o in aree contigue. A fronte di dati sperimentali spesso confusi e contradditori, le tradizionali chiavi esplicative, a partire da quelle fondate sulla distinzione o l’antagonismo tra natura e cultura, ed in particolare le concezioni del rapporto tra l’agricoltura e la coppia urbanità/naturalità, perdono di efficacia. Il triangolo che collega urbanità, ruralità e naturalità va ripensato, mentre la definizione del concetto di “natura” utilizzata per disegnare le politiche e le intese internazionali sull’ambiente è variamente rivisitata, anche nell’ambito della cultura ambientalista. Basti pensare ai dibattiti interdisciplinari sul concetto di bio-diversità (che ha largamente sostituito quello di natura in molti documenti internazionali), sul ruolo ambiguo del concetto di resilienza (su cui si tende ad appoggiare quello di bio-diversità), sulla crescente importanza attribuita ai fenomeni bio-culturali. È significativa l’evoluzione in Europa delle politiche delle aree naturali protette, che hanno registrato a partire dalla metà del secolo scorso una crescita spettacolare ed incessante, in esito alla quale coprono ormai più del 20% del territorio complessivo, con misure di protezione assai diversificate, che in generale lasciano all’agricoltura e alla gestione forestale e pastorale ampi margini di manovra, in funzione di una crescente considerazione delle attività e delle esigenze delle comunità locali (Ced-Ppn 2008, 2008). I “nuovi paradigmi” per la conservazione della natura (adottati dall’Iucn nel 2003, nel Congresso mondiale di Durban, significativamente intitolato “Benefici al di là delle frontiere”), negano la possibilità di isolare gli spazi naturali protetti e spostano l’attenzione sugli ecosistemi di cui fa parte l’uomo con le sue culture. È questa attenzione che dà senso ai rapporti dell’agricoltura col territorio; o, in altre parole, è questa la nuova territorialità dell’agricoltura, su cui cercare di ridefinirne il ruolo, il significato e le funzioni.
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Paesaggio e territorio nella transizione post-moderna Le “geometrie della complessità” che si affacciano in questa “transizione di fase” postmoderna, ridisegnano tutto il territorio osservato dall’uomo, negando in radice la possibilità di riconoscere e progettare una difendibile partizione spaziale tra gli spazi dell’urbanità, della ruralità e della naturalità, congiuntamente aggrediti dai processi di sviluppo, coi loro effetti complessi di domesticazione o simulazione (Raffestin, 2000). La stessa struttura ecosistemica è altamente fluida ed instabile: ogni tentativo di riconoscere e circoscrivere gli “ecosistemi urbani” si è mostrato difficile o fallace nella misura in cui si è in presenza di sistemi aperti e lontani da ogni ipotesi di equilibrio, in rapida e largamente imprevedibile trasformazione non lineare, pur nel quadro di un progressivo allargamento dell’“impronta ecologica” della città. D’altra parte, in prospettiva storica, “non ci sono ecosistemi che non risultino almeno in parte modificati dalla cultura umana” (Schama 1997). I tentativi di contrastare i processi perversi di dispersione urbana e di proliferazione infrastrutturale, col loro corteo di effetti negativi, non possono che partire da un rilancio delle attività agro-silvo-pastorali. Ma gli sforzi in questa direzione hanno scarsa probabilità di successo senza una adeguata considerazione delle relazioni dinamiche e strutturali dell’agricoltura col territorio e con coloro che lo abitano e abitandolo lo trasformano. Nella prospettiva territorialista (Magnaghi, 1998) queste relazioni si chiariscono, legando processi economici e sociali, urbanistici e culturali. In questa prospettiva il “ritorno alla terra“ cessa d’essere mero manifesto di lotta politico-culturale per costituire un vero e proprio programma d’azione, atto ad orientare le elaborazioni e le proposte scientifiche e culturali non meno di quelle politiche. In direzione convergente si assiste da una decina d’anni ad un significativo ripensamento del paesaggio, per varie ragioni, quali il “salto di scala” di molti problemi ambientali, sempre meno gestibili a scala locale (in particolare quelli direttamente o indirettamente connessi al “global change”) e la loro crescente interferenza coi problemi economici, culturali e sociali. Siamo in presenza di una domanda sociale la cui “crescita spettacolare è il segno che l’uomo tende a riallacciare i suoi legami con la terra” (Berque, 1993). Valori naturali e valori culturali si saldano nella concezione del paesaggio consacrata politicamente nella Convenzione Europea del Paesaggio (CdE, 2000). Il paesaggio è pensato infatti non soltanto come prodotto co-evolutivo dell’incessante interazione tra uomo e natura, ma anche come “componente essenziale del contesto di vita delle popolazioni, espressione della diversità del loro comune patrimonio naturale e culturale e fondamento della loro identità”. Definizione estremamente impegnativa, che costringe a mettere in discussione pratiche e interpretazioni variamente legate al concetto di “paesaggio culturale” adottato dall’Unesco nel 1992 o al concetto di “paesaggio protetto” adottato dall’IUCN nel 1994 (è una delle 6 categorie di aree naturali protette da esso definite e largamente applicato in molti paesi Europei). Il suo significato si estende infatti all’intero territorio (“gli spazi naturali, rurali, urbani e periurbani”) incrociando ogni tentativo di separare il mondo della natura dal mondo dell’attività antropica.
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Il ruolo dell’agricoltura tra conservazione e innovazione Il Congresso Mondiale dei Parchi, promosso a Durban nel 2003 dall’IUCN affrontava precisamente questa questione: se e come le azioni dirette a gestire le dinamiche ambientali e paesistiche possano essere estese al di là dei confini istituzionali delle misure di protezione, per generare effetti positivi a beneficio dell’intero territorio. Nel tentativo di rispondere a questa domanda occorre anzitutto partire dalla constatazione che tali politiche si muovono in un contesto di crisi: crisi globale economica e sociale, ma anche crisi “territoriale” che mette a repentaglio la sussistenza e la fruibilità delle risorse di cui disponiamo per costruire in ciascun territorio il nostro futuro, e che nasce dalle incoerenze, dagli sprechi e dagli egoismi delle azioni antropiche. Campeggia sullo sfondo un domanda preliminare, circa la possibilità o necessità di affrontare la crisi uscendo da una logica puramente difensiva (come assicurare la disponibilità e fruibilità del suolo, delle risorse primarie e dei beni comuni) a favore di una logica positiva di sviluppo e di arricchimento del capitale comunitario. Sotto entrambi i profili, la domanda riguarda evidentemente il quadro politico e programmatico in cui si collocano i problemi che formano oggetto di questo come di ogni altro dibattito sullo sviluppo della nostra società, in quanto tale, non è questa la sede per trattarne. Ma quella domanda riguarda anche più specificamente il ruolo dell’agricoltura nel territorio e nei suoi cambiamenti strutturali. In una logica difensiva o “immunitaria” si chiede all’agricoltura di presidiare i sistemi di risorse su cui si fonda la sostenibilità delle dinamiche territoriali, riconoscendo i “limiti dello sviluppo” e i vincoli da rispettare per garantire la prosecuzione nel tempo della tradizionale “cura” del territorio. È la logica che caratterizza prevalentemente i piani dei parchi e i piani paesistici, nonché quelli urbanistici o territoriali “con specifica considerazione dei valori paesistici e ambientali” (ai sensi del DM 431/1985, ripreso nel Codice dei beni culturali e del paesaggio del 2004). In una logica positiva, quale quella auspicata non senza contrasti dal fronte territorialista, ci si attende qualcosa di più. Ci si attende, in sintesi, che l’agricoltura possa riprendere il ruolo che ha storicamente esercitato nella costruzione del territorio e nel disegno del paesaggio contemporaneo, aprendo prospettive di valorizzazione e di sviluppo economico e sociale. Un atteggiamento positivo nei confronti dell’agricoltura implica l’apertura al cambiamento. Implica una ridefinizione del concetto di conservazione in termini di complementarietà piuttosto che di contrapposizione a quello di innovazione. La riconsiderazione in chiave innovativa della conservazione vale per tutto il patrimonio naturale e culturale. Si registra un crescente consenso sull’idea che “il patrimonio costituisce una risorsa locale che non trova la sua ragion d’essere che nell’integrazione con le dinamiche dello sviluppo” (deVarine, 2002). Ma soprattutto l’evidenza empirica ha brutalmente costretto a rimettere in discussione quella contrapposizione tra conservazione e sviluppo (“i limiti dello sviluppo” denunciati dal gruppo Meadows nel 1972) che aveva nei decenni precedenti guidato la critica radicale dei modelli dominanti di sviluppo. Un ruolo che sarebbe tuttora stolto sottovalutare (basta pensare all’importanza degli accordi di Kyoto per controllare il “global change”) ma che rischia di lasciare in ombra l’esigenza di un rapporto più articolato e complesso tra conservazione e sviluppo. Sul piano teorico, la conservazione è inscindibile dall’innovazione: nel duplice senso che la vera conservazione presuppone sempre una certa tensione innovativa (anche soltanto in termini di nuove attribuzioni di senso); e che simmetricamente ogni vera 70
innovazione propone alla società contemporanea un impegno conservativo nei confronti dei sistemi di valori esistenti (Gambino, 1997). La produzione di nuovi valori non può disgiungersi dalla rielaborazione continua di quelli già esistenti; ed anzi in questo senso preciso la conservazione si configura sempre più come il luogo privilegiato dell’innovazione per la società contemporanea (Ancsa, 1990). Per usare le parole di Borges (1984): “i teologi affermano che la conservazione di questo mondo è una perpetua creazione e che i verbi conservare e creare, così nemici qui, sono sinonimi nel cielo”.
L’agricoltura nelle dinamiche spaziali La dimensione spaziale dei cambiamenti socio-ambientali dell’ultimo mezzo secolo evidenzia un processo apparentemente inarrestabile di progressiva erosione degli spazi e delle risorse “naturali”, nel quadro di una profanazione totale del mondo da parte delle culture umane dominanti, emblematicamente evocata dalle immagini degli addensamenti turistici nelle aree più impervie del pianeta, o delle torri estrattive off-shore nei mari del nord. Particolare virulenza ha assunto, in questo contesto, il processo di frammentazione ecosistemica, che comporta – oltre all’impoverimento degli habitat e del patrimonio naturale - la perdita o la mutilazione o il degrado dei “servizi eco sistemici” fruiti dall’agricoltura e più in generale dalle attività produttive antropiche. La risposta a questi rischi, nel quadro della difesa della bio-diversità, ha comportato, soprattutto nella seconda metà del secolo scorso, un insieme di politiche di conservazione della natura “in situ”, principalmente delle “aree naturali protette”, cui già si è fatto cenno. Nell’arco di pochi decenni, il numero e la estensione spaziale delle aree protette si sono sviluppate in modo spettacolare, a dispetto delle contestazioni ricorrenti nei dibattiti in corso, che parrebbero indicare un atteggiamento negativo di larga parte del contesto sociale. Al contrario, il favore concesso alla crescita dei parchi e delle aree protette non sembra estinguersi, sia in Europa (dove la superficie in vario modo protetta, con riferimento non solo alle categorie di aree protette indicate dall’Iucn, 1994, ma anche ai Siti della Rete Europa 2000, basati su una Direttiva europea, si avvicina ormai ad un terzo di quella complessiva) sia negli altri paesi del mondo (Ced-ppn 2008). In prospettiva internazionale, tuttavia, la crescita delle aree protette è intercettata dai processi di espansione urbana e industriale, che accentuano rapidamente la frammentazione ecosistemica e determinano crescenti fenomeni di “insularizzazione” e di contaminazione degli habitat di maggior naturalità: la metafora dell’isola assediata, circondata da un contesto (buffer) crescentemente ostile, si attaglia sempre più spesso ai parchi e alle riserve naturali. Com’è noto, la risposta a queste criticità, nel panorama internazionale, è consistita e consiste in primo luogo nelle “reti ecologiche”: nel tentativo, cioè, di difendere o ricreare adeguati sistemi di connessione, tali da assicurare la possibilità dei movimenti e delle interazioni essenziali per il mantenimento dei processi vitali. In quest’ottica le reti ecologiche rappresentano le matrici strutturali in cui si colloca la difesa della bio-diversità. Ma sempre più spesso si è constatato e si constata che le reti di connessione non possono limitarsi ad assicurare le connessioni biologiche che interessano la materia vivente, ma riguardano altresì le relazioni “intangibili” che influenzano o caratterizzano i processi vitali. Soprattutto in contesti, come quelli europei, che sono stati teatro di secolari o millenari processi di “acculturazione”, i sistemi di connessione hanno una imprescindibile connotazione bioculturale: le rotte della transumanza sono un buon esempio. 71
E questo vale, in modo sempre più evidente, per i territori destinati alle attività agricole. Come già notava Cattaneo a metà dell’‘800 in pagine memorabili sui “paesaggi edificati” derivanti dalle riforme teresiane della campagna lombarda (Cattaneo 1848) e come risulta dagli studi di Emilio Sereni (1960) e altri sui paesaggi agrari, l’organizzazione delle attività agricole, dei sistemi di gestione delle acque, delle tecniche di difesa del suolo, ha precisi riscontri negli avanzamenti scientifici e tecnologici e nelle elaborazioni socioculturali coeve. Questa pregnanza culturale dell’agricoltura presenta due aspetti di particolare interesse. In primo luogo, la pertinenza del concetto di paesaggio ai fini della comprensione e della gestione degli spazi agricoli, nella misura in cui esso consente di registrare il “salto di scala“ dei problemi ambientali cui già si è fatto cenno. Guardare l’agricoltura “a scala di paesaggio” offre la possibilità di cogliere con sguardo olistico e sufficientemente allargato le dinamiche d’uso del suolo, di produzione energetica e di organizzazione economica del territorio. Nel contempo, l’approccio paesistico sposta l’attenzione politica dalle forme di regolazione basate sul controllo degli usi del suolo a quelle basate sul controllo dei flussi (di conoscenza, di energia e di saperi) variamenti implicati nell’attività di produzione dell’alimentazione umana e di determinazione degli stili e della qualità della vita. Si tratta di uno spostamento di grande rilievo, qui soltanto evocato con riferimento al crescere di forme agricole innovative (produzioni a km zero, enfasi sulle economie e le culture del gusto, ecc.).
L’agricoltura nelle dinamiche temporali La sedimentazione delle attività agricole, pastorali e forestali nel corso dei secoli e dei millenni ha lasciato quasi ovunque – persino nei deserti solcati dalle rotte dei nomadi – tracce indelebili. Letture attente dei paesaggi ereditati dal passato, inclusa l’archeologia del paesaggio, lasciano emergere palinsesti complessi, che ospitano patrimoni culturali e memorie imprescindibili. Si tratta di un capitale territoriale che può essere valorizzato come fattore di sviluppo competitivo (in primo luogo, ma non solo, per l’economia turistica), e come fattore di consolidamento identitario. È interessante ricordare che, dopo il terremoto dell’Aquila gli abitanti scacciati dalle loro case e impegnati a denunciare i ritardi nell’azione ricostruttiva con azioni simboliche di rimozione con le carriole delle macerie, chiedevano a gran voce di riavere “città e memoria”. La memoria gioca un ruolo fondamentale nella domanda di conservazione del territorio storico e dei suoi valori, punto di approdo ineludibile di un percorso evolutivo che ha preso le mosse dall’attenzione per i monumenti e i beni artistici e culturali (tipicamente, nella Carta di Gubbio: Ancsa, 1961) per allargarsi progressivamente ai contesti paesistici e territoriali. Un’evoluzione che ha trovato un riscontro molto significativo nella Convenzione Europea del Paesaggio (CdE, 2000), ove richiede di estendere a tutto il territorio le politiche del paesaggio. A dispetto di questi orientamenti, non si può negare che i cambiamenti socio-territoriali degli ultimi decenni sono stati caratterizzati da una crescente perdita della memoria, a livello individuale e collettivo. Dalla cancellazione dei luoghi, dall’emarginazione delle testimonianze superstiti delle culture locali, dalla recisione delle continuità col passato o più precisamente dall’incapacità di attualizzare le lezioni del passato, se non nelle forme ingannevoli del ripiegamento nostalgico nelle gabbie delle tradizioni. In questo senso, il recupero e l’innovazione dei paesaggi agrari nei territori della contemporaneità rappresentano una sfida di grande rilievo per la costruzione del futuro. Una sfida tanto più difficile quanto più si 72
coniuga con la ricerca dell’ordinarietà e della quotidianità, esplicitamente raccomandata dalla Convenzione Europea, in vista di un miglioramento complessivo della qualità del contesto di vita delle popolazioni. Non ci si può certo illudere di contrastare efficacemente lo spreco del suolo e delle risorse primarie e l’instabilità generale del territorio con semplici politiche di vincolo o limitazione, se non si attivano processi virtuosi di rigenerazione urbana e di riqualificazione paesistica. In realtà, la possibilità-necessità di ridisegnare il futuro pone di fronte ad una tensione dilemmatica, che ha alimentato e alimenta non poca confusione nella pianificazione territoriale. Da un lato, si avverte la difficoltà di disporre di conoscenze e interpretazioni adeguate a cogliere, prevenire e gestire le tendenze evolutive, nonostante la crescente incertezza e imprevedibilità dei processi decisionali. A questo riguardo si è registrato negli ultimi decenni un notevole interesse per le “interpretazioni strutturali” del territorio, volte a individuare fattori e relazioni di rilievo strutturale e di lunga durata o permanenza, capaci di assumere il ruolo di “invarianti” nei confronti delle strategie di intervento (Gambino, 2009, 2010). Dall’altro lato e in parte per le stesse ragioni, si nota il ricorso sempre più frequente alle politiche di emergenza, volte a rispondere con la necessaria prontezza ad eventi e congiunture imprevisti, eccezionalità o straordinarietà delle situazioni istituzionali, ecc.. Ma l’esperienza insegna che la deriva “emergenziale”, spesso ambiguamente intrecciata alle interpretazioni strutturali, inceppa i percorsi di confronto e deliberazione democratica e insidia la trasparenza e correttezza delle azioni di governo.
L’agricoltura nelle dinamiche sociali. In contrasto con l’apparente staticità, tradizionalmente contrapposta alla dinamicità dell’industria e della città, il mondo agricolo sembra destinato a configurarsi nei prossimi anni come un teatro di importanti cambiamenti sociali. Sullo sfondo, quel groviglio inestricabile di ansie e di paure, di rischi e di minacce, di speranze e di bisogni, cui si allude col binomio della “questione ambientale”, sembra aggravarsi e complessificarsi per almeno due ragioni interconnesse: la globalizzazione dei rischi ambientali e delle dinamiche economiche, sociali e culturali, e la crisi della “visione occidentale” che ha finora fornito le principali chiavi esplicative con cui affrontare i problemi ambientali sul tappeto. Entrambe le ragioni spingono a ripensare il rapporto tra l’uomo e la terra e di conseguenza il ruolo dell’eredità naturaleculturale nelle attese e nei progetti di vita e di sviluppo della società contemporanea. In questo quadro, illuminato dalle lezioni del passato e dalle lezioni che ci vengono da altre culture e da altre parti del mondo, anche le domande sociali che si rivolgono all’agricoltura sono destinate a diversificarsi, come del resto è avvenuto ripetutamente in passato, soprattutto in concomitanza con le grandi svolte della storia. È quasi ovvio constatare che la domanda sociale a cui l’agricoltura dovrebbe rispondere è assai più articolata di quella tradizionalmente attribuita, poiché include la richiesta di prestazioni che vanno molto al di là della produzione per l’alimentazione, quali la produzione di materiali da costruzione, la produzione di energia in varie forme, il contributo alla stabilità idrogeologica e alla riduzione dell’inquinamento idrico ed atmosferico, ed altre ancora, non ultime il gusto e la qualità dei cibi e l’amenità dei paesaggi. Prestazioni dirette, ma anche prestazioni indirette, quali quelle orientate all’attrazione dei flussi turistici e al 73
consolidamento e alla qualificazione delle economie locali. Prestazioni che in qualche misura hanno trovato riscontro nei quadri istituzionali, in particolare nelle misure, nelle direttive e nelle politiche comunitarie. Ma ciò che in questa sede preme notare è che la complessificazione della domanda sociale rivolta all’agricoltura comporta crescenti esigenze di confronto e composizione dei diversi interessi e dei diversi valori che ciascuno dei soggetti in gioco intende sostenere, ivi compresi gli interessi e i valori sostenuti dallo stesso mondo agricolo, in funzione delle sue istanze di modernizzazione più o meno dichiarate. Se il confronto si esaurisce nello scontro tra i diversi interessi e valori rischia, come l’esperienza insegna, di sconfiggere sempre le parti più deboli, dando risalto meramente retorico agli interessi pubblici coinvolti. Per evitare il rischio di una sistematica subordinazione dei “beni comuni” che l’agricoltura può concorrere a tutelare, occorre allora “ragionar per principi“ (Zagrebelski, 2013) e riconoscere i diritti che ne conseguono, conquistati spesso in esito ad aspre contese politiche e sociali. Nuovi diritti di cittadinanza, come il diritto alla bellezza, alla sicurezza o al “vivere felici”, possono trovare nella difesa attiva del paesaggio rurale un presidio efficace, spesso più efficace della protezione tradizionalmente accordata ai beni “eccellenti”. Ma a tal fine occorre che le scelte d’intervento sul territorio siano sorrette da processi progettuali e valutativi tali da fare emergere i sistemi di valori, le opportunità e i soggetti coinvolti nei confronti necessari. Questo riguarda le responsabilità tecniche, scientifiche e culturali implicate nei processi di valutazione e di progetto. Ma perché il confronto tra le diverse opzioni in gioco sia realmente produttivo, deve essere adeguatamente informato. Occorre quindi che tali processi offrano concretamente la possibilità di un duplice confronto: da un lato, tra il sapere esperto (dei tecnici, degli scienziati, degli amministratori) e il sapere diffuso degli abitanti e delle comunità locali interessate; dall’altro, tra le conoscenze degli specialisti delle diverse discipline coinvolte, chiamati a interagire al fine di praticare approcci, valutazioni e proposte effettivamente integrate.
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Bibliografia Ancsa (Associazione Nazionale Centri Storico Artistici), Carta di Gubbio, Gubbio, 1960, 1990. A. Berque, “L’ecumene”, in Spazio e società, 1993, n.64. J.L. Borges, 1984: Tutte le opere, A. Mondatori, Milan. F. Braudel, Civiltà materiale, economia e capitalismo (sec. XV-XVIII), in I tempi del mondo, Einaudi, Torino, 1982. C. Cattaneo, Industria e morale, in Atti della società d’incoraggiamento d’arti e mestieri, Milan, 1845. CdE (Consiglio d’Europa, congresso dei poteri locali e regionali), Convenzione Europea del Paesaggio, Firenze, 2000. Ced-ppn (Centro Europeo di Documentazione sulla Pianificazione dei Parchi Naturali), Parchi d’Europa, Ed. ETS, Pisa, 2008. F. Corrado, Ri-abitare le Alpi. Nuovi abitanti e politiche di sviluppo, Eidon, Genova, 2010. G. Deleuze, Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, Castelvecchi, Roma, 1997. H. De Varine, Le racines du futur, Asdic, Chalon sur Saone, 2002. P. Donadieu, La campagna urbana, a cura di M.Mininni, Donzelli, Roma, 2006. R. Gambino, Conservare innovare: paesaggio, ambiente, territorio. Utet, Torino, 1997. R. Gambino, Parks Policies, a European Perspective, in Environments, a Journal of Interdisciplinary Studies, vol. 30, n.2, Toronto, 2002. R. Gambino, Urbanitè, ruralitè et naturalitè en rèseaux, Colloque sur la ville-nature contemporaine, Institut d’Urbanisme de Grenoble, Grenoble, 2004. R. Gambino, Paysage et territoire en Europe et en Italie, Universitè Lyon III, Lyon, 2005. R. Gambino, 2009: Parchi e paesaggi d’Europa, Lectio Magistralia, Politecnico di Torino, Torino. R. Gambino, Landscape Analysis and Planning, Unesco Master on World Heritage at Work , Torino, 2010. G. Giorello, Natura e ideologia, in Idea di natura, a cura di E. Candelo, ed. Marsilio, Venezia, 2008. Ipee, Towards a European ecological Network, Arnhem, 1991. Iucn (International Union for the Conservation of Nature), Vth World Parks Congress: Benefits Beyond Boundarys, Durban, septembre 2003. A. Magnaghi, 1998: Il territorio degli abitanti, Dunod, Milano. C. Raffestin, Il senso del paesaggio, a cura di P. Castelnovi, Issu, Ires, Ttorino, 2000. S. Schama, Paesaggio e memoria, Mondadori, Milano, 1995. W. Zagrebelski, : scritti vari su La Repubblica, Milano, 2013.
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Antico e Nuovo
Franco Mancuso
Per anni, soprattutto in Italia, il dibattito culturale sui rapporti fra nuovo e antico è stato dominato dalle problematiche del linguaggio, con la convinzione che dovesse essere l’antico a dettare le regole per il nuovo: linguaggi, forme, materiali del nuovo erano leggittimati a sovrapporsi all’antico, quando ne avessero ripreso i connotati essenziali, seppure reinterpretati dalla sensibilità e dalla cultura del progettista. Ma nella pratica del riuso, che oggi sempre di più si impone, tutto ciò che già c’è - vale a dire l’antico – è chiamato a rispondere alle nuove domande che la città esprime: conventi abbandonati e fabbriche dismesse che diventano scuole, musei, università, spazi per la ricerca; tessuti residenziali che si modernizzano, pur mantenendo le funzioni abitative, arricchendosi di servizi ed apparati tecnologici indispensabili alla vita contemporanea. Tutto ciò comporta, oggi più che mai, un cospicuo e di volta in volta inedito accoppiamento con il nuovo: si tratta infatti di concepire organismi capaci di corrispondere a funzioni articolate e complesse, nei quali l’incidenza quantitativa e qualitativa di nuovi manufatti e componenti non può che essere elevata. A partire da queste considerazioni, appare evidente che il rapporto deve essere ribaltato. Se è il nuovo che rigenera l’antico, l’antico senza il nuovo rischia di dissolversi. Il nuovo lo riscatta da una perdita di senso che lo porterebbe gradatamente a scomparire dalla scena urbana. Del resto in tutte le città storiche il nuovo irrompe nel costruito da sempre. Fino a che viene metabolizzato, e diventa esso stesso antico, in un processo continuo. Qui i nostri interventi non aspirano ad altro che ad essere assorbiti dal contesto e diventarne presto brani significativi, tanto più oggi, che si è consapevoli dell’utilità di operare nella prospettiva del riuso (ma attenzione, il riuso c’è sempre stato) e che nuove funzioni e nuove architetture sono necessarie per garantire la sopravvivenza della città storica. È in questa prospettiva che va visto il ribaltamento dei termini cui si è accennato: e cioè che è il nuovo, se concepito con intelligenza, cultura e proprietà, che dà senso all’antico. Perché l’antico, perdute le originarie funzioni, ha smarrito non di rado la propria identità, ha spesso cessato il suo ruolo, fino talvolta a scomparire dalla scena urbana e dalla memoria dei suoi abitanti. È allora il suo complemento – le nuove propaggini, le nuove addizioni, i nuovi apparati necessari per le nuove funzioni – a rivelarne e riproporne i caratteri offuscati dal tempo, 77
togliendolo dall’oblio; ne riesuma qualità nascoste ed obsolete; rimuove il cono d’ombra che ne aveva gradatamente impedito la percezione; getta luce nuova sugli originari contorni. Un buon progetto dunque, se colto e consapevole, può stabilire un’inedita caratterizzazione dell’antico che passa inevitabilmente attraverso il disegno del nuovo, la sua equilibrata misura, la sua pacata incidenza, il suo linguaggio dialetticamente ma non aggressivamente contrapposto. Nelle nostre città storiche e segnatamente nelle maggiori il nuovo fa irruzione nell’antico da sempre. Si pensi a Venezia, solo per citare la più famosa, che rivela oggi la sua straordinaria complessità attraverso la stratificazione di più di un millennio di storia urbana, nutritasi di interventi edilizi caratterizzati da tecnologie e linguaggi di volta in volta diversi, seppur amalgamati dalla forza del peculiare contesto. È dunque la storia, da sempre, che modella le nostre città. Nelle quali gli eventi, con il trascorrere delle generazioni, lasciano segni e impronte che le città appunto filtrano e trattengono e tanto più ricche e attraenti appaiono – i centri storici appunto, al confronto con le espansioni contemporanee – quanto più i segni della storia sono palesi e ben incorporati. Sono le città che riescono a rivelare, per il loro tramite, il trascorrere della storia. Gli eventi certo scorrono lenti, lentissimi – millenni, come si è detto – e dunque il loro depositarsi nelle città avviene di norma senza traumi, per accrescimenti successivi. Ma talvolta sono irruenti, improvvisi, imprevedibili, perché è la natura a determinarli – i terremoti, dunque. Anche se non di rado sono altrettanto irruenti per le espressioni del potere di chi governa le città e le nazioni: il potere militare – si pensi solo alle laceranti rimodellazioni urbanistiche dovute alle difese cinquecentesche – ma poi le guerre, le distruzioni, le ricostruzioni; o le espressioni del potere economico, quando massimamente si concentrano nelle città, e dunque gli sventramenti e i grandi spazi delle celebrazioni, aperti nel vivo tessuto delle città. Per non parlare delle grandi trasformazioni otto-novecentesche, legate agli interventi infrastrutturali, le ferrovie, i porti, e quant’altro. Ma veniamo ai terremoti, nelle nostre tre comunità urbane dell’Emilia delle quali ci stiamo occupando, alle prese con le loro piccole e grandi lacerazioni urbanistiche. In tali circostanze, il tema del rapporto fra antico e nuovo deve essere posto considerando anzitutto le problematiche di scala urbanistica, piuttosto – e in ogni caso prima – di quelle riguardanti i linguaggi del progetto architettonico, cui all’inizio si è accennato. Qui la ricostruzione certo si impone; ma forse non sempre con la riproposizione dei tessuti urbanistici ed edilizi così come erano prima del sisma. Credo che a questo proposito valga la pena di ricordare che non di rado grandi e piccoli eventi sismici hanno determinato la scoperta di storie precedenti, spesso antichissime, che erano state occultate da quel lento evolversi delle città che prima avevamo evocato: eventi attraverso i quali sono venute alla luce tracce cospicue di un passato anche lontanissimo, del quale non si avevano altro che esili indizi, e che ora appare in tutta la sua dimensione. Non è il nostro caso, ovviamente. Qui la scala e la dimensione delle distruzioni è modesta e localizzata. Ma non possiamo non avere presenti esperienze nelle quali tutto ciò è avvenuto: come a Conza, la città collinare dell’Irpinia totalmente distrutta dal terremoto del 1980 e poi ricostruita nel piano più in basso, a un chilometro di distanza; malamente, come sempre accade in Italia. A Conza, nella città distrutta, il sisma rivela improvvisamente, ma sempre più palesemente, le tracce dell’antica città romana (è l’antica Compsa, del IV secolo a.c.), della quale si avevano solo esili indizi: sotto la Cattedrale dell’Assunta, ecco dapprima tracciati 78
delle fondazioni di basiliche antecedenti distrutte a loro volta da precedenti terremoti; ma poi, sempre più evidenti, quelli dell’antico foro romano, con all’intorno tombe, case, ville, necropoli, terme. Pur nella costernazione per la perdita della città (vi morì un decimo della popolazione), Conza acquista gradatamente la consapevolezza che ciò che resta, per i suoi valori pur così traumaticamente rivelati, può divenire una risorsa e intravvede la possibilità di realizzarvi un parco archeologico che gradatamente si fa, anche se, certo, non potrà mai ripagarla per quanto ha subito. Quello di Conza è certo un caso estremo. Vi sono eventi più circoscritti, che colpiscono “fra” le maglie dei tessuti urbani: ma che proprio per questo possono rivelare le potenzialità di un luogo fisico, di uno spazio urbano che dimostra di poter essere ripensato, con interventi appropriati, in grado di saper trasmettere i segni di quanto è avvenuto. Dove gli eventi, non così traumatici come quello di Conza, hanno lasciato segni anche profondi, non di rado perfino laceranti, che tuttavia sono stati incorporati nella realtà contemporanea. Vorrei citarne uno, fra quelli più noti, nel quale gli effetti sono stati assunti essi stessi come storia: una storia che irrompe nella città, improvvisa e non governata, non decisa dagli uomini che la abitano. Ma pur sempre storia. E’ il caso di Salemi, città siciliana caratterizzata da un impianto di origine araba gravemente danneggiata dal terremoto che nel 1968 aveva colpito la valle del Belice. Al contrario di quanto è avvenuto nelle vicine città di Poggioreale e Gibellina, ricostruite con scarsa attenzione per i segni della storia e collocate in posizioni diverse da quelle originarie, il tessuto urbano salemitano è stato oggetto di una paziente operazione di recupero, che ha avuto nella risistemazione di Piazza Alicia uno dei suoi episodi principali. La piazza, che si sviluppa alla sommità dell’abitato, è da sempre caratterizzata dalla presenza del Castello Svevo, che con la sua imponente mole domina l’intera vallata, e della seicentesca Chiesa Madre, quasi del tutto distrutta dal sisma. Nella risistemazione dell’area è stata seguita l’idea della conservazione dei segni fisici impressi dal terremoto all’interno del tessuto urbano, con l’assunzione della “rovina” come fulcro dell’intervento progettuale: i ruderi della chiesa sono diventati la quinta scenica di un nuovo più ampio spazio pubblico che partendo dalla piazza preesistente si dilata all’interno del recinto dell’antica basilica. Qui i resti dell’abside sono stati consolidati e lo spazio interno è stato ripavimentato e ricollegato al livello inferiore della piazza; il nuovo perimetro è stato formalmente evidenziato e alcune colonne sono state risistemate sul loro originale tracciato, reso nuovamente visibile da plinti in pietra poggiati sulla piattaforma lapidea. Mentre la continuità fra i due ambiti che oggi danno forma a questo spazio urbano è stata sottolineata da alcune colonne che sono state sistemate al di fuori della chiesa e collocate di fronte al castello. Una storia indesiderata certo, quella di Salemi; ma che rivela improvvisamente le potenzialità di un luogo fisico che ora può essere ripensato, esibendo le tracce degli eventi da cui ha preso forma. In questi casi – ci stiamo riavvicinando alle nostre realtà emiliane – il dilemma non è più solo relativo a quel frammento chiamato a sostituire il lacerto di quanto è crollato – e dunque come agire: per imitazione, riproposizione, mutazione o ripresa di forme e linguaggi? Il nuovo è quel brano di spazio – con le sue architetture, certo – che ora si può creare nella città: nuovo dunque perché prima non c’era e che recupera i segni dell’evento stesso che lo ha 79
generato, senza camuffamenti, ma anzi rendendoli protagonisti della scena urbana così come la storia dell’oggi ce lo presenta. Vi sono almeno due situazioni, nelle nostre città emiliane, nelle quali la lezione di Salemi – e di tutte le esperienze analoghe che qui non abbiamo avuto il tempo di descrivere – può essere utilmente considerata. La prima è quella di Mirandola, e in particolare dell’intorno della Chiesa di San Francesco: improponibile ricostruirla, data l’entità dei danni subiti: ma perché non considerarla, così com’è, e pur con gli indispensabili consolidamenti, come il fulcro di un nuovo e più ampio spazio pubblico, che la compenetri e che ne trasmetta la memoria, anche quella del sisma, dando corpo a un “nuovo” brano di città in grado di ricucire i tessuti che vi convergono e meglio annodarsi con i suoi circostanti prolungamenti? La seconda è quella di Finale Emilia, nel tratto terminale della via Trento e Trieste, dove un tempo scorreva l’acqua del Panaro e dove il sisma ha colpito duramente il quattrocentesco Castello delle Rocche, facendone crollare l’antico mastio; ma anche, seppure meno intensamente, il Teatro Sociale che lo fronteggia sul lato opposto della strada. Quando si metterà mano alla ricostruzione del Castello e al consolidamento del Teatro qui tutto potrà prospettarsi secondo un inedito progetto urbano, se il disegno della ricostruzione considererà l’insieme degli spazi che stanno fra o intorno ai monumenti: il parcheggio retrostante la rocca, il fossato, il giardino pubblico verso via Trento e Trieste, lo spazio antistante il Teatro. La ricostruzione potrà essere una risorsa, che faccia di quell’insieme incongruo di spazi un brano di città inedito e stimolante, non escludendo di potervi riproporre il senso del fossato (un tempo alimentato dalle acque del Panaro) e l’immagine del bel loggiato interno alla rocca, ora assai ben percepibile. Il “nuovo” dunque è la città, nei nodi dove il significato della storia, di ieri e di oggi, può essere ripensato. Ai linguaggi penseremo dopo.
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Esperienze di prevenzione sismica e ricostruzione nei centri storici
Irene Cremonini
Vulnerabilità e rischio a scala urbana: qualche concetto Secondo le “Norme per la ricostruzione nei territori interessati dal sisma del 20 e 29 maggio 2012”, la ricostruzione dei centri storici deve perseguire, tra l’altro: la tutela e valorizzazione dei tessuti urbani; il recupero degli edifici e dei manufatti che costituiscono i principali elementi identitari delle comunità locali; il rapido rientro dei residenti nelle proprie abitazioni e la ripresa delle attività economiche, culturali e sociali; il miglioramento della sicurezza e della qualità del tessuto edilizio e la riduzione della vulnerabilità urbana (Lr 16/2012, art.5). Secondo la legge 147/2013, art.1, comma 369, per favorire inoltre la ricostruzione, riqualificazione e rifunzionalizzazione degli ambiti dei centri storici e dei centri urbani che hanno subito gravi danni, i Comuni predispongono appositi piani organici finalizzati al ripristino delle condizioni di vita, alla ripresa delle attività economiche ed alla riduzione della vulnerabilità edilizia ed urbana. Le norme citate operano dunque una netta distinzione tra la vulnerabilità edilizia e quella urbana, pur senza darne definizioni o indicare strategie analitiche ed occorre ricorrere ad alcuni recenti documenti internazionali, nazionali e regionali per comprendere il concetto di vulnerabilità urbana (diverso dalla sommatoria delle singole vulnerabilità edilizie) ed il contributo della stessa nel determinare il rischio, così da evitare facili e purtroppo diffuse confusioni tra rischio e pericolosità, tra rischio e vulnerabilità che possono ostacolare un’effettiva riduzione preventiva di vulnerabilità urbana e di rischio sia in sede di progettazione della ricostruzione post-sisma sia in sede di pianificazione ordinaria. Occorre ricordare che già l’art.7 delle Norme per la riduzione del rischio sismico (Lr Emilia-Romagna n.19/2008), per individuare il rischio a scala territoriale, fa riferimento alla pericolosità del territorio, alla distribuzione e vulnerabilità degli insediamenti urbani, delle attività produttive e delle reti infrastrutturali, in modo congruente al tradizionale approccio al Rischio come prodotto di Pericolosità, Vulnerabilità ed Esposizione avanzato fin dal secolo scorso dall’United Nations Disaster Relief Organization UNDRO, ripreso in Italia dal CNR sin dagli anni Ottanta e che trova attualmente riscontro nella Direttiva 2007/60/CE sulla valutazione e gestione dei rischi da alluvioni, nei documenti dell’ Intergovernmental Panel on Climate Change IPCC (2012) e del Ministero italiano dell’Ambiente (si veda: Elementi per una Strategia Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici, 2013). 81
Secondo tali recenti documenti, il rischio di disastri indica la probabilità, in un periodo di tempo specificato, di gravi alterazioni nel normale funzionamento di una comunità o di una società a causa di eventi fisici pericolosi che, interagendo con condizioni sociali vulnerabili, portano a effetti avversi diffusi di tipo umano, materiale, economico o ambientale che richiedono un’immediata risposta di emergenza per soddisfare i bisogni umani fondamentali e che possono richiedere un supporto esterno per il recupero (IPCC, 2012). In tale definizione si evidenziano quindi: • oltre ai tre fattori determinanti il rischio, anche la multidimensionalità di tali fattori (es. vulnerabilità sociale) e degli effetti dei disastri (umani, materiali, economici o ambientali). • l’inscindibilità delle politiche di prevenzione (imperniate su politiche di governo del territorio ed edilizie); di protezione (basate su interventi strutturali mitigativi degli effetti dannosi); di preparazione (organizzazione della protezione civile ad aumento della resilienza delle comunità attraverso interventi di governo del territorio, di informazione e formazione); di assistenza e ricostruzione (protezione civile, contributi alla riparazione/ricostruzione e pianificazione della ricostruzione); • l’importanza degli aspetti sistemici del rischio e della vulnerabilità, a cui sembra far riferimento anche il Dipartimento nazionale per la Protezione civile quando, già nel glossario contenuto negli Indirizzi per la microzonazione sismica (2008) definisce la vulnerabilità come “Propensione al danno o alla perdita di un sistema a seguito di un dato evento sismico. La vulnerabilità viene detta primaria se relativa al danno fisico subito dal sistema per effetto delle azioni dinamiche dell’evento, secondaria se relativa alla perdita subita dal sistema a seguito del danno fisico”. Lo Studio propedeutico all’elaborazione di strumenti d’indirizzo per l’applicazione della normativa sismica agl’insediamenti storici, presentato dal Consiglio Superiore Lavori Pubblici all’Assemblea generale 20.4.2012, oltre a ben cogliere gli aspetti sistemici del rischio sismico, la multidimensionalità dei componenti del rischio e degli effetti dei terremoti, l’inscindibilità delle politiche atte a fronteggiare il rischio, offre una definizione di vulnerabilità urbana molto utile per le politiche di governo del territorio. Al par. 2.1.2 afferma infatti “La città e le sue varie parti erogano servizi e funzioni, così come un sistema edilizio complesso (es. ospedale, con reparti connessi tra loro). La prevenzione mira a mantenere attive le funzioni “vitali” del centro urbano, compresa la sua parte storica (immagine, servizi, funzione residenziale, funzione produttiva, collegamenti, ecc. ...) e perciò richiede un preliminare apprezzamento della propensione alla perdita di organizzazione del sistema urbano, in conseguenza di danni sismici ai componenti dei vari sistemi che assicurano le singole funzioni vitali (= valutazione della vulnerabilita’ urbana)”. Tale valutazione, sempre secondo il Consiglio Superiore, richiede un approccio sistemico: ogni elemento appartiene ad un sistema funzionale unitario, ai cui livelli di prestazione fornisce uno specifico contributo ed in cui svolge un preciso ruolo (con conseguenti scambi di risorse con altre parti del territorio). Per condurre quindi una valutazione della vulnerabilità urbana con riferimento ad un insediamento storico occorre: 1. caratterizzare l’esposizione a scala urbana, valutando ad esempio: • quantità di presenti e loro spostamenti quotidiani o periodici (dipendenti dall’organizzazione dei sistemi); • valenza di manufatti e spazi che nel loro insieme conferiscono il valore culturale e identitario all’insediamento storico (valenze da conservare); • quantità e importanza (es. livello gerarchico e quota di standard assicurato) che 82
i vari manufatti rivestono nel funzionamento dei vari sistemi funzionali urbani (dipendente dall’organizzazione dei sistemi); 2. caratterizzare la vulnerabilità dell’insieme dei componenti edilizi o infrastrutturali di ciascun sistema, valutando ad esempio: • vulnerabilità diretta dei manufatti componenti il sistema (dipendente dalle caratteristiche morfologiche e strutturali dei manufatti); • quantità di negative interazioni tra elementi appartenenti al medesimo sistema o a sistemi diversi (dipendenti dalla morfologia urbana - da tutelare nell’insediamento storico - e dal processo di formazione del tessuto edilizio); 3. l’effettiva interazione dei vari manufatti, dotati di un preciso peso e ruolo nei sistemi funzionali, con pericolosità di base e locale, pericolosità idrogeologica e idraulica.
Un possibile approccio alla riduzione preventiva della vulnerabilità sistemica urbana Un approccio sostenibile alla riduzione preventiva della vulnerabilità sistemica urbana tende perciò a salvaguardare le prestazioni dei sistemi funzionali urbani: • riducendo, in modo selettivo e mirato, la vulnerabilità diretta dei componenti edilizi ed infrastrutturali strategici per il funzionamento dei sistemi urbani; • diminuendo l’influsso sui sistemi della pericolosità locale (delocalizzazioni, bonifiche, interventi di adeguamento sismico); • migliorando l’organizzazione spaziale e funzionale dei sistemi di attività urbane per renderli meno danneggiabili e più resilienti. Sembra necessario esemplificare alcuni aspetti di organizzazione funzionale dei sistemi che possono influire sulla vulnerabilità urbana. Innanzitutto ogni sistema funzionale urbano (ad es. casa, servizi, produzione, commercio, accessibilità locale e generale, reti infrastrutturali) fornisce prestazioni di determinato livello (standard): i sistemi sottodimensionati o congestionati (bassi standard) anche in rapporto a danni sismici limitati possono raggiungere lo stato di collasso funzionale. La concentrazione, ad esempio nella parte storica della città, della prevalenza dei componenti del sistema delle attrezzature commerciali, del sistema per la ricreazione e del sistema dei servizi pubblici rari, fa sì che il prevedibile danno all’insediamento storico comporti grande decadimento delle prestazioni dell’intero insediamento urbano. Una forte specializzazione funzionale del territorio ed una forte gerarchizzazione dell’organizzazione dei sistemi richiede intensi scambi di risorse nel corso della giornata (persone, merci, energia, ecc.) rendendo il funzionamento del sistema urbano dipendente dalla vulnerabilità delle reti infrastrutturali. E’ rilevante anche l’organizzazione spaziale dei sistemi: ad es. i sistemi concentrati in pochi manufatti storici specialistici, localizzati all’interno di aree che il terremoto può rendere inaccessibili, possono collassare totalmente, cioè non riuscire più a rendere nessuna prestazione. Al contrario, un’organizzazione diffusa nel territorio dei manufatti dei sistemi ne riduce la vulnerabilità funzionale in caso di sisma, così come la ridondanza dei sistemi. Sempre in tema di organizzazione spaziale, ad esempio un sistema insediativo di fondovalle, lineare, in caso di sisma può essere molto vulnerabile (per probabili crolli di alcuni edifici in fregio all’unica strada principale, per facili danni ai numerosi manufatti di attraversamento e per possibili frane); la vulnerabilità diretta dell’insediamento di fondovalle 83
può compromettere inoltre l’operatività dei fasci infrastrutturali che lo attraversano (strade, acquedotti, elettrodotti, gasdotti), in genere di rilevanza regionale in quanto servono, senza reali alternative, centri montani, centri di fondovalle e grandi centri di pianura, anche posti a notevole distanza. Va infine osservato che gli insediamenti temporanei post-sisma (residenziali o produttivi o per attrezzature pubbliche) finiscono spesso con modificare l’organizzazione funzionale del sistema urbano, deviando i flussi di persone durante il giorno; compromettendo i sistemi economici per i quali i fattori di localizzazione sono importanti (es. commercio e servizi alla persona); modificando l’accessibilità alle attrezzature collettive.
La metodologia di valutazione della vulnerabilità urbana sperimentata in EmiliaRomagna tra 1990 e 2005 Le considerazioni svolte nel paragrafo precedente sono sottese alla metodologia di Analisi preliminare, valutazione e riduzione dell’esposizione e della vulnerabilità sismica dei sistemi urbani illustrata dalla regione Emilia-Romagna nei manuali pubblicati nel 1999 e nel 2004. Questa metodologia, corredata nel 2004 da un foglio di lavoro EXCEL per la valutazione, venne sperimentata nel corso degli anni Novanta e primi anni 2000 in 35 Piani di Recupero, con 104 unità territoriali appartenenti a 18 tipi di diversa morfologia urbana, per complessivi 513 ha. Ulteriori applicazioni vennero svolte in Romagna e nelle Marche per il Progetto INTERREG III B SISMA 2004-2007 (Forlì, S. Sofia FC, Bagno di Romagna FC, Offida AP) e per i Contratti di QUARTIERE 2 in Emilia-Romagna (2004-2005). Sperimentazioni post-sisma sono state svolte dall’Istituto Nazionale di Urbanistica INU in Abruzzo (Poggio Picenze-AQ nel 2010-2011) ed in Emilia-Romagna (Crevalcore-BO nel 2012). La dimensione complessiva della sperimentazione è quindi di 156 UT, per 1.027 ha con 26 tipi di morfologia urbana, senza contare che le numerose applicazioni in tesi di laurea hanno quasi raddoppiato la dimensione della sperimentazione. La valutazione della vulnerabilità urbana così sperimentata richiede dapprima una visione territoriale di sintesi, per cogliere l’organizzazione funzionale e spaziale dei vari sistemi (abitativo, produttivo, delle attrezzature, delle infrastrutture, ecc.) nel territorio comunale. È cioè indispensabile capire la gerarchia dei componenti dei sistemi funzionali sia a rete sia ad edifici; dedurre i flussi di persone nell’arco del giorno o delle stagioni; valutare gli standard di funzionamento dei vari sistemi; individuare la distribuzione nel territorio dei singoli sistemi e metterla in rapporto con il substrato fisico, cioè con pericoli idrogeologici e situazioni geomorfologiche di possibile amplificazione degli effetti sismici. Dalla visione generale occorre poi passare ad una visione più analitica, suddividendo il territorio in unità territoriali UT, possibilmente omogenee per morfologia urbana. Per ciascuna UT va valutata l’esposizione fisica (es. quantità di manufatti), il peso % ed il ruolo (territoriale, gerarchico, contributo allo standard) dei manufatti rispetto a ciascuno dei sistemi di appartenenza (esposizione funzionale); vanno stimate le presenze collegate e la durata della relativa permanenza. In ciascuna UT occorre poi valutare il grado d’interferenza degli elementi esposti con situazioni di pericolosità idrogeologica e con le situazioni geologico-morfologico tali da causare effetti locali, nonché occorre stimare l’intensità di tali effetti, utilizzando eventuali studi di microzonazione sismica (pericolosità locale). Va inoltre stimato il livello medio di vulnerabilità di edifici e reti che compongono ciascun sistema funzionale incluso nell’UT. A tale ultimo fine è importante economizzare tempo e risorse, 84
quindi usare prevalentemente fonti esistenti quali precedenti valutazioni campionarie di vulnerabilità edilizia, anche speditiva; eventuali censimenti con schede AEDES 1998; elaborazioni appropriate di informazioni deducibili da censimenti ISTAT e da SIT comunali, ecc. per costruire ad es. classi tipologiche di edifici con corrispondenti classi di vulnerabilità diretta: un censimento sistematico e non speditivo non è in genere sostenibile nel contesto della formazione degli strumenti di governo del territorio o di ricostruzione. Occorre inoltre «contestualizzare» gli elementi dei sistemi contenuti nell’UT rispetto all’aggregazione edilizia, alla presenza di manufatti critici, ai rapporti tra edifici edifici e reti che caratterizzano la morfologia urbana dell’UT (vulnerabilità indotta da contiguità e da elementi critici). Nella metodologia sperimentata in Emilia-Romagna ha particolare importanza, preliminarmente alla rilevazione degli elementi qualitativi e quantitativi tramite il foglio EXCEL, la rappresentazione topografica del maggior numero possibile degli elementi sopra menzionati, perché permette di cogliere le relazioni spaziali e di contesto nei sistemi funzionali e tra sistemi funzionali. Rappresentazione e rilevazione, anche prima della valutazione, servono già a sensibilizzare gli operatori del governo del territorio circa i fattori influenti sul rischio (figura n.1).
Figura n.1: La metodologia del CONSUP e quella dell’Emilia-Romagna valorizzano la rappresentazione cartografica degli elementi influenti sulla vulnerabilità sismica dei vari sistemi funzionali al fine di cogliere: le relazioni tra componenti, la vulnerabilità indotta dal contesto, l’influenza sui sistemi della pericolosità locale. Comune di Poggio Picenze AQ - U.T.Castello Capoluogo - Studio preliminare della vulnerablita’ dei sistemi urbani condotto nel 2009-2010 dal GdiL INU “Vulnerabilita’ sismica urbana e rischi territoriali”
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La successiva combinazione (mediante la definizione di classi e di punteggi) degli elementi quali-quantitativi censiti con il foglio di lavoro EXCEL permette di costruire ed assegnare un livello preciso a 7 indicatori per ciascuno degli 11 sistemi funzionali considerati essenziali per la qualità urbana, (presenze, abitativo, manifatturiero, terziario, edifici di rilevante interesse, beni culturali, vie di fuga e soccorso, reti tecnologiche, accesso all’UT, accesso agli edifici di rilevante interesse). I sette indicatori approssimano, per ciascuna UT e per ciascun sistema, il livello di: • Esposizione fisica • Esposizione funzionale • Standard prestazioni del sistema • Vulnerabilità diretta media dei componenti il sistema • Vulnerabilità indotta da contiguità • Vulnerabilità indotta da elementi critici • Interferenza del sistema con effetti locali La combinazione di tali indicatori permette: • di valutare il livello di attitudine al danno sismico di ciascuno dei sistemi funzionali presenti in ciascuna UT, • di facilitare la comunicazione, a fini partecipativi e decisionali, del livello di propensione complessiva al danno funzionale di ciascun sistema dell’insediamento, di ciascuna UT o dell’intero insediamento, • di introdurre nel piano di governo del territorio obiettivi di riduzione della vulnerabilità urbana e di aumento della resilienza • di valutare gli effetti sulla vulnerabilità urbana (e conoscendo la pericolosità anche sul rischio) di: Politiche, Azioni, Alternative progettuali, attraverso la VAS/VALSAT • di monitorare gli effetti della pianificazione sulla vulnerabilità urbana.
L’intervento edilizio in edifici contigui ad altri nel Dm 14.1.2008 e nell’esperienza emiliana degli anni Novanta Come si è detto, l’analisi di vulnerabilità urbana sperimentata in Emilia-Romagna dedica molta attenzione al contesto di morfologia urbana dei singoli elementi componenti i vari sistemi funzionali, con particolar riguardo al caso dei tessuti edilizi continui. Sono state perciò definite metodologie speditive (prima qualitative e poi semiquantitative) per rilevare le potenziali interazioni strutturali negative tra i singoli edifici componenti un aggregato edilizio; per conseguenti classificazioni dei singoli aggregati edilizi in base alla vulnerabilità aggiuntiva e per valutazioni del livello di incidenza della vulnerabilità aggiuntiva sui vari sistemi funzionali urbani. Il tema delle interazioni strutturali negative tra edifici contigui e dell’individuazione di unità strutturali ed operative all’interno degli aggregati di edifici in muratura assume molta rilevanza anche nella Normativa tecnica edilizia NTC adottata con il DM 14.1.2008. Tale normativa afferma inoltre che nelle costruzioni in muratura soggette ad azioni sismiche si possono manifestare sia meccanismi globali, dipendenti soprattutto dalla rigidezza e resistenza dei solai e dall’efficacia dei collegamenti degli elementi strutturali (DM 14.1008 – punto 8.7.1) sia meccanismi locali. Questi ultimi sono favoriti dall’assenza o dalla scarsa efficacia dei collegamenti tra pareti e orizzontamenti e negli incroci murari e sono inoltre 86
predeterminabili in base alla posizione dell’edificio nell’aggregato, alla posizione e forma delle aperture, al processo di formazione degli edifici e dell’aggregato, avvenuto a partire da cellule murarie semplici, poi sovrapposte o accostate a quelle iniziali. È noto infatti che questo modo di formazione dei tessuti edilizi storici origina cellule di accrescimento o di intasamento di spazi liberi che non realizzano scatole murarie ben chiuse, ma che possono avere vincoli deboli tra le pareti, tali da favorire ribaltamenti parziali o totali al di fuori del piano delle pareti stesse (meccanismi locali). Per questo la NTC 2008 chiede, prima di intraprendere la progettazione edilizia esecutiva, di indagare lo sviluppo storico del quartiere in cui l’edificio da recuperare è situato, basandosi su testi specialistici (Circolare n.617/2009 punto C 8.5.1 Analisi storico-critica e punto C 8A.3.1). Ciò dovrebbe anche servire ad individuare, in via preliminare, l’unità strutturale US oggetto di studio, evidenziando le azioni che su di essa possono derivare dalle unità strutturali contigue (NTC – Punto C 87.1). Il processo progettuale richiesto dalla NTC (sicuramente gravoso per il progettista strutturale) potrebbe essere reso più semplice ed efficace applicando le indicazioni che già con il Progetto di regolamento regionale per gli interventi sul patrimonio edilizio esistente in zona sismica (supplemento BUR n.328/1989) la regione Emilia-Romagna aveva dato per l’intervento su edifici contigui ad altri. Il Regolamento propone un rilievo complessivo dell’aggregato edilizio in scala 1:200, che compendia, pur se in modo semplificato, rilievo geometrico, strutturale, del degrado, del dissesto e delle tracce del processo di formazione degli edifici e dell’intero aggregato rilevabili a vista. Tale tipo di rilievo, sperimentato tra il 1990 ed il 2004 in 175 aggregati con oltre un migliaio di edifici, ha fondato inoltre gli studi del Progetto INTERREG IIIB SISMA in centri storici dell’Emilia-Romagna e delle Marche (2004-2007) ed ispirato studi in molte altre realtà regionali. Esso permette: • di ricostruire concretamente il processo di formazione del tessuto edilizio, riducendo le necessità di ricerche documentarie, • di individuare preliminarmente le unità strutturali US e le unità elementari di progettazione edilizia più opportune, • di individuare le principali interazioni strutturali tra le US dell’aggregato, • di redigere progetti-guida per il coordinamento dei singoli interventi edilizi al fine di migliorare il comportamento sismico d’insieme dell’aggregato, riducendo le interazioni negative. L’esperienza applicativa di tale tipologia di rilievo sviluppata in Emilia-Romagna ed in altri contesti regionali consente di riconoscere i meccanismi di danno attivatisi in occasione dei terremoti emiliani del 2012, di correlarli al processo di formazione di edifici ed aggregati nonché di valutare le conseguenze dannose di interventi di sottrazione edilizia all’interno degli aggregati stessi (figura n.2). Ciò è essenziale per pianificare la ricostruzione.
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Figura n.2- Il raffronto tra la situazione attuale (a destra) e il catasto 1890 ( a sinistra), evidenzia la demolizione, all’inizio del Novecento, di un edifico all’interno di uno dei due lunghi aggregati di edifici, a causa della realizzazione di un nuovo accesso carrabile al centro storico. Il muro in comune tra edifico demolito e l’edificio adiacente viene rivestito da un sottile strato di mattoni e adattato a facciata, con finte aperture. Con i terremoti del maggio 2012 la finta facciata crolla, perché il muro così realizzato non poteva avere caratteristiche di muro di contenimento e specialmente di un edificio concepito come interno all’aggregato divenuto, con la demolizione di quello adiacente, un edificio di testata rispetto ad un lungo aggregato e quindi molto sollecitato.
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Bibliografia Dossier sulla Vulnerabilità sismica nel portale Ingenio - Sistema integrato di informazione per l’ingegnere, gennaio 2015, con contributo di I.Cremonini, La vulnerabilità dei sistemi urbani AA.VV., L’Italia dei disastri: dati e riflessioni sugli impatti degli eventi naturali (18612013), a cura di E. Guidoboni e G. Valensise, Bononia University Press, Bologna, 2013, con il contributo di I.Cremonini, Quale idea di ricostruzione per i centri storici dell’Emilia. I.Cremonini, Riduzione del rischio sismico e ricostruzione: il caso di studio del centro storico di Crevalcore (BO), intervento al Convegno INU Governo del Territorio e prevenzione del rischio sismico: dall’emergenza alla ricostruzione, Urbanpromo, Bologna, 2012. AA.VV., Poggio Picenze interlab. Università abruzzesi per il terremoto, Aracne editrice, Roma, 2010, con contributo di I.Cremonini, Obiettivi e metodi per l’indagine di vulnerabilità dei sistemi urbani AA.VV., Esperienze della regione Emilia-Romagna per il Progetto S.I.S.M.A. System Integrated for Security Management Activities, a cura di I. Cremonini, C. Dondi e S. Lambertini, Regione Emilia-Romagna, Bologna, 2007, Agenzia regionale di protezione civile. AA.VV., La salvaguardia dei valori storici, culturali e paesistici nelle zone sismiche italiane, a cura di S. Menoni, Gangemi editore, Roma, 2006, con contributi di I. Cremonini, Strumenti di governo del territorio e rischio sismico e Analisi e valutazione del rischio sismico negli strumenti di governo del territorio: esempi e proposte. AA.VV., Recupero e riduzione della vulnerabilità dei centri storici danneggiati dal sisma del 1997, edito dalla regione Marche, Tecnoprint, Ancona, 2004 Regione Emilia-Romagna, Servizio Riqualificazione urbana, Analisi, valutazione e riduzione dell’esposizione e della vulnerabilità sismica dei sistemi urbani nei piani urbanistici attuativi, guida per la sperimentazione sismica nell’ambito dei Contratti di Quartiere II, Bologna, 2004, a cura di I. Cremonini. AA.VV., Vulnerabilità sismica e pianificazione degli spazi urbani, Alinea, Firenze 1999, Servizio Sismico Nazionale e Istituto Nazionale di Urbanistica INU, a cura di W. Fabietti, con contributo di I. Cremonini, Il Piano di recupero nel centro storico di Brisighella. AA.VV., Rischio sismico e pianificazione nei centri storici, regione Emilia-Romagna e Istituto Nazionale di Urbanistica-Sezione Emilia-Romagna, a cura di I. Cremonini, Alinea Editrice, Firenze, 1994.
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Sviluppo senza crescita Gli strumenti tecnici Bruno Gabrielli
Sviluppo senza crescita è un gioco di parole per significare una nuova condizione che la crisi che incombe su di noi suggerisce come obiettivo da perseguire. Negli anni del boom economico abbiamo avuto uno sviluppo caratterizzato da una forte crescita in termini di consumi: di risorse, di territorio, di costi di urbanizzazione. Si vorrebbe allora uno sviluppo diversamente orientato: non più sui consumi, ma sui valori. Valori di solidarietà, di riequilibrio nell’uso delle risorse, ma soprattutto di riequilibrio nella distribuzione dei beni e dei servizi disponibili, dato che ci siamo resi conto che lo sviluppo che fino a qualche tempo fa c’è stato, ha creato più disuguaglianze che nel passato, concentrando sempre più ricchezza su una parte privilegiata della popolazione e creando una nuova povertà. Com’è noto, le analisi e le tesi in proposito sono ormai numerose. Rimando pertanto a Bernardo Secchi “La città dei ricchi e la città dei poveri” (2013). Il fenomeno riguarda il mondo intero, in particolare la parte più ricca del globo, e perciò anche l’Europa. In Italia la situazione è tale che ormai si parla di “scomparsa” del ceto medio, che fino a poco tempo fa era la colonna portante del nostro sistema/Paese. Ciò ha a che vedere con la città, specchio evidente di tali squilibri. Se mi riferisco alla mia disciplina, è da tempo chiamato in causa il peggioramento della situazione ambientale dovuto alla crescita ed agli enormi sprechi in termini di territorio sottratto agli usi agricoli. Mentre negli anni del boom economico, che erano gli anni immediatamente a ridosso della ricostruzione post-bellica, il fenomeno dell’urbanizzazione selvaggia poteva essere ritenuto se non giustificato, quantomeno inevitabile (ma tale non era), negli anni successivi, poniamo dagli anni ’70 in poi, non regge alcuna giustificazione. Sono gli anni della nascita delle Regioni, delle leggi nazionali (Legge “Ponte” e successivo Decreto sugli standard, 1968) e regionali e della grande produzione di piani urbanistici. Ciononostante, l’urbanizzazione non subisce cambiamenti, il consumo di suolo aumenta senza limiti nella totale assenza di una politica per il territorio. A fronte di questo disastro ambientale avanza una forte reazione culturale che via via trova sempre maggiori consensi. Quindi nuovi slogan stanno indicando da tempo le strade da perseguire: costruire sul costruito, no allo spreco di suolo, sviluppo sostenibile, città ecologica, difesa del paesaggio, risparmio energetico ecc.. 91
Nonostante questi forti richiami, i piani urbanistici, pur conclamando tutte queste nuove parole d’ordine, ed in qualche modo praticandole, sono redatti come se fosse possibile innescare questo nuovo corso nel loro interno, senza renderci conto che in realtà è necessario un radicale cambiamento. Si è tentato nel passato di governare la situazione attraverso la produzione di leggi e di norme che hanno consolidato un sistema di pianificazione la cui deriva era ineluttabile: troppe leggi e troppe norme producono burocrazia, ancora oggi vi è chi ritiene che si debbano produrre nuove leggi per governare il territorio, mentre i pianificatori ritengono di poter introdurre i nuovi concetti di cui si è detto negli strumenti di pianificazione tradizionalmente utilizzati, senza rendersi conto che ciò non è possibile se il piano resta quello che è, perché l’efficacia di questo strumento è stata annientata da un processo di burocratizzazione senza eguali. L’introduzione di tali nuovi concetti nei piani urbanistici ha funzionato infatti come un “boomerang”, nel senso che sono stati oggetto essi stessi di metabolizzazione burocratica. Pertanto, le esigenze di una pianificazione sensibile ai temi ambientali, anziché migliorare i piani, ha moltiplicato le pratiche burocratiche, senza lasciare i segni di un nuovo corso. La VAS, ad esempio, applicata al piano urbanistico nella sua interezza, finisce con l’assumere i contenuti e le modalità di un nuovo e peraltro inutile gravame burocratico. Burocrazia vuol dire perdere di vista l’obiettivo per privilegiare i mezzi e per la VAS si ha di fatto un analogo processo. La VAS applicata al piano nella sua interezza è di fatto inapplicabile in quanto si presume, con essa di poter operare in presenza di uno strumento “perfetto”, di cui tutto è pre-conoscibile, compresi i possibili esiti del piano, mentre di fatto non lo è nella sua complessità gestionale, nei suoi tempi realizzativi e nei suoi rapporti con processi modificativi “altri”, che il piano non controlla né può controllare. Il piano urbanistico è uno strumento imperfetto per sua natura e concezione, soggetto com’è alla prova sperimentale dei suoi possibili effetti su una realtà in continuo cambiamento. Il presupposto di una valutazione ambientale quale somma di singole valutazioni ambientali applicate ai singoli interventi posti in essere dal piano o alla valutazione del sistema normativo è privo di validità nella sua costruzione teorica ancora prima che nel fornire una prefigurazione degli effetti del piano nelle prassi. Ma ritorniamo ora al tema centrale che riguarda la considerazione che il nuovo corso cui assistiamo, pregno di obiettivi assai diversi da quelli che guidavano la redazione dei piani nel passato, necessita di un radicale cambiamento del piano urbanistico, nella teoria e nella prassi. Fra tutte le istanze di cambiamento oggi presenti, quella che a mio avviso è la più cogente riguarda appunto la necessità di una sburocratizzazione delle procedure urbanistiche. Il rapporto che un auspicabile processo di sburocratizzazione può avere con la nuova domanda di piano risulta evidente dalla constatazione che ogni pratica nasce da un obiettivo, ma che si realizza attraverso la messa a punto di procedure complesse, comporta la perdita dell’obiettivo ed una concentrazione di interesse sulle procedure. Tanto che alla fine è il rispetto agli obblighi procedurali che viene valutato e non il contenuto specifico. È dunque evidente che gli obiettivi contenuti nella domanda di un piano nuovo, sensibile ai temi ambientali, sono perseguibili in assenza di procedure pre-individuate e codificate, ma solo attraverso la prassi del progetto urbanistico. Se dunque occorre “in primis” sburocratizzare il piano, si rende necessario porre ordine in almeno tre questioni: il ruolo dell’Ente Regione, il ruolo della Sovrintendenza, il ruolo che assume il fattore tempo. • La Regione dovrebbe avere il solo ruolo di verifica della legittimità del piano. Si sa bene 92
che sulla questione della legittimità nascono equivoci di non poco conto, che possono ricondurre a questioni di merito e quindi a giudizi di merito. La dimostrazione che il piano è strettamente conforme alle norme vigenti compete al Comune, e la Regione pertanto, nel prenderne atto, deve certamente limitarsi ad una verifica convalidando o meno lo strumento comunale. È pur vero, peraltro, che il sistema normativo stesso è da riformare per essere semplificato ed eliminare pertanto i motivi di conflitto interpretativo. È venuto il momento di un Testo Unico nazionale che sia di guida ad altrettanti Testi Unici regionali. • La Sovrintendenza ha il ruolo di valutare le scelte del piano in materia di Beni Culturali, ma una volta che le approva nella fase attuativa del piano dovrebbe essere tenuta a tener conto del parere positivo già dato. Il problema della responsabilizzazione degli organi decentrati del Ministero dei Beni Culturali sta emergendo con non poche difficoltà. L’esercizio di natura discrezionale dei poteri dei Sovrintendenti è posto in discussione in varie sedi, ma è anche riconosciuto essenziale ai fini della tutela. Parrebbe dunque necessario porre delle condizioni per evitare un esercizio contraddittorio di tale potere, come accade, e che comporta danni e ritardi di non poco conto nella realizzazione di opere pubbliche e private. Sarebbe pertanto auspicabile che quanto previsto in un piano urbanistico sia valutato una volta per tutte per quanto concerne localizzazione dell’opera, volume della stessa, l’altezza, ecc.. Resterà allora, soltanto, in sede di approvazione del progetto dell’opera, il parere “estetico”, che non potrà contraddire il parere favorevole dato in sede di approvazione del piano urbanistico. • Tutti gli enti sovraordinati dovrebbero essere tenuti a dare i propri pareri in tempi limitati e precisati. Il piano, una volta adottato, dovrebbe essere approvato entro un tempo limitatissimo. Sempre per quanto concerne il piano urbanistico, occorre riflettere attentamente sulle conseguenze che gli obiettivi, che chiamo sinteticamente di ordine storico/paesaggistico/ ambientale, comportano. L’area comunale di riferimento del piano non risulta più idonea ai fini della conoscenza, individuazione e scelta degli interventi attivi e passivi sul patrimonio. L’area di riferimento è altra, certo più ampia di quella del Comune, e coinvolge più Comuni. L’obiettivo del piano, per essere perseguito, deve avere perciò come riferimento o l’area metropolitana, o un’area comprendente più Comuni obbligatoriamente consorziati. Ma di che genere di piano urbanistico si tratta? Possiamo chiamarlo Piano Strutturale, comprende tutte le componenti di cui si è detto, più tutte quelle connesse con i problemi della mobilità e relative infrastrutture. Dunque, un piano di lungo termine soggetto ad aggiornamenti operabili con procedure estremamente semplici. Questo piano costituisce pertanto il binario entro il quale dovrà viaggiare il Piano Operativo, questo sì ancora appartenente al Comune e la cui durata non può essere minore di 10 anni. Ma di che piano si tratta? È un piano che: • disciplina l’esistente con poche norme e con contenuti soprattutto di natura “comportamentale”, in quanto quelli di natura prescrittiva sono già contenuti nelle leggi regionali e nazionali. Per norme comportamentali si intendono quelle norme che consentono la realizzazione di una certa tipologia di intervento solo a condizioni di accordo pubblico/privato, che diventa cogente sia per il pubblico sia per il privato. 93
Questa modalità si rende necessaria per gestire una necessaria ipotesi di “flessibilità” del piano in tempi non solo di crisi, ma anche di incertezze, quindi di natura “adattiva”. È questa una novità di non poco conto, che meglio d’ogni altra interpreta le nuove esigenze che si sono venute determinando in ogni campo. Entrano in gioco, pertanto, nelle scelte urbanistiche, condizioni di flessibilità dovute al verificarsi di determinate condizioni, sia relative ai comportamenti soggettivi (puoi fare questo per il tuo interesse, se fai quest’altro nell’interesse pubblico), sia al verificarsi di determinate condizioni oggettive (si può fare questo se si verificano determinate condizioni di fatto, come nel caso di un intervento privato al di là di un fiume, previsto dal piano, ma condizionato alla realizzazione di un ponte, anch’esso previsto dal piano); • il piano individua una serie di interventi di interesse pubblico e privato all’interno del territorio urbanizzato, senza più modificare gli usi agricoli. Interventi sia su aree “vuote”, sia su aree di recupero/trasformazione la cui priorità dovrebbe consistere nella dotazione di servizi e di aree pubbliche. Il problema della scelta di queste operazioni di intervento potrebbe aprire ad un’altra modalità di pianificazione. Si immagini che il Piano, anziché identificare un intervento precisamente delimitato con i relativi parametri, destinazioni d’uso, ecc., delimiti invece un’area sufficientemente vasta, di natura sufficientemente omogenea, “entro la quale” possano essere proposti interventi con determinati parametri quantitativi e qualitativi. Il controllo del sistema di coerenza che deve legare le parti fra di loro resta comunque assicurato, ma nel contempo anche l’operatore ha un margine di scelta che riguarda il verificarsi di determinate condizioni relativamente alle condizioni delle proprietà ai costi/benefici e della domanda. Ciò che si chiamano, insomma, le condizioni di fattibilità. Conseguenza di questo “modus operandi” è che il piano deve ritornare al disegno urbano. Un disegno urbano capace di legare insieme la città esistente e la sua necessaria trasformazione, con l’obiettivo di migliorarne le prestazioni e, soprattutto, la sua bellezza. Inutile dire che una tale idea di piano consentirebbe di riconoscere nell’amministrazione pubblica la guida del processo di trasformazione restituendole un primato fino ad ora usurpato dal privato. Lungi dal dimostrarsi un atteggiamento “punitivo” nei confronti del privato, questa ipotesi di piano costituirebbe un incentivo alla sua operatività, che potrebbe quindi intervenire sulla base di certezze consolidate e dai contorni precisi. Anche qui, rispetto alla prassi odierna, una novità che interpreta esigenze più che affermate, mai soddisfatte. Ecco in grande sintesi gli strumenti tecnico-urbanistici atti a dar vita ad un nuovo corso che offra garanzie per uno sviluppo senza crescita, basato sulla valorizzazione dei beni culturali e sulla semplificazione delle procedure. La relazione fra questi due obiettivi consiste nella circostanza, del tutto certa, che gli interventi edilizi sono valutati nell’ambito delle pubbliche amministrazioni sotto il profilo delle procedure e quindi della legittimità, assorbendo del tutto la valutazione. Gli aspetti estetico-qualitativi risultano in gran parte trascurati o comunque secondari. In sostanza, per concludere, ogni filosofia la cui scelta nasca con motivazioni “virtuose”, come nel caso sintetizzato nella frase “sviluppo senza crescita”, necessita di strumenti adeguati, che qui si è cercato di esemplificare per ciò che concerne il campo dell’urbanistica.
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Strumenti attuativi per la rigenerazione urbana L’esperienza di Cesena Edoardo Preger
Dalla costruzione della nuova città alla riqualificazione urbana Dagli anni ’70 il governo delle grandi trasformazioni urbane a Cesena ha visto un ruolo importante dell’amministrazione comunale, che vi ha sperimentato una ampio ventaglio di strumenti operativi e finanziari. I primi grandi quartieri PEEP sono stati realizzati attraverso il tradizionale intervento diretto del comune: dalla progettazione all’esproprio delle aree, alla realizzazione delle urbanizzazioni fino all’assegnazione dei lotti agli assegnatari (cooperative di abitazione, imprese, singoli privati). In una seconda fase si è passati, sia per i PEEP che per i nuovi insediamenti artigianali e industriali, alla realizzazione affidata a consorzi degli assegnatari, su aree preventivamente acquisite dal comune. Nel caso dei PEEP il consorzio era costituito da imprese e cooperative, mentre sulle aree produttive il consorzio era costituito da imprese selezionate con bando pubblico. Con la nuova legge sugli espropri, dopo la sentenza della corte costituzionale, questa modalità di intervento si è andata esaurendo per la difficoltà di acquisire aree a prezzi ragionevoli, e questo tipo di intervento si è andato esaurendo. Il meccanismo perequativo per l’ acquisizione delle aree per l’edilizia sociale, avviato con la nuova legislazione regionale, ha dato finora risultati modesti anche a causa della crisi immobiliare negli ultimi anni. Dagli anni ’80 l’iniziativa comunale si è gradualmente spostata sul tema della rigenerazione urbana, utilizzando i nuovi strumenti offerti dalla legislazione nazionale. Si tratta di tre programmi complessi di riqualificazione di aree in degrado o dismesse, tutti caratterizzati da una forte regia pubblica, ma con diverse modalità di partecipazione degli attori privati e diversi strumenti operativi per la loro realizzazione.
Il piano di recupero della Val d’Oca Il primo programma è stato il piano di recupero della Val d’Oca, approvato nel 1979 e completato nel 1983, che ha interessato quattro isolati centrali del centro storico, in condizioni di grave degrado sia fisico che sociale. Con la realizzazione del piano sono state recuperate 95
circa 160 abitazioni, più alcuni negozi e botteghe artigiane. Per il successo del piano è stata determinante la decisione di imporre un consorzio obbligatorio a tutti i proprietari dell’isolato più grande e in condizioni di maggiore degrado. Del consorzio era parte anche il comune che aveva preventivamente acquistato tutti gli immobili non occupati a prezzi molto bassi. Il consorzio ha gestito l’intervento di recupero, mantenendo l’equilibrio sociale. Infatti i residenti in affitto (circa il 60%), sono stati in gran parte ospitati negli immobili acquistati dal comune, che ha utilizzato per il loro recupero gran parte dei finanziamenti dei primi tre bienni della L. 457/78.
Il programma di riqualificazione Ex Zuccherificio Il programma di riqualificazione urbana dell’ex zuccherificio, approvato nel 1994 e completato nel 2004, ha consentito la creazione di un nuovo quartiere di 22 ettari, nel cuore della città. Il PRU ha previsto la realizzazione di 90.000 mq. di Sul, di cui un terzo a carattere direzionale e commerciale, un terzo destinato a sedi universitarie (ancora in corso di realizzazione) e la restante parte (260 appartamenti) a PEEP con edilizia convenzionata e in affitto. Una società consortile per azioni, partecipata dal comune e da altri soggetti attuatori (Fondazione Cassa di Risparmio, imprese e cooperative assegnatarie e COOP) ha coordinato la realizzazione dell’intervento, appaltando anche tutte le opere di urbanizzazione. Per il successo dell’intervento sono stati determinanti da una parte il costo molto basso di acquisto dell’area da parte della locale Cassa di Risparmio, intervenuta nella procedura fallimentare in accordo con il Comune. E dall’altra il finanziamento di alcune importanti opere di infrastrutturazione urbana inserite nel PRU da parte del ministero del LL.PP. e della Regione, che hanno permesso di abbattere il costo finale dei fabbricati.
Il programma di riqualificazione Novello L’esperienza più recente, in fase di avvio, è il PRU Novello, che interessa 27 ettari attorno alla stazione ferroviaria, su aree dismesse in parte di proprietà pubblica, per una Su totale realizzabile di 86.000 mq. Il Comune ha individuato quest’area come ambito di riqualificazione, con l’obiettivo di valorizzare il suo patrimonio, trasformandolo da area produttiva a zona urbana; e soprattutto di realizzare la riqualificazione di un’area ormai centrale, oggi in condizioni di degrado. Il programma è stato avviato con uno studio di fattibilità finanziato dal MIT nel 2005, finalizzato alla costituzione di una società di trasformazione urbana (STU), che ha fissato i parametri fondamentali di progetto sulla base di un conto economico preliminare, basato su alcuni obiettivi prioritari: un rendimento ragionevole dell’investimento immobiliare, impegnando la parte eccedente per opere aggiuntive di interesse generale. Si tratta di circa 15 milioni di opere che disegnano un nuovo volto dell’area, con la riqualificazione della piazza della stazione e delle aree fra stazione e centro, occupate dal campus scolastico, interrando gli attuali parcheggi, la creazione di un parco urbano di 10 ettari e l’interramento di un elettrodotto. Su questi elementi è stato impostato il concorso di idee, ed è stata costituita la STU, all’inizio interamente partecipata dal comune, che ha gestito la formazione del PRU, concluso nel 2012 con la firma dell’accordo di programma. Ma in questa fase di gestazione del PRU il panorama economico e sociale è completamente 96
cambiato. Da una fase positiva dell’economia locale, caratterizzata da una alta disponibilità di risparmio delle famiglie, una crescita sostenuta della popolazione, e un’ampia disponibilità di credito a tassi molto contenuti, si è velocemente passati ad una crisi devastante: la stretta violenta del credito, in particolare nel settore dell’edilizia, la crescita della disoccupazione, l’impoverimento delle famiglie e la riduzione del risparmio disponibile, hanno generato una crisi pesante dell’intero settore immobiliare, con la paralisi del mercato ed il sostanziale blocco delle nuove costruzioni. Nasce da questa analisi la decisione di cambiare in corsa il programma, riorientandolo su nuove linee di azione: 1. Viene colta l’opportunità dell’art. 11 del Piano Casa, che ha istituito il Fondo per l’abitare (FIA), affidato alla Cassa Depositi e Prestiti. Si è quindi deciso di destinare l’area dell’ex mercato di proprietà comunale e di RFI ad un programma di social housing. E’ stato così avviato il percorso per la costituzione del fondo immobiliare Novello, a cui il comune conferisce le proprie aree. Il programma prevede la realizzazione di circa 450 alloggi per il 60% in affitto a canone concordato per 10 o 15 anni, con possibilità di riscatto, e per la parte restante vendute a prezzo convenzionato. Sarà anche realizzato uno studentato e degli spazi commerciali. 2. Si mantiene l’obiettivo della riqualificazione, ma ridimensionando i costi a carico del PRU, grazie a contributi pubblici del comune e della regione, e lo scomputo degli oneri di urbanizzazione secondaria. 3. Il comune ha ridotto le sue attese di rendimento al tasso di inflazione, per facilitare la sostenibilità del piano economico finanziario, mentre Il FIA/CDP manterrà il suo rendimento istituzionale per iniziative di questo genere (3% di spread). 4. Sarà attuato uno stretto controllo dei costi e dei tempi di costruzione, grazie ad una progettazione esecutiva rigorosa, ad una efficiente organizzazione del cantiere, all’adozione di sistemi costruttivi industrializzati e ad un project managment avanzato. Per la costituzione del fondo è stata individuata con gara la SGR, che ha preparato il business plan, approvato in via preliminare lo scorso dicembre da Cdp.
Considerazioni finali Gli strumenti per la realizzazione di programmi complessi di trasformazione o di riqualificazione urbana sono stati nel tempo i più vari, sia a livello nazionale che regionale; a cui si è aggiunta la creatività dei comuni nel loro utilizzo. L’importante è conoscere bene le potenzialità e i limiti, considerandoli appunto solo degli strumenti. Lo testimonia l’ultima esperienza di Cesena, partita con la costituzione di una società di trasformazione urbana che doveva sviluppare una iniziativa immobiliare con la partecipazione finanziaria dei privati, e poi cambiata in corsa per diventare un fondo dedicato al social housing. La particolarità del programma di Cesena è che il fondo nasce come strumento per realizzare uno specifico progetto e non viceversa, come sta avvenendo per i fondi regionali già costituiti (Veneto, Emilia Romagna, Piemonte) o in fase di costituzione (Sicilia, Sardegna, Trentino), dove prima viene costituito lo strumento e poi vengono individuati i progetti locali da finanziare. Fra i progetti in corso di social housing, quello di Cesena è fra i pochi inseriti in aree di riqualificazione, senza compromettere aree libere esterne. Era questo uno dei requisiti 97
prioritari indicati dal Piano Casa, ma in larga parte disatteso, essendo molto più facile e inizialmente meno costoso intervenire su aree esterne. Conosciamo tutte le ragioni che invece portano a privilegiare gli interventi di riqualificazione: dal consumo di suolo, alla disponibilità di servizi, dalla mobilità sostenibile alla integrazione sociale dei nuovi quartieri. Riuscire a realizzare un programma di social housing all’interno di un programma di riqualificazione è dunque una sfida di grande interesse per il futuro dell’urbanistica italiana. Infine una considerazione sul futuro della STU, che è stata costituita in origine per gestire lo sviluppo dell’intero programma. Con la creazione del fondo nel comparto 1, la STU cambia la sua missione. Mantiene la regia generale dell’intervento e potrà appaltare le opere di interesse generale per conto degli attuatori, pubblici e privati, dei diversi comparti. E potrebbe gestire lo sviluppo immobiliare del comparto 5 (riqualificazione dell’area fra la stazione e il centro), con la realizzazione di circa 10.000 mq. di Su direzionale, commerciale e di servizi. Tuttavia persistendo l’attuale fase negativa di mercato, è possibile che il programma complessiva venga rivisto in tutti i comparti, e che sia preferibile chiudere la società, affidando il futuro sviluppo allo stesso fondo Novello.
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Verso una riforma della legge urbanistica regionale
Michele Zanelli
La crisi economica intervenuta dal 2008 ha messo in discussione radicalmente e definitivamente il modello di sviluppo insediativo basato sulla crescita espansiva e impone alla pianificazione territoriale e urbanistica una rifondazione orientata allo sviluppo sostenibile, all’azzeramento tendenziale del consumo di suolo ed alla rigenerazione e riqualificazione dei sistemi insediativi. Non è più il tempo delle “grandi trasformazioni” che avevano accompagnato la fase delle dismissioni industriali: quella stagione che aveva visto l’adozione di un inedito strumento di intervento, i programmi di riqualificazione urbana, per promuovere il riuso di ambiti dismessi del territorio urbanizzato, anche tramite accordi in variante agli strumenti urbanistici vigenti. Nell’ultima riforma della legge urbanistica regionale del 2009 si è puntato a ricomprendere nel piano urbanistico la disciplina della riqualificazione. Per la definizione degli ambiti e degli obiettivi della riqualificazione, la legge regionale riformata aveva introdotto nel POC il Documento Programmatico per la Qualità Urbana, strumento di analisi delle situazioni urbane che deve stabilire gli obiettivi di riallineamento funzionale e qualitativo nei contesti interessati. Obiettivi di interesse pubblico cui indirizzare la negoziazione pubblico-privato, richiamando la necessaria partecipazione dei cittadini che vivono ed operano nell’ambito interessato dagli interventi di trasformazione, ma anche introducendo forme di concorsualità per promuovere la qualità del progetto e strumenti perequativi per incentivare l’iniziativa dei privati con forme di premialità. La crisi economica e il conseguente blocco delle attività del settore edilizio e del mercato immobiliare hanno impedito di sperimentare su larga scala questo nuovo approccio vanificando tra l’altro la percorribilità di una politica tesa a trarre dagli interventi privati di trasformazione urbana le risorse per le infrastrutture e i servizi della città pubblica. Obiettivo che diventa oggi ancora più difficile da raggiungere nella prospettiva di una “rigenerazione diffusa”, in cui gli interventi di trasformazione si concentreranno sul consolidato urbano ove non sono spendibili incrementi premiali di tipo volumetrico, anche per ovvi limiti di carattere strutturale o di carico urbanistico. Rispetto alla promozione e attuazione dei programmi di riqualificazione delle aree 99
dismesse, negli anni recenti è maturata la consapevolezza della necessità di interventi diffusi di rammendo delle periferie: ossia di sostituzione edilizia e di rigenerazione urbana. Da un lato ha preso progressivamente corpo nel dibattito culturale la preoccupazione per il consumo di suolo, cosicché le politiche per la riqualificazione e densificazione della città hanno assunto un ruolo di antidoto alla crescita urbana per espansione; dall’altro, è emerso con forza nelle politiche pubbliche il tema dell’efficienza energetica del patrimonio edilizio cioè dell’esigenza di ridurre lo spreco di energia nel settore dell’edilizia civile, responsabile del 40% dei consumi totali. A questo tema si sommano gli obiettivi dell’adeguamento strutturale del patrimonio edilizio ai livelli di sicurezza corrispondenti alla riclassificazione sismica del territorio e la prevenzione del rischio idrogeologico accentuato dagli effetti del cambiamento climatico. Queste motivazioni più recenti estendono il tema della riqualificazione urbana dagli insediamenti dismessi o comunque obsoleti a tutto il patrimonio edilizio esistente, in gran parte inadeguato, e alle dotazioni territoriali della città consolidata, spesso insufficienti. Da politica mirata a determinate situazioni (gli ambiti da riqualificare della L.R. 20/00) la rigenerazione urbana diventa politica generale e si estende alla città intera e richiede il coinvolgimento di tutti gli attori potenzialmente coinvolti o interessati a partecipare agli interventi, attraverso pratiche di condivisione delle scelte guidate da una strategia di governance territoriale che salvaguardi gli obiettivi generali e di interesse pubblico e possieda una intrinseca flessibilità di attuazione, per prevedere ed includere le modificazioni e gli adattamenti che il processo di rigenerazione presenta. Il procedimento dettato dalla legge regionale in materia di riqualificazione urbana, aggiornata dalla L.R. 6/09, va quindi esteso dagli ambiti da riqualificare individuati dal PSC, alla città storica e consolidata disciplinata dal RUE per poter guidare le trasformazioni verso obiettivi diffusi di qualità urbana che interessino allo stesso tempo l’edilizia residenziale e i servizi urbani, lo spazio pubblico e le dotazioni territoriali. Un obiettivo che deve trovare attuazione attraverso la rigenerazione urbana è quello del soddisfacimento del fabbisogno di case a basso costo e a canone sociale: gli interventi di ERS o di social housing non possono essere affidati solo a programmi straordinari da sostenere con i fondi immobiliari o i finanziamenti europei, ma devono divenire il target di una ripresa dell’attività edilizia che punti a riconvertire il patrimonio inutilizzato e lo stock di invenduto in alloggi adeguati a rispondere alla domanda inevasa e non ad un mercato immobiliare evanescente. Distribuire questi interventi diffusi nella città urbanizzata, anziché concentrarli in aree di espansione, oltre a riqualificare il patrimonio edilizio esistente, è un modo efficace di praticare inclusione sociale arricchendo le periferie di servizi pubblici e spazi di aggregazione di cui sono da sempre carenti. Per facilitare questa opera di rammendo che non può essere praticata se non coinvolgendo gli interessi della proprietà edilizia diffusa, occorre rendere maggiormente flessibili i cambi di destinazione d’uso in base a categorie di funzioni compatibili, riducendo o eliminando i relativi oneri di urbanizzazione. Entro certi limiti si tratta anche di ridimensionare l’applicazione degli standard urbanistici ai singoli interventi che riguardano ambiti già urbanizzati, ponendo nel piano obiettivi qualitativi di miglioramento complessivo. Per promuovere la valorizzazione e il riuso degli immobili dismessi o sottoutilizzati, specie di proprietà pubblica, bisogna incentivare l’insediamento di usi e funzioni temporanee, 100
semplificando le norme che ne regolano la autorizzazione e incoraggiando iniziative di autogestione da parte di soggetti che si propongono di aprire al pubblico tali immobili, curandone la manutenzione, per periodi temporali definiti. Facilitare l’attivazione di funzioni di interesse pubblico, anche da parte di associazioni di cittadini, specie nelle parti di città più a rischio di degrado, è un modo per richiamare in esse la presenza di un pubblico eterogeneo, generando ricadute positive per la sicurezza urbana, e ponendo le basi per la rivitalizzazione anche del patrimonio edilizio dismesso. Il piano urbanistico deve tenere assieme gli interventi “privati” di rigenerazione edilizia con le opere “pubbliche” destinate a ottenere un significativo miglioramento della qualità urbana negli ambiti consolidati. Per questo non è sufficiente praticare una rigenerazione basata su interventi isolati di sostituzione edilizia ma occorre procedere mediante progetti urbani complessi, che garantiscano una migliore efficacia della trasformazione e producano nuovi assetti urbani integrati e dotati di spazi pubblici di qualità: luoghi in cui si realizzi la coesione sociale e la sicurezza urbana grazie alla coerente interazione tra le diverse componenti delle politiche urbane, dalla casa ai trasporti, dal commercio alle politiche sociali e culturali. Compito della Legge Urbanistica è anche quello di puntare ad un modello di sviluppo sostenibile per il progetto della città come “ecosistema”: obiettivo di natura complessa, che punta a migliorare gli standard di vita dei cittadini ma anche a produrre nuovo valore economico, sia in termini di nuova occupazione sia di risparmio (non solo energetico, ma anche sui costi della salute e dei trasporti, nella prevenzione dei disastri ambientali). Non mancano esempi internazionali di successo come la riconversione della Ruhr, dove il solo progetto di recupero del parco minerario attira più visitatori di Pompei o come la High Line di New York, l’ex ferrovia soprelevata trasformata in passeggiata verde, che secondo l’ex sindaco Bloomberg ha generato 12mila posti di lavoro e 2 miliardi di dollari in investimenti privati indotti, trasformando il quartiere in uno dei più vivaci della città. È un processo che ha dimensioni diverse ed integrate e agisce sugli elementi materiali e immateriali che costituiscono l’insieme del paesaggio urbano. Deve coinvolgere gli abitanti nelle scelte che determinano la geografia funzionale dei sistemi locali, oggi sempre meno coincidenti con i confini amministrativi; deve coinvolgere le forze economiche del territorio per strutturare alleanze e forme evolute di partnership pubblico privato; deve promuovere il cambiamento culturale necessario a fronteggiare la crisi della città su basi evolute. La nuova legge regionale deve essere orientata a facilitare questo processo.
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Orti sociali nel paesaggio archeologico
Alessandro Camiz
Pingues hortos quae cura colendi ornaret, canerem1
Orti sociali di massa nel quinto municipio Una pratica medievale di tipo comunitario dell’uso del territorio per le attività agricole, suggerisce al progetto contemporaneo alcune strategie in grado di dare un ampio spettro di risposte ai diversi problemi che i cittadini riconoscono come prioritari: sicurezza, rifiuti, carenza di servizi, carenza di spazi pubblici, decoro urbano, crisi economica e inquinamento2. La sistemazione di una area pubblica per la pratica dell’orto urbano, prevista dalle NTA del PRG di Roma vigente, consente, se correttamente gestita, di rispondere a ciascuna di queste domande dei cittadini in maniera trasparente e condivisa. Occorre trovare sperimentalmente le modalità per declinare nei territori romani una pratica ampiamente diffusa in nord Italia e in Europa, mediante bandi pubblici per l’assegnazione degli appezzamenti agli orticultori, secondo una griglia di punteggi in grado di rispondere alle diverse fasce di utenza. Il bando pubblico non è solamente uno strumento trasparente di gestione della cosa pubblica ma consente immediatamente di avere un’analisi della domanda in un determinato territorio, molto utile anche per la programmazione futura. Si propone un progetto pilota su 3 aree nel quinto municipio di Roma, per circa 300 appezzamenti, il cui costo di startup si aggira intorno ad alcune decine di migliaia di euro, ma che potrebbe ‒ andando a regime ‒ anche autofinanziarsi con le quote pagate dagli orticultori. Un regolamento articolato deciderebbe le modalità di assegnazione degli appezzamenti e le altre attività di servizio. Il quadro gestionale di una simile operazione non può che utilizzare l’Agroclub uno modello di impresa ampiamente sperimentato e di notevole interesse, anche per il rapporto sinergico tra pubblico e privato. Il Municipio regolerebbe gli aspetti istituzionali, giuridici, della operazione, mentre la gestione verrebbe affidata ad una piccola impresa agricola che gestirebbe i diversi servizi associati. Il presidio del territorio fornito dagli orticultori e dall’Agroclub diventa una forma di controllo e influisce sulla sicurezza percepita da parte degli abitanti; anche la manutenzione delle aree contribuirebbe ad incrementare il decoro di aree verdi (destinate a verde pubblico 1 Publius Vergilius Maro, Georgicon, IV, vv. 118-119. 2 Cfr. questionario a cura del gruppo di lavoro «territorio» del Circolo PD Pigneto Prenestino, Roma 2010. 103
nel PRG ma molto spesso abbandonate e occupate abusivamente da altre attività). Il caso del quinto municipio costituisce pertanto una operazione pilota che, intervenendo nelle aree ex SDO, potrebbe facilmente estendersi ad altri municipi, proponendo pertanto una politica proattiva di livello metropolitano. Il fenomeno degli orti e dei giardini condivisi organizzati «dal basso» ha assunto negli ultimi anni una dimensione rilevante che possiamo definire di massa: si tratta di forme di riappropriazione della natura da parte dei cittadini che oltre a salvaguardare il territorio dai meccanismi speculativi, costituiscono un valido esempio di gestione collettiva dello spazio pubblico. Salvaguardia del territorio, stili di vita responsabili, riciclaggio dell’umido, decoro urbano, agricoltura biologica, gestione partecipata del verde e integrazione sociale sono solo alcune delle questioni alle quali tale fenomeno riesce a dare una risposta immediata e con un costo molto contenuto.
Alcuni esempi di orti e giardini in area romana Gli orti urbani e didattici della Garbatella sono il più importante esempio romano di orticultura urbana: i residenti del quartiere e un gruppo di associazioni3 si sono organizzati per realizzare una importante porzione di verde destinato a varie funzioni agricole e sociali nei pressi dell’edificio della Regione Lazio. Diversi ortisti hanno già ricevuto una parcella da coltivare e sono previsti ulteriori progetti, come il giardino dei frutti dimenticati, il giardino giapponese zen. Gli orti della Garbatella rappresentano pertanto a Roma l’esempio più significativo di salvaguardia del territorio dalla speculazione edilizia tramite la orticultura4. Zappata romana è un gruppo di architetti che da anni si è impegnato a Roma sul tema degli orti e dai giardini condivisi. Tra le altre iniziative, Zappata Romana ha realizzato una mappa interattiva degli orti e dei giardini condivisi a Roma5, pubblicata su google e in continuo aggiornamento, dove si possono leggere i dati relativi ad oltre cento esperienze di verde gestito dai cittadini a Roma. Sono autori di una guida fondamentale per la realizzazione di un orto o giardino condiviso6. Nella primavera del 2012 hanno coordinato la realizzazione dell’Hortus Urbis, un progetto supportato da numerosi soggetti collettivi in area romana7, che ha messo in atto sperimentalmente la rievocazione di un orto antico romano accanto al fiume Almone, nel centro visite del parco dell’Appia antica, dove periodicamente vengono organizzati eventi, momenti formativi e spettacoli all’aperto con larga partecipazione della cittadinanza e con il coinvolgimento dei bambini. Temporaneamente a Castruccio è un progetto di riattivazione partecipata di uno spazio verde, il Giardino di Castruccio al Pigneto, realizzato dalle Associazioni Filoverde, Drim e Città delle Mamme. Nel Giardino di Via Castruccio Castracane, opera compensativa realizzata nel 2005. Il meccanismo di partecipazione, basato sull’individuazione di nuovi bisogni e aspettative rispetto allo spazio pubblico, messo in atto da un gruppo di giovani mamme del quartiere, riunite nell’associazione Città delle Mamme, è riuscito a trasformare 3 Legambiente Garbatella, Action, Le casette, Casetta Rossa, Fieramente, Casale Garibaldi (Servizio Civile Internazionale), CSOA La Strada, Controchiave. 4 http://sites.google.com/site/ortigarbati/ 5 Zappata Romana: Spazi verdi condivisi, studio UAP, http://www.zappataromana.net 6 S. Cioli, A. Mangoni, L. D’Eusebio, Come Fare un Orto o un Giardino Condiviso, Terre Di Mezzo, Milano, 2012. 7 Cooperativa Coraggio, Giardinieri Sovversivi Romani, Eutorto, Orti Urbani Garbatella, Slow Food, Ies Abroad, Provincia di Roma, Municipio Roma XI, Istituto Tecnico Agrario Statale “Emilio Sereni”, GustoLab Institute, IES Abroad, Studio Arturo. 104
il Giardino in un luogo accogliente per bambini e adulti, gestito «dal basso», dove ospitare laboratori e workshop, incentivare approcci di learning-by-doing, sviluppare la condivisione di idee ed esperienze, promuovere buone pratiche di sostenibilità e di cittadinanza attiva e ripensare il gioco come occasione di sviluppo. Gli orti comuni del Giardino della Biodiversità sono stati realizzati a Blera (VT) da un gruppo di cittadini come spazio comune dove coltivare semi di varietà antiche autoctone, seguendo i principi dell’agricoltura biologica e la pratica del lavoro condiviso. I circa 2000 mq in località Le Molelle a 300 m. di distanza dal centro storico del paese, sono stati concessi, in parte dall’Università Agraria di Blera e, in parte, da privati cittadini. Possono partecipare alle attività dell’orto – previa iscrizione all’associazione Tempo Creativo8 – tutti coloro che siano disposti a coltivare la terra secondo le regole condivise dal gruppo. Non sono previste assegnazioni di quote individuali di terra. Il progetto prevede la collaborazione con il Comune di Blera, i servizi sociali sono stati invitati a segnalare gli orti comuni alle persone con disagio economico in modo da coinvolgerli nell’operazione. Il progetto molto interessante mira anche alla salvaguardia del perimetro della rupe del centro storico e diventa pertanto un valido modello di integrazione tra salvaguardia ambientale, tutela urbana e partecipazione per tramite della agricoltura sociale.
Lavangaquadra (Nova Arcadia): dig for victory Il Ministro dell’agricoltura del governo britannico, Sir Reginald Dorman-Smith, nel 1939 lanciò una formidabile campagna ideologica dal titolo «dig for victory» (scava per la vittoria) per la realizzazione di orti nel territorio britannico con il fine dichiarato di sconfiggere la barbarie nazista con l’agricoltura. Dall’emblema di quella campagna ideologica, rappresentante un piede che spinge nella terra una vanga di tipo inglese, è stato tratto il nome dell’associazione Lavangaquadra (nova Arcadia), un’organizzazione di volontariato senza scopo di lucro con le seguenti finalità: studio e realizzazione e di orti e/o giardini sociali condivisi con attenzione alle richieste degli associati e della cittadinanza, riqualificazione e valorizzazione di aree verdi abbandonate, promozione e di scambi culturali di collaborazione con altre associazioni e istituti, utilizzazione dei criteri di coltivazione biologica e naturale (esclusione degli OGM), favorendo e salvaguardando i semi e la biodiversità, il rispetto del paesaggio circostante. Le attività svolte fino ad oggi sono tese alla costruzione di una community di persone e associazioni interessate a poter coltivare un orto nel quinto Municipio del Comune di Roma. Attraverso facebook, con il gruppo «basta chiacchiere vogliamo gli orti sociali subito», si sono liberamente aggregati numerosi cittadine e cittadini che a vario titolo hanno partecipato all’iniziativa: è stato creato il sito dell’associazione9 con cinque liste di discussione, utilizzando software open source. Attraverso gli strumenti digitali questa community si è incontrata realmente intorno al progetto di partecipazione: tramite il sito e tramite questionari cartacei è stata raccolta, con il fine di rappresentarla in forma aggregata, la domanda di orti nel quinto Municipio, fino ad ora sono state raccolte cento richieste dettagliate di cittadini per un piccolo orto. Questi aspiranti ortisti sono stati coinvolti nel progetto attraverso assemblee, cene, riunioni e soprattutto azioni sul territorio, quali la pulizia di aree verdi, la realizzazione di piccole aiuole e la distribuzione di piantine (vivaio diffuso). Al Casale Garibaldi, giardino del Comune di Roma affidato all’Associazione Casale 8 http://www.tempocreativo.it 9 http://www.lavangaquadra.com 105
Garibaldi, come previsto nel progetto di partecipazione al bando, si è avviato un piccolo orto didattico, dove sono state fatte le sperimentazioni, in forma di laboratorio municipale dell’ecomuseo «ad duas lauros»10 per la coltivazione di verdure commestibili in area metropolitana. Aggregando altri cittadini intorno al laboratorio dell’Orto Didattico, anche tramite le scuole del quartiere e i gruppi scout, sono stati avviati tre bancali di coltivazione in terreno contaminato con l’obiettivo di fare analizzare le verdure per verificare la presenza di piombo. E’ stata avviata una stazione di compostaggio dell’umido di comprensorio. Ultimo esperimento è stato la realizzazione di aiuole sopraelevate (raised bed) riempite con terriccio biologico per la coltivazione di verdure commestibili.
L’orto didattico del Casale Garibaldi Al Casale Garibaldi, giardino del Comune di Roma affidato all’Associazione “Casale Garibaldi”, come previsto nel progetto di partecipazione al bando, l’associazione Lavangaquadra ha avviato nel 2012 un piccolo orto didattico, dove sono state fatte alcune sperimentazioni, in forma di laboratorio municipale, aventi come scopo la coltivazione di verdure commestibili in area metropolitana. Aggregando altri cittadini intorno al laboratorio dell’Orto Didattico, anche tramite le scuole del quartiere, sono stati avviati tre bancali di coltivazione in terreno contaminato con l’obiettivo di fare analizzare le verdure per verificare la presenza di piombo. E’ stata predisposta una aiuola sperimentale per la fitodepurazione con brassicacee ed è stata installata una stazione di compostaggio dell’umido di comprensorio. Ultimo esperimento è la realizzazione di aiuole sopraelevate (raised bed) riempite con terriccio garantito, per la coltivazione di verdure commestibili.
L’inquinamento dei suoli da metalli pesanti L’associazione Lavangaquadra con la partecipazione di cittadini ha prelevato alcuni campioni del terreno in tre distinte località del quinto municipio per verificare la presenza di metalli pesanti, nei tre siti la presenza di piombo e zinco è risultata assolutamente rilevante e oltre i limiti di legge11 [Tab.1]. In presenza di suoli così inquinati Lavangaquadra ha cominciato a sperimentare le tecnologie per bonificare, ovvero coltivare con terre non inquinate riportate da altri siti. All’interno del sito più inquinato, nel parco di Casal Garibaldi, il gruppo ha sperimentato una biotecnologia per la fitoestrazione del piombo dal terreno tramite una piantagione di Brassica Hirta (Sinapis alba L.) che assorbe una percentuale di piombo nel suolo dopo due anni.
10 G. Santilli, Piano Particolareggiato Comprensorio Direzionale Orientale Casilino di cui alla delibera n.148/2002 del Consiglio Comunale di Roma. Revisione dell’assetto urbanistico e valorizzazione delle aree a verde pubblico. Realizzazione di un ecomuseo. Mozione n. 002/2011, Consiglio Municipale Roma 6, (ora Roma 5). 11 Decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, Norme in materia ambientale, allegato 5, tab. 1, Concentrazioni soglia nel suolo e nel sottosuolo per siti ad uso Verde pubblico, privato e residenziale. 106
Sito Parco Sangalli, Roma Via Pisoniano, Roma Casale Garibaldi, Roma Valori Ammessi, D.L. 152
Piombo (Pb) mg/kg s.s. 96 138 223 100
Zinco (Zn) mg/kg s.s. 92 89 249 150
Mercurio (Hg) % < 0,32 < 0,32 0,62 0,32
Tabella 1. Inquinamento del suolo da metalli pesanti, tre siti nel quinto municipio di Roma, analisi chimiche a cura del Centro ricerche chimiche Montichiari, Brescia, 201212.
Modelli archeologici per il progetto contemporaneo Durante il cantiere di scavo per la linea C nei pressi di via dell’Acqua Bullicante sono venuti alla luce delle fosse longitudinali scavate nel cappellaccio, per una estensione rilevante. Abbiamo ipotizzato che tale rinvenimento archeologico possa essere messo in relazione con la notizia medievale di orti holeari nello stesso sito. Ritroviamo due descrizioni del luogo nel Tabularium Sanctae Mariae Novae quando l’11 novembre del 1065, sotto il pontificato di Gregorio VII, Giovanni de Paparone e il figlio Pietro cedono alla Abbazia di S. Maria Nova, alcuni terreni fuori di porta San Paolo in cambio di cinque orti a uliveto vicino all’Acqua Bullicante, e cinque libbre di denari. “accipimus a vobis quinque ortos holearios, quos positos foris portam Maiorem ad Aquam Vullicantem cum pertinentiis heorum per chartula commuta13” E ancora il luogo è citato il 9 marzo del 1075 quando Giovanni de Paparone cede alla sorella Tita nobilissima femina la porzione di un mulino e cinque orti: “idest, ut dictum est, omnino tibi refuto totam terram sementaricia culta vel inculta, quanta cumque fuit Romani de Melio ad salone cum silva et pantano e cum portione de sedium aquimoli. Refuto etiam tibi universam terram cultam vel incultam quantacumque fuit predicti Romani nostri consanguinei, que dicitur de sancta Helena, et totam terram que abuit ipse prephatus Romanus iuxta Forma de Basari, cum piscina sua et cum omnibus que ibi abuit, et quinque hortus in Tabernuli cum longura terre que est inter pratum mei Iohannis et vinea que fuerunt Uuidonis Iohannis de Episcopo. Ad hec refuto tibi duos petios terre il Loreto quibus via dividit hic et inde, sicut fuit prescripti14» Da questo documento si evince anche la presenza di un mulino nel contesto di un sistema idraulico forse ancora funzionante, e le diverse colture impiegate nella zona, prato, orti, bosco, pantano, vigneto. Dall’analisi delle frammentarie descrizioni del territorio sembra profilarsi nell’età di mezzo un territorio in parte agricolo e in parte incolto, con presenza 12 Vedi anche C. Piselli, G. Scarpa, Scatta l’allarme per gli orti urbani. “Troppo piombo e zinco nella terra”, in «La Repubblica», 19/8/2012, Roma. 13 Pietro Fedele, Tabularium S. Mariae Novae ab anno 982 usque ad annum 1200, «Archivio della Società romana di Storia patria», XXII, 1900, pp. 222-224. 14 ID, op cit., pp. 227-228. 107
di zone impaludate, in prossimità dell’acquedotto, segnato da diverse partizioni agrarie e si riconoscono le diverse colture utilizzate nell’ambito di una apparente suddivisione anche in piccole proprietà o almeno in piccole zone date in uso a diversi piccoli proprietari. Tale assetto sembra scomparire in seguito per lasciare di nuovo il posto alle grandi proprietà. Il Cingolani (1692), riporta un assetto territoriale basato sul latifondo: si tratta di una suddivisione in tenute e pediche, territori rurali di estensione notevole, secondo una suddivisione produttiva agricola correlabile con una fase di ristrutturazione generale della proprietà terriera nel suburbio. Saranno questi tracciati di suddivisione proprietaria a determinare alcuni degli assetti fondamentali del futuro insediamento urbano moderno. Si confronti ad esempio la dimensione dell’isolato impiegato per la lottizzazione di centocelle e la dimensione del lotto agricolo lungo la via casilina, una misura conforme la cui dimensione è correlabile con il lato dello iugero (240 pedes, 71 m. e i suoi sotto multipli). Le carte del XIX secolo, come il Catasto gregoriano descrivono una divisione del grande latifondo in lotti pertinenti a casali rurali. Tra XVIII e XIX secolo quindi muta sostanzialmente l’assetto proprietario di questo territorio secondo un processo di incasalamento. La divisione dei coltivi mantiene come capisaldi i tracciati stradali e i fossi e ad essi si attesta per la suddivisione come se questi fossero percorsi matrice. Tale processo di incasalamento avviene solamente entro determinati confini che sembrano corrispondere a quelli del primitivo fundus, ovvero di quei terreni agricoli che sono ad esempio registrati con un certa precisione come coltivati già dal Cingolani e indicati simbolicamente come coltivi anche da Eufrosino dalla Volpaia (1547). Il tessuto dei casali lungo il vicolo carbonari (oggi via Labico) ad esempio, sembra determinarsi tra la fine del sec. XVII e il sec. XVIII, come avviene in molti altri casi del suburbio. In base alla ricostruzione organica della sistemazione agricola del territorio in epoca antica e in base agli orti emersi durante gli scavi archeologici è stato possibile determinare un modello progettuale da adottare per specifici progetti di orti nel medesimo territorio. Tutti questi elementi sono stati progettati seguendo la rete iugerale e utilizzando come modello gli orti romani trovati nelle vicinanze. Questo caso mostra lo sviluppo di un orto didattico nel quartiere basato sul modello fornito dalle evidenze archeologiche di tecniche agricole romane. Il parco urbano, un luogo collettivo dove la natura è protetta dallo sviluppo industriale, detiene nella società di oggi un notevole valore simbolico e materiale. Si rifletta sul fatto che le tre grandi religioni monoteistiche promettono ai propri adepti come premio nell’aldilà un giardino. Sembra che il verde abbia un carattere archetipico e sovrannaturale, che si tratti di una premialità teologica. Eppure nella metropoli contemporanea, nonostante le normative e gli standard urbanistici, il verde – divorato dalla rendita – è sempre meno e gli abitanti sono sempre di più, attratti da logiche globali di mercato. Le risorse del pianeta sono limitate, e giorno dopo giorno interi ecosistemi stanno lentamente scomparendo. La realizzazione di una rete di orti urbani, una delle esperienze più interessanti di socializzazione della terra, è utile anche per la lotta contro il riscaldamento globale con l’incremento della biomassa nelle aree metropolitane.
Prospettive future: lo stato attuale del dibattito La community degli orti e dei giardini condivisi a Roma attende da tempo la definizione di un Regolamento comunale sugli orti, capace di regolamentare un fenomeno così diffuso e che fino ad ora si è basato soprattutto sul meccanismo di adozione delle aree verdi da parte di associazioni. La community degli orti e dei giardini condivisi ha messo 108
recentemente in discussione una bozza di Linee-guida su orti e giardini condivisi, e in questi giorni si stanno accogliendo le proposte di modifica da parte di singoli cittadini e di gruppi organizzati. Infine è stata proposta una legge regionale sugli orti sociali, sul modello inglese15, che preveda l’obbligo per gli enti locali di destinare una quota di territorio per abitante per gli orti sociali, in aggiunta agli standard urbanistici, in modo da salvaguardare una estesa parte del suolo regionale dai meccanismi speculativi.
Bibliografia A. Camiz, Progettare con i modelli e l’Agenda 21 locale nel paesaggio archeologico, in «Architettura & Città», n. 4, 2009, pp. 88-91. A. Camiz, Hortus Conclusus. Orti sociali per la sicurezza dei territori metropolitani, in «Hortus - Rivista on-line del Dipartimento Architettura e Progetto - “Sapienza” Università di Roma», 2012. A. Camiz, Redesigning suburban public spaces with the transect theory, in Abitare il nuovo/abitare di nuovo ai tempi della crisi, a cura di M. Bellomo et al., Atti delle Giornate Internazionali di Studio “Abitare il Futuro” 2° Ed., (Napoli, 12-13 dicembre 2012), Clean, Napoli, 2012, pp. 111-121. A. Camiz, Orti sociali, esperienze e prospettive nell’area romana, in «Urbanistica Informazioni», a. XXXXI, n. 255, Maggio-Giugno 2014, pp. 51-53. S. Cioli, Andrea Mangoni, Luca D’Eusebio, Come Fare un Orto o un Giardino Condiviso, Terre Di Mezzo, Milano 2012. A. Fasano (a cura di), Orto civico una guida per chi usufruisce di un piccolo orto, Lavangaquadra, Roma 2011, titolo originale: Allotments a plotholder’s guide, Revised Edition, June 2007, Published by ARI for DCLG. P. Fedele, Tabularium S. Mariae Novae ab anno 982 usque ad annum 1200, in «Archivio della Società romana di Storia patria», XXII, 1900, pp. 222-224. P. Fedele, Tabularium S. Mariae Novae ab anno 982 usque ad annum 1200, in «Archivio della Società romana di Storia patria», XXV, 1902, pp. 227-228. E. Guidoni, Il paesaggio locale. Nota sulla dimensione storico-antropologica dell’ambiente, in «Rassegna di architettura e urbanistica», a. XVI, n. 47-48, 1980, pp. 97-106. C. Piselli, G. Scarpa, Scatta l’allarme per gli orti urbani. “Troppo piombo e zinco nella terra”, in «La Repubblica», 19/8/2012, Roma. E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Laterza, Roma-Bari 1961. L. Spagnoli, V. Ferrari, Nuove figure interpretative e progettuali per una rigenerazione ecosostenibile degli spazi urbani. Roma fra città e campagna, in «Documenti geografici», 0, n. s., 2012, pp. 61-89. G. Strappa (a cura di), Studi sulla periferia est di Roma, Franco Angeli, Milano 2012.
15 Si veda come esempio la legge inglese, Small Holdings and Allotments Act, August 1st, 1908, 8 Edw. 7. Ch. 36. 109
Fig. 1. Lavangaquadra (nova Arcadia), poster presentato al Workshop Educational experiences on Agricultural Landscape. Buone pratiche di educazione al paesaggio agrario dalla scuola dell’infanzia, all’università, alla società civile ed esposto alla Summer School «Emilio Sereni», IV edizione, Storia del paesaggio agrario Italiano, Il Novecento. Moduli di storia, didattica e cittadinanza attiva, Istituto Alcide Cervi, Biblioteca Archivio “Emilio Sereni”, Gattatico di Reggio Emilia, 28 agosto-2 settembre 2012. (A. Camiz, 2012).
110
Fig. 2. E. della Volpaia, La Campagna romana al tempo di Paolo III, Roma, 1547, particolare.
Fig. 3. G. B. Cingolani, Topografia Geometrica dellâ&#x20AC;&#x2122;Agro Romano, Matteo Gregorio De Rossi editore, Roma, 1692, particolare. 111
Fig. 4. Tracce di antichi orti venute alla luce durante gli scavi per il cantiere della metropolitana, via Formia, Roma. (Foto A. Camiz, 2012).
Fig. 5. Tracciamento di aiuole sul modello degli antichi orti romani allâ&#x20AC;&#x2122;orto didattico del Casale Garibaldi, Roma. (Foto A. Camiz, 2012). 112
Fig. 6. Tracciamento di aiuole sul modello degli antichi orti romani allâ&#x20AC;&#x2122;orto didattico del Casale Garibaldi, Roma. (Foto A. Camiz, 2012).
Fig. 7. Dig for victory, 1942, Imperial War Museum, London.
113
Fig. 8. Il Casale Garibaldi, un residuo di campagna romana allâ&#x20AC;&#x2122;interno del Piano di zona n. 23 progettato da Ludovico Quaroni, detto Casilino 23, oggi quartiere Villa de Sanctis.
Fig. 9. I prodotti agricoli dellâ&#x20AC;&#x2122;orto didattico del Lavangaquadra al Casale Garibaldi (Foto A. Camiz, 2012).
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Fig.10. Progetto per unâ&#x20AC;&#x2122;aiuola raised bed, costruita utilizzando due euro-pallet riciclati, (A. Camiz Architetto-Lavangaquadra-nova Arcadia, 2012).
Fig. 11. Archivio di Stato di Roma, Presidenza delle strade, Catasto Alessandrino, 430/1, 1600, Sviluppo delle strade Prenestina e Casilina fuori Porta Maggiore e fuori Porta S. Giovanni, particolare. 115
Fig. 12. Archivio di Stato di Roma, Presidenza delle strade, Catasto Alessandrino, 430/19, 2 aprile 1660, Pedica o Casale detto del Casaletto allâ&#x20AC;&#x2122;Acqua Bullicante del Toron deâ&#x20AC;&#x2122; schiavi.
Fig. 13. Archivio di Stato di Roma, Catasto rustico della provincia di Roma, versamento U.T.E., Mappe, nuova segnatura 428/a, foglio 3, sezione XLI, tenute: Acqua Bollicante vigne: Fuori Porta Maggiore, tra via Labicana (oggi Casilina) e via Prenestina, s.d. 116
Fig. 14. Istituto Geografico Militare, Carta dellâ&#x20AC;&#x2122;Agro Romano, foglio 38, scala 1:8000, 1904.
Fig. 15. Le aiuole realizzate sul modello degli antichi orti romani allâ&#x20AC;&#x2122;orto didattico del Casale Garibaldi, Roma (Foto A. Camiz, 2012). 117
PARTE II Appendice
Paesaggi visti dal treno Un viaggio sulla Reggio–Ciano Fabrizio Frignani
Premessa Rieducare all’osservazione del paesaggio per riappropriarsi nel territorio del proprio orizzonte geografico. Oggi le persone non sono più abituate ad osservare, il nostro spazio geografico e con esso l’orizzonte sono diventati abitudine e difficilmente possono attrarre la nostra attenzione. Un’abitudine che trasforma il nostro spazio geografico, la nostra carta mentale quotidiana, in un Non Luogo, fatto di routine dove l’alternanza delle stagioni, del giorno e della notte, diventano fattori “normali”, privandoli di ogni sentimento emozionale. Il tutto diventa ancora più triste e povero quando il viaggiare, che è l’eccellenza allo stimolo dell’osservazione e alla crescita, anche nei momenti di svago o di vita famigliare, diventa uno spostarsi da un luogo all’altro, sinteticamente da qua a là. Ecco che i viaggi low cost ci portano in breve a poco prezzo da qua a là, ciò che sta in mezzo è solo spazio tempo che non può avere nessun interesse, se non quello di rimanere in contatto con gli amici della comunity, con i quali condividere qualcosa utilizzando lo smartphone o il tablet. Ancora più triste diventa lo spostamento ormai tipico della “famiglia” tipo, che abitudinariamente e con consuetudine il sabato o la domenica si reca da casa al centro commerciale per fare la spesa, questo diventa il “viaggio”: casa centro commerciale (il non Luogo per eccellenza) e per non disturbare i più piccoli giocano o sono in contatto con la comunity (amici) attraverso lo smartphone. Con l’introduzione delle grandi vie di comunicazione, “l’attraversare i luoghi velocemente” faceva “inorridire” il grande geografo Lucio Gambi, oggi la società consumistica per mezzo della tecnologia ci permette in ogni istante di andare in luoghi lontani senza nemmeno attraversarli, esaltati da una rappresentazione iconografica spesso troppo perfetta o addirittura falsa, che porta le persone a sognare in attesa di un viaggio spesso low cost. Viaggio che quando si realizzerà li porterà nella stragrande maggioranza dei casi ad andare a visitare i luoghi classici del consumismo nelle grandi città, i negozi delle altrettanto grandi griffe. Per rieducare le persone all’osservazione ed avere una maggiore attenzione del paesaggio, diventa importante riportarle ad utilizzare, oltre le piste ciclabili o i percorsi pedonali escursionistici, le così dette vie di comunicazione alternative, come la ferrovia (terra), la 121
navigazione interna (acqua), le funicolari (aria). Per questo progetto didattico è stata scelta la ferrovia. Nella Provincia di Reggio Emilia è ancora presente un’interessante e fitta rete di linee interne che attraversano da Sud a Nord tutta l’area di pianura fino a ridosso della pedecollina, utilizzate quasi esclusivamente dagli studenti e dai pendolari. La parte didattico‑educativa, ricca di argomentazioni e temi, diventa molto complessa proprio per la grande quantità di “materie-scienze” che possono essere messe in discussione nello stesso momento; la reale applicazione del concetto “laboratorioterritorio”. In questo viaggio possiamo raccontare di storia, di geografia (perché non chiamarla goestoria), di antropologia, di letteratura, di sociologia, di geologia, di ambiente, di botanica, di zoologia, di alimenti e alimentazione… l’elenco potrebbe continuare. Il mezzo necessario per spostarsi sul territorio e fare il “viaggio”, imitando un po’ i grandi autori dei secoli scorsi è lì, il treno. Per poterlo utilizzare da un punto di vista didattico basterebbero semplici convenzioni con gli enti preposti o concessionari delle linee. Lo strumento necessario per “leggere” e “fissare” i temi, gli argomenti, (momenti, attimi, immagini) diventa la fotografia, meglio se realizzata con la macchina fotografica però, vista la diffusione tra i giovani, si accetta anche lo smartphone. La fotografia, l’arte di disegnare con la luce, è lo strumento con il quale cogliere e comunicare anche sentimenti emozionali, che possono essere contemporaneamente, la pura rappresentazione iconografica di ciò che osserviamo, oppure trasformati con l’immaginazione in una realtà fantastica (il mondo immaginato) dove spesso possiamo rifugiarci per trovare emozioni ancora più profonde e personali. Immagini che riproducono la rappresentazione iconografica classica, del “bel paesaggio”, oppure possono costituire un collegamento tra ciò che si vede e ciò che si vuole comunicare attraverso la reinterpretazione, sono molto distanti da quelle che oggi i giovani, troppo frettolosamente, consumano spesso senza nessuna emozione, ma solo con la necessità di “essere” all’interno del social network. Proprio perché l’uso dell’immagine è un modo di comunicare di facile intuizione per i giovani, probabilmente può diventare un linguaggio che può riavvicinare l’educazione- comunicazione, tra le diverse generazioni. A questo punto il treno ed il paesaggio diventano un nuovo luogo per studiare ed apprendere, un’aula senza muri, dove si può viaggiare all’interno della lezione in uno spazio geostorico-geoculturalegeoemozionale… L’educazione e la didattica non devono essere limitate solo alle scuole ed ai docenti, ma indirizzate anche alla gente comune, i cittadini e gli amministratori, che deve essere rieducata con l’osservazione a riapprezzare ciò che quotidianamente sta intorno a loro e amministrare attraverso la bellezza della lentezza. A questo punto il viaggio in treno può diventare un momento nel quale trovare il tempo di “osservare”. Da quel finestrino vediamo immagini che sembrano in movimento, ci passano davanti senza una forma precisa, ma allo stesso tempo riattivano i nostri ricordi, che si trasformano in sensazioni, emozioni. Un viaggio su un treno lento che attraversa ancora luoghi dove la campagna antropizzata ha un sapore antico, rurale, dove è possibile ammirare paesaggi ordinati, con un’alternanza di elementi naturali ed antropici, che ci appaiono diversi a seconda delle stagioni, delle ore della giornata, delle lavorazioni che si succedono nella campagna, con i tempi lenti dettati dai cicli biologici della natura. Diversi sono i paesaggi che si possono osservare attraversando questa parte di “alta pianura” da Reggio Emilia a Ciano d’Enza, in poco più di 20 chilometri con 40-50 minuti di tempo. Paesaggi costruiti sulla morfologia strutturale dei siti, dalla pianura alla collina, attraversando la pedecollina, con “scorci” che sicuramente lasciano stupiti, per la varietà, la bellezza e la biodiversità dei luoghi. Allo stesso tempo sono visibili scorci dove viene esaltato l’impegno 122
dell’essere umano nel disgregare e decontestualizzare con bruttezze architettoniche uniche, gli antichi equilibri che l’uomo contadino ha modellato in centinaia e centinaia di anni. Un territorio ancora vocato alla produzione di eccellenze alimentari uniche al mondo, che possono continuare ad esistere solo conservando le radici socio culturali che le hanno generate. “Osservare”, questa è la parola chiave, perché in questo piccolo viaggio di cose da guardare attentamente ce ne sono veramente tante. Osservare per fissare e riabituare la nostra mente a percepire i Segni che cambiano. Osservare per giocare con i sentimenti, perché ognuno di noi cela nella propria mente un paesaggio immaginato, costruito con le proprie esperienze personali, positive o negative che siano, grazie alla nostra memoria possiamo riscoprire quando pensiamo di averne bisogno per potervici rifugiare e interporre una certa distanza tra noi ed il mondo esterno.
L’analisi storica L’analisi della documentazione storica del progetto della ferrovia (tra l’altro molto dettagliato conservato presso l’Archivio Storico del Comune di Reggio Emilia), l’osservazione attenta delle fotografie storiche relative allo stesso o ai luoghi attraversati dai binari, sono risultati fondamentali per leggere l’evoluzione dei segni ed i cambiamenti avvenuti in questi ultimi 120 anni nel paesaggio che oggi è possibile ammirare viaggiando in treno sulla Reggio-Ciano. La storia vera e propria dello sviluppo delle ferrovie interne alla Provincia inizia intorno al 1870, quando la provincia di Reggio Emilia, non ancora configurata geograficamente come quella di oggi, contava circa 230.000 abitanti, la metà di quelli di oggi. A quei tempi l’agricoltura era l’attività economica predominante, anche se cominciava ad affacciarsi una timida industria manifatturiera, legata principalmente alla trasformazione dei prodotti agricoli. La ferrovia nasce con la volontà di diventare un elemento di sviluppo economico, sociale, ma anche dalla necessità di strutturare una nuova viabilità generale della Provincia, che in quel momento non era particolarmente sviluppata. L’unica strada importante era quella che da Reggio Emilia, saliva a Castelnovo nel Monti, passando da Casina. La Val d’Enza ad esempio non era ancora collegata tutta da una strada, mancava il tratto montano. Nei progetti presentati, oltre lo sviluppo economico legato alla possibilità di fare viaggiare le merci, sono interessanti le affermazioni che riguardano la potenzialità turistica dei paesi raggiunti dalla ferrovia. Viaggio e turismo diventano un binomio che anche ai primi del 1900 può influenzare l’esito di un modesto ma importante progetto viario. La Reggio Ciano d’Enza sarà la prima ferrovia costruita da una cooperativa. Nel 1907 il Consorzio chiede di iniziare i lavori a proprio rischio, il progetto viene approvato con Regio Decreto soltanto il 5 gennaio 1908. Il 15 agosto 1909, viene inaugurato il primo tratto Reggio-Barco-Montecchio, il 6 luglio 1910 il tratto fino a San Polo, il 9 ottobre il tratto fino a Ciano, l’allacciamento della linea tra la stazione di Santo Stefano e quella delle FF.SS il 15 gennaio 1911.
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Il paesaggio elemento guida della didattica del viaggio Ma che cos’è il paesaggio? La risposta più facile che si può dare a questa domanda è la seguente: “paesaggio è tutto ciò che vediamo intorno a noi”, affermazione molto elementare e banale che in parte, per il cittadino comune, può anche essere vera soprattutto nella nostra società, dove molti dimostrano di non avere più la capacità di osservare. Se noi a questa affermazione aggiungiamo, alcuni aggettivi tipo: è una rappresentazione, è un fenomeno naturale, è un mosaico di ricordi, sentimenti, emozioni, valori, la parola paesaggio diventa un qualcosa di indefinito, che spazia da elementi reali che si possono toccare, a entità irreali che non si possono toccare ma solo immaginare.
Il paesaggio visto dal treno, campi, acque, antropizzazione: i segni Il territorio che si sviluppa ai lati dalla ferrovia Reggio-Ciano, può essere in gran parte definito un paesaggio agrario - rurale, interessato nel tempo da uno sviluppo urbano (più o meno disordinato) che in parte è conseguenza del naturale aumento demografico avvenuto tra i primi anni del Novecento ed oggi, in parte ad una certa volontà speculativa, dovuta all’aumento di ricchezza di una parte dei cittadini, che hanno trovato più semplice investire su quello che una volta veniva chiamato il mattone. Quindi identificare il paesaggio umanizzato con il paesaggio rurale diventa cosa facile ed immediata, vuoi per la situazione territoriale vera e propria, dove l’urbanizzazione smisurata, disordinata, in alcuni casi scellerata, non ha ancora avuto il sopravvento su un territorio rurale tuttora attivo, sia per l’alta qualità produttiva, sia per una tradizione cultural-rurale ancora ben radicata nelle persone che vi risiedono e lavorano i terreni. Emilio Sereni, uno dei più importanti studiosi italiani di paesaggio agrario, nella sua opera più famosa definisce il paesaggio “… quella forma che l’uomo, nel corso ed ai fini delle sue attività produttive agricole, coscientemente sistematicamente imprime al paesaggio naturale”1. L’opera di Sereni di grande utilità per gli studiosi di paesaggio, diventa documentazione di riferimento soprattutto quando descrive quel periodo storico che va dai primi del 1900 al 1950, dove Sereni traccia una descrizione dettagliata (dei territori studiati), basandosi anche su un osservazione diretta, sia del territorio e della popolazione rurale. Sarebbe interessante avere un commento di Sereni sullo stato dell’uso del territorio agricolo oggi, e dello sfruttamento commerciale delle campagne. “Coscientemente” nella frase di Sereni non è solo consapevolezza, ma è una parola ricca di significati, di contenuti, soprattutto di tradizioni. L’agricoltura oggi ha subito trasformazioni industriali, che hanno portato nella maggior parte dei casi alla disgregazione del tessuto rurale tradizionale, sostituito da una conduzione agricola dei terreni che preferisco definire “industria agricola”, nella quale di agricolo non c’è più niente, ma solo uno sfruttamento indiscriminato della terra per la produzione di finti profitti, che spesso mascherano copiosi finanziamenti comunitari. In questo contesto il paesaggio rurale tradizionale come lo hanno costruito i “nostri vecchi” è stato perso, in favore di una meccanizzazione estrema, che ha portato ad una forte crescita della quantità prodotta per ettaro, alla tanto desiderata riduzione dei costi (questa voluta da chi gestisce il mercato), a discapito della qualità del prodotto finale. Significati e contenuti che possiamo ancora trovare in paesaggi rurali articolati, spesso 1 E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Editori Laterza, 1961, pag. 29 124
posti ai margini delle grandi pianure, dove nella conduzione agricola si rispettano e sono presenti le tracce delle tradizioni culturali tramandate nel tempo da padre in figlio, dove la biodiversità è alla base delle rotazioni colturali e le sistemazioni territoriali vengono eseguite ricordando gli insegnamenti che vengono dal passato.
I segni In questi territori sono sparsi nel paesaggio quei segni che arrivano dalla storia, soprattutto per quanto riguarda il territorio reggiano posto sopra la via Emilia. Segni che trovano le radici strutturali in uno straordinario e ricco Medioevo, con una viabilità storica, ed un sistema irriguo artificiale che da secoli accompagnano, influenzano, e facilitano la vita della gente. Segni e tracce che legati ad una zona climatica e ad una struttura geologica unica e molto varia condizionano le produzioni agricole ed i metodi di coltivazione che hanno portato alla nascita di prodotti unici, che fanno e faranno nel tempo la differenza rispetto alle monocolture dell’industria agricola. Questo paesaggio che spesso è percepito come naturale rimane un paesaggio umanizzato; bravo è stato l’uomo dove, con il rispetto del territorio e la conservazione delle tradizioni che si tramandano di generazione in generazione, ha permesso a questo paesaggio, di mascherarsi di fronte ai nostri filtri mentali da paesaggio naturale. Filtri mentali che per consuetudine e localizzazione geografica, ingannandoci, ci fanno vedere “belli” alcuni paesaggi agricoli umanizzati, paesaggi che generano in noi grandi sensazioni, ma in realtà da un punto di vista ecologico sono grandi criticità ambientali, un esempio esplicativo sono le monocolture che tanto consideriamo banali e brutte (giustamente) quelle in pianura, al contrario apprezziamo in montagna o collina, in quanto rendono “bello” il paesaggio. Anche il paesaggio dell’area oggetto di studio è contraddistinto da una coltura dominante, il prato stabile, che diventa elemento caratteristico del paesaggio nella parte finale del medioevo. Il suo sviluppo avviene sicuramente con la costruzione dei canali irrigui, che permettevano di rendere fertili i terreni. Il sistema d’irrigazione utilizzato era quello a scorrimento superficiale, in uso ancora oggi. Apparentemente il prato stabile può sembrare una monocoltura, in realtà è proprio la sua natura polifita, con un’enorme quantità di specie erbacee, che si rigenerano naturalmente e vengono concimate ancora con i prodotti residui della stalla, a renderlo compatibile con l’ambiente, a renderlo naturale. I segni antropici tradizionali, quelli “costruiti” dall’uomo, possono essere storici e antropologici, visibili in quanto presenti, invisibili in quanto riconducibili a memorie narrate che si perdono nel tempo. Logicamente i segni storici, sono quelli che percepiamo come più rari, deboli, misteriosi, li consideriamo da tutelare, li andiamo a cercare, e probabilmente li collochiamo in un paesaggio immaginato che noi vogliamo sentire presente, anche perché ci affascina. Segni storici che ci ricordano spesso le nostre origini, alle quali sovente associamo i legami parentali, dai quali nel tempo ci siamo staccati (nonni, padri, madri) figure che ci riportano attraverso la memoria a ricordi che vengono a volte anche da un mondo narrato, più o meno distante da noi. Un mondo dove il legame con la terra, era come il cordone ombelicale che lega la madre al figlio, dove le condizioni di vita erano più semplici, più povere ma più vere, più reali, rispetto una vita odierna che spesso ci porta a nascondere i nostri veri sentimenti, dove sembra dobbiamo rincorrere sempre qualcosa, che spesso successivamente si può rivelare inutile o banale. 125
I segni storici non sono quindi solo i reperti archeologici delle grandi civiltà, o castelli con le loro mura difensive, ma sono tutta quelle serie di strutture-manufatti costruiti dall’uomo per migliorare un tempo la vita quotidiana. Per potere coltivare era necessario irrigare i campi, per farlo sono stati costruiti canali d’irrigazione e vere opere d’arte come chiaviche, derivazioni, botti, mulini, manufatti antichi spesso ancora presenti lungo i canali ed i fossi (che rientrano a pieno diritto nell’ambito di studio dell’archeologia idraulica). Sono segni le abitazioni rurali con tutto il loro contesto socio-ambientale, le rovine testimoni di una passata vita quotidiana. Oltre i “segni” architettonici, anche i metodi di coltivazione/conduzione dei terreni possono diventare elementi che caratterizzano il paesaggio diventando “segni”. Primo fra tutti la piantata, presente nelle nostre campagne come elemento distintivo del paesaggio agricolo, fino agli anni 60-70 del Novecento, era una coltura promiscua, costituita dalla coltivazione della vite in filari sostenuta dalla piantata, e tra un filare a l’altro uno spazio aperto da destinare ai cereali o al foraggio, molto importante in questo territorio per la produzione del parmigiano reggiano. La piantata era caratterizzata da filari di piante generalmente olmo, acero campestre, associato a piante da frutto come ciliegio e noce, o roverelle, che sostenevano la vite e vedeva uomini e donne dividersi i compiti in vigna, infatti toccava agli uomini raccogliere i grappoli sulle parti più alte degli alberi tutori. “Agli uomini toccavano scale più lunghe dello scalett, per raggiungere i grappoli più alti, appesi ai tralci avvinghiati ai tronchi e ai rami degli alberi. Le viti, infatti erano sorrette da filari di piante disposte in parallelo a coprire tutti campi”.2
Le acque interne, non solo irrigazione, ma valenza ecologica ambientale e sociale I canali con le loro acque, sono da considerarsi nei secoli una “permanenza” nell’orizzonte del paesaggio, questo lo possiamo affermare, osservando attentamente il reticolo, che non è stato interessato da grandi stravolgimenti nei tracciati. Al contrario dell’aspetto architettonico, dove la maggior parte dei manufatti infatti è stata rifatta senza rispettare la conservazione degli stessi, andando così perduta una cultura idraulica interessantissima e per certi versi unica in Europa, così come è particolare il mondo delle bonifiche di pianura. Le acque nei canali a loro volta sono elemento iconografico nella composizione artistica del paesaggio, diverse infatti sono le rappresentazioni pittoriche nelle quali sono inseriti i canali, anche la fotografia dei primi anni del 1900, non poteva esimersi da questa rappresentazione, ed ecco che le acque dei canali diventano il luogo di molti scatti. Dalle fotografie storiche si può osservare prima di tutto una costante presenza umana che dava valore a queste acque. I canali erano luogo d’incontro, e di riferimento per socializzare, al contrario di oggi, dove i canali se attraversano un centro abitato vengono “tombati” e trasformati in un non luogo, in quanto considerati brutti, maleodoranti e riserva naturale di ospiti indesiderati. I corsi d’acqua sia naturali che artificiali, anche di fronte ad una emergente sensibilità culturale ecologica, quando diventano un “ostacolo” per la realizzazione di un nuovo intervento urbanistico, senza nessuna attenzione alla loro valenza ecologica, vengono chiusi dentro un manufatto di cemento e nascosti alla vista dell’uomo.
2 A. Grisendi, Bellezze in bicicletta il mondo di una ragazza di campagna negli anni del boom, Milano Sperling& Kupfer Editori, Milano, 2001 pag. 8 126
Il Paesaggio oggi Anche se ci troviamo di fronte ad un continuo consumo di territorio rurale o agricolo come lo si vuol chiamare è indiscutibile che il territorio urbanizzato deve fare i conti con quello che succede nel territorio rurale. Prendiamo ad esempio il deflusso delle acque, quando piove molto, i terreni agricoli sono pensati per fare defluire le acque nei fossi e successivamente nei canali e poi nei rii, ma se questi elementi della rete idraulica quando attraversano le aree urbanizzate, vengono trasformati in condotti fognari, le acque non riuscendo passare in sezioni idrauliche ridotte, straripano e causano danni all’ambito urbano. Qui sorge una domanda: è la campagna che non è progettata per preservare l’ambito urbano o è l’ambito urbano che non è stato pensato per convivere con un territorio rurale che comunque fa da filtro agli eventi naturali che da sempre interferiscono con la terra? Il rispetto ed una gestione cosciente, negli ultimi decenni non sono stati tenuti tanto in considerazione da chi ha gestito il territorio nazionale; ne sono un esempio i disastri che succedono tutte le volte che dal cielo scende un po’ di acqua in più (con tutto il rispetto di chi in questi eventi perde i propri beni e nei peggiori dei casi i propri cari). Fino a quando costruiremo in aree dove un tempo potevano espandersi le acque di piena dei fiumi, o non faremo manutenzione nei versanti, dove da sempre i nostri avi hanno pulito fossi, realizzato drenaggi, mantenuto pascoli e i boschi, le frane saranno sempre più frequenti e le cose non potranno certo migliorare, anzi peggioreranno sempre di più. Sarebbe interessante utilizzare la fotografia comparata (foto storica confrontata con la foto attuale, metodologia utilizzata per sviluppare tutta questa ricerca) oltre che per fare confronti sull’evoluzione del paesaggio avvenuti nell’intervallo temporale tra i due scatti, anche per fare delle valutazioni sui rischi idraulici (un esempio e non solo) come è possibile fare osservando le due immagini successive. Nell’immagine storica il Rio Bertolini a San Polo d’Enza, presenta un alveo ampio e per superarlo i progettisti hanno realizzato un manufatto con quattro archi. L’ alveo ampio ha una sezione idraulica che può ospitare una considerevole quantità d’acqua. Oggi il corso d’acqua è costretto a passare sotto un solo arco, che si raccorda con il tratto a monte tombato in quanto passa sotto un edificio. A valle il corso del rio è stato raddrizzato per permettere la costruzione dei fabbricati, vicini alle sue rive, scendendo più a valle è stato di nuovo ricoperto per permettere la costruzione di un piazzale, prima di passare sotto il canale Ducale. Dal confronto delle due foto è possibile fare un semplice ragionamento, perché agli inizi del Novecento si è ipotizzato che era necessario far passare l’acqua sotto quattro archi, ed oggi sotto ad uno solo? Idraulicamente in caso di piena non può funzionare, la quantità d’acqua che passa nella sezione con quattro archi non potrà mai passare nella sezione ad un arco.
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Fig. 1 Ponte sul Rio Bertini (Bertolini) a San Polo d’Enza foto Corghi Luigi 1907. Fototeca Panizzi, Reggio Emilia.
Fig. 2 Ponte sul Rio Bertolini a San Polo d’Enza in primo piano la griglia che indica l’arco del ponte dove oggi passa l’acqua del Rio, il resto dell’alveo si trova sotto la pavimentazione del parcheggio. Foto di Fabrizio Frignani, inverno 2015.
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La linea ferroviaria attraversa 5 comuni, nel territorio compreso tra la via Emilia, linea di demarcazione territoriale tra alta e media pianura e collina, con un dislivello tra i due estremi di circa 156 metri. Da un punto di vista paesaggistico, attraversa tre unità di paesaggio tra quelle definite nel Piano Paesistico Regionale, ma gli ambiti paesaggistici che si alternano e si susseguono lungo il percorso sono molti di più. In una sequenza semplificata, si passa dall’ambito urbano della città alla campagna, dall’ambito urbano dei paesi, alla campagna posta ai piedi della collina, fino alla collina vera e propria, quando la ferrovia s’incunea nella valle del T. Enza, dove l’uomo è stato costretto a trovarsi spazi urbani tra l’alveo ed i dolci versanti delle colline che si spingono a lambire il ciglio del corso d’acqua. Il percorso della ferrovia Reggio‑Ciano attraversa un territorio prevalentemente rurale e pianeggiante, dove rispetto e coscienza, almeno per le componenti relative alla salvaguardia dell’equilibrio storico-naturale, sono state tenute in considerazione. Meno per quanto riguarda quelli che alcune pagine sopra ho definito “segni” della nostra tradizione contadina, allora erano parte fondamentale del paesaggio storico-rurale, in gran parte “dimenticati”, e conseguentemente abbandonati a se stessi, fino a scomparire causa il degrado naturale nel tempo. Segni che a volte sono lì nel paesaggio, in parte abbattuti, feriti, ma che orgogliosi della loro forza accumulata in tanti anni di dura fatica delle persone che li hanno resi vivi vogliono ancora testimoniare una realtà che non può essere dimenticata.
Fig. 3 Casa colonica nella campagna tra Reggio Emilia e Codemondo. Foto di Fabrizio Frignani, autunno 2013.
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Fig. 4 Paesaggio rurale sullo sfondo Villa Magnavacchi località Predele, con il viale delimitato da pioppo cipressino, foto realizzata da Tito Magnavacchi antecedente la costruzione della ferrovia, databile prima del 1907 archivio privato.
Conclusioni La sensibilizzazione e l’osservazione: Sicuramente tutte le problematiche descritte nelle pagine precedenti derivano da una scarsa conoscenza della materia paesaggio, più specificatamente di una mancanza di “cultura” al paesaggio. Una mancanza che nasce già dalla scuola che ai livelli più alti non tiene mai in considerazione la realtà locale, una realtà che negli ultimi anni è diventata sempre più spesso solo oggetto di laboratori, che le scuole possono più o meno attivare in base ai fondi a disposizione, che anno per anno però svaniscono. Un po’ provocatoriamente si può affermare, che siamo sempre più blindati all’interno di programmi didattici che fanno studiare luoghi e storie lontane anche nel tempo, ma che non tengono in considerazione, quel che esiste ed è successo intorno a casa. Inoltre, si continua a non professionalizzare i docenti, per trattare di paesaggio serve una formazione ben specifica. C’è anche da dire che nell’eccessiva presenza di livelli storici da studiare, la ricerca archeologica si spinge sempre più spesso verso quello che è considerato il livello più “nobile”, cioè quello romano, dimenticandoci che il Medioevo è li davanti ai nostri occhi tutti i giorni, in ogni nostro paese c’è qualcosa di medievale. Probabilmente nella nostra mente ci costruiamo un filtro, che ci porta a non “osservare” ciò che diventa quotidiano davanti ai nostri occhi. I segni del passato spesso abbiamo cercato in tutti i modi di “integrarli” nel contesto urbano, distruggendo spesso per sempre il quadro nel quale questi erano inseriti che li avrebbe fatti esaltare nello skyline del paesaggio, come succede per i castelli arroccati su speroni rocciosi che, isolati nello spazio e nel tempo, da secoli sono li a dominarlo. 130
Dalla sensibilizzazione si deve passare all’osservazione, rieducare le persone, i ragazzi ad “osservare”. Quanti di noi solo nel percorso casa – lavoro, casa – scuola non si accorgono che da un giorno all’altro vengono inseriti nuovi elementi, vuoi un cartello stradale, un contenitore per i rifiuti o il negozio ha cambiato il colore della tenda della vetrina. Osservare attentamente, questo deve diventare la lezione, in modo da riabilitare i nostri sensi, per una più profonda percezione di ciò che ci sta intorno, per permetterci di accrescere le nostre conoscenze; come afferma Lucio Gambi “l’uomo si sta impoverendo culturalmente perché con le autostrade e le vie di comunicazione veloci «attraversa» i luoghi senza osservare ciò che lo circonda”3. Una lentezza che deve tornare ad essere padrona della nostra vita, che va troppo veloce, ci scorre davanti ad una velocità tale che a volte non ce ne accorgiamo nemmeno. Questo è il motivo per cui si devono rivalutare queste vie di comunicazione più lente, come le ferrovie secondarie, in sostituzione di quei viaggi che ci portano velocemente da una città all’altra che non ci permetto di assaporare il viaggio. Osservare dal finestrino di un mezzo di trasporto lento, in questo caso il treno, dove, davanti ai nostri occhi passano più o meno velocemente dei paesaggi, insiemi di elementi che compongono il tema generale dal quale con un’osservazione attenta emergono i singoli elementi.
La gestione dei segni del territorio. Oltre sensibilizzazione ed educazione che daranno i loro frutti nel tempo, nell’immediatezza bisogna quindi gestire quello che nel territorio compone il paesaggio. Una prima “tutela” del paesaggio passa attraverso la necessità di non ampliare ulteriormente gli spazi edificati, ma di riuscire con politiche attente e mirate a ricostruire sull’esistente, soprattutto dove edifici di nessun valore storico culturale diventano monumenti del degrado. Comprendo in questa categoria anche quei quartieri di edilizia popolare costruiti negli anni ‘60, ‘70 ed ‘80 del Novecento, costruiti per dare l’illusione della casa moderna alla povera gente, innalzati e finiti con materiali di scarsissima qualità. Molta attenzione va posta alle aree industriali o commerciali, per le quali bisognerebbe porre molto impegno creativo principalmente in fase di programmazione, alla loro ubicazione, ma soprattutto bisogna cominciare pensare, ad aree produttive di vero interesse sovracomunale, in modo da non avere più aree di questo tipo, disseminate sul territorio, senza alcuna logica se non quella della mera speculazione edilizia. Inoltre bisogna migliorare l’aspetto architettonico, permettendo a chiunque di disegnare il capannone secondo il proprio piacere estetico, eliminando la caratteristica forma di prisma regolare, devastante da un punto di vista paesaggistico, volumi oggi spesso dalle dimensioni esagerate soprattutto nello sviluppo in altezza, realizzati con materiali veramente ecosostenibili. Aree industriali che ricoprono grandi superfici di terreno, le quali diventano impermeabili e difficilmente possono trovare una riconversione, senza grandi investimenti economici pubblici, che alla fine andrebbero a sottrarre risorse per servizi che le amministrazioni potrebbero erogare ai cittadini.
3 L. Gambi, Poveri simboli della perdente civiltà, Bologna, 2008, pp. 56-57 131
Fig. 5 Monte Baldo con la pianura Padana, visti dal M. Pezzola a San Polo d’Enza. In evidenza l’antropizzazione. Foto Fabrizio Frignani, primavera 2013
Il sempre maggior consumo di territorio porta come prima conseguenza alla perdita di superfice da destinare alla produzione di alimenti. Dato che la richiesta di prodotti alimentari è sempre crescente, per ottenere sempre più produzione diventa necessario utilizzare “integratori” chimici che inquinano il terreno, le acque, e si annidano nei prodotti stessi. La conservazione delle superfici agrarie produttive è importante perché il nostro territorio non ha la configurazione spaziale delle campagne del centro Europa, dell’America del Nord, delle grandi pianure asiatiche, dove vi sono aree pianeggianti che si perdono all’infinito, dove hanno destinato queste aree agricole, all’industria produttiva di alimenti. Il nostro territorio è immensamente frazionato, ricco di segni e presenze ambientali, che ne determinano forzatamente un uso più equilibrato, attento, per produrre ciò che gli altri non riescono. Per questo motivo in Italia ci sono le eccellenze alimentari e ci dobbiamo mettere in testa che la superficie a disposizione dell’uomo sulla terra non si può espandere, quella è e quella rimane, per cui prima di sottrarne un pezzo da destinare ad una nuova strada, ad un capannone, ad una semplice abitazione, dobbiamo veramente valutarne attentamente la necessità, confrontando svantaggi e benefici, dando un valore economico anche a tutto ciò che legato alla natura e alla storia di quel sito oggi non viene tenuto in considerazione. Non si può più pensare di modificare il paesaggio, inserendo nuovi elementi urbani o 132
antropici, senza osservare l’orizzonte, per capire quali interferenze questi interventi hanno con il paesaggio in genere, oppure interferire nella viabilità storica, nella rete idraulica, nella sistemazione dei poderi, nel sistema rurale, o nell’insieme architettonico del Borgo isolato, soprattutto dove questi elementi sono ancora presenti, anche se a volte non troppo visibili. La tutela di queste componenti del paesaggio, diventa basilare per non perdere i caratteri peculiari di un luogo che identificano una struttura socio culturale ben precisa e la consapevolezza di chi siamo; i punti di riferimento servono anche per non perdere il senso della vita. Per cominciare a sostenere idee di questo tipo, bisogna iniziare dallo spostare il concetto di centralità dalla città al mondo rurale, per questo motivo è necessario porre molta attenzione in fase di programmazione territoriale, a non trasformare i piccoli paesi immersi ancora nel mondo rurale, in pseudocittà. Come purtroppo è avvenuto negli ultimi 20-30 anni e collocare questi luoghi nella posizione centrale che hanno insita nella geospazialità nel territorio e nel paesaggio al quale appartengono. Per mettere i luoghi in questa condizione bisogna rafforzare l’idea di ruralità, che non significa ritornare indietro nel tempo, ma prima di tutto ridare valore all’identità del luogo, che per il nostro territorio è legata alla terra, allo stesso tempo fare distinzioni importanti, la prima tra urbano e rurale, la seconda tra rurale e agricolo soprattutto nella parte estremamente industriale dell’aggettivo agricolo. Identità che ci portano ad un equilibrio tra passato e presente, tra tradizioni e modernità, tra economia e salvaguardia. Quindi il mondo rurale può essere centralità, attorno al quale sviluppare una proposta economica alternativa, con un ambiente ed una qualità di vita migliori, con prodotti alimentari tipici, le così dette eccellenze, con la storia e le tradizioni che diventano fruibili a tutti, con servizi efficienti che fanno arrivare in quel luogo anche un turismo di qualità. La ferrovia diventa il mezzo più idoneo per spostarsi su questo territorio, senza utilizzare le automobili, ma anche il mezzo dal quale si può ammirare il paesaggio, si può cominciare a sognarlo, ad immaginarlo, prima di poterlo vivere direttamente percorrendolo a piedi o in bicicletta. Un sistema che deve fare rete, ma prima di tutto un sistema che deve essere costruito nella cultura della gente per fargli capire che questo territorio può dare reddito e quindi creare economia, allontanandosi dagli schemi tradizionali del recente passato costituiti quasi esclusivamente dal binomio capannoni e strade, che hanno fino ad oggi riscontrato il favore di amministratori e di programmatori economici territoriali, sul nostro territorio ( ma non solo), forse perché era la cosa più semplice, quella dove c’è meno bisogno di fantasia. Un sistema rurale che famoso per le sue eccellenze, dovrebbe essere aperto all’ospitalità, per la quale gli abitanti di questa Regione sono conosciuti nel mondo; con gli agricoltori, che tornano ad apprezzare il loro mondo rurale, rispettando maggiormente la terra, ritornando a sistemi di conduzione meno industriale. Tutelare non significa però conservare, purtroppo questo è il messaggio che oggi spesso passa, causa la burocrazia. La tutela è vista come un qualcosa che calato dall’alto non permette nessun tipo di sviluppo. La tutela del paesaggio è indissolubilmente legata alla presenza dell’uomo sul territorio e sulla diretta gestione di quest’ultimo, una presenza che deve essere rispettosa e cosciente, dove i segni tornati ad essere visibili, ridiventano oggetto vitale della nostra quotidianità. Un mondo rurale dove possiamo trovare contemporaneamente la nostre radici che vengono dalla storia, rimettere nuove radici per costruire il nostro futuro. Dove è possibile godere di un paesaggio che ci accompagna a vivere i sogni. 133
“PAE-SAGGIO” Narrazione di una storia in forma semplice di un’esperienza scolatica Mariamaddalena Gelao
Paesaggi dell’anima avvolti nel grano, uno sguardo tanti sorrisi chicchi di terra petrosa non offri la speranza, ma ti guardo con gioia sono io la speranza di una vita del futuro che diventa presente. Nelle mani una vanga, sono pronto negli occhi un cuore, il tuo terra che sento pulsare carico di energia vibrante, la nostra L’Alta Murgia, terra petrosa, che tanto può affascinare, per il mistero, quell’apparenza sterile che apre spazi arcani, paesaggi interiori, luoghi in cui l’anima vagheggia nella sua solitudine e diventa viatico di fertilità. Intensi gli odori, ventilati, i silenzi narrano di antiche sofferenze di un popolo sottomesso ad un destino che non cambia, ma anche di sguardi di giovani pronti e determinati ad affrontare un futuro che li vuole all’avanguardia e come si dice oggi work in progress! 135
Quest’avventura inizia nell’anno scolastico 2013-2014 con la classe 2^H dell’Istituto Alberghiero-Enogastronomico “De Nora”. La classe nonostante non riconoscesse ancora il desiderio di voler essere protagonista di una tra-sformazione ha quindi avviato un progetto di “Identità territoriale per un’Animazione Turistica” condotto attraverso l’esplorazione di se stessi, viatico per una risposta alla propria vita che può tradursi in possibilità operative. Il paesaggio, ispiratore di un viaggio di conoscenza e amore, per la vita e per il lavoro ci ha portato in giro, per Gravina di Puglia, nell’Alta Murgia, ed io vedendola con i loro occhi ho comprenso il loro entusiasmo e condiviso la loro passione. Quelle distese petrose ricche di natura, raccontano di storie che leggono un territorio stratificato che segna il mistero della vita: il ripetersi trasformando la terra in nuovi paesaggi che si intersecano in territori antropizzati con uno sguardo identico, ma sempre nuovo nel rispondere ai cambiamenti dei bisogni umani, paesaggio di una terra, anima mundi. Nei momenti di programmazione partecipata ascoltate le esigenze di conoscenza e divulgazione del proprio territorio manifestate dal gruppo classe, si è deciso di realizzare una “Unità d’Apprendimento” che divulgasse il patrimonio paesaggistico di Gravina in Puglia, contemplando le competenze che prevedono la conoscenza storica partendo dal proprio territorio per estenderla in modo sincronico e diacronico alla conoscenza della Terra. Si torna sempre alla terra nella sua accezione sia di mondo che di terreno inizio e fine: il pianeta Terra, sinolo della vita. Coinvolti, partecipi e gioiosi i ragazzi hanno progettato,sulle indicazioni organizzative formulate, la suddivisione in gruppi per aree tematiche: geografia, storia e tradizioni culinarie per esplorare ambiti e offrire visioni mirabili, paesaggi intersecati da immagini e suoni che riproducono l’essenza. Il paesaggio è empatico, diretto, non ha bisogno di parole: arriva al cuore, pervade l’anima con le sue luci e suoni e ti dice l’essenza dell’esserci lì in quel tempo questa è la sua liturgia è il mistero che si offre ai sensi umani per ritornare al contatto divino. Il paesaggio parla alla divinità che è in noi e che ci unisce al creato. Condividere un’attività così partecipata è paesaggio dell’anima, significa sentirsi uniti e trasformare l’attività di studio in vita godibile, dove sia studenti che docenti si sentono un unica forza coinvolta nel processo del sapere, e lasci in ognuno la traccia dell’evolversi nella propria vita. Il linguaggio utilizzato è stato quello multimediale come previsto dalle competenza sulla conoscenza e l’uso dello stesso, infatti la classe ha realizzato una presentazione in power point. Così è stato per noi, in questa incredibile avventura che ci ha arricchito trasformandoci al meglio, nelle nostre possibilità.
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I paesaggi lenti Analisi e strategie di sviluppo del territorio calabrese Sara Maria Serafini
Introduzione La Convenzione Europea del Paesaggio (CEP)1 ha l’obiettivo di promuovere l’adozione, a vari livelli, di politiche di salvaguardia, gestione e pianificazione dei paesaggi europei. Riguarda tutti i territori eccezionali, ordinari e degradati che determinano la qualità della vita di una popolazione. La Convenzione costituisce una risposta atta a colmare un vuoto giuridico dovuto all’assenza, su scala europea, di un riferimento specifico e completo dedicato alla conservazione, alla gestione e alla valorizzazione dei paesaggi rappresentati nel “vecchio continente”, non limitandosi ai soli aspetti artificiali e culturali o agli elementi naturali di un paesaggio, ma al suo complesso e alle relazioni che intercorrono tra diversi paesaggi. La Convenzione impone una migliore conoscenza dei propri paesaggi, attraverso: - valutazione d’insieme del territorio; - analisi delle caratteristiche, delle dinamiche e delle pressioni che lo modificano; - monitoraggio delle trasformazioni; - valutazione. Questo è proprio l’approccio che è stato adottato sul territorio calabrese e in particolare sul paesaggio della Calabria, alla fine del quale si sono individuate delle “note di cambiamento” di cui alcune già attuate o in avvenire, altre solo come proiezioni future, che definiscano un possibile quadro di azioni da intraprendere per stimolare attenzione verso l’intero sistema “Paesaggio Calabria” con l’obiettivo di attuare trasformazioni economiche sostenibili e di qualità.
1 La Convenzione Europea del Paesaggio (CEP), adottata nel 2000 dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, è il primo strumento giuridico che affronta, in maniera diretta e specifica, il tema del paesaggio e la questione della sua qualità in ambito sovranazionale. 137
Il paesaggio agrario: valore e risorsa Il paesaggio, inteso come espressione della complessa interazione tra società e natura e come stratificazione dei processi che hanno accompagnato le trasformazioni produttive nel corso del tempo, è una delle più importanti categorie della Lista del patrimonio mondiale. Introdotto nel sistema della Convenzione del patrimonio mondiale nel 1992 con il termine «paesaggio culturale», questa categoria è stata scelta da molti Stati dei diversi continenti per identificare e proteggere aree di particolare bellezza e di grande valore culturale e spirituale. Oggi i paesaggi culturali nella Lista del patrimonio mondiale sono 66 e appartengono a tutte le regioni e culture del mondo; testimoniano la ricchezza e l’importanza del paesaggio per l’identità culturale dei popoli. In questo ambito patrimoniale l’Italia ha un ruolo molto speciale e privilegiato. La sua conformazione fisica, la posizione geografica, la ricca vicenda storica hanno permesso la formazione, in un territorio relativamente piccolo, di un grande varietà di paesaggi culturali di straordinaria bellezza che ha pochi paralleli a livello internazionale. L’approvazione della Convenzione Europea del Paesaggio ha rappresentato quel salto necessario affinché non solo i paesaggi/patrimonio fossero degni di essere considerati all’interno di un quadro di valore, ma anche paesaggi naturali semplici, che hanno una particolare bellezza o che non l’hanno, che hanno una tradizione o una storia, che hanno un qualsiasi valore riconosciuto dalla comunità. Per questa ragione molti dei paesaggi tornati al centro dell’interesse sono quelli agrari; in Calabria tra gli altri ricordiamo: gli Altipiani della Sila, la Riviera dei Cedri, i Castagneti del Reventino, gli Oliveti monumentali di Gioia Tauro, i Campi a erba di Isola Capo Rizzuto, i terrazzi della Costa Viola, la Piana del Bergamotto. Oltre a essere importante dal punto di vista culturale, l’agricoltura calabrese è fondamentale all’interno del quadro economico e sociale, nonostante la difficile morfologia del territorio. Il settore agricolo assorbe infatti il 21% della popolazione occupata, attestandosi al secondo posto per assortimento di forza lavoro. Inoltre all’interno del quadro nazionale la Calabria attesta un elevato numero di aziende agricole e la superficie agricola utilizzata arriva a coprire quasi la metà di quella totale (Fig. 1); senza poi parlare del fatto che attualmente la Calabria è la quarta regione italiana per numero di produzioni tutelate: le sue 36 denominazioni tutelate ricadono principalmente nel comparto del vino, dei salumi e dell’olio d’oliva. Ulteriori considerazioni meritano i risultati ottenuti dal processo di conversione dell’agricoltura: da quella tradizionale a quella biologica. Sono 45.167 le aziende che al 24 ottobre 2010 risultano adottare metodi di produzione biologica per coltivazioni o allevamenti e rappresentano il 2,8% delle aziende agricole totali. Di queste 43.367 aziende applicano il metodo di produzione biologico sulle coltivazioni (2,7% delle aziende in complesso con SAU), mentre 8.416 lo adottano per l’allevamento del bestiame (3,9% delle aziende in complesso con allevamenti). Sono invece 6.616 aziende quelle che utilizzano metodi di produzione biologica sia per le coltivazioni sia per gli allevamenti. Oltre sei aziende biologiche su dieci risiedono al sud; in particolare, il 62,5% delle aziende biologiche è attivo nel Sud e nelle Isole. I dati mostrano che in Calabria si registra la maggiore percentuale di superficie coltivata con metodo biologico rispetto alla SAU complessiva (17,7%), e che la produzione e il numero di aziende iniziano a essere abbastanza consistenti. Alla fine degli anni ‘80, le aziende biologiche calabresi erano 20 per una superficie di 180 ha, pari all’1% delle aziende biologiche italiane, al 2010 682 per una superficie di 8 mila ettari di cui 6.400 ha in conversione (BioBank, 1998) fino ad arrivare a circa 5.023 per una superficie di 57 mila ettari (Fig. 2). 138
Fig. 1
Fig. 2
Tuttavia, contrariamente da quanto si legge dai documenti ufficiali, nel settore agricolo risultano impegnati perlopiĂš anziani e pensionati, con conseguenti difficoltĂ a introdurre innovazione scientifica e tecnologica. Sarebbe invece auspicabile appoggiare lo sviluppo del settore agricolo, soprattutto quello delle colture tipiche (agrumi, vigneti, oliveti) promuovendo marchi di qualitĂ , conservando la tipicitĂ della regione e dei paesaggi, integrando questo settore con quello turistico attraverso la rivitalizzazione di casali, cascine e borghi antichi, oggi abbandonati, che hanno contribuito alla creazione della bellezza del paesaggio calabrese. 139
È proprio il turismo la risorsa che più si dovrebbe corteggiare, perché la regione è piena d’attrattori, che però non vengono “sfruttati come dovrebbero”; essa è un vero e proprio palinsesto di beni culturali, archeologia, luoghi naturali protetti e opere d’arte, che con il bagaglio delle tradizioni costituiscono una risorsa inestimabile del patrimonio della regione Calabria. Un patrimonio di cui però manca una conoscenza dettagliata e conseguente consapevolezza del valore reale. Un palinsesto, quindi, senza regista e produttore, che potrebbe invece essere messo sul mercato se solo esistesse una buona sceneggiatura.
La strategie di sviluppo Una delle risposte più immediate a questa carenza di sfruttamento delle risorse che il territorio offre in maniera naturale, è stata l’istituzione di ecomusei. Come detta la Proposta di Legge n°368/8^2, un ecomuseo è uno strumento che salvaguarda la memoria storica, antropologica e immateriale di un territorio. In un’epoca in cui la mondializzazione tende a omogeneizzare le culture, la valorizzazione delle particolarità locali di un territorio sconosciuto a coloro i quali vi risiedono, o a quanti ne hanno solo studiato il fascino su dei libri stampati in altre lingue, è fondamentale per conservare le diversità che arricchiscono le culture che s’incontrano. Un ecomuseo rende culturalmente interessanti oggetti della vita quotidiana, paesaggi, spazi e tradizioni, testimoni di saperi e culture che rischiano altrimenti di spegnersi. Esso è una maniera dinamica in cui le comunità preservano, interpretano e gestiscono la loro eredità culturale, rispettando gli standard dello sviluppo sostenibile. Istituire un ecomuseo va oltre l’inaugurazione formale di uno spazio e la bozza di progettazione; un ecomuseo deve prevedere dinamismo, richiedere la capacità di creare impulsi e una serie di azioni capaci di dare nuova vita a una memoria. Un’altra caratteristica fondamentale della progettazione di ecomusei è l’automatica propensione di queste istituzioni verso lo sviluppo sostenibile. Per sviluppo sostenibile, secondo la dichiarazione di Rio3 ci si riferisce alla capacità della realizzazione di progetti che debbano essere attuati in modo da soddisfare i bisogni di sviluppo e ambientali delle generazioni presenti senza compromettere quelle future. Per tutte queste ragioni e in seguito all’approvazione della Legge, la Regione Calabria si è proposta e si propone di istituire ecomusei sul proprio territorio. Ne vedremo di seguito due esempi significativi.
2 Proposta di Legge n°368/8^, Istituzione di ecomusei in Calabria, poi Legge regionale 4 dicembre 2012, n. 62, Istituzione di ecomusei in Calabria. 3 Il Summit della Terra, tenutosi a Rio de Janeiro dal 3 al 14 giugno 1992, è stato la prima conferenza mondiale dei capi di Stato sull’ambiente. Gli argomenti trattati sono: l’esame sistematico dei modelli di produzione – in particolare per limitare la produzione di tossine; le risorse di energia alternativa per rimpiazzare l’abuso di combustibile fossile; un quadro sui sistemi di pubblico trasporto con il fine di ridurre le emissioni dei veicoli, la congestione nelle grandi città e i problemi di salute causati dallo smog; la crescente scarsità di acqua. 140
Ecomuseo del Pollino Il nuovo Ecomuseo del Pollino, realizzato presso il complesso Monumentale Santa Maria della Consolazione (inaugurazione aprile 2015), si pone quale luogo di incontro tra natura storia e tecnologia introducendo i visitatori, attraverso nuovi strumenti interattivi e multimediali, alla storia, al territorio e alla cultura del Parco del Pollino. Il percorso espositivo, innovativo e di facile fruizione, permette non solo di incrementare il flusso turistico del territorio e favorire la partecipazione della popolazione locale, ma anche e soprattutto di valorizzare l’enorme patrimonio naturalistico e culturale del Parco mettendo in evidenza aspetti quali la storia del parco, la flora e la fauna, la cultura, il folklore, le produzioni tipiche del territorio. In modo semplice e coinvolgente l’ecomuseo racconta ogni aspetto del territorio del Parco configurandosi come un polo attrattivo che risulta particolarmente appetibile a visitatori di tutte le età.
Fig. 3 Si riporta di seguito uno schema semplificato dell’Ecomuseo e del percorso sviluppato all’interno della struttura.
La zona A – La storia del parco - introduce il visitatore al Parco del Pollino attraverso date, immagini e racconti degli eventi che hanno portato alla nascita del Parco Nazionale del Pollino. La zona B – Ingresso - introduce il visitatore all’interno delle due principali sale dell’ecomuseo e lo racconta attraverso “testimonianze d’autore”: una minuziosa ricerca sugli scritti e sulle foto d’autore, di carattere sia umanistico che scientifico, ha permesso di mettere in luce in maniera evocativa ed emozionale le caratteristiche dell’area protetta. La zona C – Area protetta - introduce il visitatore all’interno del parco del Pollino permettendo di approfondire la parte legata alla morfologia e alla composizione del Parco. Sono presenti informazioni sul territorio e sui comuni che lo compongono, sui fiumi che attraversano il parco e i sentieri percorribili. La zona D – Geologia - porta il visitatore a conoscere e comprendere l’aspetto geologico del territorio del Parco, oggi e in epoche passate. Un argomento così complesso viene tuttavia trattato in modo semplice e intuivo per permettere a tutti i visitatori di apprezzare appieno anche un aspetto così particolare del territorio del Pollino. L’area dedicata alla geologia tratta due argomenti fondamentali: le ere geologiche e i fossili. La zona E – La flora e la fauna - ha il compito di far immergere il visitatore nel Parco grazie a un grande diorama4 che rappresenta il paesaggio in una particolare stagione (primavera/ 4 Diorama: strumento inventato da L. J. M. Daguerre e C. M. Bouton nel 1822 per ottenere effetti tridimensionali nella rappresentazione di luoghi, persone e oggetti. È costituito da teloni trasparenti dipinti disposti verticalmente a diverse distanze e opportunamente illuminati da fonti di luce nascoste 141
autunno) popolato da riproduzioni di alberi e tronchi d’albero da animali che vengono esposti all’interno di una ricostruzione dello spazio naturale. Il visitatore ha quindi l’impressione di essere entrato in un sentiero del parco la cui esplorazione permette di comprendere di più la flora e la fauna del parco, anche grazie ad applicazioni multimediali anche esse immerse nella “natura”. La zona F – Il corridoio dei saperi - ha lo scopo di portare i visitatori a conoscenza degli aspetti legati alla cultura del luogo, alla storia e alla tradizione delle popolazioni che caratterizzano il parco. La zona esterna – il giardino - rappresenta l’unico spazio espositivo all’aperto e viene dedicato alla scoperta delle rocce e del patrimonio floristico del parco: è strutturato con aree di terra dove sono posizionate piante odorose selvatiche. Alcune di queste rocce presentano fossili con delle piccole schede di riconoscimento.
Ecomuseo della Valle del Raganello Il territorio della Valle del Raganello ricade all’interno della parte del Parco del Pollino appartenente alla regione Calabria. La proposta ecomuseale, attraverso il coinvolgimento della popolazione e lo stimolo a conservare la memoria e l’autenticità del luogo, rappresenta una valida soluzione contro il processo omologante e in favore della tutela identitaria; inoltre, dato il crescente interesse dimostrato per la conoscenza del patrimonio locale, rappresenta un modello di successo per favorire la crescita economica e lo sviluppo di un nuovo turismo di qualità. Presentato nel mese di Maggio del 2007 a Civita il progetto pilota, inserito nella programmazione dell’amministrazione comunale, ha svolto attività di divulgazione e informazione alle comunità residenti; da settembre 2007 l’ecomuseo è membro della Rete Europea degli Ecomusei “MONDI LOCALI™”, una comunità di pratica che riunisce dal 2004 un gruppo di oltre 30 ecomusei italiani ed europei e mira a realizzare iniziative innovative di promozione del patrimonio locale e del paesaggio, ad accrescere il benessere delle comunità residenti e a far circolare le iniziative stesse allo scopo di diffonderle ma anche di verificarne l’efficacia. La seconda fase di ricerca del progetto pilota, ancora in atto, sta raccogliendo, con il supporto di esperti e la partecipazione della comunità locale, dati sulle vocazioni del territorio (artigianato, servizi e strutture ricettive, beni artistici, archeologici, architettonici e naturalistici) e sui saperi legati al paesaggio della Valle del Raganello. È in corso di realizzazione la terza fase del progetto pilota che consiste nell’allestimento del Centro di Interpretazione dell’Ecomuseo del Paesaggio Valle del Raganello, presso il quale potranno anche essere attivati laboratori, workshop e corsi di formazione. Il lavoro proposto, nel suo iter, persegue altresì il fine di stabilire un dialogo europeo su problematiche comuni – quali la valorizzazione e la gestione del paesaggio – al fine di rintracciare “percorsi sostenibili” di ricerca e azione nell’ottica di una cooperazione scientifica tra Paesi e Atenei europei interessati a conoscere e a studiare il paesaggio. Concretamente si vuole creare un’offerta del territorio che accanto a testimonianze architettoniche, paesaggistiche e documentarie, preveda la salvaguardia e la rivivificazione dei centri storici dei Comuni della Valle del Raganello; il mantenimento della cultura peculiare del allo spettatore. Nei musei della scienza e della tecnica, è chiamata diorama anche la ricostruzione tridimensionale di paesaggi, habitat di animali, luoghi di lavoro ecc., realizzata con intenti didattici (definizione dall’Enciclopedia Treccani). 142
luogo, relativamente agli aspetti folkloristici, dell’artigianato, dell’alimentazione, delle festività sacre e profane, della lingua madre (di origine italo-albanese), dei canti; la valorizzazione del paesaggio rurale attraverso l’incentivazione delle attività agricole, l’attrezzamento di vie mulattiere e la creazione di percorsi ecologici; la salvaguardia delle bellezze naturali dei dintorni (alcuni tratti del Parco naturale del Pollino e le gole del torrente Raganello), da attrezzare per una migliore frequentazione, anche in chiave sportiva; il recupero di vecchi fabbricati, la valorizzazione e la fruibilità di antichi itinerari ecologici e naturalistici; infatti la Valle del Raganello è un’area sulla quale è possibile sperimentare una prospettiva di uso e tutela del territorio secondo principi ecocompatibili e di autosostenibilità. La ricchezza di risorse ambientali, la presenza di paesaggi produttivi prevalentemente agricoli, il sistema archeologico e storico, la tradizione degli antichi mestieri, il folklore e l’etnia, rendono questo territorio il modello ideale per la realizzazione di un sistema ecomuseale.
Conclusioni con uno sguardo al futuro Il territorio è una delle opere d’arte più alte che il genere umano esprime: esso è un atto d’amore, è il prodotto di un’interazione continua fra le donne, gli uomini e la natura stessa. L’idea rinascimentale del paesaggio come evento culturale è stata, nel corso della storia umana, progressivamente espropriata del suo più profondo significato, legittimando deturpazioni, violenze e inquinamenti. La liberazione dal “valore del territorio” mostra oggi più che mai tutta la sua disarmonia: le metropoli hanno fagocitato risorse di cui è necessario riappropriarsi e riscoprire per rilanciare territori autosostenibili e stabilire nuove alleanze fra la natura e l’umanità. In un approccio territoriale sta perciò l’individuazione e la riscoperta dell’identità locale, che sono le chiavi fondamentali per dare vita a nuovi processi di “bonifica” e riterritorializzazione. Questi stimoli, essenziali per il rilancio territoriale culturale e turistico, vengono appieno racchiusi nell’idea di ecomuseo, che rappresenta oggi una delle possibili risposte per ripensare i territori e il turismo dotato di senso che a esso si lega. Musei ed ecomusei, con modalità diverse, sono custodi di patrimoni artistici, ambientali, educativi e culturali in senso più ampio. Il termine “museo” nel passato evocava spesso l’idea di un’istituzione chiusa, delegata alla raccolta, alla selezione e alla custodia di oggetti salvati dalla distruzione, presentati al visitatore in maniera didattica. La storia di un popolo, della sua cultura e della sua trasmissione è fatta di monumenti, testi, oggetti, ma anche di contesti e territori-sistemi che legano insieme beni isolati attraverso cui leggere il passato. Il territorio, così inteso, è il vero museo della storia della natura e degli uomini; è un “museo diffuso” dove le opere sono conservate nel luogo d’origine e dove non vi sono visitatori ma abitanti. Questa concezione innovativa porta necessariamente a una riflessione sull’istituzione museale, sulla sua “crisi” e sulla sua possibile rinascita. Negli ultimi decenni l’attenzione alla conservazione culturale e ambientale ha portato alla trasformazione di alcuni luoghi definiti “di interesse” in parchi naturalistici, riserve, ecomusei e molte altre istituzioni che tendono talvolta a mantenere quella cultura della separatezza fra “raro e comune” e “naturale e artificiale”, tipica del museo-tempio, replicando alcuni difetti dei musei del passato. Un primo importante passo risale al 1966, anno in cui il colosso Smithsonian Institution lancia l’idea di un neighborhood museum nel quartiere-ghetto di Anacostia, nella città di Washington D.C. Questo museo venne considerato il risultato più rivoluzionario di una 143
situazione di generale crisi delle professioni museali. Il piano fu largamente pubblicizzato dallo Smithsonian, che tentava così di rispondere al generale fallimento dei musei nel coinvolgimento di un più ampio pubblico. L’esperimento trovò la comunità di Anacostia, nella periferia sud orientale della città, entusiasta: l’interazione e il dialogo costante vennero, in questa esperienza, contrapposte alla conservazione e all’esposizione di opere che, tradizionalmente erano gli elementi al centro del museo-tempio. Assieme al concetto di museo, anche quello di “patrimonio culturale” ha subito nell’arco di un secolo importanti rivoluzioni nel significato: è stato progressivamente arricchito nel senso estetico da significati sociali, come l’inclusione di oggetti della cultura popolare, e di recente il sovrapporsi di paradigmi ambientali, culturali ed economici che lo hanno legato più strettamente al passato. Alla luce di tutto questo, è corretto affermare che un ecomuseo ha come obiettivo principale quello di valorizzare il territorio locale, e di conseguenza le sue risorse e la comunità che lo abita. Ma se si guarda al territorio come all’insieme e non a una sola porzione, si dovrebbe ridefinire ancora una volta il concetto di museo, estendendolo a quello di museo territoriale. La differenza è sottile eppure potrebbe modificare le strategie di ripresa economica di un intero territorio. Infatti, il museo del territorio si propone di lavorare per e sul territorio. Lavora per e con la propria comunità, ma anche con le comunità dei territori adiacenti. Propone iniziative e attività con il compito di fare da ponte fra generazioni, culture, sensibilità e esigenze diverse. La cosa più importante è che, a differenza dell’ecomuseo, ha un raggio d’azione limitato al suo territorio e alla sua comunità: il museo del territorio vuole fare rete stringendo attorno a sé rapporti di reciproca fiducia con persone, enti, organizzazioni e associazioni. Questo tipo di museo può essere inteso come un patto tra un territorio e la sua comunità, tra i vari territori e le diverse comunità, grazie al quale tutte le parti si impegnano, in maniera diversa, a prendersi cura di un luogo conservandolo e adoperandosi per aumentare il valore nel tempo, a interagire, a collaborare, ad attuare scambi e a crescere. In particolare la mission del museo è inquadrabile nell’obiettivo di tutelare il paesaggio e promuovere l’uso efficiente delle risorse, e degli asset naturali e culturali nei quali è specificata l’importanza della valorizzazione delle risorse naturali e le politiche di sviluppo rurale. In questo contesto il progetto del museo potrebbe rappresentare un modello di governance, di sviluppo locale e di progettazione integrata. Un museo di questo tipo deve essere dotato, come sempre, di una parte fisica che faccia da brand, ma soprattutto da un’infrastruttura tecnologica che gli permetta di essere attraente per un vasto portafoglio di utenti. L’elemento che davvero rende il museo del territorio un museo 2.0 è la rete. Grazie a internet il museo non corrisponde agli schemi delle istituzioni museali che l’hanno preceduto, non è statico e cristallizzato nel tempo, ma è parte di una realtà complessa, che sulle basi del passato, delle stratificazioni e delle connotazioni sociali, geografiche ed economiche odierne, muta continuamente volto indicando le giuste direzioni di sviluppo. Le sue componenti essenziali sono: il territorio, la popolazione e il patrimonio; infatti un modello come questo pone al centro della propria attenzione tutto il territorio come un museo diffuso. Esso e si propone: - di essere il punto di riferimento regionale per le politiche agro-economiche; - di essere polo di riferimento interregionale, per attuare processi di sviluppo interagenti e mirati a una cooperazione; - di essere centro di ricerca per lo sviluppo delle tecniche agricole; - di essere banca del seme e centro di scambio tra le diverse colture, sia all’interno di zone appartenenti alla stessa regione, che ad altre regioni; - di essere un’alternativa d’integrazione sociale; 144
- di creare nuovi metodi d’approccio alla cultura attraverso l’istituzione di cicli seminariali, conferenze o summer school tematiche; - di offrire spunti di formazione culturale alle istituzioni scolastiche, attraverso l’organizzazione di visite presso aziende biologiche, aree protette o bioparchi; - di tutelare il paesaggio rurale attraverso l’istituzione in situ di ecomusei in cui si salvaguardino particolari tecniche o bio-diversità; - di essere il punto di riferimento per quella fetta di turismo espressamente interessata ad attività eco, a soggiorni naturali o a ricevere una formazione specifica coerente con la definizione classica di sviluppo sostenibile. I vantaggi di questo modello museale sono facilmente intuibili. Il paesaggio tornerà a pieno titolo a occupare un ruolo di fondamentale importanza all’interno della comunità sociale, sia per le caratteristiche tipiche di patrimonio – quali bellezza, valore e unicità – ma anche e soprattutto grazie alla nuova veste di risorsa, mirata a sostenere l’economia della regione e a guidarla verso scenari di prosperità e crescita.
Bibliografia M. Agnoletti (a cura di), Paesaggi rurali storici per un catalogo nazionale, Editore La Terza, 2010, Roma. AA. VV. e Università della Calabria, a cura di Osservatorio sul paesaggio in Calabria, Stato del paesaggio in Calabria. 1° rapporto, Rubbettino Editore, 2002, Soveria Mannelli (Cz). L. Basso Peresutti (a cura di), I luoghi del museo. Tipo e forma fra tradizione e innovazione, Editori Riuniti, 1985, Roma. E. Bonetti, R. Cercola, F. Izzo, Eventi e strategie di marketing territoriale. I network, gli attori, e le dinamiche relazionali, Franco Angeli, Milano, 2010. M. Caroli (a cura di), Il marketing territoriale: idee ed esperienze nelle regioni italiane, Franco Angeli Editore, Milano, 2011. G. F. Cartei, Convenzione europea del paesaggio e governo del territorio, Il Mulino Edizioni, Bologna, 2007. H. De Varine, Le radici del futuro. Il patrimonio culturale al servizio dello sviluppo locale, CLUEB, Bologna, 2005. F. Getlein, J. Lewis, The Washington DC art review-The art explorer’s guide to Washington, The Vanguard Press, New York, 1980. J. R. Kinard, Neighbourhood museum as a catalyst for social change, “Museum”, 1985, n°148, pp. 220. D. Poulot, Musei e museologia, Jaca Book, Milano, 2008. C. Ribaldi (a cura di), Il nuovo museo. Origini e percorsi, Il Saggiatore, 2005, Milano. A. L. Tota, Sociologie dell’arte. Dal Museo tradizionale all’arte multimediale, Carocci, Roma, 1999. P. Vergo, The New Museology, Reaktion Books, Londra, 1989. L. Zola (a cura di), Memorie del territorio, territori della memoria, Franco Angeli, Milano, 2009.
Sitografia www.istat.it/it/calabria www.biobank.it www.parcopollino.gov.it/index.php/homevivere-il-parco1/ecomuseo 145
PARTE III IL PAESAGGIO AGRARIO Letture e interpretazioni
Il paesaggio, bene comune La Summer School “Emilio Sereni” e il memorandum sul paesaggio agrario Rossano Pazzagli
Nell’orizzonte della crisi del modello industriale, nelle inquietudini della post-modernità, tra i sentimenti di impotenza e di ineluttabilità che avvolgono il nostro tempo, la scuola estiva intitolata a Emilio Sereni, che da sei anni si tiene presso l’Istituto Alcide Cervi, aspira a proporsi come un’ancora a cui sorreggersi, come un ritorno alla concretezza e alle vocazioni autentiche di questa ricca Italia che si trova a vivere un momento di degrado civile e politico. Prima di tutto nell’oggetto: il paesaggio agrario, inteso come la dimensione visibile dello spazio agricolo, frutto dell’incontro fecondo tra uomo e natura, ma soprattutto come risultato dei processi di coltivazione e di organizzazione agricola. Uno spazio, quello rurale, a lungo vitale, poi abbandonato, dimenticato e ferito, in certi periodi perfino deriso. Uno spazio che però equivale a gran parte del territorio, al quale è necessario ridare dignità e valore. Occuparsi di paesaggio agrario oggi significa rimettere l’agricoltura al centro dell’interesse non solo culturale, ma anche politico, economico e sociale. L’agricoltura, in effetti, è una delle attività umane più antiche che da sempre ha modellato il paesaggio e influenzato l’ambiente e la biodiversità sul territorio di gran parte del pianeta, in particolare in aree fortemente antropizzate come l’Italia e gli altri paesi del Mediterraneo. L’insieme delle attività degli agricoltori e delle aziende agrarie nell’ambiente rurale è reso visibile dalle colture utilizzate, dalle sistemazioni dei terreni, dalle tecniche di coltivazione, dall’allevamento del bestiame, dalle forme dell’insediamento rurale, dalle infrastrutture nella campagna ecc., e l’agricoltura rappresenta così a livello planetario la principale relazione tra società umana e terra che la nutre, interessando ancora gran parte della superficie. Aldilà del suo contributo al prodotto interno lordo (variabile dal 30% dei paesi poveri a meno del 3% nelle economie di mercato dei paesi industriali) è dunque indubbio che l’agricoltura gestisce ancora oggi la maggior parte delle risorse ambientali e si colloca in una posizione centrale nel rapporto tra uomo e risorse. Il secondo aspetto è il metodo. Nello studio del paesaggio agrario la Scuola, sulla scia di Emilio Sereni, intende effettivamente sperimentare un approccio multidisciplinare, superando gli steccati delle singole discipline, della specializzazione monodisciplinare a cui siamo stati abituati, per recuperare una visione unitaria del territorio e dell’agricoltura come attività decisiva non solo del passato ma anche del futuro. La sesta edizione della Summer School, rinnovata nella forma e nei contenuti, può rappresentare lo snodo per aprire un nuovo ciclo. Per cinque anni essa ha costituto un punto d’incontro fra ricerca storica, scuola e governo del territorio; un luogo dove docenti, ricercatori e operatori territoriali si sono 149
incontrati e interrogati sull’efficacia sociale e politica della ricerca sul paesaggio agrario, sui suoi significati storici e i conseguenti processi di patrimonializzazione. Ora si intende privilegiare l’aspetto analitico e interpretativo, con l’intento anche di mettere a punto una metodologia interdisciplinare come fondamento della conoscenza/coscienza paesaggistica che possa proiettare la sua utilità in campo culturale, politico-amministrativo e socio-economico. Salvatore Settis nel suo libro Paesaggio Costituzione Cemento inquadrava la questione paesaggistica anche come una questione sociale, culturale e politica, fino a diventare una questione di democrazia, e individuava i tre paradossi di cui è vittima il paesaggio italiano: la demografia (si è continuato a costruire case anche quando la popolazione ha smesso di crescere), la tutela (l’Italia ha da un lato una lunga tradizione storica nella legislazione per la tutela delle bellezze naturali e dei beni culturali, ma possiede anche i record negativi dell’abusivismo), la formazione (non si insegna il paesaggio)1. Ebbene, noi siamo da qualche anno ormai un’occasione e uno strumento per tentare di correggere questo paradosso, questa mancanza. Ci stiamo almeno provando. Il terzo elemento di valore che è utile evidenziare è il luogo di svolgimento della Scuola. L’istituto Cervi, con la casa e il Museo Cervi e la Biblioteca-Archivio di Emilio Sereni, non sono un posto qualsiasi. Non è solo la sede di un centro di ricerca, né un semplice pezzo di sede universitaria, ma è uno dei luoghi dove è nata la nostra Repubblica, la nostra democrazia, oggi in crisi anch’essa come il paesaggio. Sulla linea lunga della memoria, qui è possibile vedere le connessioni tra la rinascita italiana e la terra, la società contadina, l’attività agricola in senso tecnico ed economico. Siamo qui, ma non è soltanto una iniziativa locale. Lo confermano la provenienza dei corsisti da tutta Italia, dalla Sicilia al Piemonte, dal Molise alla Toscana, dalla Calabria al Friuli; lo attesta il patrocinio di numerosi enti e istituzioni regionali e nazionali, tra cui due Ministeri, la Società dei territorialisti, le principali associazioni agricole e ambientali, le trenta Università, istituti di ricerca e centri culturali con i quali l’Istituto Cervi è convenzionato per la realizzazione scientifica della scuola. Ci sono dei temi – il paesaggio agrario in particolare è uno di questi – in cui la ricerca si connette con i temi attualissimi della democrazia e del governo del territorio. La Summer School Emilio Sereni ha l’obiettivo di coniugare le lezioni e gli approfondimenti portati avanti nel periodo di svolgimento, con un processo più lungo nel quale docenti e allievi si sentano e restino coinvolti, portando nei rispettivi ambiti di impegno (la scuola, l’università, la ricerca, la professione, l’amministrazione, l’attività imprenditoriale…) conoscenze, sensibilità, attitudini ed esperienze in grado di diffondere l’idea che il territorio rurale e il paesaggio agrario dei diversi contesti regionali costituiscono, sia nelle terre della polpa che in quelle dell’osso, una risorsa importante, indispensabile e strategica per il rilancio economico e sociale dell’Italia. Se è una risorsa, è evidente che esso – il paesaggio agrario, come il suolo agricolo – va conosciuto e tutelato, difeso dai fenomeni di erosione, di consumo, di cementificazione e di alterazione della principale funzione agricola: quella della produzione di cibo, senza nulla togliere alla multifunzionalità dell’agricoltura, ma inquadrandola nella cornice identitaria, strutturale e ambientale delle campagne italiane. Pensiamo che accanto ai progetti ministeriali già in essere, come l’Atlante del territorio rurale o il Catalogo dei paesaggi rurali storici, debba estendersi, anche a livello governativo e nazionale, l’impegno per la formazione e l’educazione al paesaggio. In questa sesta edizione le lezioni, i seminari, i laboratori e le iniziative collaterali nel loro insieme hanno consentito di connettere punti di vista, discipline, teoria e pratica, 1 S. Settis, Paesaggio Costituzione Cemento. La battaglia per l’ambiente contro il degrado civile, Einaudi, Torino, 2011, pp. 14-16. 150
riflessioni e indicazioni per la pianificazione del paesaggio agrario e per l’educazione al paesaggio agrario. Sono emersi, in particolare, tre punti principali: per prima cosa si è lavorato intorno alla polisemia del termine; in secondo luogo sono stati focalizzati i valori del paesaggio; infine è stata ribadita l’insufficienza di qualsiasi approccio monodisciplinare e di conseguenza la necessità di adottare una metodologia pluridisciplinare nella ricerca sul paesaggio, prefigurando l’idea della “comunità di ricercatori” così come sottolineato da Pietro Clemente. Il legame strutturale con il territorio, cioè del paesaggio come esito del lungo e incessante processo di territorializzazione di cui l’attività agricola ha costituito lo strumento più antico e pervasivo, e la connessione creativa con l’agricoltura sono i due elementi di fondo che presiedono alla fissazione delle trame storiche del paesaggio, quelle che sarebbe bene non modificare senza un pieno coinvolgimento delle comunità locali secondo il principio, appunto, del paesaggio come bene comune2. Qui si sfocia inevitabilmente nell’ambito delle politiche intese in modo non settoriale, ma nella loro molteplicità e integrazione: urbanistiche, economiche, ambientali, sociali ecc. Il paesaggio richiede oggi un duplice e coordinato intervento: sul piano culturale e sul piano politico. Purtroppo assistiamo a una sostanziale e perniciosa separazione di queste due dimensioni. Per questo, a ogni edizione, i lavori della Summer School Emilio Sereni ci consegnano anche la responsabilità di una progettualità, di una conclusione non solo intellettuale ma anche operativa, o almeno che consenta di orientare verso la realtà le acquisizioni e le conoscenze che qui la comunità di studiosi e di operatori si è scambiata. Tutti questi aspetti sono stati quindi definiti e sviluppati in un documento che aspira ad avere anche valore di progetto. Un progetto che connetta la prosecuzione di quanto messo a punto nella Scuola con una attività permanente sulla conoscenza, formazione ed educazione al paesaggio agrario, come specchio dell’agricoltura e come risorsa culturale, quindi anche economica. È così che la VI edizione della Summer School “Emilio Sereni” svoltasi all’Istituto Cervi dal 26 al 30 agosto 2014, inaugurata dal Ministro per le Politiche agricole alimentari e forestali on. Maurizio Martina, ha elaborato, a conclusione dei suoi lavori, un documento da proporre alle istituzioni nazionali e locali, al mondo della ricerca e alle scuole come base per orientare le rispettive scelte e attività verso il territorio e il paesaggio. Tale documento, denominato “Memorandum sul paesaggio agrario”, è pubblicato integralmente in appendice del presente volume. Mi limito qui a richiamare e commentare i passi salienti, riconducendoli alla tripartizione indicata sopra: significati, metodi, politiche. La polisemia del termine paesaggio e la molteplicità degli approcci al tema è evidente. Nel tempo e nello spazio si sono succedute e mescolate diverse concezioni del paesaggio: culturalista, funzionalista, ambientalista… fino alla Convenzione Europea del Paesaggio (CEP) che invita a mettere insieme protezione, gestione e pianificazione, spostando l’attenzione dalla sfera scientifica a quella delle politiche del paesaggio, delle politiche pubbliche sul paesaggio che in certi casi hanno considerato separatamente, in altri in modo integrato, il paesaggio, il territorio e il patrimonio storico. Carlo Tosco ha definito il paesaggio “risorsa apicale”, osservando che l’ambiguità e la polisemanticità del concetto è in definitiva una ricchezza, una potenzialità che esprime tutta la sua vitalità culturale3. Sulla base dell’esperienza pluriennale della Summer School Emilio Sereni, possiamo con buona approssimazione definire il paesaggio agrario come un bene comune, frutto della interazione tra uomo e natura, la forma che l’uomo imprime al territorio con la produzione di prodotti 2 A. Magnaghi (a cura di), Il territorio bene comune, Firenze University Press, Firenze, 2012. 3 C. Tosco, I beni culturali. Storia, tutela e valorizzazione, Il Mulino, Bologna, 2014, pp. 75-76. 151
alimentari e di altri beni di consumo tramite l’agricoltura e l’allevamento. Esso è pertanto l’espressione stratificata dell’attività agricola e dell’organizzazione del territorio tramite i diversi sistemi agrari, le forme dell’insediamento e le scelte produttive, ed è il frutto di un processo ininterrotto di trasformazioni. Il paesaggio, parte del patrimonio culturale, tutelato in Italia dalla Costituzione (art. 9), dalla Convenzione europea sul paesaggio e dal Codice dei beni culturali e del paesaggio, rappresenta un fattore relazionale e di identità territoriale e una risorsa di primaria importanza per il Paese e per le comunità locali. L’attuale fase di crisi economica e di “spaesamento” richiede una maggiore attenzione al territorio rurale e al paesaggio agrario come aspetti essenziali per nuove forme di economia e di lavoro per le future generazioni4. Raccogliendo in primo luogo l’indicazione delle discipline storiche, l’accento è posto principalmente sulla definizione dei caratteri strutturali del paesaggio e sul tema della sua trasformazione. Ma questa trasformazione non deve essere subita passivamente bensì governata, partendo dalla consapevolezza delle trame di fondo, resistenti e talvolta non modificabili, del paesaggio così come è venuto costruendosi nelle diverse fasi storiche. Sul piano metodologico ciò richiede una più estesa e costante capacità di dialogo tra le discipline. Nello studio del paesaggio agrario dunque, sulla scia di Emilio Sereni, vogliamo effettivamente sperimentare un approccio multidisciplinare elaborando un linguaggio comune, superando i confini dei singoli ambiti scientifici e della specializzazione disciplinare per recuperare una visione unitaria del territorio e dell’agricoltura come attività decisiva non solo del passato ma anche del futuro. La Summer School “Emilio Sereni” si propone così a livello nazionale quale struttura stabile di formazione/educazione al paesaggio agrario e quale soggetto catalizzatore delle esperienze di formazione sul paesaggio agrario a livello scolastico, universitario, postuniversitario e dell’educazione permanente, valorizzando il carattere interdisciplinare degli studi e delle ricerche. Questo compito non può essere pensato e svolto in modo puntuale e solitario, ma è necessaria una rete di soggetti, istituzioni e associazioni, in qualche modo già impegnati sui temi della formazione e dell’educazione al paesaggio. Va in tale direzione l’avvio nel giugno 2015, presso lo stesso Istituto Cervi, di un Forum scientifico intitolato “Obiettivo paesaggio. L’eredità di Emilio Sereni” finalizzato alla messa in rete dei comuni interessi rivolti al paesaggio, al suo insegnamento e alla sua gestione, in particolare per quanto concerne la storia del paesaggio agrario e periurbano, l’uso del suolo e i temi della cittadinanza e della partecipazione attiva delle comunità locali nella conoscenza e per l’educazione al valore del territorio, di cui il paesaggio è il volto non soltanto fisico, ma anche identitario e simbolico. Il nostro Paese ci offre un patrimonio enorme di paesaggi costruiti dall’incontro fecondo di uomo e natura nel corso dei secoli, rappresentativi di chi li ha calpestati e vissuti lasciandovi l’impronta; essi costituiscono la nostra ricchezza, l’espressione della nostra identità culturale e immagine dell’Italia nel mondo. Risulta quindi ancora utile il pensiero di Emilio Sereni, per il quale il paesaggio è l’integrazione di aspetti sociali, economici e ambientali, nello spazio e nel tempo, che interpretano il significato territorio rurale. L’impegno alla conoscenza, a ogni livello e grado, per contrastare i fenomeni di abbandono, di industrializzazione, di urbanizzazione e di consumo che ne compromettono l’integrità e le possibilità di sviluppo, sono un impegno che accomuna le circa trenta istituzioni universitarie e associazioni culturali che hanno sottoscritto una convenzione quadro con l’Istituto Cervi, finalizzata non 4 Sulle rinascite territoriali e i ritorni alla terra cfr. il recentissimo R. Pazzagli – G. Bonini, Esodo e ritorni. Il lavoro agricolo e la trasformazione del mondo rurale in Italia, in Storia del lavoro in Italia, Il Novecento 1945-2000, a cura di S. Musso, Castelvecchi, Roma, 2015, pp. 102-169. 152
soltanto alla realizzazione della Summer School ma anche alla collaborazione con tutte le iniziative orientate a promuovere la conoscenza e la formazione sul paesaggio. Questa attività di implementazione e rafforzamento di una rete di soggetti impegnati sulla formazione e l’educazione al paesaggio non può prescindere da un collegamento più organico con i progetti e le attività dei Ministeri dei Beni culturali, dell’Istruzione e delle Politiche Agricole riguardanti gli aspetti culturali del territorio rurale e le sue connessioni con il resto della società, finalizzati alla conoscenza, tutela e valorizzazione del paesaggio agrario italiano. Un’attenzione specifica deve infine essere rivolta alla scuola sulla base di un programma ormai sperimentato a lato delle varie edizioni della Summer School e denominato “Il Paesaggio a scuola”, come ripreso nel Memorandum: nel momento in cui il paesaggio entra a scuola rivela la sua carica formativa perché mobilita le aree della cittadinanza attiva e influisce sul rinnovamento disciplinare per il suo carattere di testo, di fonte e di specchio per l’osservatore. Il paesaggio in quanto bene comune deve essere governato, accessibile e condiviso, aprendosi al concetto e alla pratica della partecipazione, che trova nella dimensione nazionale e in quella locale il terreno privilegiato per l’elaborazione e la pratica di buone politiche di paesaggio. La dimensione locale, la partecipazione, il legame con la pianificazione territoriale e, infine, il rapporto tra paesaggio e democrazia sono tutti aspetti sui quali approfondire la ricerca e il dibattito. Da un recente libro di Pierre Donadieu sembra di avere la conferma – come evidenziato da diversi autori italiani – che la crisi attuale del paesaggio è in qualche misura corrispondente alla crisi della democrazia, cioè, per quanto riguarda l’Italia, del tradimento della Costituzione e della crisi dei metodi partecipati di elaborazione delle scelte5. Il discorso si sposta dunque dai metodi alle politiche. Le ferite al paesaggio, sempre più profonde negli ultimi decenni e connesse anche al consumo di suolo agricolo così come ai fenomeni di abbandono e di urbanizzazione, richiedono strategie e azioni immediate per la tutela e la valorizzazione, dai piani paesaggistici regionali fino agli strumenti urbanistici comunali, tenendo conto che l’agricoltura è il settore produttivo più importante per la salvaguardia del paesaggio e per la sua riproduzione6. Ne consegue che le politiche agricole e urbanistiche rappresentano lo strumento principale per il governo delle trasformazioni. La pianificazione territoriale deve tenere conto in via prioritaria del paesaggio agrario, delle sue diversità e delle relazioni esistenti tra questo e le comunità locali, sia in termini di percezione sociale che di equilibrio tra popolazione e risorse e tra componenti territoriali, a partire dal cruciale rapporto tra città e campagna. Non deve trattarsi di politiche settoriali: i processi di pianificazione richiedono di essere accompagnati da adeguati processi di ordine culturale, che privilegino la formazione e l’educazione al paesaggio, orientate sulla filiera conoscenza-tutela-valorizzazione e legate al sistema agricolo, agli ecosistemi e al sistema complessivo dei beni culturali. Su questi aspetti ci si avvicina molto all’impostazione dei territorialisti italiani, cioè a una visione del territorio come coevoluzione tra uomo e natura che riunisce componenti naturali, culturali e storiche. Si tratta di una visione che riprende proprio l’impostazione di Emilio Sereni e della sua Storia del paesaggio agrario: una storia del paesaggio che sta all’incrocio tra geografia e agricoltura, la geoagronomia, come la chiama Donadieu sulla scorta di Jean-Pierre Deffontaines7. In questo senso la Summer School non si limita all’orizzonte scientifico e didattico, ma 5 P. Donadieu, Scienze del paesaggio. Tra teorie e pratiche, ETS, Pisa, 2014; ed. orig. 2012; A. Leone, P. Maddalena, T. Montanari, S. Settis, Costituzione incompiuta. Arte, paesaggio, ambiente, Einaudi, Torino, 2013. 6 D. Poli (a cura di), Agricoltura paesaggistica. Visioni, metodi, esperienze, Firenze University Press, Firenze, 2013. 7 P. Donadieu, Scienze del paesaggio, cit., pp. 179-196. 153
intende porsi altresì quale punto di riferimento per le amministrazioni locali al fine di una pianificazione orientata alla salvaguardia del paesaggio agrario, tramite la conservazione delle trame storiche e il governo ragionato delle trasformazioni, per evitare ogni ulteriore riduzione di suolo fertile, che costituisce una risorsa limitata ed essenziale per la produzione di beni alimentari e per la salvaguardia dei caratteri delle identità locali, promuovendo un ruolo attivo delle comunità locali e forme di partecipazione della popolazione al governo del territorio. Sebbene l’obiettivo prioritario resti quello di superare la debolezza formativa sul paesaggio, per promuovere adeguate strategie educative, per favorire un’ottica realmente multidisciplinare. Il Memorandum è, soprattutto, l’invito a riflettere sui rapporti tra paesaggio e società, sia nei processi di costruzione del paesaggio che nell’orizzonte nuovo della percezione del paesaggio come fondamento delle politiche, tenendo presente che il conflitto è uno dei motori della costruzione del paesaggio e che la messa in atto di piani e di progetti di paesaggio è uno strumento di democrazia, un modo per tendere al benessere individuale e al benessere sociale delle persone. Il tutto non ponendo il paesaggio sotto una campana di vetro, ma cercando di governare in modo pubblico le trasformazioni, anziché subirle come in gran parte sta avvenendo. Sembra spuntare un’equazione, insomma, tra bel paesaggio e buona politica. Si tratta di un mondo ideale? Pierre Donadieu, riecheggiando ciò che scriveva Alberto Magnaghi nel suo Progetto locale, risponde di sì, che forse sono utopie, ma utopie realiste!8 Possono sembrare discorsi astratti quelli sul paesaggio? A questo rischio cercherà di rispondere la prossima edizione della Summer School Emilio Sereni, concentrandosi su una filiera che rappresenta lo strumento migliore per dare concretezza al concetto e al valore del paesaggio: la filiera del cibo. Il paesaggio agrario è la dimensione visibile di come si coltiva e di come si governa il territorio, di come si relazionano città e campagna, produzione e mercato, lavoro e tempo libero, coltivazione e alimentazione, appunto. Il paesaggio agrario è uno specchio fedele dei problemi, ma anche delle opportunità che l’Italia, in particolare le giovani generazioni, devono affrontare e cogliere. La profonda tradizione economica e civile delle campagne italiane, l’innovazione, unita al rispetto dei cicli naturali, la bellissima metafora di Alcide Cervi “dopo un raccolto ne viene un altro” possono e devono essere i nostri riferimenti ideali, lo spirito di questa Scuola, ma soprattutto la spinta a conoscere, difendere e valorizzare il paesaggio agrario italiano, che rappresenta non solo il volto della nostra agricoltura ma anche un bene comune, un patrimonio che ci può aiutare a rispondere alla crisi del nostro tempo.
8 P. Donadieu, Scienze del paesaggio, cit., p. 73; A. Magnaghi, Il progetto locale, Bollati Boringhieri, Torino, 2010. 154
Il paesaggio degli antropologi Tra mondo globale, musei e voci della memoria locale Pietro Clemente
I paesaggi culturali contengono l’altrove Simbolismo e colonialismo La prima forse più nota origine dell’antropologia culturale è quella anglosassone e positivista, di E. B. Tylor e J. Frazer, risalente alla seconda metà dell’Ottocento. Sarebbe bellissimo quindi cominciare la riflessione sull’antropologia del paesaggio con l’immagine della copertina, piena di sintesi simboliche epocali, dell’edizione italiana del doppio volume di James Frazer, Il ramo d’oro. Della magia e della religione (Boringhieri, Torino, 1973), edizione ridotta (nel 1922) dei 12 volumi di Mac Millan, cominciati nel 1890 e compiuti nel 1915. Si tratta del famoso quadro di William Turner, Il ramo d’oro, del 1820, ispirato all’Eneide. James Frazer (1854-1941) comincia le sue pagine commentando quest’opera: Chi non conosce il Ramo d’Oro del Turner? La scena del quadro, tutta soffusa da quella aurea luminescenza d’immaginazione con cui la divina mente del Turner impregnava e trasfigurava i più begli aspetti della natura, è una visione di sogno di quel piccolo lago di Nemi, circondato da boschi, che gli antichi chiamavano “lo specchio di Diana”…..Nei tempi antichi questo paesaggio silvano era la scena di una strana e ricorrente tragedia... (ibid. p. 7). Così, come in un romanzo giallo o in una lunga cronaca di complessi e oscuri rituali, comincia la scena dell’antropologia ottocentesca. Frazer era un classicista di formazione e la sua antropologia era una sorta di regressione immaginativa ai primordi dell’umanità, i suoi paesaggi erano pieni di boschi e di riti nei quali i “suoi” primitivi si erano esercitati a sperimentare il mondo con il loro pensiero magico. Non aveva mai visto né il lago di Nemi né i primitivi1. Il paesaggio di Frazer è un paesaggio non visto di persona, ma è anche un paesaggio che ha fortemente influenzato il pensiero moderno: dal Ramo d’oro presero le mosse i paesaggi poetici della Waste Land di Eliot, è sul tavolo di Kurtz (re-sacerdote moderno) nel film di Coppola, Apocalypse now del 1979. Si potrebbe definire un paesaggio silvano … scena di una strana e ricorrente tragedia… 1 Vedi anche P. Clemente, A. Simonicca, F. Dei (a cura di), I frutti del Ramo d’oro, in “La ricerca folclorica”, 10, 1984 155
Il libro di Frazer mobilita il paesaggio immaginativo del mondo coloniale, quello che si compie in Vietnam ma che si è già compiuto nell’Africa di Conrad – visto che da Cuore di tenebra, Coppola si è mosso per la trama che ha trasferito in Vietnam. Il lago di Nemi contiene questo altrove e questo altrimenti che non lo riducono a semplice visione. Paesaggi immaginati del mondo occidentale sui mondi altri. Immaginativi ma non per questo meno potenti ed efficaci visto che collocano l’alterità nel passato, e che questi primitivi vengono affidati alla missione dell’uomo bianco. Paesaggi però globali già nel pensiero di Frazer e in quello del positivismo che accompagnava la conquista inglese e, più in generale, occidentale del mondo. Questo paesaggio era nel 1899 ne Il fardello dell’uomo bianco di R. Kipling:
Addossatevi il fardello dell’uomo bianco Mandate i migliori della vostra razza Andate, costringete i vostri figli all’esilio Per servire ai bisogni dei sottoposti Per custodire in pesante assetto Gente irrequieta e sfrenata Popoli truci da poco soggetti Mezzo demoni e mezzo bambini … La geografia culturale dell’800 e del 900 è fatta più dal colonialismo e dall’imperialismo che dall’orografia e dalle rilevazioni con i nuovi strumenti tecnici. In un certo senso il paesaggio culturale è legato al mondo e ai suoi grandi processi, esso contiene sempre elementi dell’altrove. Come nella descrizione del “paesaggio domestico” dell’uomo americano fatta da R. Linton: Il cittadino americano medio si sveglia in un letto costruito secondo un modello che ebbe origine nel vicino Oriente. Egli scosta le lenzuola e le coperte che possono essere di cotone, pianta originaria dell’India; o di lino, pianta originaria del vicino Oriente; o di lana di pecora, animale originariamente domesticato nel vicino Oriente; o di seta, il cui uso fu scoperto in Cina. Si infila i mocassini inventati dagli indiani e va nel bagno, i cui accessori sono un misto di invenzioni europee e americane. Si leva il pigiama, indumento inventato in India, e si lava con il sapone, inventato dalle antiche popolazioni galliche. Tornato in camera da letto, prende i suoi vestiti da una sedia il cui modello è stato elaborato nell’ Europa meridionale e si veste. Indossa indumenti la cui forma derivò in origine dai vestiti di pelle dei nomadi delle steppe dell’Asia, si infila le scarpe fatte di pelle tinta secondo un procedimento inventato nell’antico Egitto, tagliate secondo un modello derivato dalle civiltà classiche del Mediterraneo; si mette intorno al collo una striscia che è un vestigio sopravvissuto degli scialli che tenevano sulle spalle i croati del diciassettesimo secolo. Andando a far colazione si ferma a comprare un giornale, pagando con delle monete che sono un’ antica invenzione della Lidia. Al ristorante il suo piatto è fatto di un tipo di terraglia inventato in Cina, il suo coltello è di acciaio, lega fatta per la prima volta nell’India del sud, la forchetta ha origine medievali italiane, il cucchiaio è un derivato dell’ originale romano. Prende il caffé, pianta abissina e mangerà delle cialde, dolci fatti, secondo una tecnica scandinava, con 156
il frumento, originario dell’Asia minore. Quando il nostro amico ha finito di mangiare, si appoggia alla spalliera della sedia e fuma, secondo un abitudine degli indiani d’America, consumando la pianta addomesticata in Brasile o fumando la pipa, derivata dagli indiani della Virginia o la sigaretta, derivata dal Messico. Può anche fumare un sigaro, trasmessoci dalle Antille, attraverso la Spagna. Mentre fuma legge le notizie del giornale, stampate in un carattere inventato dagli antichi semiti, su di un materiale inventato in Cina e secondo un procedimento inventato in Germania. Mentre legge se è un buon cittadino conservatore ringrazierà una divinità ebraica di averlo fatto al cento per cento americano2. La narrazione di una comunità nativa dell’Amazzonia, a lungo visitata in una ricerca da Claude Lévi Strauss, è scritta per essere vista dall’Europa e per diventare immaginazione del lettore di Tristi tropici (1955), opera straordinariamente capace di incorporare paesaggi culturali: immagini morali di mondi a confronto, relazioni tra spazi. Già nell’età coloniale e nella sua crisi (da Frazer a Lévi Strauss) operano quelli che l’antropologo americano A. Appadurai, in Modernità in polvere (Roma, Meltemi, 2001, ed. orig. 1996) ha chiamato ideascapes, paesaggi ideali, e media scape, nel quadro dei suoi Etnorami globali. Ovviamente diventano determinanti nella fase di internet e delle tecnologie globali. U. Hannerz3 considera che il web, l’antenna satellitare, Skype, etc. modificano il nostro “habitat di significato”. Questo “habitat” è enormemente dilatato dall’accesso ai repertori e agli inventari del mondo (ivi:32) e cambia il “senso del luogo”. I “luoghi” sono tra i principali oggetti critici dell’antropologia globale e decostruzionista, dai Non luoghi i Augé alla riflessione sullo spazio urbano (Kevin Lynch) fino alla sociologia del presente: Il luogo diventa sempre più fantasmagorico: ciò significa che i luoghi sono pervasi e modellati in misura crescente da influenze sociali relativamente distanti da essi4. Questa consapevolezza ha coinvolto tutte le discipline. Secondo Hannerz, il “locale” va riletto alla luce dei processi complessi che comportano un cambiamento degli habitat di significato, a partire da televisione e internet per arrivare alla struttura delle generazioni, alla natalità, alla mobilità e alle migrazioni. Il locale è sempre più un’arena in cui si intersecano i più vari habitat di significato della gente, e dove il globale, o ciò che è considerato locale altrove, ha anche qualche possibilità di trovarsi a suo agio, un’idea che è al centro del suo saggio L’ecumene globale come paesaggio della modernità5 (p. 38). Apprendendo dalla geografia umana e dalla storia agraria (Emilio Sereni), l’antropologia italiana ha imparato l’uso dello sguardo esperto, diagnostico dei paesaggi lavorativi rurali e urbani, degli spazi della festa e del rito, ma ha anche appreso a criticarne la presunzione di autonomia. L’approccio antivisualista elaborato da Clifford Geertz chiede scambi di significati, rappresentazioni native, memorie radicalmente diverse da quelle che attivano gli sguardi del turista o del tecnico. Nel definire “diapositive” gli scritti di Evans Pritchard sull’Africa6, egli intende criticare lo sguardo oggettivista, quello che non negozia, quella che proclama l’autonomia del suo sapere, che è anche, in un certo senso, lo sguardo colonialista. 2 R. Linton, Lo studio dell’uomo, Il Mulino, Bologna 1973 (ed.or.1945). 3 La diversità culturale, Bologna, Il Mulino, Bologna, 2001, ed. or.1996. 4 A. Giddens, Le conseguenze della modernità, Il Mulino, Bologna, 1994, (ed.orig. 1990). 5 Ivi, pp.67-87. 6 Opere e vite. L’antropologo come autore, Il Mulino, Bologna, 1990 (ed. orig.). 157
Memoria dell’alterità, alterità della memoria Il puro guardare o il puro vedere sono considerati negativamente dalla riflessione ermeneutica e anche dalle arti: Antonio Antinucci, in Comunicare nel museo (Laterza, Bari, 2004) scrive Ragghianti diceva che in una giornata non si possono vedere più di dieci/ quindici opere, se il nostro scopo è vederle veramente e “ascoltarle”. Più volte Maria Lai, artista della stagione concettuale (vedi anche Sguardo opera pensiero, Duchamp, Cagliari, 2004), ha spesso sottolineato che il vedere è un processo che comprende il guardare e l’ascoltare. Ascoltare è una pratica ermeneutica, che non affida mai interamente la conoscenza al sapere esperto, ma al dialogo, all’incontro, allo scambio. Un paesaggio culturale non ha senso se non attraverso la conoscenza dialogica dei significati. Il paesaggio connesso con la cultura non può che essere segnato da tracce invisibili che stanno negli occhi e nelle pratiche culturali di chi ci si rapporta, da rappresentazioni che vanno messe al confronto. Il museo è da sempre un dispositivo adeguato per produrre nuova immaginazione, per rileggere il paesaggio. L’idea che dalla scatola museale “si esce cambiati” (me) si affianca a quella per cui il museo attiva pratiche di valorizzazione dei saperi comunitari, delle memorie, dei paesaggi vissuti e narrabili, dei nessi con il grande mondo (le migrazioni, i ritorni, le connessioni). Possibilità soprattutto del piccolo museo radicato nel nuovo mondo locale, nel quale spesso porta anche tecnologie che consentono interconnessioni pubbliche. Il piccolo museo Tepotratos (teatro popolare tradizionale toscano) accompagna a Monticchiello la lunga vicenda del Teatro Povero, un’azione teatrale estiva all’aperto in cui attori e regista sono la gente del paese, una frazione storica di Pienza (Siena) che rischia lo spopolamento e che dal 1968 si batte per rappresentare il proprio mondo con la scena, la festa, la valorizzazione della memoria e del paesaggio storico materiale e immateriale. Il Museo nel primo spazio espositivo provoca il visitatore sui valori del luogo, sullo spazio percepito: egli trova bellissime, in genere, quelle terre collinari a grano che si presentano glabre e dorate, dopo la mietitura, e poi color terra di Siena, e verdi con una peluria giovane e infine ricche di messi ventose. Nell’occhio del visitatore c’è anche la fotografia che da anni insiste sulla Val d’Orcia, il setting del cinema (Il paziente inglese di A. Minghella, 1996) e della pubblicità. Il museo invece vuole togliere dalla mente dell’utente il paesaggio turistico visto come bene di consumo che fa comprare altri beni di consumo, per evidenziare la quotidianità concreta di quel mondo nel passato. Un mondo di lavoro, di gente sui campi, di richiami tra i colli, di socievolezza serale, di ritualità collettiva, di grandi pranzi cerimoniali per la mietitura, la trebbiatura, la vendemmia. Quando, in sostanza, non era un uomo solo alla guida di un mezzo tecnologico a realizzare l’intero ciclo del grano. A Monticchiello vogliono farci vedere lo spazio culturale come era vissuto e lo spazio mercantile come viene venduto, con l’intento che la loro comunità non sia vista con lo sguardo commerciale. Questa è la loro missione.
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Dalla geografia alla cultura Pluralità delle culture L’altra grande tradizione delle origini dell’antropologia culturale è quella legata a Franz Boas: quella americana. Franz Boas (1858-1942) però era come formazione un geografo, ebreo tedesco, che divenne americano contro l’estendersi sull’Europa di un’epoca di persecuzioni antiebraiche, già annunciate nel Manifesto sulla razza (de Gobineau, 1853/54). L’antropologia americana di Boas fu fortemente antirazzista e in un certo senso fondò l’antirazzismo moderno basato sul relativismo culturale e non sulla genetica... ma ispirò anche studi genetici. Da geografo e un po’ “tuttologo” come gli scienziati positivisti, Boas fece effettivamente ricerche sul campo, cominciando in area esquimese e poi continuando in area americana, con varie popolazioni di nativi americani in specie del Nord come i Kwakiutl (Columbia britannica, oggi Canada). Boas fu uno studioso empirico, anti-teorico, che sistematicamente si dedicò a rilevare tratti culturali, tradizioni orali, forme festive delle popolazioni native, e fondò una etnografia compartiva basata su un approccio centrato sulle differenze e non sulle somiglianze (come nel modello di Frazer); l’evoluzionismo e i suoi dogmi senza dimostrazione documentaria furono tra i suoi principali avversari. Boas fu il fondatore di una museografia di grande comunicazione ed educazione, rivolta ai giovani e non solo agli studiosi come nella tradizione europea; i musei erano per lui anche luoghi di lotta al razzismo. È dallo sguardo di Boas che, secondo G. W. Stocking, storiografo dell’antropologia culturale, nasce l’idea della pluralità delle culture, che non era ancora in Tylor, che definì invece in generale il concetto di cultura entro una concezione evoluzionista7. Secondo Stocking, Franz Boas esercitava sia lo sguardo del fisico, che spezza, analizza, compara, sia insieme quello del “cosmografo” e dello storico che deve costruire modelli complessivi, parlare di una cultura come un insieme. Per Stocking l’antropologia culturale si definisce creando un suo paradigma, basata sullo sguardo non oggettivo bensì capace di produrre conoscenza imponendo una forma al flusso dell’esperienza. Quel tipo di approccio sarà reso ancora più chiaro grazie all’aiuto di alcune allieve di Boas come R. Benedict e M. Mead, che elaborarono un’idea di “modelli di cultura” che intorno ad alcuni lineamenti guida cercavano di produrre immagini totali delle culture, dai “tratti” analitici di Boas ai modelli “etici” in cui la cultura era un insieme compiuto di modelli di comportamento e di valori comuni che si apprendono nel processo di inculturazione. Per gli antropologi c’è sempre una componente di questa natura nella lettura di un paesaggio culturale, un “effetto di totalizzazione” che differenzia l’etnografia di una comunità di montagna dalla geografia di essa. Anche nello studio delle trasformazioni quell’idea forte di insieme coeso e condiviso fa diventare il paesaggio “cultura”, e consente di leggerne le spezzature, le erosioni, gli abbandoni. Questa tradizione empirica, non simbolista ma descrittiva e dotata di uno sguardo modellizzante, è la più discussa negli anni recenti, insieme alla critica del concetto di identità. La cultura viene spesso vista come un fattore di separazione, di chiusura e non di apertura ai processi di scambio e ibridazione del mondo.
7 G. W. Stocking, Razza, cultura, evoluzione, Il Saggiatore, Milano, 1985 (ed.or. 1968). 159
Fratture e perdita dell’unità L’antropologia del “villaggio” ha costruito nel tempo insiemi culturali che oggi gli studi sul mondo globale mettono in forte discussione, preferendo tornare a scenari analitici parziali, alla Boas, nei quali la comparazione di tratti culturali delle etnografie può avere più possibilità di resoconto. Un caso classico è quello del paesaggio della violenza sulle minoranze nel mondo di oggi, sul quale ha lavorato Appadurai con molti casi etnografici, ma anche tentativi di trovare teorie esplicative dei processi drammatici legati alle guerre e stragi etniche8. Collocandoci nel presente per discutere i temi della contemporaneità, l’idea di uno sguardo unificante, capace di produrre il paesaggio come sintesi, fusione, è molto lontana dalla letteratura antropologica che propone invece piuttosto una “esplosione” del paesaggio, moltiplicato, fratto, consumato nel mondo globale. La ricomposizione è un processo analitico finalizzato alla comprensione dei processi, non un dato, né una possibilità di esperienza. Il museo è uno dei luoghi chiave per realizzarla in quanto interviene in ambienti modificati, frammentati. Quando la Soprintendenza di Siracusa, con l’assessorato alla Cultura e all’identità della Regione Sicilia, realizza il primo vincolo nel settore demo-etno-antropologico (affidato per nome alla Soprintendenza, ma in generale con una funzione ornamentale) esercitato su un percorso di cultura materiale, i musei di riferimento9 vengono connessi dagli immobili del percorso detto “I luoghi del lavoro contadino”, che contiene una casa del massaro, un palmento, una casa del bracciante, la bottega del calderaio, del falegname, del calzolaio, il frantoio e il mulino ad acqua. Si trovano a restituire senso a una sorta di isola di memoria, concreta, pratica, attivata da saperi manuali e naturalistici ancora in parte ricostruibili e trasmissibili, dentro un mondo di accentuata modernizzazione. Si danno piuttosto intersezioni stridenti di codici, che non unità di qualche tipo. Le forme del mondo globale sono fratte, le unità di tempo e di luogo che erano in qualche modo implicite nella nozione di paesaggio e nella nozione di cultura si sono spezzate, non c’è più unità dei mondi locali, delle comunità, tanto che queste possono ricostruirsi intorno a beni sui quali investono (le comunità di eredità, o comunità patrimoniali della Convenzione di Faro, 2005) più che in insiemi complessivi. Non c’è più paesaggio incantato in cui non compaia un turista, o un giovane con un iPhone con una’app che ne dia le coordinate, georeferenziandolo. Praticamente il mondo non è più lì, contiene ovunque sempre un altrove. Un esempio, se volete ovvio e tragico, è quello dei droni georeferenziati che vanno a seminare morte su un villaggio afghano. Un altro esempio è la “guerra” della TAV in cui la posizione romantica per l’unità del paesaggio, e per la gestione di esso da parte degli abitanti, è quella dei NO TAV, mentre quella dello stato italiano è una presa di posizione che ha a che fare solo con la velocità dei flussi commerciali, con il mercato contro il paesaggio.
8 A. Appadurai, Sicuri da morire. La violenza nell’epoca della globalizzazione, Meltemi, Roma, 2005 (raccolta italiana di saggi editi tra 1998 – 2002). 9 Si tratta dei musei etnografici di Palazzolo Acreide e di Buscemi, il primo è la notissima Casa Museo istituita negli anni ‘60 da Antonino Uccello. 160
Corpi tracciati e rintracciati In questo quadro colloco gli studi francesi sulle migrazioni che per tanti aspetti mi hanno colpito, mi hanno dato l’idea del nesso vicino-lontano praticato da chi sta facendo il nuovo mondo e vivendo i nuovi conflitti del flusso e della diaspora, costruttori di paesaggi inediti. Mi riferisco a una ricerca del programma TIC-Migrations, che può essere visto sul sito10: una ricerca sugli immigrati tracciandone i movimenti nello spazio francese grazie a carte rintracciabili su internet, che mostra come gli itinerari dei migranti ripetano gli itinerari di precedenti migranti, e comunque tengano le connessioni con il mondo dei loro “vicini” dentro il “lontano”: parenti, amici, gente del villaggio, accomunati dalla stessa lingua, nativi dello stesso paese. Un altro documento del sito mostrava invece la produzione di vicinanza con i parenti lontani tramite Skype, corredata dallo sguardo della piccola telecamera. Il migrante in Francia aveva lasciato a sua madre un computer con una connessione Skype e per almeno un’ora al giorno era con lei in casa e anche nel mondo del vicinato: con la piccola telecamera la madre gli mostrava scene del quartiere in una comunità dell’Asia. È un intervento che mi ha colpito assai, da un lato per l’impegno di indagine epistemologica su come il TIC (Technologies d’Information et de Communication) cambia il nostro mondo senza che ce ne rendiamo conto – cambia i confini, i corpi, le percezioni, i sentimenti – dall’altra su come il lessico che ci pareva naturale, quello del buon senso, sia messo in difficoltà. Nei miei appunti ho scritto: l’altrove nel qui. Cambia il modo di immaginare mondi. Si è insieme nella distanza con Skype a costo zero. La doppia assenza del migrante, nel classico saggio di Abdelmalek Sayad11, dal luogo di provenienza e dal luogo di arrivo, diventa qualcosa di nuovo, una strana presenza mediata e mediatica. Ho la sensazione che qualcosa come una nuova faglia epistemologica si stia producendo, che forse renderà più visibili noi stessi a noi stessi in una dimensione diversa. I flussi dei movimenti dell’Atlante TIC sugli spostamenti-movimenti dei migranti non è imprevedibile: come ha mostrato Hermann Bausinger12, spesso le tecnologie di grande portata sono usate per dialogare tra vicini, se non contigui, soprattutto tra i giovani europei; il caso migratorio è più complesso ma non smentisce del tutto quella possibilità. Ciò che colpisce è che siano flussi veri, che possono anche essere usati dalla polizia, così come, sempre più, nei processi il telefono cellulare viene rintracciato come alias dell’individuo, corpo suppletivo. Il tema della diaspora, dei flussi, dei migranti, del cosmopolitismo sono temi forti e nuovi della dimensione che ci sta cambiando, che ci consente anche di vederci riflessi. Capire con nuovi occhi cosa è vicino cosa è lontano.
10 Ne ho avuto notizia tramite l’intervento di Mathieu Jacomy su Analiser puis archiver l’occupation des territoires numériques par les migrants, che dava conto di un programma di ricerca TICMigrations basato su una mutazione di paradigma, dal migrante sradicato al migrante interconnesso. In un seminario di Villa Vigoni inedito, a cura di Chiara Bortolotto, su “L’inscription territoriale du patriomoine immatériel”. Utile per capire questo approccio il sito tic-migrations.fr, dove si trovano anche i riferimenti di Le migrant connecté. Pour un manifeste épistémologique e del E-Diasporas Atlas. 11 La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato, Cortina, Milano, 2002. 12 Vicinanza estranea. La cultura popolare fra globalizzazione e patria, Pacini, Pisa, 2008. 161
Annotazioni Una assemblea dei viventi Non c’è dubbio allora che il paesaggio non sia che il nome di diversi processi, privo di unità profonda, mutevole anche a seconda dei soggetti che ne fanno uso e di come lo negoziano con altri soggetti (il turismo, le zone protette, i parchi), e che il museo sia un attivatore di senso, di ricomposizioni o anche di evidenziazione di fratture. All’antropologia e al suo relativismo chiediamo allora ulteriori tracce per cercare percorsi di nuova significazione. Ne proporrò alcuni come esempi. Philippe Descola, in vari lavori sugli Achuar dell’Amazzonia13, ha posto a noi occidentali il tema che essi pongono nella loro vita di gruppo: vivere il mondo non distinguendo tra comunità di vita, tra uomini e viventi, tra viventi e natura. Descola ci segnala, sulle orme di Lévi Strauss, che noi occidentali viviamo il paesaggio come lo spazio dell’uomo. Ciò che noi chiamiamo paesaggio è per loro un’assemblea dei viventi, una forma di vita diversa, un sodalizio che si oppone all’oggettivazione del mondo naturale (oggettivazione sia economica che conoscitiva). Questa idea è giusto metterla di traverso lungo la strada della semplificazione per renderci difficile il cammino facilitato dalle grandi campiture occidentali, che si aprono la strada tra le forme di vita del mondo con il machete. Il nostro paesaggio è anche nella Convenzione Europea a esso dedicata e quindi ce lo portiamo dietro almeno come una voce del nostro spazio politico-culturale continentale. Ma ciò ci consente, guardando al mondo fratto delle guerre postmoderne, di iscrivere nel paesaggio anche Sarajevo distrutta, e Lampedusa piena di morti nel mare, mentre le destre xenofobe producono muri perché non si veda il dolore o lo si attribuisca ad altri. “Prima i Lombardi”: non so se è facile rendersi conto di quanto sia folle, ignara, portatrice di violenza questa espressione/parola d’ordine, nel mondo che abbiamo descritto. Paesaggio Sarajevo, paesaggio Lampedusa, paesaggio Val d’Orcia, paesaggio Ville Venete: un brusio senza polifonia. Pezzi di mondo iscritti in un futuro senza probabilità visibili di progresso.
Metropoli verdi In Letture di paesaggi, a cura di Cristina Papa (Guerini, Milano, 2013), la curatrice critica la lottizzazione dei saperi disciplinari e invita a non parlare più di paesaggio in solitarie esternazioni specialistiche, senza tener conto degli urbanisti, degli storici dell’arte, degli storici, dei geografi, degli antropologi, con cui essa collabora sovente. In queste pagine c’è il ritorno a un approccio molto pragmatico al paesaggio come legato alle prospettive e alle letture di molteplici attori, quelle degli individui come soggetti che lo percepiscono e che insieme agiscono e contribuiscono a costruirlo, quello dei saperi esperti che lo descrivono nella sua materialità, quello degli amministratori e legislatori che definiscono le regole della sua trasformazione, quella dei pianificatori che ne strutturano contorni e possibilità. Questa molteplicità e ambiguità che sono certamente alla base della fortuna del termine rischiano di costituirne anche la debolezza, fondata sulle facoltà di una traduzione da un significato all’altro14. 13 Diversità di natura, diversità di cultura, Book time, 2012 è la prima traduzione divulgativa dell’opera Par-delà nature et culture, Gallimard, Parigi, 2005. 14 C. Papa, Paesaggio/paesaggi. Una introduzione, ivi, p. 7. 162
Il libro vuole essere un canale di comunicazione tra comparti, saperi e poteri e arrivare al senso comune del pubblico interessato che è il protagonista della Convenzione Europea del Paesaggio (Consiglio d’Europa, 2000), ma non sempre è nella scena e nell’orizzonte degli studi secondo l’idea guida che “Paesaggio” designa una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni (art.1, Convenzione). Il testo di Cristina Papa insiste in modo particolare sulla nuova natura prevalentemente urbana del mondo dandoci un’idea di paesaggio forse nuova per la mia generazione, perché parte dalle megalopoli e pensa il paesaggio a partire dal recupero di un equilibrio tra la campagna e la città, che avviene però a partire dall’interno delle città, mentre alla fine degli anni ‘90 c’era forse l’utopia del ritorno alla campagna, della decostruzione delle città metropolitane. Cristina Papa indica un possibile spazio equilibrato in cui la città è il centro del recupero del rapporto con la campagna, e con il mondo, in generale, dei viventi. In questo libro l’altro grande tema è il turismo come forma globale di soggettività; il turismo è entrato a fare parte di una multisoggettività internazionale per cui non c’è più nessuno che non possa dirsi turista. Il volume traccia un lungo percorso perché si conclude con il “bel paesaggio” del Rinascimento italiano, e un riferimento al maestro del paesaggio, lo storico dell’agricoltura Emilio Sereni, il cui saggio sul Buongoverno di Lorenzetti è stato il punto di connessione tra antropologi, storici, storici dell’agricoltura e dell’arte. Un testo originale anche per metodo conoscitivo sul paesaggio è quello di Nadia Breda, Periferia diffusa. Produzioni in Veneto, biografia di una strada che è anche drammatico racconto di vita del cambiamento di una strada del Veneto, trasformata in parte in autostrada – investita da camion e da traffico, impraticabile per il ciclista, sfuggita di mano ai cittadini contemporanei, delineata in modo soggettivo nella vita delle generazioni. C’è nella Breda la critica anche del come viene percepito il paesaggio dalle comunità locali che subiscono la trasformazione, dove le villette trincerate nel cemento sono considerate, da chi ci vive dentro, un incremento di felicità e di benessere e non vengono viste nella prospettiva lunga di un territorio che si sta sostanzialmente individualizzando e quindi autodistruggendo. Dove c’è frattura e bisogno di interpretazione a me torna in mente il museo come mediatore ermeneutico, punto di riconnessione di tracce, commutatore di esperienze, tesaurizzatore di memoria. Il museo sta bene dove c’è bisogno di mediazione, dove c’è frattura.
Paesaggi terzi Un altro recente volume di antropologia del paesaggio è quello curato da Franco Lai e Nadia Breda, Antropologia del terzo paesaggio (CISU, Roma, 2001). Un volume a più mani, con economisti, urbanisti e agronomi oltreché antropologi, tutti impegnati sui temi del “terzo paesaggio”. Un concetto che sta dietro le riflessioni di Gill Clement15, autore francese contemporaneo, e il terzo paesaggio è essenzialmente fatto dai luoghi abbandonati e in rovina: i terzi paesaggi pongono il problema di cosa fare del passato e della memoria dei luoghi, è un paesaggio indeciso e assume un ruolo centrale che riguarda l’eventuale ricostruzione, il ritorno all’efficienza tecnica, l’uso o la positiva rivalutazione dell’abbandono in relazione alla riconquista degli spazi da parte della natura. Questi passaggi intermedi, indecisi, ambigui, segnano luoghi che non ci sono più, o 15 G. Clément, Manifesto del Terzo Paesaggio, Quodlibet, Macerata, 2005. 163
non sono ancora, o che sono ridiventati qualcosa. Sono radicalmente quelli che aiutano a pensare la contemporaneità e i suoi giganteschi scarti, scorie, detriti, marginalizzazioni, decentramenti. Uno spazio sul quale il verde sta togliendo il dominio all’asfalto è da vedere nell’ottica delle green ways e del modello ecologista che affida agli alberi la riconquista del mondo, o chiede bonifica, interventi, parchi per bambini, sottrazione all’incuria. Con un riferimento a Walter Benjamin, la teoria del terzo paesaggio considera il proprio oggetto marginale e decaduto come paesaggio inquieto e profetico, capace di indicare tracce di futuro. Nel volume un testo di Paola Atzeni16, che ha lavorato per tantissimi anni sull’area mineraria del Sulcis, in particolare a Carbonia, presenta una sua interpretazione del terzo paesaggio: dopo le dismissioni produttive sono stati rivelati in vari ambiti i rischi e i pericoli minerari, paesaggi critici che hanno contraddistinto il profilo culturale del malsano, della sua storicità, caratterizzandone la portata nella storia mineraria e nella contemporaneità preindustriale residenziale e turistica, e riflette sul progetto del Parco geo-minerario storico della Sardegna di un piano di bonifica delle aree minerarie dismesse, per rafforzare il filo culturale vitale che recupera i saperi del mondo minerario, in un disegno di restituzione di questi spazi che possono essere resi alla comunità in varie forme; tra queste il Museo ma anche una nuova qualità urbana. Il Comune di Carbonia ha vinto un premio nazionale per il restauro applicato alla città mineraria degli anni ‘30, reinterpretata in chiave di utilizzo contemporaneo e per una politica di sviluppo sostenibile nei diversi aspetti di politiche culturali, sociali e ambientali. Il Museo che è nato nella struttura mineraria abbandonata di Seruci (museodelcarbone.it) cerca di essere un centro di interpretazione della miniera verso il futuro. Credo che i musei debbano avere questo destino, come ho scritto: i musei non servono a salvare il passato, servono a salvare il futuro17, ed è l’idea appunto che la differenza prodotta dall’esperienza dell’umanità è un grande deposito di possibilità dimenticate. Lavorando particolarmente sulla Toscana ma anche sulla Sardegna, l’idea guida che mi sono fatto è che il museo sia un commutatore di esperienza: deve aiutarci a uscirne cambiati. A vedere un “altro” paesaggio animato, transitato, trasformato, pieno di vita di generazioni passate. Per l’interpretazione letteraria dialogica Starobinsky18 suggerisce di aggiungere un mondo all’opera, l’opera che ci viene consegnata dal tempo. I musei demo-etno-antropologici, mi pare, sono quelli che più hanno interpretato il loro ruolo di monumento civile della comunità.
Voci nel paesaggio Gregory Bateson, che è un autore straordinariamente utile per lavorare in dialogo con altri studi (il settore della geologia e dell’ambiente) per una sua teoria forte del rapporto tra mente e natura, di un’idea in qualche modo inter-speculare di razionalità umana e razionalità creaturale, scriveva c’è voluto molto pensiero per fare la rosa19. Mi sembra interessante trasferire questa espressione al paesaggio, alla sua lunga maturazione e recente espressione, aperta e ambigua: c’è voluto molto pensiero per fare il paesaggio. Il paesaggio è legato alla “mente” ed è anche legato ai processi che lui chiama “creaturali”, che sono quelli 16 P. Atzeni, Paesaggi della cura, paesaggi vitali. Territori e ambienti minerari della Sardegna. 17 P. Clemente, Graffiti di museografia antropologica italiana, Protagon, Siena, 1996. 18 J. Starobinski, La letteratura. Il testo e l’interprete, in F. Le Goff, P. Nora (a cura di), Fare storia, Einaudi, Torino, 1974. 19 G. Bateson, Mente e natura. Un’unità necessaria, Adelphi, Milano, 1984, (ed. orig. 1979). 164
evolutivi. Altrettanto interessante sarebbe connettersi con lo sviluppo delle neuroscienze, e in particolare all’evidenza che ha il concetto di narrazione20. Il paesaggio, nell’esperienza di ricerca che ne sollecita i racconti vissuti, è indicato da deittici nominali, è oggetto di leggende, è pieno di nomi, è battezzato, ricordato, chiamato. Il paesaggio moderno invece è aggredito da una violenta anomia, uno “spaesamento” giacché i nomi dei luoghi sono quelli che umanizzano lo spazio. Ecco un testimone (Francesco) in una ricerca sulla Sardegna che rappresenta qui tante altre aree del paesaggio raccontato come vissuto, che ricorda i nomi di uno spazio rurale: Francesco: Niu Arrundinis, dopo la strada Nuraxi Crabilis, quella affacciata lì e questo Tanch’e’s’Parasa. Dietro questo palo elettrico, lì dove siamo saliti, dov’erano quelle pecore pascolando, era tutto vigna quello… Poi il complesso Tittiriu lo nominiamo, Tittiri’e basciu e Tittiri’e susu, questa è la parte bassa e lì è la parte… Tittiri’e susu e Tittiri’e basciu. Poi più avanti c’è Mitza Milanu, infatti si vede un terreno che seminiamo noi, lì in fondo, si chiama Mitza Milanu lì e qua Lad’e Obioi, alla mia sinistra, poi lì c’è Nuraxi Crabilis, dopo quella salita, Nuraxi Crabilis, poi Baccu Araxi, dove c’è quella discesa… Baccu Araxi, Mariesu, Pranu su Lillu, Guttini Mitzasa, pabas a sobi e facci a soli, come è esposta la campagna, dove c’è il sole facci a soli e a nord pabas a soli… Poi c’è Funtana Tronci, Riu Monti, Cort’e Forru, Baccu Arrolis, Genn’e Sutzuiasa, Mont’Acutzu, Santu Mauru, s’Ecch’e su Procu, s’Ecch’e su Fenugu, i’ Baccus, Atz’e Casu, Cea Baccusu, sa Xridda, Riu Saliu, Domin’e su Para, s’Ecch’e s’Omu, Sedd’e Mocciasa […] poi innoi Perda Grafida, Serra Longa, Barru, dove c’è il nuraghe, Funtana Tronci, poi dobbiamo scendere… C’è Funtana Mardi quaggiù, Pauli Mannu, Cungiau’e Lilloni, ddi narausu, si nada Argiolas nel catasto… Poi c’è Pardu, Bacch’e Coloru, Perdosu, Ecch’e su Gotteddu, Canab’e Sobi, Perda Sudda, Funtana Seccisi, Pranu Bingiasa, Pard’e Siddu, che è comunale, è un pezzo a vigna, adesso, l’altro è a pascolo… Eppoi ci sono Genn’e Serra, Cott’e Porcusu, Monti Sadurru, dove c’è il deposito dell’acqua… Monte Sadurru eppoi ita ddoi e’? San Giovanni, …, poi c’esti Monte Puliga, quello però è un pezzo in agro di Selegas, non è in agro di Guamaggiore…21 Chi legga Il cinghiale del diavolo (Torino, Einaudi, 1968), un eccezionale racconto di memoria di caccia di Emilio Lussu, trova una selva di toponimi che tradotti in italiano danno l’idea degli spazi nominati che connettiamo al mondo dei nativi americani (sardegnadigitallibrary.it/index.php?xsl=626&id=744). I musei demoetno-antropologici si trovano a dialogare con i paesaggi fantasmatici della memoria e con quelli fantasmagorici delle tecnologie e dell’altrove. Nonostante le distanze c’è somiglianza nell’occuparsi di paesaggi che condividono fantasmi, educa a non fidarsi dello sguardo e a rischiare la complessità e l’interdisciplinarità. Molta ricerca locale ha documentato un’idea “altra” di bellezza dei campi e della campagna, del paesaggio, e il senso di perdita e di nostalgia dei protagonisti di un tempo finito. I nostri studi, facendosi carico della memoria nel tempo della smemoratezza, non intendono però farne delle urne ma dei possibili luoghi di immaginazione del futuro, di critica del presente, e anche di assunzione seria delle indicazioni della Convenzione europea del paesaggio, da una prospettiva interna. Ecco un altro testimone sardo: 20 A. Sobrero, Il cristallo e la fiamma, Carocci, Roma, 2009. 21 A. Pusceddu, Come una casa che non abita nessuno. Esperienze del paesaggio rurale nella Sardegna meridionale, inedito, in G. Dare (a cura di), Pratiche e dialoghi con la natura in Sardegna. Per un’antropologia dei saperi, in corso di stampa. 165
Salvatore : Fud’u’profumu, fadia prexei a bessì in su sattu de cantu fu’ bellu. Certu, candu e’ abbandonau su logu e’ abbandonau e tottu! È come una casa che non abita nessuno, non e’ bella prusu mancai sia bella, mentre invece quando ci fu propriu sa laurera, la campagna era più bella, c’era di tutto, c’era il grano, c’erano le fave, orzo, vigne, piante, tutto! Non si metteva il fuoco, su chi ha distruttu tottu e’ cussu, sa campagna d’hadi spollada su fogu puru, no si bi prusu una matta chi no’ndi torrant a ponni. Poita prima su sattu de nosu fu preu de matta de pirasa, de Cort ‘e Forru tottu’nguni acciapasta tottu pirasa, ‘ndi pappasti, a chi’ndi teniad’abbisongiu ndi tirada una bettu’e pira e prandìada is pippiusu... Ma oi ita seusu! Non c’e’ pru’ nudda! Non c’è più niente...22. Sotto questa angolatura il paesaggio è un’arena di molteplici tensioni e voci, sulla quale esercitare mediazioni e trovare compromessi e incontri: tra stakeholders e comuni, associazioni naturalistiche e privati, memoria dei morti e ambizioni dei vivi, nonni e nipoti.
Mondo dei vivi e mondo dei morti Era stato Zev Gourarier, nel 198423, a teorizzare un nuovo ruolo dei musei: di mediatori tra i vivi e i morti. Partiva dalle proposte crescenti di donazione di oggetti e documenti di persone defunte che le famiglie non volevano assumere in eredità. Tempo dopo provai a teorizzare la funzione del museo come luogo della incubatio24 come nei riti antichi di connessione onirica con il mondo degli antenati; sono ruoli attivi e vitali di produzione di memoria per il presente, di resistenza all’oblio proprio del tempo della smemoratezza tecnologica25. Ma c’è un surplus. Un elemento che impedisce ai musei di chiudere il cerchio, di connettersi con gli antenati: surplus di vite e di morti che i musei ancora non riescono a documentare, delle vite dei migranti che stanno cambiando il nostro mondo ma che ancora non registriamo all’interno di esso, e che hanno trasformato il mediterraneo di Ulisse in un mare di sangue, vicino, urgente, la cui forza sacra ridicolizza i principi universalisti della rivoluzione francese sui quali il nostro continente e le nostre vite si sono formati. I morti degli sbarchi di Lampedusa che Mimmo Paladino, scultore, ha voluto ricordare come un nuovo monumento alla “vittima” ignota con una porta tra l’Italia e l’Africa, davanti alla quale si continua a morire; essi sono il paesaggio inquieto e minaccioso che minaccia i nostri paesaggi concettuali. Morti insepolte, come quelle dei ritornanti, di cui De Martino ha scritto parlando del ritorno irrelativo dei morti il cui trapasso non sia stato accompagnato 22 Ibid: C’era un profumo ed era un piacere andare in campagna da quanto era bella. Certo, quando il posto è abbandonato, è abbandonato e basta! È come una casa che non abita nessuno, non è bella per quanto sia bella, mentre invece quando era lavorata, la campagna era più bella, c’era di tutto, c’era il grano, c’erano le fave, orzo, vigne, piante, tutto! Non si metteva il fuoco, è questo che ha distrutto tutto, la campagna l’ha spogliata anche il fuoco, non si vedrà più una pianta se non ne metteranno di altre. Perché prima la nostra campagna era piena di piante di alberi di pera, laggiù da Cort’e Forru trovavi pere ovunque, ne mangiavamo, chi ne aveva bisogno riempiva la bisaccia e sfamava i bambini... Ma ora che siamo! Non c’è più niente! Non c’è più niente... 23 Z. Gourarier, Le musée entre le monde des morts et celui des vivants, Ethnologie française, XIV, 1, 1984, pp. 67-76. 24 P. Clemente, Immaginare forme di vita. Il museo come luogo d’iniziazione, come luogo sacro, come terra di incubazione, in G. Volpato (a cura di), Agricoltura, musei, trasmissione dei saperi, Accademia di Agricoltura, Scienza e Cultura, Verona, 2000. 25 P. Clemente, La smemoratezza del moderno in L. Ronzon (a cura di), Manifattura Tabacchi / Milano, Milano, Fondazione Museo della scienza e della tecnologia, 2009, pp. 14-40. 166
dal lutto26, un tema che unisce Virgilio e Dante, e che riguarda proprio i tempi lunghi della civiltà del mediterraneo. Un paesaggio ancora da conquistare per la nostra coscienza, da includere in questo concetto, nato dai colti e non ancora praticato da tutti: luogo di tensioni, conflitti, memorie, possibilità, luogo che non ha ancora accettato di rapportarsi con la vita e con la morte di coloro che, come gli inurbati degli anni ‘50 e ‘60, stanno facendo la nostra nuova storia.
26 E. De Martino, Morte e pianto rituale, Bollati Boringhieri, Torino, 2000, ed. orig. 1958). 167
La bonifica idraulica Costruire un paesaggio artificiale per l’agricoltura Chiara Visentin
Un artificio La maggior parte del paesaggio italiano è stato trasformato in modo definitivo dalle operazioni di bonifica idraulica operate nei primi cinquant’anni del secolo scorso. Da Nord a Sud, da Est a Ovest. La famosa carta della bonifica organizzata da Lucio Gambi (Fig.1) per l’Atlante tematico d’Italia del Touring Club Italiano (tavola 62) del 1992 esprime distintamente quanti territori siano stati riorganizzati e prosciugati fino al secolo scorso dalle operazioni di risanamento idraulico. Nel XX secolo, la Sardegna (durante gli
Fig. 1 Carta delle bonifiche redatta da Lucio Gambi, Atlante tematico di Italia, TCI, 1992 (rielaborazione grafica) 169
anni trenta la piana di Terralba), la valle del Po tra Lombardia ed Emilia Romagna, più a sud la Toscana, e poi il Piemonte fino alla Puglia (il Tavoliere), per arrivare alla Sicilia (la piana di Catania). Le bonifiche del Basso Piave e del Veneto Orientale e la vasta bonifica integrale dell’Agro Pontino, contesti geografici analizzati nel progetto di ricerca a cui questo saggio si riferisce, si distinguono per dimensione territoriale e periodo storico, sebbene tutta la Penisola sia stata trasformata radicalmente nella sua morfologia, assetto della comunità, edificazione di insediamenti edilizi nelle aree redente. Le aree segnalate da Gambi oggi sono indubbiamente le più produttive dal punto di vista agricolo della Nazione.
Figg. 2, 3, 4, 5 Viste satellitari dei territori bonificati di Sassu Arborea di Oristano in Sardegna, Saiarino di Argenta Ferrara in Emilia Romagna, Mazzocchio di Pontinia Latina nell’Agro pontino laziale, Ca’ Vendramin di Taglio di Po, Rovigo (google pro 2012/2015). 170
La bonifica idraulica ha, in un periodo veramente limitato, dato una nuova forma ai territori, integrando perfettamente i nuovi segni artificiali al contesto rifondato. Oggi spesso non siamo nemmeno in grado di riconoscere le differenze tra questi segni artificiali e ciò (ben poco) che è rimasto di naturale: entrambi sembra facciano parte dell’ambiente da sempre, invece di essere risultato di profonde e icastiche trasformazioni. Alcune volte questi segni sono riconoscibili o meglio intuibili come artificiali, si pensi al Canale Cavour che taglia la pianura piemontese da Chivasso a oltre Novara, altre volte ormai sono percepiti come naturali (Fig.6, Fig.7). Ma è praticamente tutto artificiale il paesaggio italiano, risultato di radicali operazioni che hanno riscattato in terreni produttivi e territori di bonifica, paludi, lagune, depressioni.
Fig. 6 Artificialità: Canale Cavour, Piemonte, foto C. Visentin.
Fig. 7 Naturalità: Canale Parmigiana Moglia, Emilia Romagna, foto G. Ferrari.
Nel suo essere paesaggio ordinario e non palesemente riconoscibile il paesaggio della bonifica (un po’ in tutta Europa) è a tutti gli effetti, al contrario, un contesto particolarissimo, 171
nei suoi ambiti architettonici e ambientali, frutto di un’intensa e rapida trasformazione operata principalmente dagli inizi del XX secolo. Un evento per rapidità ed estensione unico. Molti sono stati i periodi di redenzione idraulica antecedenti al Novecento, fondamentali momenti che hanno segnato il territorio e che hanno intrecciato reti d’acqua e maglie superficiali di territorio rurale su cui la bonifica integrale del secolo scorso si è saldamente ancorata. Nel tempo la natura ha più volte vanificato il tentativo di queste bonifiche, prevalendo sulla mancanza di continuità e attenzione alla cura della terra e di visione strategica globale. Avverrà solo nel Novecento il favorevole momento in cui precise soluzioni –politiche, legislative, programmatiche, pianificatorie, tecniche, organizzative ed esecutive– si uniranno, generando la modificazione unitaria e definitiva del territorio italiano, caratterizzando un profondo cambiamento culturale, sociale e agricolo, oltreché paesaggistico e definendo il palinsesto territoriale della bonifica che ancora oggi noi vediamo. Fissiamo perciò in questa trattazione al Novecento gli inizi temporali dell’indagine sui patrimoni di bonifica. La riconoscibilità di tale epoca è infatti strategica, qui l’individuazione del patrimonio storico e ambientale è necessaria per individuare come ogni fatto cosiddetto “naturale” e la moltitudine di manufatti “artificiali” in un paesaggio d’acque come quello di bonifica abbiano aumentato il valore nel loro “fare sistema”, nella reciproca comprensione integrata. Una dualità natura-artificio che attualmente si distingue con difficoltà, divenendo una delle qualità di siffatti paesaggi. Ambiti a tutti gli effetti di lavoro, paesaggi della produzione, dove gli elementi naturali del territorio (acqua, suolo, vegetazione) sono stati messi a sistema da un’instancabile opera dell’uomo, che così ha creato le condizioni adatte per le forme di vita civile e produttiva a cui oggi siamo abituati. Non occorre risalire molto lontano nel tempo per scoprire che gran parte delle fertili pianure italiane erano paludi e malsani acquitrini. Una trasformazione integrale del territorio diventato finalmente paesaggio, “… quella forma che l’uomo, nel corso ed ai fini delle sue attività produttive e agricole, coscientemente e sistematicamente imprime al paesaggio naturale”1. La bonifica oggi più che mai è una attività fondamentale per il territorio, per la sua messa in sicurezza territoriale e ambientale, per la salvaguardia e tutela delle risorse idriche, per la gestione urbana dello scolo delle acque e per la produttività dei terreni agricoli. Dove manca o è carente nelle operazioni di manutenzione del suolo, produce risultati immediatamente evidenti, per le città, la campagna, la comunità. Tale considerazione del paesaggio di bonifica indica interessanti percorsi d’indagine da seguire per arrivare alla valorizzazione di quello che si può considerare un “paesaggio della produzione”: laddove lo si voglia valutare a tutti gli effetti come patrimonio culturale, tra architettura, storia, agricoltura, forte di una importante eredità e memoria storica per la collettività, associandolo a tutti gli effetti al “paesaggio” così come considerato dalla Costituzione italiana (collegato nella tutela al “patrimonio storico e artistico della Nazione” - Art. 9): quale tutela, utilizzo, sviluppo? Il paesaggio della bonifica è un paesaggio produttivo, non può quindi essere solo conservato, dato che è uno scenario costantemente in trasformazione, un’infrastruttura tecnica, culturale e sociale dove la protezione e la salvaguardia non possono significare statica conservazione. Un sistema di organizzazione territoriale inflessibile, persistente, costruito da una rigida e fitta trama tra macchine della bonifica, canalizzazioni, arginature, capifosso, scoline, strade interponderali e strade principali, ponti e appoderamenti: un nuovo tracciato regolatore che ha reso immutabile e sicuro un suolo prima continuamente instabile e incostante (Fig.8). 1 E. Sereni, Storia del paesaggio agricolo italiano, Laterza, Roma-Bari, 1961. 172
Fig. 8 Marcello Nizzoli, s.t. [Veduta prospettica del paesaggio delle bonifiche], s.d. [anni ’25-’30, XX secolo], Collezione Consorzio di bonifica dell’Emilia Centrale.
È interessante leggere l’artificialità del paesaggio della bonifica in due particolari territori, il Veneto e il Lazio, individuando le trasformazioni territoriali che hanno coinvolto i loro contesti. Una selezione geografica in particolare ricaduta sul Nord Est del Veneto e sull’area dell’Agro Pontino per il Lazio. Per il Veneto nel comprensorio idrografico che è compreso a Est dal fiume Tagliamento, a Ovest dalla Laguna di Venezia, con i fiumi Piave e Sile che ne segnano il limite, a Sud dal mare Adriatico e infine a Nord dal confine tra Veneto e Friuli e il fiume Livenza. Per il Lazio nel territorio idrografico compreso a Nord Est dai Monti Lepini e gli Ausoni, a Sud Ovest dal mare Tirreno e il promontorio del Circeo. Veneto e Lazio: geograficamente distanti. Dalle caratteristiche morfologiche, ambientali, storiche e culturali profondamente diverse e lontane. C’è un momento però nella storia recente, e quando si dice “recente” si intende la prima metà del XX secolo, in cui le rispettive comunità si sono forzatamente unite e successivamente integrate. La bonifica integrale e la redenzione idraulica dei catini paludosi operate in ampie zone della penisola italiana sarà l’evento decisivo. 173
Prebonifica Quello che sarà denominato nel Novecento Agro Pontino viene descritto in tutte le mappe storiche, fino all’Ottocento, come Palude Pontina. L’area era coperta da una fitta foresta che partiva dalle pendici dei Colli Albani e arrivava fino a Terracina: gli spazi aperti erano sottomessi quasi interamente all’acqua, distribuita in un’infinità di acquitrini e piscine. Da una visione zenitale, ma anche da una vista dalle alture del monte Circeo, il paesaggio pontino prima della bonifica si presentava come una superficie piatta e uniforme, entro la quale, secondo un ristretto profilo altimetrico e tra confusa vegetazione, si individuavano chiaramente tre zone distinte: la fascia costiera, la zona dei pantani e la palude. Almagià nel 1934 così suddivide l’area pontina la cui bonifica era ancora in fieri2: - una regione litoranea da Nettuno a Terracina caratterizzata da lunghi cordoni di dune alte fino a 20 mt che separano il mare dai laghi costieri. Quello di Fogliano comunicante con il mare attraverso un canale naturale soggetto a ripetuti interramenti che, interrompendo il deflusso al mare, originava acquitrini permanenti soprattutto nel periodo invernale. - i pantani, nell’immediato entroterra dei laghi fra i 20 e 40 mt s.l.m., il cui suolo era formato da sabbie e limi e coperto da macchia mediterranea e da bosco d’alto fusto. - le piscine, tra la zona dei pantani e la base dei Lepini: una palude vera e propria. La pendenza del suolo inesistente, addirittura sotto il livello del mare in alcune zone, e le svariate sorgenti d’acqua alla base dei rilievi alimentavano corsi d’acqua che inesorabilmente ristagnavano nel territorio. Diverso nella struttura del territorio ma con parallelismi analoghi nel rapporto terraacqua si configurava il paesaggio prebonifica del Veneto Orientale; è il territorio dei ricchi corridoi fluviali tra Prealpi e alto Adriatico a contraddistinguere questo contesto morfologico e geografico: una complessa maglia di corsi d’acqua che per il loro carattere sorgivo (come in area pontina) alimentavano una superficie interna depressa e contenuta a mare da cordoni dunosi formati dai sedimenti portati dal Livenza e dal Tagliamento. Tale ben precisa delimitazione idrografica aveva nel tempo regolato gli insediamenti umani nel territorio, nel quale tuttavia il rapporto con l’acqua è stato vissuto nei secoli passati più come una risorsa che come un problema, a differenza del Lazio, nonostante anche qui la difficile fisionomia dei suoli. Si era venuta infatti a organizzare una fitta trama di piccoli centri urbani stabilmente abitati già in età prerinascimentale lungo i numerosi fiumi e canali a Est del Piave: “secolari consuetudini operative e la familiarità quotidiana delle comunità rivierasche della pianura veneta e friulana hanno sedimentato lungo le sponde dei fiumi, dei ruscelli, dei canali e dei fossi un patrimonio di memorie e spazi vissuti”3. A tutti gli effetti l’area orientale del Veneto e il territorio pontino nel Lazio nel periodo prebonifica erano straordinari e irripetibili paesaggi anfibi. Nel paesaggio prebonifica non esistono limiti strutturanti il territorio se non le vaste distese liquide che avviluppano ogni cosa, facendo distinguere a malapena i confini spaziali dei suoli. Non esiste città, non esiste campagna. I limiti4 non sono segnati, non vi è un disegno dei suoli. È il paesaggio di bonifica che inizia a costruire le superfici, a definire gli spazi. A 2 R. Almagià, Le trasformazioni del paesaggio geografico nella regione pontina, Atti del Congresso Internazionale di Varsavia, Vol. 4, pp. 178-188, Warsaw, 1934. 3 F. Vallerani, Acque a Nordest: da paesaggio moderno ai luoghi del tempo libero, Sommacampagna (VR), 2004. 4 C. Visentin, Landscapecity limits: osmosis between urban quality and natural revelation of the landscape, in Pinto Da Silva M. (a cura di), EURAU12 Porto | Espaço Público e Cidade Contemporânea, Actas do 6º European Symposium on Research in Architecture and Urban Design, Porto, 2012. 174
contrapporre, o unire, le realtà fisiche in esso presenti. E in questo modo l’acqua unisce le cose in un’armonica struttura operativa. Nasce così un paesaggio della produzione. Formalmente e simbolicamente. Confronti Un confronto geografico ancorché sociale: i “veneti” infatti non sono solo presenti a Nord Est, massicce migrazioni li porteranno altrove, appunto nelle paludi dell’Agro Pontino, come in Sardegna o nelle risaie del Piemonte. La crisi agraria e l’inarrestabile diminuzione del sistema della mezzadria nelle campagne cominciate agli inizi del 1880, si riflette infatti su quella parte della società la cui principale fonte di reddito si basava essenzialmente sui proventi dell’agricoltura. La fame spinge le masse bracciantili a pressanti richieste verso le autorità governative. Ricorrere all’esecuzione di grandi opere pubbliche, come quella per la bonifica integrale nel Lazio, si presta pienamente e in modo strategico a soddisfare le richieste occupazionali dei braccianti. Le bonifiche hanno bisogno di grandi masse di lavoratori, e i lavoratori veneti hanno la perizia e l’esperienza necessarie, modellate da secoli di risanamenti, più o meno riusciti, di vaste aree soggette agli allagamenti e alluvioni, oltracciò la competenza nella meccanica idraulica, a differenza delle comunità pontine. Tali masse di lavoratori così lontani dalla loro terra natia dovevano in qualche modo essere collocate. Nel vasto complesso degli interventi in Agro Pontino l’edificazione di nuovi centri abitati, poderi e piccoli borghi o medio/grandi città di fondazione, costituisce uno tra i maggiori interventi edilizi realizzati negli anni trenta nel Lazio. È anche la percezione dei due paesaggi ad essere discorde per le rispettive società: già nel Rinascimento il valore estetico del paesaggio d’acque veneto si discosta enormemente dal paesaggio interno a Sud di Roma, verso Terracina. In Veneto il territorio è già un vero e proprio paesaggio rurale, o almeno si sforza di esserlo, con situazioni arcadiche dai connotati armoniosi. Insomma un locus amoenus (per intenderci il paesaggio rappresentato dal Giorgione e descritto da Alvise Cornaro). Ben diverso dall’habitat paludoso e acquitrinoso della piana pontina che, nonostante gli incostanti sforzi e lavori della proprietà pontificia, non si può dire sia ancora diventato “paesaggio” e nemmeno “paesaggio di bonifica”. L’Agro Pontino avrà la sua netta trasformazione del territorio ben più tardi, in solo una ventina d’anni (più o meno dal 1927), facendo proprie le esperienze pianificatrici di altri contesti territoriali, come appunto il Veneto.
Tra manufatti rurali ed eccellenze agricole dei territori Nel Veneto Orientale, come per l’Agro Pontino, l’agricoltura si è caratterizzata per un uso estensivo dei suoli: i manufatti esistenti in ambito agricolo sono per lo più fatti isolati o sparsi, mai prevalenti. Un territorio che, sotto l’aspetto insediativo e culturale, si contraddistingue per un’architettura rurale tradizionale, di fine Ottocento e primo Novecento, molto interessante, sicuramente riconoscibile come patrimonio da valorizzare. Nel Veneto Orientale, dal punto di vista legislativo e di consapevolezza identitaria di tali patrimoni, vi è un’alta considerazione della dimensione storico-culturale, testimoniale e ambientale, non solo dell’evolversi del paesaggio agricolo (quindi delle colture e delle tecniche di coltivazione) ma anche di tutte quelle componenti dell’architettura rurale derivate dalla redenzione delle terre attraverso la bonifica idraulica. Questa coscienza non riesce del resto, probabilmente per la moltitudine 175
di manufatti dismessi, a tamponare il continuo abbandono e la rovina degli insediamenti che hanno arricchito il paesaggio agricolo una volta consegnato coltivabile il suolo5. Sono infatti anche le architetture rurali a reinventare e fondare i cosiddetti territori di bonifica, secondo le nuove necessità e le nuove comunità che vi si sono integrate. La loro tipologia e configurazione diventano oggi l’elemento culminante nel riconoscimento di questi manufatti nello spazio-paesaggio, raccordi tridimensionali che esprimono gerarchie, anche funzionali. Elementi ripetuti in un paesaggio che sembra sempre uguale. Tutto questo costruisce un repertoire di elementi culturali di mediazione tra uomo e ambiente, un palinsesto produttivo variabile fatto di caratteristiche invariabili. Ma veniamo al patrimonio rurale edilizio derivante in specifico dalla bonifica. Soprattutto nei tempi storici degli avvicendamenti anche in questo caso il Veneto si differenzia dal Lazio. Il valore delle tenute agricole e degli insediamenti rurali inizia ben prima della cosiddetta epopea della bonifica moderna: il paesaggio, soprattutto nella zona del portogruarese, appare costellato da importanti aziende agricole e appoderamenti (si pensi solo a Villanova, Torresella, all’area di San Gaetano). Dall’avvio della bonifica tuttavia l’importanza territoriale, economica e sociale di queste aree è senza dubbio di grande rilevanza e impulso. Un momento di svolta può fissarsi dopo il primo Congresso regionale per le bonifiche, organizzato a San Donà di Piave nel 1922: i bonificatori veneti a quella data avevano in gran parte compiuto i lavori idraulici, ora dovevano concludere l’operato per arrivare a una definitiva bonifica integrale e soprattutto partire con una conclusiva trasformazione fondiaria. Da quel momento, nel giro di trent’anni, il paesaggio di bonifica viene ad essere completamente formato, composto da tutti i suoi elementi. Si costruiscono le strade, i ponti per accedere ai fondi agricoli, il sistema insediativo nel paesaggio è ormai evidente: una dopo l’altra le case coloniche di bonifica completano l’organizzazione del territorio. L’insieme è ben identificabile, ancora oggi, in questa parte di pianura per fortuna poco edificata. I materiali sono sempre gli stessi: sopra a tutti il laterizio lasciato a vista o intonacato in pallido colore ocra. Attualmente la maggior parte di questi fabbricati sono a mattoni, con lacerti più o meno estesi di intonaco. Ai tempi dell’edificazione, l’assegnazione dei fondi alle famiglie contadine ha prodotto la circostanza di lasciare ai nuovi proprietari la possibilità di dare un nome al podere, ed ecco che sulle case, tutte uguali, compaiono nomi originali che inneggiano al lavoro, alla fede o alla ritrovata fecondità del luogo (se ne incontrano moltissime di queste realtà sul territorio, percorrendo ad esempio la strada statale per Jesolo, da un lato parallela al Sile e dall’altro agli appoderamenti di 5 La Regione Veneto, in questo impegno di valorizzazione, ha prodotto nel 2010 alcune Linee di indirizzo per aiutare la redazione delle proposte progettuali finalizzate ai Piani di Assetto del Territorio (PAT) per quanto attiene alle aree agricole. Nelle linee vi è l’indicazione di organizzare tra gli elaborati cartografici l’importante Carta degli elementi qualificanti/detrattori del paesaggio rurale, individuando gli elementi notevoli per il paesaggio rurale (i fondi agricoli con piccole/medie/ elevate dimensioni, le abitazioni, gli annessi rustici tradizionali e gli edifici di particolare valenza non più legati all’esercizio di attività agricole o non più funzionali alla conduzione del fondo, gli aggregati edilizi abitativi con o senza legame con l’attività agricola), nonché gli elementi detrattori, come ad esempio possono essere gli edifici ad uso allevamento abbandonati e di qualità edificatoria scadente, i rimboschimenti con essenze non tipiche dell’ambiente o non mantenuti, perché non tutto del paesaggio, e della sua archeologia rurale, è da considerarsi patrimonio. Già la legge regionale n. 40 del 2003, Nuove norme per gli interventi in agricoltura, disciplinava gli interventi finalizzati a sostenere lo sviluppo economico e sociale del settore agricolo, a promuovere la tutela dell’ambiente e a migliorare le condizioni di vita e di lavoro della popolazione rurale. Di interesse nel nostro caso gli articoli 38 e 39 che chiariscono le modalità per la conservazione e la valorizzazione del patrimonio edilizio rurale, al fine di limitare il consumo di suolo, introducendo la possibilità di aiuti regionali per il recupero di fabbricati agricoli tradizionali. 176
inizio XX secolo: Ca’ Vittoria, Ca’ Rinascita, Ca’ Fertile, Ca’ Feconda). Scritte, frasi curiose nello spirito dell’epoca, che popolano le facciate mute di questa architettura rurale, priva di ogni altro ornamento e decorazione, se non a volte contraddistinta da forme curiose di camini, a imbuto rovesciato, a tenaglia, piatto, che ricordano la pomposità dell’architettura della Serenissima. Autoreferenziale e caratteristica, ben diversa dall’uniformato rigore della dicitura che compare sulle facciate dei poderi in Agro Pontino: podere seguito da un numero in successione o dal nome di un elemento circostante (ad esempio del Canale), e infine il severo O.N.C. La forma iniziale preminente di occupazione del suolo in Agro Pontino è stata quella del villaggio operaio, nella prima fase della bonifica idraulica realizzata dal Consorzio di Bonifica di Piscinara. Da questi insediamenti il Consorzio attraverso l’operativa mano colonizzatrice dell’Opera Nazionale Combattenti sviluppa le borgate rurali, concepite come aiuto logistico sul territorio per il compimento della ruralizzazione del territorio, sia come insediamento di nuove collettività che come produzione economica. Dal 1937 si parlerà di vera e propria ruralizzazione urbana. Le caratteristiche di questa edilizia rurale non rispondevano a precisi criteri estetici, come avveniva invece nel caso degli edifici collocati all’interno delle nuove città di fondazione, ma le case coloniche presentavano elementi architettonici standard, adottando una semplicità razionale e precisa: l’O.N.C. aveva organizzato vere e proprie schedature-tipo; ad oggi sono conservate diciotto tipologie di case coloniche e poderi dell’O.N.C., che variano essenzialmente nella distribuzione degli ambienti, piani, tipo di copertura e rapporto tra abitazione e spazi rustici. Le forme delle abitazioni provengono per la maggior parte da un’Italia del Nord già in una certa misura ruralizzata: si differenziano in Agro Pontino principalmente nei colori. La gamma dei colori rappresenta un elemento variabile a seconda del tipo di costruzione e le cromie sono legate ad una precisa simbologia. Le prime case coloniche (dell’O.N.C.) erano intonacate in azzurro, in onore di casa Savoia, ma anche per un fatto eminentemente igienico: il celeste dell’intonaco era ottenuto con una miscela contenente solfato di rame, potente contro la zanzara anofele. Successivamente il colore virerà in ocra scuro, che meglio si conformava ai colori del paesaggio mediterraneo pontino che si stava andando a realizzare. Infine le case saranno tinteggiate in un rosso più acceso (quasi un rosso pompeiano) nella parte superiore, a ridosso delle falde del tetto, il resto in un luminoso grigio chiaro. Queste differenziazioni cromatiche, così importanti per tessere attualmente un percorso conoscitivo diacronico della costruzione del paesaggio agricolo della pianura tra Aprilia e Terracina, stanno via via scomparendo. Oggi la separazione tra città e campagna in questi territori è ancora abbastanza nitida, sebbene entrambe le aree siano particolarmente industrializzate. I centri abitati rimangono ancora di modeste dimensioni, con un insediamento residenziale sparso, dove il territorio agricolo a volte tende a perdere via via i suoi valori e la sua identità e a confondersi con quello periurbano, sia per le città di fondazione e nei borghi pontini, che nei centri urbani veneti. A questo però si aggiungono ampi lembi di paesaggio (agricolo) che si perdono all’orizzonte. Insomma lo scarso consumo di suolo qui è sicuramente un’opportunità, che sottolinea più il vuoto che il pieno: lo spazio tra le cose che le cose stesse. Uno spazio residuale non edificato dove l’agricoltura, anche quella d’eccellenza, ha una centralità importante, ma che è sempre più pressato dalle trasformazioni urbane, in special modo in prossimità delle zone costiere, mete turistiche ambite nella stagione balneare. Il paesaggio di pianura costituito in prevalenza da colture di cereali e seminativi, ma anche di vigneti e ortaggi, definisce in 177
questi contesti ecosistemi economici e sociali interessanti: è un territorio poco popolato (il tipo di agricoltura intensiva non richiede grossa manodopera: da qui il problema del disuso delle case rurali e anche di perdita di biodiversità), ma non è un paesaggio abbandonato, vi è un ordine stabilito dall’attività agricola e disegnato dalla maglia d’acque della bonifica che lo esprime in tutta la sua qualità estetica.
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La definizione dei paesaggi storici Nuovi strumenti per una ricerca integrata Arianna Brazzale
Lo studio dei paesaggi storici: l’utilità di un approccio pluridisciplinare A fronte di una sempre maggiore attenzione rivolta, da parte della comunità scientifica, al tema del paesaggio agrario, anche in Italia le questioni legate alle trasformazioni del paesaggio sono state indagate con approcci critici diversi e afferenti a più settori disciplinari; è molto recente il riconoscimento dei cosiddetti paesaggi storici di interesse rurale che ha portato storici, agronomi e geografi a riconoscere, a suggerirne a tutela e in qualche caso a rivitalizzare paesaggi molto antichi, oggi in abbandono o a rischio di distruzione1. Fino a qualche decennio fa si avvertiva il bisogno di contenere le questioni paesaggistiche entro i serrati confini di poche, specifiche discipline (per lo più afferenti alle necessità e alle normative della pianificazione): questo non per ragioni di rigore metodologico quanto per definire le professionalità competenti di riferimento. Le tendenze della più recente legislazione europea hanno incrementato il valore di conoscenze e competenze culturali di più ampio respiro, collocandole in una corretta prospettiva accanto ai saperi più propriamente tecnici. Temi quali la salvaguardia della biodiversità, la formulazione di prospettive per uno sviluppo economico sostenibile, il recupero della memoria storica delle tecniche artigianali e la sopravvivenza delle piccole produzioni e della filiera corta richiedono un solido background culturale mirato alla conoscenza del paesaggio e dei luoghi, del loro patrimonio materiale e immateriale, dei fenomeni che li hanno plasmati dal punto di vista fisico, economico, politico e sociale nel corso del tempo: la ricerca che produce conoscenza condivisa appare oggi l’unico strumento in grado di contrastare l’aggressività con cui opera l’industria omologante della grande distribuzione alimentare. Per comprendere i fenomeni di trasformazione del paesaggio l’apporto della dimensione storica appare di fondamentale importanza, in quanto ogni manifestazione del paesaggio sottende dei processi. In altri termini, studiare per capire il paesaggio è un passaggio obbligato per capire il territorio2. Dare al termine “paesaggio” una definizione unica, capace di soddisfare tutte le parti in causa, così come cercare di individuarne una rigida appartenenza disciplinare, rappresenta ormai da decenni una chimera, proprio per la pluralità di valenze che ne costituiscono il concetto. Come recita l’art. 1A della Convenzione Europea del Paesaggio, con questo termine 1 P. Baldeschi, 2000; R. Cevasco et alii, 2005, pp. 463-498; M. Agnoletti, 2010. 2 L. Rombai, 2008, p. 56. 179
si indica una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni3. Il “paesaggio” quindi non è dato da esclusivi elementi naturali, biologici, economici, estetici, ma dall’equilibrio delle relazioni che tra essi intercorrono in un determinato contesto: il principio costituisce anche il presupposto iniziale per programmare un’efficace politica di valorizzazione e sviluppo, aliena dalla mistificazione e dalla creazione ex novo di tradizioni folkloristiche prive di fondatezza storica e scientifica. Occorre sottolineare, tuttavia, come nemmeno la definizione proposta nella Convenzione sia stata recepita in modo integrale dagli strumenti legislativi nazionali tanto è vero che, limitando l’attenzione al caso italiano, il di poco successivo Codice per i beni culturali e paesaggistici (D.L. 42/2004), limita decisamente l’importanza da attribuire alla percezione sensoriale collettiva4. Se l’assenza di una ricezione condivisa del termine è dovuta alla complessità concettuale che lo caratterizza, proporre una linea disciplinare prevalente per indagarlo sembra quindi paradossale: non vi è infatti caso di studio che necessita della collaborazione di diverse professionalità, in condizione di garantire l’assenza di gerarchia tra le discipline coinvolte e di fornire agli studiosi un’ampia selezione di dati, utilizzabili in modo incrociato per avvalorare tesi e supportare risultati. È ormai diffusa la consapevolezza che un’efficace e sostenibile operazione di progettazione debba scaturire da un preliminare coordinamento delle azioni di ricerca, volto a individuare gli ambiti tematici capaci di far emergere i risultati più significativi (in base alla natura e ai caratteri dei luoghi di volta in volta presi in esame): qualsiasi lavoro di studio settoriale e specialistico risulterebbe giocoforza limitato. Un progetto di valorizzazione d’area valido sotto il profilo del metodo e dei contenuti non può prescindere dalla conoscenza di ciascuno dei valori che compongono il “paesaggio”, siano essi estetici, sociali, storici, culturali o ambientali5. Ampliare l’orizzonte conoscitivo, superando una impostazione settoriale, può mettere in discussione caratteri presunti ma non ancora indagati a sufficienza, permettendo di aprire il raggio delle conoscenze relative alla storia e alla geografia di un luogo. La fase della ricerca non può essere trascurata neanche con l’attuale carenza di risorse per interventi di tutela e sviluppo territoriale: l’indagine pluridisciplinare può fornire un ampio bacino di dati a cui attingere per promuovere progetti effettivamente realizzabili, perché in grado di captare l’interesse di più soggetti finanziatori pubblici o privati, cercando di mantenere elevato e autonomo il profilo della ricerca. L’elaborazione di metodi d’approccio critici e concreti è la condizione perché il lavoro di ricerca non perda valore scientifico e non si affermi una sorta di mistica del paesaggio, che aggrega idee ed emozioni sempre più fumose ed evanescenti6, considerando il paesaggio come la manifestazione materiale del contesto socio-culturale7: uno degli obiettivi centrali di ogni lavoro di ricerca è il ricostituire legami identitari tra il patrimonio analizzato e la comunità che lo ha prodotto.
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G. Cartei, 2007. P. D’Angelo, 2006, pp. 11-18. C. Tosco, 2009, p. 12. C. Tosco, 2009, prefazione. L. Rombai, 2008, p. 57.
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L’approccio pluridisciplinare all’indagine di un paesaggio archeologico: il caso di Marsiliana d’Albegna (Grosseto) Indagare lo spazio geografico con un approccio multidisciplinare consente di far emergere un quadro composito relativo alla dimensione storica delle sue frequentazioni (nella continuità o nel cambiamento) e alle economie praticate nel corso del tempo: un caso di studio frutto di una collaborazione tra studiosi afferenti a diversi settori disciplinari è quello che ha interessato il sito archeologico di Marsiliana d’Albegna, collocato presso una frazione tuttora a vocazione fortemente agricola del Comune di Manciano, nella Maremma toscana8 (Fig. 1).
Fig. 1. Panoramica del paesaggio circostante il borgo Corsini a Marsiliana d’Albegna (Manciano, GR) (foto Archivio ILEAI, Università di Siena).
Lo spazio in cui si colloca il sito è stato oggetto di un’intensa attività di indagine archeologica a partire dagli anni Settanta del Novecento, nell’ambito del progetto Ager Cosanus-Valle dell’Albegna, definito intorno allo scavo della villa romana di Settefinestre (Orbetello)9. Il contesto geografico è la media e bassa Valle dell’Albegna, dal prevalente profilo collinare nel settore a contatto con le pendici del Monte Amiata digradante nel tratto conclusivo verso una fertile piana costiera, ricca di insenature e approdi nel periodo etrusco e romano, oggi interrate dalle opere di bonifica avviate in zona a partire dal XVI secolo. La ricerca archeologica ha messo in luce la consistente produzione agricola dell’area, controllata nel periodo etrusco dai centri di Marsiliana e Doganella nell’ambito del più ampio controllo territoriale vulcente, con una massiccia produzione vitivinicola che alimentava un 8 A. Zifferero et alii, 2011a e 2011b, con bibliografia precedente; A. Brazzale, 2012-2013; A. Brazzale, 2015. 9 A. Carandini et alii, 2002. 181
intenso commercio marittimo del vino verso le comunità celtiche della Francia meridionale. I dati archeologici suggeriscono anche una consistente attività di olivicoltura, probabilmente condotta in misura più contenuta10. Lo stesso profilo produttivo viene mantenuto all’indomani dell’inserimento dell’area nell’amministrazione romana (avvenuto nel 280 a.C., con la conquista di Vulci), ed è stato documentato dai recenti scavi delle fornaci di anfore da trasporto a Albinia11. Dalla metà del XVIII secolo fino al 1951 l’area circostante Marsiliana rientra interamente nella Tenuta di proprietà della famiglia fiorentina dei Corsini, principi di Sismano: l’eccezionale estensione del latifondo, stimabile intorno agli 8.000 ha, viene ridotta a circa 3.000 ha dagli espropri effettuati dall’Ente Maremma in seguito alla riforma agraria del secondo dopoguerra. Il paesaggio odierno della Tenuta è oggi definito in prevalenza dalla dominante vegetazione ad alto fusto, sottoposta a tagli periodici. La località di Marsiliana diviene celebre nella letteratura archeologica nel 1908, in seguito al casuale ritrovamento della necropoli etrusca con tombe a fossa, a circolo di pietre e a tumulo. I reperti emergono ai Piani di Banditella, zona pianeggiante ai piedi del borgo Corsini, in seguito ai lavori per la costruzione dei Nuovi Magazzini: l’edificio rappresenta uno dei massimi esempi di architettura rurale toscana del primo Novecento e viene commissionato da Tommaso Corsini per essere adibito a granaio e ricovero di macchine motrici e trebbiatrici a vapore. I corredi funerari di Banditella esprimono l’immagine opulenta del ceto aristocratico dominante e forniscono una straordinaria base documentale per indagare l’articolazione topografica del centro etrusco, e soprattutto la sua funzione strategica nello scacchiere della bassa Valle dell’Albegna; lo stesso Tommaso Corsini, che aveva già messo a frutto le sue competenze archeologiche nell’esplorazione di alcune necropoli della Tenuta, si impegna con continuità nello scavo dal 1908 al 1919, anno della sua morte, lasciando una documentazione di prim’ordine che sarà portata alle stampe nel 1921 dall’archeologo Antonio Minto12. Per quanto riguarda le macrofasi di sviluppo dell’area, con il passaggio all’amministrazione romana, Marsiliana e tutta l’area compresa tra i fiumi Albegna e Fiora, pur mantenendo la propria vocazione agricola fino alla prima età imperiale, sono soggette a un declino della produzione e quindi del prestigio economico: bisogna aspettare il IX secolo per osservare una ripresa e un principio di ripopolamento, incentivati da opere di bonifica intraprese dai monaci benedettini dell’Abbazia di San Salvatore. Con l’affermarsi del dominio degli Aldobrandeschi durante il XII secolo, l’area assume i connotati del paesaggio feudale; due secoli più tardi la situazione politica muta radicalmente con il controllo della Repubblica Comunale di Siena: la crescita demografica va di pari passo con l’aumento della produttività, che si riscontra anche nel diboscamento dei pendii collinari e nella loro conversione ad aree coltivabili. Nel XVI secolo Marsiliana entra nel patrimonio privato del Granduca di Toscana Cosimo I e l’area boschiva aumenta rispetto al coltivo. Durante il XVII secolo si assiste a una vera e propria crisi agraria, innescata anche dalla decadenza del contratto di mezzadria: un secolo più tardi, in seguito alle allivellazioni promosse dai Lorena, la Tenuta Marsiliana viene concessa al casato dei principi Corsini, con un aumento della produttività (soprattutto cerealicola), che tuttavia non corrisponde a un mutamento dello sfruttamento del suolo. Nel XIX secolo gli investimenti effettuati dai Corsini e la meccanizzazione determinano il passaggio a una conduzione agricola intensiva, che caratterizzerà la produzione della Tenuta fino al 1951, 10 M. Firmati et alii, 2011, con bibliografia precedente. 11 R. Salerno, 2012. 12 Sul profilo delle ricerche archeologiche condotte da Tommaso Corsini, si rimanda a Rosati, 2014-2015. 182
anno dell’applicazione della riforma agraria nella Maremma grossetana e dell’esproprio dei terreni ai latifondisti locali da parte dell’Ente Maremma13. Le ricerche di superficie e le campagne di scavo sono riprese in maniera sistematica a partire dal 2002, anno in cui viene avviato il progetto Caratteri insediativi e architettura funeraria a Marsiliana d’Albegna (Manciano, GR), con la direzione scientifica di Andrea Zifferero, nell’ambito delle attività di ricerca sostenute dal Dipartimento di Scienze Storiche e dei Beni Culturali dell’Università di Siena. Il Progetto Marsiliana prende le mosse dalla sostanziale carenza di informazioni sul centro pertinente alla necropoli di Banditella, e nel corso di un decennio la ricerca si è orientata su quattro linee principali: 1. Identificazione del centro abitato di Marsiliana, che la ricerca di superficie ha messo in luce su un ampio ripiano di 47 ha, esteso tra il Poggio del Castello e le alture dell’Uliveto di Banditella e di parte del Poggio di Macchiabuia; 2. Documentazione delle necropoli circostanti il centro abitato, con determinazione delle cronologie di uso e soluzione dei problemi legati all’architettura delle camere funerarie nelle tombe a circolo; 3. Caratterizzazione della zona suburbana e dell’agro circostante Marsiliana nel periodo etrusco, con la ricostruzione del paesaggio archeologico attraverso la ricerca di superficie; 4. Riconoscimento e ricostruzione del paesaggio vitivinicolo e olivicolo della Valle dell’Albegna, attraverso le metodiche messe a punto con i Progetti VINUM, ArcheoVino e Eleiva, sviluppati dall’Insegnamento e Laboratorio di Etruscologia e Antichità Italiche nelle attività del Dipartimento a partire dal 2004; 5. Approfondimento della figura di Tommaso Corsini attraverso l’ordinamento, la trascrizione e l’edizione dell’ingente patrimonio di documenti conservato nell’Archivio privato Corsini, già custodito presso il Palazzo di Parione nel centro di Firenze e dal 2014 ospitato nella residenza di famiglia a Villa Le Corti, a San Casciano in Val di Pesa. Nel caso di Marsiliana d’Albegna il paesaggio è divenuto il protagonista di una complessa azione di ricerca che ha tentato di avvicinare ai classici strumenti dell’archeologia nuovi approcci multidisciplinari, applicati all’analisi del paesaggio contemporaneo per capirne i caratteri storici e le eventuali sopravvivenze: se infatti la ricerca condotta da chi scrive nell’Archivio Corsini ha ricostruito il profilo del paesaggio agrario della media e bassa Valle dell’Albegna, nell’arco di tempo compreso tra il XVIII e la prima metà del XX secolo, partendo dall’azione produttiva messa in atto dai proprietari e dagli affittuari della Tenuta Marsiliana, il problema si è posto per i periodi più antichi, di solito appannaggio della ricostruzione archeologica. L’approccio pluridisciplinare sviluppato attraverso il Progetto VINUM, che univa competenze e strumenti dell’archeologia con quelli della botanica e della biologia molecolare, ha consentito di ritrovare nelle forme rinselvatichite della vite ancora presente intorno ai siti archeologici i presupposti di antiche forme di coltivazione contemporanee alla vita del sito stesso e sopravvissute allo stato selvatico nell’ambiente circostante a esso14. 13 Sull’evoluzione dei paesaggi storici nella Valle dell’Albegna, dall’antichità al XX secolo, cfr. F. Detti, 1998, con bibliografia; sul paesaggio agrario determinato dall’amministrazione Corsini, cfr. A. Brazzale, 2012-2013. 14 Sui progetti relativi alla persistenza di forme rinselvatichite di vite e olivo intorno ai siti archeologici, cfr. A. Ciacci, A. Zifferero 2005; G. Barbieri, A. Ciacci, A. Zifferero 2010; A. Ciacci, P. Rendini, A. Zifferero 2012. 183
È nato così il Progetto ArcheoVino, frutto della collaborazione degli archeologi senesi con il Dipartimento di Scienze della Vita dell’Università di Siena e la Regione Toscana: l’attività di ricerca è stata condotta nel biennio 2006-2008 intorno al sito etrusco di Ghiaccio Forte, collocato nella media Valle dell’Albegna, con l’obiettivo di verificare l’eventuale persistenza di forme di domesticazione antica della vite in un’area di grande potenziale produttivo, il cui profilo è stato tracciato da tempo dalla ricerca archeologica. Il censimento delle popolazioni di vite selvatica oggi distribuite tra le valli dell’Albegna e del Fosso Sanguinaio, in prossimità del tessuto archeologico costituito da fattorie etrusche e da ville romane, ha permesso di identificare una rilevante similarità genetica di alcuni esemplari di Vitis vinifera sp. sylvestris con due vitigni autoctoni dell’area – il Sangiovese e il Canaiolo nero – permettendo di riconoscere nel comparto in esame un’area di domesticazione secondaria della vite, avvenuta con forme di introgressione delle viti selvatiche locali15. Il Progetto ArcheoVino è stato poi indirizzato nella valorizzazione dei risultati ottenuti, che hanno portato alla realizzazione di un vigneto sperimentale etrusco e romano, realizzato con una collaborazione tra l’Università di Siena, il Comune di Scansano e il Consorzio di Tutela del Morellino di Scansano, predisposto con un sesto d’impianto realizzato con la tecnica della vite maritata all’acero campestre (modo di coltivazione dell’alberata etrusca) e dei filari di vite appoggiata a pali in legno di castagno (modo di coltivazione romano a palo secco) (Figg. 2-3).
Fig. 2. Ricostruzione dell’arbustum etrusco (vite maritata ad albero tutore), con scena di potatura con pennato a immanicatura lunga (disegno di Andrea Sgherri).
Fig. 3. Progetto ArcheoVino a Scansano (GR): dettaglio del vigneto sperimentale etrusco e romano (2015), illustrante un acero campestre che servirà da tutore alla coppia di viti piantate alla sua base (foto Archivio ILEAI, Università di Siena).
15 Sul Progetto ArcheoVino si rimanda a A. Ciacci, P. Rendini, A. Zifferero 2012, pp. 631-722. 184
Il primo lotto del Progetto prevede inoltre la creazione di un sistema informativo locale e remoto sul vigneto sperimentale e l’organizzazione di itinerari alla scoperta delle lambruscaie, per inserire il vigneto nell’ambiente circostante. Il carattere sperimentale del vigneto sarà testato con forme di microvinificazione dell’uva prodotta. L’inserimento di ulteriori forme di valorizzazione previste dal Progetto, ispirate all’archeologia sperimentale (ricostruzione degli impianti di spremitura etruschi e romani, della fattoria etrusca, delle fornaci di anfore da trasporto etrusche e romane, della nave oneraria etrusca in scala 1:1), dipenderà ovviamente dalla disponibilità e dagli investimenti di altri attori della Valle dell’Albegna (amministrazioni pubbliche ma anche aziende locali), che siano in grado di mettere a punto e di gestire un effettivo progetto d’area.
Applicabilità sostenibile della ricerca sul paesaggio L’integrazione di settori disciplinari diversi ma, come è stato fatto notare, potenzialmente complementari, amplificano il grado di conoscenza a cui si può arrivare circa l’evoluzione archeologica e storica del paesaggio in uno specifico spazio geografico. Una comprensione profonda e puntuale della conformazione passata e attuale del territorio costituisce la base per qualsivoglia progetto di tutela e valorizzazione paesaggistica, a loro volta conditio sine qua non per garantire una fruizione sostenibile e consapevole di un’area16. Le conoscenze storiche, archeologiche e agroeconomiche ricavabili da progetti simili a quello in corso a Marsiliana d’Albegna costituiscono un esempio positivo se divengono oggetto di divulgazione scientifica capillare, e possono costituire l’occasione per sensibilizzare la popolazione locale ai temi del paesaggio e il volano per un consapevole e autentico riappropriarsi di una effettiva e non mistificata identità storica e culturale locale. La trasmissione di informazioni relative alla storia e alle trasformazioni del paesaggio agli attuali residenti è la base da cui partire per infondere la consapevolezza di quanto sia necessario e utile preservare la biodiversità dell’ambiente in cui vivono, che ne crea le caratteristiche peculiari e distintive e, di conseguenza, l’immagine identitaria. La consapevolezza dei caratteri e delle qualità specifiche del proprio territorio, supportate dal dato scientifico acquisito dalla ricerca, può effettivamente stimolare quel “ritorno alla terra” a cui sempre più spesso si fa riferimento sull’onda dell’urgenza ecologista e dell’entusiasmo per la produzione agricola (anche biologica) a km 0. Una ripresa sostenibile del settore agricolo, capace di preservare e valorizzare sia la biodiversità antropica sia quella arborea, e di porsi come obiettivo non solamente il profitto economico ma anche e prima di tutto la diffusione di una vera e propria cultura dell’alimentazione, non può prescindere da una conoscenza capillare e trasversale del territorio di riferimento e delle trasformazioni socio-economiche che lo hanno interessato nel corso dei secoli, plasmandone infine l’immagine attuale. L’approccio pluridisciplinare allo studio dei paesaggi agrari è quindi in grado di dar vita a due importanti fenomeni: da un lato crea comunità scientifica nel vero senso del termine, stimolando la collaborazione e la cooperazione tra studiosi afferenti a discipline differenti, non isolando le conoscenze ma, al contrario, ponendole in circolazione con nuove prospettive e rispondendo in pieno alle richieste avanzate da parte dell’Unione Europea ai professionisti del settore con l’emanazione del Sottoprogramma Cultura 2014-2020, al fine di favorire la cooperazione e valorizzare l’innovazione metodologica. Dall’altro lato, quando i dati scientifici ottenuti dalla ricerca vengono comunicati in modo efficace alle 16 Sulle procedure di ricerca analitica preliminari alle operazioni di valorizzazione, necessariamente sintetiche, cfr. A. Zifferero 2008. 185
popolazioni radicate nei territori indagati, si tutela e si alimenta quella cultura immateriale o, come afferma Massimo Montanari, sapienzialità, cioè i saperi manuali e intellettuali che si accumulano nel corso delle generazioni nel modo di trasformare il cibo, che non è solamente legata alla sopravvivenza, ma è legata a tutto ciò che, in modo molto semplice e con una parola un po’ generica, è cultura, cioè tutto quello che è la vita delle persone, quel patrimonio che esiste in tutte le società e attraversa tutte le classi sociali17. * Questo lavoro prende spunto dalla tesi di laurea magistrale discussa nell’anno accademico 2012-2013 presso l’Università degli Studi di Siena, intitolata Progetto Marsiliana d’Albegna (Manciano, GR): il paesaggio della Tenuta Marsiliana nei documenti dell’Archivio Corsini. Sono grata al relatore, prof. Andrea Zifferero, direttore scientifico del Progetto Marsiliana d’Albegna, per aver seguito l’evoluzione di questo contributo e per aver discusso con me alcuni dei temi sviluppati, suggerendo modifiche e integrazioni.
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Devozione mariana e paesaggio Santuari mariani tra Sette e Ottocento nel cuneese (Piemonte) Valentina Burgassi
Il patrimonio paesaggistico è un concetto strettamente legato a quello di eredità culturale, di storia e memoria, ma soprattutto di identità. Nella società la presenza del passato nel presente è garantita dalla memoria collettiva, ove nei secoli permangono i caratteri fondanti e caratterizzanti dell’identità locale, collegati alle attività più elementari e quotidiane nel presente1. La memoria collettiva consente di apporre delle innovazioni senza però snaturare l’identità della comunità e dei luoghi in cui essa si riconosce, garantendone la continuità pur nella sua trasformazione. Il territorio assume la rilevanza di un’opera in continuo cambiamento da parte della civitas e dove, allo stesso tempo, questa trova le sue radici. All’interno di questo contesto identitario e materico (dovuto all’heritage della storia) si colloca il patrimonio culturale, composto da diversi sistemi che si intrecciano a formare il paesaggio. Le architetture della religione sono ancora oggi degli elementi di significato paesistico eccezionale, vivi e presenti sul territorio pur avendo perso parte della loro valenza votiva rispetto alla storia: facevano un tempo parte di un sistema di relazioni (culturali e percettive) che anche adesso costituiscono un retaggio immateriale e immanente nella struttura del territorio così come lo vediamo oggi. Un approccio di questo tipo, basato sull’analisi di una struttura reticolare, consente di leggere gli elementi ancora vivi presenti sul territorio: le componenti, che con il tempo sono andate perdute lasciando tracce di connessione, sottolineano il carattere strutturale dei percorsi devozionali e la loro rilevanza territoriale.
I paesaggi di culto L’attenzione per i santuari, non tanto intesi come singoli luoghi di culto quanto piuttosto come fenomeno religioso e paesaggistico, nacque nel Seicento: la spazialità e le figuratività religiose post-tridentine, durante tutto il XVII secolo, ebbero in area cattolica un rapporto molto stretto con le riforme di tipo liturgico, introdotte in seguito al Concilio di Trento e alla riaffermazione delle posizioni dogmatiche2. Non fu un caso che in tale contesto storico 1 D. Poli, Rappresentazioni identitarie e processi partecipativi per la salvaguardia del patrimonio territoriale, in M. Volpiano (a cura di), Territorio Storico e Paesaggio. Conservazione Progetto Gestione, Fondazione CRT, L’Artistica, Savigliano 2011, p. 55. 2 S. Langé, G. Pacciarotti, Barocco Alpino. Arte e Architettura religiosa del Seicento: spazio e figuratività, Jaca Book, Milano 1994, p. 13. 189
e religioso alcuni contenuti cultuali avessero acquisito una particolare importanza al fine di contrastare la riforma luterana e calvinista, sottolineando un richiamo a una maggiore credibilità del culto cristiano. Sia il Concilio di Trento che l’azione pastorale di alcuni vescovi riformisti, tra cui San Carlo Borromeo, avevano sviluppato tematiche intorno alla liturgia, conferendo alla celebrazione della Messa un ruolo principe e promuovendo il culto dell’Eucarestia in tutte le sue forme. In particolare fu fondamentale la difesa del culto della Vergine Maria, che si traduceva, nello specifico, attraverso la pratica del Santo Rosario e delle Litanie Lauretane. La riforma cattolica, codificata con il riordino del Breviario romano (1568), del Messale (1570), dei pontificati (1596) e dei rituali (1614)3 che ne fissavano la scelta obbligata, rese canonica anche la forma degli spazi, soprattutto nelle aree di confine con il mondo protestante: vale a dire nella regione prealpina. Questo tipo di orientamento portò da un lato alla semplificazione degli edifici religiosi, solitamente risolti a sala, dall’altro alla complicazione degli altari, che divennero di supporto per l’immagine sacra. Il fenomeno della simbolizzazione del territorio nel corso del Seicento assunse soprattutto nelle Alpi un livello molto alto e, nello specifico, furono certamente le presenze di architettura religiosa a evidenziare tale processo di sacralizzazione, sia grazie a elementi tipici della tradizione, quali le cappelle, sia grazie al radicamento e potenziamento di nuove tipologie, vale a dire di santuari e Sacri Monti.
Maria nel Settecento Europeo La letteratura teologica mariana prese piede sulla fine del Seicento, mentre il secolo successivo si propose come periodo di stasi e relativamente pochi furono quelli di spicco: si presentava infatti una situazione storico-culturale attraversata dalle grandi rivolte e da importanti movimenti di pensiero, che portarono a moti rivoluzionari in tutta Europa. Questa fu segnata dalla guerra di Successione Spagnola, nei primi due decenni del secolo, che lasciò un assetto politico precario; la guerra dei Sette Anni (1756-1763) nella quale si scontrarono le più grandi potenze europee dell’epoca, conducendo le popolazioni a disastrose conseguenze socio-economiche. Del clima generale di insicurezze anche lo spirito religioso stava risentendo: con la crescita della consapevolezza di un nazionalismo emerse un desiderio di indipendenza religiosa dalla Chiesa di Roma, diffusosi anche se in modo più celato rispetto ai tempi della Riforma. Fu poi a causa della filosofia dei Lumi che in Francia e nell’intera Europa si giunse a un rovesciamento dei valori, che sfociò nella Rivoluzione. Nonostante la Chiesa fosse stata segnata da questo periodo di rivolte, la devozione mariana rimase ben radicata nella coscienza religiosa, fino a raggiungere il suo apice nel secolo successivo. A dispetto della situazione europea e contro ogni previsione, la situazione incerta si schiarì presto e si rinnovarono i contatti tra la Chiesa e lo Stato grazie al raggiungimento al potere di Bonaparte. La Chiesa divenne allora in grado di ritessere il filo dell’opera religiosa portata avanti dalle precedenti civiltà.
3 Ibid., p. 14. 190
Paesaggio e santuari tra Sette e Ottocento Tra Settecento e Ottocento le connotazioni paesaggistiche dell’età barocca vengono prese in considerazione sotto un aspetto naturalistico, soprattutto da resocontisti italiani, le cui opere si inseriscono nel quadro della scoperta dell’Italia e della Svizzera come fatto paesaggistico – da Goethe a Stendhal, ai laghisti inglesi, ai pittori come Turner. Tuttavia nessuno di questi autori rientra in un’ottica culturale tale da collegare in modo sistematico gli aspetti del paesaggio naturale con quelli espressivo-culturali. L’età cristiana riprese e inglobò nelle proprie forme liturgiche e para-liturgiche molti di questi aspetti e, per quanto riguarda i luoghi e le feste, ne adottò molte; ma è solo dopo il Concilio Tridentino che l’insediamento religioso con carattere di santuario ritrova interesse e impulso, anzi si avvia a uno sviluppo sistematico secondo dimensioni e tipologie del tutto particolari fino a creare una specie di maglia entro cui si intesse l’intero territorio4. La ripresa di strutture esistenti e il loro potenziamento, assieme alla realizzazione di nuove, garantisce l’esistenza di una rete impercettibile e simbolica che si sovrappone al territorio fisico e scandisce, secondo modalità proprie di ogni luogo, la mobilità legata alla vita quotidiana e a quella straordinaria dei pellegrinaggi religiosi. A livello simbolico il monte (nell’ideologia di San Carlo Borromeo) rappresenta l’orizzonte del popolo e allo stesso tempo, quindi, fisicamente del suo territorio: proprio per tale ragione la collocazione del santuario e dei Sacri Monti ‒ a un livello superiore ‒ acquisisce una notevole importanza. Certamente la simbologia del monte come luogo fisico dell’ascesi è la più sottolineata, anche nel ricordo delle Sacre Scritture e questa metamorfosi sottende la durezza del percorso ascetico per cui non si può andare alli monti senza fatica. Però, al contempo, la vista del monte è consolazione nel momento in cui si è immersi nel travaglio e nella sofferenza della vita quotidiana, per cui la sua immagine campeggia rispetto alla pianura ‒ luogo del duro lavoro quotidiano ‒ come riferimento costante anche di paesaggio5. Non soltanto: l’iconografia pittorica Settecentesca sente una virtualità ambientale del monte oltre che religiosa, già peraltro connessa al senso del pellegrinaggio come devozione, ma anche come scoperta e valorizzazione popolare della natura e dei luoghi. La mimesi artistica è quindi l’obiettivo primo in funzione della catechesi, perché in questi colli e monticelli, oltre all’amenità del sito, oltre alla verdura delle piante, e terreno, vi si trova l’arte che gareggia con la natura in formar sì belle cose al vivo nelle Sacre Cappelle6. Come conseguenza di questi ragionamenti, il territorio si popola di chiese e cappelle votive, mentre il santuario si colloca in luoghi legati all’amenità del paesaggio, a fatti curiosi o a emergenze locali, a siti nascosti e adatti alla preghiera. La conservazione del ricordo di un fatto miracoloso è quasi sempre alla base del culto che ha sede in un santuario, dove l’evento diventa una memoria fisicamente tangibile che l’edificio sacro va a inglobare e a comprendere in sé come oggetto da venerare, ma anche e soprattutto, come testimonianza o riproposizione materiale della concretezza di un avvenimento. Così il santuario definisce un intorno paesistico e nel frattempo un’interiorità spaziale assai complessa, spesso risultato di stratificazioni e sovrapposizioni di epoche diverse in una dinamica continua7. Nel complesso delle localizzazioni dei santuari i sistemi che assumono maggior rilievo sono quelli che accentuano in modo evidente l’idea di uno spazio religioso autonomo, quasi distaccato e distolto dal mondo ma allo stesso tempo tutt’uno con il paesaggio: il santuario appare così come una realizzazione terrena della Gerusalemme celeste8 promessa agli uomini. Il contesto ambientale in cui si collocano i santuari è particolarmente significativo 4 S. Langé, G. Pacciarotti, Barocco Alpino. Arte e Architettura religiosa del Seicento: spazio e figuratività, cit., p. 39. 5 Ibid. , p. 41. 6 Ibid. , p. 42. 7 Ivi. 8 Ibid. , p. 45. 191
proprio perché si tratta di edifici a carattere religioso dove stretta è la correlazione tra paesaggio e devozione. Gli effetti di tessitura e di colore sono perciò decisamente evidenti in un paesaggio naturale: il colore dei campi nelle differenti stagioni, l’orditura dei sistemi di coltivazione fanno da cornice ai santuari. La trama può essere particolarmente evidente quando sottolineata da sistemi di recinzione, o siepi, o dalla rete irrigua. Può avere valore testimoniale, a esempio, quando rende leggibile una parte del parcellare agrario di antico impianto9. Basti pensare in Piemonte al caso del paesaggio delle risaie o, nello specifico dei casi oggetto di studio, di quello vitivinicolo, noti il primo per la particolare forma geometrica, il secondo per la valenza turistica. Una percezione simile si può ottenere anche guardando insediamenti caratterizzati da omogeneità di colore o materiali, come per esempio dei borghi costruiti in pietra a vista o in laterizio. Per tale ragione si può fare la considerazione che la tutela di uno skyline dipenda anche dal mantenimento dell’omogeneità del fondale: la percezione dello sfondo è rilevante ogni volta che la sagoma ha una forma caratteristica e di conseguenza riconoscibile nella percezione sociale. Una successione di profili, che corrispondono a elementi posti su differenti livelli, può diventare una vera e propria quinta scenica.
Il restauro delle emozioni Il rapporto dell’uomo con il paesaggio coinvolge tutti i sensi, dall’intelletto alle emozioni: ma il paesaggio è in primis esperienza visiva. È il linguaggio visivo che esprime, nella forma più efficace, i molteplici significati di un territorio e le suggestioni che ci suscita. I paesaggi dell’anima riflettono la meraviglia estetica della contemplazione, la nostalgia della lontananza, la memoria dell’infanzia, la magia del sogno, ma anche l’angoscia del vivere, il terrore del male, gli incubi della guerra10. Dei paesaggi è costitutivo il significato che a essi attribuisce, al di là dei rapporti puramente utilitari, chi a essi porta un’attenzione consapevole e disinteressata, percependone la sintonia con le proprie emozioni interiori, che genera la necessità di descriverli e rappresentarli con immagini e parole. Un esplicito interessamento per gli aspetti percettivi, o anche solo per quelli visivi, nella lettura estetizzante del paesaggio non implica la semplice riscoperta della qualità estetica del territorio, svuotata di valenze storiche, ma assume il valore di approfondimento sul significato culturale e sociale delle trame territoriali. La natura non è fatta né per essere contemplata, né per essere abusata, ma piuttosto studiata attraverso elementi storicizzati: considerando che il paesaggio si compone di un patrimonio materiale e di uno immateriale si deve considerare la presenza di un terzo elemento accanto a memoria e natura. Così come suggeriva Heiddeger, tutto ciò che si è radunato nei secoli, nei grovigli del tempo, costituisce la componente antropologica del luogo. Nella Convenzione Europea del Paesaggio (Firenze, 2000) si sottolinea una chiara responsabilità individuale e collettiva: è necessario preoccuparci dei nostri luoghi perché sottendono una condizione umana. In un progetto di valorizzazione del territorio non diventa quindi necessario né sensato ripristinare la struttura dei manufatti territoriali che si 9 C. Cassatella, Aspetti scenico-percettivi del paesaggio, in M. Volpiano (a cura di), Territorio Storico e Paesaggio. Metodologie di analisi e interpretazione, cit. p.55. 10 B. Chiesa, Prospettiva paesaggio. Storia, geografia, psicologia, arte e semiologia...per non addetti, Collana Temi per il Paesaggio della Regione Piemonte, L’Artistica, Savigliano 2006, p. 59. 192
è evoluta nel tempo, in quanto il paesaggio rimane un teatro non neutro dei processi storici, uno scenario complesso e dinamico in cui si dispiegano i fenomeni individuati, ma al tempo stesso come quadro condizionante i fenomeni stessi, con le proprie invarianti morfologiche e con i propri caratteri culturali stratificati o immanenti11. Nel caso dei santuari e dei paesaggi culturali più in generale, essi sono presenti sul territorio come beni dotati di un’intrinseca potenzialità visiva non generata occasionalmente da componenti morfologiche, ma pensati e realizzati all’interno di un quadro di un sistema di relazioni. Poiché il territorio subisce continui cambiamenti, processo inarrestabile e naturale (oltre che deformazione dell’aspetto dei luoghi irreversibile), non si deve interpretare la trasformazione, come a lungo si è fatto, con il restauro dei monumenti: il dov’era e com’era. Al paesaggio va donata una terza vita12: la prima è come si presentava all’inizio, la seconda è come è stato cambiato dall’uomo e la terza è la vita che necessita per continuare a dialogare con l’uomo e la sua continuità esistenziale in qualità di bene comune. (Un paesaggio viene riconosciuto come bene comune quando, al di là del suo statuto comunitario, una collettività lo assume come elemento costitutivo della propria identità). La vera tutela perciò non nasce dalla ferita alla maestà di un monumento, ma dal degrado della condizione umana nei paesaggi.
La relazione tra bene e immagine naturale consolidata: il paesaggio agrario La tematica del recupero dei valori originari in un contesto naturalistico, storicodocumentario della vegetazione attuale, assume rilevanza proprio in virtù del particolare contesto ambientale in cui sorge il santuario. La ricostruzione congetturale, grazie alle indagini di tipo storico, dell’originale impianto vegetativo e del suo significato storico risultano quindi una fase preliminare a un progetto di valorizzazione del complesso votivo del santuario. L’analisi della vegetazione attuale esistente e le relative considerazioni (tra le quali le questioni di sistema e di settore, studio della vegetazione infestante, analisi degli elementi d’interferenza visiva con il costruito) sono dunque una prima fase di studio del sistema. Ne segue un confronto tra la vegetazione presente storicamente e quella rilevata all’oggi. Uno studio di questo tipo permette di individuare delle linee di gestione e d’intervento per la componente naturalistica, tenendo in considerazione le analisi effettuate e la conseguente necessità di coerenza non tanto con l’immagine storica, ma soprattutto con le esigenze simboliche, le necessità paesaggistiche, il Piano naturalistico e le necessità dell’Ente di gestione, la coerenza botanica generale e interna all’area, quella pedagogica e microclimatica, le esigenze manutentive13. L’analisi di un paesaggio agrario si basa sulla lettura e sulla valutazione delle caratteristiche agricole di un sito, a cui sono associati elementi sia naturali che culturali. Con riferimento al paesaggio agrario, vale a dire a quella forma che l’uomo, nel corso e ai fini delle sue attività produttive agricole, coscientemente e sistematicamente imprime al paesaggio naturale14, l’uomo ha contribuito nel tempo a trasformare il paesaggio nel suo assetto fisico naturale per adattarlo alle proprie esigenze, legate strettamente ai bisogni alimentari secondo specifiche 11 A. Longhi, Interpretazioni storiche del paesaggio: luoghi per osservare e per ri-significare il territorio che cambia, in M. Volpiano (a cura di), Territorio Storico e Paesaggio. Metodologie di analisi e interpretazione, cit., p. 117. 12 D. Luciani, Le tre vite del paesaggio, in www.greenews.info, novembre 2012. 13 C. Cassatella, La valorizzazione integrata di un paesaggio naturale e culturale: il Sacro Monte di Orta, cit. p. 185. 14 F. Larcher, Paesaggio agrario e patrimonio bio-culturale tra conservazione e produzione, in M. Volpiano (a cura di), Territorio Storico e Paesaggio. Metodologie di analisi e interpretazione, cit., p. 97. 193
dinamiche demografiche e sociali. La perdita di biodiversità negli agroecosistemi è un fatto ormai ampiamente dimostrato e risulta essere strettamente legata alla perdita di eterogeneità colturale agraria15. La lettura di un paesaggio agrario in un contesto di paesaggio culturale come quello dei santuari può fornire risposte diverse in funzione della sensibilità e della percezione che si vuole ricreare o che si intuisce come presenza in un luogo. Preservare la biodiversità ed evitare la semplificazione di questo tipo di paesaggi è l’imperativo attuale perché si possano creare ambienti favorevoli a uno sviluppo compatibile e rispettoso per le esigenze delle future generazioni. Lo sviluppo della società industriale e l’avvento della società dei servizi hanno causato e stanno tutt’ora determinando i maggiori scompensi nelle realtà di tipo rurale. Si tratta di aree in cui la caratterizzazione del paesaggio deriva dalla pressoché esclusiva presenza dell’agricoltura, i campi regolari, le sistemazioni idrauliche, le lavorazioni, le colture, il contadino e la sua famiglia, gli edifici rustici, che debbono rispondere a precise regole dettate in gran parte dalla funzionalità agronomica16. L’abbandono delle tradizionali attività in un territorio intensamente trasformato dall’uomo non ha come conseguenza diretta la modificazione di un paesaggio culturale in un paesaggio naturale: infatti, senza alcuna gestione, il paesaggio va incontro a una fase di disordine e di incertezza, anche di natura ecologica dalla durata imprevedibile e con conseguenze negative di natura ambientale in termini di protezione del territorio. In situazioni dove lo sviluppo evolutivo della natura aveva connotati storici e religiosi, come nel caso dei santuari, in un progetto di valorizzazione paesaggistico il tipo di vegetazione presente in un luogo dà le indicazioni sulla sua dinamica di trasformazione. In quest’ottica si può osservare come, con il trascorrere del tempo, l’antropizzazione anche in questi luoghi più impervi abbia modificato il paesaggio, per esempio diminuendo fortemente la biodiversità floristica presente. Nello specifico, uno degli elementi di maggior peso in questo senso è la semplificazione della struttura agraria con la perdita dei corridoi arboreo-arbustivi, un tempo diffusamente presenti nelle nostre campagne in pianura e oggi quasi completamente scomparsi17. Ricreare la percezione che si aveva un tempo arrivando a dei luoghi con una valenza religiosa molto forte può essere sicuramente una libera scelta, considerando sempre però la rete ecologica locale costituita da siepi e filari arborati, spesso associati a canalizzazioni irrigue; il ripristino di tali elementi in un’ottica di salvaguardia della biodiversità rientra pienamente nel processo di valorizzazione del paesaggio anche agrario.
Santuari mariani nella provincia di Cuneo Il Piemonte è uno dei casi più significativi in cui la Controriforma ha segnato e plasmato il contesto sociale di una regione, il suo paesaggio, il patrimonio architettonico e devozionale. La Provincia Granda contiene in sé un insieme di aree eterogenee, ciascuna storicamente convergente in un proprio centro economico e culturale, restie all’attrazione di Cuneo, che tuttavia è una città che si è faticosamente affermata nel suo ruolo di capoluogo e ha spesso rappresentato il punto di incontro e di sviluppo di interessi specifici per una zona ristretta 15 Ibid., p. 104. 16 Ibid., p. 103. 17 Ibid., p. 104. 194
e compatta del Piemonte meridionale. In questa zona infatti Cuneo, con diverso titolo e in differenti contesti politici, ha svolto nei secoli una importante funzione di accentramento anche amministrativo: da libero comune medievale, emergente con un vasto contado fra ostili e potenti domini signorili, a caposaldo dei possessi angioini e sabaudi, a capoluogo del dipartimento della Stura18. L’aspetto del Cuneese, spartito in misura ineguale tra gli ambienti naturali della montagna che vi prevale e la pianura, ha senz’altro subito nei secoli notevoli modificazioni prima di assumere la facies attuale. Ancora a inizio Ottocento i prefetti napoleonici segnalano la presenza di terreni incolti e paludosi nell’arrondissement di Cuneo e registrano nell’agricoltura ‒ e soprattutto nell’allevamento ‒ pochi progressi. Ogni età ha contribuito a mutare profondamente il territorio, ma quella che ha plasmato di più le caratteristiche strutturali del paesaggio cuneese è quella medievale, costituito da una fitta vegetazione e da boschi e brughiere nelle lande più desolate. Dal X secolo in avanti il territorio è oggetto di un’importante opera di bonifica, di dissodamento e di regolazione del sistema delle acque. L’aumento della popolazione, associandosi a più proficui modi di conduzione e sfruttamento della terra, determina non solo la conquista di più ampi spazi produttivi, ma la fondazione di altri centri abitati; popolamento, insediamento, dissodamento e ristrutturazione economica sono fattori interagenti, che favoriscono dopo il Mille una progressiva rivalorizzazione del territorio. (...) Le norme statuarie dei comuni cuneesi, prima severissime nel tutelare le ormai limitate aree boschive e nel concedere il diritto di residenza, diventano più generalizzate e permissive, lasciando trasparire un fenomeno involutivo di arretramento del colto e di esiguità di manodopera che causa addirittura la scomparsa di qualche villaggio. Solo nel secolo successivo si delinea quella ripresa, più rapida in pianura, ma consistente in tempi lunghi anche in montagna, che, pur registrando un livello di popolamento variabile, consente, unitamente alla costituzione di più ampie forme di aggregazione politico-territoriale, un ulteriore sviluppo dell’area cuneese: uno sviluppo lento ma costante, che con la creazione di un efficiente sistema irriguo coinvolge positivamente l’agricoltura locale fino alle soglie dell’età moderna19.
Percorsi devozionali nella Diocesi di Cuneo: piloni e cappelle Le motivazioni e le circostanze che hanno portato all’edificazione di segni religiosi e simbolici sono differenti e molteplici. La loro posizione, in primo luogo, suggerisce già la complessità di una fede. Secondo una ricerca condotta negli anni 1981-’8220 la maggior parte dei piloni trova collocazione in campi prossimi a una strada, su spiazzi di proprietà comunale o vicinale e ancora, molto più raramente, in luoghi di proprietà esplicita della chiesa. La comunità ecclesiastica cerca di mantenere vivo il culto di questi segni sacri attraverso percorsi devozionali, che li rendano mete o tappe processionali. Si tratta di21 : meta di un percorso processionale festivo: nel caso in cui il pilone sia il riferimento attorno al quale ruota la processione, in occasione di feste patronali; tappa all’interno del percorso del Corpus Domini: solitamente questo tipo di processioni ha un itinerario circolare, passando attraverso i 18 P. Pezzano, Per una storia del territorio cuneese, in Comune di Cuneo, Assessorato per la Cultura, Regione Piemonte, Assessorato Istruzione Cultura, Radiografia di un territorio. Beni culturali a Cuneo e nel Cuneese, Istituto Grafico Bertello, Borgo San Dalmazzo 1980. 19 Ibid., p. 20. 20 N. Streri, I pilon. Momenti di religiosità e tradizione popolare a Cuneo, Assessorato per la cultura, Agan, Cuneo 1982. 21 Ivi e Ibid., p. 12. 195
principali luoghi della borgata; tappa o meta di processioni rogazionali: a carattere penitenziale, di supplica, con il fine di ottenere la benedizione; tappa di posa del feretro di parrocchiani defunti: è proprio in vicinanza di un pilone che si concentra il corteo funebre. Si distingue allora una tipologia di tipo funzionale, che ha in anche un riscontro topografico (in riferimento a strade, insediamenti rurali, campagne e chiesa parrocchiale)22: piloni votivi, devozionali o di memoria: al fine di adempire un voto o in riconoscenza di una grazia ottenuta, vengono eretti per volontà di un’intera borgata e si trovano in qualunque posto; piloni rogazionali: si trovano in aperta campagna e solitamente a circa un chilometro di distanza dalla chiesa, un tempo tappa di processioni rogazionali; piloni processionali: posti a cadenza regolare rispetto alla chiesa nella quale veniva celebrata la festa patronale con una processione; piloni di posa funebre: posti sulle vie di accesso alla chiesa, dove iniziava il corte funebre.
Conclusioni L’analisi sul ruolo dei santuari come emergenze, finalizzata alla loro tutela e valorizzazione paesistica, si sostiene su una premessa concettuale: cioè che sia possibile pensare all’insieme santuariale non soltanto come complesso architettonico e artistico, ma anche come un vero e proprio dispositivo paesaggistico. E se questo è senz’altro vero nel quadro dell’attuale cultura della tutela, della valorizzazione e in senso più ampio del governo del territorio, intendendo che oggi non è possibile pensare all’insieme di questi luoghi senza tenerne in considerazione il ruolo territoriale, il valore 22 Ivi e Ibid. , p. 14. 196
identitario e le valenze utili a definirne una fruizione consapevole e aggiornata, all’intersezione tra natura e cultura; più complesso è aggredire il problema storiografico di una eventuale intenzionalità paesaggistica che avrebbe guidato gli artefici originari delle opere o, almeno, di una esplicita progettualità che mirasse a mettere in relazione le cappelle tra loro attraverso ben meditati percorsi e visuali esterne, avvalendosi, inoltre, dell’uso accorto della vegetazione23. Considerate le stratificazioni che compongono il complesso votivo, si ritiene quasi sempre necessaria un’indagine storica come elemento preliminare, al fine di comprendere se la proposta di valorizzazione può porsi come obiettivo, almeno in parte, la riproposizione filologica degli spazi collegati al santuario e soprattutto dei suoi rapporti percettivi, visivi e funzionali a scala microterritoriale, facendo perno su assetti storici riconoscibili e segni ancora leggibili. Purtroppo il paesaggio cultuale e non è oggi completamente diverso e compromesso dall’ignoranza dell’uomo, il quale, nel tempo, ha contribuito a modificare irreversibilmente la natura nel suo assetto fisico per adattarlo alle proprie esigenze, strettamente legate ai suoi bisogni e secondo specifiche dinamiche economiche. La qualità di un paesaggio si misura in termini di riconoscibilità di un sito e dell’equilibrio delle sue componenti: in questa direzione dovrebbero andare le azioni del governo locale, a partire dalla pianificazione per giungere alla progettazione, al fine di avere come obiettivo uno sguardo più ampio di connessione tra i sistemi paesistici, mantenendo la biodiversità e cercando di evitare il più possibile cementificazioni inutili e frammentazioni del territorio. Preservare la diversità del paesaggio è l’unico modo possibile per creare uno sviluppo sostenibile e per regalare ancora un futuro alle nuove generazioni, sempre ricercando un nuovo assetto che rispetti il nostro patrimonio culturale-ambientale affinché lo Stato-Saturno non continui a divorare i propri figli.
Bibliografia Benvenuto Chiesa, Prospettiva paesaggio. Storia, geografia, psicologia, arte e semiologia...per non addetti, Collana Temi per il Paesaggio della Regione Piemonte, L’Artistica, Savigliano 2006. Paolo Cozzo, La geografia celeste dei Duchi di Savoia, Il Mulino, Bologna 2006. AndrÉ Vauchez, Lieux sacrés, lieux de culte, sanctuaires, Collection de l’École Française de Rome, Roma 2000. Roberto Gambino, Conservare innovare. paesaggio, ambiente, territorio, Utet, Torino 1997. Santino Langé, Giuseppe Pacciarotti, Barocco Alpino. Arte e Architettura religiosa del Seicento: spazio e figuratività, Jaka Book, Milano 1994. Guerrino Pelliccia, Giancarlo Rocca (a cura di), Dizionario degli Istituti di Perfezione, 10 voll., Paoline Edizioni, Milano 1974-2003. Nino Streri, I pilon. Momenti di religiosità e tradizione popolare a Cuneo, Agan, Cuneo: Assessorato per la cultura, Cuneo 1982.Mauro Volpiano (a cura di), Territorio Storico e Paesaggio. Conservazione Progetto Gestione, Fondazione CRT, L’Artistica, Savigliano 2011. Mauro Volpiano (a cura di), Territorio Storico e Paesaggio. Metodologie di analisi e interpretazione, Fondazione CRT, L’Artistica, Savigliano 2011.
23 C. Cassatella, La valorizzazione integrata di un paesaggio naturale e culturale: il Sacro Monte di Orta, in M. Volpiano (a cura di), Territorio Storico e Paesaggio. Conservazione progetto gestione, cit., p. 137. 197
PARTE III Appendice
Il paesaggio, un contenuto da curricolo scolastico?
Mario Calidoni
“Non so vedere altra cosa più dolce, per un uomo, della sua terra” (Omero, Odissea)
“Video, immagini, esperienze di didattica innovativa” È l’incipit di presentazione delle esperienze delle scuole e di “Legambiente per la scuola” che si sono susseguite nell’intensa serata del 27 agosto 2014 della Summer School. Nasce da qui la domanda essenziale da cui prende spunto questo breve saggio che intende fare il punto delle motivazioni che rendono indifferibile ragionare di “paesaggio” e di “paesaggio agrario” a scuola. Il dibattito sul curricolo (quali insegnamenti scegliere per la scuola e perché) mostra sempre più la crisi del modello enciclopedico-disciplinare fondato sulle discipline, la loro continua frammentazione e si affacciano prime esperienze di superamento delle stesse. Il focus delle motivazioni delle scelte si concentra sempre più sulle “competenze” come criterio organizzatore, insieme alla “essenzialità” e alla “significatività” degli argomenti. Pollicina, il personaggio guida del saggio di M. Serres “Non è un mondo per vecchi”, racconta la storia dell’inventore dei grandi magazzini che ordinava e classificava le varie tipologie merceologiche. Le vendite all’inizio furono soddisfacenti, poi si appiattirono su uno standard uniforme. Un mattino il fondatore ebbe un’intuizione improvvisa, sovvertì la classificazione sensata, trasformò i corridoi in un labirinto e mescolò caoticamente i reparti. La nonna di Pollicina che era andata a comprare i porri per il minestrone, fu costretta ad attraversare il reparto delle sete e dei merletti, e finì per acquistare anche delle parure, oltre alla verdura. Le vendite si impennarono. Il sapere enciclopedico dell’ordine disciplinare della scuola è improvvisamente andato in crisi per l’intervento del sapere labirintico, ma sempre pronto, dei nuovi media ed è questo il contesto entro il quale si colloca la scelta del che cosa insegnare. Il sapere informativo, nozionistico è sempre pronto e “fuori” dalla mente, nei media. Al soggetto che apprende si chiede di interpretare più che di imparare. I giornali hanno recentemente diffuso la notizia che la riforma della scuola finlandese 201
prevede una percentuale del curricolo non più dedicata alle discipline bensì ai TEMI nei quali hanno rilievo le interpretazioni personali e condivise, i saperi esperienziali, le conoscenze di gruppi sociali diversi. Il “paesaggio” e “il paesaggio agrario” sono sicuramente in linea con questo dibattito e le esperienze presentate alla Summer lo hanno dimostrato. Ricorda ancora la nostra Pollicina: Un fiume, per esempio, scompariva sotto i tasselli sparpagliati di geografia, geologia…. Senza contare l’agronomia delle piante irrigue, la storia delle città fluviali, la rivalità tra popolazioni rivierasche […] Mescolando, integrando, fondendo questi spezzoni, facendo di queste membra sparse il corpo vivente della corrente, l’accesso facile al sapere – quello consentito dalle nuove tecnologie – permetterebbe di abitare pienamente il fiume. Per questo le considerazioni che seguono giustificano la scelta del TEMA con diversi approcci raccolti in due piste di ricerca: • •
il paesaggio è un contenuto molto rilevante sul piano epistemologico, il suo senso percorre il passato, il presente e si proietta sul futuro ed è generativo, ha cioè i caratteri di un contenuto vitale, per dirla alla Morin. il paesaggio è oggetto di interventi istituzionali e di dibattito di cittadinanza che la scuola non può ignorare o considerare solo formalmente, come spesso avviene, perché il paesaggio possiede un potenziale didattico e metodologico funzionale ad una vera “buona scuola”.
Il paesaggio, contenuto generativo Poche parole hanno subito mutazioni di significato così importanti e significative come “paesaggio”. Si è passati in pochi decenni da uno sguardo quasi esclusivamente estetico, che lo considerava come la porzione di territorio che si abbraccia con lo sguardo – la veduta, il vedutismo, alla forma dell’ambiente in cui viviamo con tutte le sue caratteristiche di ibridazione tra ambiente naturale e ambiente di vita, sino alla consapevolezza che la sua connotazione di bellezza e di umanità siano oggi obiettivi/patrimonio da raggiungere/ salvaguardare. È proprio in questa evoluzione di senso che vediamo la valenza del paesaggio come TEMA scolastico forte che supera i disciplinarismi e si presenta come contenuto innovativo da insegnare. Per trasformare questo contenuto da oggetto di ricerca esperta in oggetto di insegnamento la ricerca indica due prospettive che si possono tradurre in azioni di insegnamento. •
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Il paesaggio come luogo che Bonesio così definisce: mentre il paesaggio come immagine estetica appartiene all’ordine della visibilità, il paesaggio come luogo affonda le radici in quello che è stato chiamato il volume scenico del paesaggio con l’agire dei suoi attori. Il paesaggio come storia che Tosco indica come il territorio sotto i nostri occhi, un libro aperto che narra la sua storia e che occorre imparare la leggere e interpretare.
Luogo Già dall’analisi semantica del termine “luogo” si individuano argomenti utili per sostenere la tesi del paesaggio come luogo. Il locus latino, il pagus, comportano l’idea di un riconoscimento di valore di uno spazio delimitato e riconoscibile all’interno di uno spazio ampio, non ordinato. Mentre spazio è un concetto astratto, il luogo è, nella mente dell’osservatore, un concetto qualitativo e individuato. Il luogo si identifica con il territorio e il paesaggio nel senso della stabilità e continuità che si manifesta secondo i caratteri della unitarietà e differenza1. La parola comunità ha senso se si riferisce a un luogo e alla gente che lo abita. Gli studiosi di questo approccio affermano che una cultura in grado di preservare la terra e le persone può nascere solo nell’ambito di un rapporto relativamente stabile e duraturo tra la gente e il luogo dove vive. Dunque elemento fondante del paesaggio è l’attaccamento ai luoghi che si configura in vari modi e a livelli diversi di intensità come legame funzionale e/o emotivo. Il senso del luogo è un concetto collettivo, percezione indefinita dalla quale nascono decisioni, nel luogo si impara a orientarsi nello spazio e nel tempo e lo si percepisce come prodotto culturale. Salvatore Settis con lucida argomentazione spiega questo versante del paesaggio. Sempre più chiaramente emerge che lo spazio in cui viviamo (paesaggio-ambiente) costituisce un formidabile capitale sociale, in senso non solo simbolico ma propriamente cognitivo. Ci fornisce coordinate di vita, di comportamento e di memoria, determinate dall’equilibrio (variabile) tra le stratificazioni dei segni del tempo e la relativa stabilità dell’insieme. Costruisce la nostra identità individuale e quella collettiva, delle comunità di vita a cui apparteniamo. Fonda e assicura la collettività intergenerazionale, garantisce un diritto di cittadinanza aperto non solo alle generazioni future, ma anche ai nuovi italiani di oggi e di domani. Il grado di stabilità del paesaggio che ci circonda è in diretta proporzione a un senso di sicurezza che argina stress e burnout, migliora la percezione di sé e dell’orizzonte di appartenenza. L’antropologia ha da tempo individuato queste caratteristiche del luogo che ben si applicano alla idea di paesaggio e che, sul piano dell’insegnamento, recuperano metodologie attive di conoscenza del vicino e di valorizzazione delle differenze.
Storia e palinsesto La prospettiva storica del paesaggio ha avuto in questi anni ampio riconoscimento come pista di ricerca che contribuisce a chiarire gli aspetti dinamici del paesaggio e il ruolo dell’uomo in questa evoluzione. Il geografo Lucio Gambi ha parlato spesso del paesaggio come palinsesto da leggere nella sua complessità/stratificazione e da ricomporre anche con i poveri simboli della perduta civiltà. La connotazione del paesaggio come “testo” intende appunto sottolineare questo approccio. La teoria semeiotica del paesaggio (Socca) sottolinea infatti la dimensione testuale come insieme di segni e relazione tra significante e significato. Grazie a una forma di inerzia (Turri), nei paesaggi contemporanei permangono elementi delle trasformazioni territoriali del passato e arriviamo anche a intuire i primi elementi di un’evoluzione futura. 1 L. Bonesio: Terra, singolarità, paesaggi, Arianna, 2000, p. 206 203
Il paesaggio è allora un palinsesto che possiamo leggere adottando un metodo regressivo fondato sui documenti e che possiamo sfogliare avvalendoci degli strumenti dello storico, dell’archeologo, del sociologo. Ci domandiamo quali tipologie di documenti abbiamo a disposizione per leggere il paesaggio storico e, anche per il lavoro a scuola, ci vengono in aiuto due testi specialistici utilissimi per la costruzione del TEMA paesaggio. Il paesaggio si presenta come forma percepibile di elementi naturali e antropizzati, in reciproche relazioni nell’estensione di un territorio 2 suggeriscono un percorso che, incrociando il presente con il passato, si interroga anzitutto sulla costruzione del paesaggio produttivo e abitato – dal paesaggio agrario a quello industriale e urbano, per individuare poi alcune categorie di lettura del paesaggio – percorsi e insediamenti, culture e gestione – anche attraverso le forme di rappresentazione che l’uomo ne ha dato nella storia nel suo duplicato cartografico e artistico. Carlo Tosco3 distingue e analizza grandi categorie di fonti (scritte, figurate, manufatti) che hanno specificità precise per l’età moderna per concludere con l’analisi morfologica e le strutture del paesaggio. La “morfologia del paesaggio” riguarda le forme dell’ambiente – fiumi, vegetazione, orografia etc – e la denominazione “strutture del paesaggio” si riferisce a: • • •
i paesaggi del sacro, come le strutture monastiche, le suddivisioni parrocchiali, gli edifici di culto hanno segnato il costituirsi del paesaggio; i paesaggi del lavoro: l’interesse è rivolto a come espansione agraria, bonifiche, allevamento, protoindustria hanno influito sul paesaggio; i paesaggi del potere; l’approccio riguarda le strutture fortificate e gli assetti territoriali oltre che viabilità e controllo del territorio stesso nel tempo.
Infine il grande scrittore di paesaggio Turri ha introdotto nel dibattito i termini di “iconema e corema” utilissimi per il lavoro a scuola perché relativi al percorso di osservazione che si sviluppa tra percezione globale (iconema) e porzione funzionale dello spazio fisico (corema), che si sperimentano nel quotidiano. L’iconema della Bassa pianura del Po si presenta con argini che separano due aree coltivate, la golena da dove i campanili spuntano dietro gli argini e la pianura coltivata e segnata dai canali. Il corema si riferisce a un elemento ripetitivo e costante in quel territorio, il pioppeto di area golenale, che va esaminato da punti di vista diversi all’interno della zona in cui è collocato. Ecco la rappresentazione del paesaggio come una lavagna carica di storia (Turri) in cui sono raffigurati particolari specifici in un quadro d’insieme; cogliere i particolari/tracce e collocarli nel quadro d’insieme è il lavoro di consapevolezza che la ricerca sul paesaggio storico compie. In questa prospettiva entrano in dialogo paesaggio e patrimonio. L’approccio storico al paesaggio quindi mostra tutta la capacità generativa di un TEMA come questo e, nello stesso tempo, introduce le varie tipologie di paesaggio a prevalente presenza dell’agrario, del costruito, del naturale.
2 D. Pandakovic, A. Dal Sasso, Saper vedere il paesaggio, Città Studi De Agostani scuola, 2009. 3 C. Tosco, Il paesaggio storico, Laterza, Roma-Bari, 2010 204
Il paesaggio, contenuto di cittadinanza a scuola Datano agli anni 2000 due documenti europei che hanno introdotto nel dibattito scolastico italiano i termini “patrimonio” e “paesaggio”. Ci riferiamo in modo specifico alla Convenzione europea del paesaggio che, pur essendo stato recepito nel sistema normativo italiano nel 2006, è stata emanata dall’Europa nel 2000, e alla Raccomandazione n. 6 del Consiglio dei Ministri dell’Unione europea del 1998 per l’educazione al patrimonio culturale che ha avuto, come primo esito nazionale italiano, l’Accordo di Programma tra MIUR (allora MPI) e MiBAC del 1998. Lo specchio del dibattito pedagogico e scolastico sull’introduzione di queste prospettive, che ha investito in modo più generalizzato il problema del rapporto scuola/territorio, può essere riassunto in questo slogan che dalla Francia si diffuse in tutta Europa: Pour faire un enfant, il faut un village (per educare un bambino ci vuole un villaggio), a segnalare l’importanza della comunità culturale come contesto educativo. Analogamente in Italia si diffuse il progetto Adotta un monumento che prosegue tuttora così come si avviarono progetti delle associazioni ambientaliste e di tutela dei beni culturali, oggi in grande espansione, come FAI, Italia Nostra etc. Ora a disposizione della scuola per una riflessione autonoma sul contenuto ci sono varie e ricche fonti che distinguiamo in: • •
Documenti internazionali a segnalare la rilevanza sulle politiche scolastiche nazionali dei documenti europei e non solo, relativi al patrimonio e al paesaggio considerati contenuti integrati per lo sviluppo e l’inclusione; Documenti nazionali che guidano la costruzione del curricolo della scuola autonoma e interpretano in senso progettuale il passaggio dalla separatezza disciplinare alla visione complessa e articolata del tema per farne contenuto scolastico significativo.
Lo sguardo internazionale “Paesaggio” designa una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni. (Convenzione europea del Paesaggio, 2000). A partire da questa “rivoluzionaria” definizione il dibattito si è sviluppato copioso. Allora a scuola che “paesaggio” dobbiamo insegnare? Castiglioni, commentando la portata educativa della Convenzione, sottolinea come il paesaggio non possa più essere relegato all’interno dell’insegnamento della geografia e l’educazione al paesaggio è una delle possibili facce dell’educazione allo sviluppo sostenibile4. Il Simposio 2014 di ICOMOS (International COuncil on MOnuments and Sites) che si è tenuto a Firenze, nel suo documento conclusivo sul paesaggio come habitat culturale (Heritage and Landscape as human values) sottolinea come: • Il coinvolgimento delle comunità locali, e il riconoscimento e il rispetto del loro patrimonio culturale, i processi di innovazione e le pratiche tradizionali, possono favorire una più efficace gestione e la governance dei paesaggi multifunzionali, 4 B. Castiglioni, Educare al paesaggio, Council of Europe, Museo di storia naturale, Montebelluna (TV), 2010, p. 11. 205
contribuendo alla loro resilienza e adattabilità. I paesaggi culturali devono essere interpretati non solo come luoghi di conservazione ma anche come casi di successo nell’applicazione di strategie di sviluppo sostenibile. • In molti paesaggi, concetto quale naturale e culturale hanno perso molto del loro significato a favore del riconoscimento di una dimensione bioculturale dove non solo gli insediamenti e le colture agricole, ma anche le specie e gli habitat sono determinati e conservati dall’azione dell’uomo. L’ICOM (International COuncil of Museum) nella Carta di Siena preparatoria della 24° General Conference di Milano 2016 sul tema “Musei e Paesaggi culturali” osserva: L’identità del paesaggio italiano è intimamente connessa alla speciale natura di un patrimonio culturale esteso, diffuso, denso, stratificato e inscritto nell’ambiente come pochi altri al mondo. È questo a fare dell’Italia un grande “museo a cielo aperto”, un “museo diffuso” grande quanto l’intero territorio nazionale, costituito dalle migliaia e migliaia di beni dislocati in ogni dove che, per vincolo di legge o anche solo per comune sentire, formano “il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione” di cui l’articolo 9 della Costituzione prescrive la tutela. La responsabilità del paesaggio comporta un duplice impegno: da un lato, la gestione e cura del patrimonio nel quadro di una prospettiva di sviluppo sostenibile del territorio; dall’altro, l’attenzione alle immagini e alle rappresentazioni che identificano e connotano il paesaggio stesso. Un museo responsabile del paesaggio è dunque un museo che, in quanto presidio attivo di tutela attiva, assume tra i suoi compiti anche la protezione e conservazione del patrimonio culturale e ambientale, al fine di promuoverne uno sviluppo rispettoso dei propri caratteri identitari, di concerto e in collaborazione con tutti i soggetti – pubblici e privati – che a diverso titolo sono portatori di interessi nei suoi confronti. Più volte è stato osservato come la scuola sia anch’essa un presidio culturale sul territorio e come la sua alleanza con i musei sia una condizione per la sopravvivenza di entrambi soprattutto in territori decentrati e deboli. L’ICOM, dallo sguardo museale rilancia questo tema che, pensiamo, debba essere raccolto da entrambe le istituzioni. Infine l’UNESCO definisce i paesaggi culturali come aree geografiche o proprietà distinte che in modo peculiare rappresentano l’opera combinata della natura e dell’uomo nell’ambito della Convenzione del Patrimonio mondiale (Operational guidelines for the implementation of the world heritage Convention, 2005). Il paesaggio è un prodotto concreto e caratteristico dell’interazione entro una comunità umana, che riunisce potenzialità e preferenze culturali, e un insieme di condizioni naturali. È un patrimonio di molti periodi di evoluzione naturale e di molte generazioni di sforzi dell’uomo. •
Lo sguardo nazionale La conoscenza e la valorizzazione del patrimonio culturale ereditato dal passato, con i suoi “segni” leggibili sul territorio, si affianca allo studio del paesaggio, contenitore di tutte le memorie materiali e immateriali, anche nella loro proiezione futura. Tali percorsi consentono sintesi con la storia e le scienze sociali, con cui la geografia condivide pure la progettazione di azioni di salvaguardia e di recupero del patrimonio naturale, affinché le generazioni future possano giovarsi di un ambiente sano. Questa citazione è tratta dalle Indicazioni nazionali per il ciclo primario (scuola dell’infanzia/elementare e media) del 2012 e fa da incipit per le indicazioni della disciplina 206
“geografia”. Come si vede, un invito a considerare il TEMA paesaggio in una visione unitaria e coerente, con il richiamo della premessa delle stesse indicazioni che tra le competenze indicate Criteri guida per la programmazione, riprendendole dal contesto europeo, sottolinea la competenza consapevolezza ed espressione culturale. Abilità e conoscenze legate a questa competenza riguardano il retaggio culturale locale, nazionale ed europeo dell’alunno nella sua collocazione nel mondo. Le condizioni di fattibilità per questa prospettiva di lavoro nella scuola italiana hanno oggi diverse strade aperte che la riforma della scuola dovrebbe favorire. Ne indichiamo solo alcune che consideriamo decisive. Non citano esplicitamente il termine “paesaggio” ma l’idea di “paesaggio culturale”, che riteniamo sia da introdurre per integrare patrimonio culturale e natura, ci pare sottesa anche se da esplicitare al momento della concreta progettualità al di là di alcuni slittamenti nell’obsoleta conoscenza del bello. •
Nell’ambito della Riforma del MIBACT, viene creata La nuova Direzione generale del MIBACT Educazione e ricerca sull’educazione, che avrà compiti importanti sia rispetto alla formazione del personale sia rispetto alle persone che in futuro lavoreranno nei beni culturali. In più si dovrà occupare di riformare e riabituare i giovani alla lettura, all’arte e alla conoscenza del bello. • È del maggio 2014 la firma del Protocollo d’intesa tra i due ministeri del MIUR e MIBACT che ha come sottotitolo creare occasioni di accesso al sapere attraverso la messa a sistema di istruzione e cultura, al fine di sviluppare una società della conoscenza. Agli articoli 3 e 4 nel definire gli obblighi delle parti, si dice esplicitamente che Uffici scol. Regionali, Servizi educativi dei Musei e scuola/e, nell’esercizio della loro autonomia, possono collaborare con strumenti quali convenzioni e intese per la formazione, l’innovazione e la sperimentazione nei curricoli e nella vita di scuola. Si riconosce infatti che “la conoscenza e la comprensione del patrimonio culturale (perché non “e del paesaggio” visto che il Codice dei Beni culturali del 2004 ha nel proprio titolo anche la parola paesaggio?) rappresentano un contributo fondamentale per la formazione dei giovani studenti promuovendo un rapporto maturo e consapevole con il proprio territorio e le sue risorse culturali. • Nel documento preparatorio agli interventi sulla scuola “la buona scuola in 12 punti” in discussione, al punto 9 compare il termine “cultura” che ha una declinazione precisa, almeno negli intenti, portare più musica e più storia dell’arte a scuola riconoscendo implicitamente il difetto grave dei nostri curricoli scolastici rispetto a dimensioni culturali tipiche dell’identità e della cultura italiana nel suo sviluppo storico. Lo sguardo educativo ci dice che l’idea complessa di patrimonio/paesaggio comporta che l’opera della scuola si sviluppi sulle vie classiche dell’avere a cuore cioè, come dice Magnaghi5: • conoscere il paesaggio e il suo patrimonio; • rappresentarlo recuperando l’emozione in gran parte trasferita all’iperspazio tecnologico; • curarlo nel senso di sentirlo in modo relazionale; • governarlo nel senso di riconoscere i beni patrimoniali come beni comuni.
5 Magnaghi, Educare al territorio, in C. Giorda, M. Puttilli, Educare al territorio, educare il territorio, Carocci, 2011, p.32 207
Bibliografia L. Bonesio, Paesaggio, identità e comunità tra locale e globale, 2015. B. Castiglioni, Educare al paesaggio, Council of Europe e Museo di Storia naturale, Montebelluna (TV), 2010. B. Castiglioni, M. Celi, E. Gamberoni, Il paesaggio vicino a noi, Atti del convegno, Museo di Montebelluna (TV), 2007. C. Giorda (a cura di), Educare al territorio, educare il territorio, Carocci, 2011. E. Morin, Insegnare a vivere, Cortina Ed., 2015. M. Serres, Non è un mondo per vecchi, Bollati Boringhieri, 2012. C. Tosco, Il paesaggio storico, Laterza, 2009. Sitografia Paesaggio e patrimonio culturale www.istat.it/it/files/.../09_Paesaggio-patrimonio-culturale-Bes2014.pdf www.istat.it/it/files/2013/03/9_Paesaggio-e-patrimonio-cult.pdf 26 Cahiers du patrimoine mondial Paysages culturels du patrimoine mondial Guide pratique de conservation et de gestion, UNESCO, 2011
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Paesaggio e letture interdisciplinari Progetto per un itinerario storico – culturale – turistico volto alla valorizzazione paesistica della Via Emilia da Piacenza a Rimini Gabriella Bonini
Premessa Nel 2013 la vecchia e romanissima Via Emilia ha compiuto duemila e duecento anni (costruita dal console romano Marco Emilio Lepido, tra il 189 e 187 a.C., un superdecumano di 262,387 chilometri). Da questa ricorrenza, dimenticata dai più, parte questa idea progettuale per la scuola. La Via Emilia fu realizzata da Marco Emilio Lepido durante il suo primo consolato, con il proposito di realizzare una veloce via di comunicazione per spostare agilmente l’esercito e reprimere le rivolte che minacciavano le colonie romane; essa ha rappresentato da subito molto di più, divenendo presto il cardine delle comunicazioni nella regione e in generale nell’Italia settentrionale, inserendosi a pieno titolo nella vita romana. Le città nate lungo la via divennero sia i capolinea delle strade provenienti dal versante appenninico, sia i punti di partenza di quelle dirette verso il nord e dal suo asse si sarebbero dipartiti, tranne poche eccezioni, i limiti centuriati. Lungo la Via dai romani sono state fondate, o rifondate, fra le altre, Cesena (Caesena), Forlimpopoli (Forum Popili), Forlì (Forum Livii), Faenza (Faventia), Imola (Forum Cornelii), Bologna (Bononia), Modena (Mutina), Reggio Emilia (Regium Lepidi), Parma, Fidenza (Fidentia) e Piacenza (Placentia), centri che conservano tracce profonde del suo passaggio. Parlare di Via Emilia significa percorrere duemila anni di storia, percorrere una via che è stata generatrice di luoghi, di spazi e paesaggi. La Via Emilia non è una strada. Non è un vettore di espansionismo come saranno le arterie romane verso le Gallie o il Danubio. La Via Emilia non serve ad andare “verso” qualcosa, ma a segnare un territorio. E’ una linea d’arroccamento, un “Limes”. Un’ incredibile, funzionale, efficacissima, avveniristica e geniale frontiera (Paolo Rumiz, La Repubblica 07-08-2007). Diversamente da altre vie storiche, come El camino de Santiago de Compostela, che sono diventate dei musei a cielo aperto, la Via Emilia ha saputo nel tempo generarsi e rigenerarsi, costruendo paesaggi contemporanei ricchi, densi e diversi. Nata per costruire le basi logistiche del potere nascente di Roma, oggi la Via Emilia è la calamita delle nuove tecnologie, punto d’incontro di innovazione, ricerca, sviluppo. Improvvisamente lungo la Via Emilia, sono spuntati cinquanta centri di ricerca super specializzati, tanti piccolissimi Mit (Massachusetts Institute of Technology) nei quali lavorano 530 giovani scienziati (e altri mille ricercatori hanno fatto ingresso nelle aziende) per fare crescere 209
la ricerca scientifica e indirettamente aiutare un sistema industriale affamato di innovazione. Un miracolo, dopo anni di discussioni sulla necessità di fare ricerca e innovazione tecnologica, di far incontrare industrie e università, dopo le false partenze di tanti poli tecnologici (L. N., Piccoli, Mit della Via Emilia. La Repubblica, 05-12-2004). La Via Emilia oggi rappresenta l’asse portante di quella megalopoli italiana che molti definiscono la “nostra Los Angeles”: Uno dei primi a parlarne era stato Pier Vittorio Tondelli. O almeno, molti di noi lo hanno sentito da lui per la prima volta e per la prima volta hanno cominciato a pensare alla loro città in un modo diverso. Ecco, già il termine città è sbagliato. Regione forse, ma non va bene neanche quello. Zona o territorio funzionano ma sono brutti, roba da Assessorato alle Attività Produttive, buoni per fotografare cooperative e insediamenti e non per rendere l’anima di qualcosa che forse non esiste anche se noi sentiamo che c’è. Chiamiamola metropoli. La metropoli emiliano romagnola (Carlo Lucarelli, Sulla Via Emilia la nostra Los Angeles. La Repubblica 30-10-2005). La Via Emilia sembra quasi la famosa Route 66 americana, percorsa dai biker emiliani in sella alle loro Harley Davidson, con bicipiti scolpiti che spuntano dai gilet di pelle, con ricamato il nome della «banda», copiato-storpiato da quello di gruppi motociclistici americani. I campi arati nei dintorni di Reggio e Modena si riflettono nella carrozzeria lucida di enormi Cadillac e nei chioschi il ketchup si mescola alla piadina (Paola Naldi, Se la Via Emilia diventa Route 66. La Repubblica 22-11-2007). Oggi la Via Emilia leader del settore meccanico, bacino di 4000 imprese che occupano 57mila persone ma che, per la quasi totalità, sono aziende con meno di 50 addetti (Alessandra Carini, Il cuore della meccanica tra la Via Emilia e il West. La Repubblica 19-05-2008). Ed una Via Emilia notturna, una strada che configura un territorio dove si insediano 12.415 posti in cui si mangia, di cui 4.063 ristoranti. 294 cinema. 148 teatri. 220 locali da ballo e 113 di musica dal vivo. 13.461 cuba libre bevuti in discoteca soltanto nel week end (Carlo Lucarelli, cit.). Una Via Emilia della musica di Vasco Rossi, Ligabue, Francesco Guccini, Laura Pausini, Nek e Zucchero tra i tanti. Una Via Emilia che attraversa e unisce una città-regione, una città-metropoli da Piacenza a Rimini, estesa lungo una regione ricca di primati, di genio e di talento, di creatività, di ricchezza e di contraddizioni; una terra di uomini e di saperi, dalle radici profonde e sempre attenta ai cambiamenti e sensibile alla cultura; una terra di città vivibili e di persone disponibili all’incontro e allo scambio. Fu nella distesa tra l’Appennino e le Alpi che Roma procedette alle prime esperienze di “pianificazione territoriale”, importando in un ambiente il cui grado d’umanizzazione era ancora caratterizzato dallo stadio tribale e dal popolamento sparso, un principio diverso d’organizzazione spaziale: la città e insieme il sistema urbano nella forma mai più altrove con altrettanta nettezza realizzata della città-regione. Un’unica città, cioè, estesa quanto una regione, il cui impianto appare disposto per intero “secundum Naturam”: i molteplici cardini coincidono con le vallate dei fiumi, ortogonali rispetto a quest’ultimo, che dall’Appennino scendono verso il Po. Fu proprio all’intersezione di tali corsi con la via Emilia che i nuclei abitativi sorsero (o risorsero), alla distanza di dieci-venticinque chilometri l’uno dall’altro, acquisendo la funzione di veri e propri “punti di concentrazione del territorio”, nel senso che tutti agivano da località centrali rispetto a una più o meno vasta circoscrizione rurale. 210
All’opposto della polis greca la città romana non trovò mai nelle altre formazioni urbane un limite ma le complementari componenti di uno stesso sistema. E ciò in virtù della logica di pianificazione, impostata sul processo della centuriazione, la sistematica giustapposizione di identici reticoli (centurie), appezzamenti quadrati di terreno, delimitati da strade e canali, la cui maglia, che ancora regge la sistemazione idraulica e la messa a coltura della terra, resta oggi ben visibile, subito a settentrione del grande asse che funge da matrice. Proprio dal contesto centuriato e della città-regione trae origine un fenomeno che connota la specificità dell’essenza di quest’ultima e segna in maniera indelebile il suo paesaggio: l’intima, organica unità di città e campagna. Caratteri della sistemazione regionale romana destinati, se non proprio a perpetuarsi, a conservare una lunga durata sino a sopravvivere, in qualche caso, fino ai nostri giorni.
Punto di partenza del lavoro didattico sono le domande: Può l’intero territorio percorso dalla Via Emilia essere oggetto e fonte di valorizzazione paesistica, un lungo luogo con una propria peculiare identità? In questi luoghi, ci si può riconoscere, identificare? Come? Chi costruisce quotidianamente la Via Emilia? È possibile identificare una Via Emilia come “Via del gusto”, ma anche una “Via Emilia dell’High Tech”, una “Via Emilia dell’industria meccanica” e una “Via Emilia della notte”? A seconda della propensione o dell’incrocio di una o più definizione si avrà il delinearsi dell’immagine di un territorio con manufatti e paesaggi dall’impronta inconfondibile, punti di riferimento ed orientamento. Perché questo sistema di luoghi, di transiti, di uomini, di manufatti, di colture e di culture non si disperda in un non-luogo, occorre costruirvi attorno un complesso di azioni immateriali di valorizzazione (e di eventi) che le riconosca un ruolo di super-via, di una Via Emilia ricondotta ad itinerario di viaggio, occasione per aiutare il suo paesaggio a rinnovarsi e, quindi, rimanere se stesso. La nostra Via Emilia funge infatti sia da matrice generatrice del paesaggio agrario, intersecando tanta parte della maglia poderale che ricalca la centuriazione romana, sia di quello urbano quale elemento di disegno della città con monumenti, chiese e ville lungo il cammino. È il percorso-matrice di un secolare processo di insediamento e di urbanizzazione. Pertanto il punto di vista che emergerà dal lavoro didattico possa essere ascoltato come contributo per evitare l’allontanamento del Paese dal suo Paesaggio, cioè dalla sua ombra e dalla sua impronta.
Cinque percorsi di attività individuate per il lavoro degli studenti 1. Intervista on-line, ossia l’apertura di un forum dove poter porre interrogativi, proposte, dubbi, certezze per arricchire in itinere il processo di formazione, di comprensione e di proposte per un progetto di paesaggio condiviso. 2. Raccolta di immagini fotografiche, storiche e scatti contemporanei per una possibile mostra futura sia negli Istituti di appartenenza sia in un luogo cittadino 3. Questionario da auto-porsi: • Quali immagine sceglieresti per presentare la Via Emilia a chi non la conosce? 211
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Quale immagine invece proponi per condividerla con chi la conosce già? Quali immagini più rappresentano la storia della Via Emilia? Quali danno il segno della modernità? Quali, invece, turbano e stravolgono il contesto? Quale immagine proporreste per promuovere la Via Emilia come oggetto di turismo culturale, itinerario di visita e di fruizione? 4. Temi di approfondimento a gruppi per due dei tratti della Via Emilia di più facile approccio: • da Parma a Reggio Emilia dove il peso delle periferie è uno dei tratti caratterizzanti assieme allo sviluppo dei nuclei insediativi minori che occupano quasi un quinto della estensione totale della tratta. Gli spazi rurali sono frammentati, soprattutto nella parte reggiana e risentono del cambiamento nel modello aziendale dell’economia agricola, tradizionalmente impostato su una struttura mezzadrile più densa, salvo qualche episodio di grande azienda capitalistica che segna significativamente alcuni degli spazi non insediati. • da Reggio Emilia a Modena dove la componente agro-naturale si riduce significativamente e questa infrastruttura è principalmente un’asse di urbanizzazione, soprattutto di matrice industriale. È una delle aree a più alta densità della regione che qui conosce anche una maggiore complessità del modello insediativo. In questi due tratti, il lavoro didattico sarà focalizzato attorno a questi temi: La strada come spazio di relazione e di vita quotidiana: una specie di boulevard che deve servire a riqualificare ciò che si colloca al suo intorno. La strada come identità regionale: la via Emilia, per la ricchezza della stratificazione storica e culturale che ha sedimentato, è un patrimonio di messaggi e di significati per l’identità regionale: dalla via del gusto e della produzione agroalimentare, alla via dell’innovazione e della tradizione meccanica, dalla via della cultura popolare nelle sue manifestazioni spettacolari, alla via della riforma urbanistica). È un enorme patrimonio, mitico, storico e civile, che si è sedimentato attorno alla natura “matrice” del suo percorso. Sarebbe bello pensare che, a metà del viaggio in ciascun contesto, la Via Emilia possa offrire le stazioni di un museo virtuale della sua storia e della storia della sua regione e l’esperienza del viaggio, fino a raggiungere anche i luoghi che la richiamano o la rendono diversamente visibile, dalla Reggia di Colorno al balcone di Bertinoro, ecc. La strada come sistema di istituzioni: la via Emilia è il fil rouge che unisce tante amministrazioni, istituzioni, attori sociali molto radicati (le cooperative) che possono far convergere le proprie aspirazioni, rappresentazioni, progetti di futuro. La Via Emilia come come struttura di paesaggi che si connettono ed si influenzano, interdipendenti uno dall’altro, una molteplicità di luoghi uniti dal un fil rouge del racconto territoriale. 5. Forum finale di confronto (workshop di confronto tra le classi che hanno partecipato al progetto) a cui aggiungere i contributi letterari, giornalistici e cinematografici.
Allegato: l’ultimo CONTRIBUTO CINEMATOGRAFICO in ordine di tempo Nei decenni la Via Emilia ha stimolato la fantasia e la vena creativa di registi e sceneggiatori, impegnati a restituire su pellicola le emozioni e i luoghi che l’antica strada consolare ha saputo generare, in particolare l’ultimo uscito (agosto 2013) Tra la via Emilia e 212
la Pavana per la regia di Alessandro Scillitani con il giornalista Paolo Rumiz e il cantautore Francesco Guccini. Si tratta di un viaggio lungo la via Emilia alla ricerca dei segni di una celebrazione mancata. Fa da base al documentario il resoconto di Rumiz in “Morimondo” (Feltrinelli 2013), compendio degli articoli apparsi sul quotidiano La Repubblica a resoconto del suo passaggio lungo questa strada. Il regista Alessandro Scillitani attraversa la via Emilia alla ricerca di tracce del passato e della sua vita presente. Tra tutti gli incontri, quello con Francesco Guccini, che dialoga con Paolo Rumiz raccontando il suo rapporto con il mito della via Emilia, e rivelando alcuni retroscena del suo famoso verso “Fra la via Emilia e il West”. I precedenti documentari: La ballata della Via Emilia, 1960, per la regia di Piero Nelli che mette in luce le diverse sfumature che caratterizzavano in passato il movimento e il ritmo sociale dell’antica strada. Una duplice lettura per fondere la dimensione fisica della Via Emilia con la realtà delle abitudini, degli spostamenti, delle usanze e degli avvenimenti che su di essa si esercitano. Poi quattro film-documentari realizzati nel 2003 e facenti parte del progetto Via Emilia, che raccontano brani di territorio attraverso lo sguardo di scrittori emiliano – romagnoli, nati in questa terra e alla quale hanno dedicato parte della loro vita artistica: il poeta Roberto Roversi con Bologna e Bologna; lo sceneggiatore Tonino Guerra, con Due o tre cose che so di lei; gli scrittori Gianni Celati e Carlo Lucarelli con Mondonuovo e Segni particolari.
Bibliografia A. Saltini, M.T. Salomoni, S.Rossi Cescati, Via Emilia. Percorsi inconsueti fra i comuni dell’antica strada consolare, Edagricole, Bologna, 2003. Segretariato regionale del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo per l’Emilia-Romagna Le città murate lungo la Via Emilia, Bologna, 2007. P. Basso, P.P. Bonini, L’Emilia vista dalla sua strada: SS9 Via Emilia tra Parma e Modena, APM, 2003. P.L. Dall’Aglio, I. Di Cocco, La linea e la rete. Formazione storica del sistema stradale dell’Emilia Romagna, Touring Club Italiano, 2006. W. Guerrieri (a cura di), Via Emilia. Fotografie luoghi e non luoghi 2, Comune di Rubiera, 2000. N. Migliori, Crossroads. Via Emilia, Damiani Editore, 2006. C. Quintelli (a cura di), Geo(foto)grafia del paesaggio. Prove di s/ri/composizione del paesaggio tra Parma, Reggio Emilia; Habitare la Via Emilia. Presenze e luoghi di rifondazione insediativa, entrambi in AA.VV. Documenti del Festival dell’Architettura 4, 2007-2008, Festival Architettura, Edizioni, 2008. C. Quintelli (a cura di), La strada ritrovata. Analisi e scenari per il territorio della Via Emilia; Via Emilia strip. Materiali per una rigenerazione identitaria, entrambi in AA.VV., Documenti del Festival dell’Architettura 2, Parma 2005, Festival Architettura Edizioni, 2005. E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Laterza, Roma-Bari,1961.
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Riposatoid’Italia Prodotti e mondo rurale tra crisi e rinascita paesaggio agrario Antonella De Nisco
I riposatoi installati durante la VI edizione della Summer School Emilio Sereni sono interventi/progetti di arte effimera, da riparo e soccorso; un’arte creata per chi manca d’orizzonte, vuole riposare, ha perduto il gioco o cerca scambio, materia e socialità. Arte che vive di fruizioni emotive e poi si disperde, irrevocabile e irriproducibile: produzione effimera di ideali orizzonti tessuti, nuovi angoli visuali, riposatoi intrecciati con scarti della natura, materiali deperibili e di recupero, ma capaci di creare relazioni nei/fra i luoghi, riposo, sguardo, memoria e rispetto per il paesaggio.
Installazioni: • • • •
RIPOSARIOS(t)O, realizzato per il Parco del Mauriziano e casa natale di Ludovico Ariosto; Operazione di Mail-art per far riposare il bene comune paesaggio con spedizione delle cartoline RIPOSAcapri/RIPOSAroma/RIPOSAsiena/RIPOSAvajolet ai sindaci dei luoghi sopraelencati; RIPOSATOID’ITALIA stampati su tela a ricordare che il “paese meraviglioso” (frase che compare su cartelloni pubblicitari nei tratti autostradali) deve riposare e cercare nuove strategie di salvaguardia. RIPOSATOIOD’ITALIA (dal Monte Bianco all’Etna), cartolina/simbolo e invito a spedire idee per nuovi modi di vivere/contemplare il paesaggio, bisognoso di un’arte pubblica che sia una sfida salutare, capace di creare spazi simbolici, extrartistici per innestare relazioni amichevoli tra arte e conoscenza.
Il Laboratorio di Arte Ambientale Itinerante non realizza sculture dentro il paesaggio ma cerca tracce che trasformino lo spazio in scultura; lavorare sull’ambiente e con le persone che, attraverso laboratori e gesti accessibili, diventino parte integrante dell’opera. Le relazioni, le tattiche, i tempi diventano l’opera stessa. Le infrastrutture, il preesistente, la realtà, anche brutta, può essere arricchita o avere una nuova vita attraverso l’immaginazione. Si innescano così importanti fattori di narrazione e l’opera si apre, diventa fluida, fuoriesce dall’esperienza estetica classica o figurativa per ospitare dentro di sé l’interazione con l’ambiente, con nuove forme di soggettività e nuovi contesti vitali. 215
Come altre esperienze, anche i Riposatoi si fondano sulla dimensione umana, fatta di relazioni, dialogo e scambio curioso. Le installazioni e i laboratori sono pensati in relazione cronologica con la storia, in un confronto/dialogo con la dimensione culturale, il luogo e le forme del Parco agroambientale del Museo Cervi. Una ricerca che ha condotto a teorizzare il MUPAR (Museo del paesaggio agrario Reggiano di Giorgio Teggi) e realizzare “manifesti di buone pratiche” per il territorio: il Medioevo con l’installazione di 7 selle da riposo; la storia moderna con la realizzazione di un labirinto/intralcio, capace di interrompere la rigorosa piantata per recuperare l’idea dei giardini rinascimentali; CORPOmondo e CORDOmondo, con una complessa installazione di ricerca e indagine didattica sulle relazioni tra noi e il paesaggio che ha prodotto il Manifesto Autospecchio; l’installazione CAMPOstella come performance collettiva e metafora propiziatoria di salvaguardia del territorio, disegno di una stella a 7 punte, pensata per i campi dei 7 fratelli Cervi. RIPOSATOIOD’ITALIA (dal Monte Bianco all’Etna), cartolina/simbolo e invito
- RIPOSARIOS(t)O, particolare nel Parco Agroambientale Cervi
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“Mail-art per far riposare il bene comune paesaggio”
spedizione delle cartoline RIPOSAcapri/ RIPOSAroma/RIPOSAsiena/RIPOSAvajolet ai sindaci dei luoghi sopraelencati
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RIPOSATOIDâ&#x20AC;&#x2122;ITALIA stampati su tela, particolari installazione, Biblioteca Emilio Sereni.
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PARTE IV IL TERRITORIO Fra paesaggio rurale e cittĂ storica
Destino e progetto dello spazio pubblico*
Fabrizio Toppetti
Che lo spazio pubblico oggi sia al centro del dibattito di antropologi, architetti, sociologi, urbanisti, politici è un fatto. Se ne parla, e questo è bene. Il tema è tra quelli che riaffiorano ciclicamente in quel divenire naturale che riscrive, senza soluzione di continuità, le teorie circa la fenomenologia delle cose. Come spesso accade per i concetti disancorati, la centratura è in balia delle questioni di maggior momento e in generale è fortemente condizionata dal contesto culturale. Il ragionamento è sempre lo stesso, riprende da dove si è allentato o interrotto, o semplicemente dal momento in cui il tema, per varie ragioni entrato in un cono d’ombra, ha perso il proprio appeal e è stato trascurato. Le dinamiche recenti di questo “pensiero pendolare”, giusta la nota definizione di Francesca Rigotti1, oscillano tra una deriva nichilista che teorizza la morte dello spazio pubblico “corporale”2 di tipo tradizionale, dunque l’impossibilità di recuperare nella metropoli contemporanea una dimensione relazionale diretta, e una visione positiva che scommette sull’ipotesi di una rinascita, ove la qualità dei luoghi della città possa svolgere un ruolo catartico capace di rigenerare quel senso di comunità evidentemente smarrito.
Dibattito A partire dalla seconda metà degli anni ‘70, sulla scia di posizioni interpretative radicali rappresentate in particolare dalla scuola francese, sembrava inevitabile una progressiva dissoluzione dello spazio pubblico. Effettivamente il depotenziamento del sociale storico – fenomeno allora già in atto – si riflette sulla proiezione territoriale dell’agire pubblico, i luoghi si collocano all’interno di flussi non riconducibili all’entità materiale della città compatta, perdono le peculiarità che li hanno definiti come tali, tendono a migrare nella categoria dei non-luoghi3 ultima deriva della delegittimazione del collettivo urbano. Rapidamente viene 1 Cfr. F. Rigotti, Il pensiero pendolare, Il Mulino, Bologna, 2006. 2 Richard Sennett analizzando l’evoluzione della città nel tempo, dall’Atene V secolo, alla New York contemporanea, giunge alla conclusione che le città realizzate a partire dal XVIII secolo in poi tendono a reprimere l’esperienza fisica. Cfr Sennett R., Flesh and stones. The body and the city in western civilization, Norton, New York 1994. 3 Cfr. M. Augé, Nonluoghi. Introduzione a un’antropologia della surmodernità, Elèuthera, Milano, 2003 (ed. orig., Non-Lieux. Introduction à une anthropologie de la surmodernité, Paris, 1992). 223
meno la sovrapposizione tra civitas e urbs. Due le ragioni principali. La dilatazione della città fisica distesa su territori vasti e formata in buona parte da elementi discreti, ove i superluoghi del consumo si stavano disponendo come grandi monadi isolate in una galassia sconfinata e rarefatta, complice il sistema delle infrastrutture. L’implementazione, insospettabile solo pochi decenni addietro, del sistema delle comunicazioni di massa che lasciava intravedere un mondo virtuale parallelo sul quale riversare la dimensione relazionale senza necessità di raggiungere i luoghi deputati. La seconda sembrava una soluzione perfettamente calzante alle dinamiche generate dalla prima: la possibilità di stabilire relazioni a distanza era in grado di colmare il deficit di socialità prodotto dalla definitiva e irreversibile deflagrazione della città. Gli shopping mall, i parchi a tema, le enclave residenziali, meglio se protette, ne erano la risposta in termini di grandi tipologie antiurbane, capaci di offrire la possibilità di vivere i nuovi territori secondo logiche di rete indipendenti, in piena autosufficienza rispetto ai centri di gravità storicamente consolidati, assunti eventualmente non altro che come ulteriori parchi a tema. L’individuo, liberato delle logiche di riferimento e subordinazione a un centro rispetto al quale fino a allora si era sentito periferia, sembrava muoversi a suo agio dentro le nuove configurazioni dell’urbano tra l’aspirazione alla casa unifamiliare, il cinema multisala, il centro commerciale. Un modo finalmente di sentirsi uguale, addirittura privilegiato rispetto agli abitanti del centro storico, salvo poi, nel caso di Roma, prendere la metropolitana il sabato pomeriggio e scendere a Piazza di Spagna, epicentro di quel quadrilatero della moda universalmente noto, cresciuto attorno al mito di via Condotti.
Crisi Nell’orizzonte del posturbano la carenza di spazi pubblici viene colmata da un nuovo prodotto ibrido: lo spazio privato di uso pubblico. Buona parte delle persone che abitualmente ne fanno uso non hanno chiara la differenza e questo produce effetti collaterali che, passato l’entusiasmo iniziale, non tardano a manifestarsi: si tratta di contesti all’apparenza simili ma profondamente ostili alla vita associativa, caratterizzati da un tendenziale impoverimento dei rapporti interpersonali, viziati preliminarmente da un finalismo utilitaristico e da una libertà illusoria e vigilata. La loro spazialità edulcorata e accattivante richiama le inquietanti immagini di The Truman Show4, in cui Jim Carrey, unico “uomo vero”, alla fine sfonda l’involucro di cartapesta della scena che riveste il suo microcosmo. Paradossalmente, nel pieno della post-modernità liquida5, si era immaginato un mondo nel quale per ogni funzione o esigenza specifica vi fosse una chiara indicazione di risposta univoca e tematizzata che, in linea di principio, lasciava pochi spazi all’indeterminatezza. Luoghi specifici per il lavoro, praticabile anche secondo la modalità del telelavoro, per la formazione possibile pure a distanza, per il commercio, per lo sport, per il loisir, per la residenza. Molte delle previsioni di quegli anni si sono inverate, tuttavia ciò è avvenuto secondo modalità completamente diverse da quanto ci si potesse aspettare. In particolare si è chiarito rapidamente che questi nuovi fatti extraurbani, molti dei quali erano importati dalla realtà nord-americana, geneticamente differente rispetto a quella europea e a quella latinoamericana che da questa deriva, si andavano interponendo e contaminando con la situazione preesistente e con ulteriori fenomeni in atto senza sostituirsi totalmente, generando scenari 4 The Truman Show è un film diretto da Peter Weir e interpretato da Jim Carrey del 1998. 5 La definizione è di Zygmunt Bauman, che ha inteso spiegare la contemporaneità usando la metafora di modernità liquida. Cfr. Z. Bauman, Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari, 2003. 224
caratterizzati da una coesistenza di mondi, modi, velocità differenti. Se ancora qualche anno addietro, almeno secondo le interpretazioni più in voga, la dimensione del sociale sembrava destinata a trasmigrare in una sfera convenzionale e immateriale, oggi assistiamo a un rinnovato intereresse per la fisicità che invera e sostanzia la città storica e gli spazi reali della vita collettiva che, malgrado tutto, sono riconoscibili e riconosciuti come depositi ricchi di tracce del passato in grado di raccontare storie nel tempo presente. Paradossalmente questo fenomeno si manifesta con rinnovato vigore proprio quando i sistemi di comunicazione in rete raggiungono la loro massima espressione con la diffusione planetaria dei social network.
Contromovimenti Le ragioni di questo ritorno sono molteplici e strettamente interrelate tra loro, in estrema sintesi possono essere ricondotte a quattro grandi questioni più una. Tutte travalicano la dimensione del contingente. La prima attiene alla potente resistenza passiva generata dall’inerzia connaturata alla configurazione fisica dei luoghi che conservano una intrinseca resilienza e capacità di memoria. La seconda è da rintracciare nell’attaccamento materiale di quella parte della popolazione che, ignara delle teorie dei filosofi postmoderni, ha continuato semplicemente a viverli, curarli, presidiarli, con assiduità e naturalità. La terza è strettamente correlata alla mobilità degli individui e in particolare ai flussi migratori e alla dimensione cosmopolita, multietnica e multiculturale della città che ha favorito, ove le condizioni lo hanno permesso, l’incontro-scontro, ma anche l’insediarsi negli interstizi disponibili, di comunità dotate di una certa stabilità, con conseguenze positive sorprendenti in termini di rivitalizzazione degli spazi. La quarta riguarda la nuova attenzione al tema da parte delle politiche urbane: l’azione lungimirante di programmazione e progettazione avviata in passato da alcune realtà amministrative particolarmente intraprendenti, che su questi spazi hanno scommesso e investito raggiungendo risultati di qualità, ha generato un precedente positivo. Uno per tutti il caso emblematico di Barcellona che all’inizio degli anni ‘80, con largo anticipo, è divenuta un importante laboratorio di ricerca e sperimentazione sul tema della qualificazione dello spazio pubblico nella città esistente. L’ultimo aspetto da segnalare è la crescente diffusione di un atteggiamento critico rispetto ai fenomeni della globalizzazione, in passato appannaggio di gruppi ristretti e alternativi. L’attenzione alla qualità della vita, al proprio habitat e all’ambiente in generale, la maggiore consapevolezza politica, la volontà generalizzata di partecipazione attiva alla determinazione delle sorti del nostro pianeta, hanno alimentato un crescente contromovimento d’opinione che, tra gli esiti prevedibili, annovera una crescente domanda di spazio, in quanto luogo reale e praticabile, preposto alla vita pubblica. Nel 1968 Henry Lefebvre pubblicava a Parigi Le droit a la ville6. In una prospettiva non estranea al clima politico e culturale del momento egli descriveva la città ideale come una continua opera degli abitanti, essi stessi mobili e resi mobili per e da questa opera ove il diritto alla città si manifesta come una forma superiore di diritti: diritto alla libertà, all’individualizzazione nella socializzazione, all’habitat, all’abitare. Ciò che allora Lefebvre definiva in questi termini permeati di una potente carica ideologica non è altro che la città intesa, nel suo complesso, come fatto fisico e fatto sociale. In questa visione riveste un ruolo centrale lo spazio pubblico che storicamente costituisce l’essenza e la prima ragion d’essere 6 Cfr. H. Lefebvre, Il diritto alla città, Marsilio, Venezia, 1970 (ed. orig., Le droit a la ville, Anthropos, Paris, 1968). 225
della città. Senza lo spazio pubblico che svolge funzioni di integrazione, connessione, coesione, a livello materiale e immateriale, la città non sarebbe tale, simmetricamente senza la città in quanto comunità con una base territoriale definita lo spazio pubblico non esisterebbe. Ma quale è lo spazio pubblico che chiede la gente? In che cosa differisce dallo spazio pubblico storicamente determinato? Come si sovrappone e si interpone alla struttura della città esistente? Per chi sono gli spazi pubblici?
Spazio fisico e sfera pubblica Innanzi tutto una definizione, necessaria poiché nei principali dizionari non ve ne sono e perché a questo deficit di rappresentazione nei luoghi deputati alla esplicitazione dei significati lessicali, corrisponde un proliferare di teorie, talvolta improprie, che ingenerano confusione e approssimazioni interpretative. Con ordine, ripartendo dai singoli termini: lo “spazio” è estensione indefinita nella quale coabitano gli esseri viventi e le cose del mondo, compreso l’uomo e le sue realizzazioni; il “pubblico” è ciò che è riferito alla sfera pubblica. Intuitivamente è possibile associare lo spazio pubblico, a tutti gli spazi nei quali a ciascun individuo è concesso un diritto incondizionato di accesso, di soggiorno, di espressione. Generalmente è proprietà della collettività anche se questa non è condizione sufficiente. In teoria esso corrisponde alla totalità dello spazio depurato degli ambiti privati. “Privato” infatti significa sottratto, non più disponibile per un uso libero. Se questo è vero in linea di principio, nelle consuetudini d’uso la locuzione spazio pubblico è riferita esclusivamente alla dimensione urbana, tutto ciò che è esterno (per esempio le grandi superfici demaniali) è altro, anche se risponde dei requisiti sopra individuati, poiché la caratteristica distintiva dello spazio pubblico è la capacità di stimolare e produrre socialità. Lo spazio pubblico è il luogo ove gli abitanti si ritrovano per condividere esperienze e eventi, ove si articolano gli interessi e si amministrano le differenze, in cui le ragioni e i valori di tutti dovrebbero essere adeguatamente rappresentati. Lo spazio del fermento politico, culturale e civico, dello scambio, del commercio, del tempo libero è, o dovrebbe essere, spazio civile per eccellenza nel quale e dal quale si impara l’arte della civility7 e della convivenza nel rispetto dell’altro.
Città storica e città contemporanea In sintesi, correndo il rischio di eccessive semplificazioni, la contemporaneità ci pone di fronte una città storica compatta, che a fronte di una relativa stabilità dell’assetto fisico è profondamente mutata nel ruolo e nel senso, una città frammentata di nuovo impianto, distesa, ascalare, antiurbana. In entrambe le condizioni, lo spazio pubblico come sopra definito, appare accumunato da una intrinseca fragilità. Ciò che viene meno non è la presenza di luoghi altamente frequentati dalla gente: è evidente che questo è presupposto necessario ma non sufficiente a creare le condizioni per lo scambio, l’incontro, la condivisione, superando la dimensione dell’anonimato e dell’indifferenza. Mentre nel secondo caso la questione assume caratteri espliciti di evidenza – la dispersione, la mancanza di qualità, le distanze, la presenza di attrattori anomali – nel primo le ragioni della crisi sono più sottili e sfuggenti. Dal punto di vista strettamente fisico le differenze sono evidenti: se nella città storica e consolidata i vuoti sono dimensionalmente contenuti e morfologicamente definiti, nella 7 Cfr. Z. Bauman, La società individualizzata, Bologna, 2001. 226
città contemporanea essi perdono forma e guadagnano misure-dismisure maggiormente significative. La piazza storica così come la rue corridor di norma è un vuoto definito da pieni, riceve la propria qualità – o gran parte di essa – dagli edifici che la delimitano e conserva nel proprio DNA la memoria consolidata di un ruolo; viceversa lo spazio aperto della città contemporanea spesso non è conformato dai pieni, non necessariamente riceve la propria qualità dagli edifici che lo delimitano, ha una memoria ampiamente ricettiva proprio perché è vuota. Eppure proprio in ragione del fatto che la dimensione metropolitana tutto ingloba, con le profonde differenze del caso, ritengo che si tratti di due aspetti del medesimo problema. La contemporaneità ha mescolato le carte: una crisi di rappresentatività investe le centralità tradizionali in quanto luoghi dell’accumulazione dell’identità di comunità stabili, esse sono in taluni casi in balia di flussi turistici che ne espropriano i valori in maniera coatta, in altri casi sono musealizzate e desertificate, oppure aggredite dal commercio, in altri ancora degradate e abbandonate. Simmetricamente si assiste alla nascita di nuove forme di aggregazione che generano inedite ritualità urbane ignorando i luoghi deputati approfittando degli spazi disponibili. Nella loro varietà, pluralità, imprevedibilità, intermittenza, stagionalità, le dinamiche sono sufficientemente chiare. La dotazione di spazi teoricamente utilizzabili è condizione necessaria ma non sufficiente all’effettiva adeguatezza e assunzione di ruolo, la loro qualità, considerata nell’accezione comune di decoro, è un dato apparentemente indifferente al successo, così come lo è la localizzazione all’interno dello scacchiere urbano. A valle dei grandi sconvolgimenti della stagione della modernità scintillante e positiva, che aveva proiettato la città verso la metropoli, abbiamo ereditato una dimensione urbana pervasiva e totalizzante priva di un orizzonte ideologico. Spostando la trattazione su un piano teorico astratto, potremmo affermare che in un ipotetico tempo iniziale in coincidenza con la crisi della modernità sia avvenuto un resettaggio, il quale, diversamente da altri passaggi epocali, ha riportato lo spazio a una condizione di neutralità, che a fronte di una stabilità fisica, ne ha azzerato i valori senza produrne di nuovi. Naturalmente questa condizione è maggiormente evidente in quei casi ove le radici storiche sono più profonde: la dimensione diacronica viene schiacciata in superficie perdendo pregnanza e trasmigrando nella dimensione del convenzionale. In questa prospettiva surreale il puro spazio materiale dato, sia esso consolidato o di nuovo impianto, conformato da un disegno strutturante o caratterizzato da un assetto ibrido e instabile, appare disponibile ma scarico: come se avesse perduto la propria competenza e avesse esaurito il suo compito. La gerarchia tra piazze, strade, slarghi, marciapiedi, giardini, ma anche gallerie, sottopassi, banchine, stazioni, porti, e ancora, terrain vague, aree e infrastrutture dismesse appare sfumare in un continuum reticolare che azzera le differenze e dispone tutto sullo stesso piano. Talvolta i luoghi acquistano rapidamente una nuova identità, in altri casi è necessario un tempo lungo e lo spazio resta in una condizione di sospensione, di attesa. In effetti è proprio questo che accade e per sbloccare queste situazioni e generare nuovi cicli di vita occorre che qualcosa si muova. A volte intervengono progetti con esiti più o meno felici, spesso si tratta di fenomeni altri, più frequentemente siamo di fronte alla interazione di più azioni non necessariamente coordinate.
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Due casi Brevemente due esempi molto diversi tra loro riferiti a casi emblematici di Roma. Piazza Augusto Imperatore, per la storia della quale potremmo risalire all’antico Porto di Ripetta, nasce negli anni ‘30 a valle di uno sventramento, su progetto di Vittorio Ballio Morpurgo, secondo un impianto di forma quadrangolare severo e metafisico, formato dalle quinte plastiche di poderose facciate disposte attorno al Mausoleo utilizzato come sala per concerti. Del progetto è parte anche l’Ara Pacis che viene collocata dentro una teca a definire lo spazio sul lato del Lungotevere. All’inizio del dopoguerra il destino della piazza è segnato. La chiusura, già avvenuta allora, dell’Auditorium dentro l’Augusteo sottrae una funzione determinate per la frequentazione della piazza, l’immagine urbana, fortemente compromessa con il regime, genera un atteggiamento respingente presso i romani, la situazione di trascuratezza dell’Ara Pacis e di abbandono dei ruderi scoraggiano la presenza dei turisti. L’avvio del percorso per la realizzazione del nuovo museo costituisce il primo passo di un processo di riconoscimento, graduale e tuttora in atto dello spazio pubblico. L’incarico viene affidato nel 1996 dalla giunta Rutelli a Richard Meyer, tra aspre polemiche che precedono, accompagnano e seguono i lavori. Nel contempo la notizia della imminente realizzazione è di stimolo per un imprenditore privato che apre all’angolo con via Ripetta, un ristorante impostato su una nuova formula mutuata dalle esperienze newyorkesi di Soho e Chelsea, destinato a fare tendenza. Il successo di “Gusto”, questo il nome del locale, che naturalmente arriva con largo anticipo rispetto all’inaugurazione del museo nel 2006, genera rapidamente una nuova consuetudine e familiarità con i portici fuori scala di Morpurgo che appaiono ora sotto un’altra luce. L’amministrazione Veltroni, di fronte alla palese inadeguatezza del complesso dell’Ara Pacis – che pure disegna spazi di qualità che generano nuova socialità – a risolvere da solo la complessità del tema urbano, bandisce un concorso a inviti per la qualificazione della piazza. Il progetto vincitore, del gruppo guidato da Francesco Cellini, disegna una “lunga cordonata che dall’immensa abside di San Carlo al Corso scende fino al Tevere, restituendo unità e senso ad uno spazio oggi informe, proponendo alla città di Roma un nuovo scenario che richiama le spettacolari sistemazioni settecentesche di Ripetta (oggi scomparsa) e di Trinità dei Monti, ove valga la pena, come un tempo soleva nella Capitale, di muoversi e sostare”8. Esso interpreta il luogo con equilibrio e misura e si pone come possibile ulteriore passo nel recupero di uno spazio pubblico di straordinaria ricchezza caratterizzato da una potente stratificazione. Noncurante della realizzazione dei vari progetti, e del cantiere ora fermo, Fausto delle Chiaie, un artista di strada oramai noto e apprezzato anche dalla critica, allestisce in questa piazza da oltre vent’anni, un bizzarro museo quotidiano en plein air. Lui in fondo – con la sagacia e la creatività che lo distingue – custodisce a suo modo una delle tante anime del luogo9. Altrettanto interessante e denso di significati, il caso di Piazza Vittorio. La piazza umbertina della nuova capitale d’Italia, realizzata nella fase di crescita di una Roma postunitaria, che riconosceva nel grande invaso regolare porticato il centro del nuovo quartiere Esqulino costruito per gli impiegati dei nuovi ministeri, per ragioni varie e complesse stenta a 8 La citazione è tratta dalla relazione di progetto, F. Cellini et. al., 2006. 9 Fausto Delle Chiaie (Roma, 1944) è un artista italiano formatosi secondo le suggestioni della pop art, dell’informale e dell’arte povera. Nel 1987 mostra le sue opere multifigurative al pubblico appoggiandole sulla salita del Pincio, a partire dal 1989 sceglie come proprio spazio espositivo Piazza Augusto Imperatore. Cfr. G. Casetti, F. Centoni, Fausto Delle Chiaie. L’Arte? Rubbish!, Electa, Milano, 2010. 228
affermare il suo ruolo. La prossimità alla Stazione Termini, la scarsa qualità di un’edilizia realizzata in maniera sommaria, la presenza del mercato, generano rapidamente una condizione di degrado e marginalizzazione, che nel secondo dopoguerra si va consolidando. I valori immobiliari, a dispetto della centralità della zona, si attestano su quotazioni modeste e questo attrae le fasce deboli, soprattutto gli extracomunitari, ai quali alla fine degli anni ‘80 si vanno affiancando gruppi alternativi. Nel frattempo il Comune porta a termine, alla metà degli anni ‘90, un intervento di riqualificazione del giardino interno, che al di là della qualità intrinseca del progetto architettonico – di sicuro interesse ma elaborato anni prima in un clima culturale molto diverso – non incide in maniera sostanziale sui fenomeni in atto10. Nel 2001 viene rimosso il mercato disposto intorno al giardino, e con lodevole impegno si procede alla risistemazione dei marciapiedi. Eppure l’evento che ricostruisce una identità, necessariamente instabile e mutevole, e direi anche la dignità, di un quartiere ove gli italiani sono una minoranza etnica, parte dall’iniziativa di due musicisti11 che nel 2002 compattandosi attorno all’Associazione Apollo 21, nata per evitare che un cinema del quartiere fosse trasformato in una sala bingo, fondano l’Orchestra di Piazza Vittorio. Si tratta di un ensemble a formazione e assetto variabile ora costituito da diciotto elementi, provenienti da dieci paesi, che parlano nove lingue diverse. Oggi pur essendo forte la dominante dei cinesi la piazza è un nuovo luogo del centro di Roma, è il simbolo dell’integrazione sociale e culturale, è la casa accogliente dei cittadini del mondo. I problemi sono tutt’altro che risolti, i comitati si sono moltiplicati, è in corso un progetto denominato Piazza Vittorio Partecipata12 che forse porterà un contributo ulteriore.
Progettare e curare Il successo sociale che come osserva Michel Rustin “non è mai un disvalore”13 è funzione di un equilibrio di variabili talmente ampio da risultare incontrollabile. Come è ben evidente anche dai brevi racconti romani, in assenza di un quadro generale di riferimento, la ricomposizione di una mappatura dello spazio pubblico segue strade differenti, essa è 10 Il progetto, dell’inizio degli anni ottanta, è di Francesco Montuori e Giuseppe Milani Anna di Noto (GRAU). È parte di una proposta di sistemazione più ampia che interessa anche le Terme di Diocleziano e Piazza dei Cinquecento. La realizzazione per la sola parte che riguarda il giardino di Piazza Vittorio è stata completata nel 1995. Per il progetto cfr. “Eupalino”, n. 3, 1984, pp. 24-27. 11 L’orchestra è stata ideata e creata da Mario Tronco e Agostino Ferrente, si tratta di un progetto sostenuto da artisti, intellettuali e operatori culturali che hanno voluto valorizzare il rione Esquilino di Roma, dove gli Italiani sono una minoranza etnica. Si tratta di una realtà unica: è la prima ed unica orchestra nata con l’auto-tassazione di alcuni cittadini che ha creato posti di lavoro e relativi permessi di soggiorno per eccellenti musicisti provenienti da tutto il mondo ed ora di fatto nostri concittadini. Basta guardarli tutti insieme, sul palco, per comprendere quanto possano felicemente rappresentare un messaggio di fratellanza e di pace ben più efficace di proclami, comizi e dibattiti televisivi. Ma al di là del valore politico e sociale L’Orchestra promuove la ricerca e l’integrazione di repertori musicali diversi e spesso sconosciuti al grande pubblico, costituendo anche un mezzo di recupero e di riscatto per musicisti stranieri che vivono a Roma a volte in condizioni di emarginazione culturale e sociale. L’Orchestra di Piazza Vittorio debuttò il 24 novembre 2002 con il concerto di chiusura del Romaeuropa Festival. 12 Si tratta di un progetto sostenuto dal Comitato Piazza Vittorio Partecipata (CPVP) che ha presentato nel corso dell’anno 2012 proposte condivise per la qualificazione della piazza e delle aree limitrofe. Il progetto è stato premiato al concorso della “Biennale dello Spazio Pubblico” di Roma del 2013, sezione “Città sociale”. 13 M. Rustin, Per chi sono gli spazi pubblici?, in P. Nicolin (a cura di), Atlante Metropolitano, Electa, Milano, 1991, p. 59. 229
il risultato della sovrapposizione di più azioni programmate e spontanee, materiali e immateriali, che nella matassa intricata autodeterminata da ciascuna realtà, configurano situazioni ove gli attributi di centralità si dispongono per gruppi sociali e per layer tematici, secondo nebulose caratterizzate da focolai multipli, in un’alternanza di spazi a elevata emissione di significati e di icone e spazi a bassa frequenza. Le municipalità progettano, riqualificano, prefigurano scenari congruenti o improbabili e dunque disattesi, talvolta realizzano interventi sulla mobilità, sul patrimonio, sui servizi, che generano indirettamente effetti collaterali non previsti di segno positivo o negativo. Le comunità prive di una propria identità consolidata che spesso è tutta da reinventare, fatte di persone estranee tra loro, spesso con radici e immaginari non confrontabili e soggette a un ricambio più rapido rispetto al passato, si applicano nei processi di appropriazione e di misurazione degli spazi, nella gestione quotidiana, nella pratica di nuove consuetudini che col tempo potranno diventare abitudini. Spesso i gruppi sociali autolimitandosi scommettono dal basso su spazi rifiutati proprio perché non presidiati, accessibili, plasmabili; altrettanto spesso le amministrazioni puntano alla qualificazione perseguendo inutilmente la strada del ripristino di improbabili condizioni di un equilibrio, andato o mai stato, senza intravedere nella conflittualità del presente l’opportunità di fruttuosi assetti futuri. Gli architetti, sempre pronti a lasciare un proprio segno, ne forzano i caratteri proponendo prospettive deviate, gli abitanti resistono strenuamente al progetto difendendo, per paura, miopia o mancanza d’immaginazione, lo stato delle cose pur nella assenza di caratteri e qualità. L’elenco degli atteggiamenti possibili – virtuosi e non – potrebbe continuare, vale la considerazione che il progetto per lo spazio pubblico è esercizio complesso e giustamente se ne dibatte, tra derive politiche sociologiche e antropologiche e ricerche finalizzate alla produzione di rassicuranti linee guida e manuali operativi. È certo che la qualità globale degli spazi relazionali, oltre la dimensione di un’estetica tradizionale ma anche oltre le mode accattivanti di maggior momento, espressa in termini di capacità di accogliere, servire, rappresentare, riveste un ruolo centrale: è l’obiettivo da perseguire. E tuttavia non è possibile scrivere regole o ragionare per parametri quantitativi e/o ricette universalmente spendibili. L’azione preliminare non può che essere volta alla costruzione di un quadro generale sufficientemente esaustivo e inclusivo, una biografia in progress del luogo nella quale il progetto non potrà che costituire la base per un dialogo, un passaggio intermedio, meglio se flessibile e aperto, meglio ancora se incompiuto. Impossibile invertire tendenze, più utile accompagnare processi, dare forma a fenomeni in atto, materializzare bisogni e sogni della gente, assecondando il ritmo e il respiro della città. Oggi, nell’imperversare dei mondi virtuali e nel proliferare di spazi privati di uso collettivo, parziali e selettivi, gli spazi pubblici sono chiamati a svolgere un ruolo essenziale, per la formazione di identità necessariamente plurali e instabili, per il confronto non gerarchico tra culture e la coltivazione di una consapevolezza civile. Essi sia nelle forme della tradizione, sia nelle nuove declinazioni dei paesaggi del contemporaneo, definiscono la loro rappresentatività sul presupposto del dialogo tra soggetti che temporaneamente soggiornano in un determinato spazio e ne condividono i valori espressi. La cura e il progetto di questi spazi, in quanto beni comuni, è determinante per il futuro della città, la loro qualità architettonica e adeguatezza sociale è la rappresentazione fisica e simbolica del welfare. * Il testo è edito nel volume Dialoghi sullo spazio pubblico. Fra Europa e America Latina, Alinea Edizioni, 2013
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Lo spazio pubblico come fattore identitario*
Stefano Storchi
L’idea secondo cui la città rappresenta lo specchio della società che la produce, affida ai luoghi della vita urbana il compito di conservare i segni, le memorie collettive di cui ogni società è – in forme diverse – intrisa. Se poi concepiamo lo spazio urbano quale “luogo delle relazioni” fra gli individui e i gruppi sociali che vivono la città, allora risulta evidente come proprio al suo interno si proponga il massimo accumulo di fattori identitari. Identità è termine complesso, caratterizzato, al tempo stesso, da elementi materiali e – in misura, direi, prevalente – immateriali. Le tradizioni, le culture e la storia – le storie – nel loro stratificarsi all’interno della città, conferiscono allo spazio collettivo significati mutevoli e in costante evoluzione. Così come mutevole ed evolutivo è il senso dell’identità della città, di ogni città. Il legame che unisce la comunità al proprio contesto di vita, la dinamica delle relazioni di cui gli spazi urbani sono – al tempo stesso – testimoni e protagonisti, è memoria e presente: in questo sta il senso dell’identità urbana. Non un fattore di frammentazione, ma di coesione sociale, di immedesimazione collettiva in luoghi, in simboli che prendono forza dal vissuto di uomini e comunità locali. Allora la concezione della città è innanzitutto quella di un fenomeno culturale sostanziatosi in strutture materiali e spaziali, nella forma delle piazze e delle strade, nelle architetture, nei materiali e nelle decorazioni in cui sono rappresentati gli ideali dei popoli che l’hanno costruita. La città, e quindi anche la sua identità, è il prodotto di un’azione collettiva – materiale e immateriale, come già scritto – attuata dalla comunità che la vive; con la necessità di considerare come in tale comunità non esista un’equivalenza fra le componenti e come gli eventi della storia siano determinati o condizionati da gruppi sociali nel cui ambito sono presenti ceti diversi, classi diverse: i signori e i sudditi, la nobiltà e il clero, la borghesia e il proletariato. Le forme che la città assume sono allora lo specchio dei rapporti sociali che al suo interno prendono forma, tanto da rendere riconoscibile, nel proprio assetto, il grado di democraticità della vita sociale: le piazze, i palazzi, le cattedrali, ma soprattutto la morfologia, permettono di cogliere l’ideologia che è stata alla base della loro realizzazione e di riconoscere anche i processi che nel tempo hanno prodotto radicali trasformazioni di luoghi sorti per usi di 231
potere assoluto, poi trasformati in emblemi di democrazia o di sapere. Numerosissimi sarebbero gli esempi da poter richiamare: dall’Ermitage di San Pietroburgo alle Scuderie del Quirinale a Roma, dal Palazzo Imperiale di Vienna al Louvre a Parigi. Ciò significa che il ruolo di decisore che un tempo era rivestito dal monarca o dal signore è stato via via assunto dalla borghesia e dai ceti medi, in un processo di progressiva democratizzazione della vita e della struttura urbana. Ma ciò rende anche ragione di meccanismi reconditi che nella città si creano e che, quasi in maniera silente, assegnano a questo o a quel luogo un significato condiviso. Queste riflessioni introducono una considerazione circa il rapporto che sussiste fra il mutare dei fattori di identità urbana e l’evolversi delle culture che le comunità locali manifestano; dal momento che i luoghi, i monumenti nei quali si esprimono i valori che rendono coesa una società assumono significati differenti nel corso del tempo. Riflettiamo sulla contiguità, a Siviglia, di due elementi diametralmente distanti quali la Cattedrale e il vicino Alcázar, sorti in epoche diverse per affermare il primato della civiltà araba e la successiva riconquista cattolica, ma oggi strettamente integrati, a connotare una città che si è costruita attraverso il confronto e la sovrapposizione fra Islam e cultura occidentale. Si potrebbero ancora citare numerose strutture di città: dalla contiguità, a Mosca, sulla piazza Rossa, fra la fortezza del Cremlino, la chiesa di San Basilio e il mausoleo di Lenin; fino allo Zócalo, la piazza principale di Città del Messico, attorno alla quale si collocano i resti aztechi del Templo Mayor, la Catedral Metropolitana di impianto cinquecentesco e il Palacio Nacional con i grandi murales di Diego Rivera, segno di identità storica che si lega alle lotte e all’evoluzione di un popolo. Tutto ciò può portare a concludere che i conflitti e le contraddizioni che nelle città prendono corpo concorrono comunque a definire la forma e soprattutto l’identità dei luoghi, indipendentemente dai soggetti e dai gruppi sociali volta per volta emergenti. Poiché la città intesa quale elemento simbolico prescinde dal succedersi generazionale degli abitanti di cui contiene la memoria collettiva che si materializza nei suoi spazi, in modo tanto stratificato da sfuggire, a un certo punto, alla contingenza temporale. Questo è tanto più vero quando pensiamo ai luoghi urbani della memoria, alla testimonianza che la città porta impressa anche di ciò che in un attimo ne ha cambiato la storia. Due esempi per tutti: il muro di Berlino e le Twin Towers di New York. La demolizione del muro che aveva segnato per tre decenni la storia del Novecento, oltre a trasformarsi in straordinaria occasione per la riqualificazione della capitale tedesca, ha giocato un fortissimo ruolo emozionale nella memoria collettiva della città: il muro è divenuto un ricordo del passato, ma resta pur sempre un elemento presente nell’identità di Berlino, generatore della nuova forma urbana. Allo stesso modo la distruzione delle Twin Towers, a seguito dell’attacco suicida dell’11 settembre 2001, ha fatto della mancata presenza delle torri un luogo nel quale New York oggi si riconosce: il visitatore che giunge a Manhattan non può esimersi dal ricercare il ground zero, il memoriale della ferita inferta alla città, del quale così Lucien Steil motiva la realizzazione: “Non è la ragione della distruzione che determina il tipo di ricostruzione, ma il paradigma stesso della città fisicamente distrutta ma viva nei cuori dei cittadini e presente nel suo pieno potenziale di memoria storica collettiva.[...] Forse New York ha anche ritrovato nella tragedia non soltanto una nuova coscienza sociale e culturale, una identità rafforzata, ma anche una coscienza che la vera misura della città è l’uomo. La relazione della comunità urbana con la sua memoria ed il suo ambiente urbano rimane profondamente ferita, e questa 232
ferita non potrà guarire nella provocazione vanitosa di grattacieli ma nella ricostruzione di un vero quartiere urbano a scala umana”.1 Ma queste diverse modalità di percezione dell’identità urbana testimoniano come il senso della città discenda fortemente dall’esperienza soggettiva e collettiva che si riversa nelle sue strutture; gli esempi potrebbero continuare fino ad approfondire il significato diverso che luoghi identici assumono in base al mutare dei parametri di giudizio culturale e politico. Pensiamo alla piazza Tien Am Men di Pechino che per noi occidentali ha abbinato la propria immagine a quella del giovane studente che si oppone all’avanzata del carro armato nel corso della rivolta studentesca sanguinosamente repressa nell’aprile 1989; chiediamoci se questa stessa è l’immagine condivisa dal popolo cinese, o addirittura dalla sua classe di governo. Pensiamo a ciò che oggi rappresenta la plaza de Mayo di Buenos Aires, con valori ben diversi per chi ha condiviso l’esperienza di rivolta delle donne argentine (le madres de plaza de Mayo) o per chi appoggiava la dispotica dittatura militare alla quale esse tenacemente si opponevano. E cosa deve aver rappresentato – per popolo e nobiltà – alla fine del Settecento, la place de la Bastille, dopo gli eventi rivoluzionari che portarono alla nascita della repubblica libera, fraterna ed egualitaria? Ma proprio riguardo al binomio di identità e memoria, è necessario chiedersi se i luoghi dell’identità urbana e sociale possano rimanere tali nel tempo o se la memoria dei fatti che li ha determinati o caratterizzati sia destinata, svanendo, a portare con sé o comunque a trasformare il senso che ad essi attribuiamo. Una risposta ci viene dalla riflessione di Aldo Rossi che ha definito la città come “memoria collettiva dei popoli”, sottolineando come il sedimentarsi delle esperienze sia l’elemento connotativo della città, che si materializza nei suoi monumenti, nelle sue architetture: vero filo rosso che percorre la storia urbana e che sospinge la città in una dimensione temporale tanto dilatata da meritare talora l’attributo di eterna. Stabilito in questi termini il senso della città, risulta evidente quanto valore immateriale ne connoti i luoghi, gli spazi, le forme; e quanta immaterialità viva nelle piazze, più che nei palazzi; negli spazi aperti più che nel costruito. O – meglio – negli spazi aperti in quanto matrice morfologica del costruito. In questo senso proprio le piazze sono impregnate di cultura e identità urbana, tanto da costituire uno dei principali fattori di auto-rappresentazione della città, attraverso quello che l’Unesco ha definito “patrimonio culturale immateriale”: concetto che include gli usi, le forme di espressione, di conoscenza che le comunità e i gruppi sociali riconoscono quali parti integranti del proprio bagaglio culturale. è nelle piazze che infatti si consolida e si manifesta la coscienza civica e religiosa della comunità, attraverso manifestazioni civili, militari, politiche e sindacali, processioni e riti sacri; in una parola di tutto ciò che contribuisce a rafforzare la coesione di una società, di un popolo. Spesso sono fatti che sovrappongono la propria carica simbolica a luoghi già fortemente connotati sul piano estetico, ma che dalla forza di tali eventi traggono un senso nuovo: pensiamo alle grandi folle radunate per manifestazioni politiche e riflettiamo a quanto sia diverso pensarle, a Roma, in piazza Venezia o in piazza San Giovanni. La stessa immagine di folla, la stessa tipologia di evento, a seconda del luogo che ne fa da cornice, assume un diverso significato: giacchè la piazza del fascismo (piazza Venezia) e quella del movimento sindacale (piazza San Giovanni) hanno consolidato la propria essenza in spazi urbani diversi (oltre che 1 L. Steil, La ricostruzione di Manhattan senza grattacieli, www.archimagazine.com/speciale/newyork 233
in tempi diversi); e oggi quelle piazze portano con sè l’impronta simbolica e indelebile del proprio vissuto, della propria storia. La stessa riflessione può riguardare gli eventi legati alle tradizioni che perpetuano forme di vita, di festa, di aggregazione, di competizione nelle quali si esprime lo spirito della comunità locale. Non v’è dubbio che a questo proposito il riferimento immediato vada alla piazza del Campo di Siena e al palio. C’è forse spazio per un’immagine di questo luogo scissa da quella che è la festa più attesa, più vissuta, più appassionata che la tradizione abbia tramandato fino ai nostri giorni? e non è forse vero che ogniqualvolta ammiriamo la solenne imponenza di quella piazza non possiamo non pensarla affollata e risonante delle grida, degli incitamenti, della gioia dei contradaioli senesi? Per altro verso la stessa suggestione rivive per le strade scoscese di Gubbio con la corsa dei Ceri, in piazza Duomo a Nola con la festa dei Gigli, nella piazza Grande di Arezzo con la giostra del Saracino: rituali che connotano luoghi e città fino a farsene sostanza, in un intreccio inscindibile fra dimensione materiale e immateriale della loro vita. Ma alla rappresentazione urbana contribuiscono anche letteratura e pittura, musica e cinema: forme espressive capaci di raccontare l’essenza di una città, fino a far sì che la percezione che facciamo nostra sia quella stessa ispirata dagli artisti che ce l’hanno descritta. Se pensiamo alla Roma di Piranesi, alla Venezia del Canaletto o alle più recenti raffigurazioni di Parigi realizzate da Orfeo Tamburi, ci rendiamo conto di come l’immagine di questi luoghi sia venuta a coincidere con la loro interpretazione pittorica. Per quale motivo dovremmo ricordare Argenteuil e il suo ponte, se non fosse per l’arte di Claude Monet? Allo stesso modo la letteratura e la musica creano strane simbiosi: fra Lisbona e Fernando Pessoa, fra Praga e Franz Kafka, fino a raggiungere l’apice di immedesimazione nella Buenos Aires intrisa della scrittura di Jorge Luis Borges e nella forza musicale di Carlos Gardel o Astor Piazzolla. Diverso e più immediato è il tema del cinema, arte capace di fare della città la scena su cui si svolgono storie e vite quotidiane, riportandocene così l’essenza più profonda e più vera: dalla Roma di Federico Fellini alla Manhattan di Woody Allen, alla Berlino di Wim Wenders, la città si riappropria della sua essenza primaria di luogo entro cui si svolgono esperienze che gli spazi urbani accolgono, spesso in maniera non passiva. è così che i comportamenti, le frequentazioni, le consuetudini di vita di una comunità prendono forma in luoghi specifici. Il sistema relazionale che connota gli spazi urbani è uno dei fattori che maggiormente caratterizzano la città: le piazze come luoghi di incontro e di socializzazione rappresentano l’invenzione più originale della città occidentale, in cui la storia si è sedimentata, materializzata in elementi spaziali e monumentali, ognuno dei quali è frutto di motivazioni definibili e leggibili. Le piazze dei Signori fra medioevo e cultura umanistica, le piazze reali delle grandi monarchie europee, le piazze scenografiche fra classicità rinascimentale e dinamismo barocco, le piazze chiuse (place des Vosges a Parigi o la plaza mayor spagnola), o aperte su prospettive naturali (piazza Vittorio Veneto a Torino, piazza Unità d’Italia a Trieste o praça do Comércio a Lisbona); ognuno di questi modelli racconta un brano di storia vissuta, così come le piazze d’armi o le piazze del mercato. Spazi ai quali si legano valori fondanti, ma soprattutto comportamenti ed esperienze relazionali e sociali; in una parola, ciò che determina l’identità urbana.
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Il passato ci ha tramandato luoghi in cui la forza degli eventi e delle tradizioni ha sedimentato e consolidato il senso di coesione di una comunità; luoghi di presenze e – come già abbiamo visto – di assenze. Luoghi talora privi di elementi monumentali caratterizzanti (il palazzo del potere, la chiesa, il teatro, ecc.), ma non per questo meno strutturati, riconosciuti e vissuti nella quotidianità urbana. Ritroviamo così, da un lato, la sedimentazione di eventi e di episodi d’arte che rendono unica e vitale piazza Navona, paragonabile, per forza aggregante, alla Staromestské Nàméstì (piazza della città vecchia) di Praga o alla riscoperta Plaza Vieja de L’Avana. O nella già citata place de la Bastille, dove è presente la storia, pur nell’assenza dei luoghi in cui si è prodotta. In questi esempi è agevole ritrovare il senso identitario di una città, di un popolo; in altri casi il senso aggregativo si manifesta in luoghi certamente storici, seppure non connotati dalla stessa forza simbolica. Perchè la Puerta del Sol, a Madrid, rappresenta un luogo d’incontro più forte della Plaza Mayor, mentre la forza architettonica e spaziale di quest’ultima imporrebbe di pensarla quale luogo di vera centralità e relazione sociale? E, allo stesso modo, quale dinamica ha fatto di Piccadilly Circus uno dei principali centri di socializzazione di Londra? Forse la mancanza di altri spazi a misura d’uomo? o la maestosità dei luoghi in cui si manifesta il potere politico o religioso, in una città per tanti versi priva di vere piazze? Perchè nel concetto di piazza vive il senso di uno spazio raccolto, capace di ospitare relazioni che la grande scala impedisce; così come le impedisce talvolta la straordinaria forza degli elementi simbolici. Se vogliamo consegnare il senso della piazza all’ambito degli scambi umani e sociali – ma si può anche non accogliere questa chiave di lettura – allora dobbiamo chiederci se questo requisito possa ritrovarsi nella piazza San Pietro a Roma, pur carica dei propri infiniti elementi simbolici. O, allo stesso modo, nella place de l’Etoile a Parigi; o ancora nella piazza Rossa di Mosca dove la forza ideologica che si esprime nella scala monumentale dello spazio urbano sovrasta – e ostacola – ogni capacità aggregativa e relazionale. Non è forse più “piazza” il Graben di Vienna, con la sua inedita dimensione spaziale (di strada-piazza si tratta), ma con la sua vita pulsante e coinvolgente? Certo, il senso immateriale dell’identità urbana può portare a rivedere gerarchie di valori e di luoghi che hanno come fine la celebrazione dei diversi poteri che hanno governato le società; ma in cui non si esprimono – se non in modo occasionale – quei momenti relazionali e aggregativi che caratterizzano la vita delle comunità urbane. Di fronte a queste domande, mentre ci chiediamo dove stia la forza degli spazi urbani, dobbiamo tuttavia porci anche due ulteriori interrogativi: se cioè oggi abbiamo ancora la capacità di progettare e realizzare piazze connotate dai valori che abbiamo cercato di descrivere; e se abbia ancora significato progettare o ri-progettare questi luoghi urbani. Chiediamocelo andando al di là dei valori formali ed estetici, ma pensando alla loro forza identitaria. La città contemporanea, pur nel suo evolversi disgregante, non ha intaccato il senso dello spazio pubblico: in particolare, ha cercato di ricomporre e riproporre la struttura della piazza, fino a farne quasi un totem formale, spesso svilito dalla mancanza di fattori simbolici e aggreganti. Quanti spazi si fregiano del titolo di “piazza” senza esserlo! Perchè se la piazza rappresenta la grande invenzione della cultura urbana europea, dall’epoca classica fino alla formazione dei grandi stati nazionali, è pur vero che essa è tale perchè portatrice di valori simbolici e 235
identitari: il monumento, la chiesa, il palazzo civico, la scultura evocativa. Senza di essi la piazza si converte in un luogo di ordinario transito, di abbandono, di degrado. E tuttavia, proprio nel panorama urbano contemporaneo, compaiono alcuni esempi – certamente disomogenei – dai quali possono desumersi criteri generali per ridefinire progetti e politiche per gli spazi pubblici. La place George Pompidou a Parigi ha rappresentato, fin dalla realizzazione del Beaubourg, un luogo pulsante per attrattività e vitalità. Siamo di fronte ad uno spazio urbano il cui significato prescinde dalla qualità delle architetture che lo caratterizzano, ma che riceve impulso dalla loro funzione dinamica alla quale si accompagna la presenza di un parcheggio sotterraneo che quotidianamente indirizza verso la piazza migliaia di cittadini, indipendentemente dalla loro destinazione effettiva. Dunque siamo di fronte a un luogo che esprime la vitalità della città contemporanea, principalmente caratterizzato da una funzione di grande attrattività. Non dimentichiamo però che il miracolo della place Pompidou non si è ripetuto nello spazio su cui prospetta il Museo d’Orsay, nè nell’Esplanade de la Grande Arche dove le funzioni direzionali insediate non presentano lo stesso grado di attrazione. Un secondo esempio da considerare riguarda piazzale della Pace a Parma, dove la grande scala dello spazio urbano non ne impedisce l’uso intenso e quotidiano. Il ridisegno della piazza operato da Mario Botta ha progressivamente attenuato l’impatto che sulla sua vitalità si presumeva potesse esercitare il sistema delle funzioni museali, teatrali e amministrative che la circondano. Oggi il piazzale della Pace vive di vita propria, grazie all’appropriazione che i cittadini ne hanno esercitato attraverso l’uso del tutto informale dello spazio verde, ma grazie anche alla capacità del progetto di far coesistere i segni della storia e della contemporaneità, facendo della piazza un luogo identitario per la città. Un caso, fors’anche dissimile, ma pur sempre finalizzato a rafforzare elementi di identità condivisa è quello che ha preso forma a Buenos Aires con il restauro dei pañuelos bianchi, simbolo delle madres, impressi nella pavimentazione della Plaza de Mayo. In un contesto già fortemente connotato dal vissuto storico, gioioso e tragico, di una città e di un popolo, il fissare in questo modo il ricordo della lotta contro la dittatura diventa un ulteriore fattore di memoria e di identità collettiva. Con questo esempio affrontiamo il tema del ricordo degli eventi tragici occorsi nella storia dei popoli; e su questo piano non possiamo non citare due interventi di grande spessore umano e culturale: a Berlino e Sarajevo. A Berlino la memoria dell’olocausto si è fatta museo e piazza, dove il progetto di Peter Eisenmann ha dato corpo al ricordo tragico del dolore e della morte. La collocazione dei 2711 prismi dell’Holocaustdenkmal interpreta e sostanzia quella tragedia, esplicitandola fino a renderla parte dell’identità consapevole del popolo berlinese, della nazione tedesca. Carica di storia e di dolore è infine la Maršala Tita Ulica di Sarajevo, a cui la città ha affidato la memoria degli orrori vissuti nei lunghi giorni dell’assedio, il ricordo dei morti, l’angoscia dei sopravvissuti. Forte attrattività funzionale, forme d’uso dello spazio urbano, memoria degli eventi che vi hanno preso corpo: possono essere queste le caratteristiche che fanno di una piazza un luogo identitario, un ambito di centralità. E da questo concetto il sistema degli spazi urbani è chiaramente connotato; con un’accentuazione ulteriore data dallo spirito, dall’impulso relazionale che la rete delle piazze, 236
delle strade, inevitabilmente sottende. Se insistiamo nel concepire la città quale specchio della società che la produce, oggi lo spazio relazionale vive una fase innegabile di crisi che si esplicita attraverso l’affermarsi di una lettura soggettiva della città che ne frammenta spazi e significati. In questo contesto, il tema dell’identità sta come in bilico fra tradizione e modernità; la città è infatti un’entità in evoluzione, in cui ogni nuovo intervento – in qualsiasi epoca storica – ha modificato e modifica la realtà in essere, dando luogo ad una nuova identità. Poichè l’identità va intesa come processo in costante divenire, al cui interno il progetto dei luoghi assume un valore decisivo, sul quale insistere per ritrovare le forme, le chiavi per la costruzione della città futura. Se questa dovrà continuare ad essere un luogo relazionale, allora al centro del progetto urbano dovrà stare lo spazio pubblico, luogo in cui si sperimentano e si consolidano i rapporti sociali. Ma non vi è spazio pubblico se non vi è “senso dell’identità” dello spazio pubblico. Poichè in esso si sono forgiate le società attraverso le proprie lotte e i propri conflitti; in esso vive la “memoria collettiva dei popoli”; in esso inevitabilmente prendono forma i simboli della società contemporanea. è una questione di memoria e di progetto; è una questione di cultura e di vita. * Il testo è edito nel volume Dialoghi sullo spazio pubblico. Fra Europa e America Latina, Alinea Edizioni, 2013
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Il paesaggio urbano storico La città lineare lungo la via Emilia: la sfida dell’Emilia - Romagna Mario Piccinini
La via Emilia assieme alle città che sono state fondate a breve distanza fra loro in epoca romana lungo il suo tracciato costituisce un forte segno identitario della Regione Emilia-Romagna. La strada consolare romana, alla quale la regione deve il suo nome, ha avuto un ruolo fondamentale nella costruzione del paesaggio regionale. È stata infatti l’elemento generatore della città-regione a partire dal quale fu organizzato il territorio agricolo della pianura attraverso la centuriazione. Oggi dopo più di duemila anni dalla realizzazione della strada, siamo in presenza della conurbazione lineare della via Emilia che comprende un sistema policentrico di città. La conurbazione è oggi caratterizzata dalla presenza di infrastrutture di importanza nazionale. Oltre alla via Emilia ci sono: l’autostrada, la ferrovia e la linea dell’Alta Velocità fino a Bologna. Le città appoggiate sulla via Emilia sono caratterizzate dallo sviluppo urbano orientato a nord, determinato principalmente dai piani regolatori degli anni ’60. I centri urbani hanno contribuito essi stessi, assieme alle aree più esterne ad essi poste lungo la strada, a definire l’identità dei paesaggi urbani ed extra-urbani. Nel sistema territoriale regionale della costa e della pianura e nel sistema della conurbazione della via Emilia in particolare si è presentato negli ultimi decenni il fenomeno della diffusione urbana. Lungo la via Emilia sono presenti le città che hanno assunto le forme della “città compatta”, e della “città diffusa” o città effettiva che si estende oltre i confini dei centri urbani e per la quale la via Emilia è stato l’asse attrattore. Questo fenomeno è avvenuto anche lungo altre direttrici secondo modelli di accrescimento monocentrico o multipolare. Lungo la via Emilia l’ accrescimento della città effettiva è avvenuto in modo più ordinato grazie alla funzione attrattiva della strada e alla funzione dei centri urbani che hanno, in alcuni casi inglobato, all’urbano parte della città effettiva. La conoscenza dei fenomeni di accrescimento della diffusione urbana che hanno avuto la loro massima espansione negli ultimi decenni e le politiche urbanistiche assumeranno sempre più un ruolo rilevante se saranno improntate a nuovi obiettivi che siano in grado di promuovere la riduzione del consumo di suolo e la rigenerazione urbana e territoriale. Solo in questo modo sarà possibile invertire la tendenza attuale alla dispersione urbana. 239
Il Piano territoriale Regionale, approvato nel 2010, offre approfondimenti sui temi della diffusione urbana nella città effettiva, ma non sembra avere dedicato un approfondimento particolare al sistema della via Emilia. Alcune immagini quali quelle dell’ evoluzione del territorio urbanizzato mettono in evidenza il livello della concentrazione e della dispersione urbana. Il sistema della via Emilia è quello che risulta maggiormente interessato ai fenomeni di diffusione urbana. Nel PTR si riconosce “la crescita di un’ urbanizzazione dispersa, via via più polverizzata man a mano che ci si allontana dai core urbani: un fenomeno che ha conosciuto una particolare intensità nell’area centrale dell’Emilia Romagna, ma ha interessato, sia pure in modo contenuto, tutta la Regione”1 2. Si afferma anche che “la città diffusa dell’Emilia-Romagna, pure non presentando i caratteri estremi della ‘città infinita’ dell’area milanese e lombarda, fa perdere anch’essa identità ai luoghi e rischia di produrre o accentuare al suo interno i fenomeni di isolamento sociale e spaziale . In questo modo si offre un quadro generale del fenomeno della dispersione urbana senza offrirne però uno più preciso sul sistema della via Emilia. Questo sistema risulta comunque decisamente più ordinato rispetto a quello della pianura o della costa probabilmente grazie al proprio sistema infrastrutturale che funziona come una griglia di riferimento. Negli ultimi anni sono stati sviluppati studi e progetti che hanno come oggetto la valorizzazione paesaggistica della via Emilia sotto l’aspetto paesaggistico ed ambientale altri che hanno finalizzato lo studio alla trasformazione dei paesaggi urbani ed extra urbani. Al primo caso appartengono le Linee guida per la valorizzazione paesistico ambientale del sistema regionale della via Emilia (CAIRE - Urbanistica 2007, Baldini U.e Poli G.,) promosse dalla Regione Emilia Romagna3 4, nelle quali si individuano i “contesti territoriali” sulle tratte della via Emilia, da città a città, e all’interno di queste vengono riconosciuti i “paesaggi” a dominante rurale o urbana” e le “componenti paesistiche caratterizzanti e/o condizionanti”ai fini di individuare obiettivi di qualità paesaggistica. Fra gli obiettivi proposti,di valenza urbanistica/progettuale,che sono pienamente condivisibili ci sono “L’attrezzatura della via Emilia come sistema di mobilità dolce”, “la valorizzazione delle intersezioni fluviali”,“la salvaguardia dei varchi e delle visuali”, la riconfigurazione delle aree produttive”,la riconfigurazione degli spazi insediativi eterogenei”, “la rimozione o mitigazione dei detrattori paesaggistici”. Lo studio propone il coordinamento delle politiche di tutela e valorizzazione paesistica dei PTCP, armonizzandone l’attuazione da parte dei PSC”. I temi e gli obiettivi delle linee guida si propongono come “un sistema aperto alla collaborazione di tutti gli attori sociali, costruttori,gestori e consumatori.” 1 Regione Emilia-Romagna, Piano Territoriale dell’ Emilia-Romagna, La regione sistema: il capitale territoriale e le reti, Vol 2, pag.25, 2010. 2 Regione Emilia-Romagna, Piano Territoriale dell’ Emilia-Romagna, Una regione attraente, L’EmiliaRomagna nel mondo che cambia, Vol.1, pag.41, 2010. 3 CAIRE- Urbanistica, Linee guida per la valorizzazione paesistico ambientale del sistema regionale della via Emilia, 2007. 4 U. Baldini, G. Poli, Progetti di paesaggio convincenti e condivisi per la via Emilia, in Urbanistica Informazioni. 240
Al secondo caso, promosso dalla Regione Emilia-Romagna, l’Atlante dei Paesaggi dell’Emilia-Romagna nel quale si individuano 35 paesaggi rappresentativi dell’evoluzione regionale, fra i quali 4 sono paesaggi della via Emilia: Lo studio è corredato da un glossario organizzato per temi., ed è stato realizzato, nell’ambito del PROGETTO PAYS.DOC, Buone pratiche per il paesaggio,cofinanziato dalla Unione Europea5. Vi sono poi studi e progetti svolti in ambito universitario, come quello che riguarda la via Emilia nel tratto Forlì-Cesena secondo le previsioni del PTCP che prevede il declassamento e la realizzazione di una via Emilia bis tra le due città capoluogo.6 Il progetto riguarda la sistemazione del tratto della via Emilia declassata, migliorando la mobilità pubblica e trasformandola in uno “spazio plurale”, utilizzando la strada come spazio pubblico nelle frazioni. Questi sono solo alcuni esempi di linee-guida, Atlanti, studi e progetti che hanno come tema in tutto o in parte il territorio della conurbazione Emilia. L’aspetto da sottolineare è quello a volte di una certa disomogeneità non imputabile agli autori. La domanda, non retorica, che ci si deve porre a questo punto è come mettere in relazione questi temi sotto l’aspetto urbanistico, territoriale e paesaggistico, quali competenze sollecitare, come fare in modo che questo patrimonio di conoscenze, pure parziali, possa orientare i piani ed i progetti. Sicuramente la rigenerazione dei tessuti urbani a livello territoriale, con la conseguenza positiva della riduzione del consumo di suolo può essere parte di un nuovo modo di pensare al governo del territorio: Il riconoscimento dei paesaggi urbani ed extra-urbani che caratterizzano il territorio regionale ed in particolare la conurbazione della via Emilia dovrebbe trovare una maggiore definizione che veda forme di coordinamento delle politiche urbanistiche tramite una loro finalizzazione nella revisione dei PTCP e del Piano Territoriale Paesistico Regionale in modo da potere essere “momento di coordinamento ed integrazione” dei piani (PSC), i quali dovrebbero trovare anche forme di promozione e finanziamento a livello regionale che siano di stimolo alla stessa “governance ”di livello intercomunale (associazioni di Comuni, unioni di Comuni) per le trasformazioni del territorio per la promozione di progetti pubblici e privati. Si pone inoltre anche l’esigenza di usare strumenti “processuali” e “dinamici” per incidere efficacemente sulle trasformazioni del territorio utili a coordinare e fare interagire gli interventi sugli aspetti più diversi, Nel pubblico uno strumento utilizzabile è il Documento programmatico per la qualità urbana, introdotto dalla Legge Regionale 6/2009 dell’Emilia Romagna, che costituisce l’elaborato fondamentale propedeutico all’elaborazione dei Piani Operativi Comunali e del Programma di Riqualificazione Urbana che consente possibilità notevoli per la realizzazione della città pubblica anche collegandosi al Piano Triennale delle Opere Pubbliche. Nel privato uno strumento utilizzabile è il progetto urbano che potrebbe assumere anche valenza di progetto territoriale.
5 B. Marangoni (a cura) di, Paesaggi in divenire, Atlante dei paesaggi dell’Emilia-Romagna, Regione Emilia-Romagna, Quaderni sul Paesaggio/01, 2007. 6 V. Orioli, E. Brighi, La via Emilia nei territori della diffusione urbana: progetto della strada e identità dei luoghi, luoghi, XIV Conferenza SIU 24-25-26 marzo 2011, Abitare l’Italia territori, economie, disuguaglianze. 241
PARTE IV Appendice
Proposte per l’integrazione e la mitigazione dei capannoni industriali nel paesaggio agrario del Monferrato
Valentina Quitadamo
Il paesaggio è soggetto a un’evoluzione continua, non è possibile congelarlo a un periodo specifico fermando questo processo, per natura perpetuo; le modificazioni possono derivare da azioni naturali o causate dall’intervento dell’uomo. La tutela del paesaggio dovrebbe essere attiva, consentendo le trasformazioni dei luoghi, ma in modo da non alterarne gli aspetti significativi.1 Il Monferrato vanta un’ottima produzione vitivinicola e i segni sono leggibili sul territorio. Per riuscire a convivere con una realtà industriale sempre più diffusa è necessario combattere il preconcetto per cui gli insediamenti produttivi siano luoghi poco piacevoli da vivere, diventa necessario migliorare e incentivare l’inserimento paesaggistico di molte aree che spesso non si armonizzano con il contesto territoriale, cercando di intervenire tenendo conto degli aspetti specifici del paesaggio, dell’ambiente e delle possibili ripercussioni sugli ecosistemi e sugli habitat naturali. Intervenire in maniera efficace sul paesaggio, sia dal punto di vista economico che ecologico, è un investimento tangibile nel medio e nel lungo periodo, traducibile in un valore aggiunto del territorio; questo può portare a un aumento del valore dei lotti, un miglioramento d’immagine delle imprese e aziende, una percezione diversa, da parte delle persone, delle aree produttive e industriali. In una società che mira a un ritorno immediato dell’investimento, diventa fondamentale costruire una comunicazione efficace per invogliare a investire su progetti con ritorni in periodi più o meno lunghi, risolutivi di situazioni negative che potrebbero diventare irreversibili.
I capannoni a servizio dell’industria nel paesaggio agrario del Monferrato I capannoni che non ospitano funzioni produttive si definiscono “a servizio dell’industria”: non hanno quindi una vocazione prettamente industriale. Questi possono differenziarsi secondo diverse caratteristiche: dai materiali di finitura, alla struttura, alla composizione modulare, allo sviluppo in altezza (edificio multipiano o monopiano) o di superficie. Mancando la funzione produttiva questi edifici non sempre trovano ubicazione nelle vicinanze della zona adibita alla produzione, sul territorio possiamo trovare insediamenti a servizio dell’industria sparsi, senza un ordine o volontà di inserimento integrato nel 1 Relazione esplicativa della Convenzione Europea del Paesaggio, Amsterdam, 2000. 245
paesaggio che li ospita. L’impatto ambientale dei capannoni può ricollegarsi ai concetti di sensibilità e “capacità del paesaggio”. La “capacità di un paesaggio” indica la propensione di questo ad assorbire gli impatti negativi che derivano da determinate trasformazioni sul territorio: se queste insistono su un insediamento di capannoni industriali sparsi, il paesaggio avrà una maggiore capacità di assorbimento delle negatività, rispetto a quella che potrebbe avere un paesaggio di campagna intatto. Esiste una proporzionalità diretta della capacità del paesaggio di sostenere il negativo in confronto alla sua attitudine: quanto meno il paesaggio è intatto tanto meno è sensibile.2 L’integrazione delle strutture agrarie nel paesaggio ha diverse sfaccettature associate a un’idea di armonia, rispetto, ordine e coerenza degli insediamenti circa il territorio. Negli interventi proposti possiamo ritrovare la mitigazione di impatto – intesa come ogni azione capace di minimizzare, correggere e ridurre gli effetti di un possibile danno ambientale – e la compensazione di impatto, intesa come la sostituzione delle funzioni o qualità ecologiche dell’habitat che viene danneggiato3. I fattori principali che concorrono all’integrazione nel paesaggio degli edifici a servizio dell’industria sono: la visione d’insieme della scena, la geometria dell’edificio con le sue caratteristiche strutturali e materiche, la cromia. La mitigazione dell’impatto visivo dei capannoni avviene attraverso l’uso del verde4; nella fig. 1 (a destra) abbiamo due esempi di integrazione di edifici a servizio dell’industria nel paesaggio. La prima soluzione non è corretta, poiché la visuale del paesaggio è deturpata dalle figure emergenti dei capannoni industriali e la vegetazione è molto rada. Nella seconda soluzione invece l’integrazione è maggiore: la cromia dei capannoni ricorda quella del suolo, la vegetazione svolge la funzione di schermo pur senza occultare, gli edifici non sono collocati lontani dal centro di produzione5, mentre l’altezza e la volumetria dei manufatti sono da controllare altrimenti risulterebbero eccessivamente impattanti e potrebbero modificare lo skyline esistente6. 2 A. Cavaliere, S. M. Guarini, C. Socco, Glossario 1. Capacità, sensibilità, rarità, qualità e valore del paesaggio, OCS (Osservatorio Città Sostenibili) Politecnico e Università di Torino, working paper, 2008, pp. 4-5 3 K. J. Ccanters, R. cupeus, D. S. Friedman, H. A. Udo De Haes, Biological conservation, Elsevier, Amsterdam 1999 4 J. Busquets, I. Fabregas, C. Hom Santolaya, Per una corretta gestione del paesaggio: linee guida, Generalitat de Catalunia, Barcellona 2007, pp. 52-62 5 Regione Piemonte, Criteri e indirizzi per la tutela del paesaggio, Assessorato ai beni ambientali, Torino 2002 6 Ivi, p. 52 246
Nello schema della fig. 2 (sotto) sono presenti due livelli di mascheramento dei capannoni industriali: l’allineamento della vegetazione arborea si presenta con alberi ad alto fusto e siepi arbustive; questa soluzione può essere ottimale in presenza di corsi d’acqua o strade per occultare o nascondere parzialmente gli edifici.
Un’altra soluzione per l’integrazione del capannone industriale nel paesaggio è l’uso di facciate a specchio (fig. 3.), queste permettono la mimetizzazione nell’ambiente dell’edificio, riflettendo il paesaggio circostante creando armonie cromatiche al variare delle stagioni. Nel momento in cui si progetta ex-novo un’area industriale con i giusti accorgimenti si può creare qualcosa di funzionale ed ecosostenibile. Diversa è la situazione se si deve cercare di ovviare a opere industriali o a servizio dell’industria esistenti, inserite in un contesto paesaggistico specifico. In questa sede, tratteremo di edifici a servizio della produzione vitivinicola del Monferrato. 247
Fig. 3
In tale studio la ricerca si è concentrata sull’analisi degli elevati e sullo skyline in modo da studiare delle proposte in grado di restituire alle aree analizzate armonia ed equilibrio tra gli insediamenti e il paesaggio agrario del Monferrato. L’area analizzata è compresa tra i comuni di Casorzo (AT) e Ottiglio (AL); l’esito dello studio è descritto nelle tre schede seguenti, una dedicata a ogni caso analizzato.
Fig. 4 Immagine dall’alto, da Google Earth 248
Caso Studio 1 Località: Casorzo (AT) Il capannone è sito nel comune di Casorzo, in prossimità di una collina, circondato da campi coltivati (fig. 4). Allo stato attuale l’edificio si presenta come in fig. 5: una struttura in calcestruzzo prefabbricato con una grande apertura principale, senza particolari accorgimenti estetici. Fig. 5 Stato attuale
Nel succitato studio l’integrazione del capannone industriale è avvenuto attraverso l’uso di piante rampicanti (fig. 6), nello specifico è stata scelta la Parthenocissus tricuspidata ‘Veitchii Robusta’, un clone innestato sul Parthenocissus quinquefolia. La crescita avviene in modo veloce e riesce a ricoprire in quattro o cinque anni sino a 100 metri quadrati di parete, una volta esaurito lo spazio a disposizione si arresta e la vegetazione non sormonta su se stessa. L’intera parete è ricoperta da grandi foglie di uguali dimensioni dall’effetto pulito e armonico, le foglie del ‘Veitchii Robusta’ sono più grandi della specie originaria, i colori autunnali sono più vivaci e la produzione di bacche è abbondante. In autunno, dopo un’intensa colorazione dal rosso al giallo, perde le foglie, lasciando per diversi mesi l’intera parete ricoperta di piccole ciocche nere disposte regolarmente. Questa pianta rampicante è una specie decidua, non trattiene l’umidità che potrebbe causare problematiche all’interno degli edifici, le superfici verdi assorbono meno il calore e hanno un’inerzia termica minore delle superfici in calcestruzzo o asfaltate.
Fig. 6 Progetto, immagine rielaborata al pc 249
La presenza della vegetazione sulle facciate e sulle coperture degli edifici contribuisce a bilanciare le temperature degli spazi interni, protegge la facciata dalle acque meteoriche, il rivestimento verde costituisce un importante filtro per le polveri e un habitat per lâ&#x20AC;&#x2122;avifauna. Le pareti verdi create con questa pianta variano di colore grazie al fogliame che tra il periodo primaverile e autunnale assume tinte dal verde chiaro al rosso porpora.
Fig. 8 Immagine dallâ&#x20AC;&#x2122;alto, da Google Earth 250
Caso Studio 2 Località: Grazzano (AL) Il capannone è sito nel comune di Grazzano, in pianura. La struttura è circondata da altri edifici aventi funzione industriale (fig. 8), e l’edificio non presenta caratteristiche architettoniche e rifiniture di pregio (fig. 9).
Fig. 9 Stato attuale In questo caso l’integrazione del capannone industriale è stato progettato con l’inserimento di due fasce arboree: per la fascia esterna della schermatura è stato selezionato il Populos Nigra Pyramidalis (pioppo cipressino), mentre per la fascia interna, intensificandone l’effetto “barriera”, il Carpinus Betulus Pyramidalis (betulla) (fig. 10). Questo sistema occulta l’edificio, che risulta essere estraneo al contesto paesaggistico in cui è inserito. Le fasce arboree saranno opportunamente distanziate dall’edificio e da strade presenti. L’immagine presentata vuole essere un esempio di come si potrebbe operare per avere l’occultamento del capannone. Per scegliere le specie arboree i criteri utilizzati sono stati: studio preliminare delle specie arboree presenti sull’area di progetto; funzionalità per caratteristiche fisiche ed estetiche alla schermatura.
Fig. 10 Progetto, immagine rielaborata a pc. 251
Caratteristiche fisiche specie arboree: Il Populos Nigra (immagine sotto a sinistra, fig. 11) è un albero a portamento eretto variabile, vive tra i 90-100 anni, alto fino a 30 m con 1 m di diametro a fusto dritto. Il Carpinus Betulus (immagine sotto a destra, fig. 11) è simile alla betulla, ha una vita media di 150-200 anni, l’altezza varia dai 15 ai 25 m. Il fusto è dritto a sezione irregolare con scanalature7.
Fig. 12 Immagine dall’alto, da Google Earth 7 www.giardini.biz 252
Caso Studio 3 Località: Casorzo (AT) Il capannone si trova in un’area circondata da vigneti (fig. 12). Allo stato attuale l’edificio si trova in condizioni di disordine e parziale degrado, soprattutto per quello che riguarda la sistemazione dell’area esterna (fig. 13). Nel seguente studio l’integrazione del capannone industriale è stato pensato come l’unione delle due soluzioni utilizzate nelle precedenti casistiche: dall’immagine rielaborata al pc (fig. 14) si noti come sia presente la mimetizzazione dell’edificio attraverso l’uso di specchi, e l’occultamento attraverso l’utilizzo di due fasce arboree, come nel caso studio 2. L’utilizzo delle pareti a specchio permette la completa mimetizzazione del capannone; la particolarità, rispetto alla soluzione con la parete verde, è la proprietà dello specchio: riflette il paesaggio circostante, adeguandosi in maniera perfetta al variare delle stagioni andando a creare un perfetto equilibrio e un’armonia tra l’oggetto architettonico, prima considerato con accezione negativa e il paesaggio che lo ospita. Grazie all’inserimento delle fasce arboree si ottiene anche una compensazione. Questo diventa quindi un intervento che apporta delle migliorie alla qualità dell’intorno, facendo accrescere in modo proporzionale anche il valore economico dell’area interessata.
Fig. 13 Stato attuale
Fig. 14 Progetto, immagine rielaborata su pc 253
Bibliografia E. Boffa, A. Delpiano, Promozione del prodotto e progetto d’architettura, in «ArchAlp», n. 6, dicembre, 2013. J. Busquets, I Fabregas, C. Hom Santolaya, Per una corretta gestione del paesaggio: linee guida, Generalitat de Catalunia, Barcellona 2007. K. J. Canters, R. Cupeus, D. S. Friedman, H. A. Udo De Haes, Biological conservation, Elsevier, Amsterdam, 1999. M. De Vecchi, La qualità del paesaggio agrario per una efficace promozione delle produzioni enologiche di eccellenza. Il restauro del paesaggio attraverso la demolizione dei capannoni: il caso studio della cascina Albarossa a Nizza Monferrato, convegno organizzato dal «Centro studi sul paesaggio culturale del Monferrato», Nizza Monferrato, 17 gennaio 2015. M. Gibellino, M. Leto, Le zone vitivinicole e l’Unesco. Il caso studio: Langhe, Roero e Monferrato, tesi di laurea, rel. Guardamagna Laura, Torino, luglio 2011. F. Larcher, Prendere decisioni sul paesaggio: sperimentazione interdisciplinare per la gestione del paesaggio viticolo, Franco Angeli, Milano 2012. Regione Piemonte, Criteri e indirizzi per la tutela del paesaggio, Assessorato ai beni ambientali, Torino, 2002. A. Cavaliere, S. Guarini, S. Socco, Glossario 1. Capacità, sensibilità, rarità, qualità e valore del paesaggio, OCS (Osservatorio Città Sostenibili) Politecnico e Università di Torino, working paper, Torino, 2008. C. Tosco, I beni culturali. Storia, tutela e valorizzazione, ed. Il Mulino, Bologna, 2014. C. Tosco, Il paesaggio storico: le fonti e i metodi di ricerca tra medioevo ed età moderna, Laterza, Roma, 2009.
Sitografia www.giardini.biz www.ilpaesaggio.eu www.paysmed.net www.vanillamagazine.it
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Osservazioni intorno al paesaggio degli spazi aperti periurbani
Simona Messina
Nel corso della VI edizione della “Summer School Emilio Sereni”, che si è tenuto alla fine di agosto 2014, a cui ho avuto l’onore di partecipare, si è parlato di paesaggio agrario prendendo in esame in particolare alcuni aspetti, legati alla percezione del paesaggio e parallelamente alla sostenibilità economica attuale dei paesaggi agrari tradizionali. A conclusione della VI edizione della Scuola è stato elaborato un memorandum1 in cui si propone una ulteriore definizione di paesaggio agrario, modulata in continuità con la definizione che di paesaggio agrario ci ha lasciato Sereni2, con l’intento di porre particolarmente l’accento sulle relazioni tra paesaggio, modi della produzione agricola e qualità del cibo. Oggi si discute molto del ruolo dell’agricoltura praticata nei contesti urbanizzati e nelle aree periurbane delle città, nonché della possibilità e della convenienza di incentivare la diversificazione funzionale di questa particolare produzione agricola3, affinché possa continuare a essere remunerativa per gli operatori. Il tema della qualità del cibo e della sostenibilità della sua produzione è al centro del dibattito internazionale e molto sentito nei contesti urbanizzati, tanto da diventare il protagonista della esposizione universale Expo 2015 in corso a Milano, anche tra le tante contraddizioni evidenziate negli ultimi mesi, di cui molto si è parlato nella stampa nazionale. È importante ricordare che la domanda di qualità del cibo e sostenibilità della produzione agricola nasce dalla cultura urbana ed è diventata prioritaria quanto più il modello urbano contemporaneo è entrato in crisi. La città che si è affermata negli ultimi decenni ha negato la necessità dello spazio fisico e propagandato connessioni telematiche e piazze virtuali, come la grande occasione resa possibile dalle infinite possibilità offerte dalla tecnologia avanzata. Questo presupposto si è rivelato assai ingannevole; mai come oggi la distanza fisica dalla centralità urbana è stata così condizionante, o meglio il tempo necessario a percorrere tale 1 Memorandum sul paesaggio agrario, scaricabile dal sito http://www.istitutocervi.it/ 2 Sereni definisce il paesaggio agrario come “quella forma che l’uomo, nel corso ed ai fini delle sue attività produttive agricole, coscientemente e sistematicamente imprime al paesaggio naturale” (Sereni 1979, p. 29). 3 Scrive Caravaggi: “Il ruolo dell’agricoltura nelle aree peri-urbane, e più in generale nei vasti territori della diffusione insediativa, è ormai al centro di una crescente attenzione internazionale. L’agricoltura sembra intrattenere rapporti diretti e significativi con i mutamenti che investono lo spazio collettivo nella città contemporanea in seguito all’abbandono della prospettiva “industriale” (quantità di produzioni agricole da immettere sul mercato) a favore della gestione sostenibile dei territori urbanizzati.”. Cfr. L. Caravaggi, “Paesaggi commestibili nella campagna di Roma”, in: Atti del Convegno “L’Agro romano tra tutela e sviluppo”. Tenuta del Cavaliere, Lunghezza, Roma - 15 giugno 2011. 255
distanza, come sperimentiamo tutti quotidianamente. Le città congestionate impediscono di raggiungere fisicamente i luoghi e dunque di partecipare all’esperienza che tali luoghi offrono, siano essi un posto di lavoro, un luogo di cultura, una occasione ricreativa. Il tempo libero, invenzione specifica della cultura urbana4, viene eroso, consumato nei tempi di percorrenza delle distanze invece di essere destinato alla socialità, alla ricreazione, alla crescita culturale degli individui. Ancora di più si perde proprio la qualità urbana, il soffio vitale dei luoghi, funzione specifica legata alla presenza della gente5. La crisi del modello economico basato sulla crescita illimitata ha travolto anche la forma urbana che di questo modello era in qualche modo il volto, ponendoci nuovamente e più brutalmente che in passato a confronto con l’inadeguatezza di un modello culturale volto al superamento del limite in ogni campo dell’azione umana (Latouche 2010). Oggi appare più difficile lasciarsi convincere che grazie al potere salvifico della tecnologia possa esistere un mondo di sole città globali senza campagna produttiva, o che solamente al mondo urbano possa corrispondere la prosperità. Nell’incertezza portata dalla crisi riemergono, con sfumature nuove, bisogni antichi di socialità, condivisione e comunità; conseguentemente si cercano nuovi luoghi e nuove forme in cui realizzarli. Sono questi, in effetti, bisogni che scaturiscono da una cultura urbana evoluta, per la quale la finalità sociale diviene una categoria irrinunciabile, che entra nella valutazione dell’opportunità di intraprendere un’azione o un progetto, non più limitata alle situazioni di bisogno emergenziale. È verosimilmente questo cambiamento profondo di prospettiva il meccanismo che potrà portare alla affermazione di visioni che puntino sulla ricerca di una nuova urbanità, attenta al premio etico e sensibile ai temi della condivisione, della identificazione, della specificità dei luoghi (Magnaghi, 2008) (Choay, 1994). In questo scenario gli spazi aperti ancora presenti nei contesti periurbani possono offrire una opportunità unica di rigenerazione per la città6. Cambiando il punto di osservazione sulla città, nei contesti periurbani si può scoprire un insieme, ancorché molto frammentato, di spazi aperti che conservano caratteristiche ancora fortemente agricole e rurali. Oggi intorno a queste aree considerate sensibili si concentra una crescente attenzione7. Spesso sono il luogo in cui viene praticata una agricoltura connotata come urbana, non tanto perché ambientata in un contesto che gravita all’interno della città, quanto perché urbana è la sua matrice culturale; spesso sono oggetto di appropriazione spontanea, che lentamente da vita a modi d’uso creativi e alternativi, come accade con piccoli parchi di quartiere, giardini e orti condivisi. Il tema dell’integrazione di questi spazi al contesto metropolitano in termini funzionali e culturali, in un processo che ha come obiettivo la riqualificazione fisica e sociale delle periferie e dello spazio periurbano, è aperto e attuale.
4 Nelle prime decadi del XX secolo si comincia a parlare della forma e della funzione del verde urbano, non più mero valore estetico, ma spazio per lo svago e il tempo libero di cui la città funzionalista comincia a esprimere il bisogno. Cfr. Carta di Atene, il documento ch raccoglie le conclusioni del IV CIAM 1933. 5 Queste considerazioni sono desunte dal contributo di De Bonis alla VI edizione Summer School; cfr. anche F. Choay 1994; La Cecla 2015 6 Cfr. Donadieu 2005, Campagne urbane. La locuzione è ormai entrata a far parte del vocabolario comune, ben oltre la cerchia degli addetti ai lavori. 7 Recentemente a Roma si sono svolti diversi seminari e convegni sui temi legati alle aree periurbane e al loro ruolo rispetto alla città. Tra i tanti si ricordano: “Coltivare la città” sull’agricoltura urbana e periurbana a Roma, tenutosi presso Inea lo scorso 30 giugno 2014; “Agritettura della città”, sulle forme di agricoltura urbana e le associazioni che operano sul territorio, tenutosi presso Inarch, 31 marzo 2014 256
Fig. 1, Roma, Parco Appia Antica. Orto didattico per le scuole. (foto S. Messina 2012)
L’agricoltura urbana è praticata nelle periferie di molte città europee ed extraeuropee, seppure con sfumature diverse. Nei contesti urbani extraeuropei8 è essenzialmente un’agricoltura di sussistenza, spesso realizzata attraverso progetti istituzionali con finalità di miglioramento delle condizioni sociali, che mirano cioè alla ricostruzione, attraverso la pratica agricola, di un senso di comunità paragonabile a quello della cultura rurale da cui provengono le persone che si accalcano nei grandi agglomerati africani o asiatici. In 8 In ambito internazionale segnalo Liveinslums, una organizzazione non governativa (ONG), che realizza progetti per le aree urbane disagiate di vari paesi dall’Africa all’Est europeo, in particolare nel settore dell’agricoltura urbana. A Nairobi, nel distretto di Mabatini (Mathare), nell’area di una discarica abusiva, pulita e decontaminata, è stato realizzato un orto con la partecipazione degli abitanti. L’orto è stato messo a servizio di una scuola di strada, grazie al quale è stato possibile far funzionare una mensa, che riesce a garantire pasti caldi a tutti gli iscritti. Nelle aree popolose del Cairo, dove non è disponibile sufficiente suolo fertile, la ONG ha sperimentato orti puntuali, coltivati in contenitori di recupero o addirittura con tecnica idroponica. Questa piccola produzione permette alle famiglie una produzione di sussistenza e a volte addirittura la produzione di eccedenze che possono essere vendute, realizzando un piccolo reddito supplementare. Queste esperienze danno grandi risultati con l’impiego di pochissimi mezzi economici ma con la capacità di mobilitare tante risorse umane, ed è proprio grazie a questa particolarità che riescono a centrare il duplice obiettivo di migliorare la qualità dei luoghi e della vita di chi li abita, e al contempo rifondare un senso di comunità. 257
Europa invece questa pratica assume sfumature sociali, dove la produzione è destinata all’autoconsumo o ad un mercato alternativo a quello della grande distribuzione, basato sulla filiera corta, su pratiche agricole attente alla ricaduta sull’ambiente, sul rapporto diretto e dialogante tra produttore e consumatore9. Proprio la prossimità con la città è dunque la leva che può indurre l’affermazione di modi di produzione derivati dalle forme della tradizione, che non avrebbero possibilità di competere dove l’unico parametro di valutazione fosse la produttività esclusivamente concepita in termini di profitto monetario. Il consumatore urbano, esigente e attento ai mutamenti della qualità del mercato, pretende che l’azienda testimoni in qualche modo il suo impegno per la tutela dell’ambiente, il rispetto degli animali, la qualità dei prodotti. Si offre così l’opportunità di un mercato per una produzione ad alto contenuto di valore sociale, di qualità ambientale e di contenuto etico, normalmente non rilevanti in campagna, dove parte della produzione è assorbita comunque per il proprio consumo, che altrimenti, nell’ambito delle logiche di puro profitto che guidano il mercato ordinario, non riuscirebbe ad affermarsi. Dunque è proprio dall’incontro - o piuttosto oggi, dallo scontro - tra la città e la campagna, nel quale, apparentemente, quest’ultima sembra destinata a perdere, che scaturisce una interazione virtuosa tra la cultura urbana e il mondo rurale in via di progressiva assimilazione, verosimilmente capace di generare assetti spaziali e modi d’uso del tutto nuovi, che, analogamente a quanto già verificatosi nel processo originario di formazione della città, possano favorire la nascita di forme di aggregazione sociale e funzioni altrettanto innovative. A completamento di quanto detto fin qui, vorrei focalizzare l’attenzione sul tema degli spazi aperti erbosi interclusi nelle aree di espansione di alcune città attuali, di cui mi sto occupando nelle mie ricerche, in riferimento al paesaggio dei pascoli residuali nel contesto periurbano contemporaneo. Queste “praterie urbane” sono ciò che resta oggi intorno alle nostre città del paesaggio delle praterie del pascolo. Si tratta di formazioni erbose seminaturali, frutto di una lunga storia di utilizzazione pastorale, resa possibile da uno 9 Dal 2001 si è diffuso in Francia il sistema proposto dall’associazione AMAP (Association pour le Mantien d’une Agriculture Paysanne), fondato su di un patto stretto direttamente tra gli agricoltori e i consumatori locali. Gli obiettivi perseguiti sono riportare la pratica agricola entro modalità più rispettose dell’ambiente, attraverso una rivisitazione dei modi di produzione tradizionali, estesi anche all’allevamento degli animali, anche se non necessariamente a certificazione “biologica”. Il patto stretto direttamente tra consumatori e produttori aiuta a tagliare i costi della grande distribuzione, garantisce ai produttori il giusto prezzo di vendita e soprattutto matura la consapevolezza reciproca di entrambi gli attori principali. La merce viene consegnata presso le sedi locali delle Amap, dove i consumatori provvedono al ritiro, e dove spesso vengono tenute delle attività sociali, quali degustazioni, letture, o altro. In Italia sono note le esperienze milanesi del Bosco in Città, del Parco Agricolo Milano Sud, o di analoghe iniziative a Torino. A Roma segnalo l’esperienza delle cooperative Agricoltura Nuova e Cobregor. che racchiudono in sé molti degli aspetti propri delle agricolture urbane e soprattutto entrambe incarnano un pezzo di storia sociale e urbanistica della città. Interessante infine l’esperienza di Zappata Romana, nata a Roma nel 2010 da un progetto di studioUAP. Il progetto ha prodotto una mappatura di tutti gli orti e giardini condivisi esistenti a Roma, in costante aggiornamento grazie alle informazioni e segnalazioni raccolte da Zappata Romana. Consultando la mappa, disponibile on line, si scopre che gli spazi verdi condivisi a uso differente esistenti in città sono oltre 200, tutti realizzate in aree abbandonate, recuperate a opera di singoli cittadini o associazioni, che ne curano il mantenimento quotidiano. In alcuni casi l’obiettivo primario di queste pratiche non è tanto la produzione agricola, quanto la promozione di attività di interesse sociale, a beneficio delle fasce deboli di popolazione ed in particolare delle persone disagiate, dei minori con difficoltà di apprendimento, ecc. Ecco allora che questa agricoltura assume una vera e propria connotazione sociale. Rientrano in questo panorama la riabilitazione e/o cura attraverso il lavoro manuale e il contatto con la natura, la formazione finalizzata all’inserimento lavorativo, le esperienze di inclusione sociale, ricreative, didattiche ed educative di tipo inclusivo. 258
scenario ambientale tendenzialmente arido10. Il fenomeno è paneuropeo e si è protratto nella sua funzionalità sostanzialmente intatto dall’epoca classica fino agli inizi del XX secolo. Le successive trasformazioni dall’economia agricola alla società industriale hanno indotto una rapida e drammatica diminuzione della attività connesse alla pastorizia, innescando una trasformazione della vegetazione verso la ricolonizzazione da parte di specie legnose arbustive e arboree, che alle nostre latitudini porterebbe alla riaffermazione di foreste dominate da querce, e alla conseguente riduzione drastica o scomparsa delle praterie su vasti territori (Spada, in press), nonché del paesaggio del pascolo arborato, tanto emblematico di certe nostre campagne.
Fig. 2, Roma, ciò che resta del paesaggio del pascolo arborato nella campagna periurbana. (foto S. Messina 2014)
La civiltà pastorale è stata pertanto l’elemento fondativo del paesaggio degli spazi aperti nelle aree in cui sono sorte e si sono sviluppate alcune città europee, fra le quali proprio Roma è particolarmente emblematica. Questi spazi aperti sono il retaggio di un paesaggio culturale antichissimo e di estrema valenza documentaria, e oggi, in relazione ai temi fin qui delineati, possono divenire scenario di intervento conservativo e progettuale. La riflessione si sposta allora sulla individuazione degli usi contemporanei compatibili con la funzione tradizionale della pastorizia, che, opportunamente integrati con essa, contribuiscano a farne ancora oggi una risorsa economica remunerativa. L’aspetto economico è infatti un fattore determinante nel complesso processo che porta alla formazione di un determinato paesaggio, ed è pertanto necessario e imprescindibile tenerne conto, in considerazione del fatto che l’unico modo di 10 Per una definizione condivisa dal punto di vista scientifico delle tipologie di prati e praterie in ambito mediterraneo bisogna fare riferimento alla Direttiva Habitat 92/43/CEE del 1992; cfr. Casella et al., 2008. 259
conservare il paesaggio è riuscire a governarne la trasformazione. L’allevamento tradizionale semi-brado è una realtà produttiva ancora presente sul territorio italiano11 ma che oggi più che mai rischia, a causa di scelte strategiche legate a macroscenari che non hanno attinenze dirette con le realtà locali, di essere ridotta ad attività assolutamente marginale. Se consideriamo il Lazio, e il Comune di Roma in particolare, secondo i dati della Regione Lazio12, gli allevamenti ovi-caprini rappresentano una consistente realtà produttiva, fatta soprattutto di aziende medio piccole, che difficilmente potrebbero competere nel mercato ordinario. Le regioni italiane sono spesso identificate da prodotti specifici che possono essere definiti tipici, come il pecorino romano o la ricotta a Roma, la mozzarella di bufala in Campania, la carne chianina in Toscana. Per questi prodotti, analogamente a quanto detto sopra in riferimento alla produzione agricola, la prossimità con la città è un fattore positivo e incentivante. La cultura urbana ha sviluppato consapevolezza rispetto alla qualità del cibo e la città garantisce un significativo mercato in grado di assorbire queste produzioni, come dimostrano lo sviluppo delle reti di acquisto solidale, orientati negli acquisti ai prodotti locali, che non vengono trasformati e trasportati attraverso la grande distribuzione e l’attenzione per le filiere produttive che privilegiano il contenuto sociale ed etico. Di conseguenza le specifiche razze di animali o il tipo di pascolo assumono grande rilevanza, sia come fattori decisivi della qualità dei prodotti, sia come fattori connotanti di un paesaggio che non esiterei a definire culturale, in forza del proprio portato percettivo e identitario. Se perdere queste attività potrebbe non essere considerato un danno in riferimento all’economia globale, sarebbe certamente una catastrofe dal punto di vista culturale e paesaggistico13.
Fig. 3, Roma, il pascolo è ancora praticato nei molti spazi aperti periurbani. (foto S. Messina 2014) 11 Cfr. 6° Censimento Istat 2000 – 2010 disponibile su http://www.istat.it/it/censimento-agricoltura/ agricoltura-2010 12 Cfr. banche dati dell’Anagrafe Zootecnica dell’Ist. Zooprofilattico della Regione Lazio, aggiornati al 2014. 13 Il paesaggio delle praterie pascolate si può riassumere nell’immagine delle greggi al pascolo sotto le arcate dei grandi acquedotti romani, celebrata a partire dall’iconografia pittorica dal Grand Tour fino ai fotogrammi del cinema italiano degli anni ’50, è l’immagine di Roma. Il portato iconico di questo paesaggio è un valore identitario irrinunciabile 260
Tuttavia nel settore dell’allevamento ovi-caprino in ambito romano ci sono almeno due ordini di motivi che ne frenano la diffusione e ne limitano la capacità di innovazione. In primo luogo è indubbio che mentre gli orti urbani offrono una qualità estetica che li rende più facilmente accettabili, un allevamento ha necessità di altre superficie e altre strutture, per esempio per la messa al riparo del gregge. L’introduzione di normative molto stringenti dal punto di vista igienico sanitario comporta certo degli oneri elevati, costringendo l’allevatore a investire sulla propria azienda, cosa che spesso le aziende a struttura tradizionale non sono in grado di fare. In secondo luogo il settore risente purtroppo di una certa arretratezza culturale, che lo rende inerte rispetto a ogni forma di innovazione imprenditoriale virtuosa. Sono pochi gli allevatori capaci di portare dentro l’azienda una mentalità imprenditoriale nel senso migliore del termine, capace cioè di elaborare soluzioni creative, come accade con la agricoltura multifunzionale. Questi aspetti devono essere riportati al centro del dibattito circa la conservazione dei paesaggi della tradizione agraria nel nostro Paese. La conservazione consiste fondamentalmente nel “fornire lo spazio”, alle specie naturali, non solo attraverso la protezione di aree ad elevato contenuto di naturalità sparse sul territorio, ma anche proteggendo gli spazi che ancora esistono negli interstizi del paesaggio umanizzato urbano e periurbano (Ferrari & Pezzi, 2012)14. In questo senso ritengo che l’uso sostenibile della pastorizia può favorire la conservazione dei valori di diversità biologica presenti, basti pensare alle razze locali e alle specie erbacee dei prati, contribuendo al mantenimento del paesaggio della pastorizia, di cui ancora oggi ritroviamo le tracce nelle praterie urbane presenti ai margini delle nostre città. L’agricoltura e la pastorizia praticate in ambito metropolitano, arricchite e integrate con funzioni complementari, sollecitate proprio dalla contaminazione con la cultura urbana, permettono la rivisitazione di modi d’uso tradizionali, stimolati dalla ricerca di condivisione, partecipazione, riappropriazione identitaria dei luoghi, passando inevitabilmente attraverso il controllo e la consapevolezza della qualità del cibo quotidianamente messo in tavola.
Referenze bibliografiche Casella, L.; Agrillo, E.; Biano P.M.; Cattena, M; Laureti, L.; Lugari, A.; Spada, F., 2008. Carta degli habitat della Regione Lazio per il sistema informativo di Carta della Natura alla scala 1:50.000. Roma: ISPRA -Sapienza, Roma. Choay, F., 1994. Le règne de l’urbain et la mort de la ville. In: La ville, art et architecture en Europe, 1870-1993. Paris: Centre George Pompidou, pp. 26 - 35. Donadieu, P., 2005. Campagne urbane. Una nuova proposta di paesaggio della città. Isola Liri: Donzelli. Ferrari, C. & Pezzi, G., 2012. Paesaggio. Ambiente, spazio, luogo, memoria. Reggio Emilia: Diabasis. La Cecla, F., 2015. Contro l’urbanisica. Torino: Einaudi. Latouche, S., 2012. Limite. Torino: Bollati Boringhieri. Magnaghi, A., 2008. Il progetto locale. Torino: Bollati Boringhieri (I^ ed. 2000). Sereni, E., 1979. Storia del paesaggio agrario. Bari: Laterza (I^ ed. 1961). Spada, F., s.d. Caratteri della vegetazione. In: Macchiatonda: una riserva sulla costa degli Etruschi. Roma: Regione Lazio, Sistema dei Parchi e delle Riserve Naturali. 14 Queste considerazioni sono desunte dai contributi di Ferrari e Pezzi all’edizione 2014 della Summer School.; cfr. anche Ferrari & Pezzi 2012
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La qualità del paesaggio in relazione alle strutture funzionali alla produzione agricola e industriale Il caso dei capannoni nel Monferrato Roberta Vignuolo
La valorizzazione di un territorio, delle sue risorse e del suo paesaggio è un tema fondamentale nel panorama della salvaguardia del patrimonio culturale. In questo ambito il paesaggio agrario e i suoi prodotti sono oggetto di numerosi studi, eventi (expo 2015 ad esempio), e la relazione tra promozione del prodotto agricolo e del territorio di origine è diventata in questi ultimi anni sempre più forte. Per rafforzare ed esaltare questa relazione singole realtà produttive, ma anche consorzi di tutela e valorizzazione di determinati prodotti agricoli, ricorrono a operazioni di marketing aziendale. Un caso emblematico è sicuramente quello del vino: prodotto di consumo che è diventato un bene dal valore simbolico, cioè simbolo di un’azienda, di un territorio di produzione e di tutti quegli aspetti immateriali che sono la storia e le tradizioni. Lo dimostra l’attenzione dei consumatori al concetto di DOC e DOCG che stabiliscono l’importanza della tipicità di un prodotto agricolo, legato al suo territorio di origine. Questo fenomeno ha dato il via a un trasformazione degli spazi tradizionalmente legati alla produzione, che quindi hanno assunto nuove funzioni e destinazioni d’uso: spesso, ad esempio, le cantine vitivinicole non sono più solo luoghi preposti alla produzione ma accolgono visitatori, offrono occasioni di degustazione e di educazione enologica. Si è registrato così un incremento del «turismo del vino» che si muove alla ricerca di ambienti inseriti armoniosamente nel paesaggio e contemporaneamente di strutture in grado di valorizzare, ma soprattutto di raccontare, la vocazione dei luoghi1, cercando di dare una risposta a esigenze di qualità paesaggistica in grado di veicolare l’immagine dell’azienda. Infatti, a partire dalla fine degli anni Novanta, la cantina diventa oggetto di dibattito progettuale e il mondo del vino si lega anche al mondo dell’architettura, del design; se un’azienda, col suo prodotto, è simbolo di una realtà territoriale e l’architettura diventa immagine promotrice dell’azienda, ecco che per sillogismo la progettazione architettonica può essere occasione di valorizzazione del territorio o, meglio ancora, un punto d’unione da cui partire per promuovere il tutto: territorio, paesaggio, agricoltura, prodotto, oltre che se stessa. Entrano in gioco progettisti, urbanisti, ingegneri, architetti e designers e non solo: un ruolo decisivo lo svolgono le amministrazioni (locali e non) con gli appositi strumenti di governo del territorio, e gli organismi nazionali e internazionali. In ogni ambito e a ogni scala il problema principale è sempre lo stesso: le modalità di relazione tra un’opera e il suo 1 E. Boffa, A. Delpiano, Promozione del prodotto e progetto d’architettura, in «ArchAlp», n. 6, dicembre 2013, p. 31 263
paesaggio. Non si parla più solo di territorio ma di paesaggio per due ragioni: la prima è che l’oggetto del dibattito riguarda proprio la commistione tra azioni antropiche e fattori naturali, la cui interrelazione produce un determinato paesaggio; la seconda è l’importanza della componente percettiva, soggettiva delle popolazioni, che possono essere quelle locali o, come si prospetterebbe al fine di una valorizzazione a livello territoriale, quelle dei visitatori e dei turisti2. Il rapporto tra un’opera e il paesaggio in cui è collocata può rientrare in quattro categorie principali3: la sostituzione, il rapporto forte, l’integrazione e il nascondimento. La sostituzione può essere spaziale quando riguarda la modifica radicale di vaste superfici territoriali, oppure di sovrapposizione, quando un’opera ex novo copre un paesaggio preesistente. Il rapporto forte può essere di dominanza e superdominanza, nel momento in cui l’opera diventa un elemento forte di rottura nel paesaggio, portando a esiti positivi o negativi. Se l’inserimento nel paesaggio di un elemento forte è inevitabile, come può essere il caso di un viadotto in una vallata, è altresì indispensabile progettare tali opere di grande impatto dotandole di un equilibrio formale, tenendo presente che se saranno in sé armoniose potranno diventare elementi positivamente dominanti in un paesaggio. Un altro esempio di dominanza è quello della Tour Eiffel: inizialmente la sua costruzione all’interno del centro urbano diede luogo a un acceso dibattito, ma l’opera, avendo in sé le caratteristiche per acquisire un’identità propria, è poi assurta a simbolo della città di Parigi, del cui paesaggio oggi è un elemento imprescindibile. Il rapporto forte può essere anche di evidenza, ovvero quando un elemento si inserisce nel contesto creando un nuovo equilibrio; nel caso della dominanza, invece, l’elemento rimane isolato distinguendosi o per particolare pregio o per i suoi caratteri disturbanti. La terza categoria riguarda l’integrazione dell’opera nel contesto paesaggistico, che può essere a sua volta suddivisa in integrazione per non interferenza o per omogeneizzazione. Nel primo caso l’elemento introdotto è così estraneo al paesaggio che non si manifesta un conflitto, ovvero «inconsciamente» si considera l’elemento introdotto come non facente parte di quel paesaggio, tanto che, a volte, non viene neppure percepito e preso in considerazione. È il caso di elementi contemporanei in contesti storici, come ad esempio un interruttore della luce in un manufatto antico. L’integrazione per omogeneizzazione a sua volta può essere per uniformità, per mimesi o per coerenza. Sono ad esempio omogenei per uniformità costruzioni recenti realizzate con caratteri tradizionali ancora vivi e soprattutto funzionalmente validi: un esempio di omogeneizzazione per uniformità consiste nel progettare in area montana un edificio contemporaneo utilizzando tecnologie specifiche della tradizione, ma ancora funzionali, come una copertura a forte pendenza. Un classico tipo di omogeneizzazione è appunto la mimesi, ovvero la realizzazione di opere con caratteristiche e volumetrie analoghe alle costruzioni esistenti: in questo caso il rischio è quello di realizzare un falso. Talvolta, soprattutto nell’ambito del restauro, si ricorre a operazioni di mimesi. Tuttavia rendere evidente la distinzione tra il nuovo intervento e l’originale storico è fondamentale. Spesso, infatti, si ricorre a un’operazione di paramimesi, una mimesi solo parziale, per materiali o per forme, in grado di rendere più armonioso il nuovo intervento utilizzando materiali non estranei al paesaggio circostante oppure utilizzando forme e volumi che evocano costruzioni esistenti o preesistenti. Un altro caso di mimesi è la pseudomimesi che 2 «Paesaggio designa una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni». Tratto dalla Convenzione europea del paesaggio, capitolo 1, articolo 1, lettera a. 3 R. Barocchi, I rapporti opera-paesaggio, www.ilpaesaggio.eu. 264
consiste nell’imitazione di forme e stilemi che non sono di tradizione locale, una mimesi decontestualizzata: un caso di pseudomimesi potrebbe consistere in una costruzione in stile tirolese in piena pianura. L’omogeneizzazione per coerenza consente alle opere di non nascondere la propria contemporaneità, ma di inserirsi nel paesaggio senza creare un conflitto con quest’ultimo, esse risultano giustificate dalla loro inevitabile validità funzionale e armonizzate nel paesaggio tramite dimensioni e forme discrete rapportate al contesto. Un ottimo caso di coerenza è rappresentato dalla progettazione di assi stradali che seguono la morfologia del terreno. Le operazioni volte al nascondimento di un’opera possono avvenire secondo criteri di mascheramento o occultamento, optando spesso per soluzioni ipogee. Tuttavia la progettazione e la realizzazione di nuove opere interrate comporta un aumento dei costi significativo a causa dei grandi movimenti di terra inevitabili; inoltre vi è spesso l’obbligo di restituire al terreno la sua forma originaria, per garantirne la sua funzionalità. In ogni categoria che descrive il rapporto opera-paesaggio si possono evidenziare ugualmente esempi positivi o negativi, mentre il valore paesaggistico di un’area può suggerirci in maniera indicativa quali rapporti possano essere ammissibili e quali no4. Ovviamente i siti di alto pregio paesaggistico, come quelli a cui è stato riconosciuto il valore di Patrimonio Mondiale Unesco, richiedono particolare attenzione e sensibilità. L’Italia è un caso unico a livello mondiale, può vantare infatti, in questo ambito, un patrimonio vasto ed eterogeneo, spesso preda di incoscienza e scarsa informazione. Il 22 giugno 2014, durante il 38° World Heritage Committee a Doha in Qatar, «I paesaggi vitivinicoli del Piemonte: Langhe-Roero e Monferrato» sono stati riconosciuti parte del patrimonio mondiale e inseriti nella World Heritage List dell’Unesco. Si tratta del 50° sito Unesco dichiarato in Italia e del primo paesaggio culturale vitivinicolo italiano. Il percorso di candidatura, che iniziò ufficialmente nel 2006, fu portato avanti dalla Regione Piemonte, dalle Province di Alessandria, Asti e Cuneo e dalla Direzione Regionale per i Beni Culturali e paesaggistici del Piemonte, con la supervisione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, il Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali e il supporto tecnico di SiTI (Istituto Superiore sui Sistemi Territoriali per l’Innovazione). Il sito si sviluppa in territorio collinare, coperto da vigneti e altre colture, inframmezzati da piccoli borghi di altura dove da secoli la viticoltura costituisce il fulcro della vita economica e sociale. Il sito è di tipo seriale, costituito da sei aree, le ‘componenti’, articolate all’interno dei confini delle province di Alessandria, Asti, Cuneo e di ventinove comuni, per un’estensione complessiva pari a 10.789 ettari5. Nel loro insieme le zone individuate costituiscono la qualità eccezionale del paesaggio vitivinicolo piemontese e della sua profonda e viva cultura del vino. Le componenti presentano specifici caratteri naturali, antropici e percettivi che nella loro essenza e nelle reciproche relazioni concorrono a ritrarre i diversi aspetti della millenaria «cultura del vino», su cui si è plasmato il paesaggio attraverso una continua relazione tra uomo e natura. È proprio questo forte rapporto che caratterizza l’area come «paesaggio culturale»6. Le componenti sono state selezionate anche per i molteplici elementi storico4 F. Larcher, Prendere decisioni sul paesaggio: sperimentazione interdisciplinare per la gestione del paesaggio viticolo, Franco Angeli, Milano, 2012. 5 M. Gibellino, M. Leto, Le zone vitivinicole e l’Unesco. Il caso studio: Langhe, Roero e Monferrato, tesi di laurea, rel. Guardamagna Laura, Torino, luglio 2011. 6 La convenzione Unesco definisce i paesaggi culturali come «opere congiunte dell’uomo e della natura che illustrano l’evoluzione della società umana e dei suoi insediamenti nel corso del tempo, per effetto di condizionamenti fisici e/o delle possibilità offerte dal loro ambiente naturale, dalle forze sociali, economiche e culturali successive, esogene ed endogene». 265
insediativi e architettonici: i borghi, i nuclei rurali, le tipologie costruttive, i castelli, le chiese e i sacri monti. L’Associazione per il Patrimonio dei Paesaggi Vitivinicoli di Langhe-Roero e Monferrato, costituitasi nel Gennaio 2011, ha lo scopo di coordinare tutte le attività di governance, dalla promozione della candidatura alla pianificazione integrata dei progetti che riguardano il sito; è quindi incaricata dell’attuazione delle strategie e dei progetti del Piano di gestione e del relativo Piano di Monitoraggio. Inoltre quest’anno Expo 2015 attirerà nel nord Italia milioni di visitatori tra maggio e ottobre, i mesi più favorevoli per Monferrato, Langhe e Roero per quanto riguarda la visita e la degustazione di prodotti. Si tratta quindi di non una, ma due occasioni per promuovere, valorizzare e conoscere il territorio. Una tematica fondamentale per territori produttivi con equilibri così fragili, ancora da affrontare in maniera sistematica per amministrazioni locali e residenti, è costituita dai capannoni legati alla produzione vitivinicola e di altre colture, spesso prefabbricati ed estranei a questo sorprendente paesaggio collinare. In particolare ci siamo concentrati sull’area del Monferrato in cui è presente un numero considerevole di edifici produttivi prefabbricati, in totale dissonanza con il paesaggio circostante e con le tipologie costruttive degli edifici rurali tradizionali. Il paesaggio monferrino è stato esposto, a partire dalla seconda metà del secolo scorso sino ai giorni nostri, a trasformazioni non rispettose, a forti pressioni omologatrici7, a fenomeni di disordine edilizio e di commistione caotica tra edificato e coltivato, che hanno offuscato specificità ed eccellenze tanto da rendere irriconoscibili molti paesaggi storici di tradizione secolare. In questo quadro poco incoraggiante, ci sono tuttavia voci controcorrente e, tra queste, una figura storica nel panorama della viticoltura di Langa: Bartolo Mascarello. Queste le sue parole in una lettera a La Stampa nel 2003: Vino e territorio sono strettamente legati. Da sempre lo sanno i francesi del Bordeaux e della Borgogna il cui territorio ha subito negli anni quelle poche trasformazioni necessarie, ma sempre nel rispetto e nella continuità con un paesaggio rurale che, nel complesso, viene conservato nel tempo. Lo sanno anche alcuni produttori della California: gli americani se non hanno alle spalle la storia di un territorio se la inventano. […] Alla confluenza delle colline Brunate e Cannubi, dove si producono grandi Baroli, a suo tempo vennero costruiti, in modo peraltro assolutamente legittimo, capannoni degni delle peggiori periferie industriali. Pertanto è lecito affermare che anche il bello innalza la qualità. Il paesaggio agrario non è più solo un mezzo di produzione per i coltivatori ma è espressione dei loro stessi prodotti e della loro qualità: è un rapporto biunivoco. Osservando invece il ruolo del turista visitatore, risulta sempre più evidente una ricerca non solo legata all’enogastronomia ma anche a sensazioni ed emozioni, una vera e propria ricerca del «bello». Gli interventi invasivi già citati, effettuati negli ultimi trent’anni, non riguardano solo l’ambito dei capannoni ma l’edilizia nel suo complesso. È tuttavia necessario ricordare che questi territori, decenni fa, avevano possibilità economiche decisamente inferiori rispetto a ora (per fare un esempio, il Barolo si vendeva a un terzo dei prezzi odierni), infatti la crescita economica più significativa, relativa alla produzione vitivinicola, risale a poco più di vent’anni fa. Non vi è inoltre alcun dubbio sul fatto che i capannoni fossero la soluzione più economica, pratica e di veloce realizzazione. Infine i primi dibattiti scientifici sul territorio risalgono agli anni ‘80, di conseguenza non era ancora emersa la forte sensibilità registrabile oggi; lo stesso concetto di paesaggio, come patrimonio da promuovere e valorizzare8, è stato coniato recentemente. Oggi 7 M. De Vecchi, La qualità del paesaggio agrario per una efficace promozione delle produzioni enologiche di eccellenza. Il restauro del paesaggio attraverso la demolizione dei capannoni: il caso studio della cascina Albarossa a Nizza Monferrato, convegno organizzato dal «Centro studi sul paesaggio culturale del Monferrato», Nizza Monferrato, 17 gennaio 2015. 8 C. Tosco, I beni culturali. Storia, tutela e valorizzazione, ed. Il Mulino, Bologna, 2014. 266
nondimeno esistono le possibilità economiche e le premesse culturali per avviare in queste aree un «restauro del paesaggio». Per quanto riguarda le opere ex-novo occorre edificare in modo cauto e consapevole, considerando le esigenze di sviluppo delle aziende agricole ma escludendo tipologie e volumi dissonanti rispetto all’edilizia rurale locale, evitando il ricorso a falsi storici. Sia per la nuova edificazione sia per l’ampliamento di strutture produttive, ovviamente necessarie, la soluzione dovrebbe consistere nel relazionare l’opera al suo contesto tramite integrazione per non interferenza oppure integrazione per omogeneizzazione, in particolare per paramimesi. Queste, d’altra parte, sono le premesse per interventi dichiaratamente contemporanei inseriti in un paesaggio culturale stratificato, puntando sull’utilizzo di materiali d’avanguardia e tecnologie costruttive ad alta efficienza energetica, soluzioni originate dal nostro tempo che soddisfano i fabbisogni della società e qualificano i metodi costruttivi. Ovviamente l’importante è che interventi di questo tipo non determinino una dominanza, o peggio ancora una superdominanza, dell’opera rispetto al contesto paesaggistico. Talvolta volumi semplici e dimensioni contenute possono rappresentare la soluzione vincente, ma in alcuni casi si privilegia la spettacolarità: basti pensare a molte nuove cantine vinicole del cuneese: nelle Langhe sono stati realizzati molti progetti di noti architetti come se lo scopo delle aziende fosse l’architettura a firma celebre, un chiaro elemento di marketing per promuovere il proprio prodotto, a volte dimenticando lo specifico legame col territorio e la propria tradizione culturale. Alcuni di questi interventi, però, sviluppano positivamente proprie identità dominanti sperimentando forme audaci, spezzando le linee geometriche delle antiche case padronali, utilizzando passerelle di acciaio e amplissime vetrate, mantenendo un’armonia d’insieme e qualificando il paesaggio. Un altro accorgimento che viene spesso utilizzato nei nuovi interventi è il parziale occultamento: le opere sono ipogee, si interrano anziché innalzarsi, abbandonano la nobiltà dei grandi poderi ottocenteschi in favore di una vocazione camaleontica, che porta il manufatto a fondersi con l’ambiente. Un esempio è quello di Cascina Adelaide, progettata a Barolo da Archicura nel 2004: Una cantina silenziosa ed essenziale, completamente ricoperta dal manto erboso, da cui emergono, come squarci verso il cielo, strutture di acciaio e vetro9. È chiaro che in questo caso la perfetta mimesi ambientale non è data da forme, colori o materiali, ma dal suo quasi totale occultamento. L’occultamento è spesso considerato la soluzione ottimale per garantire il rispetto del contesto esistente, ma rappresenta solo una delle tante possibili soluzioni. Se fosse adottata unicamente quest’ottica, per ottenere il miglior risultato di mimesi paesaggistica, l’architettura sarebbe perennemente occultata, impedendo l’emergere di nuove forme e soluzioni: le architetture contemporanee possono senz’altro essere strumento di valorizzazione di un paesaggio. Tutelare il patrimonio esistente è imprescindibile, ma non per questo il paesaggio deve diventare un museo di sé stesso: il paesaggio culturale è frutto dell’azione antropica e riflette la nostra storia10, non solo passata, ma anche presente. È un bene da preservare, ma anche da valorizzare, quindi da utilizzare, vivere e ammirare: se un nuovo intervento segue le regole di una buona progettazione, ben venga. E in questo senso il Monferrato dovrebbe prendere esempio dalle Langhe. Tornando ai capannoni esistenti11 che danneggiano il paesaggio l’intervento raccomandabile è l’abbattimento (alcuni casi sono già noti nel Monferrato12); tuttavia, la 9 G. Pieroni, Mimetiche e tecnologiche, ecco le cantine integrate del Barolo, www.winepassitaly.it. 10 C. Tosco, Il paesaggio storico: le fonti e i metodi di ricerca tra medioevo ed età moderna, Laterza, Roma 2009. 11 La problematica dei capannoni non riguarda solo la viticoltura, ma si estende ad altre attività agricole e industriali. 12 S. Miravalle, Nizza Monferrato, la cascina liberata dal capannone, in «La Stampa», 14 gennaio 2015. 267
demolizione è spesso una soluzione impraticabile. L’ostacolo per le piccole realtà sta proprio nel reperimento di fondi: la demolizione è un intervento oneroso e l’edificio abbattuto dovrebbe ovviamente essere sostituito con un altro manufatto adeguato. A fronte di queste criticità è possibile intervenire sulle strutture produttive utilizzando soluzioni progettuali in grado di armonizzarle, o per lo meno limitarne la dissonanza, col paesaggio circostante. Le soluzioni adottabili sono molteplici: un parziale occultamento dell’opera tramite terrapieno, un mascheramento con cortina arborea, un rivestimento a specchio che rifletta la vegetazione circostante, un utilizzo di palette colore adeguate per la finitura degli intonaci, ecc. Questi interventi “riparatori” possono comportare costi elevati: se gli enti amministrativi avviassero politiche mirate, i produttori sarebbero incentivati a valorizzare il proprio patrimonio. L’iniziativa dovrebbe andare di pari passo a una più intensa opera di sensibilizzazione alla tutela, traendo forza dal crescente interesse della popolazione, in vista dei possibili benefici economici derivanti dalla valorizzazione dei propri prodotti e del proprio territorio. Di seguito si riportano alcuni casi di capannoni prefabbricati individuati in area monferrina.
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Progetto “Mappa emotiva” dalla presenza, all’assenza sino all’invisibile... con un passaggio per lo sconosciuto Mauro Rocchegiani
Introduzione. Necessaria teoria postuma delle mappe Postuma, perché la teoria attorno al progetto che illustrerò, come la mappa emotiva stessa, non smette, anno per anno di crescere, di arricchirsi, di modificarsi, e – perché no? – di cambiare faccia. Nuove Summer School all’Istituto Sereni, incontri con professionisti e non del settore, nuovi testi, confronti con i protagonisti stessi, docenti e studenti, esperienze inedite e inaspettate come un festival artistico permettono di far vivere e crescere, persino adattare, il percorso come un organismo. Partita come un progetto di cittadinanza attiva e rispetto del paesaggio nel piccolo paese di Monsano, l’avventura delle Mappe Emotive ha subito importanti modifiche in soli quattro anni, dimostrando, oltre all’efficacia degli scopi di partenza, un’incredibile vitalità e inaspettate direzioni.
Abitare. Trasformare. Riprodurre Partiamo dal presupposto che il paesaggio sia un volto. Il paesaggio, com’è noto, è il frutto dell’azione dell’uomo e degli eventi sul territorio, ed è quindi per questi motivi (o dovrebbe esserlo) unico e irripetibile, caratterizzato da una storia e particolari unici. Le esigenze dell’uomo, il suo lavoro, la volontà di sopravvivenza, le singole storie, unite alla Storia e agli eventi naturali hanno dato un volto peculiare a ogni territorio abitato: forze visibili, ma anche invisibili, come le tradizioni, le voci, il suono, o l’odore, il sapore, ecc., hanno contribuito a caratterizzare il paesaggio che ci circonda, donandogli un carattere riconoscibile. Il paesaggio è perciò piena rappresentazione del nostro spazio vitale concreto, del territorio costruito e plasmato in quanto nostra dimora: è sempre natura, percepita o rappresentata attraverso un insieme di idee, simboli e valori e norme, la cui origine va rintracciata nel soggetto storico1, che possono divenire immagine, simbolo. Il paesaggio è (anche) ciò che conserviamo nella memoria dopo aver smesso di guardare, come afferma Gilles de Clement. Questo viene letto attraverso un potente filtro fatto di vissuto personale e di armatura culturale. In teoria, dice 1 M. Ciampi, P. Chiozzi, Ripensare il paesaggio come incontro tra percezione soggettiva e costrutto socio-culturale, in M. de Poli e M. Incerti (a cura di), Atlante dei paesaggi riciclati, Ed. Skira, Milano, 2014, pp. 63 e segg. 271
Clément, per ogni luogo vi sono tanti paesaggi quanti sono gli individui che lo interpretano, anche se nessuno saprà mai quale emozione intima animi ciascun individuo del medesimo gruppo. È questo il volto irrimediabilmente nascosto del paesaggio. La nozione di Paesaggio, che di per sé appare già ambivalente, chiama in causa una dimensione oggettiva, costituita da cose, elementi e fenomeni presenti nello spazio geografico e una soggettiva, intesa come percezione individuale derivata dalla frequentazione di un luogo: il nostro paesaggio, come singoli, è quello osservato, vissuto, quello che percepiamo e che viene ricostruito nella nostra mente differente dal reale perché carico di significati e simboli diversi dalle altre persone che si muovono all’interno dello stesso spazio. Il paesaggio non è, in questo caso, qualcosa di puramente materiale, ma è frutto del mondo delle sensazioni: è quella porzione di territorio che per ragioni complesse, culturali, assiologiche, simboliche, mitologiche, e grazie alla presenza dell’uomo, inizia a essere pensata (Raffestin, 2005). È conseguenza di uno sguardo, che prima di essere collettivo o sociale è individuale, mutevole nel corso del tempo poiché dipende da diversi codici utilizzati: il territorio diventa paesaggio nel momento stesso in cui ci si sofferma a guardarlo (o a fotografarlo), riportandolo così entro paradigmi culturali, conoscenze, rappresentazioni2.
Costruire una mappa... Esistono due paesaggi per ciascuno di noi: quello reale, frutto della storia sul territorio, e il nostro interiore. Il paesaggio si carica così di un carattere sfaccettato e variegato che lo rende sia un soggetto con attributi propri, che un elemento capace di suscitare delle emozioni nelle persone che lo osservano e che, secondo la propria cultura, la propria idea di spazio e di natura, attribuiscono ai paesaggi valori diversi: estetici, ma anche affettivi, economici, storici e simbolici3. L’essere umano è un essere protesico, che assorbe quotidianamente nuovi elementi materiali tanto quanto immateriali per nutrire la propria esperienza di vita4 afferma Guido Incerti. Un’azione, quella dell’esperienza, che costantemente provoca trasformazioni sia nello strato psicologico e della conoscenza umana, sia a livello corporale con una fisicità che – in molte esperienze umane – ha avuto bisogno di iscrivere elementi del corpo nel paesaggio tanto quanto di iscrivere il paesaggio nel corpo, come osservato da Durkeim, circa il tatuaggio e le forme elementari di religione5. Ognuno, in base alle proprie esigenze e alla propria sensibilità, costruisce già in sé una mappa emotiva in continua variazione e trasformazione, come lo stesso paesaggio reale. Una mappa, in fondo, è solo un altro modo in cui l’uomo “adatta” il mondo circostante. Incoraggiare la realizzazione di una “mappa” aiuta le comunità a individuare le cose familiari a cui dare importanza intorno a sé, dando espressione attiva agli affetti per i posti di ogni giorno, quelli comuni, spesso non considerati6. Come le lettere e i diari, le mappe raccontano le storie umane, riflettono i punti di vista di coloro che le hanno realizzate e di quanti le utilizzano, si rivelano per quello che hanno escluso o per quello che hanno incluso, prendono per mano ognuno di noi indicando la strada giusta o quella sbagliata. Una comunità, se giustamente stimolata, riesce a esprimere se stessa in maniera efficace attraverso una “mappa” e, soprattutto, lo fa in divenire lasciandola aperta 2 Ibid., pp. 63 e segg. 3 M. Maggi, D. Murtas, Ecomusei. Il progetto, IRES, Torino 2004, in Strumentires n. 9, pp. 21-22. 4 G. Incerti, Paesaggio riciclato come paesaggio protesico, in M. de Poli e M. Incerti (a cura di), Atlante dei paesaggi riciclati, Ed. Skira, Milano, 2014, pp. 219 e segg. 5 Ibid. 6 Ecomusei. Il progetto, pp. 17 e segg. 272
alle modifiche, alle aggiunte. Proprio come un diario, appunto! La comunità, specie i giovani, che partecipa alla realizzazione di una mappa emotiva viene a conoscenza di nessi prima ignorati o visti distrattamente in un paesaggio quotidiano con proprie peculiarità, in trasformazione, non immobile, avendo la rivelazione di essere parte passiva e attiva di un ambiente che ognuno può osservare ma anche modificare. Capire porta ad amare. Una migliore conoscenza del paesaggio locale (nei suoi differenti aspetti) contribuisce ad accrescere il legame personale con esso, l’identità locale e il senso di appartenenza. Si rafforza così un atteggiamento positivo nei riguardi del luogo di vita, così come si sviluppa un più alto senso di responsabilità e una maggiore consapevolezza dell’importanza di salvaguardare i valori locali e di prendere sempre in considerazione le possibili conseguenze delle azioni dell’uomo sull’ambiente. Bambini e ragazzi giungono quindi a sentire che questo è il “loro” paesaggio e che devono prendersene cura7.
La mappa viva. Prima esperienza Da quattro anni affrontiamo, con la nostra associazione MonsanoCult, il tema delle mappe di comunità, o mappe emotive. Obiettivo generale del percorso è quello di avviare i ragazzi a una maggiore comprensione del paesaggio che li circonda; portandoli, da una visione ingenua, che somma ogni elemento senza metterlo in relazione, a una visione più complessa in cui esso risulta come una rete multiforme di elementi naturali e antropici in trasformazione su cui ogni persona proietta, in modo differente, la propria emozionalità. La volontà era di far scoprire ai più giovani quei nessi prima visti distrattamente in un paesaggio quotidiano che ha invece proprie peculiarità. La scoperta di queste relazioni umane, naturali ed emozionali è stata condotta attraverso gli occhi dei ragazzi, cercando di stimolarli affinché la comprensione fosse naturale e genuina: imporre l’amore per il proprio paesaggio, attraverso nozionismo o concetti astratti, avrebbe fatto perdere di vista lo scopo principale che è una penetrazione autentica, personale ed emotiva di quanto li circonda. Il percorso era fatto da cinque incontri, descritti in dettaglio nel Quaderno 98, ognuno prevedeva un’introduzione che fosse d’impulso ai ragazzi a intervenire e confrontarsi tra di loro. Il nostro compito era accendere l’interesse e il dibattito. Le conclusioni non erano mai definitive ma in continua trasformazione ed evoluzione, alla stregua del paesaggio che stavano riscoprendo. A casa dovevano mettere su carta quanto avevano iniziato a scuola, arricchendo in alcuni casi le parole con i disegni. I ragazzi hanno compreso che ciò che credevano di conoscere presentava in realtà molti aspetti ancora poco noti. Abbiamo invitati gli alunni a far tesoro delle loro competenze precedenti e a farle convergere con l’insieme delle consapevolezze acquisite, al fine di costruire una conoscenza condivisa del paesaggio locale (la Mappa). Si rafforza così un atteggiamento positivo nei riguardi del luogo di vita, sviluppando un più alto senso di responsabilità e la consapevolezza dell’importanza di salvaguardare i valori locali e valutare sempre le conseguenze delle azioni dell’uomo sull’ambiente. I giovani hanno capito che questo è il “loro” paesaggio e che devono prendersene cura9. Il primo risultato visibile sono state le mattonelle con gli elementi rappresentati a sbalzo, rappresentazione della loro visione 7 B. Castiglioni, Educare al paesaggio, p. 55 8 M. Rocchegiani, G. Bonini, A. Brusa, R. Pazzagli (a cura di), Mappa emotiva di Monsano, in Quaderni 9, Paesaggi agrari del Novecento Continuità e fratture Lezioni e pratiche della Summer School Emilio Sereni, pp. 293 e segg. 9 B. Castiglioni, Educare al paesaggio. Traduzione italiana del report del Consiglio d’Europa “Education on Landscape for children”, Museo di Storia Naturale e Archeologia di Montebelluna, 2010, p. 55. 273
personale ed emozionale di Monsano. Una prima fase della mappa, che avrebbe dovuto arricchirsi anno per anno con altri elementi del paese, visti dagli occhi dei giovanissimi, o con altre interpretazioni o prospettive.
La mappa assente. Seconda esperienza Al secondo anno di laboratorio abbiamo esteso la nostra collaborazione ad altre classi, aggiungendo alle seconde della scuola secondaria di primo grado “Pino Puglisi” di Monsano (AN) altre tre della scuola secondaria di primo grado dell’Istituto Comprensivo “Gioacchino Rossini” di San Marcello (AN). Dopo i canonici cinque incontri, in accordo con il professore di artistica, che si occupava della parte creativa e della realizzazione della “mappa”, abbiamo deciso di dare una sterzata al progetto. Quell’anno non avremmo realizzato una continuazione della precedente, aggiungendo elementi, ma, colpiti dalle risposte sostanzialmente contraddittorie e simili, osservate anche il precedente anno circa le mancanze della loro fetta di paesaggio che non dovrebbe mai cambiare, perché perfetto così, però..., avremmo realizzato una “mappa delle assenze”. La loro visione del paesaggio, legato ai loro ricordi di un’infanzia ancora freschissima, era quella di un luogo sicuro, di ritrovo, punto di riferimento e hortus conclusus, di crescita, a cui però manca qualcosa di indefinito. Quel “però”, di straordinaria forza nella sua apparente semplicità, evidenziava un desiderio: quello di avere voce in capitolo sulla trasformazione del proprio paesaggio. Una voce ingenua di piccoli cittadini in crescita, in linea con uno degli scopi base del nostro cammino. Così come la prima mappa dava forma alle loro visioni, alla loro interpretazione del paesaggio, la seconda mappa avrebbe dato voce ai loro desideri, ai loro suggerimenti per migliorare e salvaguardare quel volto creato da migliaia di uomini prima di loro e che loro stessi avrebbero modificato. La forma stessa della mappa sarebbe stata diversa, non più figurativa ma concettuale: ogni elemento sarebbe stato espresso con la parola che lo definiva o con un’analogia, un riferimento, un colore che lo richiamasse in qualche modo. Non più mattonelle ma dipinti, murales che hanno decorato l’interno delle rispettive scuole. 274
La mappa astratta. Terza esperienza La concezione stessa della mappa emotiva presuppone, per sua natura, un suo allargamento nel tempo grazie alle aggiunte di infiniti elementi da parte di nuovi attori. Poste come basi la creatività, il confronto assoluto e libero con gli allievi, lo scambio di prospettive con i docenti, gli spunti personali, le nuove esperienze e gli aggiornamenti (tra cui la stessa Summer School intitolata a Emilio Sereni), sono riuscito ad allargare i confini del progetto tanto che ritengo sia possibile, partendo dallo stesso scopo di conoscenza, cittadinanza, difesa del paesaggio e dei suoi simboli e storie da cui nasce il percorso, poter realizzare numerose varianti della stessa mappa emotiva. La stessa casualità degli eventi, imprevedibile, porta a considerare forme alternative, magari per necessità pratiche come la mancanza di spazio, o nel nostro caso la presenza di atti di vandalismo. Le mattonelle della prima mappa, infatti, sono state tristemente oggetto di attenzione da parte di sconosciuti teppisti che nei mesi scorsi hanno praticamente abbattuto l’intera composizione. Se da un lato tutto ciò era previsto, anzi, faceva quasi parte del piano di tutela da parte dei ragazzi e degli stessi genitori, la stupida brutalità imprevista ci ha costretti, d’accordo con la dirigente scolastica, a spostare le opere finali all’interno della scuola, al doppio scopo di proteggerle e di decorare l’interno dell’istituto, rendendo comunque gli studenti protagonisti di un’opera di abbellimento di un loro territorio. Eccoci quindi alla terza variante della mappa realizzata insieme alle le quinte classi della scuola primaria “G. B. Pergolesi” di Monsano (AN). Dopo aver affrontato le presenze (2013), gli elementi reali del proprio paesaggio, le assenze (2014), i propri desideri, ciò che manca, non c’è più, ci dovrebbe essere ecc., il progetto Mappa Emotiva 2015 si è confrontato con l’Invisibile, ossia tutto quello che c’è dietro il paesaggio e i singoli elementi che i ragazzi avevano scelto. La storia, le storie, i profumi e gli odori, le note e i canti, le lacrime e le risate, gli eventi piccoli e grandi, nascosti dietro le cose o che, magari, hanno contribuito a renderle tali. Le esigenze dell’uomo, il suo lavoro, la volontà di sopravvivenza, le singole storie, unite alla Storia, agli eventi naturali hanno dato un volto peculiare a ogni territorio abitato: forze visibili, ma anche invisibili, come le tradizioni, le voci, il suono, o l’odore, il sapore ecc, hanno contribuito a caratterizzare il paesaggio che ci circonda, donandogli un carattere riconoscibile. Al principale laboratorio è seguita, in quest’occasione, una ricerca diretta presso i testimoni (nonni, anziani, parenti, genitori ecc) del perché di questo o quell’elemento che i ragazzi avevano scelto, i motivi della sua forma, della disposizione, la sua storia, le storie legate, i sapori ecc. Come esempio ho portato il gelso, o “Moro”, legatissimo alla nostra storia locale, pianta dietro all quale ci sono i racconti delle filande, del baco da seta, delle bigattiere, dei canti, delle tradizioni nate dietro questa attività ecc. Il risultato (a oggi i lavori sono ancora in corso) sarà un enorme murales che decorerà il corridoio principale della scuola, una sorta di Libro Visivo della storia invisibile di Monsano.
La non mappa o la Cartolina al contrario. Quarta esperienza La realizzazione di una mappa, dicevamo, cerca di incoraggiare le comunità a individuare le cose familiari a cui dare importanza intorno a sé, dando espressione attiva agli affetti per i posti di ogni giorno, quelli comuni, spesso non considerati10. L’esperimento, interessante, da me condotto a Arte Fluviale 2015, a cui fui invitato dall’artista Antonella de Nisco, è stato invece quello di far creare dal nulla una mappa di un paesaggio non familiare, simile 10 Ecomusei. Il progetto, cit., pp. 17 e segg. 275
al proprio oppure totalmente diverso: immergersi in uno spazio estraneo e, fatti uscire i propri peri-scopi (dal tema della rassegna di quest’anno), osservare con gli occhi della propria esperienza e personalità spazi sconosciuti o poco frequentati per creare una mappa emotiva dello s/conosciuto. Un’esperienza condivisa tra chi è del luogo e non ha mai isolato gli elementi, legandoli a emozioni e/o ricordi e chi, provenendo dall’esterno, ha collegato quegli stessi elementi, per loro nuovi, a ricordi ed emozioni personali. Gli “osservatori” dovevano utilizzare le proprie conoscenze precedenti per trovare in elementi familiari o totalmente sconosciuti delle relazioni col proprio vissuto, con i propri ricordi, con le emozioni: un modo coscientemente soggettivo, guidato, di scoprire un mondo nuovo. Armati di block notes, colori, pennelli, matite, ma anche di materiale riciclato, alluminio, carta fotografica, nastro colorato, pagine di riviste ecc., piccoli gruppi di persone, autoctoni e no, sono partiti alla scoperta di un modo diverso e cosciente di osservare quanto ci circonda, riempiendolo però dei loro significati: un albero, il fiume, notati distrattamente fino ad allora o totalmente inediti alla nostra vista, possono riportare alla nostra mente ricordi, emozioni, relazioni totalmente soggettive e automatiche che hanno creato una mappa emotiva unica e potente. Un’opera d’arte comunitaria, in cui altri osservatori, in un continuo rimando, troveranno altri simboli; la casualità di emozioni, di esperienze uniche che convergono in una mappa che sarà simile alla foto di un turista, una cartolina al contrario, invitata dal viaggiatore agli abitanti del luogo visitato. Aver appeso gli elementi della mappa a un filo sospeso tra due alberi, oltre al senso di forte provocazione estetica, ha dato quel tocco in più di provvisorietà, di effimero e insieme di opera in costruzione, in divenire, nonché simbolicamente di un legame, una rete tra l’osservato, il paesaggio e il Po, forte sullo sfondo, e la sua rappresentazione. Non posso che essere pienamente soddisfatto della riuscita dell’esperimento che per sua stesa natura rimane incompiuto, aperto ad altre aggiunte mimetiche o verbali; nello stesso spazio fisico o in uno diverso; successive temporalmente anche a distanza di mesi e di anni. La provocazione è lanciata, la mappa può morire o rinascere altrove. Ora, probabilmente, non rimangono che ricordi e foto, e questo testo; ma potenti, almeno in chi scrive, come sculture di marmo.
Non finale Quattro esperienze in altrettanti anni fanno ben sperare sulle possibilità future di questo tipo di laboratori che, voglio precisare ancora una volta, tende a privilegiare la creatività e l’osservazione degli allievi senza forzature o imposizioni dall’alto di nessun tipo. Quello che viene fornito dall’operatore, in questo caso io, sono linee guida a cui seguono le riflessioni degli alunni, le loro elaborazioni di quanto hanno osservato unite alle loro conoscenze scolastiche e non. Non esiste un risultato giusto o sbagliato parlando di emotività legata all’osservazione del proprio paesaggio, non possiamo quantificare il tipo di relazione personale che ciascuno ha stabilito con lo spazio che occupa vivendo e muovendosi; qualcuno ha avuto la fortuna di crescere immerso nelle campagne e nella loro vitalità, stando a contatto con i nonni o gli anziani che ancora praticano, anche parzialmente, il mestiere di contadino; altri crescono in ambienti sterili, influenzati da genitori che si vergognano del loro passato legato ai campi e cercano di dimenticarlo. Il nostro non è un esperimento, non è uno studio, ma uno stimolo. A cogliere le diversità in quello che anche una brevissima esperienza di vita ha appiattito; ad amare quella enorme cassa di risonanza emotiva che è il paesaggio; a comprendere che c’è una enorme differenza tra quanto è realmente naturale e quanto invece plasmato dall’uomo, 276
differenza che i testi scolastici non approfondiscono a sufficienza; a proteggere il proprio futuro osservando quanto di brutto si confonde in mezzo al bello. Ci hanno accusato di fare politica: è vero! Perché insegniamo ai ragazzi a essere piccoli protagonisti di una vita che passerà entro pochi anni in mano loro e quindi a essere pronti a prendere le giuste decisioni, evitando le distrazioni e le distruzioni di chi ha deformato quel bel volto che è il paesaggio che li saluta dalla loro finestra.
Progetto “Mappa emotiva dell’Invisibile” Il paesaggio non è solo l’insieme degli oggetti materiali visibili, ma in esso si può riconoscere, quale parte integrante, anche una componente non materiale fatta di valori, di attributi, di significati. Il paesaggio può essere considerato come un sistema di segni da interpretare: esistono dei significanti (oggetti = elementi del paesaggio), dei “datori di senso” (chi osserva, chi vive il paesaggio) e dei significati attribuiti al paesaggio nel suo insieme e ai suoi singoli elementi. Benedetta Castiglioni, Per la lettura e l’interpretazione del paesaggio, in Geografia dell’ambiente e del paesaggio. Destinatari: i ragazzi delle seconde classi, di Monsano e di San Marcello, perché dispongono delle basi scolastiche per affrontare il tema del paesaggio e perché si trovano a vivere un’età di passaggio tra l’infanzia e l’adolescenza, in cui il rapporto con il proprio ambiente, che da spazio di giochi si amplia enormemente, cambiando la funzione di luogo relazionale, si fa più sensibile e delicato. Partenza del progetto: possibilmente novembre, in particolare per la classe di Monsano, in modo da poter terminare i murales, frutto del laboratorio, per l’inizio di Gennaio, data probabile dell’inaugurazione della seconda nuova aula Durata: 5 (o 4) ore di lezione/laboratorio tenute dal dott. Mauro Rocchegiani, in collaborazione con i professori di Italiano e Geografia, a cui seguiranno le ore di artistica dedicate alla realizzazione di murales, di mattonelle o di altri manufatti o opere pittoriche.
Coscienza – sensibilizzazione In queste sei ore i ragazzi della seconda classe della Scuola secondaria di primo grado verranno avviati a una maggiore comprensione del paesaggio che li circonda, portandoli da una visione ingenua che somma ogni elemento senza metterlo in relazione a una visione più complessa, in cui il paesaggio risulta come un una rete multiforme di elementi naturali, antropici in trasformazione su cui ogni persona proietta, in maniera differente, la propria emozionalità. Il paesaggio come luogo capace di riflettere le conoscenze e il risultato delle attività umane su di una base geologica – la forma del territorio, la sua composizione – ed ecologica – la vegetazione presente, la fauna – e capace di essere fonte di ispirazione per la sensibilità degli individui che su di esso proiettano i propri desideri, che si aspettano di trovare un’opportunità per vivere, lavorare e riflettere e, insomma, un insieme di stimoli e tranquillità. Il paesaggio si carica così di un carattere sfaccettato e variegato che lo rende, sia un soggetto con attributi propri, che un elemento capace di suscitare delle emozioni nelle persone che lo osservano e che, a seconda della propria cultura, della propria idea di spazio e di natura, attribuiscono ai paesaggi valori diversi: estetici, ma anche affettivi, economici, 277
storici e simbolici11. Il giovane verrà a conoscenza, scoprendolo da solo attraverso domande, disegni, discussioni ecc., di nessi prima ignorati o visti distrattamente in un paesaggio quotidiano con proprie peculiarità, in trasformazione, non immobile, avrà la rivelazione di essere parte passiva e attiva di un ambiente che ognuno può osservare ma anche modificare. La scoperta di queste relazioni umane, naturali ed emozionali verrà condotta attraverso gli occhi stessi dei ragazzi, cercando di stimolarli e di intervenire il meno possibile affinché la comprensione sia il più naturale possibile e sincera, genuina: imporre l’amore per il proprio paesaggio attraverso nozionismo, o concetti che potrebbero risultare troppo astratti farebbe perdere di vista lo scopo principale del progetto che è una penetrazione autentica, personale, soggettiva ed emotiva di quanto circonda ogni giovane.
Rispetto/valorizzazione Capire porta ad amare. Esplorando i paesaggi a loro vicini realizzeranno che ciò che credevano di conoscere presenta in realtà molti aspetti ancora poco o per niente noti. E questa esperienza può risultare veramente avvincente. Verranno, infatti, invitati a far tesoro delle loro conoscenze precedenti (in questo modo attribuendo loro maggior valore) e a farle convergere con l’insieme delle conoscenze e delle informazioni acquisite, al fine di costruire una conoscenza condivisa del paesaggio locale (la Mappa). Come già affermato, una migliore conoscenza del paesaggio locale (nei suoi differenti aspetti) contribuisce ad accrescere il legame personale con esso, l’identità locale e il senso di appartenenza. Si rafforza così un atteggiamento positivo nei riguardi del luogo di vita, così come si sviluppa un più alto senso di responsabilità e una maggiore consapevolezza dell’importanza di salvaguardare i valori locali e di prendere sempre in considerazione le possibili conseguenze delle azioni dell’uomo sull’ambiente. Bambini e ragazzi giungono quindi a sentire che questo è il “loro” paesaggio e che devono prendersene cura12. Risultato visibile e concreto del laboratorio saranno le opere (murales, mattonelle ecc.) create dai ragazzi, rappresentazione della visione personale di ogni ragazzo della propria visione emozionale di uno o più elementi del paesaggio scelto, della sua storia, dei suoi significati, delle sue relazioni. Tali opere saranno poste a Monsano, presso il parco urbano “Pino Puglisi” oppure all’interno delle pareti della scuola di Monsano e San Marcello, e formeranno una mappa emotiva diffusa del paese. Come le lettere e i diari, le mappe raccontano le storie umane, riflettono i punti di vista di coloro che le hanno realizzate e di quanti le utilizzano, si rivelano per quello che hanno escluso o per quello che hanno incluso, prendono per mano ognuno di noi indicando la strada giusta o quella sbagliata. La realizzazione di una mappa cerca di incoraggiare le comunità a individuare le cose familiari a cui dare importanza intorno a sé, dando espressione attiva agli affetti per i posti di ogni giorno, quelli comuni, spesso non considerati13. Questa mappa, che si completerà negli anni, sarà la versione personale del mondo di ciascuno studente, che privilegerà i luoghi o gli elementi intorno a sé e verrà arricchita da altri luoghi, o dalle altre interpretazioni di uno stesso posto. Per queste ragioni la regola fondamentale da cui si parte è l’affermazione che ogni mappa, per essere tale, deve essere soggettiva. È la loro soggettività – data tanto dallo scegliere gli elementi che verranno rappresentati che dalla modalità individuata per 11 M. Maggi, D. Murtas, Ecomusei. Il progetto, pp. 21-22. 12 B. Castiglioni, Educare al paesaggio, p. 55. 13 Ecomusei. Il progetto, pp. 17 e segg. 278
disegnarle – che rende le mappe speciali. Solo così potranno servire a guardare con nuovi occhi i luoghi quotidiani, incoraggiando a celebrarli e a proteggerli. Solo così serviranno a condividere che cosa sia importante e che cosa abbia bisogno di azione14.
Mappa Emotiva dell’invisibile Nel 2015, dopo aver affrontato le presenze (2013), ovvero gli elementi reali del proprio paesaggio, le assenze (2014), ossia i propri desideri, ciò che manca, non c’è più, ci dovrebbe essere ecc., il progetto Mappa Emotiva affronterà l’invisibile (2015): tutto ciò che c’è dietro il paesaggio e i singoli elementi che i ragazzi andranno a scegliere e osservare. La storia, le storie, i profumi e gli odori, le note e i canti, le lacrime e le risate, gli eventi piccoli e grandi nascosti dietro le cose o che, magari, hanno contribuito a renderle tali. Il paesaggio, com’è noto, è il frutto dell’azione dell’uomo e degli eventi sul territorio ed è, quindi, per questi motivi (o dovrebbe esserlo) unico e irripetibile, caratterizzato da una storia e particolari unici. Le esigenze dell’uomo, il suo lavoro, la volontà di sopravvivenza, le singole storie, unite alla Storia, agli eventi naturali hanno dato un volto peculiare a ogni territorio abitato: forze visibili ma anche invisibili come le tradizioni, le voci, il suono, o l’odore, il sapore ecc. hanno contribuito a caratterizzare il paesaggio che ci circonda, donandogli un carattere riconoscibile. Al laboratorio di analisi, scomposizione, ricostruzione, comprensione ecc., del paesaggio visto dalla propria finestra seguirà quindi, una volta scelto un elemento rappresentativo del proprio paese e del proprio vissuto, una ricerca diretta presso i testimoni del perché di questo o quell’elemento, i motivi della sua forma, della disposizione, la sua storia, le storie legate, i sapori ecc. Es. Dietro il gelso, o “Moro”, ci sono le storie delle filande, del baco da seta, delle bigattiere, dei canti, delle tradizioni nate dietro questa attività ecc. Quale che sarà la forma della futura Mappa Emotiva dell’invisibile, il risultato sarà comunque un Libro Visivo della storia invisibile di Monsano, San Marcello, Morro d’Alba, Belvedere Ostrense ecc.
14 Ivi. 279
Bibliografia B. Castiglioni, Educare al paesaggio. Traduzione italiana del report del Consiglio d’Europa “Education on Landscape for children”, Museo di Storia Naturale e Archeologia di Montebelluna, 2010. M. Ciampi, P. Chiozzi, Ripensare il paesaggio come incontro tra percezione soggettiva e costrutto socio-culturale, in M. de Poli, M. Incerti (a cura di), Atlante dei paesaggi riciclati, ed. Skira, Milano, 2014. M. Maggi, D. Murtas, Ecomusei. Il progetto, IRES, Torino, 2004, in Strumentires n. 9. M. Rocchegiani, G. Bonini, A. Brusa, R. Pazzagli (a cura di), Mappa emotiva di Monsano, in Quaderni 9. Paesaggi agrari del Novecento Continuità e fratture Lezioni e pratiche della Summer School Emilio Sereni. E. Musci, Il laboratorio con le fonti e le narrazioni iconografiche, in P. Bernarducci e F. Monducci (a cura di), Guida alla didattica del laboratorio storico, Utet Università, Novara, 2012. E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Ed. Laterza, Bari – Roma, 1961. C. Tosco, Il paesaggio storico, Ed. Laterza, Bari – Roma, 2011.
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PARTE V I PAESAGGI DEL CIBO
L’evoluzione dell’agricoltura italiana la trasmissione del patrimonio di valori ambientali, etici sociali punto di forza per la ricostruzione di un modello di sviluppo Alessandro Cantarelli
Giovedi 18 giugno a Milano presso l’auditorium di Palazzo Italia ad EXPO 2015, in occasione della seconda giornata “CIA in EXPO” della Confederazione Italiana Agricoltori, ho avuta l’opportunità di esporre alcune riflessioni sull’evoluzione del nostro settore primario. Ho parlato su invito dell’Istituto “Alcide Cervi”-Biblioteca archivio “Emilio Sereni” di Gattatico (Re), istituzione che proseguendo nel solco della tradizione sereniana, ha tra i propri scopi lo studio dell’evoluzione agricola e del paesaggio agrario. Sull’argomento in oggetto –di per sé molto ampio-, si erano confrontati negli ultimi anni diversi ed autorevoli esperti nelle Scienze Agrarie presso la biblioteca “Antonio Bizzozero” di Parma, incontri patrocinati dal Comitato per Expo 2015 ed ai quali avevo fornito il mio contributo1. Altrettanto utili occasioni di confronto, furono rispettivamente il convegno intitolato “Le Scienze agrarie tra ogm e colture alternative” che ebbe luogo a Firenze nel 20132, così come quello tenuto nel novembre 2014 presso l’Accademia Nazionale delle Scienze, Lettere ed Arti di Modena sul contributo della nuova agricoltura in tema di cibo, ambiente ed energia (maggiori ragguagli possono trovarsi consultando Agrarian Sciences). Sulla scorta di quanto emerso, ho provato allora a delineare il mio intervento milanese, nella consapevolezza che la trattazione nei tempi stabiliti, determinava necessariamente la scelta solo di alcuni argomenti, attorno ai quali provare a svolgere alcuni ragionamenti. È stato individuato nel periodo che va dall’Unità d’Italia ai giorni nostri, l’arco temporale utile alla trattazione. Un’Italia agricola che a fine Ottocento si presentava come il Paese delle “cento diverse agricolture” (ma ancora oggi il grado di eterogeneità è notevole, Fig. 1), a diverso grado di specializzazione/innovazione, in diversi casi con moduli produttivi assai 1 Presso la biblioteca “A. Bizzozero” di Parma, nel periodo 2011-2014 si sono tenuti, seguendo il filo conduttore dell’evoluzione agricola ed in successione temporale, i seguenti convegni: “I Georgofili a Parma. L’Accademia dei Georgofili e lo sviluppo delle Scienze agro-alimentari”; “Viaggio attraverso un secolo di agricoltura parmense: da Bizzozero all’agricoltura moderna”, con presentazione del vol. VI° della “Storia delle Scienze Agrarie” di Antonio Saltini; “Agricoltura sostenibile. Principi, sistemi e tecnologie applicate all’agricoltura produttiva per la salvaguardia dell’ambiente e la tutela climatica”; “Il Novecento: la sfida tra le conoscenze agronomiche e la crescita della popolazione del Globo”, presentazione del vol. VII° della “Storia delle Scienze Agrarie” di Antonio Saltini; Presentazione del volume “Entomologia Applicata” di Aldo Pollini. Tutte le relazioni si possono trovare all’indirizzo: http://www.biblioteche.comune.parma.it/civica/it-IT/Fondo-Biblioteca-Bizzozero.aspx 2 Le scienze agrarie tra ogm e agricolture alternative. Firenze 19/04/2013 http://www.agronomiperlaterra. it/cosa%20facciamo.html 283
arretrati rispetto alle altre nazioni europee3.
Fig. 1. Bovini al pascolo in Gallura. L’attività di allevamento come quella di coltivazione presenta in Italia situazioni assai diversificate. Foto Cantarelli
Sorgono in questo contesto storico i primi Comizi Agrari e successivamente le Cattedre Ambulanti di Agricoltura; è soprattutto grazie all’intervento di queste ultime se in diverse realtà provinciali, dopo l’atto fondativo della Federconsorzi avvenuto a Piacenza nel 1892, nascono i primi Consorzi agrari (quasi sempre i direttori delle Cattedre sono stati anche i primi direttori degli erigendi Consorzi agrari). I Consorzi rappresenteranno una formidabile leva di sviluppo per l’agricoltura italiana4, ma su questa epopea storica sarebbe opportuno svolgere un’intera trattazione a parte. È stata quindi richiamata l’attenzione su tre figure di Patrioti che oltre all’avere assunto importanti incarichi politici, hanno anche apportato miglioramenti nel settore agricolo: mi riferisco –in ordine cronologico–, al marchese Cosimo Ridolfi già Presidente del Consiglio del Granducato di Toscana e nominato successivamente per meriti senatore del Regno, insigne agronomo di levatura europea. A seguire il 1° e 2° Presidente del Consiglio d’Italia, ossia Camillo Benso conte di Cavour, il tenace sperimentatore di nuove tecniche agricole presso la propria tenuta di Leri, quindi il barone Bettino Ricasoli, l’insigne Georgofilo perfezionatore presso la propria tenuta di Brolio della formula del Chianti. Personaggi politici che l’agricoltura la tenevano in debita considerazione innanzitutto perché la conoscevano molto bene e la studiavano, a differenza della classe dirigente (intesa nella più ampia accezione), dei decenni a cavallo tra il Novecento e gli anni Duemila, fino arrivare ai giorni nostri. 3 A. Saltini, Storia delle Scienze Agrarie, vol. VI°. Le derrate agricole al centro del confronto scientifico e mercantile tra le potenze industriali. Nuova Terra antica, Firenze, 2012, p. 242. 4 A. Saltini, Istituzioni agrarie e progresso nelle campagne. Nasce a Piacenza il moto di rinnovamento nazionale. Edizioni Spazio Rurale, Viterbo, 2006. 284
Naturalmente in oltre centocinquant’anni dalla proclamazione dell’Unità nazionale, va rilevato che il peso del settore agricolo sul totale degli occupati é drasticamente calato: il settore agricolo sul totale dei lavoratori attivi occupa (dati dell’ultimo trimestre 2014) circa il 3,6%, mentre per paragone, si pensi che nel 1860 era di circa il 60%, nel 1951 era di circa il 43% e nel 1981 attorno al 13% (dati ISTAT). Questo fatto però, può spiegare solo in parte il perché, considerando ad es. gli ultimi tre decenni, il mondo politico al di là di circoscritti proclami elettorali abbia derubricato il settore primario dalle priorità della politica nazionale (agricoltura si vede che fa meno appeal di ambiente o cibo). In parte si potrebbe rilevare, con un certo disincanto, che in quasi settant’anni di storia repubblicana, nessun governo sia mai caduto per le dimissioni del Ministro dell’Agricoltura. Anzi, nel 1993 si decise (unico Paese al mondo a seguito dell’esito di un referendum popolare, con circa una ventina di quesiti), di abolire “l’inutile” Ministero dell’Agricoltura e Foreste –MAF– (il ministero agricolo fu antesignano degli enti da abolire, argomento così di moda oggigiorno, ma a più di 20 anni di distanza si può ancora sostenere che fu un successo?), in realtà mai abolito, ma più volte rinominato col risultato di delegare alle Regioni e ad altri Ministeri diverse funzioni che gli erano proprie. Sta di fatto che il magro risultato di questa, per dirla col Prof. Scaramuzzi di altre “disattenzioni”5, è stato quello di avere da un lato una bilancia agroalimentare sempre più negativa, dall’altro un territorio sempre più dissestato idrogeologicamente (l’agricoltura non produce esclusivamente beni alimentari o fibre, ma è anche essenziale per la tenuta del fragile territorio italiano, come stanno purtroppo mostrando le sempre più frequenti cronache di ricorrenti alluvioni), oltre a considerazioni di carattere economico più generali, ma altrettanto importanti. È allora francamente difficile riconoscere il valore di una “evoluzione” della politica agraria nazionale, piuttosto di una “involuzione” e, non a caso, tra i problemi ricorrenti delle nostre aziende spesso viene citato l’eccesso di burocrazia. Ma lasciando per un momento queste vicende, per tornare invece al tema centrale dell’EXPO “Nutrire il Pianeta”, mi è sembrato opportuno passare ad alcune immagini di quello che per diversi secoli è stato un glorioso simbolo dell’agricoltura padana (milanese, ma più in generale lombarda e piemontese soprattutto): la marcita lombarda (Fig. 2).
Fig. 2. Sistemazione irrigua ad “ala doppia” nel milanese, con un prato a marcita. Foto A. Cantarelli. 5 F. Scaramuzzi, Un grande errore: demolire l’agricoltura. Improvvide “disattenzioni” e un futuro sconvolgente. Prolusione per l’inaugurazione del 262° A.A. dell’Accademia dei Georgofili, Firenze, P.zzo Vecchio, 13/04/2015. http://www.georgofili.it/download/1536.pdf 285
Introdotta nel XIII° secolo dai monaci Umiliati dell’Abazzia di Viboldone e successivamente diffusa dai monaci Cistercensi e Benedettini delle Abazzie di Chiaravalle e Morimondo, essa rappresentò l’esempio di un perfetto equilibrio idraulico ed agronomico, potendo contare da una parte sull’abbondante presenza delle acque di risorgiva (che alle temperature di 10-12°C consentivano una certa attività vegetativa anche durante l’inverno –la cosidetta irrigazione iemale–, con temperature anche inferiori agli 0°C), dall’altra su una fitta rete di rogge, canali, fossi e fossetti adacquatori e colatori funzionali a quel particolare tipo di praticoltura irrigua. Espressione dell’epoca del tutto fatto a mano, si consideri che fino ai primi anni del Novecento il rapporto uomo/ha coltivabili era di 1 a 3 (mentre un bergamino mungeva a mano 10-15 capi), contro l’1 a 40-50 nel caso di azienda con allevamento e l’1 a 70-80 nel caso di azienda in monocoltura “solo” cento anni dopo. Dalla marcita si potevano ottenere fino a 8-10 tagli di foraggio all’anno (un vero prodigio per quei tempi!), consentendo in questo modo di aumentare il n° di capi allevabili e le produzioni ad essa correlate (carne, latte e formaggi, come quello grana). Il fondo agricolo che al proprio interno comprendeva il prato a marcita (nel 1950 erano censiti circa 25.000 ha, a fronte delle poche decine attuali), aveva il suo fulcro nella cascina, che in particolare nel tipo chiuso “a corte”, ha rappresentato l’espressione di un fenomeno socio-economico-produttivo senza eguali al mondo6. Se da un lato le cascine rappresentavano “immensi depositi di fatiche “ (Carlo Cattaneo), dall’altro erano ognuna una comunità vitale di persone, suddivise per mansioni e quindi per categoria sociale (oltre naturalmente al padrone, in una breve rassegna non esaustiva si ricordino in sommario ordine gerarchico il fattore, l’affittuario, il cavallante, il bergamino, il camparo il bozzolone, lo strapazzone, l’avventizio, l’obbligato, ecc., in cascina ognuno con la propria famiglia). Il lavoro dalle cascine ha permesso lo sviluppo di un intero territorio e disegnato le campagne della pianura padana. Non è stata quindi una casualità se attorno alle cascine ed ai “grassi” prati lombardi, si siano create quelle condizioni che hanno portato alla edificazione (anche nel senso del mattone, n.d.a), di un’intera economia che attirava persone anche da fuori, con la nascita di nuovi mestieri ed inevitabilmente centri urbani sempre più grandi. La forte competizione esercitata dagli altri settori produttivi per l’accaparramento delle risorse umane e materiali (ossia braccia e capitali), in particolare dal secondo dopoguerra, ha purtroppo determinato lo scardinamento dell’antica comunità cascinale, un patrimonio generato da relazioni vive (e con essa i costumi, le tradizioni ed il forte senso di identità, che dal “sistema-cascina” traevano origine). Quell’antica cultura che faceva del lavoro, della saggezza e dell’iniziativa i pilastri della convivenza tra gli uomini, quella che Carlo Cattaneo definiva incivilimento. La cascina era ed é la risultante dell’incontro fra l’uomo produttore, la terra ed il luogo. Nelle metropoli che sono cresciute e che hanno progressivamente fagocitato la campagna padana, si è diffuso un modello di vita urbana che ha teso a spersonalizzare e disumanizzare i singoli individui, acuendo forme di indifferenza nei riguardi della comunità che li circonda, quando non aperte manifestazioni di solitudine e desolazione7. 6 E. Cantù (a cura di), La Società agraria di Lombarda, la storia, l’anima, l’evoluzione della Cascina. Società Agraria di Lombardia. Grafiche Eurostampa, Milano, 2013. 7 L’Italia della solitudine e della burocrazia. In E. Biagi (in collaborazione con L. Mazzetti), L’Italia del ‘900 (1964-1967), Rizzoli, Milano 2007, pp. 118-120; Una domenica a Cinisello Balsamo. In E. Biagi, op.cit. (1972-1975), pp. 184-186. E. Brocchieri, La vita nella Cascina cremonese. In E. Cantù (a cura di), op.cit, pp. 63-76; E. Cantù, La vita e il lavoro nella Cascina all’inizio del XX secolo. Ibidem, pp. 7794; E. Cervi Ciboldi, La Cascina lombarda oggi. Ibid., pp. 95-104; F. Presicci, Poche lire e un piatto di minestra. Ibid., pp. 57-62. 286
Il mondo agricolo quindi cambia; non c’è allora da meravigliarsi se gli stessi prati a marcita –che nella sistemazione ad “ala doppia” avevano trovato la loro massima espressione tecnica–, siano stati progressivamente rotti o abbandonati, a seguito di una serie di cause, che brevemente richiamate possono di seguito essere così riassunte: la scarsa predisposizione alla meccanizzazione colturale, l’ottenimento di unità foraggere ad un minore costo ed in maggiore quantità, ad esempio con gli insilati di mais, e l’acqua presente in minore quantità e qualità (in particolare sul finire degli anni sessanta del secolo scorso, sono stati rilevati dalle analisi chimiche delle acque, diversi inquinanti che “bruciavano” il cotico erboso e/o avvelenavano il bestiame che si alimentava con quel foraggio). È allora grazie alla tenacia di alcuni agricoltori, anche attraverso gli aiuti previsti nelle ultime programmazioni dei Piani di Sviluppo Rurale (P.S.R)8, se alcuni bellissimi esempi di marcita si possono ancora osservare (in questo, gli effetti positivi di qualche azzeccata politica ambientale, compresi i depuratori, ha sortito effetti positivi). I prati a marcita, oltre a rappresentare un importante riferimento storico-culturale e di identità territoriale, sono un tangibile esempio di come anche all’interno di una moderna azienda zootecnica possano ancora convivere orientamenti colturali diversificati (fig. 3).
Fig. 3. Robot di mungitura negli spazi dell’antica cascina lombarda, ancora contornata da marcite. Contributi mirati dai P.S.R. per strutture e dotazioni meccaniche, possono essere di grande aiuto per favorire l’ammodernamento delle imprese agricole ed il recupero dell’edilizia rurale. Foto Cantarelli.
Prendendo per vero l’assunto secondo il quale “del vecchio si deve tenere solo ciò che vale”, in quest’ultimo caso la presenza del prato marcitoio, opportunemente valorizzato, può contribuire a tipicizzare maggiormente le produzioni aziendali ed aumentare il loro valore 8 A. Cantarelli, I nuovi P.S.R rilanceranno l’agricoltura italiana?, 2014. http://agrariansciences. blogspot.it/2014/10/i-nuovi-psr-rilanceranno-lagricoltura.html 287
aggiunto, oltre all’esercitare un’importante rilevanza paesaggistico-ambientale, ancora meglio se posta all’interno di un comprensorio dove l’attività agricola possa venire valorizzata, dagli strumenti di programmazione territoriale e di salvaguardia comunitaria9. La richiesta da parte di chi non vive in campagna di attività a contatto con la “natura”, stanno d’altra parte sempre più orientando le aziende ad effettuare oltre alle produzioni agricole, anche delle produzioni di servizi (esempi ne sono l’agriturismo, la vendita diretta, le fattorie didattiche, le manutenzioni varie ecc.), soprattutto nelle aree attorno alle città. In questo contesto il recupero e la valorizzazione della struttura storica del paesaggio agrario, operata con dedizione, sapienza e orgoglio dagli agricoltori che sono rimasti in cascina, otterrebbe il risultato di un crescente apprezzamento da parte della popolazione cittadina: aspetto non trascurabile per quelle realtà che volessero instaurare rapporti con il pubblico10. Ma l’agricoltura del bel Paese significa anche (a livello territoriale si può dire soprattutto), la coltivazione delle terre declivi. A tale fine è utile ricordare quelli che ancora oggi costituiscono validi criteri sistematori, dal punto di vista paesaggistico tra i più belli esempi del paesaggio agrario italiano (ed icone di quello toscano, umbro, delle Langhe ecc.), che conservano appieno la loro funzione agronomica. Come non menzionare le sistemazioni a “gradoni”, a “ciglioni”, a “cavalcapoggio”, a “girapoggio”, la “unita a spina” ecc., create in circostanziate situazioni e luoghi, hanno concretato uno scenario sistematorio quanto mai ricco lungo tutta la penisola. Il triangolo che ha avuto per vertici Pisa, Firenze e Siena può considerarsi la “culla” delle sistemazioni di collina. Peculiari risultano le esperienze che si sono succedute nei pressi di San Miniato nel pisano, dove nella seconda metà del XVIII sec. il curato del beneficio di S.Angelo Montorzo don Giovan Battista Landeschi i con terreni dominati dalle argille plioceniche (e per questo tale tipologia di collina viene definita “tipica”), ha apprestato la sistemazione a “ciglioni”, applicando i principi innovatori della sistemazione per traverso11. Egli era rimasto molto impressionato dagli esiti delle disastrose alluvioni che avevano afflitto il territorio sanminiatese negli anni 1766–1768, oltre il considerare che la pressione demografica spingeva anche allora l’agricoltura ad utilizzare i terreni collinari del circondario. Solo pochi decenni dopo, nella vicina Meleto nel podere del marchese Cosimo Ridolfi (fatti e persone anche nella storia agraria si intrecciano e ritornano…), il fattore Agostino Testaferrata crea “l’unita a spina”, riconosciuta dal mondo agronomico come una delle più valide sistemazioni di collina. Per dovere di cronaca vanno menzionati gli studi del medicoagronomo Francesco Chiarenti della vicina Montaione, a testimonianza di un tessuto culturale propenso all’innovazione ed alla discussione, ed in questo non si può tralasciare il ruolo svolto dall’Accademia dei Georgofili. Le sistemazioni idraulico agrarie, hanno comunque risentito delle condizioni generali in cui furono adottate, quali: abbondanza di manodopera, lavoro animale e presenza della piccola impresa familiare. 9 F. Floridia, La costruzione del territorio nel sud Milano: agricoltura, insediamento, paesaggio. In G. Bonini, C. Visentin (a cura di), Paesaggi in trasformazione. Teorie e pratiche della ricerca a cinquant’anni dalla Storia del paesaggio agrario italiano di Emilio Sereni. Editrice compositori, Bologna, 2014, pp. 147-153. 10 S. Agostini, I valori territoriali, culturali e sociali del patrimonio rurale. Ibid., pp. 137-149; P. Branduini, Paesaggio e Agricoltura. In Cantù E. (a cura di), op.cit, pp. 123-136; E. Frazzi, Agricoltura, Ambiente e Paesaggio. ISU-Università Cattolica, Milano, 2003; 11 F. Bonciarelli, Agronomia. Edagricole, Bologna, 1990, pp. 87-114; L. Giardini, L’Agronomia per conservare il futuro. Patron editore, Bologna, 2012, pp. 335-385; Cfr. R. Landi, Agronomia e Ambiente. Edagricole, Bologna, 1999. 288
I tratti più tipici del paesaggio cosidetto “mezzadrile” nell’Italia centrale sono stati caratterizzati (in larga parte ancora oggi) dall’insediamento sparso delle case coloniche e la compresenza delle colture legnose ed erbacee sugli stessi terreni; case, olivi, viti e in certe aree anche gelsi e alberi da frutto, hanno così impresso al paesaggio una configurazione verticale, che si è andata a sommare e a nascondere quella orizzontale dei seminativi12. In questo processo plurisecolare di costruzione e di conservazione del paesaggio toscano, imperniato sull’esercizio dell’attività agricola in collina, si possono ricordare anche altri nomi: partendo da Luigi Ridolfi (figlio di Cosimo), per arrivare fino ai tecnici idraulici e agli agronomi del primo Novecento come Vittorio Peglion, Alberto Oliva e Francesco Lami. Sul piano storico Sereni non ha esitato a parlare addirittura di una “scuola del Landeschi”, collocando il parroco sanminiatese (insieme al veneto Lorenzi, al Lastri, al Testaferrata), tra i maestri della “bonifica collinare (fig. 4).
Fig. 4. Olivi e vite coltivati in traverso, disegnano ancora oggi il paesaggio agrario nella collina pisana attorno a S. Miniato. Foto Cantarelli 12 A. Cantarelli, Considerazioni sulle sistemazioni idraulico agrarie, l’attività agricola e il paesaggio nei terreni collinari emiliani. In G. Bonini, C. Visentin (a cura di), pp. 281-286; R. Pazzagli, Un parroco “agronomo” nella Toscana del Settecento. Introduzione a I saggi di Agricoltura di Giovan Battista Landeschi. Ed. ETS, Pisa, 1998, pp. 7-34. Cfr. E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano. Ed. Laterza Roma-Bari, 2004 (XIIa ed.). 289
Il risultato del genio e dell’ostinazione di questi uomini, è che ancora oggi il visitatore di questi luoghi può ammirare l’originalità del paesaggio, funzionale ad un’agricoltura professionale e ad un turismo –anche straniero–, che mostra di essere sempre più sensibile alle bellezze territoriali. Proseguendo lungo lo stivale per arrivare infine alle regioni meridionali, si ha nuovamente un cambio del modello agricolo; le abitazioni rurali sparse nei campi rispetto al Centro Italia sono infatti piuttosto rare. La popolazione agricola viveva concentrata in grossi centri che avevano dimensioni equivalenti a città di media grandezza. I centri pugliesi di Cisternino, Cerignola, Bitonto e Corato o quelli siciliani di Licata, Alcamo e Partinico, presentavano la medesima popolazione di Lecco, Legnano e Gallarate in Lombardia, o Settimo Torinese in Piemonte, ma se i centri del Nord erano abitati da operai ed impiegati che non avevano più alcun rapporto con l’agricoltura, nel Sud le città erano popolate dai lavoratori agricoli (piccoli proprietari, affittuari e, soprattutto braccianti), che ogni mattina, alle prime ore del giorno, si mettevano in viaggio verso i campi. Grazie alla motorizzazione il disagio è diminuito, infatti un tempo bisognava raggiungere i campi a piedi o a dorso d’asino, con i braccianti e i contadini più poveri che dovevano presentarsi ogni mattina sulla piazza del paese, per cercare lavoro a giornata. Alcune zone di pianura del Sud, almeno fino alla prima metà del Novecento, erano infestate dalla malaria e la scarsità di sorgenti d’acqua impediva un insediamento sparso. Le uniche case rurali sparse erano le masserie, che sorgevano al centro dei latifondi e servivano da abitazione ai sorveglianti del latifondista ed ai pochi salariati fissi13. Oggigiorno la situazione è notevolmente cambiata, tuttavia in certe aree fertili del Sud Italia è presente una grave piaga sociale che ha per oggetto, al pari dei decenni precedenti, lo sfruttamento del lavoro: il caporalato. Questo grave fenomeno malavitoso non rappresenta certamente un indice evolutivo dell’agricoltura italiana e del Sud in particolare, anzi può essere inteso come un freno allo sviluppo. A partire soprattutto dal secondo dopoguerra infatti, con la riforma agraria che assegna le terre del latifondo ai contadini e la creazione della figura del coltivatore diretto, si è diffuso un nuovo modello di agricoltura, caratterizzato rispetto al precedente per l’avanzamento delle tecniche agronomiche, la maggiore estensione delle superfici medie coltivate ed il miglioramento dei rapporti di lavoro (a titolo di esempio, si riportano il superamento della mezzadria, la legge sull’equo canone per l’affitto e l’istituzione della piccola proprietà contadina). In questo contesto il paesaggio agrario e soprattutto nelle pianure più fertili del Paese, inevitabilmente si trasforma nell’arco di un ventennio. Scompaiono quasi del tutto i cereali poveri quali miglio, spelta e farro per lasciare posto alle nuove varietà di grano duro, tenero ed orzo; in compenso compaiono altre colture quali ad esempio la soja (anni ottanta). I filari di piante e le siepi che delimitavano i campi, vengono progressivamente eliminati perché ritenuti tare improduttive, costituenti un ostacolo al lavoro delle macchine operatrici. Il perfezionamento dell’aratro e l’impiego di trattrici hanno consentito un’aratura profonda, larga, regolare, determinando un marcato incremento produttivo14. 13 A. Caizzi, M. Carazzi (a cura di), Spazi e Civiltà. Vol. 1, Giunti Marzocco, Firenze, 1984, p.130-131; E. Sereni, Il capitalismo nelle campagne. Piccola biblioteca Einaudi, Torino, 1980 (IVa rist.). 14 In questi ultimi anni anche la scuola agronomica ufficiale, alla luce delle vaste acquisizioni in campo nazionale ed internazionale, ha fortemente riconsiderato l’efficacia del lavoro di aratura; al riguardo è stata definita l’agricoltura blu o conservativa, quel tipo di agricoltura che non fa uso dell’aratro, consentendo di preservare maggiormente il tasso di sostanza organica e la struttura del terreno. Al riguardo, per approfondimenti: L. Giardini, op.cit., pp. 149-198; Cfr. M. Pisante, (a cura di), 290
Le falciatrici e le mietilegatrici (e successivamente, le mietitrebbiatrici), hanno rimpiazzato le falci e permesso di fare raccolti molto rapidi (fig. 5).
Fig. 5. Mietitrebbiatura del riso nel sud Milano. Foto Cantarelli
Lo sviluppo degli impianti di silos e dei frigoriferi, ha assicurato inoltre una migliore conservazione delle derrate alimentari. Nel medesimo tempo i progressi nella scienza agronomica hanno permesso la selezione di nuove sementi, la selezione di animali pregiati, la formazione di stazioni sperimentali e l’implementazione di quelle già esistenti, rafforzata l’istruzione agricola ecc. L’agricoltore, cosciente dei bisogni della sua terra, si è preoccupato di migliorare l’equilibrio chimico del terreno, non accontentandosi più del letame della sua stalla (quando l’allevamento fosse stato ancora presente), bensì utilizzando abbondantemente (in diversi casi sovrautilizzando), i vari fertilizzanti che il progresso dei trasporti e dell’industria chimica, avevano messo a sua disposizione a basso prezzo (le prime crisi petrolifere, arriveranno negli anni settanta del secolo scorso, così come il fosforo nell’Adriatico o i nitrati nelle falde acquifere erano problematiche ancora sconosciute). Tornando nel Nord, la monda è stata l’operazione con la quale si liberavano le risaie dalle erbe infestanti che vi crescevano (chi non ricorda il film “Riso amaro” di De Santis con la mirabile interpretazione di Silvana Mangano nei panni di una mondina?), strappate a mano, ad una ad una, appunto dalle mondine. Oggi la monda si effettua prevalentemente per mezzo dei diserbanti, che combattono le erbe nocive senza danneggiare il riso. Nel volgere di pochi decenni, i contadini che avevano arato con i buoi o con i cavalli da Agricoltura sostenibile. Edagricole, Bologna, 2013; V. Tabaglio, Gestione del suolo. In Pisante (a cura di), op. cit., pp. 93-123.M. 291
tiro, si erano così trovati a possedere strumenti radicalmente nuovi, che avevano consentito loro di aumentare la produttività dei raccolti e di migliorare la qualità del proprio lavoro. Attualmente l’agricoltura di “precisione” o satellitare rappresenta un ulteriore traguardo della tecnica15. Comparsa poco più di vent’anni orsono, avvalendosi dei moderni sistemi di localizzazione spaziale, dei sensori, dei computer ecc., essa permette di realizzare una gestione agronomica differenziata all’interno del singolo appezzamento. Sono in questo modo possibili interventi spazialmente differenziati e meglio calibrati, per quanto attiene le lavorazioni del terreno, le quantità delle sementi, le concimazioni, l’irrigazione, i diserbi, i trattamenti antiparassitari, così come vengono rilevati i dati produttivi. Quando le scelte si rilevano corrette, sono indubbi i vantaggi produttivi, economici ed ambientali. Vi è a questo punto da rilevare che l’Ecologia agraria, ossia la scienza che studia le relazioni tra i vari membri dell’agro-ecosistema tenendo conto anche dell’intervento umano, era ancora dopo il secondo conflitto mondiale una disciplina poco conosciuta e maggiormente studiata in altre nazioni rispetto la nostra (e già allora con maggiori disponibilità di fondi per la ricerca), come ad es. gli USA. Non ci si preoccupava quindi fino agli anni sessanta, delle conseguenze di determinate azioni: tutto il “nuovo” appariva come prodigioso. Gli stessi principi ispiratori delle rotazioni agrarie (ne sono testimoni i numerosi articoli delle riviste di settore di quegli anni), erano messi in discussione ritenendone i benefici surrogabili dalle fertilizzazioni chimiche e dai principi attivi diserbanti. Da oltre oceano iniziarono però ad arrivare notizie riguardanti gli effetti dell’uso improprio (in molti casi: abuso), di alcuni fitofarmaci. Nel 1963, sarà disponibile l’edizione italiana del libro della biologa americana Rachel Carson “Primavera silenziosa” (ma bisognerà aspettare diversi anni, prima che fosse riconosciuta anche da gran parte del mondo accademico, l’attendibilità dei dati riportati): una denuncia sugli effetti dell’abuso del diclorodifeniltricloroetano, molecola insetticida meglio nota come DDT . Questo libro, il più noto, come altri di Autori altrettanto profetici, costituiranno l’ispirazione dei movimenti ambientalisti nei paesi occidentali, così come a metà degli anni ottanta si dovrà fare i conti con le emergenze causate nelle acque di falda dall’atrazina e dal molinate, diserbanti rispettivamente del mais e del riso. La nascita delle agricolture biologica e biodinamica, hanno così rappresentato una risposta ad un sistema produttivo che –tra i tanti e diversi aspetti da considerare-, aveva in diversi casi largamente ecceduto nell’uso della chimica di sintesi. L’agricoltura integrata non esclude invece a priori l’intervento della chimica di sintesi, bensì cerca di razionalizzarne il più possibile l’utilizzo, facendo leva sull’uso della modellistica previsionale delle avversità delle piante ed inoltre, sull’utilizzo di tutte quelle tecniche che consentano di limitare i trattamenti (es. ricorso alle rotazioni, impiego di varietà resistenti, pacciamature per le colture orticole, ecc.)16. Si erano così manifestati i primi campanelli di allarme di un certo modo di produrre, senza però dimenticare che anche il mondo scientifico si era nel frattempo interrogato (e la ricerca, in questo senso, non si ferma mai), sul come migliorare gli strumenti a disposizione dell’agricoltore, nonché dei destini ambientali delle molecole di sintesi utilizzate; in questo 15 B. Basso, L. Sartori, Agricoltura di precisione per la sostenibilità degli agroecosistemi. In M. Pisante (a cura di), op. cit., pp. 271-296; Cfr M. Bertocco, Agricoltura di precisione. Ed. L’informatore Agrario, Verona, 2010; L. Giardini, op.cit.,pp. 613-614. 16 P. Battilani, P. Cravedi, Le avversità delle colture: funghi patogeni e insetti. In M. Pisante (a cura di), op. cit., pp. 249-269; L., Giardini, op. cit.,pp. 533-575; P. Montemurro, M. Fracchiolla, La gestione della flora infestante. In M. Pisante (a cura di), op. cit., pp. 231-247. 292
incalzati da una pubblica opinione sempre più sensibile alla salute dell’ambiente. Non a caso sia l’agricoltura integrata che quella biologica (ultimamente anche quella definita “conservativa”), sono da diversi anni oggetto di specifici interventi previsti dai vari P.S.R17. L’agricoltura in particolare dagli anni sessanta del secolo scorso, ha iniziato così ad essere praticata in maniera uniforme su ampie estensioni di spazi agricoli, ed é soprattutto in pianura che è sparita la policoltura, rappresentativa di un’agricoltura di sussistenza . Sui vecchi terreni si sono intensificate le coltivazioni, è diminuito fortemente (laddove veniva praticato) il maggese come ordinamento colturale (ritornerà in voga con la riforma McSharry all’inizio degli anni novanta del Novecento, il cosidetto “set aside”, ma in ben altro contesto di politica agraria), le terre paludose sono state drenate e coltivate, ovunque sono spariti gli incolti (altro discorso riguarda invece il fenomeno dell’abbandono dei terreni di montagna –soprattutto appenninici-, a seguito della chiusura delle aziende agricole; fenomeno quest’ultimo, che si è accentuato in questi ultimi decenni, ma anche questo tema meriterebbe una trattazione a parte). In Italia questa crescita imponente della produttività agraria, è stata resa possibile anche grazie alla creazione nel 1962 di una politica agricola europea, avente lo scopo di creare progressivamente un Mercato Comune per tutti i prodotti agricoli, imponendo da un lato di fissare prezzi comuni per tutta la Comunità, dall’altro di dare la priorità ai prodotti della C.E.E, al fine di proteggere i propri agricoltori dalla concorrenza straniera18. A questo scopo, la C.E.E ha creato una tassa sulle importazioni agricole (“prelevamento”), per scoraggiare i Paesi membri che volessero acquistare a prezzo inferiore, i prodotti provenienti da confini extracomunitari. Inoltre se il prezzo fosse sceso al di sotto di un certo livello fissato dal F.E.O.G.A (Fondo Europeo di Orientamento e Garanzia Agricola), la Comunità sarebbe intervenuta acquistando dagli agricoltori i prodotti ad un “prezzo garantito”, più elevato di quello di mercato (questo meccanismo è ancora in essere, ma la “forbice” tra i prezzi si è notevolmente abbassata negli anni). Questo sistema ha funzionato per i cereali, lo zucchero, le piante oleaginose, il latte, l’olio di oliva, i bovini ed il vino. Con il passare degli anni si é progressivamente verificato un grave problema: con questo sistema i produttori sono stati incoraggiati a continuare a produrre quelle merci che erano già difficili da vendere, perciò hanno creato di anno in anno nuove eccedenze che il F.E.O.G.A ha dovuto alla fine acquistare. Tale sistema, dunque, é diventato causa delle eccedenze o sovraproduzioni. Tornando all’oggi, considerando il rapido susseguirsi delle vicende che sono state appena accennate, non vi è quindi da meravigliarsi se in larghe fasce dell’opinione pubblica, si avverte spesso una errata percezione del modo di fare agricoltura (agricoltura=inquinamento) e, del principio stesso di sicurezza alimentare, inteso come disponibilità di alimenti (ma a differenza degli anni ottanta, le scorte mondiali hanno invece iniziato vistosamente a calare). Il risultato di questo modo di intendere è il sorgere di pregiudiziali verso coloro che sostengono la necessità di intensificare, da subito, la produttività agraria. Sono infatti ancora vive in larghi settori della pubblica opinione, le immagini degli anni Ottanta del secolo scorso, con i capannoni stipati ad es. dagli ammassi di burro o carne comunitaria. Così come non si possono obiettivamente scordare gli agrumi siciliani distrutti dalle ruspe, evidenti distorsioni di un sistema economico ingiusto ed inefficiente. 17 P. Paris, Desolazioni e chimere in tema di ecologia. Vita e Pensiero, ottobre 1998, pp. 698-715; A. Cantarelli, 2014. I nuovi P.S.R rilanceranno l’agricoltura italiana? http://agrariansciences.blogspot. it/2014/10/i-nuovi-psr-rilanceranno-lagricoltura.html 18 A. Caizzi, M. Carazzi (a cura di), Spazi e Civiltà. Vol. 2, Giunti Marzocco, Firenze, 1984, pp. 96-97. 293
Le generazioni successive invece, aventi sempre meno legami diretti con la campagna, si caratterizzano per abitudini alimentari diverse, conseguenti a mutati stili di vita; vi è chi per scelta diventa vegetariano se non addirittura vegano, ma negli anni dalle ben più limitate disponibilità caloriche (ed ancora oggi è così nei Paesi a limitato sviluppo), le possibilità di incidere sulla scelta degli alimenti di cui cibarsi (ed eventualmente rifiutarli), erano quasi inesistenti. All’agricoltura che sta già vivendo una fase di forte incertezza, con margini di guadagno spesso non decentemente remunerativi, vengono formulate nuove istanze, come quella di prodotti più “naturali”, gustosi, possibilmente autoctoni (nel senso del recupero di antiche varietà locali), ecc. Tuttavia si rileva che sempre più allevamenti ed aziende agricole chiudono per i bilanci in rosso, mentre i consumatori contraggono il loro potere di acquisto sugli alimenti. L’avere richiamato in precedenza alcuni esempi dall’agricoltura di un glorioso passato, risulta utile per introdurre un fenomeno epocale e senza precedenti, che si è verificato per la prima volta nella Storia dell’intera umanità, anche se purtroppo non sufficientemente trattato come dovrebbe dai media (e completamente ignorato nel dibattito politico nostrano). Per dirla col Saltini nel varcare il fatidico traguardo del Duemila, l’umanità ha lasciato alle proprie spalle il cinquantennio della più straordinaria crescita delle disponibilità alimentari della propria Storia millenaria19. Si considerino inoltre le catture della flotta peschereccia mondiale nel medesimo periodo, che essendo cresciute di quasi cinque volte, da 19 x 106 T a 90 x 106 T, hanno contribuito all’aumento delle disponibilità alimentari. Infatti se nel 1950 la popolazione mondiale ammontava a circa 2,5x109 di persone (per paragone si pensi che all’inizio dell’Ottocento era circa pari ad 1,0x109 abitanti), all’alba del nuovo Millennio la stessa raggiungeva la cifra di 6,0x109 (attualmente ha superato abbondantemente i 7,0x109, e si prevede che sarà di oltre i 9,0x109 nel 2050). Il tasso di crescita degli abitanti del Pianeta, ha mostrato di avere avuta un’accelerazione senza precedenti. Come magistralmente spiegato da Antonio Saltini nella Storia delle Scienze Agrarie, l’incremento vertiginoso della popolazione umana è stato reso possibile indubbiamente dai progressi nel campo della medicina, ma ancora di più da un vero e proprio prodigio agronomico, che nel cinquantennio considerato non ha comunque determinato un altrettanto imponente aumento della disponibilità calorica media, essendo passati da 2.300 Kcal a 2.700 Kcal. Quest’ultimo dato statistico (2.700 Kcal la media mondiale), consente purtroppo di superare appena il fabbisogno calorico giornaliero, quindi sottintende la presenza di milioni di denutriti, che dopo la vampata dei prezzi dell’anno 2007 si stima siano circa il 15% degli oltre 7 miliardi di persone viventi sulla Terra20. Secondo l’Autore sono cinque i fattori capitali che hanno permesso il suddetto prodigio: 1) la dilatazione delle superfici arative (da 1.346x106 ha a 1.511x106 ha); 2) la dilatazione delle superfici irrigue (da 40x106 ha a 110x106 ha); 3) l’impiego dei fertilizzanti (da 14x106 T a 146x106 T); 4) il contenimento dei danni da parassiti ; 5) le applicazioni della scienza Genetica21. Un fattore diverso, indiretto, ha interagito con i precedenti e vi ha svolto un ruolo altrettanto capitale: l’introduzione della macchina (fig. 6) 19 A. Saltini, Agrarian Sciences in The West (translated by Scott J.J.). Nuova Terra Antica, Firenze, 2015. A. Saltini, Storia delle Scienze Agrarie, vol. VII. Il Novecento: la sfida tra le conoscenze agronomiche e la crescita della popolazione del globo. Museo Galileo-Fondazione Nuova Terra Antica, Firenze, 2013. 20 L. Giardini, op. cit., p. 682; Saltini A., op. cit. (VII vol.), p. 609 e succ. 21 A. Saltini, op. cit. (VII° vol.), pp. 653-673 294
Fig. 6. L’introduzione della vendemmia meccanica, ha rappresentato un forte elemento di innovazione nel vigneto, consentendo oltre all’abbattimento dei tempi e dei costi di produzione, il mantenimento degli standard qualitativi. Nell’immagine, vendemmia di Lambrusco nel reggiano. Foto A. Cantarelli.
La meccanizzazione agraria ha rappresentato (e tutt’ora rappresenta), un elemento fondamentale del progresso agricolo, essa comunque non può sostituire, oltre certi limiti ed in situazioni particolari, la perizia del lavoro manuale nell’espletamento di talune operazioni, trattasi ad es. della manutenzione di piccoli canali per l’irrigazione/scolo delle acque (e/o della correzione di certe minuscole concavità del terreno), oppure della scerbatura di ridotte “macchie” di piante infestanti, quando non riescano ad essere raggiunte agevolmente dalle macchine operatrici. Invece nel settore zootecnico possono essere invece indicati altri 4 fattori, che tra loro in sinergia hanno consentito la dilatazione delle produzioni: 1) la selezione genetica; 2) la medicina veterinaria; 3) i moduli costruttivi per condizioni biologiche ideali al minimo costo possibile; 4) le materie prime per l’alimentazione in quantità ed a basso prezzo (es. mais). Sulla base dei dati precedenti, la domanda da porsi è allora la seguente: quali e quanti dei fattori appena riportati, responsabili della crescita delle disponibilità alimentari nel cinquantennio considerato, saranno replicabili nel futuro? Nel merito del problema sollevato, Fonti autorevoli stimano che sarà comunque necessario un’aumento medio delle produzioni mondiali, rispetto il livello attuale, di circa il 50-60% andare al 2030 (mancano solo 15 anni all’appuntamento!), per riuscire a soddisfare una domanda alimentare crescente22. Nel frattempo, già da qualche anno è iniziata da parte di numerose nazioni il fenomeno 22 Cfr. M. Pisante, (a cura di), op.cit; Food Agricolture Organisation, 2009. L’agricoltura deve cambiare per riuscire a nutrire il pianeta http://www.fao.org/news/story/it/item/10030/icode/ “Save and Grow”, 2011. Nel nuovo dossier della Fao la sfida per uno sviluppo agricolo sostenibile http://mondohonline. files.wordpress.com/2011/08/save-and-grow-capitolo-11.pdf; “The Royal Society, 2009. Reaping the benefits: Science and the sustainable intensification of global agricolture. https://royalsociety.org/policy/ pubblications/2009/reaping-benefits 295
dell’accaparramento delle terre coltivabili (attualmente quantificabile per una superficie maggiore dell’intera Germania), in previsione delle aumentate richieste di commodities: è il fenomeno del “land grabbing”23. Non è scopo del presente intervento entrare nel dettaglio dei punti appena elencati; tuttavia a proposito della disponibilità di terreno coltivabile, non può essere ignorato che nel Pianeta immense superfici agrarie si stanno degradando a causa: a) del costante degrado della fertilità; b) della salinizzazione; c) del consumo di territorio. Così come non è ipotizzabile la conversione delle foreste equatoriali in terreni coltivabili (è opinione largamente diffusa che abbiamo già disboscato abbastanza, inoltre riduciamo ulteriormente la biodiversità!?). Ed allora è sul quinto fattore capitale (le applicazioni della Genetica), che si concentrano le attese per la creazione di nuovi strumenti, utili ad accrescere la produttività media delle colture e degli allevamenti. L’interrogativo riguarda anche quali strumenti potrà offrire l’Agronomia generale per valorizzare le doti delle creature future della selezione vegetale (Fig. 7). Contrariamente all’opinione corrente largamente diffusa (naturalmente per chi non possieda che una conoscenza superficiale della materia trattata), gli strumenti offerti dal miglioramento genetico, non sono necessariamente in contrasto con quelli di un’agricoltura che cerchi di ottenere prodotti con il livello più basso di residui chimici (se non addirittura, in alcuni casi, riuscire ad ottenere raccolti senza l’uso di antiparassitari), quindi biologica. Nel merito, si segnalano le originali acquisizioni dei ricercatori (nella vita coniugi) Pamela Roland e Raoul Adamchak della prestigiosa Università di Davis in California, ed il loro libro “Tomorrow’s table: organic farmer, genetics and the future of food” (come per il libro della Carson, magari fra qualche anno questo bel testo proveniente sempre dagli USA, si auspica possa diventare un nuovo riferimento, per chi cerchi di conciliare le ragioni della produttività con quelle dell’ambiente, senza rinunciare per questo ai progressi della Genetica).
Fig. 7. Le rinnovate esigenze di mantenimento della fertilità dei suoli, di una maggiore dinamicità operativa nelle lavorazioni, oltre che di un consistente risparmio in combustibile, ma a parità di resa con il regime arativo, concorrono a diffondere la semina su sodo . Pianura parmense, semina autunnale su cotico di erba medica. Foto A. Cantarelli 23 https://www.landmatrix.org 296
Riguardo infatti alla genetica applicata al settore vegetale, è opinione diffusa tra gli Esperti che la progressiva contrazione degli incrementi di produttività, che si sono manifestati nelle varietà create successivamente alla Rivoluzione Verde, siano da implicare al fatto che le procedure tradizionali (per specie di importanza mondiale), rappresentino una strada giunta ormai al proprio termine. La selezione tradizionale, avrebbe infatti condotto le specie fondamentali in prossimità dei limiti biologici, intrinseci alla loro struttura (nei principali cereali a paglia ad es., si é passati in pochi decenni dalle alte taglie delle varietà tradizionali, alle varietà seminane odierne). Ma in Italia a che punto siamo? Impermeabile alle criticità segnalate a più riprese da diversi scienziati operanti nelle migliori strutture di ricerca, la politica nazionale dal 1998 ha purtroppo intrapreso una strada di totale chiusura verso le opportunità offerte dalla ricerca agraria (proibendo addirittura la sperimentazione sugli organismi geneticamente modificati, ogm), lasciando inevitabilmente ad altre nazioni la guida nella ricerca e nella sperimentazione. Queste molto discutibili scelte portano la firma dell’ex ministro all’agricoltura Alfonso Pecoraro Scanio e dei suoi successori. Da quel momento la ricerca agraria è stata resa meno libera e più “burocratica”. Sommando a questa politica anche quella condotta dalle numerose amministrazioni pubbliche, che in cambio degli oneri di urbanizzazione hanno deliberatamente massacrato il territorio, sacrificando in questo modo all’agricoltura i terreni più fertili, il dato rileva la sistematica violazione dell’articolo 9 della nostra Costituzione. Vi è innanzitutto da osservare che solitamente sono i regimi dittatoriali a stabilire quale deve essere la scienza “buona” e quella “cattiva”, stabilendo la fortuna di questo o quel ricercatore/Istituto in virtù non della produzione scientifica, bensì del grado di allineamento alla politica stabilita. Addirittura e sempre nel medesimo periodo, gli annali delle scienze hanno contemplato la nascita di una nuova: quella gastronomica. Nel Paese della moltiplicazione esponenziale dei diplomi e corsi di laurea (e dei rimborsi), può succedere anche questo. Ma attenzione che a forza di idealizzare “l’insolita fettina”, ci si possa invece scordare del companatico24! Tutto questo anche in palese contraddizione con i principi che sono alla base della PAC25. Qualcuno potrebbe obiettare che per i prodotti di qualità il consumatore è disposto a spendere ben di più! Certamente, ma dopo la crisi del 2008 che ha coinvolto tante famiglie, un’affermazione di questo tipo risulta essere quantomeno un poco snob. “E’ io pago!”, direbbe il principe Antonio De Curtis, in arte Totò, o meglio: pagano di più rispettivamente il produttore ed il consumatore. Delle politiche sbagliate, tanto non è mai colpa di nessuno. Si prenda l’esempio delle commodities per l’alimentazione zootecnica: quasi tutto il parco zootecnico italiano (bovini, suini, polli) è alimentato con soja estera, e questa è per l’85% ogm26. 24 M. Rosati, L’elitarismo gastronomico una pratica non sostenibile. L’Unità, sabato 26/07/2014; E. Semprini, È la grande alleanza tra Ogm ed organico che nutrirà l’umanità. TuttoScienze-La Stampa, mercoledi 11/06/2014. 25 Gli obiettivi del Trattato di Roma erano i seguenti cinque: 1) aumentare la produttività dell’agricoltura e dell’allevamento; 2) garantire alla popolazione agricola un giusto livello di vita; 3) stabilizzare la produzione ed i prezzi dei prodotti agricoli; 4) garantire alla CEE scorte alimentari sufficienti; 5) soddisfare i bisogni dei consumatori a prezzi ragionevoli. Si consideri che negli anni ottanta del secolo scorso, la politica agricola comunitaria assorbiva circa il 70% delle spese della CEE; attualmente meno del 50%. 26 R. Defez, D. Frisio, C’è sempre un Ogm dietro formaggi e carni made in Italy. In TuttoScienze-La Stampa, mercoledi 18 giugno 2014. 297
L’Italia produce poco più del 10% della soja che consuma, mentre l’altro prodotto essenziale per alimentare il bestiame é il mais. Fino ad alcuni anni fa per il mais l’Italia era autosufficiente, ma dal 2001 è iniziata una fase di lento declino produttivo (sono bastati pochi anni di blocchi alla ricerca, per iniziare ad avere un trend negativo sulla resa!). Nel 2009 si è importato il 20% del fabbisogno nazionale, dal 2013 se ne importa oltre il 35%. Prima di accusare i favorevoli all’opzione biotecnologica (ed in campagna lo sono molto di più di quello che si vorrebbe fare credere27), di essere a libro paga delle multinazionali (un argomento ormai abusato, quanto spuntato), non sarebbe corretto spiegare che esistono in Italia anche altre categorie economiche (quelle dei prodotti “naturali”, altrettanto legittime) portatrici di interessi, finendo per essere anch’esse lobbiste? Ultimamente si registrano anche a livello politico voci competenti (e coraggiose), che stanno tentando di aprire una discussione, anche a livello parlamentare, su queste tematiche che da oltre 15 anni incontrano una chiusura totale28. Nell’immediato futuro, oltre a produrre le derrate necessarie per tutti gli abitanti del Pianeta (se qualcuno pensa che questo non costituisca un obbligo, lo dica apertamente), l’agricoltura sarà chiamata a soddisfare la conversione dell’Asia ad una dieta radicalmente diversa, ossia imperniata sulle derrate chiave della dieta occidentale, la cosiddetta dieta delle 3 B (Beef, Butter and Milk). Ma nel nostro Paese, il dibattito pubblico che è sorto attorno al tema dell’utilizzo delle biotecnologie in agricoltura, si diceva, è stato inquinato da pregiudizi ideologici che poco o nulla hanno avuto a che fare con la reale conoscenza della materia trattata29. Basterebbe considerare che la stragrande maggioranza del mondo scientifico, non da oggi, è favorevole all’opzione biotecnologica: in questo non si dice il vero quando si afferma che “gli scienziati non sono tra loro d’accordo ed il dibattito non è ancora arrivato a delle conclusioni!”, oppure proseguendo che “…mancano studi di lungo periodo sui possibili effetti sulle persone e sugli ecosistemi”, quando da oltre 20 anni ci nutriamo con alimenti ogm e ci vestiamo con cotone modificato geneticamente30. Si può ben dire: quanta ipocrisia attorno a queste tematiche! Su questioni così rilevanti, dall’alto del Suo Magistero, il Santo Padre nell’ultima Enciclica (che nella stessa giornata di giovedi 18 giugno, è stata presentata ufficialmente), ha aperto 27 Lettera appello, 2014. I 700 contadini che si battono per piantare semi transgenici http://www. corriere.it/ambiente/14_giugno_11/i-700-contadini-che-si-battono-piantare-semi-transgenici2fe50a40-f13d-11e3-affc-25db802dc057.shtml 28 E. Cattaneo, Liberarsi dai pregiudizi sugli o.g.m. L’Ecologia è Scienza, non ideologia. Corriere della Sera, mercoledi 18/06/2014; E. Cattaneo, L’Italia, la ricerca pubblica e il paradosso degli ogm. La Repubblica, sabato 20/06/2015. 29 Un’aggiornata rassegna delle biotecnologie nel comparto vegetale la si può trovare in: M. Galbiati, K. Petroni, E. Cominelli, C. Tonelli, Le biotecnologie vegetali: presente e futuro. In Pisante M. (a cura di), op. cit., pp. 207-229; G. Bertoni, P. Ajmone Marsan, Le biotecnologie in agricoltura. Vita e Pensiero, luglio/agosto 2001, pp. 344-371; L. Giardini, op.cit.,pp.609-644; Cfr. A. Saltini, Agrarian Sciences in The West, op.cit. 30 C. Brambilla, 2004. Cibi ogm, il sì degli scienziati “Sicuri e senza rischi” http://www.repubblica.it/2004/j/ sezioni/politica/ogmo/docuvero/docuvero.html; D. Bressanini, Piccola guida per salvarsi dai furbetti del 3%. Tutto Scienze-la Stampa mercoledi 29/10/2014; M. Calabresi, 2014. La ricerca sulle piante OGM nel Paese di Galileo Galilei http://www.lastampa.it/2014/07/04/cultura/opinioni/lettere-al-direttore/ la-ricerca-sulle-piante-ogm-nel-paese-di-galileo-galilei-0ALxnl2UDv7Y2qqZYKLvzL/pagina.html; V. Magnifico, Piante Ogm o non Ogm, per noi pari sono. TuttoScienze-La Stampa, mercoledi 29/10/2014; Manifesto agricoltura scientifica http://www.agronomiperlaterra.it/agricoltura%20scientifica.html; A. Piccinini, 2004. Ogm sì, ogm no http://www.informatoreagrario.it/ita/Riviste/Infoagri/Lia4604/fondo. asp; F. Sala, Se il Kiwi modificato diventa tabù. L’Unità, giovedi 06/11/2003. 298
all’uso responsabile delle biotecnologie, per fare fronte alle aumentate necessità alimentari, purché questi nuovi strumenti siano rispettosi dell’uomo e dell’ambiente31. I famigerati ogm sono quasi 30 anni che vengono coltivati sulla Terra (attualmente circa 180x106 ha), senza che siano stati segnalati danni alla salute umana. Invece e purtroppo per rimanere in Italia, si è visto chiaramente chi e come attenta concretamente alla salute delle persone e dell’ambiente (es. Terra dei Fuochi ed altre situazioni similari anche al Nord, così come la ricorrente problematica dell’inquinamento da micotossine32)! In compenso per dimostrare lo smaltimento corretto dei rifiuti, di “carte” tra ditte ed enti pubblici vari si presume ne siano girate parecchio! Il risultato di questa diffusa disinformazione sul corretto utilizzo delle opzioni biotecnologiche in agricoltura, è l’avere determinato nella gente delle fobie, secondo la migliore tradizione di “caccia alle streghe” di stampo medievalista e “caccia agli untori” di manzoniana memoria. Le vicende delle centinaia di ettari a mais distrutti in Piemonte nell’estate 2004 (quanta acqua e quanta energia sprecata!), oppure le più recenti distruzioni di mais nel Friuli, per non parlare dell’abbattimento del frutteto sperimentale del Prof. Rugini a Viterbo (giugno 2012), prendono origine dal siffatto brodo culturale e, rappresentano nel loro insieme autentiche infamie e vergogne nazionali33. Quasi tutto è stato fatto per decreto, anche se i doverosi ricorsi in sede nazionale ed europea, si spera possano servire a fare maggiore chiarezza sulle dinamiche dei fatti. Anche sull’opzione biotecnologica in campagna, come già si è verificato per altre questioni, si ripresenta un ulteriore motivo (o tentativo?) di divisione del sempre più ristretto –numericamente parlando- mondo rurale. Questo stato dell’agricoltura nazionale, è forse stato determinato dal vuoto che si è venuto a determinare come conseguenza dell’esito di taluni processi della vicenda agraria nazionale, che a partire dall’annosa vicenda delle quote latte (1984), che ha reso l’Italia maggiormente dipendente dal latte prodotto all’estero, arriva al crac Federconsorzi del 1991 (il primo vero grande crac della storia italiana), quindi al divieto della sperimentazione anzidetto, alla “riforma” del settore bieticolo-saccarifero del 2004 (la bietola da zucchero oltre ad essere una coltura da reddito, rappresenta una coltura ad elevato imput tecnologico; ma quanto è costata questa “riforma”?), per arrivare ai giorni nostri. In campo sociale, si discute animatamente attorno ai concetti di nuove famiglie, nuove unioni (anche tra persone dello stesso sesso), nuovi diritti civili, ma anche di tematiche a forte contenuto bioetico quali la possibilità di ricorrere alla fecondazione eterologa, e/o al 31 Cfr. Lettera enciclica Laudato Si del Santo Padre Francesco sulla cura della casa comune. Tipografia Vaticana, 2015. Sull’opzione ogm, in particolare le pp.103-106. G. Ancora, E. Benvenuto, G. Bertoni, V. Buonuomo, B. Honings, A. Lauria, F. Lucchini, P.A. Marsan, V. Mele, A. Pessina, E. Sgreccia, Biotecnologie animali e vegetali. Nuove frontiere e nuove responsabilità. Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 1999; Proceedings of a Study Week of the Pontifical Academy of Sciences, 2010. Transgenic Plants for Food Security of Developments. http://casinapioiv.va/content/accademia/it/ pubblications/scriptavaria/transgenic.html. 32 A. Cantarelli, 2014. Micotossine nel latte per il Parmigiano Reggiano: casualità o conseguenza di improbabili divieti? http://agrariansciences.blogspot.it/2014/07/micotossine-nel-latte-per-il-parmigiano. html; A. Musella, Brescia: ancora rifiuti pericolosi nel cantiere Tav. Fanpage.it, 22/05/2014. http://www. fanpage.it/brescia-rifiuti-pericolosi-cantiere-tav/ 33 A. Andrioli, 2012. Un nuovo modo di aiutare la ricerca italiana sugli ogm: l’eutanasia http://www. informatoreagrario.it/ita/Riviste/Infoagri/12Ia24/24010.pdf; G. Bartolozzi, 2012. Lo Stato distrugge la ricerca scientifica pubblica http://www.georgofili.info/detail.aspx?id=946; M.V. Lo Prete, 2014. Caro Renzi, rottama Vandana Shiva http://www.ilfoglio.it/articoli/2014/09/10/caro-renzi-rottama-vandanashiva___1-v-120805-rubriche_c207.htm; Margiocco F., 2012. L’addio dell’Italia alle piante transgeniche http://www.ilsecoloxix.it/p/italia/2012/08/28/APPo2rJD-transgeniche_piante_italia.shtml 299
trapianto di uteri in affitto, per citare alcuni esempi. Queste tematiche dal profondo impatto sociale, vengono presentate nella veste di nuovi diritti da acquisire. Non si può non fare notare che queste nuove (in larga parte inedite) frontiere della società civile, sono in palese contrasto con i decantati valori della idealizzata civiltà contadina, incentrata sulla famiglia tradizionale, sul riconoscimento di solidi legami parentali, sulla fertilità naturale (che in epoche passate significava famiglie molto numerose), sul rispetto dei cicli delle stagioni e della vita, su un diffuso senso religioso e delle tradizioni. Le tematiche anzidette sono strettamente legate anche sul piano costituzionale, se i rapporti etico sociali sono normati all’interno del Titolo II (art.li dal 29 al 34). Studiandone il contenuto, si evince però la parziale attuazione dei principi in essi contenuti; in particolare sulla base del primo comma dell’art. 33, che recita testualmente: “L’arte e la scienza sono libere e libere ne è l’insegnamento”, così come per lo sfregio all’art. 9 si dovrebbero a questo punto rivedere attentamente talune posizioni assunte in precedenza, così come talune norme legislative vigenti. Quando si ha a che fare direttamente con gli esseri umani, per taluni il concetto di “naturale” assume forse un significato diverso? Ma due pesi e due misure non fanno di un metodo quello scientifico, ed allora il tanto sbandierato “principio di precauzione”, agitato tutte le volte come un mantra, non vale più? La confusione alberga nelle scelte dei Presidente di Regione, che erano stati così solerti nell’approvazione di norme anti ogm (disattendendo le direttive comunitarie per tanti anni), per esserlo altrettanto nell’accreditare al Servizio Sanitario le rispettive strutture dove potrà essere praticata la fecondazione eterologa34, addirittura senza aspettare il parere del competente Ministero della Salute. Difatti, talune incerte umane discendenze (sul piano genetico, prendendo a prestito l’esempio del mais tanto per intendersi, non sarà scorretto parlare in certe situazioni di “ibridi a 3 vie” anche per gli esseri umani), potrebbero arrecare alla società molte più problematiche, nel breve periodo (a partire dall’identificazione!), di evocate ma improbabili contaminazioni da polline ogm… Chi per anni si è proclamato a favore della biodiversità e dei diritti genetici nel comparto agricolo, su tematiche così impattanti, pare avere perso improvvisamente il proprio attivismo. Dagli anni novanta la Politica Agricola Comunitaria (PAC), è progressivamente passata dai sostegni dei prezzi, delle esportazioni e delle barriere doganali (un tempo tenuti elevati ma ora in graduale diminuzione), alle erogazioni dirette agli agricoltori per sostenerne il reddito. Tale indirizzo, ha avuto l’effetto di aumentare l’esposizione dell’agricoltura italiana, ai marosi della concorrenza e delle novità in campo mondiale. In questo quadro che è andato nel tempo a delinearsi, quello delle produzioni zootecniche rappresenta un settore dove la competizione, si prevede sarà molto serrata (a maggiore ragione dopo la fine del regime delle “quote latte”, dall’aprile di quest’anno). Il recupero di competitività dell’agricoltura italiana (che si caratterizzata rispetto agli altri Paesi da un maggior numero di prodotti tipici che tutto il mondo ci invidia…, **ed anche 34 M. Franchi, La grande coalizione anti-transgenica. Associazioni, coltivatori “bio” e 12 regioni all’Europa: “Tolleranza zero sugli Ogm”, L’Unità, giovedi 06/11/2003. Bac M., Cinque regioni seguono la Toscana. Via all’Eterologa senza la legge. Corriere della Sera, martedì 01/09/2014. http://archiviostorico.corriere.it/2014/settembre/02/Cinque_Regioni_seguono_Toscana_Via_ co_0_2014902_4d17aaae-327a-11e4-b9d1-c9b64603767f.shtmi. Ravizza S., La giungla dei costi? L’idea del ticket unico. Corriere della Sera, Corriere della Sera, martedì 16/09/2014. http:// archiviostorico. corriere.it/2014/settembre/16/giungla_dei_costi_idea_ticket_co_0_20140916_f1c93ae6-3d64-11e4b8aa-a3bfe528f249.shtml. 300
copia!), rappresenta pertanto la soluzione vincente, a patto di investire in fattori produttivi e tecnologie innovative, comprese quelle biotecnologiche, nella misura in cui queste risultino essere disponibili ai nostri competitori ed a parità di utilizzo35. Inoltre le materie prime impiegate che stanno alla base dei prodotti tipici, dovranno essere sempre più qualificate (tracciabilità delle produzioni), in considerazione della pressione dell’offerta, sia intra che extra UE. A complicare il quadro della situazione, vi è infatti da considerare che all’agricoltura vengono da qualche anno richieste nuove funzioni, accanto alle tradizionali di produzione di beni alimentari e fibre, anche quella di energia da biomasse e/o da fonti rinnovabili (Fig. 8).
Fig. 8. Impianto di mini eolico e pannelli fotovoltaici a moduli totalmente integrati, presso un agriturismo della collina parmense. Gli impatti del cambiamento climatico e gli obiettivi comunitari per la riduzione di CO2, oltre all’aprire all’azienda agricola nuove possibilità di investimento per la produzione di energia, possono consentire di certificare le proprie produzioni come meno impattanti nei riguardi del clima e dell’ambiente. Foto Cantarelli
Attorno a quest’ultima funzione si è ingenerata –non solo in Italia–, una competizione alimenti-bioenergia per le aree coltivate, con risvolti anche sull’andamento dei prezzi delle principali commodities; tuttavia decisioni politiche aventi lo scopo di cercare di risolvere istanze di vario tipo (sia interne che internazionali), mettono talora a disposizione dei contributi, che le aziende agricole possono trovare economicamente convenienti. Di fronte a questi mutati e complessi scenari, che impattano direttamente sul futuro del nostro settore primario, dagli anni novanta del secolo scorso la società dei consumi appare sempre più influenzata, per usare un’efficace ma tagliente espressione del Saltini da “capocuochi, agroimbonitori, agrociarlatani e pitonesse”. Dell’ultima categoria, la rappresentante più famosa millantava una laurea in fisica in 35 D. Casati, Il campo e la cascina: appunti su un’economia agricola in evoluzione. In Cantù E. (a cura di), op.cit, pp. 115-122; P. Morandini, Stiamo perdendo la sfida ai cibi “Doc” e all’agricoltura pulita. Tutto Scienze-La Stampa mercoledi 18/06/2014 301
realtà mai posseduta36. In compenso è stata prescelta quale ambasciatrice di EXPO. Onore al merito! In un intervista ad Enzo Biagi del 197737, siamo in pieno periodo del “compromesso storico”, l’on. Giorgio Amendola diceva di avere chiesto ad un capo della DC, allora partito di governo: “Ma con tutti questi nastri, congressi, premi, quando leggete, quando studiate? C’è stato dal 1945 un enorme abbassamento del livello culturale”. Non risulta –naturalmente le eccezioni non mancano mai-, che il “livello medio” inteso da Amendola sia in questi anni particolarmente migliorato. Alla parola nastri si potrebbe sostituire “twit” o “post”, che il significato non cambierebbe ugualmente. Al mondo agricolo viene quindi richiesta l’esercizio di un’antica e caratteristica virtù propria: quella della pazienza. Abituato nei secoli ad accettare le bizze del clima, a sopportare le iniquità di un mercato (anche quando il clima fosse stato favorevole), frequentemente non remunerativo del faticoso lavoro fatto, negli ultimi anni oggetto di critiche per i cattivi odori provenienti dall’attività di allevamento, da parte di schiere di civilissimi cittadini nell’istante successivo lo scarico, dal baule della propria macchina, di una carrello della spesa colmo di provviste alimentari. D’altra parte, come insegnava il saggio contadino emiliano Alcide Cervi, “dopo un raccolto ne viene un altro”. L’importante è seminare bene.
36 L. Mariani, 2015. Il manifesto di Vandana Shiva per un nuovo medioevo in agricoltura http:// agrariansciences.blogspot.it/2015/05/il-manifesto-di-vandana-shiva-per-un.html. Lo stesso articolo rimanda alle seguenti fonti per i fatti menzionati: Specter M., 2014. Seeds of doubt. An activist’s controversial crusade against genetically modified crops http://www.newyorker. com/magazine/2014/08/25/seeds-of-doubt; Remnick S., 2014. New Yorker editor David Remnich responds to Vandana Shiva criticism of Michael Specter’’s profile http://www.geneticliteracyproject. org/2014/09/02/new-yorker-editor-david-remnick-responds-to-vandana-shiva-criticism-of-michaelspecters-profile/ 37 Giorgio Amendola, l’uomo del “compromesso storico”. In E. Biagi (in collaborazione con Mazzetti L.), L’Italia del ‘900 (1976-1979), Rizzoli, Milano 2007, pp. 80-83. 302
Il paesaggio, i prodotti, gli attori, le strategie per lo sviluppo del territorio rurale
Gabriella Bonini
Sviluppo locale e partecipazione Nella costruzione di un progetto di sviluppo territoriale in ambito rurale la comunità deve condividere il progetto, ne deve essere coinvolta in modo diretto e su più piani, dalle risorse materiali e finanziarie a quelle intellettuali e operative. E non solo in funzione dello sviluppo turistico, che è uno dei possibili sbocchi, ma dell’utopia di costruire comunità, luoghi e sistemi di vita dove i residenti e chi vi si reca “viva bene”, vi trovi qualcosa di “autentico”, di vero. Il nostro Paese, in questo ambito, possiede un potenziale formidabile. I nostri territori, i luoghi, i paesaggi, i cibi, in tutte le loro complessità e peculiarità, sono veri e propri “prodotti” composti da una materia prima motivante, che è il patrimonio culturale, ambientale e demoetnoantropologico: un prodotto rurale culturale del tutto diverso da quello di qualunque altro settore economico-produttivo o turistico in senso tradizionale. La “costruzione” di un tale prodotto implica il coinvolgimento diretto non solo degli addetti, ma anche di tutti i soggetti che fruiscono e vivono sul e del territorio, e quindi dei residenti, gli stakeholder che concorrono a costruire un dato sistema di vita e a gestirne gli aspetti, materiali e immateriali. Aziende e istituzioni, pubblico e privato, devono incontrarsi nelle forme più appropriate per coniugare impresa economica, qualità e promozione territoriale in un connubio indissolubile nel quale la storia e le tradizioni profonde di una regione sono il motore dell’innovazione e dello sviluppo. Lo scopo è costruire un sistema integrato e coordinato fra imprese attraverso la condivisione di un disciplinare qualitativo comune, sviluppando un’azione congiunta di tipo territoriale per valorizzare e promuovere l’offerta turistica, agroalimentare, enogastronomica, paesaggistica, ossia un territorio intero. Le filiere agroalimentari costituiscono uno dei molteplici assetti territoriali coinvolti nei processi di sviluppo locale per l’importanza che la tradizione gastronomica e la cultura rurale rivestono nella percezione del valore identitario di un territorio. Si tratta di un mutamento che può ridare valore e attrattività a tutte quelle realtà – regioni o territori locali – ingiustamente marginalizzate dallo sviluppo del turismo di massa, dalla industrializzazione e dalla eccessiva specializzazione di alcuni settori. Ai fini di un tale ripensamento non possono essere elusi, né sul piano metodologico né su quello degli obiettivi, due elementi essenziali: quello fisico del territorio e quello sociale della 303
partecipazione della popolazione alla conservazione e alla valorizzazione degli elementi del patrimonio materiale e immateriale nell’integrazione con i programmi di valorizzazione territoriale. La partecipazione implica logiche non di mercato né di costi-ricavi, ma parametri legati alla trasformazione del territorio, agli effetti indotti sull’attività economica a lungo termine, all’utilità sociale diretta e indiretta, ai rapporti con le risorse umane locali, al valore che si aggiunge al patrimonio culturale esistente, ai prodotti della terra, al paesaggio, alle risorse locali in termini di conoscenze e competenze. Un “vero” sviluppo, infatti, tiene conto, in misura adeguata, delle tre componenti fondamentali della sostenibilità: quella economica, quella ecologica e quella sociale; della trasmissione delle risorse alle future generazioni; del fatto che esso si realizzi in armonia con il patrimonio culturale e territoriale locale contribuendo alla sua vitalità e crescita e che rivaluti il locale passando da un modello globale semplificato a un modello locale complesso. Al centro va rimesso il territorio con i suoi prodotti, il paesaggio e il cibo, in una visione d’insieme e di integrazione che punti all’affermazione di un grand tour democratico, non più delle corti e delle capitali, ma dei mille luoghi di cui è ricco il territorio italiano. I prodotti di un territorio non possono che contribuire in modo determinante alla costruzione di una strategia coerente di valorizzazione delle potenzialità endogene di un luogo in un’ottica di utilizzazione non dissipativa delle risorse locali. Agricoltura, territorio, prodotti, sono beni di cittadinanza, componenti fondamentali per il futuro del mondo rurale italiano1.
Le componenti culturali del rurale Il paesaggio Il paesaggio è il prodotto dell’ingegno dell’uomo per eccellenza, si propone al nostro sguardo come dinamica forma del mondo e come spettacolo... è storia .. somma di eventi uno sopra l’altro...vive e racconta (Eugenio Turri)2; è il grande palinsesto millenario nel quale possiamo leggere la nostra storia (Argan)3; è un immenso deposito di fatiche che per nove decimi non è opera della natura, ma è opera delle nostre mani, è una patria artificiale» (Carlo Cattaneo)4; è quella forma che l’uomo, nel corso ed ai fini delle sue attività produttive agricole, coscientemente e sistematicamente imprime al paesaggio naturale (Emilio Sereni)5 il prodotto del lavoro mischiato a “natura”, un perenne in fieri, prodotto dell’interazione tra modi di produzione, sistemi giuridici, culture e colture, lotte sociali, come un fare o come un farsi, piuttosto che come un fatto6. La Convenzione Europea del Paesaggio lo interpreta come “una porzione del territorio, così come percepita dalla popolazione, i cui caratteri sono il risultato dell’azione e dell’interazione di fattori naturali e/o antropici7. 1 Rossano Pazzagli, Il turismo come esperienza, testo pubblicato su dicembre 6, 2012 da librovolante, http://pasqualedilena.blogspot.it/2012/12/il-turismo-come-esperienza.html 2 E. Turri, Il paesaggio italiano,Touring Club Italiano, 2000 3 Nel discorso che trent’anni fa G. C. Argan tenne al Senato a sostegno dell’approvazione della legge Galasso (Legge 431/1985) 4 Dall’Introduzione di Luigi Einaudi a C. Cattaneo, Saggi di economia rurale, Torino 1975, p. XXXVII 5 E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Laterza, Bari 1961, Prefazione 6 Ibid. 7 La Convenzione Europea del Paesaggio è un documento adottato dal Comitato dei Ministri della Cultura e dell’Ambiente del Consiglio d’Europa il 19 luglio 200, ufficialmente sottoscritto nel Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio a Firenze il 20 ottobre 2000. È stata firmata dai ventisette Ssati della Comunità Europea e ratificata da dieci, tra cui l’Italia nel 2006 a Roma. 304
Alla fisionomia di un luogo concorrono le segnature del passato, dal modo di differenziare i territori dell’abitazione e della coltivazione, ai tracciati stradali, alle modalità del costruire, fino a ciò che chiamiamo “monumenti”, le tracce architettoniche e topografiche più antiche. È un palinsesto complesso e sensibile di azioni, memorie, identità; una sorta di diagramma del senso che una comunità o una cultura ha riconosciuto al proprio abitare, tramandandolo nella configurazione visibile del proprio paesaggio, rendendo visibile ai posteri l’amore e l’identificazione con la propria terra attraverso la cura rivolta ad essa lungo i secoli. È quanto ci permette di “sentirci a casa”, di riconoscerci nell’appartenenza a un ben preciso orizzonte, che non è mai soltanto il risarcimento estetizzante e momentaneo di una fruizione turistica, ma, appunto, il sentirsi parte di quella cultura e di quelle tradizioni che hanno informato di sé i luoghi, ricevendone in cambio possibilità e ricchezza simbolica8. Paesaggio deriva etimologicamente da paese, paysage in francese, come visage, viso, immagine visiva di un territorio, mentre cultura e coltura conservano la stessa radice etimologica, dal latino còlere, coltivare. Colère indica come il senso dell’abitare sia indistinguibile dal coltivare, dall’aver cura e abitare un luogo vuol dire dunque prendersene cura attraverso i modi del costruire, del coltivare e anche dell’onorare il suo genius loci, il suo carattere sacro, riconoscere che in ogni luogo c’è qualcosa di altro oltre all’uomo e di più rispetto alle dimensioni visibili9. Il paesaggio culturale è quindi da intendere letteralmente quello che è stato “coltivato” dall’intervento dell’uomo, che vi ha impresso le tracce della propria cultura. Per questo i paesaggi differiscono l’uno dall’altro a seconda delle diverse condizioni naturali e delle strategie messe in atto dalle comunità, al fine di renderli vivibili. Essi sono specchio sia delle differenze geografiche, sia di quelle culturali, ovvero delle articolate risposte dell’uomo al suo ambiente di vita. L’Italia è terra di città, ma è anche spazio composito di uno straordinario paesaggio rurale creato dall’interazione tra natura e agricoltura, che assume forme particolari nei diversi sistemi agrari della penisola, fino ai connotati mitici nelle regioni della mezzadria, delle colline toscane o delle terrazze liguri, dove l’alternanza di seminativi, la geometria dei campi coltivati, castagneti, oliveti e pascoli, i filari allineati, i muretti a secco ordinati, le tradizionali alberature, le coltivazioni a girapoggio, cavalcapoggio, terrazza, conferiscono ai luoghi forme e colori che si integrano in particolari combinazioni, espressioni segniche incisive del sapiente rapporto uomo-natura. Borghi, dimore rurali, grandi corti plurifamiliari, masserie latifondiste, ordinate strutture padane della centuriatio romana, centri murati dell’appennino centrale, città di fondazione lungo le principali direttrici territoriali isolate nei latifondi dell’entroterra siculo..., il catalogo dei paesaggi agrari italiani è ricco, un immenso patrimonio di tutte le epoche storiche e preistoriche che appartiene alle comunità rurali. Al di là delle metodologie adottate per arrivare a una interpretazione sintetica di questo nostro paesaggio rurale (unità paesistiche, sistemi di paesaggio, contesti paesistici, ecc) e della tassonomia utilizzata per fissarne i caratteri (geografica, geomorfologia, ecc) abbiamo collettivamente un patrimonio di specificità differenti che chiamiamo con i nomi dei luoghi e delle colture: il paesaggio delle crete senesi, il paesaggio delle colture foraggere, il paesaggio dell’agrumeto, il paesaggio dell’olivo.... e che guidano il riconoscimento dei rapporti di 8 L. Bonesio, Riscoprire il senso del luogo 11/10/2005 in www.ariannaeditrice.it; Paesaggio, identità e comunità tra locale e globale, 2007, Diabasis; Intervista sulla geofilosofia, 2010. Per il concetto di “luogo”, M. Heidegger, “Costruire, abitare, pensare”, in Saggi e discorsi, tr. it. di G. Vattimo, Mursia, Milano 1976; C. Norberg-Schulz, Genius Loci. Paesaggio, ambiente, architettura, traduzione di A.M. Norberg-Schulz., collana Documenti di architettura, Electa 1992 9 Concetto ampiamente espresso in C. Norberg-Schulz, Genius Loci. Paesaggio, ambiente, architettura alla nota precedente 305
continuità, reciprocità tra uomini e loro paesaggio di riferimento. «Sono stati i nostri agricoltori a costruire il “bel paese” che vanta non solo borghi, villaggi, ville, giardini e grandi residenze di campagna, ma anche spazi verdi e campi accuratamente coltivati ricavati, sui suoli acclivi e su quelli pianeggianti, dal loro ingegno e dalla loro capacità di creare un rapporto anche con gli ambienti naturali più ostili [...]. La straordinaria ricchezza di tante offerte [...] che hanno suscitato già nel passato l’ammirato stupore di agronomi e viaggiatori rappresentano oggi un laboratoriod’elezione per la sperimentazione dei processi di valorizzazione e di sviluppo integrato e sostenibile del territorio»10 È in questi termini che il paesaggio rappresenta il tratto identificativo del territorio e della società, prima ancora di essere una delle componenti essenziali dell’offerta turistica in ambito rurale. Tuttavia è innegabile che la produzione stessa del paesaggio agrario, legata agli assetti colturali e alle scelte di progettazione territoriale assuma oggi una grande importanza nella definizione dei paesaggi di qualità nella loro portata ambientale, architettonica, panoramica, a fini turistici. L’agricoltura vede nel turismo la possibilità di diversificare la sua produzione e di proporsi come spazio di consumo, turistico e più ampiamente ricreazionale; il turismo vede nell’agricoltura il giacimento di nuove risorse espressione di un nuovo modello di consumo basato sulla estetizzazione della merce: dalle risorse strettamente agricole e connesse con la trasformazione dei prodotti tipici ed identitari, a quelle più simboliche come il paesaggio agrario che diviene luogo di consumo fisico e di costruzione culturale, «agricoltura e campagna divengono luoghi mentali, rappresentazioni ideali e idealizzate»11. Il paesaggio è risorsa turistica. Alla luce di quanto detto, il principio dell’integrazione è strategico ai fini della valorizzazione del rapporto prodotto-paesaggio laddove la qualità dell’uno è espressione diretta della qualità dell’altro. In tal senso, si muovono le raccomandazioni della Commissione Paesaggio istituita presso il Ministero delle Politiche agricole Alimentari e Forestali e all’interno del Piano di sviluppo Rurale (PSN)12 che auspica la valorizzazione di un più stretto rapporto tra paesaggio, beni e servizi con misure che promuovano la conservazione delle risorse paesaggistiche e con esse la qualità dei prodotti. Il paesaggio costituisce il valore aggiunto dei prodotti agricoli in quanto mantiene stretto il rapporto fra prodotto tipico e paesaggio tipico di riferimento13. Produzioni tipiche e produzione di paesaggio divengono così aspetti inscindibili che, oltre ad aumentare la competitività del settore agroalimentare, accrescono la visibilità del contesto locale e le sue potenzialità di sviluppo. Il richiamo al paesaggio ai fini della promo-ommercializzazione dei prodotti tipici è, del resto, strumento di marketing consolidato che chiama in causa il ruolo del capitale simbolico inteso come l’insieme dei simboli prodotti dalla società locale il cui possesso e utilizzo consente di influenzare l’azione di altri soggetti14. 10 M.G. Grillotti Di Giacomo, Il paesaggio rurale da paradigma scientifico a progetto di sviluppo locale, in Zerbi M.C. (a cura di), Il paesaggio rurale: un approccio patrimoniale, Giappichelli Editore, Torino, 2007, p. 68. 11 Belletti e Berti (2011, p. 29) 12 Il PNS è lo strumento con il quale il Governo gestisce i fondi assegnati dalla PAC per il periodo 2007-2013 con una distribuzione regionale per il tramite dei relativi Piani di Sviluppo Rurale 13 Agnoletti M. (a cura di), Gruppo di lavoro “Paesaggio”. Contributo tematico alla stesura del Piano Strategico Nazionale, Programmazione Sviluppo rurale 2007-2013, Documento di sintesi, 2006, pp. 139-142 14 G. Belletti e G. Berti, Turismo, ruralità e sostenibilità attraverso l’analisi delle configurazioni turistiche, in Pacciani A. (a cura di), Aree rurali e configurazioni turistiche. Differenziazione e sentieri di sviluppo in Toscana, Angeli, Milano, 2011, pp. 21-62. 306
I prodotti È evidente, dunque, il nesso tra prodotto tipico-turismo-paesaggio quale espressione di sviluppo endogeno del territorio, idealmente evocativo della stessa immagine che collega, mettendo in relazione diversi luoghi, i prodotti tipici in una rete che connette vari attori del territorio e produce coerenza strutturale tra una varietà di elementi simbolici e materiali la cui organizzazione complessiva è determinata da una azione collettiva15. Da un lato, quindi, il prodotto tipico rappresenta un fattore identitario perché caratterizza e differenzia territorio nel quale è realizzato, dall’altro, è proprio l’appartenenza ad un determinato territorio che conferisce al prodotto la propria tipicità. Questo riferimento agli elementi materiali e immateriali, come la qualità, la lavorazione artigianale, le caratteristiche climatiche dei luoghi di produzione, le pratiche colturali, il legame con la tradizione e la cultura locali, rendono il prodotto unico e immediatamente riconoscibile dal consumatorefruitore. Territorio e produzioni tipiche si fondono in un unico prodotto, l’uno indispensabile all’altro. Il prodotto tipico locale è per antonomasia il risultato complessivo e sfaccettato di un percorso storico attraverso cui si sono generati e consolidati valori e modi d’essere di una comunità o di una parte di essa che nel tempo ha mantenuto e sviluppato quella specifica attività produttiva. Dall’ambito locale sono forniti, al sistema di produzione tipica, input fondamentali (il lavoro e le sue competenze, la specifica cultura di produzione, l’attenzione e la disponibilità da parte della società e delle istituzioni) che manifestano il loro ruolo essenziale sia in quanto coerenti con gli specifici caratteri dei quella produzione sia perché suscettibili di consolidare e perpetuare valori e modalità operative caratteristici della stessa. Nell’ambito del sistema del prodotto tipico locale la produzione ha caratteristiche di circolarità in quanto è evidente l’esistenza di una rete di connessione tra gli aspetti meramente economici e tecnici e quelli culturali e istituzionali fortemente coinvolti e immersi nell’atmosfera contestuale del prodotto tipico che determina le condizioni ed i presupposti per la realizzazione della produzione e la sua perpetuazione. I caratteri della cultura di contesto del prodotto tipico non trovano espressione solo nell’attività produttiva diretta, ma anche, in modo più ampio e generalmente esterno al momento produttivo, il che conferma la condivisione a livello sociale di valori specifici partecipati da parte della società locale (sagre e feste locali dove il prodotto tipico locale e il relativo processo produttivo sono il filo conduttore per il ruolo comunicativo aggregante se non rituale). Il prodotto tipico locale Aspetto economico e tecnico, materie prime, condizioni pedoclimatiche, biologiche, ecc.
Aspetto culturale e istituzionale, conoscenze tacite, il saper fare, ingegno, capacità inventiva
Fattori interconnessi nella produzione del prodotto tipico locale Nel sistema della produzione, e in particolar modo nell’ambito del prodotto tipico locale, le competenze sono condizioni di ordine superiore in quanto fanno riferimento a 15 idem 307
un sistema di conoscenze e relazioni specifiche sedimentate, riconosciute dagli attori della zona di nascita e realizzazione del prodotto. È l’insieme degli elementi conoscitivi, condivisi dai produttori locali in virtù della cultura contestuale sedimentata attraverso il tempo, che consente il dominio delle risorse locali e dei processi specifici, non ripetibili altrove, ai fini dell’ottenimento del prodotto d’origine. Sono le competenze distintive, l’ingegno e le abilità dell’uomo-produttore, il contesto, a costituire la parte qualificante della cultura produttiva che si concretizza nel prodotto tipico locale. Sono competenze non trasferibili, storicamente localizzate, nettamente differenziate da quelle standard. Nel sistema di produzione tipica le competenze dei produttori si intersecano in virtù della comunanza dei processi e del prodotto storicamente localizzato: per questo le competenze (conoscenze e capacità degli operatori) sono distintive. Le conoscenze sono poi contestuali in quanto connesse alla specificità del processo economico localizzato e al relativo ambiente (spesso unico nel caso delle produzioni tipiche); sono inoltre sostanzialmente tacite e non codificate, strettamente connesse al saper e al saper fare; esse trovano nella comunanza culturale la loro culla e nella modalità diretta il mezzo prevalente di diffusione. Poiché l’unicità del prodotto tipico locale è il risultato di tecnica produttiva strettamente connessa al saper e al saper fare, alle conoscenze culturali accumulate, all’ingegno dell’uomo, alla natura particolare della materia prima, alle condizioni pedoclimatiche, biologiche, ecc. e relative combinazioni, la sfida passa ora dai prodotti alle percezioni che questi suscitano, all’empatia che si viene a instaurare tra consumatore e oggetto del turismo (il luogo, il prodotto, le persone, la storia, le tradizioni, il modo di vita), alla capacità di coinvolgere ed emozionare il viaggiatore quale nuovo e moderno consumatore che, spinto da fattori emotivi è alla ricerca di esperienze d’acquisto e di consumo piacevoli e coinvolgenti in grado di renderlo protagonista delle due azioni: la scelta e il consumo. A questo punto il valore percepito dal consumatore non dipende solo ed esclusivamente dalla qualità del prodotto, ma dal tipo e dall’intensità dei legami che esso può sviluppare. I legami e le relazioni sociali sono più importanti del prodotto acquistato. Così, il consumo da un agire economico si trasforma in un agire sociale e il prodotto che il consumatore acquista in prodotto sociale. Fare un’esperienza non è come fare un semplice acquisto: l’esperienza si lega profondamente a cosa succede alla propria identità mentre si compra, mentre si consuma e mentre si racconta il proprio consumo agli altri. Quando si vive un’esperienza emotivamente forte, si è coinvolti così profondamente che si resta fedeli al prodotto, lo si comunica ad amici e parenti, lo si vuole ri-possedere e si ritorna: l’esperienza è stata così intensa che ha cambiato l’animo dell’acquirente. La vacanza allora non è più una pausa (da dimenticare) ma un pezzo della propria vita che resta: la persona è entrata dentro nell’esperienza, vi si è immersa fisicamente e concretamente e ora l’esperienza fa parte della vita stessa16. La forte identificazione di un prodotto tipico con uno specifico territorio, con le sue caratteristiche pedo-climatiche e, più genericamente ambientali, con la sua storia insediativa 16 È questo in sintesi il concetto espresso da J. Pine II e J.H. Gilmore in “L’economia delle esperienze. Oltre il servizio” affrontano il tema dei possibili modelli di consumo delle società avanzate e le conseguenti sfide strategiche che le imprese sono chiamate a fronteggiare per soddisfare le nuove esigenze della clientela ed affrontare con successo i cambiamenti del mercato. I due studiosi, sulla base dell’osservazione della società americana e partendo dall’ipotesi implicita secondo cui la domanda è alla continua ricerca di nuovi oggetti e forme di consumo, di nuove emozioni e sensazioni e di maggiori pretese consumistiche, formulano la tesi secondo la quale l’epoca dei servizi è giunta al termine per lasciare il passo all’economia delle esperienze. 308
e, piĂš ampiamente, socio-culturale, può chiudere dunque il cerchio attorno a un potenziale modello di offerta turistica integrata e condivisa che trova nella valorizzazione del binomio prodotto-paesaggio un plusvalore territoriale capace di riprodurre un patrimonio millenario in termini identitari, sottraendolo a dinamiche omologanti e aprendolo allâ&#x20AC;&#x2122;interdipendenza con il sistema economico globale.
Immagine di Stefano Rami 309
Peasaggi del vino e cultura del gusto
Rossano Pazzagli
La vite e il vino: un percorso storico Nell’ambito del paesaggio italiano i territori vitati rappresentano un carattere significativo e pervasivo, fino a divenire elemento peculiare dell’identità di molti luoghi. La vite, con il grano e l’olivo costituiscono una sorta di trinità mediterranea, da lunghissimo tempo base dell’alimentazione, elemento culturale e simbolico che dalle antiche civiltà giunge fino a noi e alla dieta mediterranea, ora elevata anche a patrimonio dell’umanità. Il paesaggio del vino è stato generato nei secoli dalle diverse modalità di coltivazione della vite, fino alla sua forma più specializzata rappresentata dalla vigna. L’uva, come il frumento e le olive, deve essere trasformata per diventare vino, farina, olio. Così il paesaggio agrario assume anche i tratti di un paesaggio manifatturiero con cantine, molini e frantoi. C’è tanta industria in questo; “industria” intesa universalmente come “saper fare”, non come sintesi della moderna e ormai stanca civiltà industriale. Può un prodotto essere l’emblema dello sviluppo locale? Con una felice equazione Carlo Petrini ha scritto, riprendendo un’espressione del contadino e scrittore americano Wendell Berry, che nutrirsi è “un atto agricolo” e che, di conseguenza, produrre deve essere “un atto gastronomico”1. La filiera del cibo rappresenta in effetti il principale canale nelle relazioni tra l’uomo e la terra. Per questo il cibo e la sua produzione devono riconquistare la giusta centralità tra le attività umane e i Comuni, le comunità locali – città o piccoli centri con le loro campagne – devono essere considerati il luogo privilegiato per l’esercizio della democrazia alimentare, cioè di un modo di alimentarsi alla portata di tutti in modo salutare e sostenibile, senza compromettere il benessere di altre persone e di altri territori, delle future generazioni e dell’ambiente. Il vino è la metafora di molte cose. Secondo il musicista Giovanni Bietti, autore di un manuale del buon bere, esso è anche la metafora del tempo, nel senso che il vino ci offre la possibilità di un rapporto etico con il tempo, la possibilità di dare il giusto valore all’attesa, alla lentezza, alla ponderazione. La necessità di rallentare di fronte al mondo che corre, rispetto all’urgenza del consumo e del mercato: “perfino il tempo è stato trasformato in consumo”, ha scritto efficacemente Bietti2. Un prodotto come il vino, che può sfruttare la 1 C. Petrini, Buono, pulito e giusto. Principi di nuova gastronomia, Einaudi, Torino, 2005, pp. 21 e 63. 2 G. Bietti, Il vino e il tempo, ossia il tempo del vino, “Terre del vino”, X, n. 3, 2012; G. Bietti, Vini natu311
sua notorietà a livello generale, può diventare in tale ottica un elemento significativo per la ridefinizione delle strategie di sviluppo rurale, così come si sono venute definendo anche a livello comunitario intorno alla metà degli anni ‘90, dalla conferenza di Cork (1996) alla approvazione di Agenda 2000 da parte della Commissione europea (1997). Le bottiglie che circolano su circuiti commerciali integrati, locali e internazionali, assumono, in tal senso, il valore di uno straordinario incoraggiamento per gli attori istituzionali e privati dello sviluppo locale. Le Città del Vino, una associazione tra Comuni nata a Siena nel 1987, hanno indubbiamente fatto da megafono a questa possibilità, creando e realizzando iniziative che hanno posto la “località” al centro delle strategie culturali e di marketing. La cultura della vite e il paesaggio viticolo costituiscono dunque un patrimonio – materiale e immateriale – della comunità, una componente essenziale della storia di un territorio, segni che possono essere letti e vissuti. In questa prospettiva assumono anch’essi il valore di beni comuni, cioè beni fruibili da tutti, e costituiscono uno strumento che accresce la conoscenza dell’uomo e la qualità della sua vita. Il paesaggio in particolare rappresenta un fattore di primaria importanza per la scoperta di un territorio e costituisce un elemento di grande attrattività3. Il paesaggio del vino è stato generato nei secoli dalle diverse modalità di coltivazione della vite, con grandi differenze nel tempo e nello spazio; si pensi alle piccole e numerose vigne dei poderi mezzadrili a coltura promiscua e ai vigneti specializzati che coprono intere colline uniformando e intristendo il paesaggio agrario. In Toscana e in molte altre zone dell’Italia centrale, dove a lungo ha dominato il rapporto di mezzadria, si è affermato nel basso medioevo e in età moderna un sistema di coltura promiscua, nel quale l’ulivo e la vite hanno convissuto l’uno accanto all’altra, piantati in filari, in mezzo ai campi o lungo i contorni degli appezzamenti seminativi (le cosiddette prode). Anche gli alberi da frutta costituivano un variopinto corredo dei poderi mezzadrili e le stesse vigne erano costellate qua e là da un pesco o da un melograno; con essi altri alberi, come gli aceri, gli olmi, i pioppi contribuivano a dare al paesaggio una dimensione verticale che si sovrapponeva, quasi nascondendola, a quella orizzontale dei seminativi, composti a loro volta da una straordinaria varietà di cereali, legumi, ortaggi, radici alimentari e foraggi. I due elementi cardine del paesaggio di tante regioni italiane – l’ulivo e la vite – sono stati a lungo compagni di viaggio, si sono così ritrovati in una fase di conflittualità per approdare in vari casi all’espianto di uliveti per far posto ai vigneti. In Toscana, se nelle aree storiche della vitivinicoltura (Chianti, Montalcino, ecc.) questo processo si è verificato nel corso del ‘900, nella fascia costiera della regione, fino alla Maremma, il fenomeno ha assunto di recente i tratti di una vera e propria trasformazione ambientale; in alcuni casi la vite (o meglio, la vigna iperspecializzata e meccanizzata) tende a scacciare l’ulivo rompendo un equilibrio paesistico e territoriale consolidato. Talvolta l’impianto di nuovi vigneti prende la forma del rittochino, rendendo i versanti più vulnerabili dal punto di vista idrogeologico, e spesso interessa campi contigui o intere porzioni di territorio, preparando, soprattutto per l’inverno, un paesaggio di pali e recinti. Naturalmente il problema non è soltanto toscano. Carlo Tosco ci ha giustamente fatto notare come le distese uniformi e geometriche di filari che cavalcano i poggi delle regioni vitivinicole, segando l’immagine divulgata del territorio, sono in gran parte un risultato imposto dalle logiche del mercato e dallo sfruttamento intensivo dei terreni, laddove in precedenza prevaleva invece l’assetto della coltura promiscua. “Con la fine della cultura mista – ci fa osservare Mario Fregoni – abbiamo perso un grande patrimonio rali d’Italia. Manuale del bere sano, Edizioni Estemporanee, Roma, 2011. 3 I paesaggi del vino, a cura di G. Galeotti e M. Paperini, Debatte, Livorno, 2015. 312
storico e tradizionale, con il quasi totale azzeramento della viticoltura etrusca: ma esistono ancora dei simboli da salvare” 4. Purtroppo anche il vino ha teso a configurarsi come un prodotto tipico globalizzato, bypassando spesso le città e i contesti locali di riferimento, ma molte situazioni, in cui la produzione si lega al consumo attraverso la piccola ristorazione di qualità, la degustazione e la vendita diretta in azienda, le enoteche disseminate nei borghi e tutte le altre forme di vendita e consumo di prossimità, dimostrano come sia possibile una integrazione dal basso della dimensione produzione/consumo. La nostra agricoltura, facendosi carico del compito di raggiungere direttamente il consumatore, può costituire la leva per la rinascita delle economie locali centrate sul territorio. L’esperienza storica, frutto dell’intreccio tra condizioni naturali e azioni antropiche, mostra la forza, ma anche la fragilità, di un processo di lungo periodo che non deve essere trascurato: esso ha prodotto, grazie all’organizzazione mezzadrile dell’agricoltura, quell’insediamento “resistente”, fatto di case coloniche, di una fitta rete di viabilità rurale, della compresenza di colture legnose ed erbacee sugli stessi terreni, con la vite e l’ulivo intercalati ai seminativi, di una continua e coerente manutenzione territoriale. È necessario che il settore agricolo diventi non solo cosciente del valore di tale risorsa, ma anche il primo attore della sua difesa, contrastando i fenomeni di degrado conseguenze di politiche inadeguate e riappropriandosi del ruolo di attore principale che la storia ha assegnato al mondo rurale per la costruzione e conservazione di questo patrimonio. C’è una relazione forte tra qualità dei prodotti e qualità del paesaggio, che in fondo altro non è che una mirabile sintesi fra natura e pratiche agricole. Il paesaggio è trasformazione, talvolta può essere frontiera dell’innovazione. Si pensi all’esperienza delle nuove cantine, firmate dalle cosiddette archistar, che in diversi luoghi dell’Italia hanno collegato la produzione di vino all’arte e all’architettura. Alcuni tra i più importanti architetti contemporanei hanno infatti realizzato negli ultimi anni edifici per la produzione e la conservazione del vino, come abbiamo già detto e come dimostra il recente volume pubblicato dalla casa editrice Electa che raccoglie i più interessanti esempi a livello mondiale dal 2007 a oggi5. Non solo gli architetti, ma anche artisti. È il caso dello scultore Arnaldo Pomodoro che nella tenuta di Castelbuono, in Umbria, ha progettato un “carapace” per il sagrantino e il rosso di Montefalco: una grande calotta coperta di rame con delle crepe che rompono la superficie attraversata da una vertebra centrale. “Oggi, a 85 anni – ha dichiarato Pomodoro a La Repubblica – per la prima volta ho avuto l’emozione di poter camminare, mangiare, bere e parlare all’interno di una mia opera”. In tutti questi casi si apre il problema del rapporto che questi edifici dell’architettura contemporanea, quasi sempre totalmente sganciati dalle tradizioni architettoniche dei luoghi, instaurano con l’ambiente e la società che li accoglie. Essi non possono mai restare solo iniziative economiche e imprenditoriali, ma dovrebbero configurarsi anche come progetti culturali e come cultura del gusto.
4 C. Tosco, I paesaggi del vino tra storia e futuro, in Cantine secolo XXI, a cura di F. Chiorino, Milano, Electa, 2011, p. 21. 5 Cantine secolo XXI, cit. 313
Natura e cultura Nel settore vitivinicolo negli ultimi anni ha destato particolare attenzione la problematica dei vitigni autoctoni vista sia come salvaguardia della biodiversità, sia come opportunità di sfruttare le loro peculiarità per produrre e promuovere nuovi vini. Come è stato giustamente osservato, l’aggettivo “autoctono”, in viticoltura, tende ad essere utilizzato più per indicare la presenza di una varietà in una determinata zona, specialmente se questa è documentata da un periodo sufficientemente lungo, piuttosto che per la sua vera effettiva origine. In questo caso sarebbe più opportuno usare il termine “locale”. L’impegno profuso in questo ambito dall’Associazione Nazionale Città del Vino si configura dunque come un antidoto al processo di erosione genetica conseguenza del mercato enologico globalizzato.6 Non dimentichiamo che l’Italia ha perso nell’ultimo secolo molti valori paesaggistici, sia in montagna che nella collina continentale e nelle piccole isole, costituiti da vigneti storici in forte pendenza, terrazzati, contenenti moltissimi vitigni autoctoni (abbiamo perso gran parte della biodiversità di cui è ancora ricca l’Italia viticola), forme di allevamento rare e così via. Dal punto di vista della biodiversità viticola, per la sua posizione geografica l’Italia – ha scritto Alessandra Calzecchi Onesti – rappresenta il Paese europeo (ma forse anche del mondo) più ricco, con un patrimonio da salvaguardare, studiare e far conoscere, perché può fornire contemporaneamente una chiave di comprensione del passato e le basi per la vitivinicoltura del futuro7 . Lo studio della vitis vinifera silvestris, capostipite di tutte le varietà di vite, è stato messo al centro di alcuni progetti che hanno coinvolto l’Associazione Città del Vino (“Vinum”, “Senarum Vinea”, “Iter Vitis. Il cammino della Vite”) portando l’attenzione sull’interesse e l’attualità della vite selvatica nello studio dell’origine dei vitigni coltivati. Un processo di domesticazione durato millenni ha dato origine a tutte le varietà di vite coltivate (Vitis vinifera sativa) presenti oggi nel mondo. I primi tentativi di domesticazione della vite risalgono al quinto millennio prima di Cristo in Anatolia; in Italia invece l’addomesticamento della vite ha avuto inizio “solo“ tremila anni prima di Cristo. La Toscana è la regione italiana con il maggior numero di esemplari di Vitis silvestris, concentrati prevalentemente nei boschi della Maremma che si affacciano sul litorale tirrenico. Non a caso furono proprio gli etruschi i primi viticoltori dell’età antica che tolsero la vite dai boschi e la coltivarono con il sistema della vite maritata all’albero, che ancora oggi si ritrova in alcuni angoli remoti della campagna toscana.8 La salvaguardia del patrimonio viticolo storico dovrebbe essere collegata anche ad un contemporaneo impegno per la conoscenza e la tutela di forme e pratiche tradizionali di coltivazione e di gestione della vigna, che in alcuni casi sono ancora utilizzate. La Bourgogne, ad esempio, va fiera della sua agricoltura orientata alla vite perché usa molto il cavallo per l’aratura del terreno al fine di evitare la nociva compattazione e costipazione, idrica e gassosa, prodotta dai trattori, specie a ruote. Qui hanno costituito anche un’associazione per salvare le razze equine più adatte al tiro pesante lento. In molti vigneti storici italiani si usano ancora i buoi o le vacche, e meno frequentemente asini e muli per le operazioni di cura del vigneto; gli animali possono lavorare su terrazze strette o su pendenze elevate, dove non si possono usare nemmeno i piccoli trattori. Per questi motivi lo stesso Mario Fregoni, instancabile intellettuale pratico della vite, ha lanciato un appello per salvare gli animali da tiro utilizzati nei vigneti storici9. 6 G. Scalabrelli, I vitigni autoctoni, “Locus. Rivista di cultura del territorio”, n. 7, 2007, pp. 45-52. 7 Terre del Vino”, X, n. 4, ottobre 2011, p. 10. 8 Archeologia della Vite e del Vino in Etruria, a cura di A. Ciacci, P. Rendini, A. Zifferero, Ci.Vin Editore, Siena 2007. 9 Cfr. il contributo di M. Fregoni, Le scelte di fondo delle Città del Vino e le prospettive per l’avvenire, “Terre del vino”, X, n. 1, 2012. 314
Vino e turismo “Il vino è componente essenziale dell’offerta turistica italiana: i visitatori apprezzano i vini italiani, li vivono lietamente, ne sanno apprezzare i valori di civiltà”. Con questa frase Elio Archimede apriva la sua relazione al convegno “Turismo e vino” che l’Ente Nazionale Vini organizzò a Siena il 5 aprile 1986, una sorta di preludio alla fondazione dell’Associazione Città del Vino. Il turismo del vino e più in generale il turismo enogastronomico rappresentano per tutte le regioni italiane una buona opportunità economica e ancor più una occasione per rileggere il territorio10. Il vino costituisce dunque uno strumento privilegiato di comunicazione e promozione per il turismo in ambito rurale, come dimostrano tra le altre le ricerche svolte ormai da molti anni da Magda Antonioli Corigliano11. La domanda enoturistica presenta tra i suoi tratti salienti un’ottima combinazione tra turisti italiani e stranieri, un interessante profilo socio economico del turista del vino e una significativa articolazione stagionale. Turismo del vino significa degustazione e acquisti di vino direttamente “in fattoria”, entrare nell’affascinante mondo della bevanda “seconda” soltanto all’acqua, ma, diversamente dall’acqua, capace di esprimersi in modi tanto diversi, con gusti e profumi che riflettono i terreni, le varietà di vite, il clima. Potremmo definire il connubio turismo-vino come un agriturismo a tema. Il turismo del vino è anche il turismo delle emozioni, della storia, della letteratura, del ruolo di protagonista che, nei diversi luoghi e periodi, ha sempre avuto il vino nell’accompagnare la festa, l’emozione, la gioia e il dramma. Una tradizione, quella legata al vino nelle nostre campagne, che è fra gli ingredienti più curiosi e stimolanti dell’agriturismo, fino a distinguerne quella vera e propria specializzazione che appunto è l’enoturismo o turismo del vino, nel quale le strade del vino disegnano alcune direttrici privilegiate proponendo degustazione e acquisti di vino direttamente presso il produttore. Sul turismo del vino sono stati condotti, negli ultimi anni diversi studi a cura soprattutto dell’Osservatorio sul Turismo del Vino promosso dall’Associazione Nazionale Città del Vino. Il lavoro dell’Osservatorio, iniziato nel 1999, ci dice che negli ultimi 12 anni si è assistito ad una rapida evoluzione del fenomeno, con 3 milioni di italiani che hanno vissuto almeno un’esperienza di turismo enogastronomico e 5,5 milioni che prevedevano di realizzarla nel 201112. Sarebbero oltre sei milioni i turisti del vino, con diversi livelli di interesse e di disponibilità alla spesa per la degustazione e l’acquisto diretto di vini presso le aziende vitivinicole. I rapporti annuali sul turismo del vino, dal primo realizzato in collaborazione con il Dipartimento di Scienze Statistiche dell’Università di Bologna ai successivi redatti da Censis Servizi spa, indicano che la risposta alla crescente domanda di enoturismo è indiscutibilmente più organizzata e ragionata rispetto a dieci anni fa, a conferma che il turismo enogastronomico restando una straordinaria opportunità per i territori locali, anche se si stima che finora esso abbia sviluppato non più del 20% del suo potenziale, continuando a rappresentare quindi una straordinaria opportunità. In questo ha giocato un ruolo fondamentale la comunicazione attraverso le forme evolute del web, ma soprattutto la capacità di molti territori di saper organizzare un’offerta e di utilizzare gli strumenti a disposizione nell’ottica di un rinnovato concetto di “service territoriale”. 10 R. Pazzagli, Il Buonpaese. Territorio e gusto nell’Italia in declino, Felici, Pisa, 2014. 11 M. Antonioli Corigliano, Enoturismo. Caratteristiche della domanda, strategie di offerta e aspetti territoriali e ambientali, Franco Angeli, Milano, 1996. 12 IX Rapporto annuale dell’Osservatorio del turismo del vino: I nuovi dinamismi di un territorio di tendenza, a cura di F. Taiti, Città del vino–Censis servizi, 2011. 315
Questo significa che c’è ancora molto da fare in direzione della conoscenza del fenomeno e della sua integrazione con le altre forme di turismo, e ancor più seguendo la sua evoluzione. È Fabio Taiti a ricordarci come nell’ultimo decennio sia cambiato il modo di fare turismo, con l’affermazione di nuove tendenze: le vacanze brevi del week-end, i turismi di nicchia contrapposti al turismo di massa, forme di destagionalizzazione e altre tipologie che nell’insieme sembrano collocare alla base delle motivazioni e delle scelte dei turisti alcuni nuovi paradigmi. Tra questi rivestono sempre più peso la vocazione ambientalista e naturalista, il fare esperienze innovative di luoghi e di contesto, la volontà di combinare i fattori d’offerta per costruirsi un originale palinsesto di occasioni, eventi, incontri13. È proprio in uno scenario del genere che si è andato prima sviluppando e poi segmentando il turismo del vino e della gastronomia, con un panorama di soggetti d’offerta sempre più ampio (forse troppo) e ramificato, tale da metterci in guardia dal rischio della cosiddetta “coriandolizzazione”, alla quale è possibile rispondere con adeguate politiche di area, sovracomunali o regionali. Aldilà dei dati quantitativi resi approssimativi dalla difficoltà a isolare questa tipologia turistica dalle altre, è un dato di fatto che il turismo del vino costituisce un aspetto tematico molto importante dell’agriturismo, parte del più ampio settore del turismo enogastronomico legato alla buona cucina, all’acquisto di prodotti tipici, all’educazione alimentare. Agriturismo e turismo enogastronomico ri-guardano ormai tutte le regioni italiane, pur presentando marcate differenze tra nord e sud e tra collina, montagna e pianura. Il ranking su base provinciale dell’enogastronomia italiana mostra che al top si classificano sei province del centro-nord, nelle quali si può registrare un riuscito connubio tra ristorazione e vini di qualità: Cuneo, Siena, Verona, Bolzano, Firenze e Trento, seguite da altre province settentrionali (Asti, Brescia, Udine, Gorizia, Pavia, Treviso ed Alessandria) e centrali (Perugia, Ancona, Ascoli Piceno, Grosseto), mentre le uniche due province meridionali che compaiono in questa parte medio-alta della classifica sono Avellino e Palermo14. Si può affermare che nelle regioni italiane il turismo enogastronomico è un cantiere aperto e ricco di potenzialità, che soprattutto nelle regioni del Sud devono ancora esprimersi compiutamente. Una maggiore organizzazione ed integrazione dell’offerta appare necessaria per rispondere alle nuove tendenze della domanda turistica, che ha visto sorgere tra l’altro nuove figure di turisti, come quella del gastronauta, un neologismo coniato nell’ultimo decennio per indicare l’indole di una persona per la ricerca e la scoperta gastronomica15. Amante del viaggio, il gastronauta, oltre ad essere attratto dal mondo del cibo, è animato dal desiderio della convivialità, nonché da un interesse culturale che ricerca, dietro ad ogni prodotto, tradizioni folcloristiche, storiche e geografiche, in quanto il territorio è un luogo metaforico, frutto di una cultura collettiva che produce valori simbolici. Tra le peculiarità di un gastronauta vi è la sperimentazione, ovvero la curiosità di accostare cibi e sapori al di là delle mode e delle consuetudini. Si può ben intuire come questo profilo di viaggiatore e di turista ben si adatti ai contesti rurali, in particolare a quelli che meno di altri sono stati investiti dai processi omologanti dello sviluppo contemporaneo. In tale prospettiva è necessario che aziende e istituzioni, pubblico e privato, si incontrino nelle forme più appropriate per coniugare impresa economica, qualità e promozione territoriale in un connubio indissolubile nel quale la storia e le tradizioni profonde di 13 X Rapporto annuale dell’Osservatorio del turismo del vino, parte I: La nuova mappa dell’offerta, a cura di F. Taiti, Città del vino – Censis servizi, 2012. 14 Ivi, pp. 50-52. 15 D. Paolini, Il mestiere del gastronauta, Milano, Sperling & Kupfer, 2005. 316
una regione possano incontrarsi con l’innovazione e la fiducia nel futuro. Il primato del pubblico, sancito in più punti della Costituzione Italiana, sembra venir meno in una logica postdemocratica. Tuttavia la dicotomia tra pubblico e privato non deve essere intesa come una contrapposizione, ma come una distinzione di ruoli. Più i ruoli sono distinti e maggiore potrà essere la sinergia tra i due elementi. Lo scopo deve essere quello di costruire un sistema integrato e coordinato fra imprese attraverso la condivisione di un disciplinare qualitativo comune, sviluppando un’azione congiunta di tipo territoriale per valorizzare e promuovere l’offerta turistica, agroalimentare ed enogastronomica tipica del territorio. Il profilo storico di questo insieme di risorse, accumulato essenzialmente nel tempo lungo della civiltà agricola e pastorale, risulta essenziale per coglierne appieno le potenzialità turistiche e le possibilità della sua patrimonializzazione anche in chiave economica, oltre che culturale. Non solo la ricostruzione dell’origine e delle trasformazioni dei piatti tipici e delle abitudini alimentari della popolazione, ma anche una storia dell’ambiente e della natura, come ad esempio la conoscenza delle varietà autoctone di piante e colture, può essere un fertile terreno di lavoro in cui coniugare ricerca, tutela e valorizzazione al fine di favorire così una più avanzata pianificazione e una cura degli aspetti ambientali e culturali. Anche nelle regioni più piccole e periferiche, come il Molise ad esempio, la lettura storica del territorio e la piena consapevolezza del patrimonio costituito dai diffusi giacimenti territoriali, può finalmente andare oltre la marginalità e l’arretratezza, affrontando più approfonditamente il tema delle risorse essenziali, del mare, della montagna, delle campagne, dei borghi e dell’integrazione di tutti questi elementi in un coerente sistema di offerta turistica regionale.
Le strade del vino In un’ottica sostenibile in cui l’attenzione di tutti è rivolta alla salvaguardia dell’ambiente e del paesaggio, si è affermata sempre più l‘idea dell’itinerario esperienziale come forma di organizzazione turistica di un territorio: un percorso o una strada non sono più soltanto parte integrante del paesaggio, segno e disegno sul territorio, ma anche mezzo attraverso il quale poterlo osservare, ascoltare, conoscere, amare e rispettare. La strada del vino può rappresentare dunque l’ossatura viva di un sistema integrato di offerta turistica: un percorso più o meno lungo che penetra nel paesaggio, toccando una serie di luoghi visitabili e collegando tra di loro tutte le caratteristiche presenti nei territori ad alta vocazione vitivinicola. Essa diviene un valido strumento di salvaguardia del territorio, di divulgazione, di informazione e valorizzazione, integrando il vino con le altre risorse peculiari di una determinata area16. La strada del vino rappresenta così uno strumento territoriale per lo sviluppo del turismo, in particolare dell’enoturismo. Si tratta di un sistema di offerta turistica che integra in un unico percorso o itinerario cantine aperte al pubblico, vigneti, borghi, musei, monumenti, attrattive naturalistiche e sportive, esercizi ricettivi, ristoranti tipici e quant’altro concerne le risorse turistiche, con lo scopo di accrescere il flusso dei visitatori alle aree vitivinicole. La progettazione di una strada del vino richiede una analisi complessa e multidisciplinare, anche se occorre rispettare innanzitutto quattro requisiti principali: la qualità, la specificità del vino, la notorietà, le caratteristiche territoriali17. 16 M. Antonioli Corigliano M., Strade del vino ed enoturismo. Distretti turistici e vie di comunicazione, Milano, FrancoAngeli – Città del vino,1999, pp. 110- 116. 17 D. Cinelli Colombini, Manuale del turismo del vino, Milano, Franco Angeli, 2003, p. 65. Cfr. anche 317
Le strade del vino in Italia costituiscono oggi – quando effettivamente rispondenti al criterio di integrazione dell’offerta – un efficace strumento di organizzazione e di sviluppo del turismo del vino, in connessione con le risorse culturali e naturalistiche, e con l’organizzazione turistica e commerciale dei territori dove è presente una rilevante produzione vitivinicola. Una strada del vino si può istituire nell’ambito della legge dello Stato (L. 27 luglio 1999, n. 269) e delle rispettive leggi regionali. Le prime strade del vino sono sorte spontaneamente, prima che fossero varate leggi specifiche di riferimento, e realizzate a partire dalla metà degli anni ’70, come quella promosso dall’Agriturist Friuli Venezia Giulia (Strada del Vino nel Collio, Strada del Merlot). L’associazione Città del Vino si è impegnata molto nel processo di progettazione, promozione e organizzazione delle strade del vino, come dimostra la pubblicazione nel 1997 di un piccolo e pionieristico manuale per l’istituzione di una strada del vino18, seguita nel tempo da altre iniziative editoriali fino alla corposa Guida alle strade del vino e dei sapori curata da Iole Piscolla nel 2008, un grande mosaico di luoghi, prodotti e culture presenti nel territorio italiano19. La spinta delle Città del Vino è stata decisiva anche per l’elaborazione di una legislazione nazionale e regionale sulle strade del vino. La Toscana è stata la prima regione a regolare, con la legge n. 69 del 1996, il fenomeno delle strade del vino, peraltro già esistente in alcune aree20. Sulla base di questa normativa vennero istituite o riconosciute in Toscana 16 strade del vino21. Con questa legge la regione Toscana anticipava lo Stato, che è intervenuto ufficialmente nel settore con la Legge n. 268 del 1999 dal titolo “Disciplina delle strade del vino”; essa definisce con questa espressione i percorsi segnalati e pubblicizzati con appositi cartelli, lungo i quali insistono valori naturali, culturali e ambientali, vigneti e cantine di aziende agricole singole o associate aperte al pubblico. L’itinerario di una strada del vino prevede diverse tappe, che possono consistere in visita di aziende agricole, degustazioni, visite di musei o enoteche, possibilità di acquistare vino e altri prodotti, ecc. In senso ampio la strada del vino è un itinerario culturale, e come tale deve corrispondere ad un percorso reale e immaginario capace di svelare, attraverso un patrimonio specifico, i caratteri di fondo dell’identità di un territorio. Dalla già consolidata esperienza delle strade del vino, sono nate le strade del gusto, altre volte definite strade dei sapori, dedicate alla promozione dei territori di produzione di diverse (una o più) specialità agroalimentari. Abbiamo quindi strade del gusto monotematiche, imperniate su singoli prodotti, oppure basate sulla integrazione di diversi prodotti tipici di un determinato territorio (strada del gusto cremonese, strada dei sapori silani, ecc.). Alla realizzazione delle strade del gusto, o delle strade dei sapori, si applica in genere la stessa normativa prevista per le strade del vino. Come ha giustamente osservato Giacomo Tachis, “le strade dell’enogastronomia attraversano quindi un paesaggio culturale composto sia da elementi materiali sia da spazi spirituali”22.
il più recente C. Bolognesi, Manuale del turismo enogastronomico culturale, Ci.Vin Editore, 2010. 18 In che strada siamo? Vademecum per la corretta istituzione di una strada del vino, Siena, Associazione Nazionale Città del Vino, 1997. 19 I. Piscolla, Arkevino. Guida alle Strade del vino e dei sapori d’Italia, Ci.Vin Editore, 2008. 20 A.M. Pinna, A. Sereno, I nuovi Turismi: agriturismo, turismo rurale, strade del vino, Roma, Edizioni Libreria Croce, 2002, p. 100. 21 I. Piscolla, Le strade del vino in Toscana. Un lungo percorso di valorizzazione del territorio, in “Locus. Rivista di cultura del territorio”, n. 7, 2007, pp. 30-34 22 G. Tachis, Introduzione a I. Piscolla, Arkevino, cit., p. 11. 318
Uno statuto del territorio Naturalmente non bastano le leggi. Occorre aggiungere al quadro normativo una coerente strategia attuativa che riconosca un effettivo protagonismo alle comunità e ai soggetti locali. Se il territorio è una risorsa (la risorsa), allora diventano decisive, prima ancora delle politiche turistiche, le buone politiche territoriali e ambientali, a partire da quelle urbanistiche, con la definizione di una sorta di “statuto del territorio” fondato sugli elementi cardine dell’identità regionale e che disciplini le regole dell’insediamento, della salvaguardia e della tutela del patrimonio storico e ambientale come fondamenti essenziali dello sviluppo. Attraverso questa via (la costruzione di uno statuto del territorio) si possono riconoscere le funzioni delle risorse territoriali anche come elemento educativo e formativo, non solo delle persone (in particolare dei giovani), dell’identità collettiva di una terra che aspira ad una ritrovata fiducia nel proprio futuro. Il cibo rappresenta uno dei legami principali tra l’uomo e l’ambiente ed è quindi elemento significativo della coscienza di luogo, cioè del senso di appartenenza che sta alla base di ogni identità. Il patrimonio gastronomico è inoltre – come si è già sottolineato – componente non secondaria dell’offerta turistica integrata. In un contesto come quello italiano, fortemente territorializzato, il turismo enogastronomico, unito a quello ambientale e culturale, diviene, oltre che obiettivo economico, anche occasione per rafforzare il capitale umano e sociale, il sistema delle relazioni a livello regionale e interregionale, l’identità stessa dei luoghi e delle genti. Per questo la sua crescita deve essere alimentata da un adeguato sistema di governo e di organizzazione del territorio, affinché esso sia prima di tutto conosciuto, fruito e apprezzato dai suoi abitanti, rivitalizzando anche le connessioni tra vecchie e nuove generazioni, per le quali la scuola e l’università rappresentano lo strumento privilegiato. Dal lato delle istituzioni e del mondo imprenditoriale occorre promuovere una più marcata integrazione dell’offerta turistica complessiva, di cui l’enogastronomia costituisce un segmento significativo, ma che non può essere intesa come separata dai centri storici, dalle aree protette, dalle testimonianze archeologiche e culturali in senso lato, dalle feste e dalle tradizioni popolari. Lo stesso turismo del vino ha bisogno di un cambio di passo, verso “formule combinatorie”, per riprendere un’altra espressione di Fabio Taiti, che mettano insieme un’offerta fatta di prodotti raccontati (story telling), servizi evoluti (inattesi, personalizzabili), culture dell’accesso, dell’uso, del sogno e occasioni di partecipazione attiva (comakeship)23.
Una nuova governance Ambiente, politica e cultura continuano troppo spesso ad essere considerati campi separati, talvolta come antitesi anziché come elementi di uno stesso problema, che presenta certamente una dimensione globale, ma che nella specifica dimensione italiana mostra delle accentuazioni e a volte delle vere e proprie degenerazioni alle quali appare opportuno rispondere con processi di sperimentazione locale e regionale. A scala regionale e locale una nuova impostazione del governo del territorio potrebbe costituire oggi una concreta forma di sperimentazione per aprire un’epoca nuova, più centrata sul rapporto uomo/risorse e sul processo identitario dei luoghi e delle società locali. Da alcuni anni il tema della partecipazione è tornato a far parte della discussione politica. 23 F. Taiti, Enoturismo Italia: scenari in progressione per i prossimi venticinque anni, “Terre del vino”, X, n. 2, 2012. 319
Molti ne parlano e tutti sembrano apparentemente concordi. Le forme di democrazia diretta sono al centro di numerosi studi e convegni. Ma non è vero oro quel che luccica. La partecipazione non è un aspetto neutro nel quadro politico e civile, ma una pratica indissolubilmente legata alla democrazia ed alla sua sopravvivenza, che comporta una implicita critica ai sistemi di governo cosiddetti postdemocratici. Ci si è interrogati sulle possibili vie della democrazia, che consentano di rimettere in gioco e valorizzare quanto, del patrimonio sociale, culturale e territoriale delle comunità locali, rischia di venire sommerso dai processi apparentemente ineluttabili della globalizzazione, che in molti casi, anche a livello locale, sembra assumere sempre più un connotato dirigista e lobbistico. Tutte le ricerche e i sondaggi recenti indicano che tra i paesi sviluppati l’Italia è quello a più alta sfiducia verso le proprie istituzioni e la propria vita politica: la politica si è allontanata dai cittadini, i cittadini si sono allontanati dalla politica24. È chiara dunque la necessità di riavvicinare la società alla politica. Ci troviamo ancora in mezzo al guado, in una fase di transizione e di ricerca di risposte alla crisi della politica democratica e della rappresentanza. Ci sono stati però diversi comuni, nelle diverse regioni italiane, che hanno sperimentato in questi anni pratiche partecipative, che hanno provato ad innestare sul tronco sofferente della democrazia delegata qualche ramoscello vivo di democrazia diretta e in questo modo creare le condizioni per processi virtuosi di rinascita territoriale. Affrontare il tema della partecipazione significa dunque porsi nell’ottica di rispondere alla crisi della democrazia, intervenire sul rapporto cittadini/istituzioni, impostare un discorso sul metodo come fondamento della ricerca di una nuova democrazia, per evitare i rischi di una postdemocrazia dai tratti poco rassicuranti25. Per non incorrere nell’errore di un futuro senza radici, occorre ricordare che la partecipazione non è una novità. In Italia essa è anzi una grande questione costituzionale: non è un optional, ma un elemento di fondo di ogni costruzione democratica. Già la Costituzione del 1948, infatti, stabilisce che uno dei compiti della Repubblica è quello di promuovere “l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”; allora, in quella cruciale fase storica, la partecipazione si concretizzò nei grandi processi di liberazione e di ricostruzione dell’Italia e prese in misura crescente la forma della militanza nei partiti; così è stato almeno fino agli anni ’70, che sono stati l’ultima grande stagione della partecipazione (partecipazione e decentramento), ed anche il culmine del ruolo del partito di massa come strumento in grado di collegare la società alla politica. Dalla seconda metà degli anni ’70 inizia la fase di stallo e di discesa, fino alla crisi dei partiti simboleggiata e aggravata (ma non causata) da tangentopoli all’inizio degli anni ’90. Da allora sono cresciute passività, indifferenza alla politica, concentrazione del potere, nuove oligarchie, perdita di importanza della sfera pubblica. Nel corso degli anni ’90 la ripresa del dibattito sulla partecipazione e sulle nuove forme di democrazia si è intrecciato con i temi della riforma delle pubbliche amministrazioni e del federalismo, evidenziando la necessità di un riorientamento delle politiche verso il locale e verso i cittadini: è questo il passaggio che resterebbe da compiere, mentre invece si sta andando in direzione opposta. Qui le produzioni locali, il gusto, la cultura enogastronomica si legano inevitabilmente al tema della democrazia, di una democrazia in crisi che è necessario rianimare e ripopolare, a partire dai livelli locali, che sono quelli più vicini ai cittadini e ai territori26. Per questo le esperienze comunali volte a promuovere forme di partecipazione democratica alla vita 24 Elite e classi dirigenti in Italia, a cura di C. Carboni, Laterza, Roma-Bari, 2007. 25 C. Crouch, Postdemocrazia, Laterza, Roma-Bari, 2003. 26 P. Ginsborg, La democrazia che non c’è, Torino, Einaudi, 2006. 320
pubblica, che riconoscano ad ogni cittadino una competenza in quanto abitante di un luogo, possono rappresentare non soltanto un miglioramento della qualità delle scelte locali, ma anche il contributo ad una questione più generale. Esse possono tradurre in pratica la necessità di rifondare uno spazio pubblico e un metodo democratico ripartendo dal locale o dal basso, dalla consapevolezza dei patrimoni culturali e alimentari contenuti nei mondi locali, spesso appartati e trascurati, ma non ancora completamente assopiti. La partecipazione può così divenire un antidoto al consolidarsi delle oligarchie postdemocratiche, che ai vari livelli sembrano identificarsi in una saldatura tra quel che resta dei vecchi soggetti politici da un lato e interessi forti di tipo economico, finanziario e mediatico dall’altro. Sembra questa la strada per migliorare l’amministrazione della cosa pubblica, riformare la politica e attenuare il senso di impotenza e di sfiducia che attanaglia i cittadini italiani e in particolare le giovani generazioni. Abbiamo visto che il vino ha molti significati e può essere metafora di molte cose. È emerso in primo luogo il legame profondo, inscindibile e fruttuoso con il territorio. “Voi siete i luoghi”, disse Paolo Bonomi ai sindaci delle Città del vino riuniti a Siena nel marzo 2012 per celebrare il 25° anniversario dell’Associazione nazionale, invitandoli a un salto di paradigma, a ripensare il territorio italiano con riferimento al conflitto tra luoghi e flussi che produce inevitabilmente un cambiamento di identità27. Dobbiamo misurare la capacità dei flussi locali di innestarsi su quelli globali senza che ne vengano schiacciati, possibilmente valorizzando la loro possibilità di orientare i processi decisionali anziché subirli. La coscienza di luogo – ha scritto l’economista Giacomo Becattini – è la via per riacquistare la responsabilità sociale e una visione della società che vada oltre il mercato, verso un’economia solidale in grado di valorizzare realmente produzioni, paesaggio e gusto, per sostenere un ideale di “felicità pubblica”28. La produzione di vino, come quella di tutti i prodotti agricoli, è un fatto locale di importanza generale. Alessandro Regoli, direttore di “Winenews” ci ha ricordato che l’Italia del vino è un macrocosmo fatto di tanti territori molto diversi tra loro e che per questo è richiesta una nuova comunicazione e una maggiore sinergia a livello italiano29. Ciò chiama in causa anche il ruolo delle autonomie locali, che assume un particolare rilievo proprio nei territori rurali o internbi, marginalizzati dal processo di sviluppo novecentesco30. Ricostruire un pensiero del territorio basato sulla partecipazione, contro le derive territoriali è, per i Comuni e gli altri enti locali, un’occasione per misurarsi in modo nuovo con i temi della progettazione urbanistica, il paesaggio, le risorse e le forme della loro utilizzazione economica. Questo dibattito è partito da alcuni casi critici, riguardanti gli strumenti urbanistici di singole aree, ma si è tradotto ben presto in questioni di carattere generale come il consumo di suolo, la priorità del riuso rispetto a nuove edificazioni, la tutela del paesaggio e infine il rapporto tra i diversi livelli della pianificazione. Il territorio è un libro aperto e affascinante, di cui i prodotti dell’enogastronomia possono rappresentare gli incipit dei diversi capitoli, chiavi di accesso a un mondo locale che non sia più considerato come un residuo del passato, epigono di una realtà perduta, ma fondamento di un nuovo modello di sviluppo. In questo libro del territorio, forse più che in altri, è possibile leggere, nel bene e nel male, una straordinaria continuità di valori umani 27 P. Bonomi, Intervento alla tavola rotonda “L’abbondanza locale. Come non gettar via il patrimonio materiale e immateriale dei territori italiani”, Siena, 20 marzo 2012, organizzata in occasione del 25° anniversario delle Città del Vino. 28 G. Becattini, La coscienza dei luoghi. Il territorio come soggetto corale, Roma, Donzelli, 2015. 29 A. Regoli, L’importanza della sinergia tra comunicazione pubblica e comunicazione aziendale,
“Terre del vino”, X, n. 3, 2012.
30 R. Pazzagli, Bone’s Territories: Territorial Heritage and Local Autonomy in Italian Inner Areas, in “Tafter Journal”, n. 84, settembre-ottobre 2015. 321
e di comportamenti sociali. In tempi di globalizzazione la forza del locale (ben distinto dal localismo) può essere l’anello per collegare efficacemente economia e turismo, territorio e formazione, città e campagna, vecchie e nuove generazioni. Dentro tale orizzonte è possibile intravedere i sintomi di rinascita di una coscienza di luogo. Ai fini del superamento del degrado e del profilarsi di un nuovo rinascimento occorre però la piena consapevolezza del patrimonio costituito dai diffusi giacimenti territoriali, nei quali si inseriscono a pieno titolo le pratiche alimentari e le tradizioni culinarie come parti del più ampio e duraturo patrimonio culturale. Ciò implica un esteso lavoro per la conoscenza delle risorse essenziali del territorio alle sue differenti scale (locale, regionale, nazionale), dal mare alla montagna, dalle campagne ai borghi, fino all’integrazione di tutti questi elementi in un coerente sistema di offerta turistica, ma anche alla coscienza dei processi in di ridefinizione identitaria attualmente in corso. Il territorio visto nella sua dimensione processuale di lunga durata, frutto dell’incontro tra insediamento umano, natura e cultura, dovrà acquisire una ritrovata centralità nell’orizzonte della crisi generale che si è abbattuta sull’Occidente. Essa ci obbliga a ripensare i nostri modelli di sviluppo, al fatto che solo in una valorizzazione della specificità agricola e in una difesa della ruralità possiamo trovare gli stimoli a mutare gli attuali schemi di produzione e di consumo31.
L’attenzione verso il territorio e il suo bisogno di protagonismo, possono essere strumenti privilegiati per riorientare i processi di sviluppo e/o di riequilibrio economico e sociale, sia come risposta alla crisi strutturale del modello globale-capitalistico che come rivendicazione di un progetto locale che rimetta in gioco le risorse, le vocazioni e le potenzialità di contesti regionali che il modello di sviluppo contemporaneo aveva relegato a condizioni di marginalità. Ricostruire un pensiero del territorio (che significa anche un pensiero dei cittadini) è utile e necessario, anche per scongiurare le derive postdemocratiche che si affacciano nell’orizzonte cupo dei sistemi politici e del governo territoriale. Oggi, anche in Italia, nella fase di crisi strutturale del modello economico, è necessario tornare ad occuparci dello scheletro della penisola, dell’osso come lo chiamava Manlio Rossi Doria32. Non più soltanto in un’ottica di resistenza, e meno che mai con un approccio nostalgico, ma nella prospettiva di una rinascita. Nell’esplorazione di questi piccoli mondi locali, della qualità delle loro produzioni e della bellezza del loro paesaggio, emergono qua e là buone pratiche di lavoro, di scambio, di consumo. Collegate al gusto e alla bellezza, esse non sono utili soltanto per i luoghi dove si realizzano, ma anche perché ci forniscono indicazioni valide a livello più generale. Sono la testimonianza di percorsi possibili in grado unire fruttuosamente tradizione e innovazione, cultura e politica, produzione e benessere. Più che progetti sono forse ancora visioni, utopie. Ma si tratta – come è stato felicemente affermato - di utopie concrete33.
31 F. Cambi, Il vino come essenza dei valori rurali, “Terre del vino”, X, n. 2, 2012. 32 M. Rossi-Doria, La polpa e l’osso: scritti su agricoltura risorse naturali e ambiente, a cura di M. Gorgoni, L’ancora del Mediterraneo, Napoli, 2005. 33 A. Magnaghi, Il progetto locale. Verso la coscienza di luogo, Bollati Boringhieri, Torino, 2010, pp. 175-182. 322
Un liquido paesaggio
Luciano Sassi
Quando nel 1958 Emilio Sereni pubblicò per la prima volta in «Cronache meridionali» la monografia su “I napoletani da mangiafoglia a mangiamaccheroni” descrisse anche quei paesaggi del cibo che poi sarebbero diventati vanto dell’enogastronomia italica. Dichiarare che prima di essere la culla dei maccheroni Napoli era stata la patria dei mangiafoglie oggi potrebbe essere considerata quasi una diffamazione cultural gastronomica. Il grano duro delle Puglie, della Sicilia e di parte della Campania felix era lo sfondo naturale per quella produzione che tanto avrebbe segnato l’immagine dei napoletani che con Totò e Pulcinella in testa, fecero di tutto per consolidare questa immagine. Lasciando al famoso lavoro di Sereni il compito di spiegare questo inaspettato cambiamento avvenuto nel tempo, se ci focalizziamo sul nuovo soggetto per il tempo, la pasta, ci si accorge che l’ingrediente base, ossia la semola di grano duro aveva trovato da tempo una buona casa nelle lande soleggiate di quelle regioni del sud. Un paesaggio agrario ha di norma delle caratteristiche climatiche, idriche e pedologiche che favoriscono una certa gamma di varietà botaniche alimentari, le quali a loro volta in parte producono dei cibi compositi, che ben descrivono quei territori e la gente che vi dimora. Se torniamo ad Emilio Sereni ci si può stupire che la minestra di cavoli potesse descrivere una realtà alimentare costante, che oggi potremmo certamente ritenere inaspettata per quei luoghi, ma molto meno per altri. Ci sono infatti realtà geografiche che la pasta l’hanno conosciuta sotto altre “sfoglie”, dove il grano duro non era certamente lo sfondo naturale delle estati e il riempimento delle madie. Sempre giallo il grano ma profondamente diverso il suo uso. Se escludiamo il pane, sacro simbolo del nutrimento, la pasta che segue poco dopo in questa anomala classifica, diviene diversa in quel profondo nord Italia padano così lontano, sino a non molti decenni fa, da maccheroni e dal pomodoro a volontà. La pasta fatta con la farina di grano tenero, con acqua a volte, ma più spesso con le uova, le permettevano di essere solo ingrediente nelle tante minestre di quel territorio padano alpino dove i cavoli dei mangiafoglie napoletani non se ne erano mai andati. La minestra è un cibo discreto che non ha bisogno di un paesaggio particolare, è il cibo della sussistenza al quale dare un anima per essere di più che solo nutrimento. Oggi che le stagioni alimentari sono praticamente annullate dalla globalizzazione ed i supermercati mettono a disposizione tutto e spesso già pronto, il vecchio e necessario rito 323
della minestra si è ridotto ad una non frequente abitudine. Erbe di campo, patate, cavoli, porri, zucche, fagioli, legumi vari e poi acqua un po’ di burro o dove c’è l’olio, oppure fondo d’arrosto conservato gelosamente per dare all’acqua quel nutrimento e soprattutto quel sapore che da sola non avrebbe potuto avere. La minestra descrive un paesaggio di persone e di consuetudini, lei spesso così poco considerata se non nel momento della costipazione o della consolazione, quando con un diminutivo diventa la minestrina dei bambini, piena di quei piccoli formati come i formentini, i quali furono una delle prime paste commercializzate nel secolo XV da quei mercanti genovesi, poi anch’essi pastai, che per primi introdussero nel nord la pasta secca. La minestra simbolo di un territorio? Non è un piatto che oggi vediamo elevato a vanto gastronomico. Un territorio si fa rappresentare da piatti forti, spesso solidi e pieni di sapori intensi, non che la minestra non li abbia ma è un piatto legato nell’immaginario alla povertà. È ovvio che quando ci si riferisce alla minestra facciamo riferimento ad una varietà veramente numerosa di preparazioni. Partendo dall’acqua cotta alla ribollita toscana, poi le verze matte cremonesi, sagne e ceci abruzzesi, minestra di knödel altoatesini sino alla minestra maritata napoletana con moltissimi altri esempi. Solo questi esempi potrebbero dare l’immagine generale di quanto la sussistenza abbia trasformato acqua, vegetali e magari del pane in piatti sfiziosi oggi rivalutati e segno di genuinità. È la genuinità oggi il valore più ricercato, una genuinità legata ad un territorio, meglio se il paesaggio agrario è intimamente legato a quel territorio, molto spesso descritto con immagini ritenute idonee per rappresentare la tradizione che da esso ne scaturisce. Qui si innesta un modello, spesso diffuso nella descrizione del paesaggio agrario, quello legato a modelli di una agricoltura del passato, legata ai ritmi naturali della terra, dove il contadino è il protagonista romantico di questo paesaggio idilliaco, pieno di una sana fatica, di salute e ritmi dolci. La minestra allora simbolicamente viene carpita dall’industria e si trasforma nella “zuppa del casale” e con essa lo stracchino è quello di “nonno Nanni” le fattorie si sprecano ed il brodo solidificato del dado si trasferisce nel tetrabrik già disciolto nell’acqua. Zuppe più o meno dense si trovano nelle buste surgelate, dove gli ingredienti ben visibili esibiscono una sfilata di cereali e legumi assieme ad addensanti naturali. La vita fast che si incontra con l’idea della lentezza e della terra, le valli degli orti immagine della naturalità agraria. Il mondo contadino che si capovolge, il contadino ed i campi, le mani grosse e la schiena piegata divengono oggi il simbolo dell’autenticità, ma fino a poco tempo fa non era così, oggi probabilmente è una immagine ideologizzata. Negli anni Sessanta e Settanta del ‘900, ma anche molto prima, essere un contadino e lavorare la terra non voleva dire essere un partito ambito, le donne preferivano o avrebbero preferito un operaio, magari con la casa in condominio – che in molti casi non si sapeva cosa fosse - ma si diceva che c’era il bagno e l’acqua in casa. Gli stessi contadini e braccianti legati a doppio filo alla terra cercavano il riscatto in quell’industria vorace che assorbiva braccia e produceva lavatrici, televisori, frigoriferi, automobili e cibi in scatola. Quel mondo produceva, senza averlo programmato, quel meltin-pot regionale che tanto avrebbe influenzato e modificato parte delle abitudini gastronomiche italiche, soprattutto al nord. Il contadino con una scodella di minestra, il militare in fila con la gamella, il povero con il cucchiaio affondato in un brodoso e spesso pietoso pasto. I militari rientrando dal fronte dopo la seconda guerra mondiale, portavano con loro molto spesso il ricordo del nulla in acqua calda che chiamavano minestra. Bisognerebbe parlare allora di “cultura” della minestra, in questo percorso dove anche i 324
forestieri mais e patate, i quali, come generosi compari si occuparono insieme ad un altro grande straniero, il riso, di soddisfare la necessità quotidiana di vivere, magari con gusto. Mais e patate, i cibi massa, quelli che fanno volume e che saziano rapidamente, questi però hanno avuto storie a se, in alternanza alla minestra. La minestra quindi va oltre il cibo della sussistenza come peraltro lo sarebbe stata, concreto simbolo simbiotico, la polenta. Da quello che la terra permette di produrre, il tempo e l’alchimia scaturita dalla sapienza acquisita nei secoli, hanno permesso agli ingredienti1 di prendere una forma gastronomica particolare in cui un’area geografica si riconosce e nella quale ci si riconosce. Il sole del sud permette numerose varietà di vegetali, colorati e saporosi, il nord meno fortunato nella quantità di sole disponibile non si rassegna producendo centinaia di ricette rielaborando gli stessi ingredienti. Come dice Massimo Montanari, la minestra prende la forma del piatto in cui la si pone, scodella o fondina che sia, basta che la contenga e la argini. Un cibo che si adatta ed al quale ci si adatta. Un’Italia divisa dal cibo scaturito dal suo paesaggio agrario? No, un’Italia capace di assorbire cibo da tutte quelle importazioni che nei secoli hanno fatto del belpaese uno dei più voraci collettori di varietà botaniche e animali ed uno dei più abili trasformatori delle nuove specie. Non si può dire che i paesaggi del pomodoro o del riso o ancora del mais, siano meno esasperati del paesaggio delle patate dell’ottocento irlandese, ma probabilmente poco ci manca. Manca l’esasperazione, manca per fortuna perché battuta, la monofagia. Non si può quindi negare che il paesaggio agrario ed i suoi frutti hanno bisogno di sapienze e di colture legate all’apprezzamento degli ingredienti arrivati dai vecchi o nuovi mondi. Tempo addietro dare del polentone ad un padano o dare del mangia peperoncino ad un calabrese non era certo un offesa, era sottolineare, prendendo un po’ in giro quanto questi alimenti fossero diventati parte della vita e dell’identità di quelle genti. Le ingiurie alimentari, come le definisce Vito Teti, “attestano la varietà culinaria e la sua condivisione in una rete di reciproca conoscenza”2. Questa necessità di identificare l’uomo col cibo in cui si riconosce, che manifesta, nel quale si sente a casa, si trascina sino gli anni sessanta del ‘900. I detentori dell’identità più o meno forzata col cibo sono i ceti popolari, quella della fatica e della ricerca ossessiva del riempimento della pancia, quelli che fino ai primi decenni del ‘900 spendo quasi il 70% del proprio reddito per mangiare. Si era arrivati nei ceti popolari di tutt’Italia ad un vegetarianesimo non cosciente e non determinato da scelte ponderate, le erbe cotte o crude sono state la base principale dell’alimentazione insieme al pane quando cera, con polenta e qualche volta riso i quali non sono certamente carne o latticini. Dall’inchiesta Jacini a ritroso lo spettacolo del cibo vegetale della sussistenza frequentemente disperso in acqua è spesso desolante. Nel 1596 Robert Dallington3 descrive un situazione alimentare che andò avanti per moltissimo tempo per i ceti popolari di quasi tutta la penisola gli ortaggi sono l’alimento base di toscani, sulla cui tavola l’insalata è assai comune come il sale sulla nostra, perché viene 1 Ingrediente dal latino ingredior, entrare in, incorporarsi. In questo caso l’etimo sottolinea l’atto di immergere nell’acqua i componenti del futuro piatto. 2 M. Montanari, L’identità italiana in cucina, Laterza 2010, pag. 49 e seguenti. 3 Cortigiano inglese impegnato in due gran tour in Italia ed in Francia fra il 1595 ed il 1600. 325
mangiata da tutti e tutto l’anno: dai ricchi perché amano risparmiare, dai poveri perché non possono scegliere; dai religiosi perché hanno fatto il voto e da quasi tutti gli altri perché la gradiscono. Non rimane che credere a ciò che confessano essi stessi: che per ogni carico di carne che si mangia ce ne sono dieci di erbe e radici, come testimoniano i loro mercati all’aperto e le loro tavole private. Così come testimoniato da Agostino Gallo agronomo bresciano che nelle sue “Dieci giornate della vera agricoltura e della villa” pubblicato a partire dal 1564 in numerose edizioni, indica le erbe coltivate negli horti da ricreazione e per insaporire e profumare le insalate e le minestre. Le erbe entrano come attrici principali nelle minestre e nelle torte. Alcuni scrittori si dedicano specificatamente alle erbe, come Giacomo Castelvetro che nel suo lungo soggiorno inglese tra l’estate e l’autunno del 1614, compose e ricompose a più riprese un “Brieve racconto di tutte le radici, di tutte l’erbe e di tutti i frutti, che crudi o cotti in Italia si mangiano”, rievocazione nostalgica di una gastronomia rusticana e raffinata, quasi in contrapposizione alla carnivora e poco vegetale dieta inglese. Durante il secolo XVII il consumo di vegetali aumentò in tutta Europa, alcuni avevano abbracciato al di fuori della medicalità l’assenza delle carni dal quotidiano, anche se il concetto di vegetarianesimo venne coniato solo nel secolo XX. Rimane la differenza fondamentale del regime alimentare fra chi è costretto suo malgrado e chi può decidere cosa, come e quando mangiare. La minestra è quindi anche un paspartout per entrare nel percorso alimentare diretto fra cibo prodotto nei campi e la tavola, fra campagna e città. Da sempre, la città ha una funzione centripeta, il contado è al suo servizio ed il contadino e la terra che lavora il suo strumento. La produzione è diretta a sfamare la città innanzitutto. Se il contadino ottiene parte del suo guadagno in natura e quindi il cibo è frutto anche di una sua autoproduzione, il cittadino riceve buona parte del reddito in denaro e quindi deve acquistare buona parte degli ingredienti che gli occorrono. Ancora oggi la città decide, certamente per il gravame demografico che sopporta, ma anche per le evoluzioni e le influenze culturali che in essa si generano. È la città con i suoi abitanti che cerca le radici, ognuno le sue, e quindi anche la campagna viene coinvolta come centro generatore dei cittadini ab origine. Ci si reca nelle campagne alla ricerca del genuino, del rustico, ormai non più identificativo dell’umile brazentes, ma del mondo “vero”, sano con i gusti riconoscibili ed individuabili. La minestra è dunque un fil rouge per scoprire un mondo pieno di variabili e di sfaccettature, dove poco è scontato. L’Italia della pasta e del pomodoro ha la sua dignità al pari di quella della polenta o dei tajarin, ed hanno il loro valore perché sono diverse e strettamente legate ad un territorio in continua evoluzione. Se leggiamo le ricette dell’Artusi ci accorgiamo che i piccoli prologhi ad ogni ricetta contengono commenti e sottolineature su abitudini che mettono in risalto il legame con la terra e che quindi influenza e forma queste consuetudini geografiche. Si è partiti dal cibo modesto in cui l’acqua è gratis e gli erbaggi erano poco costosi ed ogni zona la interpretava a modo suo caratterizzandola, chiamandola zuppa se densa e minestra se più liquida. Si arriva oggi ai blogger o ai siti che dispensano ricette, nonché ai centinaia di volumi pubblicati o meglio ancora alla cucina in TV che rendono disponibili le preparazioni di tutte le provincie, inviando messaggi di autenticità e dove il fai da te ne è il costituente base. Il problema è lo scontato, pensare che le abitudini alimentari acquisite e consolidate in tutti gli angoli d’Italia siano sempre esistite. Pensare che la pizza fino all’inizio degli anni sessanta del ‘900 fosse sconosciuta alla maggioranza degli abitanti del nord la dice lunga di quanta strada è stata fatta. Pensare che gli spaghetti di grano duro abbiano seguito la pizza in quel percorso di ambientazione, questo più lento e difficile nelle campagne a cavallo e sopra il Po. Naturalmente ci sono le eccezioni, i territori che si votano al pomodoro come avvenuto 326
nei territori parmensi all’inizio del Novecento così come i pastifici operanti nello stesso periodo in questa parte dell’Emilia non sono però segno di adozione diffusa. L’abitudine contiene anche un po’ di sospetto ed il consueto anche se a volte monotono è certamente più rassicurante. Emilio Sereni ci ha svelato e spiegato un eccezionale cambiamento alimentare che tanto ha segnato la storia gastronomica ed alimentare d’Italia e che ancora oggi pesa sul quotidiano di ognuno, cambiamento non così avvenuto in altre parti d’Italia se non sino all’avvento del mais e del pomodoro. Sereni ci invita, partendo da un’altra sua opera basilare, quella “Storia del paesaggio agrario” a osservare il paesaggio, che i francesi chiamano seppur con una declinazione leggermente diversa terroire, con occhi diversi da quelli che solitamente usiamo per scovare le origini del nostro cibo. Niente è scontato, le dinamiche di costruzione di un paesaggio sono intimamente legate agli uomini ed alla cultura che spesso da esso prende forma. Un percorso non semplice, oggi spesso banalizzato perché l’alimentazione e al seguito la gastronomia, ci rende più ossessionati di ieri. Attualmente dove la quantità di cibo disponibile è per i più notevole, l’ossessione del e per il cibo è percentualmente presente in maniera abnorme. Forse è il caso di rallentare e guardare il percorso storico effettuato per renderci conto della strada fatta, magari davanti ad un buon piatto di minestra.
Immagine di Bruno Vagnini
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Il terroir tra cibo, viaggio e territorio
Erica Croce e Giovanni Perri
Partiamo con una provocazione: il viaggio (almeno quello culturale e leisure) è teoricamente scoperta di nuovi spazi e dimensioni, appropriazione di un luogo diverso da quello di residenza abituale, confronto con una dimensione di sé attivata e motivata dall’esperienza “altra”. Eppure, in epoca di turismo 2.0, Home & Away di Double Tree by Hilton sembrerebbe contraddire questa filosofia: l’applicazione è stata studiata per permettere ai clienti del colosso alberghiero, in seguito alla compilazione di un apposito modulo, di ricreare prima virtualmente -e poi fisicamente durante il soggiorno in loco- una mappa della destinazione di viaggio che segnali, smartphone alla mano, le filiali di catena normalmente già frequentate nel luogo di residenza abituale. Coffee shop, sportelli bancari, fastfood e stazioni di rifornimento di brand già testati, noti e apprezzati, ricreano un piccolo mondo confortevole intorno all’hotel: è come dire “ti faremo sentire a casa ovunque”. Forse puntando un po’ troppo su quel concetto di standardizzazione che ben si addice al segmento business, ma che, al contrario, in altri tipi di turismo rischia di svilire l’originalità e la sfida di costruire percorsi personali con occhi curiosi. In quest’ottica, il turismo enogastronomico è una risposta geograficamente pregnante e alternativa alla spersonalizzazione di luoghi ed esperienze che molti tipi di viaggio impongono oggi. Perché si basa sulla insostituibilità di territori di produzione caratterizzati da terroir specifici, risultato di elementi naturali ed antropici il cui mix è irriproducibile altrove. «Il vero viaggio, in quanto introiezione d’un «fuori» diverso dal nostro abituale, implica un cambiamento totale dell’alimentazione, un inghiottire il paese visitato, nella sua fauna e flora e nella sua cultura (non solo le diverse pratiche della cucina e del condimento ma l’uso dei diversi strumenti con cui si schiaccia la farina o si rimesta il paiolo), facendolo passare per le labbra e l’esofago. Questo è il solo modo di viaggiare che abbia un senso oggigiorno, quando tutto ciò che è visibile lo puoi vedere anche alla televisione senza muoverti dalla tua poltrona.»1 Lo scriveva Italo Calvino in Sotto il sole giaguaro e in questo passo letterario degli anni Ottanta si leggono già i prodromi di un modo di viaggiare che in tempi molto più recenti ha preso piede con una precisa collocazione ed un’etichetta. Ma in fondo che cos’è il turismo? Un comparto economico che si basa, tra l’altro, su tre cardini: 1 I. Calvino, Sotto il sole giaguaro, Garzanti, Milano, 1986. 329
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l’inversione dell’abituale direzione di marketing nel contatto tra cliente e prodotto, in quanto nel nostro caso è il cliente a dover necessariamente raggiungere il prodotto-destinazione nel suo luogo di produzione e in un’evidente inseparabilità (fisica e concettuale) dei servizi/prodotti dai loro fornitori/produttori e dal loro contesto territoriale; la trasversalità, economica, geografica ed esperienziale che informa ogni vacanza, da considerarsi come una parentesi di vita reale e quotidiana che ciascun singolo turista spende nella destinazione e pertanto attiva numerosi settori dell’economia anche non direttamente riconducibili al leisure; l’imporsi come un velo che, nelle destinazioni ben organizzate, si sovrappone all’identità dei luoghi senza stravolgerne l’essenza, perché è proprio quell’identità che fa la differenza tra una località e l’altra.
L’ultimo punto, quindi, ci inviterebbe a pianificare le azioni di marketing turistico e territoriale al fine di agevolare l’incontro tra domanda e offerta in relazione al contesto, in un accostamento “geograficamente responsabile” della chiave di lettura del territorio/ambiente alle esigenze della domanda attuale e potenziale. Il turismo enogastronomico, in tal senso, risulterebbe perfetto per cogliere in modo rispettoso le peculiarità di luoghi, produzioni ed abitanti. Nella nostra accezione, infatti, “turismo enogastronomico” è spostarsi dalla propria località di residenza al fine di raggiungere e comprendere la cultura di una destinazione nota per una produzione agroalimentare di pregio, entrare in contatto diretto con il produttore, visitare l’area destinata all’elaborazione della materia prima e al successivo confezionamento, degustare in loco, ed eventualmente approvvigionarsi personalmente della specialità per poi far rientro a casa2. Attività, queste, fortemente contestualizzate e materiali, che in tempi di postmodernismo e fluidità culturale, fisica e mentale diventano un’ancora di salvezza, una certezza che i luoghi, i paesaggi, possano essere compresi non solo visivamente, ma con tutti e cinque i sensi, nell’atto di gustare il cru nella sua culla d’origine. Un cru che si fa portavoce della cultura (enogastronomica ma anche e soprattutto geografica e storica) che lo ha originato. Il prodotto agroalimentare, così, si fa medium di un mondo di cultura valori identità da esplorare di persona, nel viaggio, anche nel suo terroir. Perchè agli estremi di questa forma di turismo ci sono proprio due protagonisti legati da una relazione biunivoca da esplicitare (da organizzatori) e vivere sulla pelle (da turisti) nel copione del viaggio: il cru e il suo luogo di produzione. Il primo, prodotto agroalimentare di pregio, per poter attirare visitatori deve essere di qualità organolettica alta (e percepita tale), unico ed originale, raro o prodotto limitatamente, preferibilmente commercializzato prevalentemente nel luogo di produzione, radicato storicamente e culturalmente ad un territorio che sia a sua volta omogeneo, geograficamente limitato e facilmente identificabile. Ma per misurare l’attrattività di un cru (e indirettamente del suo “paese” d’origine) si valutano anche la sua capacità di regalare emozioni gustative e soddisfazione alimentare, la forma, il colore, il profumo, il valore percepito. E proprio su questi cardini si impostano molte campagne pubblicitarie del settore agroalimentare. Il Prosciutto di San Daniele è “naturale italiano unico” perché oltre alla “esperienza dei produttori” è “il microclima di San Daniele del Friuli”, un borgo adagiato su un colle della campagna tra Alpi Carniche e Mare Adriatico, vicino ai rami anastomizzati del Tagliamento, ad incidere sulla qualità del prodotto. Almeno storicamente, la compresenza 2 E. Croce, G. Perri, Il turismo enogastronomico. Progettare, gestire, vivere l’integrazione tra cibo, viaggio, territorio, FrancoAngeli, Milano, 2015 (terza edizione). 330
geografica di brezze salmastre marine e balsamiche montane ed un giusto apporto di umidità deve aver giocato un ruolo strategico nel gusto del prodotto. Ed è qui che entra in gioco il co-protagonista del viaggio enogastronomico, il terroir, quel paesaggio del cibo fatto non solo di immagini agresti o di stabilimenti produttivi (anche industriali), ma anche e soprattutto di suoli, rocce, orografia, clima, esposizioni, regime di precipitazioni ecc. che alimenta la qualità del prodotto agroalimentare e stimola la visita turistica. Una visita che non può limitarsi a confinare il paesaggio del cibo a sfondo dell’esperienza, ma che al contrario proprio in quel paesaggio trova la sua ragion d’essere. «Dietro ogni formaggio c’è un pascolo d’un diverso verde sotto un diverso cielo: prati incrostati di sale che le maree di Normandia depositano ogni sera; prati profumati d’aromi al sole ventoso di Provenza; ci sono diversi armenti con le loro stabulazioni e transumanze; ci sono segreti di lavorazione tramandati nei secoli.»3 Dietro ogni prodotto, dunque, c’è un paesaggio del cibo fisico e reale da poter esplorare. Ce lo dice ancora una volta Calvino, attraverso lo sguardo catalogatore di Palomar. Dietro, anzi “nel” sapore del Roquefort, in un passaggio che dal negozio o dal momento della degustazione dovrebbe condurci al territorio produttivo, c’è la struttura carsica del Monte Combalou con le sue fratture, le fleurines, in cui una circolazione naturale e virtuosa d’aria alimenta le cave di affinamento costruite a ridosso del pendio, non lontano dal fiume Soulzon. Dietro la qualità dello Champagne c’è il gesso che protegge le radici dei vitigni nordici e con cui sono state costruite alcune delle città monumentali della regione (Reims tra tutte) e le cattedrali gotiche, così come nella Ribolla Gialla del Collio goriziano fa capolino la ponca marnosa su cui si allignano le viti, ma anche l’incontro tra due o più culture che corrono su un confine. Perché l’interpretazione del paesaggio del cibo, e del suo appeal turistico, passa anche attraverso elementi più o meno iconici e apparentemente più o meno geografici. E a volte elementi paesaggistici vengono inglobati, citati e reinterpretati anche nella architetture degli stabilimenti produttivi, con sapienza ed arte: un materiale costruttivo locale, una vetrata aperta sui dintorni, il richiamo costante di un colore che si fa leitmotiv, l’attualizzazione di uno stilema artistico storico. È questo il caso di tante architetture, specie del vino, firmate da Renzo Piano, Mario Botta, Santaiago Calatrava e colleghi. Comunicare l’identità della destinazione richiede passione, dedizione, professionalità e umiltà, studio e coraggio. Soprattutto nel caso di territori di produzione meno noti o fortunati. Se ben progettato e gestito, il turismo enogastronomico potrebbe regalare la dignità di attrattiva persino a stabilimenti industriali e località apparentemente ripetitivi ed anonimi. È la peculiarità, la sfaccettatura produttiva a generare potenziale appeal. Il paesaggio del cibo, pertanto, va colto e interpretato, tutelato ed aggiornato, vissuto anche gustativamente e rispettato. Per renderlo protagonista, non ci si può affidare all’improvvisazione. Le strategie del marketing turistico, specie in ambito enogastronomico, dovrebbero coniugare sensibilità geografica con tecnica turistica. L’una o l’altra disciplina, da sole, non sono sufficienti. Nella complessità del comparto turistico, saper organizzare la destinazione in un prodotto turistico strutturato è una qualità indispensabile, da affiancare però all’arte di saper invitare il visitatore a vivere la quotidianità del luogo nella sua identità unica di terroir. Una quotidianità che fa la differenza perché incarna i valori culturali di cui il gusto, attraverso il prodotto agroalimentare, si fa veicolo e portavoce. 3 I. Calvino, Palomar, Einaudi, Torino, 1983. 331
Musei e cibo Il caso dei “musei del cibo” di Parma e del suo territorio Mario Calidoni
Philip Daverio, il noto critico d’arte, nel suo “Museo immaginario” (RCS libri, 2011) immagina un museo/esposizione dei più significativi quadri di tutti i tempi collocati, secondo il soggetto che trattano, negli ambienti di una casa. Sala da pranzo e cucina occupano naturalmente uno spazio adeguato. La sala da pranzo mette sotto i nostri occhi grandi banchetti, dalle Nozze di Cana di Paolo Veronese, ai mosaici di Pompei con i pesci sino al Canestro di frutta di Caravaggio e all’apoteosi di fiori e frutti della tradizione fiamminga prima di arrivare all’ambiente più “caldo” della casa, la cucina. Colloca in cucina i quadri di nature morte delle vivande –pesci, carni, frutta etc..– subito dopo la Wunderkammer –sala dei giochi e delle meraviglie– e introduce nei vasti ambienti del cibo con queste parole: “dopo la Wunderkammer vi invito a passare all’altra camera delle meraviglie, quella dei fornelli e delle padelle”. Questa lunga citazione iniziale per sottolineare che il cibo in museo c’è sempre stato e che la relazione tra museo e cibo si è sviluppata nel tempo e nella storia della istituzione museale anzitutto con la sua rappresentazione. Rappresentazione del cibo che culmina nel periodo delle nature morte e che conosce grandi capolavori da museo storico artistico che ancora oggi attirano folle di visitatori come il già citato Canestro di frutta di Caravaggio. I rapporti e le logiche sono profondamente mutate nel momento in cui il Museo, a partire della seconda metà del secolo scorso, è profondamente mutato. E la domanda è diventata non tanto quanto il cibo potesse essere rappresentato nei suoi significati, simboli, realtà, quanto se il cibo concreto potesse diventare un oggetto da museo? Se si pensa che il museo sia ancora il luogo della memoria e della conservazione, della protezione e dell’eccezionalità, della meraviglia e dell’unicità, legato prevalentemente alla tradizione classica e artistica, allora l’accostamento tra cibo e museo può apparire sicuramente azzardato se non altro perché il cibo è quotidiano e non eccezionale, va consumato e non mummificato, è soggetto al trascorrere del tempo e delle tecnologie di produzione, è espressione della biodiversità e della territorialità. Ma la questione è in questo modo mal posta perché in realtà dovrebbe essere trasformata come segue: può il Museo di oggi per le sue caratteristiche intrinseche essere il luogo che parla del cibo come espressione di civiltà con i suoi valori di memoria, di cultura, tradizione, i suoi simboli e il suo carico di saperi pratici e tecnici oltre che di evoluzione produttiva e di diffusione? 333
La risposta è sicuramente positiva, se non altro perché in questi ultimi anni la dimensione antropologica e culturale del cibo con tutto ciò che gli ruota attorno è stata recepita dalla coscienza collettiva e l’ espansione vertiginosa di musei di ogni genere- tanto che le distinzione tipologiche sono ormai obsolete- mostra sempre con maggiore evidenza che non esistono cose senza simboli , né simboli senza cose come afferma lo storico dell’alimentazione Massimo Montanari. L’esperienza museale è sempre più un prodotto che si realizza mettendo in relazione le idee e i valori della cultura da cui provengono gli oggetti, le idee, i luoghi e gli uomini rappresentati, con il bagaglio culturale del visitatore contemporaneo. Il Museo in questo modo, lontano da ogni intento nostalgico, diviene punto di riferimento per la ricerca sui saperi naturalistici, alimentari, di manutenzione del territorio, è un artefatto didattico raffinatissimo che insegna il tempo, lo spazio, la relazione tra le persone mentre racconta di chi il cibo lo fa e lo consuma. Pietro Clemente, ritiene che “il museo sia una sorta di operatore ermeneutico , quando ne esci ti fa rivedere il mondo esterno, ma con altri occhi, animandolo della storia che lo ha trasformato”. In questo senso il Museo del cibo intercetta gli elementi più innovativi della nuova museologia che riguardano la continuità dell’istituzione museale con il territorio e il paesaggio, la sua capacità narrativa e la sua forza di legare l’oggi alla tradizione facendola evolvere. Gli esempi in proposito possono essere moltissimi e la pubblicità e la comunicazione su questi aspetti costruiscono la fortuna di un cibo piuttosto che di un altro, infatti ogni prodotto alimentare per essere apprezzato ha bisogno di un luogo, di un contesto, di una storia, di uomini e donne che lo interpretano e di significati che si stabilizzano nell’immaginario come nella realtà. Un Museo del cibo si configura come mediazione tra luogo, tipicità del prodotto, narrazione della sua produzione e contiene in sé le quattro grandi aree della cultura del cibo in continua evoluzione: • il territorio con la produzione primaria del cibo e la costruzione del paesaggio; • il mercato con lo scambio e la circolazione di prodotti e saperi; • la cucina con i saperi della trasformazione e le pratiche della preparazione del cibo ; • la tavola che riguarda la ritualità del cibo consumato e condiviso . Il cibo in questa sua poliedricità e presenza diffusa incorpora pure la logica allargata dell’idea di patrimonio e bene culturale e ad esso si collega la definizione che l’UNESCO ha redatto nel 2003 per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale definito come “l’insieme di pratiche, rappresentazioni, espressioni, conoscenze e saperi”, ma anche di “strumenti, oggetti, manufatti e spazi culturali” nei quali una comunità si riconosce come senso di appartenenza.
A Parma e nel suo territorio Uno spot pubblicitario per una industria alimentare gioca, per riprendere la metafora di Philippe Daverio dalla quale siamo partiti, sul fatto che se l’Italia fosse una casa, l’Emilia Romagna sarebbe la cucina e quindi è logico che sul territorio emiliano siano attivi ben 25 Musei del gusto e 15 Musei del Mondo rurale come Musei di qualità cioè riconosciuti dalla Regione istituzioni meritevoli per il rispetto di alcuni essenziali standard museali che ne garantiscono la qualità culturale e gestionale. Il caso di Parma e del suo territorio è emblematico poiché a partire dal 2000 sul suo 334
territorio sono sorti 6 musei del cibo creando una significativa rete che intercetta sia il momento della produzione che quello della trasformazione dialogando con i visitatori anche attraverso i diversi linguaggi che parlano di quei prodotti. Molti visitatori si emozionano davanti alla “giardinetta” – la vettura ancora con parti in legno- che nel primo dopoguerra percorreva le strade con un enorme tubetto di conserva di pomodoro chiuso con il “ditale” sul tettuccio. Ora quella automobile è il perno del Museo del Pomodoro. Il terreno per raccontare la storia di prodotti che già costituivano l’eccellenza del territorio parmense come il formaggio parmigiano/ reggiano e il prosciutto , era favorevole sia per la presenza di Consorzi come di una forte industria di trasformazione. Si trattava di fare ciò che è specifico del Museo, riuscire a tramandare la memoria di questi ed altri prodotti che nel tempo si erano aggiunti come la salumeria in genere, il pomodoro, la pasta per la quale Parma con Barilla è leader mondiale. Il concept dei Musei del cibo, per il quale si creò una Associazione no profit specifica, è centrato su alcuni criteri che intendono rispondere all’idea di Museo vivo e animatore della identità e della cultura del territorio, sinteticamente riassumibili nei seguenti: • luoghi di memoria distribuiti sul territorio con attenzione alla vocazione delle diverse aree, • teatro dell’oggi per tramandare la storia con i nuovi linguaggi, • laboratori per l’educazione alimentare e al consumo • luoghi narrativi di storie di singoli, comunità e dell’integrazione tra produzione sul campo e trasformazione nell’industria. A questa attenzioni si aggiungeva l’opportunità di una location nella quale la relazione tra prodotto, territorio e contesto culturale fosse stretta e percepibile nelle mura stesse dell’edificio sia che si trattasse di edificio storico o di archeologia industriale o luogo produttivo agricolo. I 7 Musei ora attivi rappresentano un invito ad un percorso anzitutto sul territorio parmense nelle sue diverse realtà paesaggistiche ed è nel contempo itinerario dentro ogni luogo collegato alla vita di ogni giorno di ciascuno di noi consumatori di cibo più o meno consapevoli. In una Corte storica a Soragna nei pressi del castello Meli Lupi ha sede il Museo del Parmigiano Reggiano che sviluppa il percorso espositivo nel casello storico della Corte. Qui sono illustrate con immagini e oggetti l’evoluzione cdelle tecniche di produzione e le fasi di trasformazione del latte, le fasi di stagionatura e commercializzazione del formaggio, senza dimenticare l’attualità per la tutela della qualità. Viene dall’America ma a testimonianza dell’importanza del mercato nella circolazione del cibo, Parma è divenuta zona di produzione tipica del pomodoro. In una grangia benedettina a Collecchio che ospitò negli inizi del Novecento una fabbrica di trasformazione pionieristica per la produzione di conserva su scala industriale, sorge il Museo del pomodoro nel quale la storia del mondo si intreccia con la storia locale e con i grandi paesaggi agrari evocati dalle coltivazioni diffuse. Al piano superiore è nato il Museo della Pasta: Parma fu antesignana nella produzione di pasta con la ditta Barilla che ha contribuito in maniera significativa alla nascita del Museo. Una sezione è dedicata alla preparazione casalinga della pasta con gli oggetti, le pratiche e i saperi relativi. Nel momento del dibattito sul cibo di qualità il Museo dibatte il rapporto industriale/casalingo e richiama tutti i significati culturali e sociali dell’arte molitoria nella storia e del fare la pasta e la sfoglia. Ancora un castello e le sue cantine nelle prime colline di Sala Baganza dove, come dice un cronista del 1600 rincresce che con le stampe non sia possibile trasmettere il profumo 335
dei vini in ebollizione, ha sede la “Cantina dei Musei del cibo” che esalta la tradizione dei vini dei Colli di Parma ma ne racconta anche la storia a partire dai reperti archeologici trovati in zona e relativi alla viticoltura. Ulteriori due Musei riguardano l’arte della norcineria e riguardano due salumi tipici che hanno preso il nome dai luoghi dove sono nati e hanno sviluppato la loro storia millenaria, il prosciutto di Parma e il salame di Felino. Il Museo del Prosciutto sorge a Langhirano che è capitale riconosciuta del prodotto che respira il “marino” che scende lungo le sue valli dal mare. Il Museo del salame è collocato nelle cantine del castello di Felino il cui Signore nel ‘400 ordinava che nei dintorni si procurassero “pochos viginti a carnibus pro sallamine”. Ma qui sono anche conservati gli attrezzi, i coltelli etc.. che il norcino si portava di casa in casa per il rito dell’uccisione del maiale. Chiude la serie dei Musei riconosciuti il Museo Agorà di arte olearia (Museo Agorà Orsi Coppini Arca della cultura)situato in un antico caseificio della Bassa che tra antichi torchi racconta la millenaria storia dell’ulivo. Ma a Parma ci sono ulivi? No ma la tradizione del venditore di olio che importava la materia prima da lavorare dalle regioni meridionali al nord già a partire dall’Unità di Italia, si è radicata in questa fetta della Bassa memore forse della presenza nel Medioevo di qualche uliveto collinare di cui si trova traccia nei documenti.. Molti altri sono i musei piccoli e quasi familiari che punteggiano il territorio e, pur non essendo riconosciuti ufficialmente, rappresentano il cibo segno di identità e di appartenenza. Valga per tutti il piccolo Museo del culatello alla Antica Corte Pallavicina di Polesine Parmense che sorge a fianco delle antiche cantine nel castello sul Po dove stagionano annualmente migliaia di pezzi del prezioso salume; ma anche le centinaia di agricoltori o artigiani del cibo che riservano uno spazio per esporre, esibire la storia con utensili e attrezzi che legano il cibo all’altra grande categoria museale delle raccolte demo etnoantropologiche. Massimo Montanari, il grande storico dell’alimentazione, anch’esso emiliano, per ogni concetto forte di cui il cibo è portatore racconta una breve storia. E così per dire che il cibo è segno di integrazione culturale racconta la storia del piatto di spaghetti, simbolo dell’identità italiana, ma in realtà risultato dell’unione della pasta di origine araba e di un condimento che viene dal Nuovo Mondo. Ebbene i Musei del cibo raccontando tutte queste storie uniscono il locale ed il globale e in questo sta la loro forza propositiva e formativa per il cittadino e il territorio. Tra identità e globalizzazione i Musei inseriscono la memoria che è la prima pietra su cui si fonda la cultura ed anche la cultura alimentare . Mario Botta parlando di Museo afferma “il museo è l’esatto opposto della guerra, laddove questa distrugge, quello ripara, laddove questa porta l’oblio, quello mantiene nel tempo, laddove questa minaccia, quello protegge e valorizza… Il museo è la via di fuga dall’onnipresente simulazione, in questo senso è la cattedrale dell’epoca contemporanea”. Il cibo anche con il Museo può essere buono e per tutti esprimendo i valore primordiali della convivenza umana.
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Bibliografia Nella vastissima letteratura che sviluppa il dibattito sul senso del Museo contemporaneo nel suo rapporto con il territorio si segnala L. Bonesio, Paesaggio, identità e comunità tra locale e globale, 2015 Silvia dell’Orso Musei e territorio, una scommessa italiana , Electa per le belle Arti, Milano, 2009 26 Cahiers du patrimoine mondial Paysages culturels du patrimoine mondial Guide pratique de conservation et de gestion, UNESCO, 2011 Tra i documenti, è di recente emanazione la “Carta di Siena” di ICOM Italia relativa a Musei e paesaggi culturali, tema della prossima Conferenza internazionale ICOM di Milano 2016
Per i Musei del Gusto e del Mondo Rurale in Emilia Romagna si rinvia al sito www.Ibc.regione.emilia-romagna.it alla voce musei e per i Musei del cibo di Parma al sito www.museidelcibo.it
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PARTE V Appendice
10 domande sulla storia dell’alimentazione* Intervista a Massimo Montanari a cura di Giuseppe Di Tonto
1. Il carattere fortemente innovativo che venne assumendo la ricerca storiografica intorno alla rivista “Annales d’histoire économique et sociale”, fondata da Marc Bloch e Lucien Fevbre, si tradusse nell’apertura verso nuovi settori di indagine che furono considerati parte integrante della ricerca storica. Tra questi l’alimentazione degli uomini nei suoi vari aspetti. Si può dire che da quel momento nasce una storia dell’alimentazione? E quali sono state le principali tappe di questo settore dell’indagine storiografica fino ad oggi? Si può dire che nasce, allora, una storia dell’alimentazione intesa come noi oggi la intendiamo, ossia come una storia dove il cibo è lo specchio della società. Prima dell’inchiesta lanciata dalla rivista francese negli anni sessanta del secolo scorso, il cibo entrava nel discorso storico principalmente sotto le due visuali contrapposte del “pittoresco” e del “tragico”, ossia da un lato le curiosità, gli aneddoti della cosiddetta “vita quotidiana”, fondamentalmente staccati dalla Storia con la maiuscola, e dall’altro lato le carestie, la fame, i patimenti (anch’essi come dato a-storico) attribuiti alle masse e ai “poveri”. Nel corso del Novecento, con le indagini di Bloch e Febvre, si pongono al centro dell’attenzione storica le “strutture” – materiali e mentali – che caratterizzano le diverse società. Un’attenzione storica più intimamente collegata alle prospettive sociologiche e antropologiche, volta a indagare realtà più profonde degli “avvenimenti”, sia quelli politici o militari, sia ovviamente quelli della “vita quotidiana”, banchetti e carestie. Bloch pensava che queste “strutture”, oltre a costituire il motivo principale d’interesse per lo storico, sono anche le realtà che si possono ricostruire con maggiore certezza, poiché emergono da ogni documento, a leggerlo nel modo giusto, a interrogarlo con le domande giuste. Il cibo in questo modo diventa un possibile prisma per ricostruire i rapporti sociali ed economici, la cultura, gli atteggiamenti mentali. All’epoca in cui le “Annales” sono dirette da Fernand Braudel, la prima cosa che si fa nel lanciare una “inchiesta sulle strutture materiali e mentali” è un’indagine a tutto campo sui sistemi alimentari. Però bisogna precisare almeno due cose. Primo, che contemporaneamente all’iniziativa francese c’è un altro luogo in Europa, la Polonia, in cui la “Rivista di storia della cultura materiale” lancia – in un quadro ideologico di stretta osservanza marxista – una indagine parallela sulla storia del cibo. Secondo, che per un po’ di tempo questi interessi si rivolgono verso una dimensione della tematica alimentare, quella della nutrizione e dei bilanci calorici, 341
che ben presto (a partire già dagli anni settanta) fu abbandonata in favore di un approccio più sociale e culturale. Nessuno oggi ritiene veramente possibile (e in fondo neppure interessante) ricostruire il numero di calorie ingerite dagli individui. Perché da un lato si è capito che non è metodologicamente consentito, perché sia i cibi sia i consumatori sono diversi rispetto a oggi, e le parole dei documenti non ci permettono di sapere come fossero gli uni e gli altri (solo in ambito archeo-antropologico questo tipo di interessi è ancora oggi presente); dall’altro si è capito, in modo sempre più chiaro, ciò che è in fondo piuttosto ovvio e cioè che mangiare non è solo un gesto nutrizionale e il cibo non è solo benzina. Mangiare è relazione con gli altri, è linguaggio, è identità, è tutta una serie di valori che in ogni società danno al cibo significati di grande interesse storico. 2. Nel suo libro “La fame e l’abbondanza. Storia dell’alimentazione in Europa” lei ha osservato che “la storia dell’alimentazione scorre in stretta sintonia con le ‘altre’ storie, le determina e ne è determinata, anche se le sue forti implicazioni antropologiche costringono la cronologia ad un serrato e talora difficile confronto.” al punto da costringerla a disegnare nuove periodizzazioni “talora irrispettose nei confronti delle partizioni accademiche” e spingerla a scelte radicali come quella di “abolire il Medioevo – anche la parola – dal (suo) orizzonte mentale” quasi a volersi sbarazzare “di un’ingombrante impalcatura artificiale, che (le) impediva di lavorare liberamente”. Al termine di questo complesso lavoro di risistemazione temporale quali periodizzazioni è possibile disegnare, a grandi linee, per la storia dell’alimentazione? Abolire il concetto e il termine di Medioevo non è, secondo me, solo una necessità per chi studia l’alimentazione, perché in ogni campo si tratta di un concetto inutile che non ci fa capire le cose. “Medioevo” è una parola che indica un vuoto, uno spazio fra due pieni che sarebbero la civiltà classica e il suo “rinascimento” post-medievale. Insomma un’idea che non definisce quello che sei, ma quello che non sei. Quindi impedisce di capire. Se invece di pensare il Medioevo come un’età di passaggio – ma cito sempre le parole di Giuseppe Giusti: «Che significa questa parola epoca di transizione che ci ronza tanto spesso agli orecchi? Tutti sono stati tempi di transizione; trovatemene uno, che si sia fermato» – cerchiamo di riempirlo di contenuti, quel concetto si sfalda fra le mani perché una parola sola non riesce a contenere la varietà di quei secoli, il processo di cambiamento che dal V al XV secolo (gli estremi convenzionali del Medioevo) modifica radicalmente la realtà: dal trionfo della campagna alla rivincita della città; dall’economia silvopastorale alla colonizzazione agricola; dal mondo dei signori e dei contadini-pastori a quello delle borghesie mercantili; dalle scuole monastiche e vescovili al nascere delle università laiche... e potremmo continuare. Ma allo stesso modo dovremmo riconoscere che il cosiddetto Medioevo sfocia direttamente nel cosiddetto Rinascimento, che ne costituisce a pieno titolo il completamento. C’è un’epoca, tra il XIV e il XVI secolo, piuttosto omogenea nei contenuti sociali e culturali: è l’epoca, per esempio, in cui prende forma e si consolida l’ideologia del cibo come primo strumento della differenza sociale; è l’epoca in cui la tavola diventa luogo di ostentazione del potere. Se descriviamo tutte queste situazioni nella loro specificità, il concetto e il termine di Medioevo non servono più, tant’è vero che gli storici si affannano a “ritagliare” pezzetti di Medioevo, con nomi talvolta curiosi (alto e basso, iniziale e finale, primo e ultimo, centrale, maturo, e via dicendo) che servono a definire un’epoca con sue caratteristiche, diverse da quelle di altri “pezzetti di Medioevo”. Poi, paradossalmente, ci sono aspetti del cosiddetto Medioevo che 342
si prolungano nel tempo fino a secoli più vicini a noi: Jacques Le Goff parlava di un “lungo Medioevo” che arriva fino al XVIII secolo. Voglio spingere fino in fondo questa provocazione. Se ci pensiamo bene, l’uso della parola e del concetto di Medioevo come sinonimi di barbarie – l’uso tipico “da bar”, ma anche l’uso giornalistico – restano il solo modo sensato di usare questa parola. È un vero paradosso: gli storici possono protestare per questi usi “abusivi”, ma in fondo la parola fu coniata, nel Quattrocento (dunque ancora nel “Medioevo”!) esattamente per esprimere queste idee. 3. La complessità della storia dell’alimentazione con il suo intreccio di studi sociali, antropologici, di storia dell’agricoltura e del paesaggio, dell’economia e del commercio, della cultura e della religione, pone sicuramente problemi relativi all’uso delle fonti. E’ possibile ricostruire un quadro sintetico di queste problematiche? Quali fonti, tra quelle disponibili, si rivelano di facile uso nella didattica della storia? Tutte le fonti, in vario modo e da diversi punti di vista, contribuiscono a costruire una storia dell’alimentazione che copra, o almeno consideri, le molteplici prospettive (tendenzialmente infinite) in cui il tema può essere considerato. Voglio dire: il cibo è al centro degli interessi quotidiani in tutte le società e in tutte le culture; perciò rispecchia il mondo nella sua totalità. Ogni fonte, come prodotto di quel mondo, in qualche modo ha un rapporto (diretto o indiretto) col problema del cibo. Sul piano didattico il discorso non cambia: ogni fonte (scritta, materiale, iconografica) si presta a essere illustrata in modo semplice, se sappiamo quali domande le si possono fare e quali invece no. 4. Gli studi antropologici, a partire dai contributi di Claude Lévi-Strauss, hanno insistito sul ruolo simbolicamente decisivo della cottura dei cibi come passaggio tra “natura” e “cultura”, essendo il cibo crudo naturale mentre il cibo cotto frutto dell’intervento umano, e di scelte di tipo culturale e sociale. Roland Barthes ha poi sostenuto che il cibo assume, storicamente, un ruolo extra-nutrizionale sempre più importante, trasformandosi, a mano a mano che il problema della fame passa in secondo piano, in “un sistema di comunicazione, un corpo di immagini, un protocollo di usi, situazioni e comportamenti”. Quali sono, a suo avviso, i momenti più significativi di questo passaggio nella storia dell’alimentazione umana? Anzitutto vorrei precisare che, secondo me, questo valore “linguistico” del cibo (cioè il suo essere una forma di linguaggio e di comunicazione sociale) non nasce quando si supera la fase primordiale della fame e del valore fisiologico, nutrizionale degli alimenti. Perché è proprio questo valore primario del cibo a giustificare la complessità dei valori, dei significati, dei simboli di cui esso si carica. La società contadina è stata spesso ai limiti della sussistenza, ma questo non ha impedito che attorno al cibo si sviluppassero temi di relazione, di convivialità, di socialità. Nel mio Medioevo (se ancora possiamo chiamarlo così) il cibo è forse la prima forma di linguaggio sociale. Quanto all’opposizione natura/cultura espressa dal binomio crudo/cotto, è indubbio che si pone anche in epoca storica – non solo presso le società senza scrittura – come costante culturale. Tutto sta a intendersi su che cosa significa “natura”. Questa è un’idea, un concetto elaborato culturalmente: non una realtà ma un valore simbolico. Non esiste una “natura” 343
veramente contrapposta alla cultura. E non esiste un valore univoco di questo concetto: nelle società antiche e ancora nel Medioevo, “natura” significava (concettualmente) uno stato imperfetto prima dello sviluppo della “civiltà”. Da quella prospettiva, il cotto era sicuramente meglio del crudo. Oggi la situazione si è in parte rovesciata e non per nulla assistiamo a un grande successo del crudo nelle pratiche gastronomiche – ma prima ancora nel modo di pensare quel concetto. Il crudo vince perché oggi possediamo tecniche di refrigerazione che lo rendono più sicuro di un tempo. Vince perché la scienza dietetica ha scoperto l’esistenza e l’importanza delle vitamine, che con la cottura si disperdono. Vince anche per un motivo ideologico: da Rousseau in poi, la “natura” è diventata senz’altro buona, migliore della “civiltà” che la corrompe. Per tutti questi motivi oggi l’idea di natura ci suona bene. Ma è una costruzione culturale, esattamente come quella che secoli o millenni fa la pensava come qualcosa di perfettibile, comunque inferiore all’artificio della civiltà – che oggi suona, per così dire, meno simpatico. 5. In questi ultimi anni è cresciuto un diffuso interesse intorno al rapporto tra paesaggio e cibo. “Il cibo racconta in maniera semplice e diretta il rapporto tra l’uomo e il paesaggio in quanto sintesi, quando è davvero genuino, degli elementi naturali e dell’intervento dell’uomo che seleziona, raccoglie, impasta e mescola insieme gli ingredienti, calibrando aromi e sapori secondo la disponibilità dei prodotti presenti nel territorio” (Nutrirsi di paesaggio” Fai 2015). Si riconosce in questa posizione l’impronta di Emilio Sereni e dei suoi studi pionieristici sul paesaggio agrario. Non mancano iniziative di ricerca, di studio e di formazione di grande interesse, come ad esempio la Summer School Emilio Sereni dell’Istituto Cervi, quest’anno dedicata al nesso tra cibo e paesaggio e recensita anche in questo numero del Bollettino di Clio. Come si traduce l’attenzione verso questo tema nella ricerca storiografica? L’importante è mettere a fuoco l’idea che anche il paesaggio – come l’idea di natura – è una costruzione culturale, un frutto del lavoro e del pensiero dell’uomo. I paesaggi del grano, della vite, dell’ulivo, del riso sono tutte costruzioni umane. Alla Summer School dell’Istituto Cervi ho introdotto la mia lezione con le parole di Giacomo Leopardi che lo stesso Sereni pone in apertura del suo pionieristico studio sul paesaggio agrario: «Una grandissima parte di quello che noi chiamiamo naturale, non è; anzi è piuttosto artificiale: come a dire, i campi lavorati, gli alberi e le altre piante educate e disposte in ordine, i fiumi stretti infra certi termini e indirizzati a certo corso, e cose simili, non hanno quello stato né quella sembianza che avrebbero naturalmente. In modo che la vista di ogni paese abitato da qualunque generazione di uomini civili […] è cosa artificiata, e diversa molto da quella che sarebbe in natura». 6. La storia dell’umanità è piena di eventi e processi migratori che hanno segnato anche dolorosamente la vita dei singoli e le vicende di intere popolazioni. Il nesso tra cibo, alimentazione e migrazioni si è spesso tradotto in termini di affermazione di identità e ibridazioni delle culture alimentari. Quali sono, a questo proposito, i processi storici più interessanti descritti nella storia dell’alimentazione? Il caso più interessante, davvero esemplare, è proprio quello del Medioevo. È agli inizi di quell’epoca che nasce un nuovo modello di civiltà, costruito dall’incontro (ma prima 344
ancora, dallo scontro) fra il modello romano, costruito attorno al Mediterraneo, e quello “barbarico” costruito a nord e a est del mondo romano. La conflagrazione, lo “scontro di civiltà” (per dirla con un’espressione che oggi è tornata di moda) fra questi due mondi genera lutti e rovine, ma è la premessa su cui nasce quel nuovo soggetto storico che oggi chiamiamo Europa. Caratterizzato da una sua identità, anche alimentare, che mette insieme le pratiche e l’ideologia agricola romana (pratiche e ideologia, perché nel mondo romano agricoltura è sinonimo di civiltà e questa è un’opzione ideologica prima che economica) con le pratiche e l’ideologia “selvatica” di società abituate piuttosto a operare negli spazi incolti e boschivi. Se quella romana è una civiltà del pane, quella barbarica è una civiltà della carne (come valori, ripeto, ideologici prima che economici e alimentari). Nell’Europa che esce da questo conflitto, non si penserà più il pane senza la carne, e viceversa. Riflettere sul modello alimentare europeo è un modo fra i tanti (ma, a mio avviso, particolarmente efficace) per valutare il significato degli incontri fra culture. Sul significato di quel passaggio gli storici discutono molto, da posizioni opposte. C’è chi legge il fenomeno come crollo della civiltà. Chi lo legge come una sostanziale persistenza del modello antico. Chi enfatizza il rinnovamento come nascita di un mondo nuovo. Le posizioni si confrontano, si contrappongono e il dibattito continuerà, alimentato anche dalla rovente attualità del tema. Io mi limito a osservare che, dal punto di vista di uno storico dell’alimentazione, il paradigma dello “scontro di civiltà” funziona perfettamente; ma altrettanto perfettamente funziona quello dell’incontro e dello scambio, che garantiscono reciproco arricchimento. Come scriveva Georges Duby già negli anni settanta, in un libro che mi piace citare (Le origini dell’economia europea) perché lo riconosco fondamentale per la mia formazione scientifica, «fu proprio dalla fusione di questi due sistemi di produzione che finalmente nacque quello caratteristico dell’Occidente medievale». Ciascuno ne trarrà la morale che crede. Secondo me, è quasi una parabola. Come è una parabola la storia degli spaghetti al pomodoro, che non mi stanco di raccontare. Sono due elementi che provengono da luoghi e civiltà diverse, in tempi diversi: gli spaghetti sono un’invenzione araba e si diffondono in Italia durante il Medioevo; il pomodoro viene dall’America, solo nel Sei-Settecento lo si comincia a usare sotto forma di salsa, solo nell’Ottocento si sposa con gli spaghetti. Quel piatto, oggi simbolo dell’identità italiana, è dunque il frutto di un incontro, di una contaminazione fra due storie diverse: se oggi definisce la nostra identità, le sue radici stanno altrove, in altri luoghi e in altre culture. Poi quelle culture si incontrano, e ne nasce una nuova, talmente forte da assumere caratteri profondamente identitari. Per me questa è una vera parabola, per mostrare in concreto che le radici sono una cosa, l’identità un’altra. Quelle sono la storia, questa è il presente. 7. L’attenzione verso il cibo e la cultura dell’alimentazione ha aperto nuovi orizzonti anche nella didattica della storia. Quali suggerimenti si possono dare ai docenti che intendono progettare e organizzare percorsi didattici nel campo della storia e della cultura dell’alimentazione, rivolti a studenti dei diversi ordini e gradi? Parlare di cibo sembra semplice, ma non lo è affatto, perché il cibo contiene tutto, parla di tutto. Proprio per questo la storia dell’alimentazione è, sul piano didattico, uno strumento straordinario, che consente di far passare il complesso attraverso il semplice, il difficile attraverso il facile (l’apparentemente facile). È insomma una sorta di grimaldello, che “apre” la comunicazione con temi familiari ma poi consente, in qualche modo costringe a parlare 345
di ambiente, di economia, di società, di politica, di cultura, di arte, di letteratura, di filosofia. Partendo da un piatto di cuscus, di spaghetti, di tortellini. Quando si imposta un discorso complesso, importante, intellettualmente forte, a partire da un oggetto concreto e conosciuto, la comunicazione è molto facilitata. Un argomento come la cucina è un ottimo punto di partenza; direi un punto di partenza privilegiato. L’esempio degli spaghetti al pomodoro, di cui abbiamo appena parlato, mi sembra esemplare. Attraverso un percorso di questo tipo si è trasformato il senso dell’espressione “educazione alimentare”, che appena una ventina d’anni fa aveva un’accezione specifica e molto ristretta: si parlava di educazione alimentare intendendosi “cosa si deve mangiare”, imparare le regole per una “corretta” alimentazione. Un argomento certamente importante, ma freddo, se non lo si riscalda con tutto quel contorno, quella sostanza di cultura di cui i gesti alimentari sono farciti. Se il cibo è cultura, parlare di cibo è un modo efficacissimo per parlare di cultura; e i temi dell’interculturalità, ideologicamente delicatissimi, possono essere introdotti in modo tanto efficace quanto morbido. 8. Dovendo scegliere una serie di concettualizzazioni utili per lo studio scolastico della storia dell’alimentazione, quali suggerimenti può dare ai docenti? Soprattutto negli ultimi anni, mi sono concentrato sui problemi del linguaggio. Io credo che, non soltanto per la storia dell’alimentazione ma per la storia in genere, e più ampiamente ancora, per la formazione culturale complessiva, la precisione del linguaggio deve essere al centro degli interessi di chi insegna. Perché si parla come si pensa, e si pensa come si parla. Ogni parola è un giudizio, una prospettiva, un’idea. Bisogna quindi, secondo me, applicarsi con enorme pazienza a discutere del significato di ogni parola. Definire, definire, definire. Cosa vuol dire questo, cosa vuol dire quell’altro. Hai detto “cibo”? Cosa significa questa parola? Hai detto “tradizione”? Cosa precisamente intendi dire? Hai detto “identità”, “radici”? Pensi che siano sinonimi? Hai detto “territorio”? E via di questo passo. In modo sistematico, apparentemente noioso. Ma credo fondamentale per contribuire alla nascita, o al consolidamento di uno spirito critico. Che poi, alla fine, è l’unica cosa che interessa un insegnante. 9. Un tema collegato alla didattica della storia dell’alimentazione è quello della manualistica scolastica. Come si deve correttamente dispiegare la storia dell’alimentazione all’interno della storia generale dei manuali? La sua esperienza di autore di manuali scolastici di larga diffusione potrà essere di grande aiuto per i docenti nell’adozione dei testi. Secondo me, la storia dell’alimentazione deve entrare nei manuali scolastici all’interno del discorso storico generale. Evitando il vecchio equivoco di pensare che esista una “piccola storia” separata dalla “grande”, una “storia del quotidiano” separata da quella dei grandi eventi. Per questo, nei manuali scolastici che ho scritto, cerco sempre di integrare il tema del cibo con quelli dell’economia, della politica, della religione. Sono uno storico dell’alimentazione o uno storico senza aggettivi? Non mi piace autodefinirmi, ma credo che se dovessi farlo direi che sono uno storico senza aggettivi, che in particolare si è concentrato sul tema del cibo; accorgendomi subito, però, che parlando di cibo si può (si deve) parlare di tutto, se no non si capisce nulla. Ironicamente, potrei dire che sono uno storico dell’alimentazione particolarmente vorace. 346
10. Chiudiamo questa intervista in modo leggero. Le chiediamo di suggerire ai nostri lettori un libro, un quadro e un film che, secondo lei, possono essere usati per la realizzazione di percorsi di storia dell’alimentazione. Chiusura “leggera”? Non sono d’accordo su questa definizione. Consigliare un libro, un quadro, un film è una cosa impegnativa. Consigliare è sempre impegnativo perché significa assumersi la responsabilità di “raccomandare” qualcosa che non sai quale effetto potrà fare sul tuo interlocutore. Io sto molto attento a dare consigli, mi sembra un’operazione difficilissima. Ma proviamoci. Un libro? Consiglierei di leggere, per cominciare, un lungo saggio di Emilio Sereni, pubblicato la prima volta nel 1958 e più tardi raccolto nel volume Terra nuova e buoi rossi, pubblicato da Einaudi. Si intitola Note di storia dell’alimentazione nel Mezzogiorno: i napoletani da mangiafoglia a mangiamaccheroni ed è un piccolo capolavoro di metodo, un vero ‘classico’ che ha ancora molto da insegnarci. Sereni si propone di capire “quando, come e perché” il gusto dei maccheroni si sia diffuso a Napoli, fino a giustificare l’appellativo di “mangiamaccheroni” con cui i napoletani furono chiamati a iniziare dal Seicento; desidera liberare questa vicenda da ogni tono aneddotico, curioso, dandole una prospettiva pienamente storica. Non è un lavoro facile da leggere; è un saggio complesso, ricco di erudizione. Analizzando una grande quantità di fonti, documentarie, letterarie, poetiche, proverbiali, Sereni mostra che quell’appellativo prima di allora non era un segno identitario dei napoletani, bensì dei siciliani (la Sicilia fu nel Medioevo la prima regione italiana in cui si affermò l’industria della pasta secca). A Napoli invece, ancora nel Cinquecento, la pasta era ritenuta un lusso, una ghiottoneria per occasioni speciali. Poi avvenne un radicale cambiamento, che Sereni colloca attorno al 1630. Il mercato della città di Napoli si era a quel tempo impoverito in seguito alle carestie e al malgoverno spagnolo. L’approvvigionamento di carne, fino ad allora accessibile anche agli strati inferiori della popolazione, diminuì drasticamente. I napoletani, prima detti “mangiafoglie” perché la “foglia” (cioè il cavolo) era, assieme alla carne, il loro cibo principale, furono costretti a inventarsi un nuovo regime alimentare. Nel frattempo si erano diffuse alcune invenzioni (il torchio e l’impastatrice meccanica) che fecero calare il prezzo di produzione della pasta. I maccheroni diventarono il nuovo cibo dei napoletani. Ecco dunque nascere il gusto napoletano per la pasta. Ecco l’epiteto “mangiamaccheroni” migrare dalla Sicilia a Napoli (poi, nell’Ottocento, furono gli italiani in genere a essere chiamati così). La ricerca di Emilio Sereni è esemplare perché ci mostra le connessioni fra cibo e politica, cibo ed economia, cibo e tecnica, cibo e cultura. E fate conto alla data: 1958. La storia dell’alimentazione, in Italia, ha una storia lunga, ed è bello vedere che precede l’inchiesta delle “Annales” di cui dicevamo all’inizio di questa chiacchierata. Ha un taglio diverso, un’impostazione (anche ideologica) di altro segno: ma è storia a pieno titolo. Questo è l’importante. Anch’io, nelle mie ricerche, perseguo sempre questo obiettivo: restituire una dimensione storica ai fatti, alle immagini, alle parole del cibo. Da questo punto di vista, uno dei lavori a cui sono maggiormente affezionato, perché gioca sull’intreccio fra cultura ed economia, storia sociale e storia letteraria, immaginario e realtà, è un libro che pubblicai nel 2008, intitolato Il formaggio con le pere. Il sottotitolo era La storia in un proverbio e non ve lo racconto per non sciupare la sorpresa. Ma proseguiamo col gioco. Un quadro? Direi “Il mangiatore di fagioli” di Annibale Carracci. Un quadro cinquecentesco che ci mette di fronte un contadino a tavola, solo con la sua fame, davanti a una scodella di fagioli, con un pezzo di pane che tiene ben stretto nella mano, e attorno una torta d’erbe, qualche cipolla, un bicchiere di vino. Questo quadro mi ha 347
sempre impressionato, soprattutto perché il personaggio ti guarda negli occhi. È come una di quelle fotografie in cui la persona fotografata fissa l’obiettivo, come cercasse un rapporto, un contatto con chi la sta immortalando. È una sensazione empatica che difficilmente si ritrova in questo genere di rappresentazioni. È anche difficile trovare un povero, un contadino, come protagonista. La tavola però non è spoglia: il cibo è semplice, ma c’è una dignità profonda nella tovaglia pulita che accoglie il cibo, nella brocca di ceramica che contiene il vino; c’è una luce obliqua nella finestra in alto; c’è forse qualcuno che lo guarda, un altro a tavola con lui? Non voglio farla lunga: è un quadro che fa pensare. Dunque raggiunge l’obiettivo. Fosse un personaggio televisivo, direi che “buca il video”. Per finire, un film. Grandissimo “Il pranzo di Babette” di Gabriel Axel, ma il mio preferito resta “Vatel” di Roland Joffé. La storia di un famoso cuoco del Seicento di cui si narra che si diede la morte perché non erano arrivati in tempo i pesci da servire al banchetto in onore del re, ospite del principe di Condé per cui Vatel lavorava. Al di là della vicenda che è forse leggenda, al di là della cornice aristocratica che include il banchetto in una scorribanda di eventi spettacolari, dove la tavola è teatro nel teatro, ciò che colpisce in questo film è la concretezza con cui si rievoca il lavoro del cuoco (che non è solo cuoco ma regista di tutta l’operazione) e della moltitudine di persone che lavorano con lui. Par quasi di sentire il sudore di tutti, e si rappresenta la complessità di un lavoro straordinario che richiede passione, competenza, impegno, anche un pizzico di fortuna, come tutto nella vita. Secondo me è un film particolarmente riuscito, che fa del cibo e della tavola il nucleo centrale di un discorso sulla società. Il cibo e la tavola diventano lo specchio delle forze sociali, dei rapporti politici, dei problemi logistici ed economici, dell’invenzione artistica. Non in metafora, ma in una dimensione di assoluta concretezza. È questa la forza del cibo. Anche quando crediamo che si volga in metafora, continua ad accompagnarci nella sua materialità. Il cibo resta sempre il riferimento più concreto, il modo migliore che conosciamo per immaginare e raccontare il mondo. Perfino la Bibbia, quando deve raccontare le vicende dei primi uomini nel Paradiso terrestre, non riesce a farlo senza parlare di cibo. Il cibo è veramente la metafora della vita. A meno che, chissà, non sia la vita a essere metafora del cibo. * articolo apparso su Il Bollettino di Clio. Nuova serie, N. 4 – Novembre 2015 ISSN 2421-3276. Cibo alimentazione e storia. Su gentile concessione dell’autore Massimo Montanari, del Direttore del Bollettino Ivo Mattozzi e della curatrice Saura Rabuiti
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Quattrocento panini imburrati di sotto e di sopra Cibi e ricette nel Pinocchio del Collodi Mariano Fresta
Alimentazione festiva e alimentazione ricca Alla fine del capitolo XXIX del Pinocchio, la Fata Turchina, dopo che per un anno intero si è comportato in maniera esemplare, annuncia al burattino che sta per lasciare le spoglie di legno per diventare un ragazzino come gli altri. La gioia di tutti è grande, naturale che si pensi di organizzare una grande festa. Scrive il Collodi: … per festeggiare insieme il grande avvenimento, la fata aveva fatto preparare duegento tazze di caffè-e-latte e quattrocento panini imburrati di sotto e di sopra.
In genere le feste si caratterizzano per un’ostentazione di lusso, di ricchezza e soprattutto di spreco, anche quando si è in situazioni economiche di sopravvivenza. Nel cap. XXV dei Promessi sposi, per esempio, si narra di come i compaesani di Renzo e Lucia si apprestino a ricevere il cardinale Federigo Borromeo: al suono gioioso delle campane si accompagna l’addobbo di tutto il paese con arco trionfale fatto di erbe secche e di rami di pungitopo e di agrifoglio e con le facciate delle case tappezzate, con i davanzali delle finestre da dove, scrive il Manzoni: pendevano coperte e lenzoli distesi, fasce di bambini disposte a guisa di pendoni; tutto quel poco necessario che fosse atto a fare, o bene o male, figura di superfluo.
La festa, infatti, è soprattutto ostentazione di superfluo, è la celebrazione di una grande gioia collettiva che richiede il massimo sforzo di lavoro della collettività e uno spreco considerevole delle risorse disponibili. La metamorfosi di Pinocchio da burattino a bambino è «un grande avvenimento» e richiede una grande festa con scialo di caffellatte e di panini e di burro. Quella progettata per la metamorfosi di Pinocchio ricorda la festa preparata per il ritorno del figliol prodigo con l’uccisione del vitello più grasso. Lo spreco sta nel fatto che il burro va spalmato sopra e sotto i panini. Ma a questo punto è sorta una questione piuttosto bizantina: si tratta di panini aventi forma arrotondata o di semplici fette di pane? Perché solo in queste ultime il burro può essere spalmato sopra e sotto; nei panini, anche quando fossero aperti, l’operazione diventa incongrua, assurda. Ovvio che le discussioni e le analisi di critici e pinocchiologi non sono 349
venute a capo di nulla: perché si sono dimenticati che Collodi parla ad un pubblico di bambini, per i quali le fate, i burattini, gli animali parlanti sono reali così come gli oggetti casalinghi che li circondano. Non si meravigliano di nulla i bambini perché vivono in un mondo di meraviglie, come ci dimostrano le avventure di Alice nel racconto del reverendo Lewis Carroll. Il Collodi parla e racconta ai bambini mescolando continuamente realtà e fantasia, quotidianità e mondo portentoso. Nel racconto, i due piani della realtà e della favola coesistono, intrecciandosi e intersecandosi tra di loro, fino alla fine dell’opera, senza interruzioni. Forse per questo il Pinocchio ha conquistato il mondo ed ancora oggi lo leggiamo con sommo piacere estetico. Quindi, panini imburrati di sopra e di sotto. Addirittura, gli amici del burattino si convincono a partecipare alla festa proprio perché i panini sono, scrive Collodi, «imburrati anche dalla parte di fuori»; espressione che i bambini capiscono immediatamente e che per noi non ha senso o è molto difficile da spiegare … Anche in altri episodi l’alimentazione si veste di straordinario; basti pensare alla cena avvenuta nell’osteria del Gambero Rosso. Mentre il burattino si accontenta di un “cantuccin di pane” e uno spicchio di noce e il Gatto fa il pieno con piatti pantagruelici ma ordinari, come le triglie al pomodoro e la trippa alla parmigiana, condita con molto formaggio e molto burro, la Volpe ordina pietanze che, pur prendendo spunto dalla realtà alimentare della Toscana dell’epoca, hanno a che fare col mondo dello straordinario e dell’inverosimile. Per incantare e divertire i suoi piccoli lettori il Collodi si inventa una “semplice lepre dolce forte“, come quella contemplata nel manuale dell’Artusi, ma che la Volpe vuole corredata da un “leggerissimo contorno di pollastre ingrassate e di galletti di primo canto”. Già di per sé la lepre in dolce-forte non è un piatto leggero, sia perché è a base di selvaggina che deve essere manipolata a lungo prima della cottura, sia a causa della salsa che, secondo l›Artusi, è composta da uva passolina, cioccolata, pinoli, canditi a pezzetti, zucchero e aceto; figuriamoci come la “lepre dolce forte” possa essere semplice specie se ha un contorno, pur se “leggerissimo”, di pollastre e galletti. C’è, dunque, dell’ironia in questa descrizione della pietanza, ma forse i giovanissimi lettori non la percepiscono; mentre senza dubbio colgono la straordinarietà dell’altro piatto ordinato dalla Volpe, la quale «si fece portare per tornagusto un cibreino di pernici, di starne, di conigli, di ranocchi, di lucertole e d’uva paradisa». Il Grande Dizionario Battaglia, alla voce cibreo, riporta: «Piatto toscano fatto con uova frullate, interiora e creste di pollo, sale e pepe». Dal canto suo Pellegrino Artusi, che ci dà una ricetta non dissimile, lo definisce, con nostra grande perplessità, «un intingolo semplice, ma delicato e gentile, opportuno alle signore di stomaco svogliato e ai convalescenti». Il termine ha anche una seconda definizione che lo identifica come “miscuglio mal combinato”: ed è forse proprio in questo significato che si deve intendere il termine del Collodi, il quale s’è fatto prendere la mano dalla sua fantasia ed ha insistito nel mettere insieme cibi normali e cibi strani, provocando un contrasto comico con il diminutivo “cibreino” usato dalla Volpe. Tutto il racconto collodiano è disseminato di espressioni tratte dal gergo gastronomico, da ricette, da modi di dire che rimandano a cibi giornalieri o festivi; fra tutto questo materiale si possono distinguere tre livelli, di cui il primo riguarda l’alimentazione ricca, il secondo si riferisce all’alimentazione povera, ai cibi di tutti i giorni; il terzo livello, infine, riguarda tutte le espressioni tratte dal lessico alimentare ma usate in funzione narrativa o metaforica. Ho già riportato qualche esempio di alimentazione ricca parlando della cena della Volpe, che è quello più clamoroso, e dei famigerati panini imburrati dalla parte di fuori; ma via via nel romanzo s’incontrano descrizioni o cenni di piatti che certamente stavano sulle mense 350
dei signori, non su quelle dei poveri, tanto è vero che Pinocchio e molti altri personaggi del racconto non li mangiano, ma li sognano e li desiderano soltanto. Sono solo fantasie, come quelle di Pinocchio mentre si avvia al Campo dei miracoli per andare a raccogliere il frutto delle monete che aveva seminato: Oh che bel signore allora che diventerei! Vorrei avere un bel palazzo, mille cavallini di legno e mille scuderie per potermi baloccare, una cantina di rosoli e di alchermes, una libreria tutta piena di canditi, di torte, di panettoni, di mandorlati e di cialdoni con la panna.
Il povero Pinocchio scoprirà invece di essere stato turlupinato e derubato e che i suoi sogni resteranno tali. Successivamente, trasformato in asino, è costretto a mangiare il fieno: «Pretenderesti dunque che un somaro par tuo lo dovessi mantenere a petti di pollo e cappone in galantina?» gli dice il Direttore della Compagnia dei pagliacci, che, al contrario del Collodi, non si rende conto che le pietanze da lui elencate non possono essere cibo per somari. Ma forse non se ne rendono conto nemmeno i lettori bambini e nemmeno quegli adulti che leggono lasciandosi trascinare dai ghiribizzi e dalle girandole linguistiche dello scrittore. E, poi, quando la mattina dopo non trova più fieno, Pinocchio si deve accontentare della paglia e ... mentre la masticava si dovè accorgere che il sapore della paglia tritata non somigliava punto né al risotto alla milanese, né ai maccheroni alla napoletana ...
Risotto, maccheroni: queste sono pietanze complicate, piuttosto sofisticate, ricche di sapori e di odori, oltre che molto nutrienti, destinate ai pranzi e alle cene dei signori, assenti sulle mense della gente povera come Pinocchio, che le conosce più per sentito dire che per averle gustate. Anche alimenti che a prima vista oggi appaiono come semplici e normali, se li inquadriamo al tempo del Collodi, possono essere considerati ricchi e straordinari; è il caso, per esempio, dello zucchero che, a forma di pallina, viene data a Pinocchio malato dopo la somministrazione dell’amara medicina. Nel capitolo XXIV, poi, esso compare in formato di confetto al rosolio dato a Pinocchio per indurlo a mangiare «un bel piatto di cavolfiore condito con l’olio e l’aceto»; il burattino, infatti, nonostante la fame, non è attratto dal cavolfiore che, come osserva l’Artusi, è «un erbaggio dei più insipidi»; quindi si rende necessaria, per invogliarlo a mangiarlo, la ricompensa di un confetto. In questi due episodi lo zucchero è somministrato come un alimento raro e prezioso, da usare in circostanze particolari; ed infatti al tempo del Collodi, esso era un alimento per pochi: secondo S. Somogyi1, negli anni 1871-1890 la disponibilità annuale pro capite dello zucchero era in Italia di Kg. 2,75 a persona (ma la statistica, al solito, è generica perché non distingue i consumi per classi sociali), contro i Kg. 24,3 del periodo 1961-1967. Soprattutto i cibi che non sono necessari alla sopravvivenza, come i dolciumi, acquistano un valore iperbolico nell’immaginario dei poveri; pensiamo alle librerie sognate da Pinocchio, non piene di libri, ma di liquori, panettoni, mandorlati, ecc.. Addirittura essi assumono un aspetto favolistico come nel caso della carrozza che la fata manda per andare a prendere il burattino che giace morto sotto la Quercia grande. La carrozza era 1 S. Somogyi, L’alimentazione nell’Italia unita, in Storia d’Italia, Torino 1973, vol. V, tomo I, I documenti, pp. 884-885. 351
color dell’aria, tutta imbottita di penne di canarino e foderata all’interno di panna montata e di crema con i savoiardi.
In questo episodio il tono fiabistico prende il sopravvento su quello narrativo, non tanto per la presenza della fata, o del Can barbone che fa da vetturino o dei topini che tirano la carrozza, quanto per il fatto che il veicolo è imbottito di penne di canarino e foderato internamente di panna, crema e savoiardi. Ci spiega, infatti Vladimir Propp nella Trasformazione delle fiabe di magia2, che mentre le funzioni dei personaggi rimangono costanti, il contorno è soggetto a mutamenti, così la casetta della baba-jaga può subire riduzioni e diventare semplicemente un’isba, oppure è soggetta ad amplificazioni diventando «un’isba su zampe di gallina nel bosco, con le pareti di frittelle e il tetto di pasticcini». Noi non sappiamo se il Collodi conoscesse le fiabe russe, come conosceva quelle francesi, quindi non possiamo dire se l’immagine della carrozza così arredata venga da quelle; se, invece, come è più probabile, ne fosse ignaro, allora qui ci troviamo di fronte ad uno scrittore che applica in questa occasione, grazie alla sua fantasia, una norma precisa della grammatica della fiaba. Che è, se riflettiamo con un po’ di logica, del tutto indifferente ai passeggeri costretti a star seduti dentro ad una carrozza foderata di panna crema e savoiardi.
Alimentazione povera e quotidiana C’è poi il secondo livello, quello dell’alimentazione povera, quello in cui ci si accontenta di quello che c’è, perché la prima cosa necessaria è scacciare la fame. E di fame Pinocchio ne ha tanta, fin dalle prime pagine; la sua è «una fame da lupi, una fame da tagliarsi col coltello» (cap. 5); e poi: «non potendo più reggere ai morsi della fame saltò in un campo con l’intenzione di cogliere poche ciocche d’uva moscatella» (cap. 20). La fame tormenta il burattino per tutto il racconto ed è così imperiosa che non solo lo costringe a rubare e a chiedere l’elemosina, ma gli fa desiderare qualsiasi cosa che si possa mettere sotto i denti: Allora si dette a correre per la stanza e a frugare per tutte le cassette e per tutti i ripostigli in cerca di un po’ di pane, magari di pan secco, un crostello, un osso avanzato al cane, un po’ di polenta muffita, una lisca di pesce, un nocciolo di ciliegia, insomma qualcosa da masticare. (cap. 5).
Poco dopo, però, Pinocchio si contraddice e si mostra sommamente schifiltoso: vuole, infatti, che le pere siano sbucciate, sennonché quella “brutta malattia che è la fame”, alla fine, lo riduce a più miti consigli e così mangia anche le bucce e i torsoli. E ancora altre volte Pinocchio dovrà capitolare davanti alla fame che lo costringerà a mangiare cibi che solitamente costituiscono l’alimentazione per gli animali; ecco due esempi: 1. Il burattino, in tempo di vita sua, non aveva mai potuto patire le vecce; a sentir lui, gli facevano nausea, gli voltavano lo stomaco; ma quella sera ne mangiò a strippapelle e, quando l’ebbe quasi finite, si voltò al Colombo e gli disse: Non avrei mai creduto che le vecce fossero così buone. (cap. 23). 2. Alla fine, non trovando altro nella greppia, si rassegnò a masticare un po’ di fieno; e dopo averlo masticato ben bene, chiuse gli occhi e lo tirò giù. Questo fieno non è cattivo – poi disse dentro di sé. (cap. 33). 2 In T. Todorov (a cura di), I formalisti russi, Einaudi, Torino 1968, p. 278. 352
Un’altra volta alla sua richiesta disperata di cibo, gli si risponde con una burla non priva di cattiveria, come quando pentito, stanco ed affamato, è lasciato per un’intera notte fuori casa dalla Lumaca, che la mattina dopo gli porta da mangiare “un pollo arrosto di cartone, pane di gesso e albicocche d’alabastro, colorite al naturale”; cioè quei cibi finti che si usano in teatro. Ma c’è anche un realismo alimentare con la descrizione di pietanze proprie di fine Ottocento: il cavolfiore, la frittura di pesce, il bicchiere di latte quotidiano per il vecchio Geppetto, il pane e il salame, i vari modi di cuocere un uovo, le pere mangiate con tutta la buccia ecc. Tutte cose che, in buona parte, hanno riscontro nel testo di Pellegrino Artusi La scienza in cucina (1891), pubblicato qualche anno dopo il Pinocchio. Addirittura il Collodi si mostra informato sulle tecniche e sui modi di conservare i cibi che in quegli anni facevano i primi passi. Nel cap. 35, infatti, si narra di come Pinocchio trovi il padre Geppetto nel ventre del Pescecane. Il vecchio racconta al burattino che è riuscito a sopravvivere per due anni nel ventre del mostro grazie al fatto che questo aveva ingoiato con lui un bastimento «carico di carne conservata in cassette di stagno, di biscotto, ossia pane abbrustolito, di bottiglie di vino, d’uva secca, di cacio, di caffè, di zucchero ...». Sono evidentemente provviste di bordo, cibi a lunga conservazione tipici di marinai che affrontano lunghi viaggi e non cibi da commercializzare al dettaglio, come dimostra anche la presenza della carne in scatola e del “pane abbrustolito”, ovverosia delle gallette. Si tratta per lo più di cibi non quotidiani, perché la carne in scatola senza dubbio nel 1883 non era di uso comune, come oggi; ecc. Il tutto dà l’impressione di alimenti straordinari che ben si adeguano alla situazione favolistica della vita nel ventre del Pescecane.
Alimentazione come lessico metaforico e materiale narrativo Innumerevoli, dunque, sono in tutta la trama del romanzo le espressioni tratte dalla quotidianità che hanno riferimenti al cibo e alla alimentazione in generale. Si comincia già con Geppetto che mentre intaglia il pezzo di legno per farlo diventare un burattino dice: «Con questo burattino voglio girare il mondo, per buscarmi un tozzo di pane e un bicchier di vino »; e poco dopo è il Grillo parlante che si rivolge a Pinocchio per dirgli: « …. Perché non impari almeno un mestiere, tanto da guadagnarti onestamente un pezzo di pane»? Le due frasi, oltre a rimandare ad un uso metaforico del lessico, hanno anche una connotazione sociale, in quanto appartengono a ceti che vivono in condizioni economiche piuttosto disagiate e che sopravvivono grazie al loro lavoro. Per inciso: sono frasi che si sono sentite dire piuttosto poco negli ultimi decenni del secolo scorso e ancora meno negli anni di questo che stiamo vivendo. Le ricette però e i riferimenti all’alimentazione hanno anche un risvolto di natura narrativa: ne è un esempio la scena in cui Pinocchio, avendo trovato un uovo, deve decidere come cucinarlo: Ne farò una frittata … No, è meglio cuocerlo nel piatto... O non sarebbe più saporito se lo friggessi in padella? O se invece lo cuocessi a uso uovo da bere? … No, la più lesta di tutte è di cuocerlo nel piatto o nel tegamino … (cap. 5).
Qui sembra che il Collodi abbia avuto solo l’intento di elencare i molti modi di cuocere un uovo non per mostrarsi degno figlio di un padre, cuoco presso il marchese Ginori, ma 353
per accumulare materiale, per riempire righe dopo righe. Non dimentichiamo, infatti, che lo scrittore lavorava su commissione di un giornale per bambini e che il racconto che stava scrivendo forse lo interessava poco o niente, per cui era necessario per lui trovare del materiale per arricchire in qualche modo il suo racconto. Forse era un lavoro che non avrebbe mai svolto spontaneamente, tanto è vero che al XV capitolo si toglie di torno quel fastidioso burattino facendolo impiccare dai due Assassini e ponendo la parola fine a questa assurda storia di un bambino di legno. Poi il direttore del giornale lo convince a continuare la storia e così Pinocchio “resuscita” e va incontro a nuove avventure fino alla conclusione, quando diventa un vero bambino in carne ed ossa. Altro riferimento all’alimentazione usato come materiale narrativo si trova nella scena in cui Pinocchio è nel ventre del pescecane: E nel camminare sentì che i suoi piedi sguazzavano in una pozzanghera d’acqua grassa e sdrucciolona, e quella sapeva di odore così acuto di pesce fritto, che gli pareva d’esser a mezzaquaresima. (cap. 35).
Qui non è importante il cibo, il pesce fritto, quanto la notazione che tale cibo era abitualmente e diffusamente usato in un determinato periodo dell’anno, secondo le prescrizioni della Chiesa cattolica. Anche questa notazione di costume serve a Collodi per imprimere al suo stile un tono di ironia e di divertissement. Sullo stesso piano si colloca l’episodio del Pescatore verde in cui troviamo la descrizione dettagliata di come si frigge il pesce (cap 28): ... tirato fuori un vassoiaccio di legno pieno di farina, si dette a infarinare tutti quei pesci e, man mano che li aveva infarinati, li buttava a friggere dentro la padella.
Di tono diverso è, invece, l’episodio in cui si narra del burattino che va al Campo dei miracoli a seminare le monete d’oro; qui, oltre all’uso del lessico gastronomico come materiale da costruzione, c’è anche il divertimento dello scrittore che comincia a prendere gusto a quello che scrive e ad ironizzare sul suo lavoro. Oggi siamo abituati quotidianamente a seguire in tutti i canali televisivi programmi di cucina e a sentire scandire gli ingredienti di ogni ricetta come se fossero gravi e seri bollettini di guerra. Collodi si comporta molto diversamente: sorride e ci invita a sorridere mentre racconta. Ecco come la Volpe dà le indicazioni per la semina degli zecchini: Tu fai in questo campo una piccola buca e ci metti dentro, per esempio, uno zecchino d’oro. Ricopri la buca con un po’ di terra, l’annaffi con acqua di fontana, ci getti sopra una presa di sale, e la sera… (cap. 12).
L’ingrediente ‘acqua di fontana’ ricorda l’olio extra vergine di oliva di tutte le ricette culinarie odierne; la ‘presa di sale’, del tutto illogica nel contesto, è usata come modo di dire, ma anche come uno dei tanti materiali espressivi che concorrono a formare il composito impasto lessicale del Collodi. In altri momenti, lo stile culinario è usato per costruire atmosfere di suspense, come nell’episodio del Pescatore verde: Pinocchio si trova in mezzo agli altri pesci, sarà fritto come gli altri o si salverà? L’acme della suspense, come in ogni romanzo a puntate, è raggiunto alla fine del capitolo che si chiude con la frase: «Poi lo prese per il capo e ...» … Riuscirà il nostro 354
eroe a salvarsi? Lo vedrete alla prossima puntata. Un esito poeticamente bello ha invece la suspense creata nella scena in cui Pinocchio, dopo aver elencato tutti i vari modi di cuocere un uovo, e aver deciso di usare un tegamino, ci dice, minutamente, quali sono le procedure: … pose un tegamino sopra un caldano pieno di brace accesa, messe nel tegamino, invece d’olio o burro, un po’ d’acqua, e quando l’acqua principiò a fumare, tac! … spezzò il guscio dell’uovo e fece l’atto di scodellarvelo dentro. (Cap. 5).
Anche qui le operazioni culinarie hanno una funzione narrativa: esse preparano l’evento straordinario del pulcino che esce dall’uovo per volarsene via dalla finestra. La minuzia con cui le operazioni sono elencate crea un clima d’attesa che si risolve in una situazione meravigliosa e fantastica: Ma invece della chiara e del torlo scappò fuori un pulcino tutto allegro e complimentoso il quale facendo una bella riverenza disse: Mille grazie signor Pinocchio, d’avermi risparmiato la fatica di rompere il guscio! Arrivedella, stia bene e tanti saluti a casa… Ciò detto distese le ali e, infilata la finestra che era aperta, se ne volò via a perdita d’occhio. (ibidem)
Abbiamo visto, dunque, come il lessico gastronomico serva al Collodi da materiale da costruzione, insieme con altri materiali che qui non sono stati presi in considerazione (per esempio gli innumerevoli proverbi e le frasi proverbiali); egli è come un muratore, privo di grandi mezzi, che prende tutto ciò che gli possa servire dai luoghi che gli stanno intorno: mattoni, sassi squadrati, sassi informi, tutto è buono per innalzare l’edificio. In questo il Collodi si comporta come un narratore popolare che riutilizza, per sviluppare il suo racconto, personaggi e brani di altre novelle, frasi e modi di dire che circolano liberamente nei discorsi quotidiani: non inventa nulla o quasi nulla ma liberamente si appropria di quello che la tradizione gli ha trasmesso. Il Collodi, forse memore delle veglie di quando era ragazzino ed esperto di fiabe e novelle per averle tradotte dal francese, affastella questi materiali eterogenei e li mette insieme usando la colla della fantasia. Che è l’elemento che lo distingue da un qualsiasi altro autore popolare o popolaresco. Oltre, però, ai modi di servirsi del materiale lessicale, il Collodi, per la costruzione della struttura del suo racconto, ha appreso dalla cultura popolare tradizionale, consapevolmente o inconsapevolmente, le procedure narrative proprie dei novellatori e dei narratori di fiabe. Nella cultura popolare è molto difficile trovare autori che quando si accingono a creare un’opera abbiano un progetto, un’idea di come iniziare un racconto, come svilupparlo e come finirlo. La stessa cosa avviene per l’arte figurativa; se guardiamo, per esempio, una tavola di un ex voto, noi vediamo tutte le vicende che compongono il fatto rappresentato: l’incidente, il ricovero in ospedale, l’intervento divino che produce il miracolo, non hanno una sequenza logica e temporale, ma occupano lo spazio accostate l’una all’altra. È l’osservatore esterno che deve ricostruire tutta la storia. E così è anche nei testi del teatro popolare, in quelli dei canti e quindi anche delle novelle e delle fiabe. L’autore popolare quando comincia il suo racconto, non sa come lo svilupperà e come lo concluderà; egli va avanti nella composizione aggiungendo elemento ad elemento, fino a quando tutto lo spazio, se si tratta di opera di pittura, sarà riempito o fino a quando sarà terminato il tempo messo a disposizione per la narrazione, se si tratta di racconto, oppure quando egli avrà esaurito gli argomenti del suo patrimonio narrativo. 355
È stato il semiologo praghese Mukařovski3 ad avere individuato questa procedura di composizione. Egli chiama “dettagli”, ovvero “unità semantiche fondamentali”, tutti gli elementi che l’artista popolare utilizza per la sua opera. Ogni dettaglio ha vita propria, non ha che una minima relazione con gli altri, ma tutti insieme riescono a dare ai fruitori un’immagine unitaria e logica. L’arte popolare, dice Mukařovski, nasce senza progettualità, perché «è priva di quella unità di intenzione semantica che fa dell’opera poetica d’autore un prodotto intero caratterizzato da un determinato insieme di parti e da un determinato loro susseguirsi». Sembra quasi che il semiologo nell’esprimere queste considerazioni abbia avuto davanti l’opera del Collodi; questi, infatti, comincia a scrivere senza avere un piano preciso di composizione. Ricordiamo l’incipit del racconto con “c’era una volta …”, che è il tradizionale attacco di tutte le fiabe, ma immediatamente esso è capovolto, perché al posto del re compare un pezzo di legno. Questo scarto improvviso innesca un meccanismo che induce l’autore ad inventarsi situazioni improbabili, a creare personaggi verisimili e personaggi fantastici, quali gli innumerevoli animali che parlano e agiscono come gli umani. Soprattutto la storia non ha un filo logico, specie nei primi quindici capitoli, dove si va avanti per accostamenti e sovrapposizioni. Mastro Ciliegia, per esempio, non ha nessuna funzione per lo sviluppo della vicenda, è un “dettaglio” non coerente col resto della storia, la quale, invece comincia con Geppetto e non con lui4. Quindi abbiamo da un lato una struttura narrativa quasi priva di consequenzialità, dall’altro una scrittura quasi improvvisata, che si sostanzia di un lessico preso da tutti i campi, da quello del linguaggio quotidiano a quello delle fiabe, da quello tecnico a quello gastronomico. Il cambio di stile è evidente a partire dal cap. XVI, quando, riprendendo la storia dopo molti mesi di interruzione, il Collodi comincia a dare un senso al romanzo, allontanandosi da quella scrittura che per lui forse era stata solo un divertissement e sostituendola con uno stile narrativo proprio della scrittura d’autore. Ogni tanto, tuttavia, sul più bello della narrazione, introduce qualcuno di quei dettagli semantici che ti disorientano, ma che nello stesso tempo danno brio ed effervescenza alla storia, come, per es., l’apparizione improvvisa di un serpente che sbarra la strada al burattino impedendogli di proseguire; oppure l’episodio della lucciola cui Pinocchio si rivolge per farsi liberare dalla tagliola che gli blocca le gambe. Per concludere mi pare di poter dire che almeno i primi quindici capitoli del Pinocchio furono composti seguendo modalità che si riscontrano nell’espressività popolare, magari senza che il Collodi ne fosse consapevole. Lo scrittore lavorava al libro negli anni in cui in Italia l’istruzione elementare diventava obbligatoria e contemporaneamente si dibatteva il problema della lingua e il Manzoni avanzava le sue proposte di riforma linguistica. Quando il Pinocchio gli crebbe fra le mani, Collodi si rese conto che il libro poteva essere utile per un’educazione linguistica nazionale e per un’azione educativa, per la quale negli anni precedenti aveva composto Viaggio in Italia di Giannettino e Minuzzolo: quindi cambiò procedimento, dette all’opera una connotazione educativa, sviluppò la storia così come si richiede ad un autore, dando contemporaneamente più spessore ai capitoli e più consequenzialità alla scrittura. Così nell’opera convivono i linguaggi più diversi, da quello quotidiano a quello dei contadini, da quello delle fiabe a quello della gastronomia ecc. Inoltre, a livello di struttura narrativa, i dettagli e i salti semantici, 3 J. Mukařovski, Il significato dell’estetica, Einaudi, Torino 1973; qui, però, ci si riferisce non a tutta l’opera ma soltanto al capitolo Il dettaglio come unità semantica fondamentale nell’arte popolare, ivi pp. 392-415. 4 Sullo stile del Collodi si veda M. Fresta, La macchia e il dettaglio: elementi di oralità nel sistema narrativo del Pinocchio, in «Bollettino di italianistica», n. 2, 2010. 356
propri dell’oralità, convivono con gli stilemi teatrali; scene e personaggi si accostano le une agli altri come i colori nella pittura dei macchiaioli; ed infine c’è lo stile personale dello scrittore che signoreggia su tutto. Se all’inizio il Collodi scrive senza avere un preciso disegno, dando sfogo alla sua bizzarra creatività, dal cap. XVI in poi la storia del burattino comincia ad avere un senso ed è portata a termine secondo un fine didattico-pedagogico. Che da tutto questo intreccio di vari elementi il risultato sia un capolavoro della letteratura mondiale è certamente un miracolo della poesia o, come più realisticamente e meno romanticamente dice Mukařovski a proposito dell’arte popolare, «uno dei risultati possibili».
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Scrivere e giocare con il miele
Giuliana Bondi
Come potevano la poesia e la letteratura non innamorarsi del miele per esprimere i sentimenti più profondi e le sensazioni più morbide? Come potevano i poeti e gli scrittori non attingere a questa dolcezza? Tante sono le pagine della letteratura che “profumano” di miele. Qui solo un assaggio:
Bianca ape Bianca ape, ebbra di miele, ronzi nella mia anima e ti avvolgi in spirali lentissime di fumo. Io sono il disperato, la parola senz’eco, quegli che ha perso tutto, dopo aver avuto. Sei la fune in cui cigola la mia ultima brama. Nel mio deserto vivi come l’ultima rosa. Ah silenziosa. Chiudi gli occhi profondi dove aleggia la notte. E denuda il tuo corpo di statua timorosa. Possiedi occhi profondi dove vola la notte, fresche braccia di fiori ed un grembo di rosa. I tuoi seni assomigliano alle conchiglie bianche. E sul tuo ventre dorme una farfalla d’ombra. Ah silenziosa. Con me è la solitudine da cui tu sei lontana. Piove. Il vento del mare caccia erranti gabbiani. L’acqua cammina scalza per le strade bagnate. Le foglie di quell’albero gemono come infermi. Bianca ape assente, ancora ronzi nella mia anima. Risusciti nel tempo, sottile e silenziosa. Ah silenziosa (Pablo Neruda, Venti poemi d’amore e una canzone disperata,1924. Edito da Passigli, 2010) 359
La Felicità C’è un’ape che si posa su un bottone di rosa: lo succhia e se ne và… Tutto sommato, la felicità è una piccola cosa (Trilussa, Tutte le poesie, Mondadori, 2004)
Canzoncina sivigliana Albeggiava nell’aranceto. Piccole api d’oro cercavano il miele. Dove starà Il miele? E’ nel fiore azzurro, Isabella. Nel fiore del rosmarino…… (Garcia Lorca, Tutte le poesie, Rizzoli 1994)
L’ape E disse ancora: ”De le sue corolle; ch’ape non vide, ch’ape non desia: l’ombre lei gode, ed essa: altro non volle: essere volle sopra un’ara pia come l’incenso de l’incensiere, di cui l’opra s’adempie in vanir via. Ma non mancano calici a cui bere, ciò di cui, paziente anima umana, a te non piace che l’altrui piacere: c’è la quercia che in aria s’allontana e la viola che le resta al calcio, e il fior d’ assenzio e il fior di maggiorana. E quale odore è mai del fior del tralcio. Odor che pare l’ombra del novello vino che viene. E c’è l’amaro salcio. In verità ti dico, anima: ornello O salcio o cardo, ognuno ha sua fiorita; amara o dolce; ma sol dolce è quello che tu ne libi miele del la vita”. (Giovanni Pascoli, Poesie varie, Zanichelli, 1914) 360
… E ora giochiamo con il miele!1 …..dal frigo dimenticato aperto un cono di luce taglia la notte nella stanza e illumina un liquido denso e dorato che cola limpido sulla schiena nuda di … E’ il preludio più dolce ed intrigante per introdurre un alimento affascinante, sconosciuto ai più, cibo degli dei: il miele. Costruito per aggregazione di infinite stille di nettare, giunte per bocca di migliaia di api operose fino ad un alveare e da lì trasmesse di ligula in ligula alle api casalinghe affaccendate , come per un passaparola ed infine strappato dell’acqua in eccesso, diventa quello che è: una crema di zucchero dai più disparati sapori e profumi di fiori, di frutti, di bosco, d’estate, di prati, di viali alberati. Nessuno ci pensa che è un mare di lavoro un cucchiaio di miele. Nessuno lo sa che dentro un barattolo di lui ci sono chilometri di praterie percorse in lungo ed in largo tra mille pericoli ed affanni. Le vespe assassine, i calabroni, i gruccioni e le rondini da dribblare e il vento che rema contro e la siccità che appassisce le pallide ciocche d’acacia, giocano tiri mancini ai piccoli insetti pelosi che tanto hanno il senso di casa. La casa di cera, ordinata e pulita è stiva di dolci leccornie, ma anche dispensa di cipria di polline e culla a crisalidi turgide. Ogni esagono è una stanza, ogni stanza un lavoro da ingegnere e da ancella che plasma e modella e lucida per dare alla vita un luogo pulito per schiudere. Ogni ape ha il suo compito e non chiede di farlo, lo fa. Una sorta di collegio di amiche con le antenne dritte e lo sguardo degli occhi composti un po’ lì e un po’ altrove per capire, da distanze infinite tornare, danzare, parlare e produrre per sé di che vivere senza distruggere mai, ma creare. Raramente rubare, sempre raccogliere l’offerta voluttuosa di fiori assetati d’amore che danno per non solo godere del loro massaggio, ma per sfruttare col loro passaggio la feconda stagione che porta il pelo, impollinato dell’ape, nell’uovo. Si raccontano dove andare a fare la spesa le massaie che tornano a casa, con le borse nettarie ricolme e le palle di polline ruggine ancorate alle zampe. Le notizie più fresche le portano le esploratrice al mattino e le sentinelle le accolgono ad ali aperte e scodinzolano intorno per quello e quell’altro ritorno impedendo il passaggio agli estranei. Se fa caldo, le ali sganciate sventagliano e non permettono il volo. Condizionano l’aria le portatrici d’acqua, mitigando lo schianto del sole nell’ombra di casa, per far sì che la cera portante non strugga e sono cieche lì dentro e si muovono svelte tra un esagono e l’altro. La regina diffonde nell’aria il suo odore di mamma che rende tranquilla ed operosa ogni figlia e depone mille uova di gomma, lei accudita e coccolata, nutrita a sua volta dalla nobile pappa di premurose nutrici bambine. Quella mamma di tutte a ricordo dei fuchi lontani, baldi giovani che fecero a gara ad amarla, conserva in una borsa nascosta il loro estremo ricordo e ne dispensa per produrre le figlie. Invece, ironia della sorte, quando vuole bambini non ha da deporre che uova soltanto. Quei maschi <<tutto sua madre>> saliranno una volta nel cielo, prendendo ascensive correnti di maschili torrenti, per unirsi alla nobile vergine e condurre con lei voli nuziali 1 Il testo è pubblicato sulla Rivista on-line Apitalia, n° 5, 2009 361
senza luna di miele. In quest’organizzazione perfetta il miele ha la valenza di una pastasciutta ed il polline di una bistecca. Potremo dire che le api sono insetti vegetariani (con alcune eccezioni), e trovano sul fiore la trattoria all’angolo. Sono attratte in verità da ogni fonte di dolcezza, di cui possono nutrirsi soltanto lambendo o succhiando con una lunga lingua che chiudono come una cannuccia in un succo di frutta. Per questo talvolta raccolgono un altro alimento chiamato melata, dolce anche questo ma derivato da stille di … cacca. Minuscoli insetti, succhiando la linfa degli alberi espellono l’eccesso di zucchero in minuscole lacrime scure e forniscono all’ape mellifera una fonte di cibo accessoria. Seppur di provenienza men nobile la melata, bruna, saporita, speziata, trova i suoi estimatori nei maschi fumatori, dai gusti più forti e dei sapori più amari, ricercatori ( miele per uomini). Di mieli ce ne sono mille come mille sono i fiori: taluni dal colore trasparente e limpidi come l’acqua sorgiva, altri gialli come il sole e sodi , altri fatti di neve, taluni più ambrati altri chiarissimi, infine verdastri, rossi e di tutte le gradazioni del bruno. Anche la consistenza la decide il fiore, che gemma gocce liquide destinate a rimanere tali o a generare cristalli di zucchero di consistenza cremosa o tanto granulosa da tagliarsi a fette. Le gemme di zucchero si sciolgono in bocca o scricchiolano tra i denti per esplodere in bombe di sapore ora mentolato, di sottobosco, di fieno profumato, di zagara, persino di funghi secchi, di confetto, di fori di bosco, di lattice di fico… e di fondi di caffè. I profumi he si possono apprezzare sono una scoperta sempre nuova per chi con attenzione li odora. Insomma se chi si avvicina al miele lo fa con una certa attenzione, si renderà conto di quanto mondo ha da scoprire e che dentro un barattolo . . . ci sta il più piccolo regno dell’industria alimentare: l’alveare. …..dal frigo dimenticato aperto un cono di luce taglia la notte nella stanza e illumina un liquido denso e dorato che cola limpido sulla schiena nuda di… Lambirlo è la cosa più buona che ci sia. Giocare col miele fa bene? (Boh!)
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Pensieri su una civiltà degli animali
Pietro Clemente
Fine Agosto 2015: con mia moglie, una volta in autobus, un’altra in auto, che vanno in solidale colonna, abbiamo esplorato il mondo delle campagne e dell’allevamento padano tra Emilia e Lombardia, tra Reggiano e Cremonese, con qualche sguardo verso il Parmenese. Un mondo di mucche e di maiali, di latte e di prosciutti, di morte e di rinascita di animali in forme gastronomiche complesse. Le principali tra queste reincarnazioni dell’animale sono il parmigiano reggiano e il grana padano, che maturano dentro templi antichi, i caseifici, dei quali i formaggi sono colonne e capitelli. È la scena della civiltà del cibo, complessa, viva, attuale, quasi invisibile all’occhio ma percepibile all’olfatto. Una civiltà di allevatori e di caseificatori che si rivela o almeno si intuisce in queste gite. Sono le gite collettive dei laboratori didattici che la Summer School Emilio Sereni realizza nel corso della settimana di Scuola d’Agosto, le abbiamo vissute nelle estati del 2014 e del 2015. Siamo lì, in giro, a guardare intorno, con giovani docenti, professionisti, disoccupati o inoccupati molto qualificati, che vengono da varie regioni italiane ai corsi della Scuola e che, nei giorni precedenti, ci hanno ascoltato come relatori sui temi del paesaggio agrario, e poi del paesaggio del cibo . Docenti e corsisti, insieme, impariamo nelle gite sul territorio. Siamo stati guidati da Luciano Sassi, che coordina i laboratori ed è presidente e responsabile scientifico dell’Associazione Ecomuseo Isola (all’interno del più generale Ecomuseo delle Valli Oglio-Chiese). Nella prima gita, quella del 2014, giocava in casa Luciano Sassi, ma anche nel vissuto delle contraddizioni del suo territorio. Perché da un lato ci faceva approdare alla sede dell’ecomuseo a Isola dovarese, zona di memoria, di museo, di piccoli orti all’antica, che sembrava l’isba paterna del film Solaris di Tarkovski, nella sua bellezza inattuale, e negli anziani che la animano e che incontriamo e conosciamo come risorse umane di una possibile riconnessione passato-futuro. Dall’altro mostrava le monoculture foraggere che fanno da confine tra Emilia e Lombardia, tra parmigiano reggiano e grana padano. Ci faceva immaginare migliaia di vacche stanziali che non conoscono la pastura itinerante e che mangiano da un lato erba medica e dall’altro mais. E tutto questo avendo come regista segreto un testo scritto: il disciplinare europeo che governa il mondo dell’allevamento, del latte e del formaggio. Le tracce del paesaggio lungo il percorso del bus, tutto in pianura, sono anche quelle del fiume, il Po e i suoi affluenti, ancora parte contesa della sfera produttiva. E’ un paesaggio di allevamento industriale anche se, si intuisce, esso mantiene forti tratti di artigianalità e di saperi pratici non meccanizzabili. È anche un modo che il Laboratorio ha di essere attivo nelle menti delle persone. Siamo colpiti 363
dal contrasto tra ecomuseo ed economie povere del passato e culture foraggere, competizioni industriali sull’acqua di oggi, e poi, ai margini della nostra gita, sappiamo che migliaia di maiali de queste parti vengono abbattuti ogni giorno. Ne ragioniamo – in un’altra gita visitando il Museo dei paesaggi di terra e di fiume a Colorno, nell’aranciaia, di un palazzo dei Farnese, che ci connette a storie più lontane. Guidati ora da uno degli allestitori, Mario Calidoni, anche lui collaboratore della School, esperto di didattica, già ispettore ministeriale. Quelle sagome di imbarcazioni sull’acqua dei fiumi della rete del Po, sono storie di minute incalcolabili risorse per la popolazione vissuta qui, e di saperi che in buona parte sono scomparsi nell’universo del grana padano. Passato e presente rischiano di creare un corto circuito: la nostalgia è possibile? No, perché anche qui riuscivano ad essere poveri prima di questi allevamenti e culture foraggere di grande scala. Niente nostalgia, il passato può essere usato come forma di critica del presente, per la semplificazione che produce, per le risorse che brucia, e si può immaginare di riportare queste all’ordine del giorno. Strappare differenze, riattivare saperi, nel mondo dell’unificazione e del mercato, nel mondo dei disciplinari europei. L’ecomuseo - Cascina di Isola sta lì a testimoniare la ricchezza che c’era dietro la povertà. Fa da armadio-magazzino delle risorse antiche, che possono diventare nuove se usate nei processi produttivi attuali per favorire differenziazione e pluralità. Poi quando visitiamo a Colorno, alla Reggia “ALMA - Scuola Internazionale di Cucina Italiana”, ci rendiamo conto che l’agricoltura è nel cuore di una produzione del cibo che ha assunto dimensioni gigantesche, mantenendo artigianalità e saperi. In questa scuola si producono dei grandi artigiani del cibo, con occhi, narici, polpastrelli esperti e sapienti. La mia invidia è nel pensiero che se avessi avuto un posto laboratorio come c’è qui per ogni allievo nei miei corsi di antropologia culturale all’Università, forse sarei stato capace di lasciare qualche traccia in più nei giovani. La mia università è stata un luogo primitivo nei confronti di queste attrezzature per formare competenze di alta professionalità. A Roma avevo addirittura un collega (un filosofo molto noto) che si portava l’amplificazione per le lezioni da casa. Non avevamo nemmeno microfoni e amplificatori. Nude voci. Ma la riflessione da Laboratorio della Scuola sta nei rapporti tra il parmigiano dei disciplinari e i cuochi, gli chef, le cucine internazionali dove essi andranno. C’è una tendenza a standardizzare anche i processi fortemente qualitativi che da un lato favorisce l’uso di massa, e il controllo rigoroso delle procedure, dall’altro però fa perdere ‘località’ e senso della differenza. Nel nesso che va dalle mucche che mangiano erba medica fino agli umani che grattugiano il parmigiano sul risotto cosa c’è di nuovo? Forse è a partire dagli esiti finali del cibo ‘italiano’ nel mondo, che si deve partire per guardare con più realismo alle grandi mammelle piene delle mucche. Forse qualcosa di questi interrogativi si è chiarito nel 2015, con la visita a un grande stabilimento di mille vacche da latte. Qui è evidente che la stanzialità di questi animali è radicale, non pascolano mai, fanno piccoli percorsi dentro gli spazi organizzati. Ricordando dei dibattiti sul mondo animale mi viene da pensare che forse sono più felici le mucche dei paesi delle Alpi Cozie, da dove viene mia moglie, che fanno l’alpeggio, la montà e la calà con le loro grandi campane appese al collo; e che ci capita d’estate di vedere a 2000 metri, solenni, spesso con i loro vitelli accanto. Non è idea peregrina nel dibattito contemporaneo quella della felicità animale, anche qui in questa superstalla si tiene conto di varie indicazioni per il benessere animale. Lo spettacolo è impressionante, c’è un ciclo continuo di nascite, svezzamento, allevamento mungitura. La mungitura meccanica dà l’idea della fabbrica, anche se c’è sempre contatto umano. Queste vacche, in un certo senso, vengono consumate 364
per il loro latte in questi cicli di lavorazione. Ne vediamo poi l’esito nel caseificio cooperativo a breve distanza dalla stalla. La lavorazione del latte e la nascita del parmigiano avviene in modo quasi sacro, in un tempio la cui pratica devozionale è la stagionatura, in grandi colonne di forme. Tutto è ecologicamente sostenibile. Ma sono le mucche che restano nella mente con un certo disagio. Si parla in antropologia di grandi civiltà dell’allevamento. Uno dei libri più studiati riguarda i Nuer (oggi travolti nel mezzo di guerre del corno d’Africa), perché il libro I Nuer, una anarchia ordinata, di Evans Pritchard, uscito in Gran Bretagna nel 1940 ( ed. Franco Angeli, Milano) è uno dei più letti al mondo. Un classico sull’allevamento bovino. I Nuer amavano le loro mucche, anche più che le loro spose, avevano con loro un rapporto solidale, di cura, condividevano con esse la loro forma di vita. Così anche i mezzadri, o meglio i ‘bifolchi’ delle famiglie coloniche, nei ricordi di Ettore Guatelli, che ha creato il grande museo di Ozzano Taro, la stalla era una seconda casa, luogo di totale familiarità. Cosa c’è di più distante da questa azienda di mille capi. Eppure nulla è mai troppo semplice. Incontriamo il titolare dell’azienda che ci racconta con passione il suo lavoro e poi chiama il figlio trentenne, sposato e con figli, vivono lì tutti i giorni con le loro mille mucche. Nella conversazione con loro appare la conoscenza singolare, per nome, degli animali, la dedizione, la passione per le innovazioni genetiche e tecnologiche. La moglie del giovane titolare si lamenta che suo marito legge solo riviste di vacche, si appassiona solo di quegli argomenti. Insomma i nostri interlocutori sono dei Nuer modernizzati. Forse un po’ troppo modernizzati. Ma l’allevamento come civiltà come forma di vita, nelle loro parole è netto. Tutto quel che ho raccontato sta dentro e dietro il paesaggio. Così debbono essere i laboratori sul territorio. Farti vedere, farti interrogare, abituarti a pensare il paesaggio abitato, lavorato, globalizzato. In quest’ultima gita ci resta addosso l’odore della stalla, non va via in nessun modo, vanno lavati i vestiti. Mi torna alla memoria il racconto di Ettore Guatelli: dei contadini che andavano a ballare e venivano subito riconosciuti dall’odore. È una conferma: siamo in una civiltà degli animali. Anche se in mezzo a un sacco di contraddizioni.
Immagine di Francesca Artoni 365
Autori
Biondi Giuliana Dottore veterinario, specializzazione in Sanità animale, allevamento e produzioni zootecniche; Master di Secondo Livello in Patologia apistica e Apidologia generale. Assaggiatore di miele iscritta all’Albo Nazionale degli Assaggiatori di Miele. Bonini Gabriella Responsabile scientifico della Biblioteca Archivio Emilio Sereni dell’Istituto Alcide Cervi, convegnistica, pubblicazioni, Summer School Emilio Sereni Storia del Paesaggio agrario italiano, Scuola del governo del territorio SdGT Emilio Sereni. Docente di Italiano e Storia nella Scuola Superiore, Dottore di Ricerca in Scienze Tecnologie e Biotecnologie Agroalimentari Università di Modena e Reggio Emilia. Brazzale Arianna Laurea in Storia e tutela dei beni culturali all’Università di Padova con tesi in Geografia umana e in Storia dell’arte all’Università di Siena con tesi in Museologia e museografia del paesaggio. Burgassi Valentina Architetto, Specialista in Beni Architettonici e Paesaggistici, Dottoranda presso Politecnico di Torino e l’Ecole Pratique des Hautes Etudes – Paris Sorbonne. Collabora con il Politecnico di Milano ed è parte dell’equipe di ricerca Histara a Parigi. Calidoni Mario Già insegnante, dirigente e ispettore del MIUR per la scuola secondaria di I grado, è membro esperto della Commissione Educazione e mediazione di ICOM Italia. Coordina progetti per l’educazione al patrimonio e cura pubblicazioni didattiche e divulgative sul patrimonio del territorio. Camiz Alessandro Architetto, Dottore di Ricerca in Storia della città, Direttore dell’International Centre 367
for Heritage Studies, Kyrenia, Cyprus; Asst. Prof. Dr. Girne American University, Faculty of Architecture, Design & Fine Arts, Kyrenia, Cyprus; Adjunct Professor, University of Miami, School of Architecture; Postdottorato a La Sapienza Università di Roma. Cantarelli Alessandro Agronomo, Servizio Territoriale all’Agricoltura Caccia e Pesca della Regione Emilia Romagna, sede di Parma. Svolge collaborazioni nella veste di tecnico per Enti, Associazioni e nel ruolo di docente per la formazione professionale agricola. Iscritto all’Ordine dei dottori Agronomi e Forestali ed alla FIDAF parmensi. Clemente Pietro Ordinario di Discipline Demoetnoantropologiche; ha insegnato Antropologia culturale nelle Università di Firenze, Siena e Roma; insegna Antropologia del patrimonio nella Scuola di Specializzazione in Beni Culturali Demoetnoantropologici Università di Perugia, Firenze, Siena e La Sapienza Università di Roma. Le sue ricerche riguardano soprattutto la cultura contadina, l’emigrazione, le forme del teatro e dell’arte popolare, vari temi della tradizione orale, la museografia demoetnoantropologica. Cremonini Irene Architetto, specialista in legislazione urbanistica, ingegneria ambientale, valutazione di impatto ambientale, pianificazione nelle zone sismiche. Svolge attività di ricerca, attività didattica universitaria e di formazione professionale; consulente per Comuni, Regioni e Ministero Infrastrutture e Trasporti (Consiglio Superiore Lavori Pubblici); membro dell’Istituto Nazionale di Urbanistica. Croce Erica Laurea in lettere a Padova e Master in Economia e Gestione del Turismo presso il C.I.S.E.T., Università Ca’ Foscari di Venezia. Insegna Turismo Enogastronomico/Food and Wine Tourism, Geografia e cultura gastronomica italiana all’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo. Nel 2000 fonda con Giovanni Perri Meridies, società di servizi e consulenza per turismo, enogastronomia, territorio, cultura. De Nisco Antonella Artista e docente di Disegno e Storia dell’Arte nella Scuola Superiore, affianca alle attività espositive collaborazioni in progetti, installazioni, eventi, lezioni e pubblicazioni. Ha ideato LAAI, Laboratorio di Arte Ambientale Itinerante, con il quale realizza, insieme a gruppi di cittadini/e, installazioni territoriali intrecciate, tessute, assemblate. Raccoglie le esperienze artistiche nella serie tascabile Collane di Plastica. È l’artista che ha interpretato artisticamente il tema di tutte le edizioni della Summer School Emilio Sereni. Dezio Catherine Architetto, esperto energetico all’Agenzia CasaClima di Bolzano, Dottore di Ricerca in Progettazione e Gestione dell’Ambiente e del Paesaggio dell’Università La Sapienza Università di Roma e borsista di ricerca presso il CURSA - Consorzio Universitario per la Ricerca Socioeconomica e per l’Ambiente.
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Di Tonto Giuseppe Docente di Scuola Superiore, co-fondatore di Clio ‘92, Associazione di Insegnanti e ricercatori sulla didattica della storia, diretta da Ivo Mattozzi Università di Bologna. Fresta Mariano Docente di Scuola Superiore si occupa di teatro popolare tradizionale, di espressività popolare (canti e proverbi), alimentazione, allestimenti museali, feste religiose, storia degli studi folklorici. Pubblica su «Lares», «La Ricerca Folklorica», «Antropologia Museale», «Toscanafolk». Frignani Fabrizio Geografo, fotografo, docente di Scuola Superiore. Gabrielli Bruno Scomparso improvvisamente il 4 ottobre 2015. Prima docente allo IUAV di Venezia, poi Ordinario al Politecnico di Milano e all’Università di Genova di cui, dal 2010, professore emerito d’Urbanistica, ma anche assessore all’Urbanistica e Centro Storico di Genova (1997) e dal 2001 al 2006 alla Qualità Urbana e Politiche Culturali della città. Gambino Roberto Ordinario di Urbanistica al Politecnico di Torino, Direttore del Centro Europeo di Documentazione sulla Pianificazione dei Parchi Naturali, coordinatore di varie ricerche a livello nazionale ed europeo sulla conservazione del patrimonio naturale e culturale e di numerosi piani urbanistici, paesistici e di parchi naturali. Le sue pubblicazioni costituiscono un riferimento imprescindibile per studenti e cultori della materia. Gelao Mariamaddalena Docente di Scuola Superiore. Mancuso Franco Architetto, docente di Progettazione urbanistica all’Università IUAV di Venezia, insegna al Master in Conservazione, Gestione e Valorizzazione del Patrimonio Industriale e all’EMU, European Master on Urbanism. Tiene seminari e conferenze in università e istituzioni di tutta Europa. Si occupa in particolare di ricerca e progettazione sui temi del recupero e sulla riqualificazione dello spazio pubblico. Marchetti Marco Ordinario in Gestione e Conservazione Forestale all’Università del Molise, Direttore del Dipartimento di Bioscienze e Territorio e dall’AA 2013/2014 Prorettore Vicario con delega alla Valutazione della Qualità della Ricerca. È attualmente coinvolto in diversi progetti di ricerca in ambito nazionale ed internazionale per la conservazione e gestione delle risorse forestali. Messina Simona Architetto, laureata a Roma (Tesi: recupero di un’area urbana dismessa a Zurigo). Lavora e studia tra Europa e Africa, (Zurigo: presso studi professionali; Tunisia: progetto per il Parco della Maalga e Porti Punici, Cartagine, in gruppo). Dal 2008 lavora a Roma presso Parco Appia Antica; sta completando la tesi di dottorato sul paesaggio dei pascoli residuali nel contesto periurbano (Sapienza, Roma). 369
Montanari Massimo Ordinario di Storia medievale all’Università di Bologna, dove insegna anche Storia dell’alimentazione e dirige il Master europeo di Storia e cultura dell’alimentazione. Dedica in particolare l’attenzione alla storia agraria e alla storia dell’alimentazione, considerate come vie d’accesso preferenziali per una ricostruzione della società medievale nel suo insieme. Innumerevoli sono i contributi e i testi in questi ambiti. Neri Serneri Simone Ordinario di Storia contemporanea presso il Dipartimento di Scienze storiche, giuridiche, politiche e sociali, Università di Siena di cui è Direttore. Le linee di ricerca spaziano dalla storia dell’ambiente urbano-industriale in Italia ai movimenti sociali e società civile nell’Italia del secondo Novecento. È il Direttore dell’Istituto Storico della Resistenza in Toscana. Pazzagli Rossano Professore associato di Storia moderna e Presidente del Corso di Laurea in Scienze turistiche all’Università degli Studi del Molise. Direttore della Summer School Emilio Sereni e membro del Comitato Scientifico dell’Istituto Cervi. Autore di numerose pubblicazioni sulla realtà economica e sociale dell’Italia, fa parte della Società dei Territorialisti e della redazione delle riviste «Ricerche storiche» e «Glocale». Pellegrino Davide Agronomo con laurea magistrale in Scienze e Tecnologie Agrarie - Economia e politica agraria, Dottore di Ricerca in Progettazione e Gestione dell’Ambiente e del Paesaggio all’Università La Sapienza Università di Roma e borsista di ricerca presso il CURSA-Consorzio Universitario per la Ricerca Socioeconomica e per l’Ambiente. Perri Giovanni Laurea in Geografia a La Sapienza Università di Roma, Master in Economia e Gestione del Turismo presso il C.I.S.E.T., Università Ca’ Foscari di Venezia. Insegna Turismo Enogastronomico/Food and Wine Tourism, Geografia e cultura gastronomica italiana all’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo. Nel 2000 fonda con Erica Croce Meridies, società di servizi e consulenza per turismo, enogastronomia, territorio, cultura. Piccinini Mario Architetto e urbanista. Membro del Consiglio Direttivo nazionale dell’INU. Socio fondatore della Società Progettazione MMP Architetti con sede in Bologna. Numerose le pubblicazioni che portano la sua firma. Preger Edoardo Architetto e urbanista, è stato responsabile dell’Ufficio Centro Storico del Comune di Cesena, città della quale è stato Sindaco dal 1992 al 1999. Esperto in politiche per la riqualificazione e rigenerazione urbana, attualmente è amministratore unico della Società di Trasformazione Urbana Novello di Cesena. Quitadamo Valentina Laurea in Storia e Conservazione dei beni architettonici e ambientali, in Architettura per il restauro e la valorizzazione del patrimonio, Specializzazione in Beni Architettonici e del Paesaggio al Politecnico di Torino. 370
Rocchegiani Mauro Dottore in Lettere Moderne, Master in Comunicazione e valorizzazione del patrimonio letterario, documentario e vocale, giornalista pubblicista; Direttore artistico dell’Associazione MonsanoCult. Collabora con le scuole secondarie curando laboratori. Sallustio Lorenzo Laurea Magistrale in Scienze e Tecnologie Forestali ed Ambientali all’Università del Molise, Dottorato di Ricerca in Scienze agro-forestali, delle tecnologie agro-industriali e del territorio rurale. I sistemi forestali. La sua attività si concentra principalmente sull’analisi dei cambiamenti d’uso del suolo a diversi livelli di scala e delle relative ripercussioni in ambito ecologico. Sassi Luciano Presidente dell’Associazione Ecomuseo Valli Oglio Chiese, studioso di alimentazione e tradizioni locali e massimo esperto in conservazione del patrimonio librario e archivistico. Serafini Maria Sara Laurea in Ingegneria edile-architettura, Dottore di Ricerca in Scienze e Ingegneria dell’Ambiente, delle Costruzione e dell’Energia” Università di Calabria. Storchi Stefano Architetto e urbanista, docente di Pianificazione del Territorio all’Università di Parma, Segretario Tecnico dell’Associazione Nazionale Centri Storico-Artistici - ANCSA. Ha svolto la propria attività professionale come dirigente del Comune di Parma operando nel campo della pianificazione urbanistica generale e attuativa, della conservazione dei centri storici e della riqualificazione urbana. Tavone Angela Laurea in Comunicazione Naturalistica ed Ambientale all’Università di Siena, Master di II livello in Governance delle Aree Naturali Protette” e Dottore di Ricerca in Management and Conservation Issues in Changing Landscapes” all’Università del Molise. Toppetti Fabrizio Architetto, insegna Progettazione architettonica e urbana a La Sapienza Università di Roma; è membro del Consiglio Direttivo dell’Associazione Nazionale Centri Storico-Artistici - ANCSA, svolge attività di ricerca con particolare riferimento ai temi del linguaggio dell’architettura contemporanea della città e del paesaggio. È Direttore del Master di II° livello in Progettazione Architettonica per il Recupero dell’Edilizia Storica e degli Spazi Pubblici. Vignuolo Roberta Laurea in Scienze dell’architettura, Magistrale in Architettura per il restauro e la valorizzazione del patrimonio e Scuola di Specializzazione in Beni architettonici e del paesaggio Politecnico di Torino. Visentin Chiara Architetto e docente a Parma, Genova, Pisa e Venezia. Si è formata allo IUAV con Aldo Rossi. Dottore di Ricerca in Problemi di metodo nella Progettazione dell’Architettura all’Università di Genova e Post-PhD presso la facoltà di Ingegneria di Padova. Consulente scientifico e 371
progettuale per enti pubblici e privati, come per il Consorzio di Bonifica dell’Emilia Centrale. Nel 2012-2013 ha ideato, progettato e realizzato, il vasto progetto interregionale (Emilia Romagna – Lombardia) Paesaggio della Bonifica finanziato dalla Fondazione Telecom Italia. Vizzari Matteo Laurea Magistrale in Scienze e Tecnologie Forestali ed Ambientali all’Università del Molise, Dottorato di Ricerca in Management and Conservation Issues in Changing Landscapes. La sua attività si concentra principalmente sulla valutazione multiscala dei Servizi Ecosistemici. Zanelli Michele Architetto, dal 1996 conduce presso la Regione Emilia-Romagna un’attività di ricerca nel campo delle politiche urbane ed abitative e dirige il Servizio Riqualificazione Urbana. Dal 2008 è professore incaricato di Tecniche di Valutazione e Programmazione Urbanistica Università di Ferrara. Attualmente è dirigente del settore urbanistico del Comune di Imola.
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