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uaderni 12 Abitare la terra
Strutture del paesaggio e insediamenti rurali A cura di Gabriella Bonini e Rossano Pazzagli
Summer School Emilio Sereni Storia del paesaggio agrario italiano VIII Edizione 23 agosto - 27 agosto 2016
edizioni istituto alcide cervi
In copertina: Emilio Giberti, Biblioteca-Archivio E. Sereni, Istituto A. Cervi, Gattatico (RE) (2008) Gianfranco Salsi, Paesaggio padano, Campegine (RE), 2013 (concorso fotografico 2015) Fabrizio Frignani, Cascina tra S. Ilario e Calerno (RE), 2014 (concorso fotografico 2015) Gianfranco Salsi, Ritorno dai campi, Gattatico (RE), 2013 (concorso fotografico 2016)
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uaderni 12 ABITARE LA TERRA
Strutture del paesaggio e insediamenti rurali Lezioni e pratiche della Summer School Emilio Sereni
A cura di Gabriella Bonini e Rossano Pazzagli
edizioni istituto alcide cervi
Volume realizzato con il contributo di
REGGIO EMILIA
Cura redazionale di Gabriella Bonini e Gaia Monticelli Editing e Grafica di Gaia Monticelli e Emiliana Zigatti
Copyright Š AGOSTO 2017 ISTITUTO ALCIDE CERVI - BIBLIOTECA ARCHIVIO EMILIO SERENI via Fratelli Cervi, 9 42043 Gattatico (RE) tel. 0522 678356 - fax 0522 477491 biblioteca-archivio@emiliosereni.it www.istitutocervi.it ISBN 978-88-941999-5-6 I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore.
stampato su carta certificata
Abitare la Terra
Strutture del paesaggio e insediamenti rurali
Il Quaderno 12 documenta e approfondisce i temi svolti all’interno della
Summer School Emilio Sereni Storia del paesaggio agrario italiano VIII Edizione - 23-27 agosto 2016
Direzione Rossano Pazzagli Responsabile scientifico Carlo Tosco Comitato scientifico Mauro Agnoletti, Gabriella Bonini, Emiro Endrighi, Rossano Pazzagli, Saverio Russo, Carlo Tosco Ringraziamenti Per il rinnovato successo della VIII edizione della Summer School Emilio Sereni è doveroso ringraziare i tanti volontari, l’Associazione culturale Dai Campi Rossi e tutti gli amici di Casa Cervi e della Biblioteca Archivio Emilio Sereni che non hanno fatto mancare il loro supporto “morale e fisico”: Tiziano Catellani, Rina Cervi, Sidraco Codeluppi, Gianfranco Talignani, Maddalena Torreggiani; l’artista Antonella De Nisco per le installazioni Spiare la terra LAAI; Roberto Ibba per la gestione del bookshop letterario; Emiliana Zigatti della segreteria organizzativa con l’aiuto di Marina Regosa; gli amici fotografi Enzo Zanni, Bruno Vagnini, Gaetano Baglieri e Silvio d’Amico per il lavoro di documentazione e per il prezioso supporto all’organizzazione della mostra fotografica; Marzia Bassi e Eleonora Taglia per una prima trascrizione di alcuni degli interventi poi confluiti in questo volume; il personale dell’istituto Cervi: Liviana Davì, Gabriella Gotti, Sabrina Montipò, Morena Vannini, Paola Varesi, Mirco Zanoni; Riccardo Mossini con lo staff della ristorazione; Luciana Cervi e Ernesto Malpeli. Un ringraziamento particolare va a tutti i partecipanti, corsisti, tutor e docenti: senza di loro questa VIII Edizione della Summer School non sarebbe potuta esistere. Essi sono stati gli artefici con disponibilità ed energia di questa esperienza originale. Un ultimo ringraziamento va a coloro che, già tra i partecipanti delle precedenti edizioni, hanno riconfermato la loro presenza dando senso e rinnovato valore a questo progetto della Biblioteca Archivio Emilio Sereni dell’Istituto Cervi. E infine un doveroso e mai sufficiente riconoscimento al lavoro di Gaia Monticelli che ancora una volta con attenzione, cura e dedizione impagabili, ha curato l’editing del volume.
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Con il patrocinio e la collaborazione
Comune di Campegine
Comune di Gattatico
CONSORZIO DI BONIFICA DELL’EMILIA CENTRALE
Federazione Lavoratori Agroindustria
REGGIO EMILIA
Associazione di Insegnanti e Ricercatori sulla didattica della Storia
Accademia dei Georgofili Società dei Territorialisti
Archivio Osvaldo Piacentini
Ordine e Fondazione Architetti Reggio Emilia
In convenzione scientifica con Università degli Studi di Bari Cerntro di ricerca Interuniversitario per l’Analisi del Territorio - CRIAT
Università degli Studi Modena e Reggio Emilia Dipartimento BIOGEST_SITEIA
Università degli Studi di Bologna Dipartimento di Scienze dell’Educazione Dipartimento di Scienze e Tecnologie Agroalimentari - DISTAL
Università degli studi del Molise
Università degli Studi di Cagliari Dipartimento di Ingegneria civile, ambientale e Architettura - DICAAR
Università degli Studi di Pavia, Centro per la ricerca interdipartimentale per la Didattica dell’Archeologia classica e della Tecnologie antiche - CRIDACT
Università degli Studi di Catania Dipartimento di Ingegneria civile e Architettura
Università di Roma La Sapienza Dipartimento di Architettura e Progetto
International Centre for Heritage Studies, Faculty of Architecture & Fine Arts, Girne American University, Cyprus
Università degli Studi di Sassari Dipartimenti di Architettura, Design, e Urbanistica ad Alghero
Università degli Studi di Macerata Dipartimento degli Studi Umanistici
Politecnico di Torino Scuola di Specializzazione in Beni architettonici e del paesaggio Centro Internazionale di Studi per la Storia della Città, Vetralla (VT)
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Indice
Presentazione Gabriella Bonini, Rossano Pazzagli
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Interventi di apertura Albertina Soliani
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Sabina Magrini
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Rosa De Pasquale
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Simona Caselli
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Secondo Scanavino
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Paolo De Castro
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Lectio magistralis Romano Prodi
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PARTE I - RI-VIVERE LA TERRA La tensione dell’esistenza. Un pensiero di paesaggio senza bordi Massimo Venturi Ferriolo
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Abitare i luoghi, etica e territorio Carla Danani
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Tornare ai paesaggi fragili Antonella Tarpino
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Abitare la terra. I sistemi agrari italiani e la storia del paesaggio Rossano Pazzagli.
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Crisi dei paesaggi. Agricoltura e ritorni alla terra Fabio Parascandolo
77 7
I nuovi contadini Jan Douwe van der Ploeg
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Gli indicatori del paesaggio rurale nel Progetto BES per la misurazione del benessere Luigi Costanzo, Alessandra Ferrara 107 Il paesaggio come “mediatore culturale” nell’esperienza dei giovani migranti Benedetta Castiglioni
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Storie di case rurali. Una lettura processuale di architetture e paesaggi Andrea Longhi, Martina Ramella Gal
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Il paesaggio agrario delle risaie. Segni “del tempo nello spazio” tra tutela e innovazione Marta Banino, Alice Giani, Francesca Matrone 149 Le borgate rurali della Riforma fondiaria. Il caso dell’agro di Stigliano. Irene Calbi
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Pastore: Femminile plurale. Un progetto e un film Anna Kauber
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PARTE II - PROGETTARE IN CAMPANGNA Approfondimenti regionali Nuove architetture rurali Andrea Bocco
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La cascina padana Daniele Lorusso
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La casa rurale della pianura emiliana Gabriella Bonini
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Forme abitative e di insediamento nell’Appennino reggiano Gaia Monticelli
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Architettura rurale e paesaggi storici a Fiesole. Un episodio di pianificazione Ilaria Agostini.
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La masseria pugliese Saverio Russo
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I trulli. «Architetture senza architetti» Stefano Rinaldi, Laura Sterlacci
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La casa rurale in Irpinia fra la fine dell’Ottocento e gli anni Sessanta Daniela Stroffolino
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Scuola, intercultura, paesaggio agrario Mario Calidoni
269
Abitare la Terra. Dalla Via Emilia alle Cinque Terre Fabrizio Frignani
273
Spiare la terra/LAAI Antonella De Nisco
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PARTE III - PAESAGGI LENTI Escursione in Appennino L’evoluzione dell’agricoltura nell’Appennino Reggiano. Dal viaggio di Filippo Re ad oggi Emiro Endrighi 285 Montagna inCantata. Intorno ad una geoesplorazione in Appennino Antonio Canovi
297
PARTE IV - PROSPETTIVE E POLITICHE DI RICERCA Il futuro dei paesaggi agrari italiani Mauro Agnoletti
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Emiro endrighi
311
Massimo Fiorio
315
Relazione conclusiva Carlo Tosco
319
I VOLTI DELLA SCUOLA
325
AUTORI 335
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Presentazione
Gabriella Bonini, Rossano Pazzagli
Nel 1961 uscì l’intramontabile libro di Emilio Sereni sulla Storia del paesaggio agrario italiano. Oggi possiamo dire che il paesaggio italiano, che è in larghissima parte un paesaggio agrario, è cambiato più nei 50 anni dopo il 1961 che nei due millenni descritti da Sereni. La velocità e l’ampiezza di queste trasformazioni recenti giustificano la nostra preoccupazione per il paesaggio e danno un senso profondo a questa Scuola, intitolata proprio alla figura e all’opera di Emilio Sereni e giunta all’ottava edizione, dedicata al tema “Abitare la terra”. La terra è il pianeta, ma qui è soprattutto il suolo inteso come base dell’agricoltura e componente fondamentale del territorio. Da otto anni la Summer School Emilio Sereni, organizzata dall’Istituto Cervi, costituisce un punto di incontro tra ricerca, scuola, governo del territorio, politiche. Un luogo dove studiosi, docenti, studenti, amministratori pubblici, agenti territoriali si incontrano e discutono di questo, sul rapporto che occorre, sulla conoscenza ma anche sulle tecniche, sulle strategie di tutela di valorizzazione dei paesaggi. L’Abitare la terra, cioè l’insediamento umano collegato all’attività agricola, non è un tema nuovo. Noi stessi l’abbiamo affrontato nelle edizioni precedenti, inserito negli altri argomenti. Anche nell’arte, nella poesia, nella letteratura, la casa contadina, o la sua assenza, è protagonista dei paesaggi rurali. Limitiamoci qui a citare con Ugo Foscolo che ne I Sepolcri descriveva le campagne intorno a Firenze come “convalli popolate di case e di uliveti”. Le case e le coltivazioni, come segni indelebili, duraturi, resistenti di quelle che Marc Bloch e Emilio Sereni iniziarono a chiamare le strutture agrarie. Sulla scia di Sereni, abbiamo sempre trattato il paesaggio come specchio fedele dei fenomeni e delle trasformazioni economiche e sociali che si sono succedute nel corso del tempo e appunto in modo più rapido nell’ultimo mezzo secolo. Il paesaggio agrario riflette cosi il progredire dell’urbanizzazione e dello sfruttamento eccessivo del territorio da un lato, ma anche dell’abbandono e delle derive territoriali dall’altro. Cioè fenomeni diversi che si sono andati però sommandosi e hanno prodotto quel degrado che forse - come ha ipotizzato Romano Prodi nell’aprire questa edizione della Scuola - farebbe inorridire Emilio Sereni se potesse tornare e guardare il paesaggio attuale in tante aree italiane. Ecco, nella nostra ottica il paesaggio si connette prioritariamente ad alcuni elementi: il territorio, l’agricoltura, il cibo (di cui ci siamo 11
occupati nell’edizione dell’anno scorso) e adesso l’architettura rurale. Abitare la terra significa molte cose, vuol dire anche lavorare la terra. Il legame con il lavoro deve essere quindi la lente attraverso cui osservare anche il delinearsi delle costruzioni nelle campagne. Il paesaggio e il lavoro sono due temi forti, sono – come sappiamo - due temi costituzionali, ben scolpiti negli articoli 1 e 9 della nostra Costituzione. Territorio, agricoltura, architettura: attorno a queste parole si intrecceranno gli interventi che seguono. Vogliamo ringraziare i relatori e i partecipanti, ma anche il comitato scientifico costituito da Mauro Agnoletti, Gabriella Bonini, Emiro Endrighi, Rossano Pazzagli, Saverio Russo e Carlo Tosco, che è anche il responsabile scientifico di questa edizione. Ai partecipanti e ai lettori rivolgiamo inoltre l’invito a considerare, oltre ai testi in sé, il luogo in cui essi sono stati esplicitati e prodotti, Casa Cervi, che è stata ed e anch’essa un’abitazione rurale, agraria. I luoghi non sono mai neutri, ma sono attori protagonisti di quello che facciamo, e noi siamo orgogliosi di svolgere questa Summer School presso l’Istituto Cervi. I Cervi erano contadini, agricoltori che abitavano la terra e noi sappiamo quanto la democrazia Italiana deve al mondo rurale, al contributo che i contadini hanno dato alla lotta di liberazione, agli agricoltori come costruttori di paesaggio e costruttori di democrazia. Ecco un altro elemento su cui possiamo riflettere oggi, perché siamo in quello scenario di crisi profonda della democrazia, come ha ricordato ancora Romano Prodi. Questo nesso tra paesaggio e democrazia, che la presidente dell’Istituto Cervi, Albertina Soliani, non manca mai di sottolineare, tocca i valori della libertà, dell’uguaglianza, della giustizia sociale. L’impostazione del volume riflette il piano formativo della Summer School; si articola in tre sezioni Ri-vivere la Terra, Progettare in Campagna, Prospettiva e politiche rurali. Alle lezioni, nel corso della Scuola, si erano aggiunti i laboratori, guidati da uno o più tutor, nei quali gli allievi, da protagonisti, avevano approfondito tematiche specifiche, analizzato pratiche, confrontato esperienze, con l’obiettivo di collegare le pratiche dell’abitare con gli scenari paesaggistici. I contributi di questi, come la visione di sintesi dei tutor sono qui contenute e inserite nelle sezioni relative. Nell’ampio ventaglio delle iniziative collaterali (mostre, presentazioni di libri, ecc), di particolare rilievo è stata la visita ai territori dell’Appennino reggiano, che ha consentito di aprire una tematica ancora diversa, quella delle aree interne colpite dall’abbandono e oggi alle prese con necessarie prospettive di rinascita. L’Appennino reggiano, infatti, è non solo una realtà storica interessantissima, ma anche teatro attuale di esperienze significative di rinascita territoriale, di ripopolamento, di riattivazione di forme di economia e dunque di ricostruzione paesaggistica. Di questo aspetto, rende conto il saggio di Emiro Endrighi che, partendo dal viaggio di studio che Filippo Re, botanico, agronomo, docente universitario e letterato, compì sull’Appennino reggiano nell’estate del 1800, approfondisce il tema dell’evoluzione dell’agricoltura di questi luoghi da allora a oggi. Anche la geocronica del viaggio di Antonio Canovi aiuta in modo puntuale a questo confronto tra ieri e oggi; uno sguardo geostorico dalla forza euristica che guarda al paesaggio come a un bene comune, fragile e mutevole negli esiti a venire, ma inalienabile nel suo portato storico di saperi complessi e stratificati. Nella sezione Prospettiva e politiche rurali, il contributo di Massimo Fiorio Vicepresidente della XIII Commissione Agricoltura alla Camera dei Deputati ed 12
estensore del Disegno di legge sul Contenimento del consumo del suolo e riuso del suolo edificato con quelli di Mauro Agnoletti, coordinatore del gruppo di lavoro sul paesaggio presso il Ministero dell’Agricoltura e presidente dell’Osservatorio del Paesaggio della Regione Toscana, e di Emiro Endrighi del Comitato Scientifico della Summer School che, lancia uno sguardo concreto e problematico sulle prospettive nell’immediato futuro dell’abitare la terra nel crescente uso di suolo per le colture altamente specializzate, per gli enormi stalloni, tutti convogliati nel motore tritatutto della competizione prezzi/costi. Nuovi e vecchi interrogativi che restano aperti per un impegno a proseguire in questo nostro lavoro di riflessione, denuncia e costruzione. Infine, ma non per ultimi, la Lectio magistralis di Romano Prodi, il saluto di Paolo De Castro, insieme a tutti gli altri, danno un grande respiro al volume in una dimensione che inserisce il nostro orizzonte in quello europeo e in quello dell’abitare nel mondo.
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INTERVENTI DI APERTURA
Albertina Soliani Presidente Istituto Alcide Cervi
è una gratitudine reciproca, stare insieme e pensare insieme. Pensare alla stessa cosa. La terra, l’umanità, da dove veniamo e verso dove siamo incamminati oggi tutti. Mi verrebbe da dire poco altro e non importa da dove veniamo, sia dai luoghi sia dalle esperienze, sia dalle età, sia dalle idee, stando insieme perché questa, credo, è l’unica condizione che dà conto del cammino dell’umanità, di quello che in mezzo a dolori e sofferenze è venuto fuori come l’approdo migliore. Cioè stare insieme tutti, stare in pace, sapendo che il nostro orizzonte è semplicemente il mondo. E che c’è un impegno per tutti per starci con grande rispetto reciproco e con grande condivisione. Si dirà: siccome siamo molto diversi, molto complicati, molto conflittuali, c’è un sacco di problemi, ci sono guerre crescenti. Come facciamo? Il come stiamo insieme, in pace, è davvero la grande storia che abbiamo alle spalle nei secoli ed è il grande problema di oggi. È la storia di ieri, è la storia di oggi con i suoi prezzi, è la storia affidata alle nostre mani. La cosa bella è proprio questa: che ogni vita ha in mano tutto. Il senso del passato, lo sguardo del presente, il futuro. Mi verrebbe da dire che siamo enormemente ricchi di possibilità e opportunità e abbiamo una grandissima energia a disposizione, più grande di quella atomica. Guai se abbiamo paura, sfiducia, se siamo stanchi, vecchi, poveri. Vien da pensare che forse siamo un poco così da queste parti, dalle parti dell’Occidente, dalle parti dell’Italia. È con questi pensieri che, a nome dell’Istituto Alcide Cervi, dichiaro aperta l’VIII edizione della Summer School, della Scuola estiva, dei giorni di riflessione, di investimento culturale di ricerca, a partire da quella di un uomo di cui qui ospitiamo la Biblioteca e l’Archivio: Emilio Sereni, antifascista, costituente, parlamentare e grande studioso di quello sguardo sull’Italia che con lui si è chiamato paesaggio agrario italiano. È un’avventura quella di questi giorni culturale e civile insieme. Il mio primo saluto a tutti coloro, dagli studiosi agli operatori dell’Istituto, che per un anno hanno camminato insieme per far camminare questa storia. Naturalmente saluto tutti voi che siete venuti qui in questi giorni; già da oggi ci sono persone che vengono da terre diverse, dall’Asia, dall’Africa, da altre parti dell’Europa. Qui, in questo luogo, si sente sempre molto forte quella passione per la terra e quella passione per la libertà che è stata la vita e la morte dei sette fratelli Cervi. Sapete che di giorno lavoravano e di notte studiavano. Non basta fare, bisogna capire e vedere e loro, che 17
erano così appassionati della terra, sapevano che il bene più grande sulla terra è la libertà e sapevano che questo bene o appartiene a tutti o non è libertà piena e per questo portavano sul trattore, quando andavano nei campi, il mappamondo. Tra i salmi della Bibbia ce n’è uno, il Salmo 37, che svolge il suo pensiero sul tema di questa Summer School e dice “Abita la terra e vivi con fede”. C’è una traduzione che dice “e coltiva fedeltà”. Lo stesso salmo dice “Chi possiederà la terra? I miti, i giusti”. Ecco non pensiamo che la nostra Summer School sia soltanto una ricerca di carattere scientifico sull’ambiente, sul paesaggio. Non esiste la terra se non c’è l’umanità che dà voce e pensiero alla terra. Può stupirsi forse qualcuno per il fatto chi io qui, a Casa Cervi, pronunci le parole di un Salmo della Bibbia, ma può stupirsi solo chi conosce solo parzialmente la storia. Non si stupirebbe affatto la mamma dei sette fratelli, Genoeffa Cocconi. Non si stupirebbe affatto. Grazie per l’emozione che ci date oggi qui. Buon lavoro a tutti.
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Sabina Magrini
Segretario del Ministero dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo per l’Emilia Romagna
Mi dispiace non essere a Gattatico, con voi, a ragionare sul significato, attualità e vitalità di un corso che ha raggiunto con grande successo la sua VIII edizione; ma mi trovo all’estero, per un breve periodo di ferie, e sarebbe stato davvero troppo complesso rientrare per questa occasione. Eppure da dove sono, nel nord dell’Inghilterra impegnata con la famiglia in un cammino lungo le vestigia del Vallo di Adriano, non mi è difficile trovare spunti di riflessione sull’importanza di esperienze come quelle promosse dall’Istituto Alcide Cervi per diffondere la conoscenza del paesaggio come dimensione visibile del territorio rurale, frutto della combinazione fra dinamiche naturali ed antropiche. Il paesaggio nel tempo cambia e recepisce, talora in modo drammatico, l’intervento dell’uomo e delle sue attività produttive: penso all’antica Segedunum (ora Wallsend vicino Newcastle upon Thyne) che ho visitato ieri, passata da forte romano a cittadina mineraria, e poi da centro di produzione navale ed ora ad attrattore turistico culturale, ma lo stesso potrebbe dirsi di tanti altri centri della nostra Emilia Romagna... È importante conoscere e far conoscere la stratigrafia storica del paesaggio che ci circonda, al fine di scorgere le tracce della cultura - in senso lato - delle generazioni che vi hanno vissuto e lavorato prima di noi. Questa conoscenza è la condizione essenziale per fare scattare la molla dell’interesse per la cura e per la valorizzazione di tale paesaggio, nel rispetto dei valori autentici che esso rappresenta. Da questa consapevolezza è nata la collaborazione tra l’Istituto Alcide Cervi e il Segretariato Regionale del Ministero dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo dell’Emilia Romagna che ho qui il piacere di rappresentare. Dapprima con la compartecipazione al Forum “Insegnare il paesaggio!” organizzato in occasione di Expo Milano sul tema della formazione e della educazione per una cultura del paesaggio nell’eredità di Emilio Sereni, poi con la co-progettazione di proposte formative rivolte alle scuole superiori di Parma di Reggio Emilia e infine (per il momento!) con la stipula in data 8 giugno 2016 di una convenzione in cui è stata formalizzata l’interazione tra l’Istituto Cervi e il Segretariato stesso. L’interesse del Segretariato in questa direzione è evidente: le attività gestite insieme all’Istituto Cervi di fatto, nel promuovere lo studio degli effetti sul territorio dell’incontro uomo/natura, favoriscono la scoperta delle identità territoriali e delle 19
radici culturali delle comunità locali. Si tratta di un risultato che soddisfa pienamente una delle una delle più importanti vocazioni istituzionali del Segretariato che insieme al Ministero tutto (Direzione generale per l’Educazione e Soprintendenze) è impegnato infatti nella formazione di una società inclusiva, attenta ai valori del passato e allo stesso tempo aperta alle suggestioni del nuovo. Non è un caso quindi che proprio in questa sede si svolgeranno, tra gli altri, momenti di confronto su temi fondamentali e sensibilissimi quali “Paesaggio e immigrazione” e “Scuola, intercultura e paesaggio agrario” che si preannunciano davvero molto interessanti. Non mi resta quindi che esprimere ancora una volta il mio dispiacere per non essere con voi e per augurarvi un buon corso!
*Lettera autografa
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Rosa De Pasquale
Capo Dipartimento per il Sistema di Istruzione e Formazione, Miur
Abitare la terra significa ritrovare il senso del nostro esistere e nel contempo ritrovare la nostra umanità, che non è altro che la relazione. Noi infatti siamo in relazione con tutto e tutto è in relazione con noi. Questa presa di coscienza ci apre sulla verità dell’esistenza e davanti a questa prospettiva attraverso piccoli passi iniziamo sempre più a camminare verso di essa, quindi abitare è un camminare verso una piena coscienza della dimensione relazionale che intercorre tra di noi, tra noi e la terra. La conseguenza di questa relazione è la sostenibilità: noi siamo parte dell’umanità in cammino lungo tutti i secoli e ci è data la possibilità di effettuare questo cammino nel migliore dei modi, rapportandoci con ciò che è stato e con ciò che è, con le nostre radici, la nostra memoria, i nostri valori e la nostra conoscenza. La terra dove abitiamo è il nostro patrimonio, ma anche, con ciò che sarà, il nostro futuro, cioè i nostri ragazzi ai quali questo patrimonio dovrà andare, a tutti coloro che sono nati in questo paese, con famiglie che provengono da altri paesi, ma che ora sono pienamente cittadini italiani e, insieme a noi, costruiscono l’Europa come umanità in cammino. Ora, parlando di patrimonio e della sua chiara identificazione, ritengo significativo prendere in considerazione quanto l’Unesco porta avanti nell’individuazione, nella protezione e nella sensibilizzazione attraverso l’attestazione dei siti materiali e immateriali definiti patrimonio dell’umanità. L’Italia continua a detenere il primato per numero di siti iscritti nella lista dell’Unesco 51 su 1031, davanti alla Cina che ne ha 48, la Spagna 44, Francia e Germania 41. Ai 49 siti registrati dal rapporto 2014 si sono ora aggiunti Palermo, paesaggio e patrimonio culturale arabo e normanno, le cattedrale di Cefalù e Monreale e i paesaggi viti-vinicoli del Piemonte, Langhe, Roero e Monferrato. Quest’ultimo, in particolare, rappresenta una novità importante essendo il primo sito italiano riconosciuto primariamente per il valore culturale del paesaggio agrario, cosiddetto minore come riportato nell’ultimo rapporto BES del benessere ecosostenibile del 2015 dell’Istat. La compenetrazione di paesaggio e patrimonio culturale è uno dei tratti distintivi dell’immagine del nostro Paese, è un asse di valore incalcolabile nella competizione economica globale. Ora la componente più fragile e meno protetta del nostro patrimonio culturale è quella dei paesaggi rurali; solo di recente, infatti, le politiche di settore comunitario e nazionali hanno iniziato a guardare all’agricoltura come produttrice, oltre che di derrate alimentari, 21
anche di servizi ecosistemici, quali la conservazione della biodiversità e la difesa del suolo dal disastro idrogeologico, e a riconoscere il potenziale economico insito nella tutela del paesaggio in termini di valore aggiunto per le produzioni di qualità e di turismo ecosostenibile. La qualità del paesaggio rurale dipende da una molteplicità di fattori difficilmente riconducibili a una misurazione statistica, ma più di tutto dalla sussistenza di uno spazio rurale dotato di sufficiente continuità e autonomia visiva e funzionale. Nell’attuale fase storica, l’integrità di questo spazio è minacciata da due principali forme di degrado, come continua a rilevare l’indagine BES 2015, assimilabile ad un processo di erosione attivo su due fronti lungo i quali si formano terre di nessuno più e meno estese. Una di transizione dal rurale all’urbano e un’altra di transizione dal rurale all’incolto. Queste forme di degrado possono essere affrontate e non solo risolte, ma soprattutto trasformate in opportunità? Ecco mi piacerebbe collocare anche qui l’azione della nostra buona scuola. Cerco di spiegarmi: questa riforma, sicuramente perfettibile, nelle sue linee di fondo però, a mio avviso, crea le basi per porre in essere una risposta seria in funzione di una formazione che stimoli una sensibilità multidimensionale capace di rileggere l’integrità dello spazio rurale e aiuti a sollecitare le capacità per riuscire a discernere le potenzialità latenti presenti. La riforma parte, infatti, da una rinnovata apertura al territorio, con l’attivazione di una vera autonomia scolastica che coinvolge nelle varie forme non solo tutto il personale scolastico e gli studenti, ma la comunità nella quale la Scuola agisce con le sue varie componenti. Si attivano iniziative didattiche come l’apprendimento in servizio, l’apprendimento cooperativo, le azioni nelle periferie, le scuole aperte che agiscono proprio sull’attenzione, sulla presa di coscienza proattiva nei confronti del territorio dove la scuola esiste. In questa direzione s’individuano i piani dell’offerta formativa triennali, si aumentano il numero dei docenti,quale organico di potenziamento, si apre al mondo del lavoro attraverso l’Alternanza Scuola Lavoro e tutto ciò è sostenuto, nella crescita, da momenti di confronto per una valutazione di quanto attivato. Valutazione intesa come riconoscimento di valore, di dare valore a ciò che viene fatto. La scuola deve diventare il motore di crescita e di cambiamento di un territorio. Voglio dire che “la buona scuola” mette a disposizione “in potenza” gli strumenti, ma, come tutte le riforme, è perfettibile e cammina sulle gambe delle persone, altrimenti, se non c’è una proattività in questo senso, resta lettera morta. E abbisogna di tempo e di forte disponibilità a costruire perché contiene in sé un cambiamento di visione non semplice, ma sicuramente generatore, almeno nelle sue intenzioni, di una nuova centralità della scuola, cioè del nostro futuro all’interno delle nostre comunità. Tutto questo per far comprendere alle prossime generazioni che il futuro ha un cuore antico dal quale non si può prescindere e che rende a colui e a coloro che lo riconoscono un’identità solida capace di un dialogo globale, proprio sui veri temi del futuro dove paesaggio e cultura definiranno il grado di vivibilità e di benessere equosostenibile di questo nostro abitare la terra. Momenti di formazione come questi aiutano proprio a far crescere questa sensibilità e partecipazione attiva al cambiamento e non solo; sollecitano la sensibilità e la conoscenza, ma anche la coscienza del dove, del come e del perché abitiamo la terra e abiteremo la terra. Aiutano tutti noi a serrare maggiormente le fila per un’azione sempre più condivisa, proattiva. 22
Papa Francesco nell’Enciclica laudato si “, ci parla della sfida urgente di proteggere la nostra casa comune e della preoccupazione di unire tutta la famiglia umana nella ricerca di uno sviluppo sostenibile e integrale perché le cose possono cambiare. Le cose possono cambiare. È la stessa spinta della famiglia Cervi quando Alcide Cervi affermava “Se volete capire la mia famiglia guardate il seme, il nostro seme è l’ideale nella testa dell’uomo”. Quindi buon lavoro a tutti noi.
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Simona Caselli
Assessore regionale all’agricoltura, caccia e pesca, Regione Emilia Romagna
Oggi, legare il paesaggio all’agricoltura è uno degli argomenti di maggiore attualità per lo sviluppo dell’intera filiera economica che gira intorno all’agricoltura, che forgia il paesaggio da sempre; attorno ad essa si crea un circuito economico basato non solo sull’attivita agricola in senso stretto, ma anche sulla gastronomia che, in questa nostra Regione, deriva da un settore primario di qualità che, a partire dalle materie prime, crea prodotti di eccellenza e ad essi affianca attività turistiche che esaltano l’identità e la singolarità distintiva e tipica di ciascun territorio. Ad esempio, in ambito agricolo e semplificando molto, c’è un’Emilia più orientata verso il settore zootecnico e una Romagna più verso quello frutticolo, ma in realtà la nostra è una Regione con una fortissima connotazione agricola, con produzioni importanti ed estremamente variate, di grande biodiversità e fortemente identitarie. Il paesaggio naturalmente ne è una conseguenza. Lo abbiamo visto bene all’Expo l’anno scorso: la terra è un bene irripetibile che noi dobbiamo trasmettere alle future generazioni, ma lo dobbiamo trasmettere in nel giusto modo, preservando bellezza, armonia, biodiversità e buone produzioni. E l’Istituto Cervi è il luogo giusto per un pensiero approfondito sul tema. Qui le idee ed il pensiero sono stati così importanti da provocare le prime innovazioni agricole di quei tempi, ma anche da portare all’estrema conseguenza la difesa della libertà del pensiero stesso. I Sette Fratelli Cervi hanno pagato con la loro vita, la difesa della libertà delle idee. Questo è stato, dicevo, anche un luogo di innovazione. Ed ancora una volta sarà l’innovazione una delle chiavi dell’interpretazione della nuova dell’agricoltura e con essa del paesaggio. È su questo che dobbiamo lavorare. Il recente libro di Guido Fabiani Agricoltura-mondo. La storia contemporanea e gli scenari futuri, presentato nei giorni scorsi con Romano Prodi, mette a raffronto le varie agricolture, quella americana, quella dei paesi emergenti, quella russa, quella dell’Unione Europea, ma soprattutto mette a confronto le politiche agricole applicate e quindi le modalità di sostegno al settore agricolo (anche con politiche pubbliche) per registrarne il tipo di evoluzione, le similitudini e le differenze. Una delle caratteristiche presenti in tutte le economie agricole mondiali riguarda il fatto che il pianeta viene nutrito da una minoranza di persone, da un’estrema minoranza. Gli agricoltori sono molto pochi, il 2-3% della popolazione. La loro presenza è maggiore nei paesi “più 25
arretrati” dove l’agricoltura funziona da ammortizzatore sociale. Al contrario, i paesi più progrediti hanno una percentuale di occupati in agricoltura piuttosto bassa, pur in presenza di agricolture molto produttive come la nostra. I dati Istat ci confermano che le nostre imprese agricole vanno sempre più riducendosi, mentre la produzione è in aumento. Questo fatto non è una contraddizione perché sono cambiate le modalità di produzione. È l’innovazione che fa la differenza; innovazione che non vuole assolutamente significare l’abbandono delle proprie radici, anzi, l’opposto: il loro recupero e la loro valorizzazione, assieme all’umanità, alla cultura, alla tradizione che vogliamo mettervi. Non un modello unico; l’importanza sta nella differenziazione degli approcci. Non può funzionare una visione unica dell’agricoltura, ci sono tante agricolture, dipende dal luogo, dipende dall’uomo. La difesa della biodiversità è una delle sfide culturali che abbiamo davanti, difesa che si fa utilizzando molte leve, compresa la scienza. La scienza può annientare la biodiversità, ma può anche aiutare a mantenerla. Quindi, occorre essere molto precisi e stare molto attenti nelle scelte ed è per questo che la Regione cerca di sostenere tutti i progetti di ricerca, che sono tantissimi, in materia agricola. Vedere così tante richieste per progetti di ricerca e di innovazione è una cosa straordinaria perché mostra la fiducia nel futuro, nelle aspettative di successo che i progetti creano. Altro punto nodale, di questa nostra umanità in cammino sulla terra, è quello della sostenibilità delle nostre azioni e delle nostre decisioni. Le criticità sono molte, a partire da quella dello stato dei suoli e della loro fertilità per la quale dobbiamo lavorare per recuperarla. Non abbiamo alternative; se non lo facciamo, lasciamo ai nostri figli un bene impoverito. L’altro bene fondamentale che abbiamo è l’acqua. Per l’acqua non é da escludere che in futuro ci saranno guerre. L’acqua è veramente uno di quei punti su cui si gioca il futuro di questo pianeta ed è per questo che la nostra Regione è attentissima ai progetti che fanno focus sulla risorsa idrica. Siamo attentissimi all’utilizzo dell’acqua, adottiamo “modalità israeliane”, un’irrigazione di precisione é la necessaria modalità per il futuro prossimo, ma l’acqua è un tema globale, non una questione che si risolve sul piano locale e quindi questo è uno dei temi fondamentali su cui siamo chiamati a intervenire ed a decidere come classe dirigente, a livello mondiale. Il tema è in tutte le agente degli Stati, come ben abbiamo visto all’Expo 2015: molti paesi hanno proposto innovazioni proprio sul tema dell’acqua, approfondimenti culturali e nuove pratiche erano in mostra in vari padiglioni. Ma queste iniziative da sole non servono se non attiviamo politiche e strategie globali per l’acqua. All’acqua si lega poi strettissimamente il tema del cambiamento climatico, che sappiamo essere sempre più drammatico. Questi grandi temi: acqua, biodiversità, tecnologia, clima, vanno messi insieme alle radici e alla cultura. L’agricoltura di precisione cambierà radicalmente il modo di fare agricoltura: l’utilizzo dei satelliti e dei droni è già alla portata dei piccoli agricoltori come dei grandi. Gli studenti dei nostri Istituti agrari sono già preparati a questo approccio. Ora si tratta di inserire queste nuove modalità nella cultura di un luogo, di metterle in relazione con l’umanità di quel luogo. L’agricoltura non può essere inserita in una visone bucolica: l’agricoltura è un’attività economica e fare agricoltura è impegnativo, 26
occorre operare in sintonia con la natura (se questa si rivolta contro, non si produce), con il territorio di cui si fa parte (che interpreta la domanda e che influenza le decisioni dell’agricoltore) e con il mercato. Stare sul mercato in agricoltura diventa sempre più complicato e oggi le commodities (beni per cui c’è domanda ma che sono offerti senza differenze qualitative sul mercato, beni fungibili, cioè prodotti che sono gli stessi, indipendentemente da chi lo produce) rendono ulteriormente complicato competere. Se da un lato le commodities sono un’ovvietà, perché il grano è sempre grano, non lo sono per la qualità: il grano non è tutto uguale. Pensiamo a tutta la ricerca sui grani antichi, sulla ricerca della biodiversità, sui diversi trattamenti… Purtroppo noi non siamo autosufficienti sul piano alimentare, pur con il nostro made in Italy declinato localmente in maniera forte, e quindi dobbiamo necessariamente lavorare su questi tre principi: salvaguardia della biodiversità, salvaguardia della compatibilità e della sostenibilità di ciò che si fa qui e altrove. E riprendo il tema paesaggio. Il mio Assessorato lavora a stretto contato con quello del collega Andrea Corsini al Turismo e Commercio, perché sta proprio qui la tenuta del tema agricoltura: paesaggio – gastronomia – enogastronomia – turismo. E la cosa funziona benissimo. Sul nostro Appennino sono aumentate le presenze del 20% rispetto allo scorso anno. Sono turisti che vanno alla ricerca della cultura e della storia di un luogo, del cibo, del parmigiano-reggiano di montagna, ad esempio. La filiera del Parmigiano-Reggiano è essenziale per la tenuta del tessuto sociale dell’Appennino; il 22% di questo prodotto si fa in Appennino. Senza questa filiera, non esisterebbe l’agricoltura dell’Appennino o comunque sarebbe sfigurata. Occorre vedere questo tipo di tenuta delle cose, bisogna coltivarla e bisogna ovviamente difenderla e promuoverla il più possibile. Da qui, dunque, questo vincolo dell’umanità in cammino, il vincolo della sostenibilità e dell’importanza di lavorare sul paesaggio. Il paesaggio non è solo un bene, ma è ciò che dà forza e consapevolezza alla nostra vita. Il lavoro culturale di questa Scuola è dunque fondamentale, unico, un lavoro che, grazie ai suoi partecipanti, si dissemina per tutta Italia.
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Secondo Scanavino
Presidente Nazionale Confederazione Italiana Agricoltori - CIA
Come socio fondatore dell’Istituto Cervi e “successore” di Emilio Sereni, condivido quotidianamente percorso e approccio al tema del paesaggio, uno degli elementi che più ci accomuna. Emilio Sereni ha studiato e lavorato per gran parte della sua vita sui temi del paesaggio e della sua evoluzione economica; è diventato il primo presidente dell’Alleanza dei contadini, seguendo il percorso di tante famiglie che dalla condizione mezzadrile sono passate all’affitto e alla proprietà. Allora erano presenti in Italia sistemi organizzati che lavoravano per mantenere lo status quo, fortemente legati a forme pseudo clientelari che alimentavano l’economia e che solo apparentemente operavano per lo sviluppo dell’agricoltura. In realtà erano orientati al mantenimento del potere all’interno del mondo rurale, senza particolare attenzione ai contadini di allora, diventati poi imprenditori, costruttori del futuro dell’agricoltura. Da ciò oggi dipende lo sviluppo del paesaggio come prodotto quotidiano del lavoro, dipende la condizione sociale ed economica di persone, in particolare di coloro che vi lavorano più di altri e lo consegnano alla società nel suo complesso, al fine di contribuire in modo determinante al successo dei sistemi economici, sociali, culturali e antropologici. Il nostro ruolo, in quanto rappresentanti di questa categoria, di questo mondo, di questa attività, di questa parte dell’economia italiana, è innovare nel modo più profondo possibile tutto quello che sottende allo sviluppo dell’agricoltura, perché questa agricoltura produca reddito agli agricoltori, a quelli che sono dediti non alla manutenzione del paesaggio, bensì alla sua trasformazione, in ragione della loro capacità di essere imprenditori di successo e produttori di ricchezza per quei territori. Questo è per me l’approccio a cui lavorare, poichè l’aspetto antropologico non è secondario. Credo che, oltre a quelli trattati in precedenza, il tema del ricambio generazionale sia alla base della prospettiva futura anche del paesaggio agrario. Il Piemonte ha ricevuto il riconoscimento dall’UNESCO come patrimonio dell’umanità per il paesaggio viti-vinicolo; ebbene, quel paesaggio è curato in gran parte dalle popolazioni macedoni, perché. come dice Carlo Petrini, “se non ci fossero i macedoni, nelle vigne non si produrrebbe il barolo” e quindi io sono convinto che 29
prima o poi quella civiltà, quella popolazione metterà dei segni nel paesaggio agrario delle Langhe e del Monferrato. Lo scarso ricambio generazionale, anche in aree dove sussiste una spiccata ricchezza, condurrà sicuramente quei lavoratori a diventare imprenditori, così come lo sono diventati i mezzadri nel dopoguerra. Questo accadrà anche nel sud Italia, i senegalesi e i rumeni diventeranno produttori di pomodori e di agrumi e riusciranno a sopravvivere al caporalato: questa è la spinta antropologica che dobbiamo agevolare. Quindi, dobbiamo favorire una integrazione vera, seria, non caritatevole, non compassionevole e legata a un rapporto di subordinazione proiettato nel futuro, ma ad una collaborazione che insegni a questi nuovi cittadini italiani a governare il paesaggio, a rispettare i segni di una cultura, di una tradizione contadina, agraria che per tanti anni lo ha modellato, che insegni a non stravolgerlo, ma a lasciare un segno riconoscibile, identificativo di un progetto sociale interpretabile come la base dello sviluppo economico. Io credo che su questo noi dobbiamo impegnare le nostre forze, cercando di condividere un percorso che non guardi al particolare, ma come Emilio Sereni ci ha insegnato: avere una visione, un angolo di veduta molto ampio. Se ci fermiamo al particolare e alla cura dell’interesse particolare, anche imprenditoriale, avremo una prospettiva di corto respiro. Il nostro compito, quello della CIA, è essere un elemento proattivo all’interno di un sistema economico e sociale, metterci a disposizione della ricerca, della società, della cultura, dell’economia e tutelare prima di tutto gli interessi dei nostri agricoltori aiutandoli nel raggiungimento di una identità di valore sociale, economico e soprattutto sostenendoli nella cura del paesaggio di cui noi ci occupiamo e che ci sta particolarmente a cuore.
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Paolo De Castro
Primo Vice Presidente della Commissione Agricoltura e Sviluppo rurale del Parlamento Europeo
Buongiorno a tutti, buongiorno da Paolo De Castro, dal Parlamento Europeo, qui da Bruxelles. Non posso essere con voi questa mattina per iniziare insieme a voi questa edizione della Summer School Emilio Sereni, però ci tenevo a mandarvi questo messaggio di saluto. Naturalmente saluto tutti i presenti, saluto Albertina Soliani e gli amici che sono con voi. Abitare la terra è un tema delicato, importante, un tema che deve sempre più far capire quanto siano diventati strategiche le tematiche legate alla terra, alle risorse naturali e all’agricoltura. Nel mondo sta crescendo la popolazione e soprattutto sta crescendo il reddito di larga parte della popolazione mondiale prima esclusa dai flussi e dal commercio dei prodotti agricoli: penso alla Cina, penso all’India, che oggi con lo sviluppo che stanno avendo stanno davvero drenando una domanda agricola alimentare fortissima e questo sta esercitando sulle risorse naturali limitate del pianeta Terra una pressione fortissima. Forte è questa pressione che si sta creando una vera e propria una “corsa alla terra”, cioè tutti i paesi che hanno paura, che hanno preoccupazione del futuro sulla disponibilità di cibo vanno a caccia delle risorse naturali disponibili e soprattutto vanno a caccia di terra. Da qui questo fenomeno, che oramai abbiamo imparato a chiamare con il nome inglese land grabbing, letteralmente caccia alla terra, corsa alla terra, accaparramento della terra. In Africa si assiste ad una situazione drammatica, così come anche in Asia: milioni e milioni di ettari vengono comprati, affittati o in qualche modo gestiti da Paesi che hanno la preoccupazione del futuro e tutto questo avviene oggi anche abbastanza senza una preoccupazione della comunità internazionale circa la equilibrata allocazione delle risorse, soprattutto spesso anche con drammi locali: intere popolazioni vengono spostate per rendere possibile la pianificazione e la produzione su larga scala. Il tema esiste evidentemente perché la domanda alimentare cresce nel mondo ad un ritmo superiore di come cresce l’offerta alimentare, quindi al di là delle fluttuazioni del mercato che sono sempre presenti, di fondo c’è una domanda che non riesce in prospettiva ad essere soddisfatta dall’offerta. D’altra parte la FAO ha stimato che l’aumento della domanda nel 2050 sarà di oltre il 70% della produzione agricola 31
attuale, il che significa davvero uno stress sulle risorse naturali enorme. Quindi la grande domanda è come riuscire a produrre di più, gestendo in maniera più sostenibile le risorse naturali. E qui c’è tutto il campo della ricerca, dell’innovazione, della capacità ma soprattutto dell’impegno ad evitare gli sprechi. Noi qui al Parlamento Europeo abbiamo approvato una risoluzione contro il food waste, lo spreco di cibo, proprio per cercare di impegnare la commissione a mettere mano ad atti concreti legislativi volti a ridurre significativamente lo spreco alimentare; poi c’è tutto il tema della ricerca che va approfondito con più entusiasmo, con più energia perché non c’è dubbio che le risposte a questi grandi problemi globali della nostra umanità potranno essere risolti solo se ci sarà una ampia consapevolezza di questo problema. Non si può lasciare che il mercato da solo risolva i problemi; occorre una politica globale del cibo che in qualche modo riesca a tener conto della sostenibilità nel rispetto dei grandi obiettivi e delle grandi questioni che abbiamo. È chiaro che abbiamo tentato di dare una risposta o quanto meno indirizzato alcune risposte col tema dell’Expo 2015, dove per sei mesi più di 20 milioni di persone hanno potuto visitare i diversi padiglioni e aumentare così il proprio livello di consapevolezza di questa grande problematica che è la produzione del cibo. Ecco, io mi auguro che con questa Summer School si possa sciogliere un po’ i nodi del rapporto tra i paesi in via di sviluppo e i paesi ricchi, ma soprattutto affrontare il grande tema di una politica alimentare del cibo che guardi alle risorse naturali e alla loro sostenibilità come un grande obiettivo strategico per tutti i popoli. Un caro saluto da Paolo de Castro, dal Parlamento Europeo e un arrivederci a presto, spero questa volta non attraverso un video ma fisicamente per discutere con voi di questi grandi e importanti temi.
*Video messaggio
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LECTIO MAGISTRALIS
Romano Prodi
Presidente Fondazione per la Collaborazione tra i Popoli
Ho letto da giovane il Capitalismo nelle campagne di Sereni. Venendo qui mi è venuto da pensare che se Sereni girasse con l’elicottero sopra la Pianura Padana oggi probabilmente maledirebbe tutti. Perché è tutto diverso rispetto alla sua descrizione; non è cambiato solo il panorama della piantata, dell’olmo e della vite, sono state fatte cose assolutamente inutili. E’ interessante che l’UNESCO abbia inserito i paesaggi agrari nel patrimonio da salvaguardare come le Langhe-Roero. Paesaggi che sono stati modificati per una serie di ragioni, economiche e non, conservando però una identità di quello che è il rapporto fra uomo e natura; cambiamento dettato dalla necessità di produrre cibo e di garantire reddito ma con un criterio che ha conservato determinati parametri. Invece le nostre città, in particolare nella prima generazione dopo la guerra, si sono espanse in un modo assolutamente selvaggio. Ci vorranno secoli per rimettere a posto le nostre periferie; una generazione che è stata spettacolosa nello slancio, nel tirar fuori il paese dalla fame, nel lanciare l’Italia nella modernità ci lascia, come eredità peggiore, proprio gli effetti della scarsa attenzione agli aspetti urbanistici, agli aspetti del territorio. Cosa si ricorderà dell’architettura di questa generazione? Poco. Veramente poco. Tale situazione viene enfatizzata dalla crisi economica attuale evidente quando vediamo un terzo delle aree artigianali totalmente vuote e i capannoni che vanno in malora. É un cambiamento del mondo che non riusciamo a governare modificando abbastanza in fretta il nostro modo di produrre e le nostre istituzioni economiche. E’ una sfida enorme perché noi dobbiamo ricucire il passato e ripensare il futuro, nello stesso tempo. Per l’Italia questo è particolarmente delicato perché abbiamo ereditato uno dei territori più belli del mondo su cui si può sviluppare il turismo e l’agricoltura specializzata; è una sfida particolare e importante dentro l’evoluzione futura dove bisognerà agire per conservare certi valori ma anche per avere un ruolo nel mondo futuro. Non è con la semplice conservazione che si portano avanti le cose. Quando io, che sono nato e cresciuto in quest’ambiente, corro per le campagne e vedo queste terribili villette di periferia e queste meravigliose, vecchie case rurali che vanno in rovina, penso che ci sia qualcosa che nella trasformazione non abbiamo capito. Non c’è stata una società capace di tenere assieme le questioni; sono state viste e affrontate individualmente. Chi si è fatto la villetta e chi ha abbandonato il campo era come se fossero di continenti diversi. Per questo, iniziative come questa Summer School 35
servono moltissimo, innanzitutto agli amministratori locali per capire il territorio e guidarne lo sviluppo. Mi avete chiesto di riflettere oggi qui su questa globalizzazione, purtroppo non guidata. Un fatto in sé positivo e indispensabile, dato il cambiamento delle tecnologie e del sistema-mondo, che ha dato a due miliardi di persone la possibilità di vivere, ma che noi non siamo riusciti a gestire - non solo noi Italia, ma in Europa e in un certo senso anche gli Stati Uniti - nelle sue evoluzioni fondamentali e ciò provoca ovunque il malcontento nei confronti della classe dirigente. Questo cambiamento del mondo ha fatto sì che si siano trasformati anche gli strumenti di costruzione e produzione della ricchezza che ha provocato un fortissimo processo di crisi delle classi medie e basse con una radicalizzazione nella distribuzione del reddito fortissimo. Questo è avvenuto ovunque, esclusi i paesi scandinavi, che hanno mantenuto lo stesso tipo di distribuzione, ed escluso il Brasile che in alcuni anni ha registrato un avvicinamento tra le classi, rimanendo pur sempre un paese ingiusto. In tutto il mondo questa globalizzazione ha portato una fortissima divisione nella società; nei paesi teoricamente capitalistici e in quelli comunisti come la Cina in cui la divisione del reddito è identica a quella che si riscontra in tutto il mondo occidentale. La difficoltà politica è che quasi tutte le misure che vengono adottate per ridurre questo squilibrio vanno contro la realtà di un capitale che poi fugge, in cui lo strumento dell’imposizione fiscale diventa difficilissimo da gestire nella società di oggi. Quando sfuggono le redini fondamentali dell’economia diventa difficilissimo per il povero amministratore locale o per chiunque voglia pianificare un territorio, correggere o meglio prevenire questi cambiamenti a livello sociale e territoriale. Conseguenza di questa enorme questione sono tutti i problemi particolarmente acuti presenti, in Italia e in tutti i paesi di cultura occidentale, a partire dalla crisi del mondo del lavoro che si manifesta in una disoccupazione fortissima in Italia, Spagna, Grecia ma anche in Francia; in altri paesi, a partire dagli Stati Uniti, vi è stata una reazione del sistema in grado di mantenere a livelli tollerabili la disoccupazione, abbinata però ad una diminuzione dei livelli salariali, una diminuzione del tenore di vita delle categorie medie e medio basse che sta cambiando anche il significato della democrazia di oggi. E’ su tale situazione che si innesta l’altra paura, quella legata all’immigrazione. Le migrazioni ci sono sempre state; secondo l’ONU ci sono 250 mllioni di persone che vivono lontane da dove sono nate. Quindi l’umanità si è sempre mossa; e non è solo un fatto europeo e nemmeno prevalente europeo. Nei paesi del golfo non c’è nessun locale che svolga un lavoro materiale; nella Libia di Gheddafi non c’era alcun libico che lavorasse materialmente nel territorio: i maestri, i professori di tutte queste aree sono palestinesi, le donne di servizio filippine. E’ un mondo in movimento. Ma, negli ultimi tempi, in Europa questo ha creato delle grandissime tensioni perché non è più gestito. Le due guerre di Siria e di Libia hanno creato quella mancanza di interlocuzione che, quanto esisteva, consentiva un qualche ordine, un qualche accordo che rendeva l’immigrazione meno spaventosa per la gente comune. Quante volte Gheddafi ha minacciato di mandarmi dei barconi di immigranti? Infinite. Poi si trattava e siccome c’era uno stato si trovava un accordo. Oggi questo fenomeno, insito nella nostra storia, non è gestito, è diventato quindi un dramma. Allo stesso tempo siamo di fronte all’enorme questione demografica che incide moltissimo sul territorio con degli scenari impressionanti: Spagna, Italia e Germania hanno un andamento 36
demografico che porterà all’estinzione di quelle nazioni se continuerà il trend in atto. In questo momento il tasso di fertilità è di 1,29 bambini per donna; ne servono almeno 2 per la stabilità; significa che siamo di fronte ad un decremento di popolazione spaventoso: entro la metà del secolo la Germania perderebbe senza i migranti 10/12 milioni di persone, l’Italia 6/7milioni, come dire un Emilia e mezzo! Dall’altra parte c’è l’Africa con un aumento di popolazione che la porterà da 1 ai 2 mld di persone; non l’Africa mediterranea che sta molto flettendo, ma l’Africa subsahariana. Se in Italia l’età mediana, quella che divide in due la popolazione, è di 46 anni, nel Mali è di 17 anni e mezzo. Sono due mondi che si devono compensare in qualche modo altrimenti non c’è nessun aggiustamento. Ma la situazione politica di oggi rende questo processo ingestibile e l’ha trasformato, come è comprensibilissimo, in paura proprio perché non è gestito. È chiaro che tocca direttamente il contesto europeo, di questa Europa che ha dato grande speranza e io sono onestamente orgoglioso di avere spinto perché integrasse anche i paesi dell’est, che oggi sarebbero in una situazione drammatica come l’Ucraina se non fosse avvenuto questo processo. Ma successivamente la solidarietà e il senso di comunanza e di corresponsabilità collettiva sono andatoiscemando. Quando ero presidente della commissione dell’UE ritenevo che la definizione più bella dell’Europa fosse “Un’unione di minoranze” che è un concetto straordinario che appresi al parlamento rumeno durante la discussione per la loro adesione all’Europa. Un esponente di un piccolo partito pronunciò un meraviglioso discorso in favore dell’Europa e alla domanda sul perché di tale posizione rispose: “Mio nonno è stato ucciso perché membro di una minoranza, mio padre in esilio perché membro di una minoranza, io voglio l’Europa, voglio che il mio paese entri in Europa perché l’Europa è un unione di minoranze”. Si tratta di problemi di lungo periodo - l’immigrazione, le pensioni, la scuola, la formazione- e se non vi allenate a pensare anche al lungo periodo avrete il fiato corto. Questo vale anche per il paesaggio; non si può prendere una decisione in funzione di un problema emergente, di una casa, di una strada, di una singola cosa. I fenomeni richiamati prima stanno cambiando il nostro quotidiano perché stanno cambiando la faccia del mondo anche a causa delle fratture di certi equilibri. Per esempio, ed in connessione al tema del paesaggio, la questione dell’acqua è fondamentale: le prossime guerre saranno sull’acqua e ci sono dei fenomeni impressionanti. Non tanto le tensioni all’interno di un paese, come le liti fra Colorado e California, queste se le risolvono, oppure le scelte dei cinesi che mandano l’acqua dal sud al nord, ma quelle che riguardano contesti complessi. Un caso è quello del fiume Nilo rispetto al quale l’Egitto rivendica diritti risalenti ad accordi dell’epoca coloniale (1929). Dalle fondi al Mediterraneo ci sono altri 7 paesi a monte, alcuni dei quali non hanno bisogno di acqua, ma altri, come l’Etiopia con 80 mln di abitanti, ne hanno grande necessità. Adesso si sta costruendo a 2900 metri s.l.m. una enorme diga, la “Diga del millennio” che provoca tensioni fortissime fra Etiopia ed Egitto; basterebbe un consenso internazionale per dirimerla. Pensate che l’Etiopia si è impegnata a restituire tutta l’acqua all’Egitto, cioè a non usarla per irrigare ma solo per produrre energia elettrica. L’Egitto risponde “Ma ci vogliono 5 anni a riempire il lago, cosa facciamo nei 5 anni?” Etiopia risponde “Ma se voi eliminaste il Lago Nasser, con la diga di Assuan, e gestissimo noi l’acqua dandovela quando ne avete bisogno in base ad un accordo internazionale? Tenuto conto che da noi a 2900 m evapora 1/5 di quello che evapora 37
da voi, potreste avere molta più acqua di quella che avete adesso”. Purtroppo manca l’elemento politico, manca in questa umanità! Si potrebbe continuare citando il caso delle dighe turche sul Tigri e l’Eufrate che metteranno in situazione disastrosa tutte le zone irrigate a valle. Il futuro sarà quindi caratterizzato da fortissime tensioni e la debolezza della cooperazione internazionale renderà impossibile affrontarle. Infine il terzo grande elemento che ci sta di fronte e che turba il nostro futuro è il cambiamento tecnologico. Cambiamento fortissimo che per la prima volta nella storia non crea necessariamente nuove opportunità. I cambiamenti che abbiamo avuto hanno sempre creato sviluppo; pensate alle ferrovie, al telefono, all’energia elettrica o all’automobile. Certamente i produttori di carrozze non erano entusiasti, però, immediatamente, fra le raffinerie, le strade, la fabbrica dell’automobile, ecc. il mondo ha preso una nuova energia ed attivato nuovi percorsi. Oggi abbiamo delle straordinarie evoluzioni tecnologiche che schiacciano però coloro che non sono capaci di assorbirle e di elaborarle molto in fretta; centinaia di migliaia di segretarie sono scomparse per effetto delle nuove tecnologie d’informazioni così sono scomparsi e scompariranno molti posti di lavoro nella banche. Questo è l’altro fenomeno che crea paura, soprattutto in paesi come l’Italia che non hanno partecipato al processo innovativo profondo. Infatti, noi siamo bravissimi nelle innovazioni di processo, ne è un esempio questa regione dove le combinazioni fra meccanica, scienza dei materiali, idraulica, ecc. fanno sì che si ottengano ottimi risultati; ma nelle grandi innovazioni - dal fax al telefonino portatile al computer - l’Italia non solo non le ha create, ma non le fabbrica nemmeno. In nessuno di questi settori siamo protagonisti. E’ chiaro che questa nuova tecnologia, che può essere molto interessante anche per le varie questioni connesse al paesaggio, dato che in generale è tecnologia che alleggerisce l’impatto sul territorio, il nostro Paese è a rimorchio. Si pensi alle nuove fonti di energia, ai nuovi modelli produttivi, alle stampanti 3D, al minor uso dell’acciaio; abbiamo di fronte tutta una serie di prospettive che sono interessanti anche sotto l’aspetto del paesaggio che viene affrontato nella Summer School Emilio Sereni. Esse però, per fornire il massimo dei vantaggi, esigono una elevazione del livello intellettuale del paese, del livello di conoscenze e competenze che è una sfida che non abbiamo ancora affrontato in un modo che sia coerente rispetto alle necessità. Qui sta anche la prospettiva/necessità di legare il progresso tecnologico, approfittare di queste innovazioni, per riorganizzare anche il territorio. Se almeno un terzo delle nostre aree artigianali/industriali oggi sono del tutto vuote, non possiamo certo pensare che si riempiano domani. Perché anche se noi facessimo un grande salto tecnologico, è un salto che ha bisogno di minor spazio, che ha bisogno di macchine molto più sofisticate, concentrate. Solo se la società è capace di affrontare questi aspetti è possibile ritornare ad avere quel ruolo che noi abbiamo ricoperto per molto tempo. Si deve però aver ben presente che difficilmente nel mondo di oggi un paese solo, come l’Italia o anche come la Germania, può ricoprire un ruolo così ampio. Ritengo che con tutti i suoi limiti l’Europa sia indispensabile, la nuova concorrenza è gigantesca; lo ripeto spesso: l’Italia nel Rinascimento, o meglio gli staterelli italiani erano leader in tutto: Venezia, Milano, Genova, nella finanza, nell’arte, nella tecnologia. Poi è venuta la prima globalizzazione, connessa alla scoperta dell’America, e noi non ci siamo messi insieme, nessuno era capace di costruire le nuove caravelle per i grandi traffici atlantici e l’Italia è scomparsa per quattro secoli dalla geografica del mondo. I singoli 38
paesi europei sono nella stessa situazione: le nuove caravelle sono Google, Apple eBay, Alibaba: tutte realtà cinesi e americane. Non c’è un protagonista europeo. Rendiamoci conto della forza che questi hanno! Quando io faccio l’abbonamento al Corriere, o a Repubblica o a quello che volete, dei 179€ che pago, un terzo va alla Apple e questo cambia il mondo. Noi europei non abbiamo quel senso di cooperazione e solidarietà, di necessità di essere insieme per questa sfida. La sfida è cercare di capire la storia ma per capirla dobbiamo diminuire le disuguaglianze presenti. Altrimenti le persone non si fidano. Dobbiamo essere in grado di capire la storia nel suo complesso, vedendo nel lungo periodo, ma agendo nel quotidiano per dare sicurezze e per dare forza, e per dare capacità di espressione alle nuove generazioni. Questo secondo me è il grande sforzo che ci permette di lavorare anche sul paesaggio, di capire culturalmente quello che allora Sereni capiva e che, ripeto, lo farebbe inorridire se facesse un giro con l’elicottero sulla pianura padana di oggi.
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PARTE I RI-VIVERE LA TERRA
La tensione dell’esistenza Un pensiero di paesaggio senza bordi
Massimo Venturi Ferriolo
Abitare la terra. Abitare è l’attività continua dell’esistenza umana. Io abito in quanto sono, perché costruisco, coltivo e custodisco, curando con l’arte di vivere il mio luogo di soggiorno. Dimoro nelle svariate forme eterogenee di un mondo caratterizzato dalla connessione dei molteplici elementi coesistenti, manifesti nei diversi modi di coltivare. Abitare è un’abitudine, come indossare un abito, che riflette l’essere al mondo con la disposizione del territorio, creando luoghi e inserendosi nelle trame del tempo. L’abitante si radica nello spazio, seminando con la sua esistenza i segni delle multiformi culture, le epoche e le architetture del nostro mondo, con un’attività generatrice di un processo di paesaggio in un orizzonte visibile. Abitiamo la terra, che è la matrice, la madre, il terreno che calpestiamo quotidianamente, la dea; il possesso comune, bene inalienabile che appartiene a tutti. Terra Madre, difesa dell’ambiente, futuro di pace e armonia, rimane sempre un simbolo di nascita e di ritorno per una vita sana, buona, eccellente. Autoctoni, nati dalla terra, è un racconto molto antico sul quale bisogna riflettere per ciò che ne deriva. Così Platone ricorda il legame vitale dell’umana natura, la Terra Madre1, il luogo donde veniamo che custodisce nel profondo il linguaggio che ci rende riconoscibili. Platone, come rammenta Plutarco alla fine del mondo antico, le rende omaggio riconoscendo in lei la sede di ogni forma e idea, che rivolge se stessa assumendo nuove figure di paesaggio. È paesaggio e si chiama Iside, la cultura natura, il possesso per sempre, il bene comune: chiamato anche tesoro. Possesso culturale e naturale assieme all’origine della vita umana, terreno adatto a soddisfare i bisogni degli individui, è vera ricchezza, comune. È il nomos, la prima misura affidata a ciascuno, che non gli appartiene, ma deve coltivare. Curare la terra è la cultura del bene comune. La terra su cui l’uomo cammina è una dea, uno spazio fecondo. Ha molti nomi. Uno in particolare precede lo stupore di Gaia e percorre l’intero mondo mediterraneo: Iside. Di lei parla ancora ampiamente Plutarco al tramonto del mondo antico, confermando da neoplatonico – con un ampio salto temporale - il mito esiodeo dell’origine. 1 Platone, Politico 271A. 43
Iside è la terra, madre e nutrice di tutti gli esseri2. È il principio femminile della physis capace di ricevere in sé ogni forma di generazione ed è chiamata da Platone nutrice e ricettacolo comune e da molti altri con un’infinità di nomi, perché volge e rivolge se stessa accogliendo ogni tipo di forma e d’idea. Tanti nomi pari ai luoghi. È luogo e materia offerta all’essere migliore, è dimora e territorio della generazione: lo spazio da cui ogni cosa comincia, «lo spazio in quanto può accogliere ed avvolgere, contenere tali luoghi. Perciò è uno spazio adatto a ricevere e a contenere3. Un corpo che accoglie altri corpi, tenendo conto che «in senso greco lo spazio viene considerato a partire dal corpo, come suo luogo e come contenitore di luoghi»4. Il corpo femminile è il corpo di Iside: è completo e va da solo. La sua immagine è Artemide, sorella gemella di Apollo e traccia costante della natura inviolabile che percorre la sua strada. L’essere umano costruisce naturalmente case e comunità; abita in una regione aperta costruendo una casa nel senso completo di soggiornare, amministrare, governare, trasmesso dalla parola greca oikos. L’oikos è il punto fisso, il centro dal quale lo spazio umano si orienta e si organizza; è la permanenza, l’abitato e il gruppo umano che vi risiede. Tiene insieme elementi eterogenei e costituisce, di fatto, il nucleo originario di un paesaggio. Abitare significa dimorare in un particolare ambiente umano con i suoi modi di pensare e di sentire, i suoi modelli di vita, le abitudini di un’esistenza5. Un paesaggio, luogo dell’abitare, è l’ethos, un ambito complessivo di vita attiva, un ampio edificio con il quale una comunità rivela il suo genio e la sua anima. L’ethos è il luogo con la sua tensione dell’esistenza: un paesaggio dove gli abitanti osservano le misure locali (nomoi). L’etica si occupa dell’agire, studia le relazioni tra l’uomo e il suo ambiente di vita. Si occupa dell’agire, in principio, infatti, «era l’azione» come recita il Faust e ricorda Emilio Sereni. Senza di essa non esiste paesaggio né vita attiva. Il sunto di questi significati, che ci conducono a entrare nei luoghi, spogli da una mentalità esclusivamente moderna di paesaggio, lo troviamo nel frammento 119 di Eraclito commentato da Heidegger: «Ethos significa soggiorno, luogo dell’abitare. La parola nomina la regione aperta dove abita l’uomo»6. Un pensiero senza bordi rivolto ai luoghi in ogni forma o aspetto sonda la loro profondità, entrandovi e aprendo prospettive con uno sguardo lontano per svelare l’accaduto e anche l’incognita dell’avvenire. Coglie la trama dei paesaggi e la continuità della narrazione: un pensiero che interroga i singoli differenti elementi di un quadro unitario e si pone domande. Da quali universalità è costituito questo paesaggio? Quale trama lo caratterizza e lo differenzia da un altro? Qual è il suo orizzonte e che cosa c’è oltre? Quali e quanti luoghi appartengono allo stesso paesaggio o ad altri? Dove arrivano l’orizzonte spaziale di un luogo e quello di un paesaggio? Sono valide le percezioni tattili e quelle visive? Che misure suggeriscono gli altri sensi? Quali relazioni intercorrono tra i luoghi? L’ampiezza di uno spazio è un fatto ottico o l’universalità di 2 Plutarco, De Iside 32 e 34. 3 M. Heidegger, Corpo e spazio, trad. it. di F. Bolino, il melangolo, Genova 2000, p. 29. 4 Ibidem. 5 Cfr. E. Volant, La maison de l’éthique, Liber, Montréal 2003, p. 87. 6 M. Heidegger, Lettera sull’«umanismo», a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 2002, p. 90. 44
un intreccio d’elementi? Gli abitanti che ruolo hanno? Quale sensibilità? Quale grado d’informazione e di conoscenza? Si riconoscono nei paesaggi percepiti? Che cosa intendono per qualità della vita? Il pensiero paesaggistico si fonda sull’idea di un sistema universale di corrispondenze tra tutti gli oggetti e i campi della natura, dell’antropologia, dello spirito, della geografia, delle idee, dell’ecologia, della psicologia e della fisiologia umana. Si basa sul criterio di visibilità del teatro. Legge le trame palesi e nascoste presenti in un orizzonte visivo dalla costante tensione tra spazio e tempo. Un paesaggio va immaginato come la scena di un teatro greco, dove si recitano gli avvenimenti accaduti in un luogo, caratterizzandolo; eventi rappresentati per la coscienza dello spettatore, per preservare responsabilmente il suo ambiente di vita, conoscendo la parte attribuitagli – la propria misura: il proprio nomos. La percezione degli accadimenti con la loro connessione è una fonte educativa di sapere e di riconoscimento, per sviluppare la coscienza dell’appartenenza come l’essere parte di un luogo. La recita porta a conoscere la profondità dei paesaggi e la loro narratività, che conduce a un’origine mitica che esprime la misura. Il racconto della nascita del mondo apre una narrazione eterna con un prima assoluto, abissale: un caos primordiale insondabile, inospitale, incomprensibile, che genera gradualmente lo spazio abitabile, ospitale, dotato di forme e figure, quindi di senso. Uno spazio visibile e sensibile. L’accadico Enuma Elis, prende nome dalle due prime parole dell’antichissimo poema, Quando in alto il cielo non era stato nominato/e in basso la terra non aveva nome, e introduce il concetto, comune al mondo semitico, della luce e del seno della Grande Madre Terra, con il ruolo creativo centrale del nome: la sua equivalenza con il luogo. La parola viene dalla voragine: una voce abissale. Indica il luogo, come Delfi, il luogo dei luoghi. Qui Apollo archegeta traccia la via in direzione dell’ethos abitabile, modificando lo spazio intatto della terra. Apollo, architetto del mondo, rappresenta lo spazio colto. Non è un semplice costruttore, ma un uomo portentoso (deinos), il più inquietante tra ciò che è inquietante, come ricorda Sofocle nel primo stasimo dell’Antigone, tracciando il mirabile percorso del suo luogo soggetto alla misura. Erige il cosmo con i luoghi dell’abitare in un insieme visibile di racconti ordinati che stupiscono e mostrano un’opera visibile con la luce. Sulla chora, spazio fisico, sorge la polis, aristotelico spazio vissuto dove parla e si cela al tempo stesso un accadere abbracciabile con lo sguardo. Racconto e narrazione sono due termini che ci accompagnano lungo questo percorso sul luogo. La chora, spazio fisico, si delinea sempre di più come ricettacolo di luoghi e di avvenimenti, dietro ai quali ci sono racconti degli eventi (accadere) che compongono una narrazione eterna, paesaggistica. Fare spazio si manifesta con un aprire la narrazione. A buon titolo Derrida, considerando ogni racconto la sede di un altro, paragona la chora a un ricettacolo che «dà luogo a tutte le storie»7. Ci troviamo di fronte al divenire nelle sue forme distinte. Possiamo allora considerare, al pari della chora, immedesimandosi in essa, la narrazione come ricettacolo di racconti, ripetendo con Derrida: «Non dimentichiamo che ricettacolo, luogo d’accoglienza o 7 J. Derrida, Il segreto del nome, a cura di G. Dalmasso e F. Garritano, trad. It. Di F. Garritano, Jaca Book, Milano 1997, p. 74. 45
d’asilo, è la determinazione più insistente … di chora»8, la terra accogliente. Un antico frammento attribuito ad Antifonte può introdurre il percorso narrativo dello spazio – chora. Recita testualmente: La vita dell’uomo ha la durata di un giorno con gli occhi rivolti alla luce9. Cerchiamo di comprendere la sua apertura «narrativa» al mondo. Lo sguardo sul mondo fonda lo spazio vissuto. È rivolto alla profondità dei luoghi per coglierne le trame dell’accadere – dell’aver luogo come evento pieno che esprime un accadimento, un avvenimento completo in un mondo che diventa «il luogo comune di un insieme di luoghi: di presenze e di disposizioni per dei possibili aver-luogo»10. La chora accoglie luoghi con le misure che li caratterizzano. Su di essa sorge la polis, spazio vissuto abbracciabile, in tutto ciò che accade, con un solo sguardo su un insieme ben visibile11. La polis è una totalità entro bordi e offre un’immagine con i propri significati, possibile fonte di educazione etico-estetica. Questi bordi racchiudono una visibilità sconfinata, comprensiva dell’invisibile, la dimensione del mito, scopo della tragedia12, che a sua volta è «la buona sistemazione di ciò che si vede»13, vale a dire l’allestimento dello spettacolo per leggere il luogo: un orizzonte di conoscenza14. Ha luogo nel theatron, che prende nome dalla luce e dalla vista nella sua potenza divina ed è il vero, luogo di luoghi. La lettura mitica della Poetica di Aristotele chiarisce la funzione del teatro e svela i significati dello sguardo sulla scena. La vista è lo spettacolo, l’orizzonte visivo, e il suo oggetto è l’universo della visione di un cosmo composto d’immagini formative. Esse costituiscono l’allestimento dello spettacolo: la visione offerta dalla tragedia, mimesi di un’azione seria con una certa estensione. La trama delle vicende rappresentate deve essere intera e completa per conoscere quella che chiamiamo forma finale del mondo, esito della narrazione. Fondamentale è la trama degli avvenimenti, vale a dire il ruolo dell’accadere nello spazio paesaggistico con le sue molteplici relazioni. Opsis, nell’insieme vista, spettacolo e apparenza indica nella sua ricca terminologia la potenza dello sguardo. Richiama la capacità del saggio di osservare il contingente, per cogliere ciò che è buono per sé e per gli uomini, vera eccellenza del politico15. Costruttore e abitatore di poleis, egli è capace di pre-vedere il fine e tutto lo sviluppo dell’azione, come se avesse in mente l’andamento completo dello spettacolo dall’inizio alla fine. Questa è la previdenza, eccellenza del saggio. Un legame chiaro tra la previsione 8 Ibidem. 9 Antifonte DK87B. 10 J.-L. Nancy, La creazione del mondo o la mondializzazione (2002), Einaudi, Torino 2003, pp.20-21. 11 Per la chora eysynopta, «abbracciabile con un solo sguardo» cfr. Aristotele, Politica VII.5.1327a1. 12 Aristotele, Poetica I 7.1451a5. 13 Ibid., 1449b32. 14 Cfr. Aristotele, Metafisica I 2.982b12-24. Vista e conoscenza sono sinonimi: eidenai, osservare, significa nello stesso tempo conoscere, un argomento ribadito da K. Kerényi, Religione antica (1995), trad. it. di D. Sassi, Adelphi, Milano 2001, p. 103. 15 Cfr. P. Aubenque, La prudence chez Aristote, PUF, Paris 1963, p. 56. 46
e la conoscenza data dall’esperienza dell’agire che fa dell’uomo pratico l’adatto all’azione. Quest’eccellenza possiamo trasferirla a chi si occupa del governo dei paesaggi. Il teatro, come percezione dello spazio, raccoglie i miti per narrare le vicende degli uomini oltre la temporaneità della vita umana. La tragedia rappresenta questa caducità nei luoghi, nella loro profondità etica, nella loro doppia, molteplice contemporaneità, nella trasformazione con i suoi problemi, le architetture, i luoghi storici e quelli negativi, che completano l’universo della visione. Un profondo orizzonte visivo svela l’abissalità del passato. L’occhio coglie l’esteticità diffusa del paesaggio, il suo pregio artistico di opera d’arte, ma anche quella raccolta, concentrata nello spazio contenuto di un luogo, dove il pozzo del passato diventa contemporaneo all’osservatore. L’accadere è ciò che ha luogo; rivela l’identità locale con la sua lettura, a partire dal presente, verso il passato o proiettata nel futuro. La sua comprensione richiede un pensiero senza bordi, paesaggistico, rivolto ai luoghi in ogni forma o aspetto, per sondarne la profondità, entrarvi e aprire prospettive: uno sguardo potente per svelare l’accaduto e l’incognita dell’avvenire. La buona visibilità d’insieme apre la lettura dei luoghi nella loro complessità e totalità. Il suo orizzonte è la conoscenza. Ha due forme distinte ma convergenti: una indirizzata a un universale, la theoria; l’altra rivolta al particolare, la sensibilità (aisthesis). Entriamo, così, nel luogo e leggiamo le sue geometrie palesi e nascoste. Il primo elemento che cattura lo sguardo è il quadro d’insieme del fenomeno ampio e complesso dello spettacolo: l’uno in se stesso distinto. Se questo percorso partito dal sorgere di uno spazio fisico sopra l’abisso con il nome di Gaia – chora – Iside, la terra madre matrice e ricettacolo di luoghi dove l’uomo abita con un determinato comportamento di custodia e coltivazione del campo, la vigna, curando il suo pascolo – nomos; se questo percorso è valido nella sua rappresentazione teatrale, possiamo spingerci oltre. Riprendere il teatro come luogo, spazio vissuto; il suo ingresso scenico, l’accessibilità spazio-tempo; il coro, con cinque preposizioni inserite nella dinamica racconto – narrazione: un mito, ossia un progetto di esistenza umana. Cinque proposizioni, dunque, per un progetto di paesaggio: 1) visibilità – luce: il ricettacolo di tutto ciò che si genera – chora – lo spazio – luogo di Dike, colei che tutto vede, il teatro; 2) temporalità – i gemelli divini; 3) Temporaneità – nomos; 4) accessibilità – parodos, il luogo di passaggio, l’accesso alla temporalità e alla temporaneità, la via che il coro attraversa per entrare nell’orchestra; 5) narrazione – stasimo, il canto sul posto. Queste indicazioni dovrebbero creare le condizioni per un’esperienza dello sguardo in sintonia con la narrazione di un processo paesaggistico, salvaguardando l’immagine unitaria dell’insieme con la sistemazione del visibile. Riprendiamole in chiave concettuale con i loro contenuti. La visibilità riguarda lo spazio dello sguardo con la sua profondità reale e immaginaria. Costituisce la premessa per una buona sistemazione del visibile attenta ai luoghi. La sua funzione estetica mira a quattro fattori essenziali: la percezione del bello, la cultura del gusto, la sensazione di piacevolezza e una manifesta qualità della vita. Si fonda sulla capacità dello sguardo quale eccellenza del paesaggista che sa disporre il visibile di una costellazione di elementi in relazione tra loro in: a) un quadro unitario; b) un’immagine senza confini; c) uno spettacolo; d) un orizzonte visivo; e) un insieme eterogeneo di differenze. 47
La temporalità è la connessione arte–natura–storia nel fluire del tempo. Forma il substrato della trama di un paesaggio nella sua trasformazione. Qui convergono natura, storia, tradizione, eternità, il flusso del passato–presente–futuro, lo sviluppo–trasformazione del territorio, la continuità delle generazioni e la vita nella sua accezione universale. La temporaneità è l’arco momentaneo della vita umana, magistralmente espressa dal frammento di Antifonte: la sua durata nella sua accezione particolare, singolare, con la sua possibile con-temporaneità con le altre epoche costitutive delle temporalità parziali, che abbiamo chiamato racconti. La temporaneità può occupare lo spazio di un racconto, parte della temporalità dove tutto fluisce. Per i sensi è percezione di luce e colore, odori, gusti, suoni, viste, trame, soprattutto l’esperienza tattile e visiva del corpo: il teatro quotidiano dell’azione dei singoli individui. L’accessibilità rende possibile l’ingresso nella temporalità e nella temporaneità, per cogliere un panorama con i suoi contenuti e conoscere il proprio ambiente di vita, ammirandolo; scoprire un paesaggio di qualità. È l’accesso all’accadere: sono le trame e gli avvenimenti che hanno attraversato un luogo, la scoperta del patrimonio, l’accesso all’identità. La narrazione, infine, connette i racconti in una forma definitiva con il suo senso, leggibile nel percorso contemporaneo, dal passato al futuro. È la pratica stessa che perpetua il processo di paesaggio, permettendo il conservarsi delle condizioni di un’esperienza dello sguardo per entrare nei luoghi e provare emozioni; per scoprire un sito e leggerlo nella sua totalità e particolarità. La narrazione organizza il processo di paesaggio. È poetica, creazione, fare artistico, un linguaggio che riscopre i contenuti dell’immanente, insito in un luogo costituendone i caratteri. La connessione, narrazione, della realtà, è una tensione, che, con la potenza dello sguardo, raccoglie tutti i mezzi dell’espressione artistica in un’unità; l’unità del mondo possibile, dell’uno in se stesso distinto contenitore simbolico ricco di significati con le loro facce esterne, sempre relative, mai assolute. Il tendere è l’attenzione, attentio. Svela il prima e il poi, salvando la conoscenza del divenire che persiste nel fluire del tempo, nel suo essere non ancora (futuro), non più (passato), adesso (presente): presente che accoglie in sé la duplice e molteplice contemporaneità. Racchiude il passato, l’adesso e il futuro, costantemente attuale nel corso dell’accadere temporale, in una cornice ordinata degli eventi. È narrazione: riconosce il locale a partire dal presente, verso il passato o proiettata nel futuro. Un pensiero senza bordi, paesaggistico, si rivolge ai luoghi in ogni forma o aspetto, per sondarne la profondità, entrarvi e aprire prospettive: consiste in uno sguardo proveniente da lontano per svelare l’accaduto e anche l’incognita dell’avvenire. Questo sguardo coglie la trama degli avvenimenti e osserva il contingente. Costituisce l’eccellenza del paesaggista con l’attenzione costante alle relazioni per la continuità della narrazione. La percezione attiva i sensi come fonte di sapere e di riconoscimento quale coscienza dell’essere parte di un luogo dove ci si riconosce, conoscendo nelle sue qualità lo spazio occupato dal corpo. Si riconoscono i segni e i simboli come propri, appartenenti a sé, con i caratteri determinati che li differenziano dagli altri. Dagli altri luoghi. Caratteri che possono essere eliminati dalla trasformazione e, di conseguenza, non più percepibili nell’orizzonte dello sguardo. Possono scomparire con la sovrapposizione di un altro paesaggio nello stesso spazio vissuto. 48
Il riconoscimento orienta e tende alla dimora, rivalutando il limite come simbolo di una soglia e dei suoi contenuti culturali. La tensione conduce all’attenzione per i confini, espressi, per esempio, nell’idea del terzo paesaggio di Gilles Clèment e che gli ecologi individuano nell’ecotono. La tensio è forte. Lo esplicita lo stesso significato di ecotono, in un gioco tra interno ed esterno, dentro e fuori. L’attenzione verte sui confini dell’agire e sui limiti di una specifica cultura: di un luogo, dell’ambiente. Potremmo definirla una tensione eco-etica. Il corpo occupa una dimensione reale e insieme immaginaria, dove agisce l’inclinazione verso l’una con la mediazione dell’altra, in un gioco di rimandi aperto alla coscienza di un effettivo radicamento spaziale: riconoscersi nei luoghi percependo la propria vita. Il limite non acquista solo un valore antropologico di relazione, ma anche psicologico, perché coinvolge processi mentali e comportamenti. Tra natura e cultura s’insinua la tensione verso la struttura originaria dell’abitare, circoscritta da un limite, base di un movimento che a essa ritorna. L’ecotono, zona di transizione e di tensione tra due o più comunità biologiche differenti, come, per esempio, la foresta e la radura, accoglie nel suo spazio non solo gli organismi delle comunità confinanti, ma anche quelli propri. Questo spazio è oggi un emblema della trasformazione e del mondo globale. Luogo dell’incontro di biotipi, è anche lo specchio di culture, siano esse vegetali, animali o umane. In un mondo in continua trasformazione, dove i luoghi accolgono differenti culture, lo stesso centro, quando rimane, si trasforma in un ecotono dove transitano e si soffermano diversi flussi etnici, dando vita a luoghi con rinnovate misure. La pratica di paesaggio è un processo di sistemazione che elabora relazioni, rapporti di paesaggio tra i vari spazi da sistemare in vista di un quadro il più possibilmente unitario nella sua eterogeneità: un progetto che tiene conto del residente. Ogni abitante, infatti, non può essere dissociato dal suo paesaggio; non può essere separato dalla bellezza del suo luogo di vita: un’estetica radicata nei luoghi che fa presa sull’immaginario di chi li osserva16. L’uomo è un animale politico, costruttore di luoghi dell’abitare pregiati, come la polis, che tende per natura a vivere bene in un orizzonte dove può scorgerne con lo sguardo la qualità. Ogni popolazione aspira a un paesaggio piacevole dentro il quale può percepire con soddisfazione le relazioni qualitativamente valide della sua esistenza. La Convenzione europea del paesaggio promuove questa tensione abbandonando la deriva romantica per recuperare la dimensione paesaggistica del territorio, risalendo alla visione originaria dei rapporti tra le cose e ritrovare così il significato dell’esistenza, riannodando i fili di una tradizione qualitativa del vivere bene nei luoghi, connessi al profondo significato della dimora: abito quindi sono. Ha ripreso una storia sociale spezzata da un concetto estetico parziale e prevalente, nato con la pittura di paesaggio e idealizzato dai Romantici alla ricerca del futuro nel passato di una natura immaginaria, ideale, desiderata ma irreale. Il dibattito sul termine Landschaft, per fare un esempio, ha percorso un ambito estetologico senza prendere in considerazione il suo fondamento etico-giuridico. Gli studi dello storico e giurista austriaco Otto Brunner; per tacere dei noti saggi di Max 16 Sul tema dell’identità estetica dei luoghi si rinvia a P. D’Angelo, Estetica della natura. Bellezza naturale, paesaggio, arte ambientale, Laterza, Roma-Bari 2001, p. 159. 49
Weber, Carl Schmitt e, più indietro nel tempo, Hegel, mostrano che il termine Land sancirebbe l’appartenenza di un popolo a uno spazio misurabile17. La stessa parola Landschaft la confermerebbe in quanto «popolo del Land» che forma una comunità territoriale, comprensiva di tutto il possesso comune, dall’ordinamento moralereligioso all’etica, alla consuetudine, alle tradizioni, vale a dire alla comunione dei valori etici, religiosi ed economici: tutti percepibili con lo sguardo. Friedrich Schiller, nel Saggio sulla poesia ingenua e sentimentale, aveva criticato questa deriva romantica in un’acuta lezione di filosofia della storia sulla natura ingenua e sentimentale, che differenzia l’uomo antico dal moderno. Il primo è natura e, come tale, ha una percezione estetica della realtà. L’uomo moderno ha perso la natura e, di conseguenza, la recupera col sentimento, formando così un’idea morale della stessa, non più estetica, bensì sentimentale, cioè morale. In questo modo nasce un concetto moderno del paesaggio, una storia di compensazione della natura perduta, per sempre. L’allievo di Kant scioglie il dilemma ricordando che il passato è passato e va lasciato al suo posto, non può tornare: una dura lezione ai romantici. Lo stesso Goethe, con Il trionfo del sentimentalismo, si pone nella stessa direzione critica. Paesaggio è vita in cammino che non rimane identica né statica, si trasforma, talvolta frastagliandosi, e accoglie forme e figure nuove, altre si disgregano. È un processo, un insieme di movimenti interattivi che non si presta facilmente alle regole del metodo scientifico, ma richiede molti saperi, profonde conoscenze: interdisciplinarietà fluttuante e invenzione. Questa può condurre a un’arte della trasformazione collegata al processo di paesaggio con le sue dinamiche aperte. I paesaggi sono ancorati alla vita umana, costituendo realtà sociali di persone e ambienti: luoghi per vivere e lavorare. Per la loro consistenza materiale o fisica e immateriale o psicologica, simbolica, rispondono a importanti bisogni sociali e culturali, contribuendo a funzioni ecologiche ed economiche. Un sincretismo unico, una trama assoluta rispecchia la sua multifunzionalità18. Per questo motivo non sono tollerabili formulazioni rigide. Paesaggio reclama, per sua stessa natura, accoglienza come sua madre, la chora, ricettacolo, genitrice e matrice di più idee e di forme, di tutte le storie, abisso della parola che nomina il luogo, concreta realtà che invita alla cura, alla conoscenza di un uno in se stesso distinto. Laplantine insiste sull’identità come produzione ideologica che pone limiti e barriere: una nozione di grande povertà epistemologica, ma di enorme efficacia ideologica. Un pensiero dogmatico dell’affermazione non permette la critica né dei propri enunciati né di quelli degli altri. Riproduce ciò che distingue. Non dà la possibilità di cogliere l’esistenza del singolare aperto all’universale19. 17 O. Brunner, Terra e potere. Strutture pre-statuali e pre-moderne nella storia costituzionale dell’Austria medievale (1965), tr.it. di G. Nobili Schiera e C. Tommasi, Giuffrè, Milano 1983, cap. III, pp. 231-330. Rinviamo a questo testo per quanto riguarda la bibliografia sul problema. M. Weber, Wirtschaft und Gesellschaft, Mohr 1922; C. Schmitt, Il nomos della terra, cit: G.W.F. Hegel, Rechtsphilosophie par. 151. 18 Cfr. M. Prieur, «Introduction», in AA.VV., Paysage et développement durable: les enjeux de la Convention européenne du paysage, editions du Conseil de l’Europe, Strasbourg 2006, pp.11-12. 19 Cfr. F. Laplantine, op.cit., p. 21. 50
Comprendere i particolari di un universale è invece la via per entrare nei luoghi e svelarli, riconoscerli. Per questo motivo l’antropologia, come pensiero della relazione, è fondamentale per un linguaggio nuovo di paesaggio. Occorre un pensiero rivolto all’esterno per afferrare i significati interni, per capire la produzione simbolica derivata dalla costruzione e dall’ordinamento dello spazio: un pensiero della tensione dell’esistenza, possibile a condizione di uscire dai campi metodologici limitati. Avremo allora le informazioni valide, segnalate da Emilio Sereni nel suo studio sul paesaggio agrario italiano, quando afferma che il dato paesaggistico «diverrà insomma per noi una fonte storiografica solo se riusciremo a farne non un semplice dato o fatto storico, ancora una volta, bensì un fare, un farsi di quelle genti vive: con le loro attività produttive, con le loro forme di vita associata, con le loro lotte, con la lingua che di queste attività produttive, di quella vita associata, di quelle lotte era il tramite, anch’esso vivo, produttivo e perennemente innovatore»20. Tensione dell’esistenza: i paesaggi sono ambiti economici e sociali, spazi di vita associata e di lavoro con i loro simboli, che subiscono un continuo mutamento parallelo alla società della quale sono la viva espressione visiva e mnemonica, producendo storia. Una costante, mutevole relazione tra società e ambiente fisico, tra uomo e territorio, svela le misure di questa tensione. Abbiamo seguito un percorso di ricerca etica ed estetica, partita da lontano, che sbocca nei problemi attuali del processo di paesaggio, da affrontare per garantire la qualità dei luoghi di vita. Il tema odierno non è quello accademico del concetto, estraneo a ogni estetica della progettazione, ma quello etico dello sviluppo, della durabilità, dell’omologazione e dell’identità locale, vale a dire della riconoscibilità di una narrazione con le sue relazioni. Immaginare le nuove dimensioni del duraturo è oggi il problema del processo di paesaggio.
20 E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Laterza, Bari 1974, p. 19. 51
Abitare i luoghi, etica e territorio
Carla Danani
C’è un’amicizia antica tra l’abitare e l’etica. Si deve infatti dire, dell’essere umano, che è “un abitante, di passaggio”: vivere è abitare; gli esseri umani dislocano nello spazio le storie e rendono storici i luoghi, nello spazio prende forma il tempo ed in questo i luoghi accadono. Ed ethos è appunto, prima di tutto, la sedimentazione esperibile di questo intreccio: vita condivisa che, anche attraverso la forma dell’istituzione, viene a realizzarsi, stabilizzarsi e trasformarsi, in senso sincronico e diacronico. L’etica, allora, è la prospettiva che interroga l’ethos, il modo di stare al mondo, di abitare: indica la responsabilità dell’agire, inevitabilmente preso nelle maglie del bene o del male. Meglio, anzi, declinare al plurale, e parlare di etiche: perché i modi di tale mettere in questione sono differenti e culturalmente declinati, anche se ciò non impedisce, anzi forse rende più urgente, la riflessione trascendentale circa le condizioni di possibilità di tale interrogare e sulle coordinate originarie che possono offrirsi come medio dell’elaborazione culturale e delle istanze di dialogo e condivisione circa il bene umano.
L’allocazione spaziale è costituzione fondamentale dell’umano Dal momento in cui viene alla luce, lo sviluppo mentale del bambino è ampiamente influenzato dallo spazio. Piaget sostiene che la stessa percezione del tempo viene rappresentata nel bambino, in età prescolare, mediante dati intuitivi soprattutto spaziali. e così la stessa anatomia umana, con le sue forme, le sue simmetrie, la sua postura, il suo bilateralismo che impone la distinzione tra davanti e dietro, tra destra e sinistra, tra alto e basso, dice di una rilevanza costitutiva della spazialità. Ne risulta un certo tipo di relazione pratica e conoscitiva con il mondo, con gli altri esseri umani come con le alterità non umane. L’essere umano non sta nello spazio come vi stanno le cose. Nel suo vivere “qui” – perché come ogni altro esistente si trova necessariamente collocato in un “qui” – è anche sempre “là”, in relazione cioè con tutti i “là” che non sono il proprio “qui” e da cui, pure, il “qui” è definito, talvolta nel modo di eccedere ogni misura del “qui”. L’intera problematica relativa all’abitare sembra raccogliersi proprio intorno a questo sorprendente legame tra il “qui” ed il 53
“là”: l’essere umano abita sempre in un “qui” che rinvia ad un altrove, abita sempre in un “qui” che è abitato e insieme inquietato dall’insistente rinvio al “là”. Questo legame con il “qui” e il “là” che caratterizza l’abitare non è mai qualcosa di pacifico e scontato. Si può abitare con senso di appartenenza, con estraneità o con indifferenza, si possono istituire legami che accolgono, proteggono, lasciano fiorire, oppure controllano e dominano. Per questo il modo di stare al mondo è sempre anche una “questione”: che si tratta di sottoporre a riflessione critica, a pratiche di gestione o trasformazione che non si sottraggano all’interrogazione sui loro effetti, le finalità, le intenzioni, le cause e le motivazioni. Per quanto sia umanamente problematico asserire in concreto che cosa sia “bene”, è impossibile dirlo determinatamente in via definitiva e assoluta, per quanto la storicità di ogni possibile risposta imponga la dismissione di qualsiasi pretesa di porsi dal punto di vista del bene stesso, l’abitare - come modo di stare al mondo dell’umano - è proprio l’incessante articolazione di tale “questione”, in cui si gioca la nostra umanità. Ogni agire implica, infatti, sia un rapporto con il reale in cui si compie, sia un rapporto con il codice cui si riferisce, sia un rapporto con sé stessi, come insegna Foucault: e tale rapporto non è, semplicemente, coscienza di sé, bensì costituzione di sé come soggetto morale.
Una congiunzione per due direzioni Sono almeno due le direzioni d’indagine suggerite dalla congiunzione “e”. Nella connessione di etica e territorio, rispetto a cui riflettiamo sull’abitare i luoghi, si tratta da un lato di provare a rivolgersi al territorio considerandolo in prospettiva etica: riflettendo in modo critico circa la direzione di bene di concetti, rappresentazioni, pratiche di trasformazione dei luoghi. Ci si può chiedere, cioè, cosa significhi avere un atteggiamento etico nell’aver a che fare con il territorio. È interessante, però, anche provare a invertire la direzione dello sguardo: e chiedersi, allora, come si debba pensare un’etica che tenga conto del fatto che la vita umana è sempre trascendentalmente allocata, cioè che vivere è abitare; provare, quindi, a rivolgersi all’etica per comprenderla a partire dalla costitutiva spazialità dell’umano, che precede lo stesso interrogarsi se lo spazio esista e cosa sia. È di certo un movimento non usuale, e tuttavia può rivelarsi molto fecondo. Ci sono modi di pensare l’esistenza degli esseri umani che ne interpretano la positività secondo la possibilità del suo emanciparsi da ogni “qui”, così come da ogni vincolo. Impostazioni di questo tipo derivano da una considerazione della finitezza nel segno del negativo, ovvero come qualcosa da cui l’integrità dell’umano sarebbe ferita, a cui si deve cercare di rimediare. Prendere le mosse dall’allocazione trascendentale dell’essere umano significa collocarsi in un orizzonte differente, che offre un’ occasione inedita per riconsiderare la prospettiva etica senza dover rinunciare alla fedeltà, alla finitezza.
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L’esperienza di essere “in” Comprendere che l’essere umano “viene al mondo”, che esistere è per lui trovar posto, esser-ci, che imparare a vivere implica il compito di familiarizzarsi con l’ambiente e orientarsi, evitando la confusione, la dispersione, la dissipazione, l’isolamento e l’omologazione, implica saper considerare ogni luogo come realtà fisica ma anche densa di spessore simbolico, come nesso di intersezioni, di relazioni di tipo funzionale, estetico, affettivo, cognitivo, con altri abitanti e altre realtà viventi non umane, ma anche con altri luoghi. Essere allocati implica innanzitutto, come già si è accennato, una relazione essenziale con il proprio “qui”: che è il luogo che si è e, però, anche non coincide con il sé, piuttosto lo ospita. Ci si orienta nel mondo sempre a partire dal proprio “qui”, da un proprio mondo come si suol dire, secondo un “dove” soggettivo che, però, allo stesso tempo, è sempre anche qualcosa di comune con altri, in quanto “là” di tutti coloro che non si è e, in definitiva, “qui” inappropriabile. Ma se la relazione con il mondo non può che avvenire da un “qui”, la conoscenza che se ne può avere è allora, sempre, “in prospettiva”. Ciò accade nel modo suggerito da Pavel Florenskij in La prospettiva rovesciata: dove mostra che è un grave pregiudizio pensare che l’osservazione debba avvenire in condizioni di immobilità, di sé stessi e della cosa osservata. Si deve essere, invece, consapevoli della propria allocazione sempre in presa con l’agire e il movimento: ovvero imparare a esser presso di sé, a non smarcarsi da sé stessi, e quindi a cercare ciò che è appropriato, aderente, sapendo, però, che la relazione è dinamica, reciproca anche se può essere asimmetrica, e che la precomprensione è costitutiva e si può solo metterla in gioco. L’esperienza del “qui”, che rende ragione dell’esistenza prospettica, è esperienza del limite: “qui” è “non là”. Da un lato il limite è condizione che rende possibile la vita. De-lira chi, come nel deserto, non riconosce confini. A nessun nomadismo ci si può appellare per contraddire la ricerca del luogo custodito da limiti : dove poter soggiornare (in latino limen è la soglia attraverso cui si penetra in un certo ambito o se ne esce, custodita dal dio Limentinus; limes è invece il cammino che circonda un territorio, che ne racchiude la forma). I nomadi portano con sé il tappeto: esso delimita dall’intorno e il sopra dal sotto, può stare sul suolo, sulla parete, sulla tavola, servendo alla vita senza poter essere ristretto al solo ambito dell’utile; a ogni nuova fermata segna e rifonda lo spazio, per poterlo abitare. Il limite distribuisce, include e insieme esclude: apre a questioni di (in)giustizia. Questa consapevolezza è una delle condizioni di possibilità della “saggezza sensibile”: virtù di uno stare al mondo avvertito della propria non extraterritorialità e non trasparenza, che si esercita nell’affinamento dei sensi e della complessità del pensiero, nell’attenzione al concreto e nella tensione dell’immaginario, nell’esperienza del limite che resta inquieta. Si impara, così, che essere allocati significa esistere separatamente gli uni dagli altri eppure insieme. E ogni luogo, ogni “qui” che non è “là”, si rivela non essenza chiusa coerente e definita, ma realtà essenzialmente aperta, permeabile, prodotto di legami, di nessi, di intersezioni in cui sono custodite insieme sia l’unicità sia l’interdipendenza con l’altrove. 55
L’esperienza di essere “da” L’esistenza quindi è sempre “in”, ma essa è anche muoversi e spostarsi, vivere di altro come ad esempio mangiare, inspirare ed espirare aria, lasciar traspirare i pori della pelle: in continui attraversamenti, ridefinizioni, oltrepassamenti. Come insegna la sapienza del confine, che è cum-finis, delimitare significa separare mettendo in contatto. Ed ogni limite, in fondo, è davvero conosciuto come tale in quanto compreso, ovvero in qualche modo oltrepassato, il che non significa cancellato. D’altra parte nel fare esperienza che il proprio “qui” è il “là” di altri “qui”, si sente il fascino, e l’urgenza, e la vertigine di provare a dislocarsi dove non si è. Possiamo allora riconoscere incessanti attraversamenti, e riflettere che ogni trasgredire avviene secondo direttrici, che seguono la traccia dell’orientazione offerta dalla nostra corporeità: per la quale sopra e sotto, davanti e dietro, destra e sinistra non si lasciano sovrapporre (le parti del cervello sono differenziate; le scritture nelle diverse lingue hanno un certa direzione che non si può scegliere a piacere; quando si cade si va sempre giù e voltare le spalle è tutt’altra cosa dal guardarsi negli occhi...). Attraversamenti, sporgenze, trasgressioni diversamente oltrepassano il limite: e tuttavia mantenersi nella preoccupazione di non de-lirare significa custodire in qualche modo un sapere della linea, del confine. É la dinamica del familiarizzarsi con il mondo, con le sue possibilità e potenzialità. Ciò non vuol dire rendere evitabile lo spaesamento: che resta non solo nell’ordine del possibile, ma continuamente insorge. É lo stesso essere al mondo che resta fonte d’inquietudine: non può, infatti, trovare un limite appropriabile, perché il mondo non è nulla che ci appartenga, né lo costituiamo: precede. Si deve inoltre considerare che comprendere la trasgressione come cifra autentica dell’umano implica riconoscerne la condizione di possibilità nell’apertura ad un intero che ne è l’orizzonte, seppure indistinto, dato di volta in volta in adombramenti determinati e inadeguati che rinviano ad un oltre, in un trascendimento inoggettivabile. L’essere umano si coglie come l’aperto: e tale apertura non si offre come il frutto di una sua eventuale decisione, ma come il tratto essenziale ed originario del suo più intimo modo d’essere. In tutta l’ambigua duplicità di ciò che questo termine, aperto, porta con sé: l’essere umano non è mai chiuso in sé ma sempre aperto non solo all’altro, ma dall’altro, esposto all’altro, anche soggetto all’altro. Si dice, infatti, che non solo si vive, ma anche si fa esperienza della vita: laddove questo “fare” non dichiara una presa sull’esperienza, quanto un essere fatti da essa, un essere presi in essa. Certo non c’è esperienza laddove non sia presente la singolarità di un soggetto, ma esperienza c’è nella misura in cui questi è originariamente un soggetto-a e non solo un soggetto-di. Ne deriva la messa in discussione di una certa concezione dell’identità che rischia, spesso inavvertitamente, di risolvere l’intera soggettività, in modo inadeguato, nella piena presenza a sé, nella compatta realtà dell’io padrone di sé, capace di ordinare a sé ciò che lo circonda. É la lezione dei cosiddetti maestri del sospetto, Marx Freud Nietzsche, che però non va disgiunta dalla consapevolezza di quell’essere homo capax, come dice Paul Ricoeur, che si coglie nella responsabilità del proprio “qui”.
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L’esperienza di essere “con” L’attenzione alla struttura della nostra esperienza ci mostra che non si abita mai da soli: l’essere della vita è inter-esse, la vita è sempre relazione. Abitare è fare esperienza della molteplicità e dell’alterità, in modi differenti: l’essere umano è un vivente alle prese con le proprie esigenze vitali ma non è solo questo, coglie l’altro anche come altro, vale a dire come ciò il cui essere non si risolve nell’essere un “oggetto”, né nella sua utilità o un suo essere “per me”. La comunanza si dà quindi come un originario e, in questo senso, non è qualcosa che sia da fare. Ma in un altro senso è anche ciò che è da costruire: perché allo stare insieme si deve anche dar forma. I Greci pensavano che fosse l’amicizia ciò che tiene unite le città, e quindi ciò di cui il legislatore dovrebbe soprattutto occuparsi: sia essa fondata sul bene oppure anche sull’utile o il piacere. La philía è presentata come un co-esistere che è un consentire, una reciproca appartenenza in cui l’alterità degli amici non va perduta, un co-appartenersi di irriducibili. Se tra soci c’è un accordo pattizio, convenzionale, non si è invece amici per un patto, ma per il riconoscersi dell’uno, dell’altro, del comune appartenersi che non è né dell’uno né dell’altro. Grande è davvero il valore delle belle relazioni di amicizia. Tuttavia una riflessione sull’essere in comune deve rendere giustizia, contemporaneamente, anche all’esperienza dell’estraneità: laddove non si tratta di riconoscere che qualcosa “per ora”, in relazione a una certa persona, un certo gruppo, un certo processo, non è ancora appropriato, conosciuto, familiare. Tale consapevolezza non basta, perché può annidare in sé il rischio dello sguardo che ha già predisposto l’ordine del discorso per ciò che pur non conosce: il rischio, quindi, è di preparare una integrazione cui sfugge il vero incontro. Il riconoscimento della comunanza deve piuttosto concedere all’estraneo il proprio spazio, quale apparire di una estraneità cooriginaria, non riducibile o riconducibile ad altro, e tuttavia relazionale, come mette in luce la fenomenologia di Bernard Waldenfels. Egli osserva che fare esperienza dell’altro, héteron, e fare esperienza dell’estraneo, xenon, è quindi ben differente: la diversità di genere, così come quella delle lingue, indicano realtà non riconducibili ad una differenza come possono esserlo, ad esempio, due tavoli o due fiori. È vero, infatti, che sia l’uomo che la donna sono esseri umani, ma se una delle due realtà è presa per il tutto si opera una riduzione che incide sull’essenziale: nessuno dei due può essere derivato dall’altro, né davvero essere superato nell’universale. È vero che, dell’estraneo, si parla, che ci si riferisce e ci si rapporta ad esso: ma questo essere accessibile, che peraltro è tale sempre a partire dal proprio, rivela un inaccessibile. Se non mi fosse per nulla accessibile, neppure avrei l’esperienza dell’inaccessibile, ma nell’accessibile c’è qualcosa di inaccessibile. L’estraneo è ciò che non può rientrare nell’ordine del proprio, e tuttavia lo inquieta. All’etica e alla politica lo spazio del “con” si apre così come articolato dai molti modi di presentarsi della pluralità. Per la comunità-che-si-fa si pongono allora almeno tre questioni, che interagendo la costruiscono dandole una certa forma. La prima riguarda il fattore fondante dell’ordine della convivenza, le buone ragioni che lo interpretano e lo sostengono, e anche i modi in cui esse vengono a esprimersi, rappresentarsi, consolidarsi. La seconda rinvia alle relazioni tra coloro che nel 57
comune convengono. Infine essa si determina rispetto ai rapporti con soggetti e ordini di alterità che le restano al di fuori.
Dal luogo all’etica al luogo Dopo aver cercato di ripensare l’etica a partire dalla considerazione che vivere è abitare, si tratta allora di provare a riflettere su cosa possa aver da dire una prospettiva etica consapevole dell’allocazione trascendentale dell’umano, e quindi da essa istruita, circa il “buon” modo umano di relazionarsi ai luoghi ed al territorio. Una postura così ripensata si rivolge al territorio ed ai luoghi avveduta dell’urgenza di tener conto della loro rilevanza costitutiva per gli esseri umani: conosce dall’interno la loro pertinenza intrinseca alle questioni della “vita buona”. Si rivolge perciò alla domanda “come abitare?” secondo alcune istanze. Innanzitutto i luoghi non sono tabula rasa, pagine bianche, una mera estensione: sono anche sistemi di significato, custodi di senso. I territori, plessi di luoghi, sono a propria volta una determinata organizzazione materiale ed una struttura specifica della quotidianità e delle relazioni sociali, ma sono anche narrazioni, sono configurazioni di forme fisiche peculiari ma anche di luoghi mentali e culturali, mondi narranti. Sono pietre che raccontano e racconti che si fanno pietra. Non possono essere considerati meri oggetti plasmabili a piacere: hanno una loro soggettività, che richiede un aver cura, prima ancora di doversi preoccupare di come curare. È inadeguato, perciò, un approccio funzionalista, che intende il territorio come mero supporto tecnico-funzionale della produzione, dove regolatore è il mercato e i danni ambientali e il pericolo vengono monetizzati. Tale impostazione, che può essere solo correttiva, è incapace di far fronte al rischio del degrado, perché non può incidere sulle sue cause. Ciò che va messo in questione, infatti, è la regola del modello di approccio, intervento e trasformazione. Attenzione alle invarianti strutturali, alle permanenze, ai significati, alle relazioni che tutelano e includono, che non fanno violenza, alle ricuciture, significano un’altra logica. In questo senso si deve ripensare all’idea di patrimonio territoriale, ed alla distinzione tra valori e risorse: il territorio non va compreso secondo la prospettiva che possa servire a fare qualcosa, a produrre rendita, ma innanzitutto in quanto importante per essere e diventare “qualcuno”, come afferma Tomaso Montanari. Una collettività, come fenomeno politico e sociale storico, non è infatti un mero dato di fatto, ha un costituirsi (che è continuo), struttura relazioni (che certo sono anche di potere), deve conservare la propria identità (che è dinamica): il patrimonio territoriale è il laboratorio dove questo è possibile. Ne consegue l’urgenza di un ripensamento della questione della sostenibilità, che non può essere codificata solo secondo i paradigmi quantitativi della salvaguardia dell’ambiente naturale e della compatibilità economica. Una seconda istanza riguarda la cura delle forme del rappresentare. I luoghi custodiscono le condizioni della vita e della riproduzione della vita, nei loro elementi materiali e immateriali; essi sono contesto e contenuto di pratiche sociali le quali, a propria volta, sono possibili in quanto significative, cioè non esistono solamente perché efficaci. Peraltro si deve considerare che il patrimonio di parole, narrazioni, 58
immagini con cui comprendiamo ed esprimiamo i luoghi in quanto sistemi di significazione è una componente importante dell’immaginario sociale, prodotto dal lavorio individuale e collettivo. L’immaginario, che permea la vita quotidiana, abita nell’interiorità degli individui e circola nella società attraverso processi comunicativi: non va inteso solo come un insieme di risorse a disposizione degli individui, è un filtro attraverso cui la realtà è compresa ma anche costruita, è conoscenza ma anche interpretazione dotata di risonanze valutative ed emotive. Ogni descrizione, come ogni mappa, ha una dimensione performativa: essa può essere prescrittiva (quando sceglie caratteristiche e condizioni che possono facilitare o ostacolare trasformazioni); predittiva (se sceglie le variabili e le relazioni richieste da modelli previsionali); persuasiva (quando sceglie i fatti che legittimano certe scelte progettuali); oppure anche euristica allorché apre all’immaginazione. C’è quindi una responsabilità del dire e del rappresentare: nella scelta di tracciare o trascurare, di risaltare o collocare in secondo piano, nell’uso di certe parole o tonalità. Ogni forma di rapporto di potere, infatti, anche quando sembra basarsi solamente sull’uso della forza o del denaro, ha una dimensione simbolica, per cui il rapporto di forza trasfigura in un rapporto di senso: narrazioni e rappresentazioni possono svolgere quindi funzioni di legittimazione nei confronti dell’ordine vigente, favorire l’integrazione sociale sia nella condivisione sia come arte della compensazione illusoria, oppure anche servire la critica, aprire ad alternative. Peraltro l’immaginario agisce, nella pratica e nel fare della società, come senso che organizza il comportamento umano e le relazioni sociali indipendentemente dalla propria esistenza per la coscienza di tale società. In terza istanza la domanda circa “come abitare” investe la cura della comunanza. Si deve a Georg Simmel una prima indagine sociologica puntuale sul nesso tra configurazioni sociali e forme spaziali, poi gli studi di Foucault hanno mostrato come i luoghi, proprio attraverso una certa organizzazione dello spazio, proiettino una caratterizzazione, un sistema di valori, costruiscano un modo di strutturare i rapporti e di regolare la circolazione tra diversi elementi. Le configurazioni spaziali, diceva Simmel, sono condizione e simbolo della socialità. Si tratta di fare attenzione, alle diverse scale (innanzitutto architettonica, urbanistica e territoriale), anche agli elementi materici così come alle relazioni tra i luoghi, alle accessibilità ed alle funzionalità, alle proporzioni tra pieni e vuoti e con l’intorno, alle disposizioni, ai passaggi, alle aperture ed alle trasparenze, oltreché ai significati, alle narrazioni, alle organizzazioni ed agli elementi simbolici. C’è una costruzione negativa dell’identità, in rapporto alla territorialità: elaborata sulla rappresentazione di un comune che si definisce in relazione ad un nemico. C’è una costruzione positiva: lavora sulla rappresentazione di un comune che diventa riconoscimento e progetto di condivisione. Lealtà e attaccamento, nella vita reale di uomini e donne, hanno comunque bisogno di immagini, di colori, di sapori, di musiche per nascere, rimanere vivaci e rinnovarsi: hanno bisogno di quegli elementi rituali che sono espressi anche in figure sensibili, in forme che danno concretezza e rendono esperibile sensitivamente, affettivamente, il principio comunitario cui pure rinviano. La memoria collettiva necessita di luoghi concreti in cui trovare dimora: come ha sottolineato Pierre Nora, parlando di “luoghi di memoria” che non sono ciò di cui si ricorda ma il dove in cui la memoria lavora; non la tradizione stessa, ma il suo laboratorio. 59
La questione della comunanza investe, inoltre, anche la pertinenza collettiva delle decisioni che riguardano le configurazioni dei luoghi. È il tema della partecipazione per la costruzione di un patto territoriale condiviso, con attenzione particolare al fatto, inedito nelle sue forme, che le identità territoriali sono oggi multiple e caleidoscopiche. Si impone, infine, l’istanza della cura della misura. Come si è cercato di dire, la ricerca del bene si persegue lungo l’asse che identifica l’umano nella sua polarità irriducibile di finitezza e trascendimento della finitezza. Non c’è azione umana, per quanto creativa e inventiva, che possa concepirsi come pura e semplice creazione, ossia come origine: c’è altro, c’è sempre dell’altro e questo è precisamente ciò che non si costruisce, non si inventa. Ogni singola iniziativa umana, ogni possibile edificazione o costruzione umana, non può che accadere all’interno di un già accaduto, di una scena che essa, proprio perché “inizio” ma non “origine”, è sollecitata ad innovare, a coltivare, ma al tempo stesso anche ad accogliere e a custodire. C’è un limite invalicabile, di cui l’umano ha da tenere conto: ogni agire è già sempre preceduto. Ma dire finitezza non significa ancora misura. Può esserci una hybris della finitezza: ci si può infatti interpretare come soggetti finiti, senza per questo essere esenti da pulsioni di arroganza e di prevaricazione. Anzi, l’arroganza del finito che si ritiene sciolto da ogni vincolo può, talvolta, assumere uno spessore incontrollabile. È nella relazione all’intero (rinvio qui alle riflessioni di Virgilio Melchiorre e di Francesco Totaro), a un totalmente positivo a cui ci si dispone sempre senza disporne mai, che la finitezza trova la giusta misura e, in questa misura, la matrice di un’etica della cura che prende sul serio la finitezza come apertura responsabile, in una familiarità con lo spazio - per il tramite del corpo - che è più antica del pensiero.
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Tornare ai paesaggi fragili
Antonella Tarpino
Abbiamo visto sorprendenti borgate abbandonate dell’Appennino reggiano inserite in una storia, nella loro Storia. E così, dentro un contesto, vanno colte segnando una distanza con quella linea neoromantica un po’ troppo di moda che esalta l’estetica delle rovine in sè (e la sua conseguente storytelling) mentre l’abbandono prima di essere un’esperienza sensoriale ed esotica è un problema che ci riguarda tutti. Che ci interroga invocando (dalla sociologia di Georg Simmel al più contemporaneo Manuel Cruz) il senso di responsabilità di una cultura, di una società verso il proprio passato. E che quel passato la nostra contemporaneità non riconosce più, segnata dal dispotismo del presente (la tirannia del Presentismo secondo l’espressione coniata dallo storico francese F. Hartog). Assecondando proprio quell’idea di luogo che ci ha mostrato Massimo Venturi Ferriolo come ethos: vita attiva nel gioco di scambio tra gli individui, tensione verso l’oikos che Venturi definisce, significativamente, come eco-etica.
Spaesati e spaesamento Ecco perché parlo di paesi che io definisco spaesati in senso tecnico (cioè paesi che hanno perso la forma di paese S-paesati). Tanti ne ho visti e studiati dalle Alpi nord occidentali alle cascine-villaggio cremonesi, dall’Irpinia alla Calabria. Ma insieme tali, come sarà capitato a molti di voi, da farci sentire a nostra volta spaesati, disorientati incapaci di collocare queste visioni nell’orizzonte della nostra quotidianità. E lo spaesamento l’ho avvertito nel corso del mio racconto fortemente empatico con questo paesaggio sofferente dell’Italia, quasi fosse una condizione fisica, geografica e non un prodotto di distorsioni storiche, politiche in senso lato. L’ho avvertito, non solo in senso dolente, ma anche costruttivo, conoscitivo, perché da una prospettiva insolita, inedita, ai margini appunto ho visto le cose, il mondo circostante in modo diverso. Da un osservatorio rovesciato ho colto nuovi significati delle parole a me consuete. Lì c’é un futuro che riparte dai luoghi, feriti, ricuce legami, tracce di comunità (con tutto il carico di ambivalenza anche di questa parola). 63
Spaesati ancora come Spaesata è in fondo la forma stessa del nostro Paese con la P maiuscola: diviso come è tra: • i Troppo vuoti delle montagne e degli interni. Ecco i dati di Legambiente: più di 6000 borghi in abbandono che insistono – questo elemento è ancor più inquietante – su 100.000 Kmq dell’intero territorio nazionale a fronte dei Troppo pieni (le periferie urbane e le coste su cui si sono rovesciati, almeno fino a pochi anni fa, 8 chilometri di metri quadri di cemento al secondo). • i Troppo pieni e troppo vuoti (mi valgo delle categorie di uno storico, io stessa del resto lo sono, come Maurice Aymard successore di Fernand Braudel all’E.H.E impiegate per l’area mediterranea). • Troppo pieni delle città e delle periferie e troppo vuoti delle montagne e degli interni, paradosso a cui si aggiungono di recente i Troppo vuoti che si sono aperti anche nelle aree dismesse dei Troppo pieni, le città industriali in pesante ripiego.
Rovine e macerie Troppo vuoti è il caso dei tanti borghi per esempio della montagna alpina nord occidentale svuotati negli anni Cinquanta per ingrossare i Troppo pieni delle periferie delle metropoli industriali (ho presente in particolare il caso di Torino con la Fiat e la Michelin su cui si sono riversati il 70- l’80 per cento delle valli montane cuneesi). Un genocidio culturale così l’ha definito lo scrittore Nuto Revelli nei suoi celebri libri Il mondo dei vinti e l’Anello forte. Parliamo di periferie industriali di un mondo però – attenzione – ora pesantemente in macerie, con la grandi fabbriche abbandonate e interi capannoni industriali lungo la pianura padana disertati dalla vita e dal lavoro. Mentre le rovine dei borghi rurali della montagna povera e degli interni sono state decretate da quel mondo dell’industrializzazione e del cosiddetto “progresso” che sembrava inarrestabile. Un processo segnato dalla storia – quello della transizione dell’Italia da paese contadino e agropastorale a forte concentrazione industriale – patentemente “malgovernato”. Ho avuto occasione di ascoltare di recente a un convegno della Fondazione Mattei a Milano la confessione di Giuseppe De Rita, presidente del Censis e autore dei cosiddetti patti territoriali, per l’illusione che molti tecnocrati illuminati hanno nutrito. E cioè che il Centro, le metropoli italiane protagoniste dello sviluppo fordista del Paese e della politica nazionale, aprisse prima o poi il dialogo con i territori in gran parte rurali e contadini. Che questo percorso di contaminazione tra centro e periferie fosse in qualche misura inevitabile. Invece non è avvenuto. Città e ruralità, peggio ancora la montagna, (che pur rappresenta il 30% e più del Paese) vivono vite separate. Nell’illusione (anche qui non mantenuta) che il progresso e la crescita economica sarebbero continuate all’infinito colonizzando le aree finite ai margini come meri supporti quando non usandoli come fonti da depredare di materie prima (pensiamo all’energia idrica e al legname delle montagne). Fino a ieri o all’altro ieri. Adesso il motore dello sviluppo si è inceppato. Ma è in questo collasso del centro, di un progresso arrestato che i tanti Vuoti aperti nelle aree 64
marginali ricominciano ad avere una nuova visibilità. È ai margini che, come diceva la poetessa afroamericana nota con lo pseudonimo di Bell Hooks, si può dispiegare, in questi spazi liberati, il massino di potenzialità.
Abbandoni e ritorni: sguardi nuovi È per questo che occuparsi di paesi spaesati, abbandonati, di quel che definisco il nostro Paesaggio fragile, libera prospettive di futuro. A patto che sappiamo guardare i nostri paesaggi con sguardi nuovi. Perché i percorsi dell’Abbandono hanno a che fare, oltre che con le dinamiche economiche, politiche e sociali mal governate, anche con un problema di natura culturale: perché, mi riferisco all’Alto Mugello dell’inchiesta di Don Milani e della sua scuola di Barbiana come alle Alpi Nord occidentali, l’abbandono avviene in sostanza quando un gruppo non si riconosce più in senso storico-antropologico nella sua cultura fino a divenire anzitutto “invisibile a se stesso” (ce lo ricorda con questa folgorante immagine il poeta Andrea Zanzotto). Come è, contemporaneamente, un problema anzitutto culturale il percorso inverso dell’Abbandono che io chiamo Ritorno ai luoghi dell’abbandono, ai troppo vuoti che minacciano anche l’equilibrio idrogeologico del nostro Paese. Ma che cosa si intende per Ritorno? Il Ritorno va inteso non come un Movimento all’indietro, ma anzitutto una operazione mentale, culturale, sperimentale in avanti a cui è urgente educarsi. Il Ritorno è il lavoro di uno sguardo non nostalgico, semmai eversivo come mostra la stessa etimologia del termine che viene (scopro dal dizionario di Tullio de Mauro) da “girare il tornio”. Invertire la prospettiva tutta lineare (lineare è il contrario del movimento circolare del tornio) propria della Crescita dello Sviluppo infinito per contaminare saperi sedimentati nel tempo (e nello spazio locale) con nuove consapevolezze di ordine culturale e tecnico. Definirei il Ritorno un Laboratorio non solo di contaminazione, ma – per usare un termine insieme desueto e in voga presso gli archistar – di ricucitura, di rammendo, e proprio: • tra i troppo pieni delle città e delle periferie e i troppo vuoti delle terre alte e degli interni; • tra la vecchia (questa sì) polarità tra margini e centro che in epoca globale e postfordista ha perso il suo disegno invocando una nuova idea di cittadinanza che non discrimini le coordinate geografico-territoriali degli abitanti. Tuttavia, a differenza che nell’esodo caotico e ingovernato dell’abbandono negli anni del boom industriale, il Ritorno va governato (è il lavoro degli amici Territorialisti), studiato, reinterpretato. Credo anche insegnato, o sperimentato, insieme a chi Ritorna. Per qualificare il senso oggi dell’operazione del Ritorno mi affido al linguaggio un po’ eretico dell’antropologia dell’innovazione di Jean Pierre Olivier de Sardan che pensa a quella che lui chiama l’Antropologia dello sviluppo non solo come a un insieme di saperi e tecniche, ma come a un processo sociale complessivo, a un modo nuovo per esempio di organizzare vecchi saperi: è il caso delle innovazioni in campo agropastorale. 65
Paraloup Abbandono e Ritorno. Ho partecipato in prima persona a un’esperienza per me fondamentale: il recupero della borgata, un alpeggio a 1400 metri delle Alpi cuneesi in una valle, la Valle Stura, che ha perso più del 70% dei suoi abitanti negli anni dell’esodo e dei processi scomposti di industrializzazione. La piccola borgata alpina si è ritrovata al cuore della storia d’Italia del ‘900 pochi giorni dopo l’8 settembre del 1943, quando le sue baite ospitarono una delle prime bande partigiane (se non, a dire il vero, la prima, dicono gli storici) guidata da Duccio Galimberti (quello per l’appunto di Morti di Reggio Emilia nominato insieme ai fratelli Cervi) e Livio Bianco e poi da Nuto Revelli che la Fondazione, a lui intitolata, ha deciso di ristrutturare nel 2008. Tra le baite ora rinate l’evocazione del periodo partigiano è ancora forte in quelle vallate ma quella memoria si salda, con la memoria di un’altra guerra (persa) quella della cultura della montagna spenta negli anni del boom industriale, abbandonata con l’esodo di interi paesi trasferiti per così dire in pianura, nelle fabbriche, ora però in parte disattivate, impoverite di lavoro e di lavoratori. Perché ricostruire Paraloup allora? Per ricordare, con la materia tenace dei suoi fondali, la Resistenza che oggi mi par di poter dire è equivocata, sempre ostaggio degli usi e abusi del discorso storico. Ma non solo. Direi per dare un senso all’abitare di chi vive ancora in valle, a quei gruppi che hanno scelto di restare a duro prezzo, nel vuoto di politiche a sostegno di una area sostanzialmente abbandonata. Paraloup deve tornare a essere un luogo portatore di senso che si presti a far ritrovare alle comunità della valle le ragioni dello stare insieme. Si proporrà come un punto di “riconoscimento” (l’espressione di Paul Ricoeur) fra individui e comunità cicostanti. Che ancora resistono, invocano un ritorno alla montagna. Dove però parole come “Identità”, o come la stessa “Memoria”, si offrono esse stesse ad essere ripensate. Memoria, non tanto come tradizione o nostalgia, ma come posta in gioco di una battaglia per ridare cittadinanza alle cose che si ritiene contino (tanto più entro uno spazio pubblico oggi costantemente eroso) perchè trovino posto in un racconto condiviso, saldino legami vecchi e nuovi. E anche la parola Territorio. Ho toccato con mano tra le case malandate (dell’Irpinia, tra le cascine spettrali della bassa lombarda) che il territorio non è solo sinonimo di paesaggio, è lavorato dai gruppi, anche quelli scomparsi, che hanno lasciato però tracce profonde, dai legami comunitari e dalle guerre dei legami. Dai conflitti. Oggi i territori più che in passato sono protagonisti di una rivoluzione preliminare dello spazio in senso lato della Politica. Già a partire dalla etimologia: oltrepassando, per così dire, il confine questo sì ideologico della sola Polis (per altro ora quanto mai pericolante) per incontrare Demos più estesi, soggetti di democrazia deboli (aree di esclusiva depredazione, penso alle montagne spopolate, o aree di puro attraversamento, il Terzo Valico o la Valle di Susa del Tav, o depositi di discariche (Il Formicoso in Irpinia, aree del napoletano in piena riconversione industriale) per non dire dei vuoti della Calabria.
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Epilogo, il paese sull’appennino modenese… Percorso inverso rispetto al ritorno a Paraloup – luogo simbolo della Resistenza riportato in vita dalla Fondazione Nuto Revelli – quello di sapore letterario raccontato da Elio Vittorini per la fantasiosa località nell’Appennino modenese (“il paese su nei monti”) ricostruita, nell’immediato dopoguerra nel romanzo Le donne di Messina da un gruppo di profughi e partigiani in fuga dai miti dell’Italia del primo boom. Con le donne arrivate dal Sud che scaricano mattoni dal camion guasto. Una tettoia che rinasce vicino a un vecchio albero. La Chiesa adibita a dormitorio, una locanda senza vetri da aggiustare, le “case rotte” da riparare. È un romanzo morale, la ricerca di un villaggio dell’Utopia quello delle Donne di Messina, e insieme un romanzo corale in cui tutti, come nel sogno di una società di eguali si confrontano, mostrano apertamente i loro dubbi. Riporto una frase che riecheggia quasi da vicino, profeticamente le disillusioni di De Rita citate in apertura: “Darsi da fare in un villaggio era fatica sprecata perché un villaggio era periferia, mica centro, e una conquista che si otteneva al centro raggiungeva presto o tardi la periferia, ma non il contrario; la vita procedeva a partire dai nodi, dai crocicchi, dagli incroci, non già a partire dai capillari, e dunque era nelle città che occorreva impiegare le forze, nelle fabbriche, nelle camere del lavoro, nelle sezioni di partito, nelle piazze….”
Allora però, oggi non è più così: le fabbriche sono in ripiego, le piazze mute, i partiti in piena agonia. Invece i luoghi finiti sotto traccia ci possono dare qualche speranza di futuro, in un orizzonte sostenibile, discosti dalle macerie che devastano il centro. Non a caso Tra il 2009 e il 2011 si registrano circa 2000 nuovi insediati in tutto l’arco alpino italiano: lo apprendo dalle relazioni tenute al recente Convegno del Politecnico di Torino sul Ritorno in montagna organizzato da Dislivelli e dalla Società dei territorialisti. “Ancora pochi”, “già tanti”: si può commentare come si vuole il dato, sarebbe interessante averne di più attuali. Certo è che il Ritorno è comunque una tendenza destinata a crescere, sperimentando nuove forme di associazioni economiche come ad esempio le Associazioni fondiarie, la messa in comune dei diritti di pascolo e di pulizia del bosco. Obiettivi precisi su cui ci stiamo muovendo per favorire anche un’iniziativa di legge nazionale che ancora in Italia manca, a differenza che in Francia (ma è notizia recente la Legge sull’Associazione fondiaria promulgata, unica in Italia, dalla Regione Piemonte) Mettersi insieme, socializzare le risorse è il senso principale delle operazioni di Ritorno ai nostri paesaggi fragili per guardarli con nuovi sguardi e insieme avendone ri-guardo.
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Bibliografia De Sardan P.O., Tornare J., Antropologia dello sviluppo. Saggio sul cambiamento sociale, Cortina, Milano 2008. G. Simmel, Saggi sul paesaggio, a cura di M. Sassatelli, Armando, Roma 2006. Revelli N., L’Anello forte. La donna: storie di vita contadina, Einaudi, Torino 2005. Revelli N., Il mondo dei vinti, Testimonianze di vita contadina. La pianura. La collina. La montagna. Le Langhe, Einaudi, Torino 2016. Tarpino A., Spaesati. Luoghi dell’Italia in abbandono tra memoria e futuro, Einaudi, Torino 2012. Tarpino A., Il paesaggio fragile. L’Italia vista dai margini, Einaudi, Torino 2016. Venturi Ferriolo M., Percepire paesaggi. La potenza dello sguardo, BollatiBoringhieri, Torino 2009. Venturi Ferriolo, Paesaggi in movimento, Derive e Approdi, Milano 2016. Vittorini E., Le donne di Messina, Bompiani, Milano (1949-64 1°ed.). Zanzotto A., Luoghi e paesaggi, Bompiani, Milano 2013.
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Abitare la terra I sistemi agrari italiani e la storia del paesaggio
Rossano Pazzagli
Siccome siamo nella prima sessione di questa edizione della Summer School “Emilio Sereni”, vorrei fare una cosa che qui abbiamo fatto altre volte e che costituisce la base dei nostri ragionamenti: quella di collegare l’agricoltura al paesaggio, di dimostrare come a diversi sistemi di agricoltura corrispondono diversi paesaggi e come l’Italia, il nostro paese, sia un esempio straordinario di pluralità e di differenziazione di paesaggi. Vorrei intanto cominciare dicendo che qui siamo a Casa Cervi e siamo anche a casa di Sereni, in un certo senso, visto che qui è conservata la documentazione dei suoi studi, delle sue attività, dei suoi impegni a favore del mondo rurale. Mi piaceva partire da un accenno su cos’è il senso della storia, e dunque su cos’è il senso della storia del paesaggio e, poiché non siamo tutti storici - anzi, gli storici in queste Summer School sono sempre una minoranza - voglio ricordare che ci occupiamo dei problemi storici non solo in quanto fatti del passato, ma perché siamo mossi da un interesse vivo e spesso preoccupato per il presente. È un’impostazione che risale alla bella definizione di Benedetto Croce, ma che proprio Sereni riprendeva nell’introduzione alla sua Storia del paesaggio agrario, dove egli si chiede: “Perché ci si deve occupare di paesaggio?... È un problema storico?” Quindi risponde che sì, è storico perché il problema, dice lui, è attuale, contemporaneo. Troviamo questa frase di Sereni già in un suo appunto del 1948 conservato nell’archivio al piano superiore di questo Istituto. Emilio Sereni usa spesso la parola “stratificazioni” per riferirsi alla dimensione temporale della storia. La storia non è composta solo dal tempo, ma anche dallo spazio, e Sereni riprende questa idea di uno spazio che non è più lo spazio naturale, ma è una natura storicizzata, cioè uno spazio antropizzato che in realtà noi oggi concepiamo come frutto di un processo di territorializzazione, nell’ottica territorialista più recente. La territorializzazione cos’è? È il processo che trasforma lo spazio naturale in territorio, sostanzialmente, e qual è lo strumento primario di questo processo di territorializzazione? È l’agricoltura, da sempre. Poi certo, anche la città, le industrie, le infrastrutture etc., ma possiamo dire che l’esercizio dell’agricoltura è lo strumento primario del processo di territorializzazione. Questi erano solo degli spunti, di premessa, per richiamare l’attenzione sul senso della storia sul ruolo del territorio in rapporto all’agricoltura e al paesaggio, che è la dimensione visibile del territorio. 69
Il paesaggio è il frutto dell’incontro fecondo tra uomo e natura. Noi diciamo tante volte che il paesaggio è interamente costruito dall’uomo, ma non dimentichiamoci che le azioni umane che costruiscono il paesaggio si aggiungono al ruolo della natura, che rimane protagonista sia negli elementi di base, ad esempio quelli geomorfologici, che nel divenire dei fenomeni naturali, compresi quelli tragici come il terremoto che sta colpendo in questi giorni le zone dell’Italia centrale, tra Umbria, Lazio e Marche. Ma, senza arrivare a questi elementi estremi e ad eventi traumatici, è evidente che le forze naturali – il clima, la pedologia, le acque, la vegetazione etc. – concorrono alla formazione del paesaggio, così come vi concorre l’azione dell’uomo che appunto disegna su questo spazio naturale un qualcosa di più complesso che noi chiamiamo territorio. Per affrontare il tema dell’odierna edizione della Scuola – Abitare la terra – potremmo partire da due domande: dove lavorano i contadini? dove abitano i contadini? La risposta a queste domande implica il riconoscimento che esistono sistemi agrari differenti, che sono stati suddivisi da alcuni storici in agricolture con la casa e agricolture senza casa. Gli economisti del ‘700, toscani, romani, napoletani, interpretavano alcune aree come la Maremma, come la campagna romana, come il Tavoliere delle Puglie, come territori vuoti. In realtà il vuoto non esiste. Perché dicevano che erano vuoti? Perché non c’erano le case degli agricoltori, le case delle famiglie contadine, a differenza di altre aree, come quelle dell’Italia centrosettentrionale in cui invece l’organizzazione dello spazio rurale prevedeva già una rete diffusa, più o meno fitta, di abitazioni. Non solo gli storici ma anche i testimoni di varie epoche danno conto di questa differente configurazione del territorio rurale. Intorno al 1830 il granduca di Toscana Leopoldo II, dopo aver visitato il fiorentino, il senese e il pisano – cioè la parte della Toscana già appoderata e insediata con le case coloniche dove abitavano le famiglie contadine, in particolare mezzadrili – osserva in Maremma un modello molto diverso che caratterizza appunto la parte sudoccidentale della regione; egli scrive che “La Maremma è vuota”; perché è vuota per lui? Perché è priva di poderi e di case. Agricoltura senza casa, appunto. C’erano le coltivazioni, i pascoli, qualche piantagione… ma non c’erano le case e tra un paese e l’altro si vedeva solo campagna, bosco e campagna. La casa contadina è quindi la protagonista del paesaggio sia quando c’è ,sia quando non c’è: anche la sua assenza diventa un elemento di valore. Ritornando a Sereni, che parla del paesaggio agrario che ha una dimensione orizzontale (quella dei seminativi) e una dimensione verticale (quella degli alberi e delle case), emerge chiaramente il valore paesaggistico di questi due elementi: gli alberi e le case. Un poeta secondario di fine ‘800, Nemesio Fatichi, riecheggiando il Foscolo dei Sepolcri scriveva di una fiorente vallata toscana, la Valdinievole – parlando delle “colline che la fiancheggiano seminate di case e di oliveti”. È bella questa espressione delle case che si seminano, anche se adesso è un po’ pericolosa perché ora il problema è della semina troppo fitta che abbiamo fatto, cioè dell’urbanizzazione selvaggia e del consumo di suolo, però questa visione delle case che, al pari degli olivi, cioè al pari delle coltivazioni, imprimono un segno, una traccia indelebile al paesaggio agrario mi sembra una suggestione interessante. Del resto nell’arte si potrebbero fare mille esempi: c’è un bellissimo paesaggio rurale di Giorgio Morandi dove questa dimensione verticale, che Sereni indica nella Storia del paesaggio agrario, è altrettanto ben rappresentata, con appunto gli alberi e le case. 70
Questa pluralità di esperienze paesaggistiche riflette una pluralità delle situazioni agrarie. La nota citazione di Stefano Jacini, direttore della prima inchiesta sull’agricoltura italiana deliberata dal parlamento unitario nel 1877 evidenziava come, sebbene fosse passato un quarto di secolo dalla fondazione dell’Italia unita, sarebbe vano cercare una agricoltura italiana, perché noi troviamo ancora – scriveva - parecchie agricolture, parecchie Italie agricole differenti tra loro. A noi interessa devono interessare molto, oggi, questi richiami alla pluralità, non come condizione da superare, ma come tratto da valorizzare, in agricoltura ma non solo. Una riprova è costituita dall’indice del libro di Sereni: gli 84 capitoli della Storia del paesaggio sono lo specchio poliedrico ed evidente di questa pluralità dell’agricoltura italiana. Ogni sistema agrario è anche un quadro paesaggistico. Una pluralità diacronica riflessa in quelle stratificazioni che ho già richiamato, un tempo lungo che parte dall’età antica e arriva alla metà del Novecento, ma anche una pluralità territoriale che segue i connotati regionalizzati dello sviluppo italiano. La Padania, il Sud, il Centro, la montagna, le alberate, le risaie e così via. Perciò non è un caso che Emilio Sereni venga indicato da una erta storiografia come un capostipite in Italia della storia dell’ambiente, proprio perché unisce, grazie al paesaggio, la dimensione del tempo con la dimensione dello spazio. Abbiamo detto che l’agricoltura è il principale strumento per il processo di territorializzazione. Ciò significa fare i conti con le modalità di coltivazione della terra in rapporto con gli altri elementi naturali: la vegetazione, il clima, la geomorfologia. L’Italia è un paese fatto in modo strano, è come una persona uno scheletro molto robusto e poca polpa addosso: l’arco alpino, la dorsale appenninica, poche pianure, le coste spesso acquitrinose, le colline scoscese e calancose… L’agricoltura ha dovuto organizzare questo spazio, addomesticarlo, difenderlo, curarlo, con l’obiettivo primario di produrre cibo. Nella precedente edizione della Summer School abbiamo indagato a fondo questo aspetto dell’agricoltura come produttore di cibo; allora ci interessava come la produzione di cibo corrispondesse e generasse anche una produzione di paesaggio. Relativamente a quest’area padana facemmo l’esempio classico del Parmigiano Reggiano che determina un paesaggio diverso rispetto alla produzione del Grana Padano, pur insistendo su aree contigue. Sembrano due cose simili e vicine ma in realtà sono due prodotti che generano un paesaggio diverso in relazione anche a procedimenti di tipo normativo - i disciplinari. Questa è già storia dei nostri tempi, ma è chiaro che la necessità di ottenere un prodotto, e di ottenerlo in un certo modo, determina un tipo di paesaggio anziché un altro. La produzione di cibo caratterizza il rapporto fondamentale tra città e campagna. Anche di questo abbiamo parlato diverse volte e del resto anche Sereni ci ha insistito a lungo. Egli discuteva sul rapporto che vede la campagna entrare funzionalmente nella città, e la città organizzare funzionalmente la campagna fino a dominarla. Nella nostra epoca c’è una crisi profonda di questo rapporto, che richiede e ci invita a ritrovare gli elementi di connessione, di dialogo, tra queste due fondamentali componenti territoriali. Credo sia chiaro a tutti come l’agricoltura genera il paesaggio. Essa non determina solo il paesaggio, ma anche i modelli di organizzazione territoriale e quelli di organizzazione sociale. Tant’è vero che “agricoltura con casa” e “agricoltura senza casa”, per riprendere la dicotomia che ho usato all’inizio riprendendo Franco Mercurio, corrisponde quasi sempre a una differente organizzazione del lavoro rurale, 71
implicando o meno la struttura familiare: in genere dove c’è l’agricoltura con la casa, l’esercizio dell’attività agricola era su base familiare. Dove c’è l’agricoltura senza casa, i “campi vuoti” come dicevano erroneamente gli osservatori, il rapporto di lavoro è spesso invece di tipo individuale, che si tratti di braccianti, giornalieri, operai, ecc. Dunque i fabbricati rurali storicamente sono anch’essi elementi dell’agricoltura, che contribuiscono alla costruzione del paesaggio insieme agli aspetti naturali che vi ho detto, da considerare sempre perché la natura non è solo il contenitore inerte delle nostre azioni, ma è soggetto attivo del processo storico, come l’uomo. E del resto l’uomo è parte della natura, e questo cerchio dovremmo tornare a chiuderlo, ma non voglio, adesso, complicare troppo il discorso. Lo accennavo solo per riadire che la storia dell’agricoltura e del paesaggio agrario si lega indissolubilmente alla storia ambientale nel suo complesso. Tra tutti gli elementi che formano il paesaggio, a noi interessa qui la presenza sul territorio dei fabbricati rurali. I paesaggi agrari sono prima di tutto dei paesaggi vegetali, cioè erbe e alberi. Sono paesaggi legati ai prodotti, e noi siamo nell’ambito di un’agricoltura mediterranea che fa perno sulla trinità pane-olio-vino, quindi cerealiolivo-vite. Ne abbiamo parlato anche l’anno scorso, di come la storia dei prodotti agricoli e agroalimentari sia una storia non fissa e immobile nel tempo, ma sia una storia di contaminazioni e correnti di scambio. Anche questa trinità originaria viene da un’altra area in tempi più antichi: dall’Asia, dal Medio Oriente, attraverso il Mediterraneo, con onde di diffusione anche abbastanza lunghe e lente; poi le colture orientali come riso e gelso; quindi il contributo straordinario delle piante arrivate dall’occidente: il mais, la patata, il pomodoro, il girasole, tutti gli ortaggi di cui potremmo fare l’elenco. I paesaggi vegetali sono quindi la prima cosa; poi ci sono quelli zootecnici: non dimentichiamoci mai dell’importanza degli animali per la storia dell’umanità. Le pecore, i cavalli, i bovini, i maiali…; il bestiame richiede pascoli, strutture per l’allevamento, stalle e così via. Anche questo è un sistema differenziato nel tempo e nello spazio. Per l’Italia troviamo il sistema della montagna alpina, quello dell’appennino, quello della pianura, quello delle campagne suburbane, e poi la particolarità molto mediterranea dei tratturi, cioè delle pratiche di transumanza che mettono in relazione altre componenti territoriali, in primis montagna e pianura, oggi anch’esse sostanzialmente separate, in attesa di un nuovo dialogo come abbiamo detto per città e campagna. C’è poi il ruolo delle acque. Carlo Cattaneo diceva che l’Italia è una patria artificiale, costruita sulle acque, perché i processi di bonifica, dall’antichità all’età moderna e contemporanea, contrassegnano i territori fertili e coltivati, strappati all’acqua, conquistati attraverso processi di bonifica con tecniche diverse a seconda dei contesti e delle epoche. Si torna alla questione del tempo e dello spazio, delle due dimensioni principali e ineludibili della storia. Sia gli elementi naturali, ma ancor più quelli antropici e in particolare l’insediamento rurale, cioè la presenza o meno di case, fanno emergere due tendenze fondamentali che sono state individuate dalla storiografia sull’Italia e che rimandano alla differenziazione tra nord e sud fin dal medioevo. Nel corso dell’età moderna si profila ancor più questa duplice tendenza: il Centro-Nord vede un disseminarsi di abitazioni nelle campagne, quindi della presenza umana; nel Sud assistiamo invece ad una rarefazione dell’insediamento, addirittura ad un suo arretramento, con la predominanza - è una semplificazione ma per ora prendiamola 72
per buona – di latifondi e transumanze, dove pastorizia e cerealicoltura si confrontano, si affrontano, si associano, come dicevamo prima anche con Saverio Russo che ha studiato questi temi da vicino. Sono due tendenze che si rispecchiano anche nella dimensione politica, che è quella di una vicinanza del potere nel centro nord, e di una lontananza del potere nel centro sud. Da un lato una regionalizzazione del potere e dei governi, dall’altro la sua centralizzazione e gerarchizzazione. Nel Nord viene affermandosi dunque una campagna più densa e organizzata, mentre nel sud sembrano prevalere le ragioni fiscali dello Stato e il permanere della struttura feudale. Venendo avanti nel tempo, l’agricoltura italiana tende a svilupparsi, anche se nella storiografia, soprattutto economica, è stata spesso bollata con il termine di arretratezza. Io penso che questa idea di un’Italia arretrata e di un’Europa che corre sia un po’ da correggere, un modello da superare. In realtà ci sono stati elementi di rivoluzione agraria anche nell’agricoltura italiana, in particolare nell’area padana, ma non soltanto; si diffonde dal Settecento e soprattutto nell’Ottocento il sapere agrario, con le accademie, le scuole di agricoltura, i tecnici, l’organizzazione aziendale in termini nuovi, la meccanizzazione, ecc. Ma tutto contribuisce a determinare Italie diverse, non solo due ma almeno tre dal punto di vista dei sistemi agricoli: l’Italia padana della cascina, l’area del nord-est-centro del podere e della villa, l’area del centro sud e delle isole col latifondo, ma anche col giardino mediterraneo (ecco perché dicevo che per il Sud l’immagine tutta latifondistica è una visione semplificata). La risaia e il prato irriguo si vedono nelle zone più avanzate, il rafforzamento delle piantagioni e l’infittirsi delle case nell’area mediana: gli alberi e le case possono essere elementi per misurare il progresso dell’agricoltura italiana, specialmente nei secoli XVIII e XIX. Quando dico che le case sono elemento di progresso, non mi devo far sentire da tutti coloro che dalla metà del Novecento hanno riempito di case il territorio rurale italiano, aprendo la grave questione del consumo di suolo, con una urbanizzazione spesso selvaggia che ha travalicato i perimetri delle città, tracimando nei campi, nelle vigne, negli oliveti e perfino nei boschi. In ogni caso la storia dell’abitare la terra, pari delle coltivazioni e dei sistemi agrari, ci conferma l’idea di un’Italia plurale, molto plurale come dimostrano i lavori classici sulla casa rurale da Biasutti a Sereni e agli altri. Naturalmente quello delle case è un paesaggio che corrisponde anche a un paesaggio sociale, nel quale si muovono da protagonisti gli uomini attraverso il lavoro, attori di diverse modalità di relazione, di diersi rapporti di produzione. Abbiamo allora la conduzione diretta, che sembra prevalere nei censimenti della popolazione italiana del primo periodo unitario; il grande affitto con l’affittuario imprenditore al Nord e con figure intermediarie invece al Sud, e in qualche misura anche al nord; la mezzadria diffusa nelle regioni centrali: Toscana, Umbria, Marche, ma anche Romagna e parte dell’Emilia e del Veneto, il nord-est-centro, appunto; poi i contadini, i braccianti, i lavoratori della terra in genere nelle loro diverse configurazioni contrattuali, stabili o molto spesso precari. Sono tutti aspetti che ci mostrano la corrispondenza tra strutture agrarie e strutture sociali. Ho già accennato ai tre sistemi fondamentali, che sono sistemi insediativi, produttivi, economici: la cascina, con un’agricoltura già nell’Ottocento di tipo capitalistico, legata al mercato e a processi di specializzazione colturale. Richiamo questo carattere della specializzazione perché è un elemento di costruzione paesaggistica importante, il 73
fatto di esercitare un’agricoltura specializzata invece di esercitare un’agricoltura mista, promiscua, come avviene nell’area del podere. La mezzadria, con i suoi poderi e le case colonica sparse nella campagna, “seminate” come diceva il poeta. Da ogni casa se ne vede sempre un’altra, non è il paesaggio della solitudine, ma della solidarietà e della socialità. Ciò fa sì che dall’Appennino fino all’Umbria, alle Maremme e al Lazio, ci sia una campagna meno solitaria, dove ci si sente più vicini agli altri, dove lo spirito di cooperazione è più facile, dove c’è una frequentazione più reciproca, dove ci si sposa tra figli di case vicine, cioè un paesaggio caratterizzato molto dalle case e che favorisce le relazioni sociali, che del resto i grandi proprietari terrieri hanno per secoli idealizzato, fino al fascismo. Non a caso il fascismo cerca di rilanciare la mezzadria negli anni ’30 con la Carta della Mezzadria, perché quest’idea della società tra eguali, dove tutti si frequentano era un concetto chiaramente idealizzato, in realtà era un mondo di fatica, di sacrifici, di vincoli, molto squilibrato tra il proprietario che governava tutto, decideva gli indirizzi colturali, decideva chi poteva andare al mercato o no, se si potevano sposare i figli o no ecc. Però qui il contadino aveva un ruolo che, nonostante la situazione socialmente squilibrata, lo faceva sentire protagonista: i mezzadri hanno sempre coltivato la terra altrui come se fosse stata la loro. In queste aree si è affermato un paesaggio resistente – come scriveva Sergio Anselmi. Il mezzadro lavorava su terra altrui, è semischiavo - residuo feudale lo chiama Sereni - però sviluppa un’attitudine imprenditoriale pur non avendo la terra, pur non avendo i capitali etc. Si può essere imprenditori senza capitali e senza terra, e quando la mezzadria finisce, in queste regioni nascono i distretti industriali, le piccole imprese a gestione familiare, pensate al calzaturiero delle Marche, pensate a Prato, a Empoli, a quei distretti - oggi in crisi anche loro, ormai. Non sto dicendo che sono proprio i mezzadri che lasciano la terra e vanno a fare gli imprenditori, ma tali attitudini, di un mondo mezzadrile, costruito attorno alla casa, all’unità di impresa familiare e alla terra, si trasferiscono in qualche modo verso altri settori. Del resto anche gli studi di sociologi e storici marchigiani, i gruppi di Paci, di Anselmi e di Carboni, ma anche quelli di Trigilia e di Bagnasco, hanno lavorato su questo, su come queste attitudini siano molto legate al tipo di insediamento, al tipo di agricoltura, al tipo di struttura sociale che è appunto riflessa in quel paesaggio che un osservatore ottocentesco, Cosimo Ridolfi, definiva “un’immensa città rurale”. La campagna urbanizzata, che per noi oggi vuol dire qualcosa di negativo perché rimanda al consumo di suolo e allo sprawl urbano, per molto tempo ha significato una campagna civile, una campagna che ha legami con la città, che si relaziona con essa i modo equilibrato. Le testimonianze storiche, fotografiche e cartografiche rendono bene l’dea di questa pluralità: qui si coltivava un po’ di tutto, a differenza delle aree della cascina che tendevano alla specializzazione, si restava legati a un sistema colturale promiscuo, perché la famiglia contadina doveva vivere con la metà dei raccolti e quindi non poteva avere un raccolto solo, ma tanti e diversificati. Lo schema triplice che vi ho proposto è giusto, ma non esaustivo, non completamente aderente alla realtà. Ho detto che in Italia c’erano la cascina, il podere e il latifondo, ma la situazione era molto più articolata. Basti sapere che anche il Nord ha tante agricolture, che anche il Centro ha diverse agricolture, un po’ meno ma diverse, che anche il Sud ha diverse agricolture. Ritorniamo quindi a quelle parecchie Italie agricole che noi per comodità riassumiamo in alcune tipologie essenziali, 74
ma che sono appunto una risorsa, una ricchezza per il nostro paese. Come si può lavorare su questo? Io penso che questa sia un’indicazione anche per i laboratori e per il post-Summer School. Pensiamo a degli itinerari di paesaggio, che si snodino in questi sistemi agrari diversi; in fondo ci sono già degli esempi: strade del vino, strade dell’olio, strade dei sapori, sono già degli itinerari presenti, magari non pensati paesaggisticamente, ma tracciati sul paesaggio. Dobbiamo partire dalle vocazioni e dai caratteri, quelli che appunto Sereni riprendendo Bloch chiama i caratteri originali del paesaggio, della storia rurale. Favorire questa lettura territoriale a scuola, nelle amministrazioni, nei musei, negli ecomusei, nei parchi, nelle aree protette. Io penso che qui ci sia ancora molto da lavorare, sebbene esperienze ce ne siano già. In fondo il paesaggio è lo specchio dell’identità, come ci ricorda efficacemente questa bella citazione di Fernando di Pessoa: “Ciò che vediamo non è ciò che vediamo, ma ciò che siamo” ed è un la stessa cosa che affermava Emilio Sereni: “Il paesaggio è il farsi di una certa società in un certo territorio”. Se noi ci avviciniamo in questo modo al paesaggio e al tema dell’abitare la terra, allora questa composita pluralità agricola diventa patrimonio. Questa è una novità: nell’800 nessuno parlava di patrimonio, noi oggi parliamo di patrimonio, tant’è vero che il paesaggio è contenuto nello stesso codice dei beni culturali, che è appunto dei beni culturali e del paesaggio insieme, come del resto già ci invitava a fare l’articolo 9 della Costituzione Italiana. Cerro ci sentiamo un po’ delusi, affranti, dopo un secolo – il ‘900 - che era iniziato con l’agricoltura come settore prevalente, con la campagna come dimensione principale dell’Italia contadina, e che si è chiuso invece con le campagne ripiegate su se stesse, abbandonate, ferite, qualche volta perfino derise. Però negli ultimi tempi ci sono fenomeni nuovi (o vecchi, qualcuno parla di “retroinnovazione”), statisticamente ancora non rilevanti ma significativi, progetti che cercano di ricostruire nuove forme di economia contadina, ritorni alla terra, nuovi contadini, filiere che cercano di ricostruire il rapporto città-campagna, agricoltura-cibo, territorio-economia. Perché se noi assumiamo il mercato e il profitto come dato, allora non possiamo far altro e tutto ci appare ineluttabile, ma se consideriamo anch’essi come processi, come variabili, allora possiamo avere il senso, diciamo così, di ricostruire qualcosa a partire dalle campagne nell’ottica di un nuovo modello di sviluppo, visto che quello attuale è strutturalmente in crisi. Non siamo rassegnati, si può ancora essere protagonisti del paesaggio, come ci suggerisce una poesia di Jaques Prévert: Com’è bello questo piccolo paesaggio. Questi due scogli questi pochi alberi e poi l’acqua e poi il fiume com’è bello. Pochissimo rumore un po’ di vento e molta acqua. È un piccolo paesaggio di Bretagna può stare nel palmo della mano quando lo si guarda da lontano” 75
Mi sembra efficace questa idea del paesaggio che può stare nel palmo di una mano. Anche noi questo dovremmo fare in questa nostra Summer School, cioè prendere l’oggetto dei nostri studi - il paesaggio – tenerlo in mano e guardarlo, soppesarlo, analizzarlo da lontano ma senza essere troppo distanti, soprattutto pensare alla sua formazione e alle sue trasformazioni. Pensarle per governarle, non disinteressarcene per subirle.
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Crisi dei paesaggi Agricoltura e ritorni alla terra
Fabio Parascandolo
In Italia, le prime avvisaglie della crisi dei paesaggi risalgono all’inizio del secolo scorso1. Mi sembra però che per vari aspetti il livello di “complicazione” del contesto attuale sia molto più elevato di allora. Non stiamo attraversando oggi un temporaneo periodo di allontanamento da un normale percorso di sviluppo della nostra vita associata, e le attuali difficoltà non verranno risolte rinunciando a comportamenti obsoleti per riprendere a modernizzarci, come se vivessimo perennemente nel Novecento. Il punto è che stiamo sperimentando un generale inceppamento delle nostre sfere di esistenza organica e sociale. In questo senso la crisi del paesaggio va considerata come uno tra vari sintomi di un malessere strutturale, e andrebbe intesa come “spia visibile” di questioni cruciali, come la decadenza delle democrazie rappresentative nei paesi sviluppati, la disgregazione della sovranità degli stati nazionali, l’imposizione di un ordine sociale globalizzato2. Non è piacevole riconoscere che siamo immersi nella crisi ma mi sembra il primo passo necessario per affrontare lucidamente la situazione in atto: viviamo in un’era di crisi sistemica, che si ripercuote anche sui paesaggi. Col termine «paesaggio» alludo a un “qualcosa” di iconico e di materiale insieme: a un accorpamento cartografabile di entità ambientali che siano allo stesso tempo esteticamente godibili e ben mantenute in quanto territori. Secondo me dovremmo chiederci: come si fa un paesaggio? E, all’opposto: quali generi di trasformazioni sortiscono l’effetto di disfarlo? E infine: possiamo enucleare e tratteggiare le cause “profonde” della situazione precaria in cui versa il patrimonio collettivo detto «paesaggio»? Secondo me è possibile, ma per farlo c’è bisogno di un approccio ad ampio raggio, di uno «sguardo da lontano» che tenga conto degli insegnamenti di maestri quali Lévi-Strauss e Foucault. Servirebbe uno sguardo archeologico al paesaggio3, o meglio ancora eziologico: una prospettiva affine a quella del medico che si interroga circa i fattori di insorgenza di una malattia. 1 S. Settis, Paesaggio costituzione cemento. La battaglia per l’ambiente contro il degrado civile, Einaudi, Torino 2010; M. Quaini, L’ombra del paesaggio. L’orizzonte di un’utopia conviviale, Diabasis, Reggio Emilia 2006. 2 Z. Bauman, C. Bordoni, Stato di crisi, Einaudi, Torino 2015. 3 cfr. E. Turri, La conoscenza del territorio. Metodologia per un’analisi storico-geografica, Marsilio, Padova, 2002; M. Quaini, op. cit. 77
Ponendoci l’obiettivo di cogliere le motivazioni della crisi contemporanea dovremo necessariamente interrogarci sui fondamenti della territorialità moderna. Vanno esaminate le logiche organizzative che hanno prodotto e tuttora producono, in base a sedimentati cicli di ristrutturazioni, i territori regionali e nazionali. Il paesaggio difatti si presenta sempre come un processo storico. Turri ha mostrato in una successione di disegni il variare delle configurazioni essenziali di un ipotetico territorio locale con il passare delle epoche (fig. 1). Sono distinguibili l’insediamento neolitico o comunque di età antica, il villaggio medievale, quello sette-ottocentesco e infine l’insediamento in via di rapida industrializzazione a inizio Novecento, il periodo in cui in Italia si intensificano mutamenti decisivi, che hanno cambiato il volto del nostro paese, sfigurandolo. A partire da quest’ultima fase storica non sono progressivamente mutati i soli aspetti morfologici ed esteriori degli insediamenti e dei loro immediati spazi di vita. È cambiata la loro territorialità4. Gli schemi di organizzazione spaziale espressi dagli abitanti dei luoghi sono stati cioè rimodellati su nuove basi. Sostengo che la crisi vissuta oggi dai nostri paesaggi sia radicata nel sovrapporsi di processi di territorializzazione5 intrecciati a mutamenti socio-economici e tecnologicoambientali. Mi riferisco in particolare ad epocali trasformazioni che sin dal secolo XIX sono state vissute dagli abitanti delle regioni italiane. Quando i territori ben mantenuti scarseggiano, il dissesto idrogeologico avanza e anche i paesaggi “godibili” si assottigliano. Dal sintetico resoconto sul dissesto idrogeologico italiano di Ance Cresme6 apprendiamo che in poco più di cento anni gli eventi idrogeologici catastrofici hanno causato quasi 13.000 vittime tra morti e feriti e oltre 700.000 sfollati. Credo che dovremmo porci parecchie domande “scomode” sui nostri rapporti problematici con i territori locali7. La crisi dei territori risulta inoltre aggravata da problematiche chimiche, spesso invisibili eppure straordinariamente insidiose. Sotto questo profilo va detto che nell’ambito dei suoi 33 stati di pertinenza l’EEA (Agenzia Ambientale Europea) ha quantificato in 250.000 le aree interessate da svariate forme di degrado ambientale. Varie migliaia di questi siti si trovano in Italia, e in circa 50 casi la pericolosità dei fattori inquinanti (e talvolta anche la vastità delle superfici contaminate) li ha fatti qualificare come Sin (Siti di Interesse Nazionale). Veniamo ora agli aspetti strutturali della crisi. Cos’è che genera nello spazio e nel tempo il manifestarsi del degrado territoriale e paesaggistico? Ritengo che i paesaggi della crisi nei nostri correnti ambienti di vita costituiscano l’esito visibile dell’evoluzione cumulativa di territorialità urbano-industriali. La territorialità moderna è caratterizzata a mio parere da una scissione o frattura metabolica tra la natura con le sue inaggirabili «leggi» da un lato, e le scelte operative dei sistemi sociali 4 C. Raffestin, Dalla nostalgia del territorio al desiderio di paesaggio. Elementi per una teoria del paesaggio, Alinea, Firenze, 2005. 5 A. Turco, Verso una teoria geografica della complessità, Unicopli, Milano 1988. 6 Ance Cresme, Dobbiamo aver paura della pioggia? Frane, smottamenti, alluvioni, 2015, p. 2. 7 In questo senso ritengo cruciali le battaglie contro il consumo di suolo (cfr. p. es. P. Bonora, Fermiamo il consumo di suolo. Il territorio tra speculazione, incuria e degrado, Il Mulino, Bologna, 2015) e in generale tutti gli sforzi che vengono profusi per connettere sostenibilmente città e campagne (cfr. ancora P. Bonora, a cura di, Visioni e politiche del territorio. Per una nuova alleanza tra urbano e rurale, Archetipo libri, Bologna, 2012). 78
Fig. 1 Fasi evolutive di un villaggio tipo. Fonte: Turri, 1965, p. 79.
(gestiti dalle classi dirigenti) dall’altro. Da circa due secoli questa frattura generatrice di criticità è continuamente posta in essere dai processi di trattamento razionale (cioè di rimodellamento tecno-scientifico) della realtà fisica, concepita come un composito insieme di risorse da «mettere a sistema», ovvero da sfruttare, o, come si tende a dire oggi, da valorizzare8. Sotto il profilo disciplinare intervengo da geografo, e in quanto tale mi interesso alle parti del mondo definite «oggetti geografici». Mi occupo della natura extra-umana e delle sue trasformazioni antropiche, cioè di quello «spazio terrestre» in cui e mediante cui diversi raggruppamenti sociali (ri)producono e ristrutturano incessantemente i loro spazi di vita e di lavoro. Quali sono dunque le configurazioni di oggetti geografici portatrici di crisi paesaggistiche? Si ripartiscono a mio avviso in due tipologie di base: le megalopoli e le monocolture. Partiamo dal primo gruppo. Assumo in questa sede una definizione ad ampio spettro di spazio megalopolitano. Con questo termine intendo ogni tipo di spazio costruito che: 1) sia realizzato in stili e materiali (cemento associato a metalli, plastiche, vetri, ecc.) cosiddetti «moderni»; 2) sia adibito ad alloggiare gli esseri 8 Ultimamente vari studiosi e anche il movimento globale per la rigenerazione agraria e la sovranità alimentare hanno riscoperto, reinterpretato e arricchito di nuove valenze il concetto marxiano di frattura metabolica; cfr. M. Schneider, Ph. McMichael, Deepening, and Repairing, the Metabolic Rift, «The Journal of Peasant Studies», Vol. 37, 3, July 2010; J.W. Moore, Metabolic Rift or Metabolic Shift? Dialectics, Nature, and the World-Historical Method, «Theory and Society», January 2017. 79
umani e/o in cui vengano dispiegate infrastrutture per il consumo di merci o la fruizione di servizi. Propongo una accezione “allargata” dell’artefatto «megalopoli», indipendente dall’ordine di grandezza: immense megacities, grandi conurbazioni, aree metropolitane minori, semplici complessi edilizi isolati in aree aperte. Non mi riferisco né alla scala dimensionale, né ai caratteri più o meno metropolitani o postmetropolitani9 quanto piuttosto all’aspetto essenziale di contesto urbano zonizzato10. Fin dal secolo XIX e sempre più nel corso del XX, l’urbanistica razionale ha assegnato a una panoplìa di sistemi urbani zonizzati il ruolo di supporti fisici delle funzioni sociali. Qualunque forma e consistenza abbiano assunto, gli spazi costruiti urbano-industriali si sono espansi nel tempo e sono “esplosi” su scala planetaria, in particolare durante gli ultimi quattro decenni o poco più. Occupano areali terrestri innumerevoli e sempre più estesi, determinando così gli scenari “deterritorializzanti” di urbanizzazione catastrofica individuati da Magnaghi11. Le variegate morfologie urbane moderne sono secondo me accomunabili in quanto nel loro complesso costituiscono «il risultato di forze economiche – sovvenzionate dai governi di tutto il mondo – che stanno creando un mondo centralizzato e globalizzato»12. Tutte le aree urbane-megalopolitane rispondono alla medesima (e ferrea) logica costitutiva: «in un’economia nella quale le grandi corporazioni competono per far accrescere il numero dei consumatori, il modello più “efficiente” è la città»13. Successivamente all’irruzione di questi moderni ambienti urbani, che ne è (stato) della biodiversità e del suolo che ricoprono (o ricoprivano) tante aree naturali o coltivate delle terre emerse? Artificializzate, sigillate, impermeabilizzate o, con linguaggio ordinario, «cementificate», molte superfici viventi del pianeta Terra sono scomparse dalla realtà fisica e dalle carte geografiche. Seppellite da cemento e asfalto sono state distrutte e rese inerti, così contribuendo all’emissione di gas serra e all’aggravamento della crisi climatica. Tutto ciò è accaduto e continua ad accadere ogni giorno che passa per realizzare due principali tipologie insediative: la città continua (piccola o grande che sia) e le zone di frangia, a densità media o bassa di artefatti. Con quest’ultimo termine indico le (sub)urbanizzazioni discontinue e frammiste a spazi aperti i cui residenti, specie nel Nord del mondo, praticano uno stile di vita auto-dipendente, in cui cioè gli autoveicoli privati svolgono un ruolo di continuo raccordo tra funzioni zonizzate della vita quotidiana: casa/lavoro/acquisti/sport/evasione e ricreazione/ecc. Le zone di frangia comprendono anche ville e villini “immersi nel verde” e l’urban sprawl conseguente alla dispersione spaziale delle residenze. Nell’ampia ma non illimitata casistica di 9 F. Erbani, Città senzacittà, 07.03.2017, http//www.eddyburg.it/2017/03/citta-senzacitta.html. 10 P. Gober, Megalopolis: the Future Is Now, in C. Hanson (ed.), Ten Geographic Ideas That Changed the World, Rutgers University Press, New Brunswick, NJ, 1997, si è occupata, con altro genere di riflessioni, della generalizzazione del termine “Megalopoli”, inizialmente coniato da J. Gottman, Megalopoli. Funzioni e relazioni di una pluri-città, Einaudi, Torino 1970. 11 A. Magnaghi, Riterritorializzare il mondo, «Scienze del territorio», 1, 2013. 12 H. Norberg-Hodge, Globalizzazione è urbanizzazione, in I. Agostini, D. Vannetiello (a cura di), La conversione dell’abitare. Comunità, fertilità, sapienza, Libreria Editrice Fiorentina (Ecologist italiano), Firenze 2015, p. 29. 13 Ibidem. 80
campagne urbanizzate e periferie globalizzate possiamo annoverare configurazioni ricorrenti (p.es. i villaggi turistici, oppure le villettopoli geometrili descritte da acuti osservatori quali Eugenio Turri o Gianni Celati). Si tratta di «terzi spazi periurbani», per usare una definizione di Vanier14, di ibridi funzionali che assommano tratti caratterizzanti delle metropoli e delle aree rurali senza essere per questo assimilabili a nessuna delle due. Sono spazi “rururbani” innervati dal pendolarismo motorizzato, che conservano ancora del suolo vivente e nondimeno comportano notevoli criticità ecologiche (semplificazione della biodiversità) e sociali (irruzione di modi di vita “metropolitani”)15. Proprio la provincia che ospita questa Summer School ne rappresenta a mio avviso un valido esempio, in particolare a ridosso della Via Emilia. L’altro aspetto basilare della territorialità moderna su cui vorrei soffermarmi è la monocoltura, da intendersi come modello produttivo monospecifico in ambito agrosilvo-pastorale o alieutico16. Da un punto di vista quantitativo, si tratta dello schema prevalente con cui la superficie del pianeta è stata in passato e ancora oggi viene subordinata alle esigenze economiche delle società industriali17. Le monocolture sono sistemi produttivi e merceologici specializzati e articolati a mezzo di vaste concatenazioni tecnologiche; esse danno luogo a flussi di materie prime/prodotti intermedi/oggetti finiti adibiti al funzionamento delle società umane. In questo modo forniscono una pluralità di apporti materiali ed energetici per la realizzazione e riproduzione dell’ordine sociale. Difatti «La produzione trasforma […] il capitale naturale, materiale ed energetico in capitale fisso territoriale e in consumi per la popolazione»18. Le monocolture costituiscono per l’appunto componenti rilevantissime del capitale fisso territoriale delle società industriali. Le produzioni monocolturali possono anche esulare dal settore agricolo: sono generalmente monocolturali anche le aree minerarie, le fabbriche, le centrali a energia fossile, ecc. Pur occupando piccole superfici su scala planetaria, questi impianti possono generare altissimi livelli di tossicità ambientale. Le strutture agroindustriali riproduttrici e trasformatrici del vivente comportano una tossicità più “diluita” delle monocolture abiotiche. Ma poiché dal secolo XX le monocolture viventi meccanizzate ricoprono superfici sempre più vaste del pianeta, la loro impronta ecologica risulta molto elevata, specialmente quando adottano sistemi di ingegnerizzazione biologica e fanno largo uso di acqua dolce e sostanze chimiche di sintesi. In quanto risorse spaziali che gravano su aree aperte molto estese e in quanto fattori di alterazione o distruzione di ecosistemi naturali, le monocolture agroindustriali vanno intese perciò come fattori di produzione economica ma anche come oggetti geografici forieri di “consumo ecologico” e di compromissione 14 M. Vanier, Le périurbain à l’heure du crapaud buffle: tiers espace de la nature, nature du tiers espace, «Revue de géographie alpine», 91, 4, Décembre 2003. 15 cfr. S. Lagomarsini, Uso comune e appropriazione metropolitana, «L’Ecologist italiano», 2, 2005. 16 Specificamente sulle monocolture vegetali si veda V. Shiva, Monocolture della mente. Biodiversità, biotecnologia e agricoltura «scientifica», Bollati Boringhieri, Torino 1995. 17 K. Polanyi, La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca, Einaudi, Torino 1974, p. 229. 18 F. Ferlaino, La sostenibilità ambientale del territorio. Teorie e metodi, Utet, Torino 2005. 81
della biosfera19. È mia convinzione che il “nucleo archetipico” del produttivismo monoculturale e del consumismo megalopolitano qui richiamati siano rintracciabili nello schema disciplinare del Panopticon, ideato nell’Ottocento da Jeremy Bentham per porre in essere efficienti sistemi di coercizione e “normalizzazione” carceraria. In effetti il Panopticon costituisce «il diagramma di un meccanismo di potere ricondotto alla sua forma ideale»20 (vedi fig. 2). La cabina di regia del potere disciplinare si trova difatti al centro della struttura penitenziaria. Essa non svolge un mero ruolo di sorveglianza dei reclusi, ma costituisce il “luogo” della programmazione, della presa di decisione su “chi debba fare cosa”. È così che, su un piano astratto e simbolico, il principio produttivistico della divisione del lavoro viene esercitato a un livello gerarchico superiore rispetto al dispiegarsi delle varie monocolture tra loro interconnesse. In economia politica il criterio operativo dell’entità al comando che programma compiti e li ripartisce (non di rado applicando strategie improntate al modello coloniale del «dīvĭdĕ et īmpĕrā») trova rispondenza nella sistematica ricerca di vantaggi comparati da parte dei soggetti d’impresa che fabbricano merci ed erogano servizi. In ambienti sociali competitivi – piuttosto che collaborativi – tutto ciò che è vendibile viene difatti ottenuto mediante il coordinamento di specializzazioni monoculturali ricondotte a una logica di ottimizzazione21. Sto parlando insomma di quei modelli «efficienti» di governance, esecuzione di compiti e monitoraggio delle performance che costituiscono altrettanti pilastri progettuali e applicativi della modernità. Soprattutto in regimi politici liberali la loro realizzazione ha prodotto la moltiplicazione di «catene del valore» indirizzate alla massimizzazione della redditività aziendale. Ne è conseguito un gigantesco e cumulativo processo di artificializzazione del mondo, fondato sul “dogma secolare” dello sviluppo senza limiti. Dogma che l’ordine del discorso pubblico, soprattutto (ma non unicamente) di matrice neoliberista ha da sempre ritenuto non solo “innocente” ma benefico in quanto foriero di emancipazione umana22. La mia tesi di fondo è che la crisi dei paesaggi è oggi così pervasiva perché si radica nell’insostenibilità cronica 19 Riprendo da J. Grinevald, L’aspect thanatocratique du génie de l’Occident et son rôle dans l’histoire humaine de la biosphere, «Revue européenne des sciences sociales», 29, 1991, pp. 4849, l’accezione di biosfera come sistema ecologico globale, comprendente tanto l’insieme degli organismi viventi che degli ambienti abiotici (litosfera-idrosfera-atmosfera), tra loro interconnessi. Sui danni ecologici prodotti dall’agroindustria esiste una vasta letteratura; qui mi limito a segnalare P. Bevilacqua, Un sapere cooperante per il governo di un’agricoltura sostenibile, in C. Modonesi, G. Tamino, I. Verga (a cura di), Biotecnocrazia. Informazione scientifica, agricoltura, decisone politica, Jaca Book, Milano 2007, e la sua bibliografia. 20 M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino 1976, p. 224. 21 La regola economica del maximin, oggi privilegiata dall’ordine sociale globale, impone che le migliori prestazioni quantitative si ottengano in tutti i campi risparmiando il più possibile in termini di costi monetari del lavoro umano, delle materie prime e dei processi produttivi impiegati; cfr. S. Latouche, La Megamacchina. Ragione tecnoscientifica, ragione economica e mito del progresso, Bollati Boringhieri, Torino 1995. 22 Per significative riflessioni sullo “sviluppo” tecnico ed economico come principio supremo della modernità rinvio a M. Buiatti, La resistibile ascesa dell’Homo œconomicus. Lo sguardo del biologo, in Contributi del Centro Linceo Interdisciplinare “Beniamino Segre”, 2013, e a L. Zoja, Storia dell’arroganza. Psicologia e limiti dello sviluppo, Moretti e Vitali, Bergamo 2003. 82
Fig. 2 Da un progetto di Panoptikon: la prospettiva dei sottoposti. Fonte: Foucault, 1976, fig. 21.
di questo modello di sviluppo illimitato. Un’insostenibilità determinata dagli stessi principi operativi sin qui descritti, i quali nel nostro immaginario alimentano i “frutti malati” del credo sviluppista (Rist, 1997) e sulla faccia della terra la proliferazione dei sistemi di risorse “umane” e non-umane, e quindi delle “due emme” appena esaminate. A mo’ di conclusione a queste riflessioni su megalopoli accentrate, loro frammenti sparsi e spazi monocolturali sottolineo che questi ambienti costruiti, coltivati o misti presentano condizioni sociali estremamente differenziate a seconda del potere d’acquisto di chi vi dimora. Desolate baraccopoli e residenze di extra-lusso sono in genere tra loro distanziate, ma talvolta possono persino giustapporsi senza convivere e senza comunicare tra loro. La governance biopolitica dell’ordine sociale globale non gradisce infatti frequentazioni umane “promiscue”. Intendo dire che assistiamo a una intensa globalizzazione delle merci ma al tempo stesso muri, reticolati e altri strumenti di dissuasione più o meno armata provvedono a smistare e raggruppare esseri umani di status affine, suddividendoli in ambienti quotidiani differenziati a seconda delle provenienze migratorie e delle appartenenze nazionali, etniche, culturali, di classe, ecc. 83
Veniamo ora ai temi strettamente correlati dell’abitare la terra e dell’agricoltura in senso ampio (comprendente l’allevamento). Da millenni il genere umano «abita la terra» attivandone i beni naturali mediante l’agricoltura. Ma cosa significava originariamente abitare coltivando? A tutt’oggi in varie regioni «in ritardo di sviluppo» del Sud del mondo gli abitanti dei villaggi conseguono la sussistenza mediante la diretta attivazione delle risorse locali, e in tempi premoderni ciò accadeva anche in Occidente. Le comunità di villaggio “vivono dei” loro territori di pertinenza, e ciascun gruppo umano instaura relazioni per quanto possibile compatibili con gli equilibri omeostatici degli (agro)ecosistemi locali, attingendo ai propri saperi contestuali in evoluzione. Fin dal neolitico la sussistenza delle popolazioni rurali – euro-mediterranee ma non solo – si imperniava su sistemi di relazioni instaurate tra ciascun villaggio (da intendere come “fuoco” dell’antropizzazione) e il suo proprio ambiente locale. Nei generi di vita tradizionali le comunità umane insediate modellavano il mondo naturale “organicamente” in base ai loro bisogni. Fondandosi su principi di circolarità e mutualità, esse realizzavano reti di ricambi materiali con gli elementi e i cicli naturali, alla ricerca di fecondità e fertilità. Ponevano perciò in essere sistemi di azioni reciproche e scambievoli di doni tra persone, entro comunità umane e tra queste ultime e il mondo non-umano: fisico o metafisico, sensibile o sovrasensibile, naturale o sovrannaturale. Per esemplificare alcuni elementi di questa logica in azione rinvio alla fig. 3. Le popolazioni locali “tradizionali” sono in grado di stabilire regole e procedure per il loro operato nei confronti dei beni naturali, ma solo con modalità «non razionali», ovvero etnoscientifiche (narrative, mitologiche, magico-religiose e/o “superstiziose”), quindi in forme scientificamente screditate e tecnologicamente ingenue (un esempio è alla fig. 4). D’altra parte, le modalità arcaiche e tradizionali di esistenza sociale non manifestano necessariamente caratteri irenici: si sa, per esempio, che anche il malocchio è dono, ma di morte23. Nel corso del tempo gli usi del territorio si sono invece evoluti su scala globale in stretto rapporto al procedere delle società stato-nazionali verso assetti di «mercato autoregolato» (Polanyi, 1974). Il meccanismo di assimilazione alla modernità economica e industriale si è svolto ovunque nel mondo con dinamiche comparabili. Una volta completato il processo di monetizzazione dei beni naturali e delle attività umane, i residenti rurali non vivono più dei soli frutti “diretti” di agricoltura, pastorizia o raccolta-caccia-pesca – variamente ottenuti a mezzo di diversificati sistemi di scambio materiale e simbolico – ma diventano piuttosto dipendenti da sistemi di sopravvivenza da reddito, mentre il denaro ormai indispensabile al loro sostentamento verrà ricavato dalla commercializzazione delle risorse territoriali e “umane”24. La razionalità moderna sviluppatasi in Europa fin dal tardo Medio Evo ma soprattutto dal secolo XVII (quando la filosofia meccanicistica si è imposta come unico modello esplicativo e trasformativo della realtà materiale) ha imposto modalità 23 C. Gallini, Dono e malocchio, Flaccovio, Palermo, 1973; per un’introduzione generale a questi temi si veda J. Godbout, Lo spirito del dono, Bollati Boringhieri, Torino, 2002. 24 cfr. F. Parascandolo, Beni comuni, sistemi comunitari e usi civici: riflessioni a partire da un caso regionale, «Medea», Vol. 2, n. 1, 2016, http://ojs.unica.it/index.php/medea/article/ view/2428. 84
Fig. 3 La “legge del ritorno” tratteggiata nel manifesto “Terra Viva”. Fonte: Navdanya International, Terra Viva. Il nostro Suolo, i nostri Beni Comuni, il nostro Futuro. Una Nuova Visione per una Cittadinanza Planetaria, 2015, p. 6, https://www.navdanyainternational.it/it/
burocratiche-statuali, tecnologiche e commerciali (market-oriented) di intendere, organizzare e trasformare il mondo. Modalità che non erano affatto prioritarie per quello che chiamerei, su scala globale, il “modo di produzione” contadino o agropastorale. Proprio per questo motivo la territorialità premoderna – le cui impronte più o meno sbiadite sono leggibili nella conformazione di alcuni paesaggi vernacolari – si differenzia radicalmente da quella moderna25. Le collettività umane premoderne non si ponevano affatto l’obiettivo di massimizzare la produttività del lavoro e la produzione competitiva di merci scambiabili sui mercati. Ricercavano invece la sussistenza dei membri di ciascun nucleo domestico-familiare, pur tenendo conto delle esigenze degli altri abitanti dei luoghi, e praticavano forme collaborative d’uso di beni comuni naturali non sottomessi (o sottomessi solo in parte) a regimi privatistici di proprietà. 25 K.E. Olwig, Epilogue to Landscape as Mediator. The non-modern commons landscape and modernism’s enclosed landscape of property, in B. Castiglioni, F. Parascandolo, M. Tanca, Landscape as Mediator, Landscape as Commons. International perspectives on landscape research, Cleup, Padova, 2015. 85
In conclusione: l’agricoltura ha storicamente costituito il fondamento della sussistenza, ovvero la basilare strategia di sopravvivenza organica delle popolazioni umane. Chi si prende davvero cura delle campagne, delle acque e della natura sa che, in bene o in male, “tutto viene dalla t/Terra” e tutto vi ritorna”. Infatti «considerando che il 40% circa della superficie terrestre è usata come terra agricola o da pascolo, non è esagerato dire che le interazioni tra gli umani e il mondo naturale avvengono soprattutto attraverso l’agricoltura»26. Quale genere di agricoltura? Quella di chi coltiva ma al contempo «cura» e «tratta con riguardo» (secondo l’etimo del verbo cŏlĕre) il campo (ăgĕr), e con esso il suolo e le risorse naturali in genere. L’agricoltura non può essere perciò equiparata a una qualunque industria, biotica o abiotica: la “vera” agricoltura «produce beni comuni ambientali»27, mentre il sistema agroindustriale convenzionale produce sì alimenti ma anche “esternalità” che danneggiano i beni naturali28. Proprio in tema di esternalità negative, è importante accennare al rapporto tra sistemi alimentari e clima. L’organizzazione no profit Grain (2011) ha pubblicato un rapporto sulle emissioni di gas serra imputabili ai correnti sistemi di produzione, trasporto, trasformazione, distribuzione e smaltimento del cibo. Questi avrebbero prodotto tra il 44 e il 57 per cento delle emissioni climalteranti globali. L’Ong Oxfam ha diffuso in seguito (2016) un altro dossier che ridimensiona di molto questi dati, portando la responsabilità dei sistemi industriali del cibo a un 25-27 per cento del carico mondiale. Il problema tuttavia persiste anche per Oxfam; lo capiamo dal titolo del dossier, basato sul gioco di parole circa i rapporti tra sistemi alimentari, crisi climatica e deliberazioni della Cop 21. Quali che siano le cifre globali del fenomeno, va tenuto conto che nel corso dell’anno di riferimento 2005 il settore agroalimentare degli stati eurocomunitari ha generato la diffusione in atmosfera del 31 per cento del totale delle emissioni di gas climalteranti dell’Ue, e non mi pare poco29. Siamo in tanti sul pianeta, con impatti considerevoli, è vero; ma più delle consistenze demografiche in se stesse, contano i modi con cui stiamo al mondo e ci nutriamo. E i sistemi agroalimentari convenzionali presentano gravi criticità: sottraggono fondamentali opportunità di lavoro socialmente diffuso, consumano preziose risorse naturali rinnovabili, inquinano la biosfera e ne alterano gli assetti omeostatici30. I sistemi di produzione e consumo del cibo “centralizzati” e di massa, affermatisi nel secolo XX, si sono essenzialmente evoluti negli Usa e sono stati poi “copiati” dagli europei occidentali nel secondo dopoguerra. Sono stati via via strutturati in modo da massimizzare l’importanza e il peso economico degli intermediari tra il campo e la tavola. Nel settore della produzione agricola questo modello di trattamento razionale 26 W. Sachs, T. Santarius (a cura di), Commercio e agricoltura. Dall’efficienza economica alla sostenibilità sociale e ambientale, in «Ecologia Politica-CNS», Quaderno n. 3, EMI, Bologna 2007, p. 40. 27 Ibidem. 28 cfr. Bevilacqua, op. cit. 29 Questo dato, tratto da uno studio europeo, è citato in Slow Food, Cambiamento climatico e sistema alimentare. Documento di posizione, 2010, p. 3, nota 6. 30 cfr. Bevilacqua, op. cit. 86
della natura si è affermato dalla seconda metà del secolo scorso anche in molte regioni “sottosviluppate” del mondo a mezzo della cosiddetta «rivoluzione verde». Come esito programmatico di sistemi industriali che entro e fuori dei confini degli stati nazionali dislocano flussi di materie prime, semilavorati e prodotti vendibili secondo modelli il più possibile accentrati di gestione, un gigantesco processo di internazionalizzazione agroalimentare ha finito per conferire a soggetti economici allogeni rispetto al settore primario (industrie di trasformazione a grande scala, agenzie di servizi, marketing e trasporti globali, Gdo-Grande distribuzione organizzata, agenzie di credito, ecc.) il ruolo di anelli forti delle catene planetarie del cibo. Le agenzie appena nominate si spartiscono così un esorbitante «potere di mercato». In questo schema organizzativo le politiche agricole e gli assetti proprietari e fondiari favoriscono le grandi aziende, mentre le innovazioni e regolamentazioni tecniche tendono a ostacolare il conseguimento di rapporti più diretti e fiduciari tra i piccoli produttori agricoli e i loro potenziali consumatori finali. Alla espansione globalizzante di sistemi agroindustriali ottenuta a mezzo di integrazioni e delocalizzazioni produttive sempre più spinte si è accompagnato un vasto “packaging” di narrazioni culturali a carattere tecnicoscientifico o pubblicitario. Dietro lo sbandierato perseguimento di obiettivi generali di sicurezza alimentare e benessere dei consumatori (fig. 5), queste trasformazioni organizzative e il relativo ordine del discorso hanno di fatto reso poco affidabili, quando non inquietanti, le prospettive nutrizionali degli abitanti del pianeta, e specialmente di quelli meno solvibili31. Per comprendere appieno le trasformazioni territoriali intervenute nel mondo rurale di epoca contemporanea dovremo in primo luogo chiederci quali conseguenze economiche e sociali abbiano avuto le modernizzazioni agroalimentari intervenute a partire dagli anni Cinquanta. L’irruzione del produttivismo agricolo sostenuto da politiche pubbliche nazionali e sovranazionali (e specialmente della Pac-Politica agricola comune) ha causato epocali mutamenti negli assetti aziendali. Chi non è riuscito ad adattarsi alle incalzanti fasi di razionalizzazione del comparto agroalimentare (e non ha potuto o saputo crescere economicamente) è stato spazzato via per insufficiente competitività. Con il crollo della remuneratività delle produzioni e la chiusura degli sbocchi di mercato per i produttori “arretrati” è iniziato l’esodo dalla terra. Qual è oggi la situazione di coloro che producono sulla terra, con la terra e per la terra, tutelando cioè le condizioni di riproducibilità del suolo e degli altri beni naturali? Nei paesi fondatori dell’Ue dopo sessanta anni di Comunità Europea, Pac e continue innovazioni agroalimentari costoro si sono rarefatti fin quasi al dissolvimento. Tra il 1951 e il 2013 gli occupati agricoli in Italia sono passati dal 56 per cento a poco più del 3 per cento della forza lavoro complessiva. Questa decimazione degli addetti al settore primario è stata salutata come inevitabile e fisiologica, ma le cose stanno davvero così? Personalmente non lo credo affatto. Contrariamente alle previsioni degli esperti di agenzie economiche, governative e multilaterali (compresa la Fao), in anni recenti ci sono stati segnali di un’inversione di tendenza in questo grave processo 31 Si veda T. Lang, M. Heasman, Food Wars. The Global Battle for Mouths, Minds and Markets, Routledge, London 2004; le trasformazioni novecentesche dei sistemi del cibo sono accennate in F. Parascandolo, Fra terra e cibo. Sistemi agroalimentari nel mondo attuale (e in Italia), in «Scienze del territorio», 1, 2013. 87
di desertificazione umana delle campagne. In Italia gli addetti agricoli non tendono più a precipitare verso quell’infimo tasso dell’1 per cento della forza lavoro totale che a lungo è stato considerato una sorta di traguardo da raggiungere per potersi definire un paese “veramente progredito”. Di recente la resistenza all’abbandono della terra ha iniziato a rafforzarsi, se non sempre nei dati, di certo come fenomeno culturale. Bisogna però rendersi conto che c’è ancora tantissima strada da fare. Pensate che impatto può avere avuto sul territorio nazionale italiano la sottrazione in pochi decenni di milioni di persone che praticavano un modello contadino di agricoltura e si prodigavano in una manutenzione artigianale dei luoghi con quell’amore per le cose ben fatte che è alla base della godibilità di qualunque paesaggio. Un paesaggio che abbiamo in gran parte perso e continuiamo a perdere perché da almeno sessant’anni le nostre terre e le loro forme d’uso sono governate da programmazioni economiche internazionali e sono sottoposte a regolamenti emanati o “suggeriti” da banche, agenzie commerciali, corporazioni tecniche, imprese fornitrici di macchinari o di prodotti chimici, ecc. Le attività rurali e gli assetti agrari sembrano essere stati ridisegnati più per soddisfare esigenze di profitto generate da moltitudini di persone giuridiche estranee al settore agricolo che per soddisfare i bisogni alimentari delle popolazioni regionali, cioè di quelle persone in carne ed ossa che abitano i territori, e i risultati si vedono...32. Quanto precede ci mostra l’importanza di un ampio e articolato processo di ritorno alla terra che coinvolga tutti gli attori sociali, anche coloro che non producono direttamente il loro cibo (le maggioranze), ma che, in quanto consumatori selettivi, stanno già in parte svolgendo e potrebbero sempre più svolgere un ruolo determinante per un cambiamento costruttivo. Il primo aspetto da affrontare è l’insostenibile lunghezza delle filiere. A causa della globalizzazione agroalimentare la distanza media che il cibo deve percorrere dal campo alla tavola è più che raddoppiata negli ultimi trenta-quarant’anni (Fao, 2006). Priorizzando l’accorciamento delle filiere nelle politiche pubbliche e nelle scelte di indirizzo dei privati si potrebbe conseguire un cruciale obiettivo di riequilibrio socio-ecologico sul medio termine. Mi riferisco a una transizione non rinviabile al secolo prossimo o a chissà quando. Ad ogni livello territoriale, le politiche agricole e alimentari potrebbero essere riformulate per perseguire l’autosufficienza e la sovranità alimentare mediante processi di deconcentrazione della proprietà fondiaria, di difesa del suolo da ulteriori artificializzazioni, di allargamento sociale delle basi produttive del cibo ad opera di agricoltori di piccola scala33. 32 Sull’indispensabile ripensamento dei fondamentali dell’economia in base ai reali bisogni delle popolazioni rinvio a R. Patel, Il valore delle cose e le illusioni del capitalismo, Feltrinelli, Milano 2010; sulle criticità addensatesi nei rapporti tra agricoltura e paesaggio e su possibili strategie per risolverle si veda D. Poli, Agricoltura paesaggistica. Visioni, metodi, esperienze, Fup, Firenze, 2013. 33 Quanto l’Italia dei tempi attuali – malgrado l’«eccellenza» di molte produzioni agricole – sia complessivamente lontana da questi orientamenti ce lo dice per esempio il rapporto del Mipaaf Costruire il futuro: difendere l’agricoltura dalla cementificazione, Roma 2012, sulla marginalizzazione dell’agricoltura non speculativa. S. Kay, Land concentration in Europe, in Access to Land for Farmers in the EU, Conference, Brussels, 7 December 2016, fornisce un aggiorna88
Fig. 4 In questa immaginetta di Sant’Antonio Abate sono radunate la biodiversità animale e vegetale e i quattro elementi primordiali che la supportano: aria, acqua, terra e fuoco-energia.
Nel titolo nomino al plurale i «ritorni alla terra» perché questo processo generale di transizione dovrebbe radicarsi nelle molteplicità di contesti locali. In ogni luogo bisognerebbe riprendere a consumare derrate provenienti in gran parte dai territori circostanti, su scala comunale o comprensoriale, o al limite regionale. In una logica di sussidiarietà orizzontale le popolazioni che risiedono in ogni ambito locale dovrebbero attivarsi e pervenire per quanto possibile all’autosufficienza alimentare. È ovvio che se io abito in Scandinavia e mi piacciono le banane potrò acquistarne d’importazione. Però se sono un cittadino europeo e nella mia terra si produce, per esempio, miele, perché mai me lo devo far produrre all’altro capo del mondo e acquistarne di importato con relativo dispendio di chilometri alimentari, inquinamento da energie fossili ed emarginazione economica dei miei conterranei apicoltori che non possono battere i prezzi stracciati della Gdo? Parlo del miele come di qualunque altra merce alimentare che secondo le vigenti regole dell’economia globalizzata può essere importata senza mento sintetico sugli insostenibili livelli di concentrazione della proprietà fondiaria supportati da sessant’anni di Pac europea. 89
limiti, pur di abbattere i costi di produzione e massimizzare i ricavi per gli intermediari delle filiere. È chiaro che i criteri di sovranità alimentare e autoproduzione territoriale del cibo non vanno presi per “principi assoluti” da rispettare rigidamente; andrebbero calibrati in base alle contingenze socio-ecologiche regionali, ma potrebbero comunque funzionare per agroecosistemi sufficientemente produttivi come quelli situati alle nostre latitudini mediterranee34. Limitandosi a tempi recenti e a luoghi a noi vicini, quali comunità del cibo hanno cercato di cambiare la presente situazione in cui degli “attori forti” costruiscono sistemi agroalimentari tanto redditizi (per loro) quanto insostenibili (per la biosfera e per altri esseri umani)? E chi si è attivato per realizzare azioni concrete in proposito? In generale va segnalato il grande impulso che in tempi recenti le popolazioni locali stanno dando, “dal basso”, al fenomeno degli orti urbani. In Italia un caso esemplare di agrourbanesimo è quello della cooperativa Arvaia di Bologna35. Impiego il termine «ritorni alla terra» al plurale anche per via delle diverse esigenze dei tanti soggetti implicati. Fuori dai contesti urbani, questo discorso è declinabile in termini di neoruralità. Per l’Italia può essere approfondito leggendo, per esempio, Terra e futuro di Sergio Cabras e Genuino Clandestino di vari autori tra cui Michela Potito. Quando si parla di ritorno alla terra è in ogni caso decisiva la questione del rinnovamento dei metodi colturali e dei modelli agroalimentari. Serve una transizione dai sistemi centralizzati-monocolturali a forme policolturali ed ecocompatibili di utilizzo dei suoli, dei corpi abiotici naturali e del vivente domesticato. Mi riferisco a tecniche e tecnologie molto varie, in funzione di scuole di pensiero e operative diverse, ma comunque ad approccio agroecologico; modelli agricoli accomunati da un basso o nullo impiego di energie da fonti fossili e da un uso cauto o assente di meccanizzazione e prodotti chimici di sintesi36. L’orizzonte di senso di queste trasformazioni punta alla riconversione ecologica dell’economia e alla democratizzazione dei sistemi agroalimentari mediante nuovi modi di produzione, consumo e accesso alla terra e a cibi localmente e stagionalmente disponibili. Da queste azioni potrebbe scaturire una nuova territorialità che sappia riprendere i fili interrotti di parecchi “dialoghi” tra e con sistemi naturali, organizzazioni sociali e compagini territoriali. Sarebbe tempo di ricreare molti di quei rapporti di mutuo scambio – spesso economicamente «informali» e tuttavia fecondi 34 A titolo introduttivo sulla posta in gioco politica e sui caratteri multiscalari della transizione necessaria per il conseguimento della sovranità alimentare si veda J.P. Stedile, Riflessioni sulle tendenze del controllo del capitale sull’agricoltura, le sue conseguenze e le alternative proposte dai contadini, relazione al Forum Sociale del Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite, Ginevra, 1-3 ottobre 2012. 35 Si veda www.arvaia.it/, mentre per esperienze europee di agrourbanesimo “militante” segnalo http://urgenci.net/. Per interessanti riflessioni sulle valenze paesaggistiche del giardinaggio alimentare urbano si veda M. Reiker, Landscape and the collapsing metropolis, in S. Aru, M. Tanca (a cura di), Convocare esperienze, immagini, narrazioni. Dare senso al paesaggio vol. 2, Mimesis, Milano-Udine, 2015. 36 In quanto disciplina scientifica, l’agroecologia si occupa di una molteplicità di elementi, a diversi livelli scalari. Per farsi un’idea dei suoi lineamenti e delle sue variegate connotazioni rinvio ad A. Wezel, et al., Agroecology as a science, a movement and a practice. A review, «Agronomy for Sustainable Development», 29, 2009. 90
Fig. 5 La macedonia dall’albero alla tavola – una favola moderna (traduzione dall’inglese). Fonte: James Bruges, The Little Earth Book, Alastair Sawday Publishing, Barrow Gurner, 2001, second edition, p. 97.
– che sono stati interrotti e cancellati dalla modernità industriale. La sfida è molto impegnativa, ma dal movimento socio-culturale del ritorno alla terra potrebbe forse emergere un nuovo modello di civilizzazione che ammetta tra i suoi obiettivi portanti il compimento di un progetto federativo di bioregioni urbane37. Oggi è possibile rendersi conto che la filosofia meccanicistica apparsa nell’Europa del Seicento e sviluppatasi in forme colonialistiche e utilitaristiche nei secoli successivi era solo uno tra possibili modi regionali di rappresentarsi e trasformare il mondo, ma col tempo questo modello di organizzazione e “sviluppo” delle società umane e dell’ambiente si è ingigantito si è fino a globalizzarsi. Qualunque strada ci risolveremo a prendere per costruire un futuro vivibile a fronte delle gravi difficoltà del presente, questa dovrà passare dalla consapevolezza dei limiti di questo “locale gonfiato” che ha preteso di ergersi a unico possibile modello di civiltà umana38. Sulla scorta di queste ultime riflessioni vorrei concludere con le parole di Ivan Illich: Ovunque vai, non importa dove, il paesaggio lo riconosci subito. È segnato in tutto il mondo da torri di raffreddamento e da parcheggi, da agroindustrie e da megalopoli. Ma adesso che per lo sviluppo è scoccata l’ultima ora (la Terra era evidentemente il pianeta sbagliato per questo tipo di cose), i progetti di crescita si stanno rapidamente mutando in rovine, in immondizia. Qui dobbiamo imparare a vivere39. 37 Si veda A. Magnaghi, op. cit., con rinvii bibliografici. 38 Sul declino dell’universalismo omogeneizzante, esito culminante dell’Occidente moderno, si veda W. Sachs Un mondo, in W. Sachs (a cura di), Dizionario dello sviluppo, ediz. italiana a cura di A. Tarozzi, Ega, Torino 1998, pp. 423-443. 39 I. Illich, Bisogni, in W. Sachs, op cit. (1998), citaz. p. 61. 91
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I nuovi contadini
Jan Douwe van der Ploeg
I nuovi contadini, non sono i contadini del passato, ma ai contadini del XXI secolo, che rappresentano una componente importante della nostra agricoltura, anche se spesso dimenticata perché invisibile, ma determinante quando parliamo di paesaggio. Credo, infatti, che sia possibile costruire un rapporto positivo tra agricoltura e paesaggio, soprattutto nel contesto di un’agricoltura contadina, quando ci sono passione, conoscenza, volontà e responsabilità, quando c’è dialogo tra cittadini e contadini, e che si possa creare qualcosa di positivo anche quando viviamo in un mare di distruzione. Dappertutto i paesaggi soffrono processi di distruzione e di degrado, ma assistiamo anche a tendenze positive ed è importante conoscerle e da queste partire per costruire realtà nuove. Il mio contributo si sintetizza in tre immagini: nella prima figura è ritratta una contadina cinese [fig. 1], dopo la ribellione del 1979 sono nate 200.000.000 di nuove unità contadine in Cina, un fenomeno enorme. Nella seconda vediamo una famiglia di agricoltori olandese che hanno riabbracciato lo stile di vita contadino, lavorando con orgoglio [fig. 2]. Nella terza figura, è rappresentato il fenomeno dell’agricoltura urbana, anch’essa una nuova tendenza sviluppatasi negli ultimi anni [fig. 3]. Quando parliamo dell’agricoltura è importante dal punto di vista analitico sapere che esistono diversi tipi di agricoltura. Esiste un’agricoltura capitalistica, che ha come figura centrale quella del bracciante; un’agricoltura imprenditoriale, che è
Fig. 1 Contadina cinese. Fig. 2 Famiglia di contadini olandesi. Fig. 3 Orto urbano in Olanda. 97
stata trainante durante il processo di modernizzazione dell’Europa dopo gli anni Cinquanta e che ha portato ad un’agricoltura molto più specializzata e intensiva di grande scala; e infine un’agricoltura contadina, che non è soltanto un fenomeno delle aree periferiche del terzo mondo, ma che è caratteristica dell’agricoltura europea con conseguenze importanti. Quest’ultimo tipo di agricoltura non è una realtà statica, perché sono tanti i processi, tanti i movimenti, che hanno dato luogo ad una “ri-contadinizzazione” [fig. 4]. Il termine deriva dall’inglese re-peasantisation e indica il riemergere dei contadini. Questa è la premessa da cui partire.
Fig. 4 Il primo schema rappresenta i tre differenti tipi di agricoltura, nel secondo la loro interazione nel processo di “ri-contadinizzazione” olandese
La figura 5 riporta i dati relativi al censimento di fine anni Novanta sullo sviluppo dell’agricoltura. Vi si legge che il numero delle piccole aziende agricole diminuisce mentre aumenta quello delle grandi. Conclusione ovvia è che la piccola azienda tende a scomparire a vantaggio di quella di grandi dimensioni. Ma questo è uno sguardo molto deformato, viziato da un errore di metodo. I dati ci restituiscono tre gruppi di aziende agricole: piccole, medie e grandi, tipicamente dedicate alla zootecnica. Se è vero che nel corso di dieci anni scompaiono tante piccole aziende zootecniche, è altrettanto vero che ne scompaiono anche di grandi. Queste sono cresciute di più del 25%, ma nel gruppo delle piccole si vede una crescita ancora maggiore. Quindi, spariscono le piccole aziende, ma se ne creano di nuove di uguale dimensione, quasi 8.000 nate in quel periodo. Anche nel gruppo delle grandi assistiamo a una visibile variazione a testimoniare una dinamicità molto più complessa di quella che normalmente viene rilevata dai censimenti tradizionali. Altro fenomeno interessante riguarda la crescita, presente in tutti i tipi di azienda: alcune piccole aziende crescono tanto da diventare medie aziende; statisticamente spariscono, ma in realtà esistono ancora. Questo vuol dire che in agricoltura la dinamica è molto più complessa di quello che viene generalmente sintetizzato e le aziende grandi vanno a sostituire le piccole e le medie [fig. 6]. Oltre alla logica economica, c’è quella sociale, ossia la volontà delle piccole aziende di adattarsi e di continuare ad operare. La logica economica e la logica sociale possono anche puntare in direzioni diverse. Lo sviluppo delle piccole unità contadine ha avuto un impatto maggiore sul 98
Fig. 5 Dati relativi alle aziende olandesi suddivise per dimensioni, nel periodo 1980-1990.
Fig. 6 Confronto tra i metodi di analisi tradizionale e i nuovi metodi di tipo empirico.
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processo di crescita agricola rispetto a quello delle grandi aziende; queste ultime crescono molto, ma sono poco numerose, mente il contributo apportato dalla crescita delle numerose piccole unità risulta essere, nel complesso, molto più forte [fig. 7]. Purtroppo, la politica agraria non ci fornisce questi dati, o non li vuole vedere. Detto questo, è importante specificare cosa intendiamo quando parliamo di agricoltura contadina: in agricoltura ci sono le risorse (la terra, le piante, gli animali, le macchine, il lavoro) che vengono convertite in prodotti e che finiscono sul mercato, e in mezzi interni che vengono riutilizzati: con la mucca si produce il latte, la carne, ma anche un vitello che rientra nel processo di produzione, e così via. L’agricoltura imprenditoriale, sostenuta dalla politica agraria della Comunità Europea, risulta essere sempre più dipendente dai mercati a monte, dai capitali, dai mercati dei contoterzisti; deve seguire le logiche di questi mercati, mentre nell’agricoltura contadina la logica è alla rovescia, dipende meno da questi mercati e produce e ri-produce le risorse che sono alla base della sua produzione. Lo schema della figura 8 è stato il punto di partenze del processo di “ricontadinizzazione” che attualmente si sta sviluppando in Europa attraverso diversi meccanismi: 1. fare un’agricoltura diversificata, produrre quindi per più mercati, come fanno, ad esempio, gli agriturismi; 2. ridurre l’uso delle risorse esterne, adottando un’agricoltura più agro-ecologica; 3. rifondare l’agricoltura sulla natura stessa, basandosi sulle pluriattività, sulla cooperazione che rendono più efficiente l’agricoltura. Cosa significa questo nella pratica? Due esempi: il primo relativo a un’iniziativa individuale e il secondo, su scala territoriale, a un gruppo di agricoltori uniti in
Fig. 7 Il contributo rapportato alla crescita totale dell’agricoltura dalle differenti tipologie di aziende zootecniche olandesi. 100
Fig. 8 La struttura base delle aziende agrocole.
cooperativa, nato per salvaguardare il paesaggio. L’immagine rappresenta la mappa dell’Olanda con individuate le aziende specifiche che cooperano con un gruppo di studi e che costituiscono un fenomeno molto importante in Olanda. L’azienda Zonnehoeve [fig. 9] è un podere nuovo al centro del paese. Trent’anni fa era un’azienda zootecnica all’avanguardia, completamente nuova, ma negli ultimi anni ha ridotto il numero dei capi di bestiame per riservare più spazio alla coltivazione del grano e del foraggio, e quindi per poter produrre internamente, autonomamente, il mangime e dipendere meno dai mercati. Successivamente, ha aggiunto l’allevamento dei cavalli e, attraverso il maneggio, ha offerto un servizio di cura dei cavalli di proprietà di abitanti della città di Amsterdam, oltre ad organizzare corsi di equitazione. Ha sottoscritto anche un contratto con l’organizzazione del parco naturale limitrofo, affittando 80-100 ettari, in cambio della sua manutenzione. Questo le permette di usufruire di uno spazio addizionale per i cavalli e per le attività di equitazione. Ha creato anche un panificio che utilizza il grano coltivato e produce pane per i ristoranti stellati della zona; inoltre, il mulino, oltre alla farina, produce energia elettrica per i consumi interni. Parte dei prodotti dell’azienda vengono oggi commercializzati attraverso i mercati contadini di Amsterdam e di Utrecht, o con l’e-commerce su internet. L’azienda è usata anche per curare bambini con difficoltà, uno spazio ideale per loro. Il centro di addestramento dei cavalli viene usato anche per trasmissioni televisive. Con tutto questo, all’interno dell’azienda, sono aumentati i posti di lavoro, sia per giovani sia per stranieri. La diversificazione e la multifunzionalità costituiscono la base per un’agricoltura contadina: è un processo continuo che continua e che crea tanti vincoli tra azienda agricola e società, vincoli che legano i produttori con i nuovi mercati e con i nuovi 101
servizi erogati. Abitare la terra, produrre con la terra, passa attraverso la costruzione, la conversione della ruralità in uno spazio attrattivo. Abitare la terra significa produrre spazi attrattivi, essenziali a questo tipo di agricoltura nuova. Il secondo esempio, che riguarda un livello di aggregazione che va oltre quella dell’azienda individuale, è quello di una cooperativa territoriale. Nei piani CEE per lo sviluppo rurale, la cooperazione è presente con possibilità di finanziamenti; è una realtà nuova e molto diversa dalle cooperative del passato. La presenza di una cooperativa territoriale ci dice che la società vuole una campagna e un paesaggio attrattivo, un paesaggio che noi costruiamo senza una regolamentazione che provenga dall’esterno. Lo si fa con le nostre conoscenze, con i nostri mezzi e secondo i nostri accordi, con una giusta compensazione per mantenere il paesaggio. Una delle prime cooperative territoriali è nata proprio in quest’area, in un paesaggio caratterizzato da piccole stalle, con filari di alberi, dove un campo ha un’estensione media di mezzo ettaro, considerato troppo piccolo dall’agricoltura moderna. È un paesaggio zootecnico, costruito dalle generazioni passate, un paesaggio difficile da lavorare, ma considerato dalla popolazione del luogo depositario di una bellezza da conservare. È stato costruito da agricoltori, da padri e da nonni, con filari e siepi e piantate come corridoi tra i campi per evitare che il bestiame passi da un campo all’altro, come barriere naturali.
Fig. 9 Localizzazione dell’azienda agricola Zonnehoeve. 102
Fig. 10 L’allevamente di bovini dell’azienda agricola Zonnehoeve.
Fig. 11 Trebbiatrice all’opera nell’azienda agricola Zonnehoeve. Il grano è impiegato sia per la produzione di farina macinata direttamente nel mulino o per la produzione dei mangimi destinati al bestiame. 103
Siamo nel nord dell’Olanda, nella zona est della Frisia, un territorio caratterizzato da un terreno prevalentemente sabbioso e quindi povero; in passato i contadini poveri di quest’area hanno sempre dovuto difendersi, rispetto a quelli più ricchi dell’ovest. La storia della cooperazione sociale in questa zona nasce con i caseifici sociali e, quando vent’anni fa il governo olandese decise di tutelare, vincolandolo, questo paesaggio, la popolazione locale, d’accordo con le istituzioni pubbliche, fondò questa cooperativa su iniziativa di tre giovani contadini della zona. Dagli iniziali 36 soci, la cooperativa si è ampliata e oggi comprende quasi un migliaio di persone su un’area di circa 50.000 ettari. Il programma è multidimensionale, volto alla salvaguardia della biodiversità, per il benessere della terra, delle acque, degli animali, per la produzione energetica e per la qualità dei prodotti. Proteggere le diverse specie di uccelli è parte dell’agricoltura; chi lavora in queste zone sa riconoscere le specie e creare nei campi le condizioni per la loro riproduzione e il mantenimento dei loro habitat. Questa conoscenza è un utile strumento per la popolazione locale per conservare il paesaggio e interagire con il governo nelle richieste che di volta in volta si rendono necessarie. Ne è un altro esempio la decisione presa già 25-30 anni fa per ridurre l’uso dei fertilizzanti, secondo una logica molto contadina, che prevede di utilizzare meno risorse esterne per migliorare quelle intere. Si è tornati così all’impiego del letame per la concimazione dei campi, come si faceva in passato, al posto di prodotti chimici che minacciano la fertilità del suolo. È stato utilizzato un rifinanziamento specifico per il ripristino del ciclo agronomico, che va dal letame, al foraggio, alla mucca e di nuovo al letame. Oggi il letame contiene meno azoto che in passato, in particolare meno azoto di tipo ammoniacale, grazie allo sviluppo delle nuove tecnologie; si tratta di un aspetto molto importante per gli agricoltori che hanno potuto così incrementare la produzione di foraggio e di conseguenza l’efficienza del processo produttivo.
Fig. 12 Il paesaggio della zona est della Frisia, caratterizzato da siepi e piantate che suddividono i diversi appezzamenti di terreno. 104
Grazie al miglioramento del letame, si è potuto inoltre migliorare la biodiversità invisibile del sottosuolo e il sistema dei microorganismi ivi presenti che si traduce in un miglioramento anche ai livelli superiori della catena alimentare. Migliorando l’uso delle risorse interne, si è riusciti così a migliorare la biodiversità animale di quest’area. La biodiversità non viene importata da lontano, ma riprodotta dall’agricoltura contadina; questo ha permesso di rafforzare l’economia locale, migliorare le risorse naturali presenti e mettere un pensiero nuovo su come introdurre cambiamenti nella società. Alla base del cambiamento ci sono le micro-attività, che molto spesso non vengono viste e riconosciute; sono molte le piccole iniziative, l’importante è riuscire a veicolarle, combinarle in un flusso che riesca a raggiungere un livello più alto di produzione. Così è stato per questa cooperativa: partendo da una piccola iniziativa si è arrivati a cambiare la regolamentazione CEE per lo sviluppo rurale con il risultato di una maggiore autonomia e più libertà per gli stessi contadini. Questa è una logica molto importante che anche gli architetti e gli agronomi devono tener presente per cooperare secondo nuove formule con gli agricoltori, invece di imporre schemi esterni che provocano solo resistenze da parte della popolazione locale. Centrale in tutto questo nuovo approccio è il ruolo degli agricoltori, dei nuovi contadini, che deve essere rivalorizzato; a loro va attribuito un ruolo centrale nei cambiamenti; bisogna riconoscere e rinforzare la polivalenza delle attività agricole ed è importante creare spazi di autogoverno che permettano agli attori locali di applicare la propria fantasia e le proprie capacità di progettazione, le loro alleanze. Soltanto in questo modo si potranno creare condizioni positive per la salvaguardia del paesaggio.
Fig. 13 Introdurre nuove qualità nel territorio: lo schema raffigura le ricadute positive sul territorio dall’abbandono dei fertilizzanti chimici e il passaggio al reimpiego del letame.
* Trascrizione dell’intervento tenuto in occasione della VIII edizione della Summer School Emilio Sereni, a cura di Gaia Monticelli. Testo non rivisto dall’autore. 105
Gli indicatori del paesaggio rurale nel Progetto BES per la misurazione del benessere
Luigi Costanzo, Alessandra Ferrara
Misurare e valutare il progresso della società italiana Il Progetto BES (Benessere Equo e Sostenibile) nasce nel 2010 come iniziativa congiunta di Istat e CNEL per la produzione di un set di indicatori di benessere, collocandosi nella scia del dibattito internazionale sul superamento del PIL come misura unica dello sviluppo: dibattito riaperto dalla pubblicazione, nel 2009, del rapporto della Commissione Stiglitz, nominata dal Governo francese per studiare nuove misure “della performance economica e del progresso sociale”1. Il progetto BES, che si propone, per parte sua, di “misurare e valutare il progresso della società italiana”, prende le mosse proprio dalle conclusioni della Commissione Stiglitz, che raccomandavano di adottare un approccio multi-dimensionale nella misurazione del benessere, integrando i tradizionali indicatori macro-economici con indicatori di qualità della vita che tengano conto degli aspetti di equità e sostenibilità della crescita, al fine di restituire una visione più completa ed equilibrata del progresso della società. Il primo Rapporto della Commissione scientifica per la misurazione del benessere, incaricata di realizzare il Progetto, è stato pubblicato nel 2013, e successivamente aggiornato con cadenza annuale2. La riforma della Legge di bilancio approvata il 28 luglio 2016 prescrive il recepimento di una selezione di indicatori del BES nel Documento di economia e finanza, come strumento di valutazione degli effetti delle politiche pubbliche e, in particolare, delle misure di politica economica3. 1 J.E. Stiglitz, A. Sen, J.P. Fitoussi (2009). 2 Tutta la documentazione del Progetto BES è disponibile sul sito http://www.istat.it/it/benessere-e-sostenibilit%C3%A0/misure-del-benessere/il-rapporto-istat-sul-bes (giugno 2017), dove sono disponibili anche i Rapporti pubblicati annualmente dall’Istat. 3 Legge 4 agosto 2016, n. 163 (art. 1, comma 6; art. 14). La norma prevede che un apposito allegato al Documento di economia e finanza (Def) analizzi l’andamento recente di una selezione di indicatori del BES e formuli previsioni sulle loro tendenze sulla base delle misure previste per il raggiungimento degli obiettivi di politica economica. Entro il 15 febbraio di ogni anno, inoltre, il Ministro dell’economia dovrà relazionare al Parlamento sull’andamento degli indicatori. La selezione degli indicatori da inserire nel Def è affidata a un Comitato per gli indicatori di benessere equo e sostenibile, presieduto dal Ministro dell’economia e composto dal presidente dell’Istat, dal Governatore della Banca d’Italia e da due esperti provenienti dall’università o da enti di ricerca. 107
Il progetto BES considera 12 dimensioni di analisi (tab. 1), di cui otto corrispondono grossomodo a quelle proposte dalla Commissione Stiglitz (Salute, Istruzione e formazione, Lavoro e conciliazione dei tempi di vita, Benessere economico, Relazioni sociali, Politica e istituzioni, Sicurezza, Ambiente). Le altre quattro (Benessere soggettivo, Paesaggio e patrimonio culturale, Ricerca e innovazione, Qualità dei servizi) sono state aggiunte tenendo conto sia delle proposte emerse in seno alla Commissione (aperta a una numerosa rappresentanza del mondo accademico e della società civile), sia delle indicazioni raccolte “dal basso” attraverso due canali: un quesito speciale inserito nell’indagine Istat Aspetti della vita quotidiana, rivolta a un campione di 24 mila famiglie, e una consultazione via web, organizzata sul portale del Progetto, cui hanno risposto circa 2.500 persone. Tab. 1 – Corrispondenza fra le dimensioni del benessere proposte dalla Commissione Stiglitz e dal Progetto BES Commissione Stiglitz
Progetto BES
Health
Salute
Education
Istruzione e Formazione
Personal activities, including Work
Lavoro e Conciliazione dei tempi di vita
Material living standards (Income, Consumption and Benessere economico Wealth) Social connections and Relationships
Relazioni sociali
Political voice and Governance
Politica e Istituzioni
Insecurity, of an economic as well as a physical nature Sicurezza
Benessere soggettivo Paesaggio e Patrimonio culturale Environment (present and future conditions)
Ambiente Ricerca e Innovazione Qualità dei servizi
Gli indicatori elementari selezionati per le 12 dimensioni sono in tutto 130, basati in gran parte (ma non esclusivamente) su dati Istat, e sono prodotti a livello regionale per rappresentare le forti differenze interne al Paese, specialmente rilevanti sotto il profilo dell’equità4. La scala regionale scelta per l’output ha orientato il lavoro della Commissione scientifica allo sviluppo di indicatori capaci di rappresentare macrofenomeni riferibili a contesti territoriali vasti, e potenzialmente sintetizzabili a livello ripartizionale e nazionale. Infine, a partire dall’edizione 2015 sono state introdotte anche misure sintetiche dell’andamento complessivo delle diverse dimensioni (gli “indicatori compositi di dominio”), allo scopo di fornire una valutazione della dinamica complessiva di ciascun dominio di analisi, e renderne così più semplice e immediata la valutazione5. 4 Il numero degli indicatori effettivamente pubblicati nei Rapporti BES può subire, da un’edizione all’altra, piccole variazioni, essenzialmente in dipendenza dalla disponibilità delle fonti di dati. 5 Sulla metodologia di costruzione degli indici compositi si veda, in particolare, Istat (2015), pp. 49-sgg. 108
Paesaggio e patrimonio culturale come dimensione del benessere La dimensione Paesaggio e patrimonio culturale ha acquisito nel Progetto BES un’autonomia concettuale che non aveva nella proposta della Commissione Stiglitz e che, almeno finora, non le è stata riconosciuta nelle analoghe iniziative che diversi Istituti nazionali di statistica hanno messo in cantiere, negli ultimi anni, in varie parti del mondo6. Tale autonomia, giustificata dall’eccezionale rilevanza che paesaggio e patrimonio culturale rivestono nel contesto italiano, non era prevista neanche nell’impostazione iniziale del Progetto, e la creazione di un dominio di analisi specificamente riferito a questa dimensione è stata deliberata – fatto che merita di essere sottolineato – soltanto in un secondo momento, sulla base delle indicazioni emerse dalla web survey condotta nelle fasi iniziali, dove il 77,8% dei rispondenti aveva menzionato “paesaggio e patrimonio culturale” fra le dimensioni “più rilevanti” per l’analisi del benessere. Paesaggio e patrimonio culturale sono considerati nella loro qualità di beni comuni, la cui fruizione e preservazione contribuiscono alla qualità della vita individuale e collettiva, in accordo con la Costituzione, che annovera la tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione fra i suoi principi fondamentali (art. 9). L’accezione di beni comuni (non necessariamente pubblici), può essere ricondotta alla proposta dalla Commissione Rodotà per la riforma del Codice civile in materia di proprietà in un DDL del 20077: “cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona e che, in quanto tali, devono essere tutelati e salvaguardati dall’ordinamento giuridico, anche a beneficio delle generazioni future”.
Concettualizzazione del dominio di analisi Il primo problema che si è posto, nella definizione di un dominio pressoché inesplorato dall’analisi quantitativa, è stato quello di disegnarne una mappa concettuale, stabilendo relazioni logiche fra i concetti fondamentali. In un paese come l’Italia, il cui territorio nel corso dei secoli è stato modellato quasi ovunque dalla mano dell’uomo, “paesaggio” e “patrimonio culturale” sono oggetti difficili da separare, perché tutti i paesaggi storici (o quanto meno quelli urbani e rurali) non possono non considerarsi parte integrante del patrimonio culturale. Nondimeno, nella definizione degli indicatori, tale separazione non sempre può essere evitata perché i tematismi delle (scarse) fonti statistiche disponibili rispecchiano la divisione delle competenze fra gli organi preposti alla tutela dei “beni culturali” da una parte, e quelli preposti al governo del territorio dall’altra. Avremo dunque, accanto a indicatori trasversali, riferibili al binomio paesaggio-patrimonio culturale nel suo insieme, altri riferiti al patrimonio culturale in senso stretto (cioè nella sua 6 Per una rassegna delle principali iniziative internazionali (aggiornata al 2015), vedi: http:// www.misuredelbenessere.it/index.php?id=13. 7 Commissione Rodotà (2007). Sul concetto di bene comune applicato al paesaggio si veda, in particolare, Settis (2014). 109
accezione di insieme di elementi puntuali quali monumenti, siti archeologici, musei, ecc.) e altri ancora riferiti specificamente al paesaggio nelle sue diverse componenti. Inoltre, fermo restando il riconoscimento del paesaggio come elemento costitutivo del patrimonio culturale, non si può trascurare – soprattutto ai fini della definizione del nesso fra paesaggio e benessere – l’aspetto soggettivo del paesaggio, inteso come scenario della vita quotidiana e come oggetto di esperienza individuale, almeno nelle sue implicazioni di rilevanza sociale: con riferimento, cioè, alla sua percezione collettiva come fattore di qualità della vita e come “problema ambientale”. Un’utile linea di demarcazione fra i due aspetti, entrambi rilevanti in una valutazione del benessere, può essere individuata sulla base della classica distinzione di Biasutti (1962) fra paesaggio sensibile e paesaggio geografico8.
Fig. 1 Schema concettuale del dominio di analisi “paesaggio e patrimonio culturale”
Il primo è quello dell’esperienza e della consapevolezza individuali, che può concorrere al benessere degli individui su un piano, per così dire, esistenziale: i fattori che ne determinano l’influsso sulla qualità della vita delle persone sono imponderabili e tutt’altro che limitati alla sfera dei valori estetici. In parte forse predominante pesano, infatti, valori affettivi e simbolici legati alla memoria personale, alle abitudini della vita quotidiana, ecc.: il tutto filtrato, in ogni caso, attraverso la lente della percezione soggettiva. Il secondo è invece il paesaggio sedimentato dalla storia in forme caratteristiche, riconosciute dalla collettività, che conferiscono una particolare identità a una regione dello spazio fisico: “il territorio espressivo di identità, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali, umani e dalle loro interrelazioni”, secondo la definizione del Codice dei beni culturali e del paesaggio9. È in questa accezione, per essere più precisi, che il paesaggio è parte integrante del patrimonio culturale, e come tale è considerato dall’art. 9 della Costituzione. 8 Biasutti distingue fra “il paesaggio sensibile o visivo, costituito da ciò che l’occhio può abbracciare in un giro di orizzonte o, se si vuole, percettibile con tutti i sensi; un paesaggio che può essere riprodotto da una fotografia (…) o dal quadro di un pittore, o dalla descrizione, breve o minuta, di uno scrittore” e il “paesaggio geografico”, che è “una sintesi astratta di quelli visibili, in quanto tende a rilevare da essi gli elementi o caratteri che presentano le più frequenti ripetizioni sopra uno spazio più o meno grande, superiore, in ogni caso, a quello compreso da un solo orizzonte”. 9 D. Lgs. n. 42 del 22 gennaio 2004, art. 131, comma 1. 110
La relazione fra paesaggio e benessere investe, in tutta evidenza, entrambi gli aspetti: sia quello soggettivo (il paesaggio sensibile come oggetto quotidiano della percezione individuale e, in quanto tale, potenziale fonte di benessere o di disagio) sia quello oggettivo (il paesaggio geografico inteso come bene comune e in particolare come bene culturale, in quanto prodotto dell’interazione fra natura e cultura). Avremo, perciò, indicatori pertinenti alla sfera soggettiva, e quindi essenzialmente alla percezione del paesaggio sensibile e alla consapevolezza del suo valore come elementi dell’esperienza quotidiana, e altri pertinenti alla sfera oggettiva, e quindi alle “condizioni di salute” del paesaggio (geografico) e del patrimonio culturale. Questi ultimi, in particolare, non saranno misure statistiche della qualità dei paesaggi o dei beni culturali (del resto non disponibili), ma piuttosto del rischio di degrado o di perdita che ne minaccia l’integrità, pregiudicandone la trasmissione alle generazioni future. Essi saranno specificamente riferiti alle varie componenti del patrimonio culturale, che comprende sia i beni culturali in senso stretto (monumenti, siti archeologici, musei, ecc.) sia i paesaggi urbani e rurali. La problematica del paesaggio naturale – che in Italia si identifica essenzialmente con la conservazione delle aree protette – è stata considerata, nel progetto BES, di pertinenza di un’altra dimensione di analisi: quella dell’Ambiente. L’elenco degli indicatori prodotti nell’ambito della dimensione Paesaggio e patrimonio culturale, con le relative definizioni, è fornito in tab. 2. Nel seguito di questo articolo approfondiremo in particolare i due indicatori di erosione dello spazio rurale (nn. 5 e 6), basati su dati di Censimento e pertanto non aggiornabili, per ora, oltre il 2011. Una sintesi complessiva del più recente aggiornamento degli indicatori di questa dimensione, diffuso con il Rapporto BES 2016, è contenuta nel paragrafo conclusivo. Tab. 2 – Indicatori regionali prodotti dal Progetto BES per la dimensione Paesaggio e patrimonio culturale Indicatore
Descrizione
Fonte
Periodicità
Aspetto oggettivo (Paesaggio geografico/Patrimonio culturale) INDICATORI TRASVERSALI / PATRIMONIO CULTURALE IN SENSO STRETTO 1. Dotazione di risorse Numero di beni archeologici, ar- Mibact-Istituto superiore A n n u a l e del patrimonio cultu- chitettonici e museali per 100 km2 per la conservazione e il re- (dal 2016) rale stauro, Sistema informativo “Vincoli in rete”1 (elab.) 2. Spesa corrente dei Pagamenti di competenza per la Istat, Bilanci consuntivi del- A n n u a l e Comuni per la gestio- gestione di musei, biblioteche e le amministrazioni comu- (dal 2001) nali (elab.) ne del patrimonio cul- pinacoteche (Euro pro capite) turale 3. Indice di abusivi- Numero di costruzioni abusive Cresme - Centro ricerche A n n u a l e smo edilizio per 100 costruzioni autorizzate economiche sociali di mer- (dal 2002) cato per l’edilizia e il terridai Comuni torio 4. Indice di urbanizzazione delle aree sottoposte a vincolo paesaggistico
Numero di edifici costruiti dopo il 1981 per 100 km2 nelle aree di cui al D. Lgs. n. 42/2004, art. 142, lett. a, d, l (ex Legge Galasso)
Mibact, Carta del rischio del patrimonio culturale; Istat, Censimento degli edifici, Basi territoriali dei censimenti (elab.)
Decennale (dal 1981)
111
PAESAGGIO RURALE 5. Erosione dello spazio rurale da dispersione urbana (urban sprawl)
Incidenza percentuale delle regioni agrarie interessate dai rispettivi fenomeni sul totale della superficie regionale
Istat, Censimento generale Decennale dell’agricoltura, Censimento (dal 2001) generale della popolazione e delle abitazioni, Basi territoriali dei censimenti (elab.)
7. Presenza di paesaggi rurali storici
Punteggi normalizzati attribuiti in base a numerosità ed estensione dei siti censiti nel Catalogo nazionale dei paesaggi rurali storici.
Mipaaf, Catalogo nazionale dei paesaggi rurali di interesse storico (elab.)
N.d. (2010)
8. Valutazione dei Programmi regionali di sviluppo rurale (Psr) in relazione alla tutela del paesaggio
Punteggi attribuiti ai Psr in relazione alle misure adottate in materia di paesaggio rurale nell’ambito del Piano strategico nazionale per lo sviluppo rurale 2007-2013
Mipaaf, Paesaggio e Sviluppo Rurale. Il ruolo del paesaggio all’interno dei Programmi di Sviluppo Rurale 2007-2013
N.d. (2010)
9. Densità di Verde storico e parchi urbani di notevole interesse pubblico
Superficie delle aree di Verde storico e Parchi urbani di notevole interesse pubblico (D. Lgs. n. 42/2004, artt. 10 e 136) per 100 m2 di superficie urbanizzata (centri e nuclei abitati) nei Comuni capoluogo di provincia
Istat, Dati ambientali nelle città, Basi territoriali dei censimenti (elab.)
Annuale (dal 2011)
10. Consistenza del tessuto urbano storico
Numero di edifici abitati costruiti prima del 1919 e in ottimo o buono stato di conservazione per 100 edifici costruiti prima del 1919 e rilevati dal Censimento precedente
Istat, Censimento degli edifici (elab.)
Decennale (dal 2001)
6. Erosione dello spazio rurale da abbandono
PAESAGGIO URBANO
Aspetto oggettivo (Paesaggio sensibile) ESPERIENZA 11. Insoddisfazione per il paesaggio del luogo di vita
Percentuale di persone di 14 anni Istat, Aspetti della vita e più che ritengono il paesaggio quotidiana del luogo di vita affetto da evidente degrado.
Annuale (dal 2012)
Percentuale di persone di 14 Istat, Aspetti della vita anni e più che indicano la quotidiana rovina del paesaggio causata dall’eccessiva costruzione di edifici tra i 5 problemi ambientali più preoccupanti.
Annuale (dal 2013)
CONSAPEVOLEZZA 12. Preoccupazione per il deterioramento del paesaggio
112
Il problema del paesaggio rurale Lo spazio rurale rappresenta la parte di gran lunga più estesa del territorio nazionale, ma anche la più vulnerabile per quanto riguarda il paesaggio. In un paese di antico e intenso popolamento come l’Italia, quasi tutti i paesaggi sono antropizzati ma, per diverse ragioni, la consapevolezza di questo dato elementare, nell’occhio di chi guarda come nell’azione di chi usa il territorio e di chi lo governa, è progressivamente venuta meno. Proprio per la sua “artificialità”, derivata dalla millenaria interazione tra uomo e natura, e per la fragilità strutturale di gran parte del territorio italiano, ogni forma di evoluzione spontanea del paesaggio comporta dei rischi e può risolversi in degrado – non soltanto in termini estetici, ma anche e soprattutto in termini ambientali, economici e di sicurezza. Siamo dunque alle prese con un problema culturale, alla cui soluzione la statistica ufficiale può cercare di contribuire con i mezzi che le sono propri, cioè approntando metodi di misura (“what we measure affects what we do”, si legge nel Rapporto della Commissione Stiglitz). Mentre la tutela dei centri storici, delle aree “naturali” e finanche dei paesaggi cui, per varie ragioni, si riconoscono speciali valori storici o estetici, è un principio saldamente affermato nella legislazione e da tempo acquisito al senso comune, la tutela del paesaggio rurale in sé, in quanto parte del patrimonio culturale, stenta ancora a ottenere analogo riconoscimento. Solo di recente le politiche di settore comunitarie e nazionali hanno iniziato a guardare all’agricoltura come produttrice, oltre che di derrate alimentari, di servizi ecosistemici quali la conservazione della biodiversità e la difesa del suolo, e a riconoscere il valore aggiunto che una gestione del territorio rispettosa dell’identità dei luoghi rappresenta per le produzioni di qualità – ad affermare, in una parola, il valore strategico della tutela del paesaggio – mentre mancano ancora strumenti specifici per la salvaguardia dei paesaggi rurali storici. In questa lunga disattenzione, molto è andato perduto e il paesaggio rurale – aggredito da un’urbanizzazione ipertrofica e spesso incontrollata, o degradato, nelle aree più marginali, dalla dismissione delle pratiche colturali che ne assicuravano il mantenimento – si è gravemente impoverito e rappresenta, oggi, la componente più fragile e meno protetta del nostro patrimonio culturale. Un importante passo avanti, per il nostro Paese, è stato fatto con il nel Piano nazionale di sviluppo rurale 2007-2013, che nel suo documento programmatico associava “i processi di intensificazione e semplificazione produttiva, caratteristici dell’evoluzione recente dell’agricoltura italiana, alla diffusione di agrosistemi quasi sempre efficienti in termini economici, ma fragili dal punto di vista ecologico e negativi in termini paesaggistici” e definiva il paesaggio rurale “una risorsa fondamentale”, che determina “valore aggiunto per le produzioni con denominazione di origine, ed è un elemento chiave per lo sviluppo turistico e per la qualità della vita nelle aree rurali”10.
10 Mipaaf (2010). 113
Gli indicatori di erosione dello spazio rurale: metodologia Accogliendo questa impostazione, il tema del paesaggio rurale è stato oggetto di particolare attenzione nel Progetto BES. La qualità del paesaggio rurale dipende da una molteplicità di fattori, difficili da catturare con analisi quantitative, ma innanzitutto dalla sussistenza di uno spazio rurale dotato di sufficiente continuità e autonomia, visiva e funzionale. In questa fase storica, l’integrità di questo spazio è aggredita da due principali forme di degrado, che formano ai suoi margini “terre di nessuno” più o meno estese: una di transizione dal rurale all’urbano (invasa dal cosiddetto urban sprawl) e una di transizione dal rurale all’incolto (interessata da processi di spopolamento, dismissione delle colture e rinaturalizzazione). Nel primo caso si assiste a una disgregazione dell’unità visiva e funzionale del paesaggio rurale, frammentato e progressivamente invaso da un’urbanizzazione che, peraltro, non tende quasi mai a consolidarsi in nuovi paesaggi urbani, ma piuttosto ad espandersi indefinitamente, dando vita a un continuum edificato a bassa densità in cui funzioni residenziali, commerciali e produttive si mescolano alle residue attività agricole e agli spazi incolti. Il fenomeno dello sprawl non comporta soltanto la distruzione del paesaggio rurale e dei suoi valori storico-documentali, biologici o anche semplicemente estetici, ma è l’effetto di un modello di crescita urbana non più sostenibile, basato sul consumo di risorse non riproducibili come sono, appunto, il suolo e il paesaggio stesso. Nel secondo caso, la criticità rappresentata dall’abbandono dei terreni coltivati può apparire meno evidente. Essa si manifesta non soltanto nella dismissione di colture o pratiche agricole tradizionali, cui si riconosce un intrinseco valore storico-culturale, ma in qualsiasi forma di transizione dello spazio rurale dall’uso agricolo o silvo-pastorale allo stato di terre incolte, lasciate a processi di rinaturalizzazione più o meno spontanei. Il rischio più importante connesso alla cessazione di un presidio attivo dell’agricoltura, soprattutto nelle zone collinari e montane, è quello del dissesto idrogeologico, ma esiste anche un problema di qualità dei processi di rinaturalizzazione, il cui esito non può essere aprioristicamente valutato in termini positivi dal punto di vista ambientale.
Fig. 2 - Schema concettuale degli indicatori di erosione dello spazio rurale
Si può pertanto assimilare la crisi del paesaggio rurale a un processo di erosione, attivo su due fronti intorno a un nucleo di aree agricole stabili o attive, non interessate o toccate solo marginalmente dalla perdita di superficie agricola e demograficamente poco dinamiche, assumendo che l’estensione delle aree di transizione in rapporto alla superficie regionale rappresenti, in sé, un indice di criticità. 114
Questa impostazione riconduce la misurazione dei due fenomeni – l’erosione da sprawl e quella da abbandono – a un problema di classificazione di unità territoriali elementari, sulla base di misure per le quali si può attingere al ricco patrimonio informativo dei Censimenti e delle relative Basi territoriali11. Per l’analisi del paesaggio rurale sono state adottate come unità elementari le regioni agrarie: aggregazioni di comuni contigui, omogenei per provincia, zona altimetrica e valore agricolo dei terreni, già utilizzate in passato dall’Istat come unità statistiche intermedie fra il comune e la provincia nella diffusione dei dati del Censimento dell’agricoltura12.
Fig. 3 – Regioni agrarie dell’Emilia-Romagna per provincia e zona altimetrica (in nero i confini provinciali)
I dati utilizzati per il calcolo degli indicatori provengono dai Censimenti della popolazione e dell’agricoltura. In particolare, i dati sub-comunali del Censimento della popolazione e delle relative Basi territoriali sono utilizzati per analizzare la distribuzione della popolazione sul territorio e le dinamiche dell’urbanizzazione, mentre i dati comunali del Censimento dell’agricoltura sono utilizzati per analizzare la dinamica della Superficie utilizzata dalle aziende agricole (Sau). I due indicatori di erosione dello spazio rurale (da urban sprawl e da abbandono) sono calcolati attraverso un’unica procedura di classificazione delle regioni agrarie. In 11 Il calcolo di indicatori basati su dati di Censimento consente, in prospettiva, di ricostruire – per
il dettaglio territoriale richiesto e per l’intero territorio nazionale – serie storiche lunghe (almeno a partire dal primo Censimento dell’agricoltura, del 1961), essenziali per l’analisi e la rappresentazione quantitativa delle dinamiche evolutive del paesaggio. Al momento, tuttavia, non si dispone ancora della necessaria digitalizzazione delle basi di dati censuari al 1990-1991.
12 Le regioni agrarie sono tuttora utilizzate dall’Agenzia delle entrate come unità territoriali di
riferimento per la determinazione dei valori agricoli medi dei terreni, da applicarsi nelle espropriazioni per pubblica utilità. Ai fini del calcolo degli indicatori (che ha richiesto, in qualche caso, di aggiornare la geografia delle regioni agrarie alle più recenti variazioni dei confini amministrativi) i circa 8 mila comuni italiani sono stati raggruppati in 766 regioni agrarie. 115
sintesi, l’indicatore di erosione da sprawl misura, in termini di superficie, l’incidenza sulla superficie regionale delle unità caratterizzate da forte crescita della popolazione extraurbana e forte perdita di superficie agricola utilizzata (Sau) o comunque investite da forme di urbanizzazione estensiva, mentre l’indicatore di erosione da abbandono misura l’incidenza delle unità caratterizzate da forti decrementi sia della popolazione extraurbana sia della Sau e non investite da urbanizzazione estensiva.
Fig. 4 – Schema semplificato degli indicatori di erosione dello spazio rurale
La procedura di classificazione delle unità elementari si articola in quattro passi. Nel primo sono individuate le unità a rischio di sub-urbanizzazione o di abbandono, sulla base dei seguenti parametri, i cui valori-soglia sono riportati nello schema di fig. 5: - variazione della popolazione residente in case sparse (Pcs); - variazione della Sau; - incidenza della variazione di Sau sulla superficie territoriale; - densità di popolazione. Nel secondo sono individuate le unità interessate da forme di urbanizzazione estensiva, sulla base di altri quattro parametri: - densità della popolazione extraurbana13; 13 Popolazione residente al difuori dei centri abitati, come classificati dal Censimento della popolazione. Le unità minime di riferimento territoriale dei dati di Censimento (sezioni di censimento) sono classificate e aggregate in quattro tipi di località abitate: centri, nuclei, località produttive e case sparse, definite come segue. Centro: Località abitata caratterizzata dalla presenza di case contigue o vicine con interposte strade, piazze e simili, o comunque brevi soluzioni di continuità, caratterizzato dall’esistenza di servizi o esercizi pubblici costituenti la condizione di una forma autonoma di vita sociale. Nucleo: La località abitata caratterizzata dalla presenza di case contigue o vicine con almeno cinque famiglie e con interposte strade, sentieri, spiazzi, aie, piccoli orti, piccoli incolti e simili, purché l’intervallo tra casa e casa non superi i 30 metri e sia in ogni modo inferiore a quello intercorrente tra il nucleo stesso e la più vicina delle case sparse e purché sia priva del luogo di raccolta che caratterizza il centro abitato. Località produttiva: Area in ambito extraurbano non compresa nei centri o nuclei abitati nella quale siano presenti unità locali in numero superiore a 10, o il cui numero totale di addetti sia superiore a 200, contigue o vicine con interposte strade, piazze e simili, o comunque brevi soluzioni di continuità non superiori a 200 metri; la superficie minima deve corrispondere a 5 ettari. Case sparse: La località abitata 116
- incidenza della superficie urbanizzata14 sulla superficie totale; - rapporto tra la variazione della superficie urbanizzata e quella della relativa popolazione residente; - rapporto tra le variazioni della popolazione urbana15 e di quella extraurbana. Sono quindi considerate affette da erosione da urban sprawl tutte le unità classificate al 1° passo per rischio elevato di sub-urbanizzazione e tutte quelle classificate al 2° per urbanizzazione estensiva; sono invece considerate affette da erosione da abbandono tutte le unità classificate al 1° passo per rischio elevato di abbandono e quelle classificate al 1° passo per rischio moderato e non classificate, al 2°, per urbanizzazione estensiva. La procedura prevede, infine, di sottoporre a un quarto passo di convalida le unità non classificate che, nell’intervallo precedente, erano state individuate come affette da erosione (da abbandono o da sprawl). Scopo di questo ultimo passaggio è quello di limitare i riclassamenti ai soli casi di effettiva e sostanziale inversione di tendenza nella dinamica della Sau – cioè di riconoscere un risanamento delle criticità individuate soltanto in presenza di un significativo incremento della Sau – di almeno il 10%, e pari ad almeno il 5% della superficie territoriale (St) della regione agraria.
Fig. 5 – Procedura di classificazione delle unità elementari
Al termine della procedura, i valori degli indicatori si calcolano come incidenze percentuali sulla superficie totale della regione (amministrativa) delle superfici complessive delle unità (regioni agrarie) classificate, in ciascuna regione, rispettivamente, per erosione da abbandono ed erosione da urban sprawl. caratterizzata dalla presenza di case disseminate nel territorio comunale a una distanza tale tra loro da non poter costituire né un nucleo né un centro abitato. 14 Centri, nuclei e località produttive, come definiti nella nota 14. 15 Popolazione residente nei centri, come definiti nella nota 14. 117
Poiché gli indicatori proposti si basano sul confronto storico di dati di censimento, l’intervallo di misura è decennale. Inoltre, poiché si utilizzano dati di popolazione e di superficie sub-comunali, e per le superfici la serie storica dei dati confrontabili del Censimento della popolazione non risale oltre il 1991, il 2000/01 è stato il primo anno per il quale fosse possibile calcolare questi indicatori (un’auspicabile digitalizzazione dei dati dei primi Censimenti dell’agricoltura consentirebbe di risalire fino al 1961). Il primo Rapporto BES, pubblicato nel 2013, riportava quindi i valori calcolati per il periodo 1991-2001. Nel Rapporto BES 2015, dopo la diffusione dei dati di superficie sub-comunali del Censimento 2011, è stato possibile per la prima volta mettere a confronto i dati di due periodi successivi.
Gli indicatori di erosione dello spazio rurale: principali risultati Nel 2011, rispetto alla situazione rilevata dai censimenti del 2000/2001, progrediscono entrambe le forme di erosione: più velocemente quella da abbandono, che passa dal 28,5 al 36,1% del territorio nazionale, più lentamente quella da urban sprawl (dal 19,9 al 22,2%)16. Nell’insieme, la superficie delle unità non classificate (cioè 16 Ricordiamo che i due indicatori misurano, in termini di superficie, l’incidenza delle regioni agrarie classificate per erosione dello spazio rurale da urban sprawl o da abbandono e
Fig. 6 Erosione dello spazio rurale da abbandono e da urban sprawl per regione agraria. Anni 2001 e 2011. Fonte: Istat (2015) 118
toccate in misura non significativa o del tutto indenni dai due fenomeni) si è ridotta dal 52,2 al 42,4%: in media, di un punto percentuale ogni anno (pari a circa 3 mila km2, un’area di poco inferiore a quella della Valle d’Aosta) (Fig. 6). Il Veneto si conferma la regione maggiormente affetta dall’erosione da sprawl (56,9%), seguita dal Lazio (53,6%) e poi da Puglia, Liguria e Campania (fra 30 e 33%). I valori più bassi (meno del 10%) si rilevano, invece, in Umbria, Friuli-Venezia Giulia, Molise e Sardegna, e valori nulli (come già nel 2001) in Valle d’Aosta e nelle province di Trento e Bolzano. Rispetto al 2001, la situazione peggiora soprattutto in Puglia (dove l’incidenza delle unità affette dallo sprawl passa dal 16,1 al 33,1%) e nel Lazio (da 45,4 a 53,6). Il Molise è, invece, la regione con la più alta incidenza di erosione da abbandono (74,4%), seguito dalla Valle d’Aosta (66,5%) e poi da Liguria, Calabria, Friuli-Venezia Giulia e Umbria (fra 50 e 60%); mentre i valori più bassi (meno del 25%) si rilevano in provincia di Trento, Veneto, Puglia e Lazio. L’abbandono avanza in misura particolarmente preoccupante in Piemonte e Toscana (dove l’incidenza del fenomeno è più che raddoppiata: dal 17,7 al 41,4% e dal 23,2 al 47,7%, rispettivamente), ma anche in Friuli-Venezia Giulia (dal 33,9 al 54,2%), in Umbria (dal 17,7 al 41,3%) e nelle province di Trento e Bolzano (da 0 a 24,9% e da 11,4 a 31,3%, rispettivamente), mentre incrementi di oltre dieci punti percentuali si registrano in Molise, Marche ed Emilia-Romagna. che l’algoritmo non esclude la possibilità che una stessa unità risulti classificata per entrambi i fenomeni. In tutta Italia, su 766 unità, quelle affette da urban sprawl passano da 181 a 200 (di cui 17 non classificate e 5 classificate per abbandono nel 2001) e quelle affette da abbandono da 210 a 269 (di cui 92 non classificate nel 2001). La sovrapposizione fra i due gruppi è minima (7 unità nel 2001, 6 nel 2011).
Fig. 7 – Erosione dello spazio rurale da urban sprawl e da abbandono, risultati regionali. Fonte: Istat (2015) 119
Non mancano, d’altra parte, miglioramenti sensibili, ancorché più contenuti: in particolare in Abruzzo, Puglia e Sardegna (da 5 a 7 punti in meno rispetto al 2001), che rispecchiano gli incrementi di Sau registrati dall’ultimo Censimento dell’agricoltura. Considerando l’incidenza complessiva delle due forme di erosione dello spazio rurale, la Liguria risulta (come già nel 2001) la regione più compromessa, con quasi il 90% del territorio interessato da uno dei due fenomeni, seguita da Veneto e Molise (intorno all’80%), Calabria ed Emilia-Romagna (intorno al 70%), Lazio e Valle d’Aosta (intorno al 67%). All’estremo opposto della scala troviamo, invece, le province di Trento e Bolzano, sostanzialmente non interessate dallo sprawl urbano, e la Sardegna, dove il fenomeno incide su meno di un terzo della superficie (Fig. 7).
Gli altri indicatori del paesaggio rurale: problemi aperti Oltre gli indicatori di erosione dello spazio rurale, nel Rapporto BES compaiono altri due indicatori riferiti al paesaggio rurale: la Presenza di paesaggi rurali storici e la Valutazione dei Programmi regionali di sviluppo rurale. Per entrambi, tuttavia, non sono disponibili aggiornamenti successivi al 2010 e se ne prospetta una ridefinizione con la prossima revisione del progetto. L’indicatore riferito ai paesaggi rurali storici pubblicato nel 2013 è calcolato sulla base dei risultati di uno studio-pilota, che aveva individuato 123 siti da inserire in un istituendo Catalogo nazionale dei paesaggi rurali storici17. Il Mipaaf ha effettivamente istituito – con il Decreto 17070 del 19/11/2012 – un Registro nazionale dei paesaggi rurali di interesse storico, delle pratiche agricole e delle conoscenze tradizionali, affidandone l’implementazione a un omonimo Osservatorio. Questo, però, ha stabilito nel 2014 criteri e procedure di ammissione per i siti candidati all’iscrizione da parte delle comunità locali, senza recepire i siti individuati dallo studio-pilota. Le prime iscrizioni sono state quindi registrate nel 2015, ma il loro numero è ancora troppo esiguo per fornire una base rappresentativa al calcolo di un indicatore: questa nuova fonte, pertanto, potrà essere considerata soltanto in futuro, per produrre un indicatore di significato analogo a quello proposto originariamente. L’indicatore riferito ai Programmi regionali di sviluppo rurale pubblicato nel 2013 si basa sui risultati di una valutazione condotta da un’apposita Commissione ministeriale sui Programmi del ciclo 2007-2013, non replicabile in quanto il nuovo ciclo di programmazione 2014-2020 prevede una diversa articolazione dei Psr in assi, misure e azioni. Questo indicatore potrà essere sostituito da uno analogo, quando si renderanno disponibili gli elementi per una valutazione delle misure adottate dai nuovi Psr in materia di tutela del paesaggio.
L’aggiornamento 2016 del dominio Paesaggio e patrimonio culturale L’edizione 2016 del Rapporto BES presenta un aggiornamento parziale del set degli indicatori di Paesaggio e patrimonio culturale. Oltre agli indicatori del paesaggio 17 M. Agnoletti (2010). 120
rurale, già citati, altri due indicatori (Urbanizzazione delle aree sottoposte a vincolo paesaggistico e Consistenza del tessuto urbano storico), essendo basati su dati di censimento, potranno essere aggiornati solo dopo le prossime rilevazioni censuarie. Infine, per l’indicatore di dotazione di risorse del patrimonio culturale (che, in ogni caso, non fornisce elementi per valutare le tendenze evolutive del dominio) nel 2016 si è prodotta una discontinuità della serie storica, con l’acquisizione di una nuova fonte più completa18. Per un quadro completo dei risultati si rimanda al Rapporto BES (l’edizione 2016 dedica logicamente più spazio agli indicatori che sono stati aggiornati, richiamando gli altri solo brevemente: per questi ultimi, tuttavia, ci si può riferire alle edizioni precedenti)19. Qui, a mo’ di conclusione, proponiamo alcune considerazioni sulla tendenza complessiva che si è andata delineando negli ultimi anni per questo dominio di analisi, confermata dalle evidenze – parziali ma concordi – degli ultimi aggiornamenti. A uno sguardo d’insieme, prevalgono preoccupanti segnali negativi, in modo diverso riconducibili alla lunga crisi economica degli ultimi anni. Si è infatti ridotta sensibilmente la spesa pubblica destinata alla tutela e alla valorizzazione del patrimonio culturale (riduzione realizzata, peraltro, attraverso il taglio degli investimenti, invece che attraverso una ristrutturazione della spesa corrente), mentre torna a crescere – sia pure nel contesto di una generale contrazione della produzione edilizia – il tasso di abusivismo edilizio: un’altra conseguenza della crisi economica, che denuncia però il persistere di gravi insufficienze nel governo del territorio e significa, in ultima analisi, la sottrazione di una quota crescente (e rilevante) dei processi di urbanizzazione al controllo della legalità. Si inaspriscono, insomma, proprio le contraddizioni che fanno del paesaggio/ patrimonio culturale un tema particolarmente rilevante per l’analisi del benessere nel contesto italiano. Da un lato, l’inadeguatezza della spesa per il patrimonio culturale (e, più in generale, per la cultura) a fronte dello straordinario valore strategico che questa risorsa rappresenta – anche sul piano economico – per il futuro del Paese. Dall’altro, lo scarso contrasto alla violazione delle norme urbanistiche (e la debole percezione sociale della sua gravità), a fronte di un territorio strutturalmente fragile ed eccezionalmente ricco di valori storici. Coerentemente con questi segnali negativi, aumenta – soprattutto fra i giovani – la quota delle persone insoddisfatte per la qualità del paesaggio del luogo di vita, e più di un italiano su cinque – nel supposto “Bel Paese” – ritiene di vivere in luoghi “affetti da evidente degrado”. La preoccupazione per il deterioramento del paesaggio, invece, arretra nella graduatoria delle emergenze ambientali, segnalando un declino dell’attenzione al tema della sua tutela. Infine si confermano, anche in questo dominio, forti disparità regionali sull’asse Nord-Sud, non tanto negli indicatori di dotazione (beni culturali e verde storico), quanto in quelli riferibili alle politiche pubbliche: nella spesa comunale per la gestione 18 Fino al 2015 i dati per il calcolo di questo indicatore provenivano dalla Carta del rischio del patrimonio culturale tenuta dall’Istituto superiore per la conservazione e il restauro (Mibact). Dal 2016, questa è stata integrata nel sistema informativo Vincoli in rete, in grado di restituire una rappresentazione più completa e dettagliata del patrimonio culturale nazionale. 19 Istat (2016). 121
del patrimonio culturale (i cui valori pro-capite sono, al Nord, più che tripli rispetto a quelli del Mezzogiorno), nella diffusione dell’abusivismo edilizio (che in alcune regioni del Mezzogiorno supera ormai largamente il 50% della produzione edilizia legale), nell’insoddisfazione per il paesaggio del luogo di vita (molto più diffusa nel Mezzogiorno) e nella preoccupazione per il deterioramento del paesaggio, nettamente più avvertita al Nord.
122
Bibliografia Agnoletti M. [ed.] (2010), Paesaggi rurali storici. Per un catalogo nazionale, Bari: Laterza. Biasutti R. (1962), Il paesaggio terrestre, Torino: Utet. Commissione Rodotà per la modifica delle norme del codice civile in materia di beni pubblici (2007), Elaborazione dei principi e criteri direttivi di uno schema di disegno di legge delega al governo per la novellazione del capo II del titolo I del libro III del Codice civile nonché di altre parti dello stesso libro ad esso collegate per le quali si presentino simili necessità di recupero della funzione ordinante del diritto della proprietà e dei beni (14 giugno 2007): Relazione e Proposta di articolato. https://www.giustizia.it/ giustizia/it/mg_2_7_6_1.page Costanzo L., Ferrara A. (2015), Well-being Indicators on Landscape and Cultural Heritage: the Experience of the BES Project, in: Maggino F. [ed.], A New Research Agenda for Improvements in Quality of Life. Cham, Heidelberg, New York, Dordrecht, London: Springer. Costanzo L., Ferrara A. (2013), Misure statistiche per l’analisi del paesaggio rurale: l’esperienza del Progetto BES. XXIV Conferenza italiana di scienze regionali: Palermo, 2-3 settembre 2013. Costanzo L., Ferrara A. (2013), Indicatori di erosione del paesaggio rurale basati su dati di censimento. XXXVI Conferenza italiana di scienze regionali: Arcavacata di Rende, 13-16 settembre 2015. Istat (2015), Bes 2015. Il benessere equo e sostenibile in Italia. http://www.istat.it/ it/archivio/175169 Istat (2016), Bes 2016. Il benessere equo e sostenibile in Italia. http://www.istat.it/ it/archivio/194029 Mipaaf (2010), Piano strategico nazionale per lo sviluppo rurale 20072013 (art. 11 Reg. Ce 1698/2005). http://www.reterurale.it/downloads/cd/PSN/ Psn_21_06_2010.pdf Settis S. (2014), Paesaggio Costituzione Cemento, Torino: Einaudi. Stiglitz J.E., Sen A., Fitoussi J.-P. (2009), Report by the Commission on the Measurement of Economic Performance and Social Progress. www.stiglitz-sen-fitoussi.fr Fino al 2015: Mibact, Carta del rischio del patrimonio culturale.
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Il paesaggio come “mediatore culturale” nell’esperienza dei giovani migranti Risultati di ricerca e questioni aperte Benedetta Castiglioni
Il paesaggio come intermediario La Convenzione Europea del Paesaggio (Firenze, 2000), come è noto, si propone come un punto di riferimento assai significativo per gli studi attuali del rapporto tra paesaggio e società. A partire dalla definizione di paesaggio contenuta all’art. 1 (“porzione di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni”), la Convenzione ci propone un paesaggio concepito non solo come un fenomeno estetico o come un quadro offerto alla vista (né tantomeno solo come “bellavista”), ma più ampiamente come luogo di vita delle popolazioni. Vi si sottolinea il necessario coinvolgimento delle popolazioni (in termini di diritto di godere di un paesaggio di qualità e di responsabilità nel prendersene cura) per ciò che riguarda il paesaggio, considerato non come un dato oggettivo, ma come frutto dei meccanismi soggettivi della percezione. In maniera innovativa, la Convenzione sancisce cioè che i valori, i significati attribuiti e tutta la sfera dell’immateriale sono parte essenziale del rapporto che lega la popolazione al territorio. In questa prospettiva, i paesaggi della vita quotidiana – potenzialmente privi di elementi di spicco – giocano un ruolo fondamentale nel determinare il benessere e il senso di identità delle persone. Sulla questione dell’identità la Convenzione si sofferma con particolare attenzione: “Il paesaggio – si legge infatti nel Preambolo – coopera all’elaborazione delle culture locali e rappresenta una componente fondamentale del patrimonio culturale e naturale dell’Europa, contribuendo così al benessere e alla soddisfazione degli esseri umani e al consolidamento dell’identità europea”. A proposito di paesaggio e identità, Eugenio Turri scriveva nel 1974: “Nel paesaggio ogni cultura si identifica, trova rispecchiata sè stessa: il paesaggio parla (…). È come uno scambio muto di messaggi che corrisponde al realizzarsi del rapporto tra condizioni locali e adempimento culturale, tra paesaggio vissuto, strumentalmente inteso, e paesaggio contemplato, visto e interpretato culturalmente”1. In quanto prodotto di una cultura e, contemporaneamente, manifestazione di una cultura, al paesaggio è quindi riconosciuto il ruolo di riferimento identitario. Nel luogo di vita abituale ciò 1 E. Turri, Antropologia del paesaggio, Milano, Edizioni di Comunità, 1974, p.139 125
permette di “sentirsi a casa”, di avere coscienza di appartenere a quel luogo, proprio grazie al riconoscimento di “segni” di carattere culturale, tanto nella normalità dei paesaggi della vita quotidiana, quanto grazie ad alcuni punti di riferimento facilmente individuabili (quali possono essere alcuni elementi che nel paesaggio spiccano, o i monumenti, o certamente anche i paesaggi o i siti eccezionali). Il ruolo del paesaggio come riferimento identitario va più ampiamente osservato in relazione ad altri aspetti del rapporto tra popolazione e paesaggio. Se partiamo dal presupposto che il paesaggio è nel contempo “realtà” e “immagine della realtà”, materialità e immaterialità2, è interessante soffermarsi sui modi in cui – attraverso il meccanismo della percezione – alle diverse forme materiali e visibili del territorio vengano associati significati e valori immateriali, per giungere alla costruzione di una immagine mentale del paesaggio attraverso la mediazione dei filtri (sociali, culturali, personali) e dei modelli di riferimento (Fig. 1). Dal modo di osservare, vale a dire dai significati e dai valori che al paesaggio attribuiamo, dipende poi il modo di agire e di trasformare i paesaggi stessi, in un processo circolare potenzialmente sia virtuoso che vizioso. A seconda quindi del tipo di filtri e modelli (culturali) presenti in una società (per esempio in una società multiculturale), sarà diverso il modo in cui viene o non viene attribuito valore a questo o a quell’elemento del paesaggio, e pertanto, saranno diverse le scelte e le modalità di costruzione dei nuovi paesaggi. In che modo i paesaggi possono raccontarci dei filtri e dei modelli di riferimento, vale a dire del cambiamento culturale che sta avvenendo in una società? E come agisce nel paesaggio, come si comporta, come lo modifica chi lo osserva attraverso modelli culturali facenti riferimento a diversi contesti? FORME DEL TERRITORIO
FILTRI - MODELLI
ATTRIBUZIONE DI VALORI
COMPORTAMENTO - DECISIONI
Fig. 1 – Le relazioni circolari tra le due dimensioni del paesaggio (materialità e immaterialità), nel meccanismo della percezione (sopra) e nei processi di trasformazione dei paesaggi stessi (sotto). (Modificato da Castiglioni e Ferrario, 2007).
Il paesaggio allora può essere considerato non più e non soltanto come un oggetto di studi in se stesso, ma può diventare uno “strumento” di indagine per interpretare i rapporti tra popolazione (o “popolazioni”) e territorio (o territori). O, ancor più, può assumere un ruolo attivo in questi rapporti, diventando esso stesso intermediario, sia tra popolazione e contesto di vita – per un approccio più consapevole alle trasformazioni territoriali - sia tra i membri di una comunità, per costruire uno sguardo condiviso arricchito (e non limitato) dai diversi modi di attribuire valore. Il paesaggio diventa quindi “mediatore culturale”, perché da un lato è in grado di costruire legami identitari e di appartenenza, e dall’altro può costituire una base di partenza per favorire lo scambio e la comunicazione tra culture diverse. 2 F. Farinelli, L’arguzia del paesaggio, in Casabella, 575-576, 1991. 126
È su queste basi che ci si è mossi alcuni anni fa per incrociare le ricerche sul paesaggio con quelle sulla popolazione immigrata3: ci si è chiesti cioè che ruolo giochi il paesaggio, proprio per il suo contenuto culturale, nell’esperienza migratoria, in che modo venga osservato e percepito attraverso filtri e modelli culturali diversi dai propri, come possa diventare rappresentativo di una “casa” di cui ci si sente abitanti, e come possa costituire uno strumento in grado di favorire i processi di inserimento in una nuova comunità.
Il progetto LINK: il contesto e la metodologia Alcuni anni or sono (precisamente nell’anno scolastico 2010-11), grazie ad un finanziamento dell’Università degli Studi di Padova, un’equipe interdisciplinare di ricerca, composta da geografi, demografi, sociologi, antropologi e urbanisti, ha realizzato un progetto volto a studiare i diversi modi in cui giovani adolescenti percepiscono e attribuiscono valore ai paesaggi del loro luogo di vita, nel confronto duplice tra lo sguardo dei ragazzi italiani e quello dei figli di immigrati, e tra il contesto urbano del quartiere Arcella a Padova e quello della campagna urbanizzata del paese di Borgoricco, nella provincia. I risultati di questo progetto, di carattere esplorativo, mettono in evidenza non soltanto alcuni tratti interessanti di questi confronti, utili a interpretare attraverso nuove angolature le esperienze e i percorsi di integrazione dei ragazzi stranieri, ma anche le potenzialità delle metodologie utilizzate e dei temi affrontati, anche per stimolare un dialogo interculturale tra i ragazzi stessi.
Arcella (quartiere San Bellino)
Borgoricco
33527
8352
21%
11%
Scuola secondaria di I grado “A. Briosco”
Scuola secondaria di I grado “G. Ungaretti”
Ragazzi italiani coinvolti nel progetto
10
14
Ragazzi stranieri coinvolti nel progetto
11
5
Abitanti Residenti stranieri Scuola
Tab. 1 – Alcuni dati relativi ai due casi di studio considerati nel progetto LINK (dati riferiti al 2011, anno di realizzazione del progetto; da Castiglioni, 2011).
3 Le ricerche su questi temi hanno preso avvio circa una decina d’anni fa, attraverso la collaborazione di un gruppo di geografi alle indagini condotte dai demografi sulle seconde generazioni di immigrati (Castiglioni et al., 2008) e si sono poi strutturate attraverso il progetto LINK, che viene sinteticamente descritto nei paragrafi che seguono. Negli anni successivi altre esperienze di ricerca sono state condotte rivolgendosi alle fasce adulte di popolazione, con la partecipazione del Museo di Storia Naturale e Archeologia di Montebelluna (TV). Altri progetti sono in corso di elaborazione, anche in collaborazione con il Centre for Landscape Democracy (CLaD) della Norwegian University of Life Sciences. 127
Il progetto, dal titolo Landscape and Immigrants: Networks, Knowledge, è stato denominato tramite il significativo acronimo LINK, per sottolineare il potenziale ruolo del paesaggio nel generare legami, nei gruppi di persone e tra luoghi e persone. Le attività del progetto si sono sviluppate coinvolgendo direttamente i ragazzi (italiani e stranieri) attraverso l’uso di metodologie visuali, in particolare l’autophotography: gli alunni di due classi seconde delle locali scuole secondarie di primo grado sono stati invitati a “raccontare il loro luogo di vita tramite 12 scatti fotografici”. L’obiettivo della macchina fotografica ha creato una sorta di “distacco” dei ragazzi dal luogo, che ha permesso loro di “guardare” e riflettere in maniera più consapevole sul luogo stesso. Le fotografie, raccolte in appositi album personali e corredate di didascalie, hanno costituito la base per successive interviste semistrutturate e fotoelicitate rivolte a ciascun ragazzo e per discussioni a tema nell’ambito di focus group. Il lavoro dei ricercatori su questi materiali ha permesso una classificazione di ciascuna delle 462 fotografie (il totale delle immagini presenti negli album dei ragazzi) secondo due distinti criteri: il primo riferito al contenuto denotativo della foto, a che cosa cioè era rappresentato; il secondo al contenuto connotativo, vale a dire al significato attribuito al luogo o oggetto rappresentato (tab. 2). Questo tipo di classificazione considera entrambe le dimensioni insite nel paesaggio, quella della materialità e quella della immaterialità. Come vedremo, ciò ha permesso una analisi dei dati articolata: se molte riflessioni sono emerse dall’osservazione di singole fotografie o album, collegate con l’intervista rivolta al ragazzo, secondo una metodologia decisamente qualitativa, altre derivano da un approfondimento di tipo quantitativo compiuto sull’intero database derivante dalla classificazione delle fotografie.
Valore estetico
Riferimenti a luoghi e/o forme, colori, dimensioni che colpiscono lo sguardo e/o vengono esplicitamente giudicati “belli” o “brutti”
Identità collettiva
Riferimenti al “quartiere”, al “paese” o al “territorio”, anche esplicitamente nominati; a luoghi e/o aspetti ritenuti “tipici”/“caratteristici”; ad un’idea di “patrimonio collettivo”
Valore ecologico
Riferimenti a luoghi e/o aspetti che svolgono funzioni ecologiche; a esempi di cura/non cura dei luoghi; a esempi di rispetto/ non rispetto per la “natura” e per l’ambiente in generale; a esperienze/sensazioni di benessere nel contatto con la “natura”
Valore funzionale
Riferimenti a luoghi/oggetti che “servono”, sono ritenuti utili, svolgono una certa funzione
Legame personale
riferimenti a luoghi ritenuti importanti a livello individuale; a luoghi sentiti come “propri”; a luoghi investiti di valore affettivo; a ricordi e/o esperienze personali
Riferimenti a luoghi ritenuti importanti soprattutto perché in Relazioni interpersonali/ essi si svolgono relazioni sociali significative, in particolare con sociali i coetanei
Tab. 2 - Categorie relative agli aspetti connotativi (da De Nardi, 2011).
128
Parco della parrocchia di San Bellino
Scuola elementare di S. Eufemia
“Da piccola venivo spesso qui con mia madre a giocare, poi ci siamo trasferiti e non ho più avuto molte possibilità di venirci” (A.E., straniera, Arcella)
“La mia scuola elementare dove mi sono trovato benissimo”; “è un ricordo per me” (R., italiano, Borgoricco)
Fig. 2 - Due esempi di attribuzione di significato come “Legame personale” (da De Nardi, 2011).
Parco pubblico
La piazza di Borgoricco
“Foto del parco in cui mi incontro con i miei amici” (S., straniero, Arcella).
“La fontana, dove la palla cade spesso e dobbiamo entrare per riprenderla, in estate ci tiriamo l’acqua addosso” (S., straniera, Borgoricco)
Fig. 3 - Due esempi di attribuzione di significato come “Relazioni interpersonali/sociali” (da De Nardi, 2011).
129
Il progetto LINK: alcuni risultati Valore estetico
Identità Valore Funziocollettiva ecologico nalità
Legame Relazioni personale sociali
TOT.
Chiesa
7
16
-
-
14
7
44
Piazza
-
15
-
-
-
5
20
Scuola
2
3
-
-
33
4
42
Sport
1
3
-
1
8
2
15
Casa
1
2
-
-
18
5
26
Esterno
4
4
2
17
15
9
51
Negozio
5
13
-
22
10
5
55
Altro
8
7
1
2
2
2
22
Verde
-
7
2
3
14
30
56
Dettaglio
24
4
4
-
11
-
43
Giardino
7
-
-
-
2
-
9
Area rurale
6
12
4
1
1
5
29
Self
-
-
-
-
2
-
2
Oggetti
-
-
-
-
16
1
17
Animali
-
2
-
-
11
1
14
Interni
-
2
-
1
4
4
11
Persone
-
1
-
-
1
4
6
TOTALE
65
91
13
47
162
84
462
Tab. 3 - La classificazione delle fotografie e la relazione tra i luoghi fotografati e i significati attribuiti.
In tabella 3 sono riportati i dati relativi alla classificazione di tutte le fotografie, scattate nei due casi di studio e dai ragazzi sia italiani che stranieri. In termini generali (ultima colonna di destra), si nota che il luogo di vita “raccontato” dai ragazzi attraverso le fotografie è composto in primo luogo di spazi verdi (piccoli parchi urbani, giardini pubblici), di negozi e di spazi esterni meno identificati (strade, slarghi, ecc.), e in misura di poco minore è caratterizzato dalla presenza della scuola e della chiesa, o da dettagli naturalistici, quali alberi, cespugli, fiori, o anche porzioni di cielo. A questi luoghi viene attribuito in maniera del tutto preponderante un significato connesso al legame personale, riferito ai ricordi e agli affetti (ultima riga in basso). Seguono, ma a grande distanza, i significati di identità collettiva e di relazione sociale; ancora meno frequentemente è attribuito un valore estetico o un valore funzionale. Il valore ecologico è stato considerato solo in pochissimi casi. È interessante notare che questo ordine di rilevanza tra le categorie di attribuzione di valore non coincide con quello solitamente utilizzato nelle attribuzioni di valore ai luoghi e ai paesaggi da parte del sapere esperto, che quasi mai include tra i criteri il legame personale e affettivo che gli abitanti instaurano con i luoghi di vita. 130
Rimandando ad altri testi un approfondito esame dei risultati4, ci soffermiamo ora sul confronto tra i risultati dei quattro gruppi di ragazzi che costituiscono il nostro campione, e sulle categorie connotative. Il grafico di fig. 4 mette in evidenza alcune differenze nel modo di attribuire valore tra ragazzi italiani e ragazzi stranieri, ma anche altre differenze legate soprattutto al luogo di residenza. Emerge cioè – concentrando l’attenzione sui soli ragazzi stranieri – che il modo di attribuire significato ai paesaggi della vita quotidiana per un adolescente straniero si differenzia a seconda del luogo in cui vive. Se ad esempio all’Arcella è frequente l’attribuzione di significato funzionale oltre che di legame personale, a Borgoricco pare che le relazioni interpersonali ma anche l’identità collettiva acquistino maggiore rilevanza. In ogni caso, tuttavia, l’identità collettiva è meno riconosciuta dai ragazzi stranieri che dai ragazzi italiani, che fanno più riferimento ad una dimensione familiare e personale, piuttosto che “di comunità”. Il valore estetico dei luoghi, invece, è riconosciuto dai ragazzi stranieri in percentuale decisamente maggiore rispetto ai loro coetanei italiani.
Fig. 4 – I significati attribuiti ai luoghi dai quattro gruppi di ragazzi
Possiamo quindi affermare in termini più generali che le differenze tra i luoghi di vita sono significative tanto quanto (o poco meno) delle differenze tra italiani e stranieri. Il luogo di arrivo influenza cioè l’esperienza e il percorso di integrazione dei ragazzi migranti. Questo ci sembra un dato importante da tenere presente nella definizione delle strategie e delle politiche di integrazione e mediazione culturale, spesso attente soprattutto alle differenze di nazionalità. 4 B. Castiglioni (a cura di), Paesaggio e popolazione immigrata: primi risultati del progetto LINK, Materiali del Dipartimento di Geografia, 31/2011, Padova; B. Castiglioni, A. De Nardi, G. Dalla Zuanna, Landscape perception as a marker of immigrant children’s integration. An explorative study in the Veneto region (Northeast Italy). In D. Bruns, O. Kühne, A. Schönwald, S. Theile (eds.), Landscape Culture - culturing Landscapes. The differentiated construction of Landscapes, Wiesbaden, Springer, 2015, pp. 207-222. 131
Una seconda osservazione generale riguarda il fatto che i ragazzi stranieri dimostrano una più spiccata «attitudine estetica» nell’osservazione del paesaggio e prestano più attenzione ai dettagli rispetto ai loro coetanei italiani (il valore estetico è attribuito dai ragazzi italiani nell’11 percento dei casi e dai ragazzi stranieri nel 19 percento; i dettagli naturalistici si trovano nel 16 percento delle fotografie dei ragazzi stranieri e in meno del 5 percento di quelle dei ragazzi italiani). Se cioè da un lato lo sguardo dei ragazzi stranieri sembra esitante e incerto nell’individuare le caratteristiche del paesaggio locale, tanto da ricorrere ad una descrizione tramite elementi che potremmo considerare poco specifici quali i fiori o gli alberi, dall’altro può però essere considerato più attento, più curioso, più capace di cogliere i particolari. Ci chiediamo allora in che modo questa caratteristica possa essere valorizzata e rafforzata come una abilità nel processo di integrazione, tenendo conto che lo sguardo dei coetanei italiani appare a volte distratto o banalizzante. Ci interroghiamo anche sui modi attraverso cui si potrebbe promuovere un “rafforzamento” dello sguardo da parte dei ragazzi stranieri e la creazione di un legame più sicuro con il luogo di vita. Una terza considerazione va infine rivolta ai paesaggi ufficialmente riconosciuti e celebrati, che compaiono poco nelle fotografie sia dei ragazzi italiani sia degli stranieri e sembrano non essere riconosciuti come rilevanti e caratterizzanti dai loro giovani abitanti. Piuttosto si nota come per questi ragazzi il senso di appartenenza si costruisca prioritariamente attraverso i posti significativi per le esperienze personali. Infine, nella tabella 4, vengono riportati alcuni brani estratti dalle interviste rivolte ai ragazzi stranieri; in questi brani non necessariamente si parla direttamente dei luoghi o di ciò che è stato fotografato, ma si capisce come la conversazione, a partire proprio dagli spunti dati dal paesaggio circostante e da quello rappresentato nelle fotografie, possa andare a toccare temi assolutamente centrali nell’esperienza migrante, come la nazionalità con la quale ci si identifica, il legame con i paesi di provenienza o con i luoghi visitati in precedenza durante l’esperienza migrante, il modo di sentirsi “a casa” in un luogo piuttosto che in un altro, il confronto con i modi di vita dei ragazzi nei paesi di provenienza. L’intervista cioè aiuta da un lato il ricercatore a conoscere aspetti non facilmente rilevabili delle esperienze di questi ragazzi, del loro modo di percepire la loro situazione. Parlare di paesaggio (nel senso lato che abbiamo qui utilizzato) diventa una sorta di terreno neutro, privo di elementi stereotipati o pregiudizi, attraverso cui il ragazzo può giungere ad esprimere se stesso. Il paesaggio dall’altro lato si fa strumento anche in chiave educativa, perché porta ad una maggiore consapevolezza personale, ad un maggior dialogo tra compagni e ad una più profonda condivisione.
132
S., nata a Firenze da genitori di nazionalità cinese, abita a Borgoricco da 4 anni; non sa «cosa si sente»
«Sono nata a Firenze, a un anno e mezzo sono andata in Cina, a cinque anni sono tornata in Italia a Roma, da Roma sono andata a Sanremo, da Sanremo sono andata a Milano, da Milano sono andata a un posto vicino, poi… dove sono andata poi? Ho girato un po’… (…) sono anche andata a Prato… ho fatto tanti giri, poi sono arrivata qua, mi sembra» «Beh, se dovessi scegliere fra Sanremo e la Cina, andrei Sanremo, perché c’è il mare, l’unico motivo» E invece in Cina perché ci andresti? «Perché ci sono i parenti e perché ci sono tanti svaghi, posti divertenti e belli» «Non mi sento nessuna dei due [né italiana, né cinese]. Mio fratello si sente più italiano, io non mi sento niente»
(davanti alla fotografia di una albero fiorito) «Mi fa ricordare perché... in primavera là ci son tutti gli alberi così, no… tutti fioriti, belli e allora mi fa ricordare il mio paese» A., nata in Romania, Perché ti piaceva lì [in Romania] e perché ti piace qui [in Italia]? vive a Padova da 3-4 «Lì perché magari son vicina a mia nonna, ai miei amici, ai miei anni; si sente rumena cugini, invece qua sono vicina a mia mamma» Ma le caratteristiche proprio del luogo (…)? «Romania» Ti piace di più? «Sì»
N., nata a Sarno da genitori di nazionalità marocchina, vive a Padova da circa 9 anni; si sente marocchina
K., nato a Camposampiero da genitori di nazionalità marocchina, vive a Borgoricco da 7 anni; si sente veneto e «un po’» marocchino
«Eh, si va bene, si può dire che, va beh, sono nata in Italia, però il Marocco per me è tutto» Quindi si può dire che tu qui non ti senta a casa tua... o sì? «Sì, mi sento a casa mia, perché comunque sono nata qua, però... quando sono là mi sento ancora di più a casa mia» Non c’è un qualche posto in particolare che stando lì tu penseresti con nostalgia? «Quando sto lì... non lo so... non è... quando sto qui mi manca il Marocco, quando sto lì mi sento normale. (…) Lì mi sento normale, invece qui sento che mi manca qualcosa, che ho bisogno di vedere i miei amici in Marocco, ho bisogno di guardare la gente che passa. (…) Sì, ma perché passo un anno qui e tre mesi lì, anche questo è da dire» (davanti alla fotografia della scuola media) «C’è una scuola di Borgoricco nella fotografia perché ogni bambino ci può andare. Quando vado in Marocco, in alcune parti là ci sono i bambini che prendono i soldi, vendono cose, da soli»
Tab. 4 – Alcuni brani di interviste dei ragazzi stranieri.
133
Prospettive I risultati del progetto LINK portano un interessante contributo di conoscenza, benché non generalizzabile, su alcune questioni dell’esperienza migrante e sul modo di vivere e abitare i luoghi da parte degli adolescenti. Negli anni successivi, altre esperienze di ricerca si sono occupate anche delle fasce adulte della popolazione, ottenendo anche in questi casi buoni risultati, pur incontrando maggiori difficoltà nell’ottenere la disponibilità dei soggetti a partecipare al progetto e nella mediazione linguistica (ad es. le indagini svolte con alcune donne migranti a Montebelluna, in collaborazione con il locale Museo di Storia Naturale e Archeologia). Il progetto LINK può essere considerato anche un percorso di ricerca-azione, perché le attività utili ad ottenere i dati di ricerca sono state contemporaneamente significative in una prospettiva educativa; il confronto con gli insegnanti delle classi coinvolte nel progetto ha infatti confermato l’affermarsi nel gruppo di ragazzi di un maggiore dialogo e di una maggiore consapevolezza. Questi risultati hanno portato alla definizione di Linee guida per l’educazione interculturale attraverso il paesaggio, raccolte in De Nardi, 2013. Il progetto LINK, di cui qui abbiamo riportato alcuni tra i principali risultati, si è svolto in un periodo in cui in Veneto il processo migratorio era legato soprattutto alla ricerca di lavoro, ed era in molti casi già giunto ad una fase di stabilizzazione ed integrazione delle famiglie. Il periodo successivo, come è noto, ha portato a modifiche rilevanti di questo processo: pur proseguendo una stabilizzazione di numerosi percorsi migratori, un certo numero di migranti, a seguito della crisi economica, ha fatto ritorno al paese di origine; l’emergenza attuale è legata inoltre alle migrazioni forzate di chi è costretto a fuggire dal proprio paese e richiede asilo politico. In questa prospettiva, se da una parte potrebbe essere interessante proporre una nuova ricerca agli adolescenti di Padova e Borgoricco (o altre località) utilizzando gli stessi strumenti, per analizzare i mutamenti avvenuti a distanza di alcuni anni, dall’altra nuove domande possono emergere dall’incontro tra gli studi sul paesaggio e quelli sulle migrazioni focalizzando l’attenzione sui richiedenti asilo. Qui di seguito proviamo ad enunciare alcune di queste domande, in un rapporto stretto tra ciò che può permettere degli approfondimenti sul piano conoscitivo (anche al fine di mettere in atto interventi mirati in questi contesti difficili) e le attività che possono supportare direttamente il migrante forzato nella sua difficile esperienza: • una ricerca sul paesaggio (attuale e/o di provenienza) può aiutare a conoscere meglio l’esperienza del richiedente asilo? • in una condizione di vita così necessariamente «spaesata», ha ancora senso parlare di paesaggio e di senso di appartenenza ad un luogo? Come si relaziona la costruzione del senso del luogo con una fase della vita in cui i progetti sono così sospesi? • quale rapporto si stabilisce con il paesaggio di provenienza? Ricostruire memorie attraverso il ricordo dei luoghi d’origine può aiutare a vivere meglio questa fase? • può essere utile aiutare a costruire egami anche con il luogo di vita precario in cui i richiedenti asilo si trovano? Può essere utile promuovere un «racconto di paesaggi» tra migranti e comunità ospitante? 134
In conclusione, è interessante osservare le potenzialità di un approccio integrato tra studi a carattere territoriale e studi sociali con riferimento ai fenomeni migratori, in cui il paesaggio può giocare un ruolo strumentale utile da un lato a far emergere dimensioni del vissuto altrimenti difficili da cogliere, ma preziose per meglio conoscere e interpretare queste esperienze di vita, e dall’altro per rendere meno difficoltose queste stesse esperienze.
Bibliografia Castiglioni B. (a cura di), Paesaggio e popolazione immigrata: il progetto LINK (Landscape and Immigrants: Networks, Knowledge), Materiali del Dipartimento di Geografia, 30/2010, Padova (accessibile online) Castiglioni B.(a cura di), Paesaggio e popolazione immigrata: primi risultati del progetto LINK, Materiali del Dipartimento di Geografia, 31/2011, Padova (accessibile online) Castiglioni B., Ferrario V., Dove non c’è paesaggio: indagini nella città diffusa veneta e questioni aperte, Rivista Geografica Italiana, CXIV, 3, 2007, pp. 397-425. Castiglioni, De Nardi A., Rossetto T., Paesaggio come mediatore culturale: il luogo di vita nelle percezioni e nelle attese dei giovani immigrati. In E. Moretti (a cura di) Lungo le sponde dell’Adriatico. Flussi migratori e percorsi d’integrazione, Milano, Franco Angeli, 2008, pp. 171-191 Castiglioni B., De Nardi A., Dalla Zuanna G., Landscape perception as a marker of immigrant children’s integration. An explorative study in the Veneto region (Northeast Italy). In D. Bruns, O. Kühne, A. Schönwald, S. Theile (eds.), Landscape Culture – culturing Landscapes. The differentiated construction of Landscapes. Wiesbaden, Springer, 2015, pp. 207-222 De Nardi A., Il paesaggio come strumento di mediazione: il luogo di vita nell’esperienza degli adolescenti italiani e stranieri, Rivista Geografica Italiana, v. 120, n. 4, 2013, pp. 308-326. De Nardi A., Il paesaggio come strumento per l’educazione interculturale. Linee guida, Museo di Storia Naturale e Archeologia di Montebelluna (TV), 2013. Turri E., Antropologia del paesaggio, Milano, Edizioni di Comunità, 1974.
135
Storie di case rurali Una lettura processuale di architetture e paesaggi
Andrea Longhi, Martina Ramella Gal*
Lo studio del paesaggio rurale implica la conoscenza storica sia degli aspetti agrari (tipi di coltivazione e di tecniche, vocazioni ambientali, uso del suolo diacronico ecc.), sia dei manufatti edilizi e infrastrutturali che consentono la messa a coltura e l’abitabilità dei terreni (case, edifici a servizio della produzione, infrastrutture viarie e idrauliche, elementi simbolici e devozionali ecc.). Su tali tematiche si è sviluppata nel Novecento un’ampia letteratura: facendo riferimento alla Guida Bibliografica allo studio dell’abitazione rurale in Italia, pubblicata nel 19501, si può osservare come la questione fosse stata affrontata fin dai primi decenni del Novecento, per affermarsi poi diffusamente negli anni del Dopoguerra, quando autori come Renato Biasutti, Mario Fondi e Lucio Gambi pubblicarono censimenti ed elaborazioni critiche sulle architetture rurali tipiche delle diverse regioni italiane2. L’intensa attività editoriale muoveva da approcci e tagli storiografici assai vari, ma nel suo insieme era servita a consolidare alcune sintesi tipologiche, che hanno poi goduto di un ampio successo critico e popolare, su cui tuttora si fondano molti approfondimenti locali. Il contesto del seminario interdisciplinare Abitare la terra impone tuttavia una riflessione: a fronte delle trasformazioni epocali che stanno coinvolgendo il mondo dell’agricoltura e l’habitat nel suo complesso, che contributo può ancora dare – in termini di conoscenza e di analisi per la conservazione e la trasformazione – lo studio della storia dell’architettura rurale? Gli approcci tipologici, regionalisti, comparativi, 1 T. Storai De Rocchi, Guida Bibliografica allo studio dell’abitazione rurale in Italia, Centro di Studi per la Geografia Etnologica, Firenze 1950. 2 Se già prima della seconda Guerra Mondiale Renato Biasutti pubblicava un censimento delle case rurali toscane (R. Biasutti, La casa rurale nella Toscana, Zanichelli, Bologna 1938), Lucio Gambi pubblica nel 1950 uno studio sul patrimonio rurale in Romagna (L. Gambi, La casa rurale nella Romagna, Centro di studi per la geografia etnologica, Firenze 1950), testo di riferimento per le successive catalogazioni e inventari di questo genere di patrimonio, quali: M. Fondi, La casa rurale nella Lunigiana, Centro di Studi per la Geografia Etnologica, Firenze 1952; M. Bonasera, La casa rurale nell’Umbria, Olschki, Firenze 1955; G. Pratelli, La casa rurale nel Lazio meridionale: l’ edilizia rurale nelle bonifiche del Lazio, Olschki, Firenze 1957; M. Cataudella, La casa rurale nel Molise, Olschki, Firenze 1969; C. Colamonico, La casa rurale nella Puglia, Olschki, Firenze 1970; M.T. Alleruzzo Di Maggio, La casa rurale nella Sicilia Orientale, Olschki, Firenze 1973. 137
oltre a soddisfare le esigenze di memoria locale, possono essere ri-attualizzati – ad esempio – secondo le chiavi di lettura proposte dagli strumenti di regolazione dell’economia e di governo del territorio? La sensibilità ambientale che innerva molti filoni attuali di ricerca e di studio, può trovare nella storia dell’abitazione rurale spunti di interesse, di ricerca e di innovazione, o semplicemente l’edilizia storica è diventata il terreno di uno scontro ideologizzato tra trasformazione e conservazione? Muovendo da tali prospettive l’atelier sulle Case rurali nelle regioni italiane ha eluso il tentativo – impossibile e inattuale – di tracciare un bilancio storiografico tipologico, mentre ha lavorato in un’ottica processuale, secondo cui ciò che interessa lo storico, il progettista, il geografo e l’agronomo sono le trasformazioni, la versatilità, la trasformabilità dell’edilizia rurale, e non tanto il suo formarsi attorno a soluzioni tipologiche o, addirittura, archetipiche. La lettura processuale consente infatti non solo l’individuazione delle strutture tipizzanti dei manufatti edilizi – eventualmente da conservare in quanto memoria irrinunciabile dei luoghi e delle tecniche –, ma anche la lettura delle modalità adattative, dei processi di crescita, delle logiche di aggregazione e di strutturazione dell’insediamento. Se la trasformazione diventa la chiave di interpretazione e periodizzazione storica, la ricerca può dunque offrire strumenti critici utili anche per chi è chiamato a studiare rifunzionalizzazioni, attualizzazioni, ristrutturazioni (o destrutturazioni) dei nuclei rurali abbandonati o sottoutilizzati, al fine di ridar loro vita secondo logiche anche innovative, ma consapevoli del divenire della stratificazione. Un approccio processuale all’edilizia abitativa consente anche un rapporto più immediato e intuitivo con lo studio del paesaggio: se il dinamismo è la chiave di lettura più rilevante del paesaggio, che è «soggetto a mutazioni e a trasformazioni che seguono ritmi e periodicità differenti»3, tale aspetto non può non rispecchiarsi nei manufatti edilizi, che mutano anch’essi secondo fasi scandite dalle trasformazioni sociali, economiche, tecniche e culturali del mondo rurale, e non solo secondo astratte periodizzazioni storico-artistiche o tipologiche. Esplicitare il nesso tra processualità paesaggistica e processualità edilizia può dunque essere lo strumento per costruire percorsi di interpretazione e di progetto nel quadro degli strumenti di governo del territorio disponibili nell’ordinamento giuridico italiano, traducibili in indirizzi progettuali per l’intervento pubblico e in modalità di regolazione dell’iniziativa privata.
Il quadro storiografico La riflessione su abbandono, conservazione e trasformazione dell’edilizia rurale è ben tracciabile nella letteratura architettonica italiana degli ultimi cinquant’anni, da cui emerge che il dinamismo del popolamento rurale è alla base dell’abbandonando di edifici e campi in favore di condizioni abitative urbane. Venendo meno la manutenzione ordinaria dei manufatti rurali, si innesca un meccanismo di degrado che proseguirà nel tempo, portando a una distruzione non solo degli oggetti, ma anche della loro memoria storica. 3 C. Tosco, Il paesaggio come storia, Il Mulino, Bologna 2008, p. 116. 138
Tra i primi ad interessarsi al valore della casa rurale risulta, già nel 1936, Giuseppe Pagano che, in occasione della VI Triennale di Architettura di Milano, definisce la casa contadina un’architettura popolare, primitiva, autoctona «lontana dalla retorica e dall’esibizione»4. Risalgono però a quarant’anni dopo gli scritti che, non limitandosi solo alla catalogazione e allo studio tipologico, sulla stessa linea di Pagano, denunciano in modi diversi l’importanza della conservazione di tale genere di patrimonio. Un protagonista di questa fase è Eugenio Turri, secondo cui «il paesaggio esprime le ragioni intrinseche d’una cultura o d’una società che opera secondo una certa cultura, con le sue specifiche necessità e i suoi particolari rapporti ambientali»5: ne derivano quindi usi diversificati e specifici dell’ambiente in rapporto a determinate attività, che segnano il paesaggio con le loro forme, i loro oggetti. La casa rurale fa parte di questi elementi paesaggistici che variano nel tempo. Un esempio di abitazione rurale segnalato daTurri e che ha subìto un processo di modificazione è quello delle vallate alpine, dove gli aspetti umani sono cambiati rapidamente: si identificano dunque o elementi nuovi malamente assimilati e sempre mal sposati con quelli locali, o elementi autoctoni, nati da una profonda coerenza con l’ambiente, ma abbandonati a causa del cambiamento nelle tecniche di allevamento6. I numerosi alpeggi abbandonati, ad esempio, pongono il difficile problema di una loro rifunzionalizzazione, venendo meno i principali dinamismi della transumanza e dell’allevamento temporaneo in quota. Tale problematica non ha riguardato solo le aree montane: in generale si sono perse le gerarchizzazioni funzionali e visive del paesaggio, composto da fuochi – individuati essenzialmente nei villaggi –, da superfici coltivate e boschi – circostanti i fuochi – e da strutture di collegamento. Tutti questi elementi hanno perso o rischiano di perdere oggi la loro funzionalità e, dunque, la loro leggibilità. Prima di Turri, già Emilio Sereni aveva studiato il problema della deruralizzazione, riconducendola a cause precise quali «il regresso, in larghe plaghe, della cultura aratoria alle utilizzazioni pascolative, pioppive o boschive, lo spopolamento di interi villaggi e vallate e le centinaia e migliaia di poderi, infine, che in ogni provincia italiana – specie in montagna e nell’alta collina, ma oramai sempre più spesso anche al piano –risultano abbandonati»7. Le cause che hanno determinato, secondo Sereni, tale situazione sono state: l’orientamento della politica degli investimenti pubblici, l’adesione del governo italiano al mercato comune europeo, la brusca inversione del corso della politica granaria delle classi dominanti italiane e, infine, gli sviluppi della meccanizzazione, che ha portato a nuove forme di integrazione «di centinaia di migliaia di imprese contadine, singole ed associate (fondate sulla realizzazione del principio “la terra a chi lavora”) in grandi aziende capaci di rispondere alle moderne esigenze della tecnica e dell’economia»8. 4 G. Pagano, G. Daniel, Architettura rurale italiana, in Quaderni della Triennale, Hoepli, Milano 1936, p. 6. 5 E. Turri, Antropologia del Paesaggio, Edizioni di Comunità, Milano 1974, p. 139. 6 Ibidem, pp. 140-142. 7 E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Laterza, Bari 1961, pp. 448-449. 8 Ibidem, p. 444. 139
Anche Mario Fondi, all’interno del volume curato da Lucio Gambi nel 1970 sulla casa rurale italiana, individuava nel fenomeno della deruralizzazione – termine peraltro ancora di definizione incerta – il convergere, con aspetti spesso contrastanti, di molteplici fattori umani, economici e sociali.9 Il fenomeno si verifica non solo in Italia, ma «in qualunque comunità in via di sviluppo che passa dalle ancestrali forme di vita rurale patriarcale a una fase più evoluta di organizzazione, manifestatesi essenzialmente con lo sviluppo delle attività industriali e commerciali o con una conduzione di tipo industriale dell’agricoltura stessa»10. A causa dell’intensità con cui il fenomeno si diffonde, la casa rurale diventa elemento superfluo sul territorio, o addirittura viene inglobata dalla città in continuo accrescimento. Fondi in particolare introduce un ulteriore interessante elemento: la valorizzazione turistica del patrimonio rurale, che determina sia un cambiamento sociale, sia un’occupazione territoriale in crescita per i servizi e le attrezzature legati alla ricettività. In sintesi, da questi brevi assaggi antologici, si può affermare che i metodi e i temi di osservazione proposti più di quarant’anni fa risultano oggi ancora assolutamente attuali, pur nella diversità delle dinamiche socio-economiche in atto. Se l’abbandono che ha portato – e porta – al degrado delle architetture storiche rurali è correlato alla deruralizzazione delle campagne, non ci si può dimenticare che esiste il fenomeno opposto, ossia l’incessante costruzione di nuove abitazioni in contesti urbani, ma anche periurbani e rurali. Infatti, come sottolinea Salvatore Settis, nonostante ci sia stato un incremento demografico in Italia molto basso, si continua a costruire, anche illegalmente11. Il dibattito sul contenimento del consumo di suolo non è solo più un tema di ricerca scientifica o di pratica urbanistica, ma è diventato di attualità grazie alla vivace discussione sulla relativa proposta di legge. Il tema della conservazione dell’architettura rurale risulta quindi avere una storia intrecciata con la lettura dei contesti economici, sociali e politici, ed è all’interno di queste considerazioni che si colloca la riflessione attuata nell’atelier della Summer School 2016.
Una chiave di lettura processuale sul rapporto edilizia/paesaggio Nello studio del rapporto tra architettura e paesaggio un momento di svolta metodologico è rappresentato dal passaggio da un paradigma censuario/tipologico (individuazione di manufatti di rilevanza documentale, catalogazione tipologica e classificazione di valore) a un modello di ricerca processuale. Negli studi sviluppati nell’ambito regionale piemontese12 negli anni 2000 – contestualmente alla prima 9 M. Fondi, Deruralizzazione e modifiche della casa rurale italiana, in G. Barbieri, L. Gambi (a cura di), La casa rurale in Italia, Olschki, Firenze 1970, pp. 355-382. 10 Ibidem, p. 367. 11 S. Settis, Il paesaggio come bene comune, La Scuola di Pitagora, Napoli 2013, pp. 10-11. 12 Atlante dei paesaggi piemontesi, ricerca del Dipartimento Interateneo Territorio (direzione Attilia Peano, coordinamento Claudia Cassatella) e del Dipartimento Casa-Città (direzione Vera Comoli Mandracci e Costanza Roggero, coordinamento Mauro Volpiano), 2 dvd, Torino 2007; cfr. i saggi: C. Roggero, M. Volpiano, A. Longhi, E. Lusso, Analyzing landscape structures through historical processes: experiences in northern Italy, in Paisaje cultural / Paysage 140
attuazione della Convenzione Europea del Paesaggio e del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio – è stato messo a punto un metodo che parte dallo studio delle grandi dinamiche di trasformazione culturale, sociale ed economica degli insediamenti, per coglierne le possibili ricadute sui processi di trasformazione del territorio e del paesaggio, fino ad arrivare ad una valutazione delle modificazioni edilizie e infrastrutturali. L’individuazione dei processi – e non dei singoli manufatti – ha consentito un dialogo proficuo con tutte le discipline paesaggistiche, che fanno del dinamismo la propria chiave di lettura, togliendo lo studio dell’architettura dall’ “angolo” del criterio meramente vincolistico. Alla luce di tale approccio processuale, in questa sede possiamo sintetizzare alcuni processi di trasformazione dell’architettura rurale, al fine di stabilire confronti tra le diverse regioni italiane non tanto impostati su un taglio tipologico, ma piuttosto sulla condivisione di problemi, di criticità e di prospettive. Alcune delle tematiche ricorrenti individuate sono: - l’abbandono di villaggi montani e la loro parziale recente riconversione a uso turistico, o la ricerca di funzioni idonee a supportare un loro ripopolamento; - la trasformazione di edilizia rurale, in aree ormai non distanti dalle città, in complessi residenziali di pregio, del tutto slegati dalla conduzione dei terreni adiacenti; - la possibilità, da parte dell’edilizia rurale storica, di continuare a supportare attività produttive, nel rispetto delle regole della tutela architettonica, ma anche con l’attenzione verso le condizioni economiche e tecnologiche necessarie per mantenere in funzione e competitive le aziende agricole, adeguandosi alle nuove tecniche di coltivazione, immagazzinamento, vendita; - la trasformazione dell’architettura rurale di maggior valore storico da luogo per l’attività puramente agricola a spazio multifunzionale di accoglienza, ristorazione, pernottamento, cercando una vocazione anche turistica, possibilmente non dissociata dall’adiacente territorio rurale.
Il governo del territorio, paesaggio ed edilizia rurale: l’esperienza piemontese Le dinamiche qui sinteticamente individuate possono essere in qualche modo governate, in modo da contemperare le diverse esigenze di memoria e di produzione, di conservazione e di comfort? Al fine di non disgiungere il tema edilizio da quello paesaggistico, certamente gli strumenti di governo del territorio giocano un ruolo essenziale. Si è accennato sopra al caso piemontese e alla sperimentazione di nuovi modelli interpretativi e pianificatori: rileggendo sotto tale chiave di lettura alcuni dei lavori condotti negli ultimi tre lustri, è evidenziabile il tentativo di dare un culturel / Cultural landscape. 4° Congreso Europeo sobre Investigaciòn Arquitectònica y Urbana EURAU 08, Ministerio de Fomento, Universidad Politécnica de Madrid, [Madrid] 2007; A. Longhi, M. Volpiano, Historical research as a tool for planning: perspectives and issues about the assessment of the cultural landscapes, in Living Landscape. The European Landscape Convention in research perspective, Conference Materials (Florence 2010), 2 voll., Uniscape-Bandecchi Vivaldi, Florence-Pontedera 2010, vol. II, pp. 124-129; M.volpiano, I paesaggi del Piemonte. Indagini alla scala regionale per l’interpretazione storica del territorio, in Id. (a cura di), Territorio storico e paesaggio. Metodologie di analisi e interpretazione, Fondazione CRT-L’Artistica Editrice, Torino-Savigliano 2012, pp. 134-151. 141
orientamento coerente tanto ai principi trasformativi dell’insediamento, quanto alla gestione del paesaggio. Ad esempio, nella sperimentazione condotta per le analisi preliminari ai piani paesistici su aree di “Galassini” (demandate nel PTR piemontese del 1997 alla pianificazione di iniziativa regionale), si sono poste in evidenza soprattutto le “logiche aggregative” degli insediamenti rurali, solitamente correlate alla morfologia e all’idrologia dei luoghi, in modo da dedurre alcune regole di trasformazione che potessero “continuare la storia” dei nuclei rurali più interessanti, garantendo alle aziende agricole e agli abitanti la possibilità di adeguare, ampliare, aggiornare la propria edilizia storica, in modo da garantirne la continuità di uso e la manutenzione13. Nelle analisi storiche per l’area della conca di Vezzolano, ad esempio, è stata posta in evidenza la modalità aggregativa di diverse cellule elementari disposte in linea, o secondo le isoipse, o a cavallo della linea di crinale delle alture condotte a vite, la cui dimensione e disposizione era ed è correlata alla frammentarietà dei poderi e degli spazi collettivi. È evidente come, in tale contesto, la riconversione spinta a residenze di pregio – promossa da pendolari che lavorano in città – comporti il rischio di operare delle fratture difficilmente sanabili, da un punto di vista non tanto formale, ma piuttosto strutturale, in quanto comporta l’aggregazione forzata di cellule edilizie elementari, la riperimetrazione di spazi a “giardino” e la ridefinizione delle trame insediative e agricole, associate a evidenti processi di abbandono delle coltivazioni. Nel caso delle borgate alpine di Novalesa e Moncenisio si è trattato invece di cogliere i rapporti tra forme dell’insediamento e forme della conduzione dei versanti (villaggi aggregati in conca, nuclei dispersi lungo crinali in versanti coltivati, attrezzature di servizio in boschi e foreste), in modo da governare in modo diversificato il “ritorno” part-time alla montagna per usi turistici e micro-agricoli, in rapporto anche con la problematica gestione delle superfici a bosco e prato. Ben diverso il caso delle imponenti aziende agricole nelle tenute ex-sabaude di Pollenzo (piano adottato) e di Racconigi (piano portato in adozione)14, in cui la logica economica capitalista sette-ottocentesca ha definito un paesaggio edilizio e agricolo di dimensioni e geometrie progettate in grande scala. L’attività delle aziende agricole può, se necessario, essere implementata volumetricamente secondo regole definite mediante lo studio prospettico della struttura viaria ed architettonica, associata alla scrupolosa conservazione dei manufatti di interesse storico-artistico e a una misurata riconversione in abitazioni di pregio. La sperimentazione condotta sulle piccole aree dei Galassini non è arrivata fino all’approvazione di piani paesistici parziali in aree di eccellenza, in quanto il nuovo Codice ha imposto, dal 2004, la redazione di piani paesaggistici di nuova generazione, coprenti l’intero territorio regionale. Tuttavia, il patrimonio di esperienze non è andato disperso15, ed è stato dunque rielaborato, in termini teorici e spaziali più ampi, sia in 13 L’esperienza delle analisi storiche preliminari ai piani è sintetizzata nel volume A. Longhi, La storia del territorio per il progetto del paesaggio, L’Artistica, Savigliano 2004, cui si può fare riferimento per i casi sotto citati. 14 Piano paesistico dell’Area della tenuta ex reale e del centro storico di Pollenzo, adottato nel dicembre 2002 dalla Giunta Regionale, nuovamente adottato con integrazioni nel maggio 2004; attualmente decaduto. Piano paesistico della Zona delle cascine ex Savoia del parco del castello di Racconigi, stesura finale non adottata ottobre 2003. 15 O. Ferrero, La pianificazione paesistica: attività ed esperienze; O. Ferrero, M. Quarta, 142
studi specifici16, sia nelle ricerche sopra citate sul territorio regionale piemontese, i cui esiti sono confluiti nel piano paesaggistico, adottato nel 2009 e riadattato nel 201517. Le schede interpretative dei processi paesaggistici tengono sempre associati aspetti edilizi e di scala vasta, definendo scenari periodizzati criticamente in fasi storiche, ma aperti alla prosecuzione delle trasformazioni. Le regole del piano dialogano con gli aspetti culturali definiti sia dalle analisi dei processi di trasformazione, sia dalle schede d’ambito paesaggistico18, e sono associate a specifiche linee guida per l’orientamento progettuale19.
La trasformazione edilizia e i processi economici in corso Scendendo alla scala del manufatto edilizio, sono ormai noti nella letteratura alcuni progetti pilota, che risultano esemplari. Un esempio è quello della borgata Paraloup a Rittana (Cn), il cui recupero ha una grande valenza tecnica, sociale e ambientale, un prezioso esempio di ristrutturazione sostenibile in ambito alpino20 che al tempo stesso mantiene intatto il valore storico di quegli edifici, rendendolo simbolo del “villaggio della libertà”, in cui sia possibile ritrovare «le tracce di un passato ancora vivo sotto la superficie della riconquistata “normalità”», e dove la volontà di «far rivivere un pezzo di montagna come testimone fisico di una memoria storica»21 permette di ricordare quei venti mesi di vita partigiana, divenendo luogo simbolo della Resistenza. Casi altrettanto interessanti, rimanendo in ambito alpino meritano di essere menzionati. Nella Borgata Sellette a Pontechianale (Cn), tra le più caratteristiche della Val Varaita, il restauro delle architetture dell’intera borgata è stato realizzato da parte L’importanza dell’analisi storica nella pianificazione paesistica; O. Ferrero, A. Visentini, La pianificazione paesistica su due aree ad elevata qualità paesistico ambientale, in C. Ferrero E M. Giudice (a cura di), Governare il territorio piemontese: ruoli,competenze e problemi. Rapporto 2004 sull’urbanistica e la pianificazione del territorio, L’Artistica, Savigliano 2004, pp. 4354. 16 Si veda, ad esempio, la collana della Regione Piemonte “Temi per il Paesaggio”, edita tra il 2004 e il 2010 con lavori di Sandra Poletto (cartografia), Domenico Bagliani (temi di progetto), Rosalba Ientile e Monica Naretto (recupero borgate alpine), Benvenuto Chiesa (pedagogia), Gianni Arnaudo (cantine), Maria Chiara Zerbi (sensorialità), Roberto Mattone (edilizia rurale in terra cruda) 17 DGR 6-5430/2013, edito in http://www.regione.piemonte.it/territorio/pianifica/ppr.htm 18 M. Volpiano (a cura di), Sistemi di interesse storico-paesaggistico importanti agli effetti paesaggistici. Componenti di valore storico-culturale. Contributo al quadro normativo, Dipartimento Casa-città del Politecnico di Torino, 2008. 19 A. De Rossi (a cura di), Indirizzi per la qualità paesaggistica degli insediamenti. Buone pratiche per la progettazione edilizia, Dipartimento di Progettazione Architettonica e di Disegno Industriale del Politecnico di Torino, 2010 (approvati con DGR 30/2010). 20 D. Regis, Atlante dei borghi rurali alpini, il caso di Paraloup, Quaderni di Paraloup, Fondazione Nuto Revelli, Mondovì 2012, p. 9. 21 M. Revelli, Costruire nel paesaggio rurale alpino, il recupero di Paraloup luogo simbolo della Resistenza, Quaderni di Paraloup, Fondazione Nuto Revelli, Mondovì 2007, p. 12. 143
di un unico imprenditore immobiliare, che ha prima comprato le architetture per poi ristrutturarle e realizzare una serie di opere accessorie (adeguamento della strada d’accesso, posteggio, acqua potabile), rimettendo infine sul mercato le singole unità22. Ostana è un “laboratorio” per la costruzione di una nuova abitabilità della montagna: la rivitalizzazione del patrimonio di immobili – pubblici e privati – ha permesso un reale reinsediamento, di famiglie soprattutto giovani, che hanno creato nuove attività imprenditoriali, in particolare nel campo dell’agricoltura e nel settore turistico-ricettivo. Molti progetti sono firmati da architetti e docenti del Politecnico di Torino quali Antonio De Rossi, Massimo Crotti (Istituto di Architettura Montana) e Marie-Pierre Forsans, ma si segnalano anche i precedenti e pionieristici interventi dell’architetto Renato Maurino, principale protagonista della trasformazione di Ostana in un piccolo laboratorio en plein air di architettura alpina23. A Frassinetto (To) si punta invece al ripopolamento fisso e stagionale tramite l’inserimento di nuove attrazioni turistiche (l’albergo diffuso, l’Arcansel, le botteghe artigianali, la spa) per puntare ad un ripopolamento giovane24. Sono casi interessanti che, grazie a i contributi regionali, al supporto di fondazioni e alla sperimentazione universitaria25, si presentano oggi come esempi di riferimento. Uscendo dai pochi noti casi virtuosi, è evidente come siano i processi economici in corso a dettare le modalità di trasformazione o il totale abbandono del patrimonio rurale. Un processo rilevante è quello riguardante il settore turistico: la forte domanda di un nuovo turismo “slow” e ambientale favorisce il riuso di spazi dell’edilizia rurale, supportato però da ristrutturazioni talora incoerenti con l’edificio in sé, o con il suo contesto. È questo il caso dei numerosissimi agriturismi che si stanno diffondendo a macchia d’olio su tutto il territorio italiano26: considerando ad esempio il paesaggio vitivinicolo di Langhe, Roero e Monferrato, investito da una presenza turistica in aumento, le cascine storiche per la produzione di vino si stanno man mano ampliando, offrendo al visitatore ulteriori servizi in spazi rifunzionalizzati: laddove vi era la stalla ora sorge la sala da pranzo, il fienile lo si trasforma in camere per l’accoglienza, le antiche cantine per l’invecchiamento del vino domestico sono oggi luoghi di visita, degustazione, esposizione. Talora, il riuso di spazi storici si associa all’“invenzione” di 22 Borghi Alpini. Perché il ritorno alla Montagna è possibile, Uncem Piemonte, Cuneo 2015, p. 83 23 Ibidem, pp. 86-87. 24 Ibidem, pp. 90-91. 25 Risulta di fondamentale interesse la sperimentazione da parte della Scuola di Specializzazione in Beni Architettonici e del Paesaggio del Politecnico di Torino, che affronta da anni il tema del recupero delle borgate alpine tramite cantieri didattici, atelier, tesi e altri materiali che convergono in una serie di pubblicazioni: G. Montanari (a cura di), La pietra e il legno. Ricerche per il progetto del territorio montano. Moron (St. Vincent), Celid, Torino 1995; C. Devoti (a cura di), Progetto guida per borghi minori montani. Leverogne in Valle d’Aosta, Celid, Torino 2003; C. Devoti (a cura di), Montjovet. Caso-studio per un modello di schedatura dei borghi alpini, Celid, Torino 2005; S. Agamennone et alii, Stepping stones. Un progetto integrato per ri-abitare la montagna, Celid, Torino 2015. 26 Nel 2014 il settore agrituristico vede confermati una tendenza strutturale alla crescita e un elevato potenziale competitivo: il numero delle aziende agrituristiche infatti continua ad aumentare, arrivando a 21.744 unità, 847 in più rispetto all’anno precedente (+4,1%). Dati Istat, Report Statistiche , Anno 2014 Le Aziende Agrituristiche In Italia, 2015. 144
aspetti “tradizionali”, che rieleggono la stratificazione storica (a volte modesta, povera, poco riconoscibile) in termini di nuovo gusto globalizzato per un rurale di invenzione. Aree meno fortunate, invece, sono prive della pressione della domanda: l’abbandono è quasi inevitabile nell’impossibilità della conservazione, trasformazione, ri-funzionalizzazione dell’edilizia. Un esempio eclatante è quello delle aziende agricole nel Vercellese: la forte vocazione risicola ha visto nascere sul territorio numerosissime architetture sparse nel mezzo delle risaie, complessi molto vasti in cui avvenivano processi di coltivazione, immagazzinamento, lavorazione e che ora sono per lo più ruderi fatiscenti, nell’impossibilità di individuare funzioni adeguate alla scala e alla rilevanza architettonica degli edifici27. Ciò che se ne deduce è che il principale problema della conservazione dell’edilizia rurale è oggi l’assenza di un “contenuto” adeguato, motivo per cui risulta difficile mantenere anche il “contenitore”: secondo i registri delle Camere di commercio, infatti, il numero di aziende agricole iscritte è in continua diminuzione, facendo registrare una flessione del 10 per cento di imprese registrate dal 2009 al 2014. Mentre per quanto riguarda la quota di titolari con più di 70 anni, nel 2014, è stata pari al 25 per cento e al 44 per cento per gli imprenditori tra 50 e 69 anni. Dal 2009 la percentuale di giovani imprenditori (di età inferiore a 29 anni) è rimasta sostanzialmente stabile, attorno al 3 per cento28. Di conseguenza di fronte ai dati di calo degli addetti alle attività agricole, associato a un loro invecchiamento e ad un aumento della superficie a bosco29 (problema già denunciato da Turri che riportava un aumento dei boschi spontanei da abbandono di quasi il 100 per cento della superficie a bosco) la domanda che ci si potrebbe porre è se sia finita l’era dell’agricoltura “contadina”, in antitesi con quella oggi definita “industriale”. Ciò a cui alcuni fortunati casi puntano è lo sviluppo di forme di agricoltura biodinamica, ecologica, rigenerativa. Vi sono alcune interessanti esperienze di ritorno alla terra, ancora deboli e limitate, che basano la loro riuscita sulla formazione di comunità consapevoli: si tratta di produzioni a filiera corta, vicina soprattutto al principio del “km 0”, legandosi direttamente alla città e al cittadino che vuole allontanarsi dal sistema alimentare votato alle logiche industriali: il produttore instaura un legame diretto con il consumatore, che accetta di adeguare la cucina agli ingredienti più vicini e disponibili oltre, che ai prodotti offerti dalla terra in ogni stagione, allineandosi ai principi dell’Associazione Internazionale Slow Food. Al contrario, pare più diffuso il fenomeno già citato di cittadini che vanno ad abitare in campagna, privi della consapevolezza di quel paesaggio e della vita nel 27 La tipologia dell’architettura rurale dell’area vercellese era stata approfondita da Giuseppe Dematteis che aveva individuato in questa zona la particolarità, derivante dal tipo di coltivazione, di grossi nuclei rurali, oggi di ancor più difficile conservazione a causa delle loro dimensioni: G. Dematteis, La casa rurale nella pianure vercellese e biellese, in Studi geografici su Torino e il Piemonte, II, Torino 1965. 28 Annuario dell’agricoltura italiana 2014, Report Foreste, Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria - CREA, volume LXVIII, Crea, Roma 2015, pp. 41-42. 29 Si registra un aumento nel 2014 del 5,8% della superficie forestale rispetto al 2005 Annuario dell’agricoltura italiana 2014, Report Foreste, Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria - CREA, volume LXVIII, Crea, Roma 2015, pp. 491-499. 145
mondo rurale: essi danno vita a forme di pendolarismo che generano traffico e problemi dal punto di vista ambientale (inquinamento, rifiuti di tipo urbano ecc.), pretendendo lo stesso tipo di servizi presenti in città. In questo caso, pur essendoci il riuso delle case, viene a mancare il legame con il contesto: il nuovo abitante torna ogni sera alla sua casa, ma non vive la dimensione rurale, generando una scissione tra la qualità della conservazione dell’edificio (peraltro, talora di tipo manierista, o di mera facciata estetizzante) e la qualità del paesaggio, colto nei suoi aspetti dinamici e vitali.
Temi di dibattito L’approccio processuale proposto durante i lavori dell’atelier ha portato a discutere soprattutto il rapporto tra trasformazione e “valori”, e sull’inevitabile conflitto tra i valori messi in campo da portatori di interessi diversi (valori d’uso alternativi, valori di memoria e di identità, valori di innovazione, valori documentali ecc.) 1. Una prima notazione: è la continuità d’uso che garantisce la vita dell’edilizia storica, qualche che ne sia il valore. La sfida è dunque l’integrazione tra la dinamica di uso/riuso e la dinamica di patrimonializzazione che una comunità prevede, pianifica e progetta per la propria edilizia rurale. Due casi estremi, riscontrabili in diversi contesti regionali: aziende che, per poter sopravvivere competitive sul mercato, devono modificare, alterare, adattare il patrimonio edilizio storico in cui si sono sviluppate, fino a comprometterne la riconoscibilità culturale; all’estremo opposto, edifici rurali dismessi ma di interesse storico-artistico, che aprioristicamente meritano di essere conservati (per l’opinione pubblica, per l’identità locale, per i vincoli statali), ma per i quali non si riesce a trovare funzione idonea. Snaturati dal “troppo” uso, o snaturati dall’abbandono. La conservazione, tuttavia, può essere un apriori etico, per supportare il quale è necessario “inventarsi” una funzione? Oppure la produzione può essere il solo apriori economico, sulla base del quale valutare i necessari compromessi per la conservazione e la valorizzazione degli aspetti storico-culturali? C’è necessariamente conflitto tra le due prospettive? 2. Un secondo aspetto riguarda il rapporto abitazione/terra: in molti casi i percorsi di riuso e recupero dell’edilizia storica sono indipendenti dalle scelte relative all’utilizzo del territorio agricolo adiacente. Se è vero che le discipline urbanistiche tendono ancora a individuare gli spazi aperti come “pertinenza” dell’edificio, in una lettura storica processuale è piuttosto il contrario: gli edifici sono esiti (pertinenze) delle grandi scelte di utilizzo del territorio rurale e delle politiche insediative a scala vasta. La mancata considerazione di tale prospettiva storica è pericolosa, perché scinde un bene unitario (il paesaggio rurale, con terre, case e infrastrutture) in beni singoli, il cui valore culturale individuo è in ogni caso minore rispetto alle potenzialità dell’insieme. I casi di trasformazioni che operano una divisione tra abitazione e terra alterano equilibri di fondamentale importanza per un corretto governo del territorio e delle sue risorse.
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3. Un’ultima riflessione tocca il ruolo della pianificazione, degli strumenti giuridici per il governo del territorio: siccome la conservazione del patrimonio storico rurale non è solo un problema “edilizio” afferente alle discipline del restauro o dell’innovazione tecnologica, ma riguarda il rapporto tra abitazione e terra, è inevitabile che gli strumenti pianificatori di scala vasta debbano avere un ruolo ineludibile nel tenere associati paesaggio e architettura rurale. Le politiche di tutela e valorizzazione dell’edilizia non possono che essere parte delle politiche agricole e di uso del suolo, e viceversa non c’è politica agricola che non impatti – in modo positivo o negativo – sul patrimonio storico rurale. Alla scala della pianificazione locale emergono altri problemi: qual è il rapporto tra recupero dell’edilizia storica rurale e il livello di servizi esigiti dai cittadini che vi si insediano? I “nuovi residenti” in campagna sono in ricerca di stili di vita diversi, rurali anch’essi, o semplicemente ricercano un’esperienza “estetica”, sganciando l’uso dell’abitazione dalle inevitabili conseguenze del vivere in un territorio agricolo, non urbano? Una preoccupazione per gli amministratori potrebbe essere che i nuovi abitanti di edilizia storica rurale causino un aggravio di costi per le comunità locali (maggiori costi di servizi dovuti alla residenza “remota” rispetto ai nuclei urbanizzati: si pensi a scuolabus, emergenze sanitarie, rimozione neve, messa in sicurezza della viabilità, raccolta rifiuti ecc.), senza che le comunità stesse traggano giovamento da un maggiore e migliore “presidio” del territorio, in quanto questi residenti non si impegnano sulla terra in cui abitano, ma sono pendolari e hanno attività prive di impatto sulle “pertinenze” dell’abitazione. Si pone dunque il quesito sull’equilibrio tra il sostegno al riuso (conservativo) del patrimonio e la sostenibilità locale di tali interventi. In modo trasversale rispetto ai tre problemi sintetizzati, due temi sono stati più volte evocati: dove il contesto economico e sociale non consente continuità d’uso e di riuso all’edilizia rurale storica nel quadro di attività agricole, quali opzioni possono essere studiate e sperimentate? Lo studio di filiere corte, o di insediamenti multifunzionali di agricoltura periurbana, è l’unica alternativa? In secondo luogo, dove invece i processi di produzione richiedono la costruzione di nuove abitazioni, nuove strutture, nuovi servizi, esiste la possibilità di fare un’architettura rurale contemporanea, che sappia interpretare in modo culturalmente significativo il nostro tempo, le nostre agricolture, le nostre comunità rurali? Sarebbe disarmante pensare che la storia della casa rurale sia finita, affidata ai manuali di storia o di tipologia, e che non sia immaginabile una casa rurale di qualità per il XXI secolo, per una storia ancora da scrivere.
* Il contributo riprende i temi dibattuti nel laboratorio Case rurali. Architettura nelle regioni italiane. A una comune riflessione degli autori sono dovute le Premesse e le Conclusioni; M. Ramella ha curato i paragrafi: Il quadro storiografico e La trasformazione edilizia e i processi economici in corso, A. Longhi i paragrafi: Una chiave di lettura processuale sul rapporto edilizia/paesaggio e Il governo del territorio, paesaggio ed edilizia rurale: l’esperienza piemontese. 147
Il paesaggio agrario delle risaie Segni “del tempo nello spazio” tra tutela e innovazione
Marta Banino, Alice Giani, Francesca Matrone
Se risulta difficile definire la parola paesaggio, è ancora più problematico stabilire cosa tutelare in un paesaggio rurale, come valorizzare tale patrimonio1 e in che modo farlo fruire alla popolazione per tramandarne non solo la memoria, ma anche e soprattutto il ricordo. Il termine paesaggio infatti ha nella sua etimologia neolatina il riferimento alla parola pagense, «aggettivo indicante l’appartenenza ad un paese, a un luogo di vita degli uomini»2, ma fa anche riferimento allo stile pittorico “paesaggistico” che ritrae, a partire dal XVI secolo, spazi esterni, scene e ampie vedute con un grado di antropizzazione molto limitato, se non quasi assente. Quando però oggi si pensa ad un paesaggio da tutelare non si fa più solo riferimento ad un luogo incontaminato, da proteggere per le sue bellezze naturali e per l’aspetto estetico3, ma anche ad un territorio in cui l’opera dell’uomo ha saputo modellare l’ambiente circostante, creando una sorta di simbiosi e di mutuo rapporto tra esso e il paesaggio. Questo cambiamento di concezione è stato ben espresso nella Convenzione Europea del Paesaggio4 in cui si evidenzia come il paesaggio da tutelare sia anche quello «quotidiano» o degradato e risultante dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni. Tale nuovo sentire trova riscontro, come afferma anche il professor Roberto Gambino, nella forte crescita di una rinnovata domanda sociale di ritorno alla terra5, di valorizzazione delle proprie tradizioni, di riscoperta e di volontà 1 È interessante notare come l’etimologia del termine “patrimonio” sia l’unione dei due lemmi latini pater, padre, e munus, dovere, ovvero un dovere del padre verso i figli, ma anche un’eredità che ci viene lasciata e di cui è necessario prendersi cura. 2 C. Ferrari, G. Pezzi, Paesaggio. Ambiente, spazio, luogo, memoria, Diabasis, Reggio Emilia 2012, p. 13. 3 Legge 29 giugno 1939, n. 1497. Protezione delle bellezze naturali. In questa legge il Ministero aveva facoltà di redigere un piano territoriale paesistico, atto a non permettere che tali località fossero «utilizzate in modo pregiudizievole alla bellezza panoramica». 4 Documento adottato dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa a Strasburgo il 19 luglio 2000 e firmato a Firenze il 20 ottobre 2000. 5 C. Ferrata, L’esperienza del paesaggio. Vivere, comprendere e trasformare i luoghi, Carrocci 149
nel tramandare i saperi antichi, determinandone così la ribalta negli attuali discorsi politici e culturali. Ne è un esempio l’iscrizione nella Lista UNESCO dei Paesaggi vitivinicoli del Piemonte delle Langhe-Roero e Monferrato, avvenuta nel 2014. Questo risulta essere un paesaggio con un basso indice di naturalità e biodiversità, quasi totalmente antropizzato [Fig. 1], con capannoni industriali di grande impatto visivo e percettivo e con problematiche relative, in alcuni comuni, ad un marcato fenomeno di dispersione urbana, ma che tuttavia, per la tipica sistemazione agraria dei terreni a girapoggio, per la radicata cultura del vino, per l’eccezionale rapporto tra l’uomo e la natura, per il ricco sistema dei luoghi produttivi e degli insediamenti tradizionali e per la sua capacità di rappresentare un paesaggio “vivente” in cui ogni sua evoluzione avviene nel costante rispetto ed equilibrio di tradizione e innovazione, è stato riconosciuto come un patrimonio da tutelare e salvaguardare. Ulteriori esempi piemontesi che possono essere citati, seppur di minor rilevanza internazionale, sono i progetti di recupero dei terrazzamenti dismessi in val Chisone e Germanasca e di alcune colture storiche in val Grande. Nel primo caso si assiste a una lenta riappropriazione di questo paesaggio rurale grazie anche a finanziamenti europei (FESR, PSR 2007-2013) che hanno permesso il ripristino di muretti a secco e la piantumazione di oltre mille barbatelle di varietà che caratterizzano la DOC pinerolese del vino Ramìe, mentre nel secondo caso un progetto di ricerca in corso6 Editore, Roma 2013, p. 14. 6 Promosso dall’Associazione per lo Sviluppo della Cultura, degli studi Universitari e della
Fig. 1 F. Matrone, Paesaggio delle Langhe. 150
si propone di coinvolgere la popolazione locale nella creazione di una mappa di comunità a supporto della nascita dell’Ecomuseo delle “Terre di mezzo” nei territori del parco delle Valli Intrasche e della media e bassa Ossola per valorizzare le tradizioni e l’identità territoriale e per fornire un supporto alla nuova ripresa di alcune colture storiche come quella della canapa e il vitigno montano Prunent. Comune denominatore di tutti questi esempi di recupero e valorizzazione è sicuramente la presenza del paesaggio agrario come centro delle attività sociali, ma soprattutto economiche, che ne determinano un’ulteriore valenza e motivazione di tutela. La gestione di un paesaggio agrario in continua mutazione, dovendo comprendere le istanze economiche legate all’innovazione e allo sviluppo e al contempo quelle di conservazione e tutela, si dimostra essere di notevole difficoltà.
Elementi “invarianti” di un paesaggio storico in trasformazione La realtà del paesaggio risicolo della pianura Padana (aree del vercellese, basso novarese e Lomellina) è proprio un caso in cui il cambiamento in atto, l’ampia estensione territoriale e il continuo aumento di ettari dedicati alla coltivazione del riso, rendono assai complicata la formulazione di linee guida e indirizzi di tutela e valorizzazione. Tale incremento è avvenuto soprattutto a partire dalla costruzione dell’imponente opera di ingegneria idraulica del canale Cavour nel XIX secolo di cui si affrontano qui di seguito le trasformazioni indotte sul paesaggio. Tale paesaggio può infatti definirsi un “paesaggio storico” poiché già secoli prima che il Canale fosse realizzato il vercellese era quasi completamente irriguo e nel vigevanasco l’agricoltura era notevolmente progredita grazie all’opera del Naviglio Sforzesco, completata da Ludovico il Moro nel XV secolo. Inoltre da uno studio condotto sulle mappe catastali7 dell’area tra il Sesia ed il Ticino, emerge che i campi coltivati a risiera8 erano già presenti in questo territorio, seppur con un’estensione minore rispetto a quella attuale. Tutti i cambiamenti avvenuti negli anni hanno generato l’attuale paesaggio agrario dove sono ancora in parte riscontrabili gli elementi che lo hanno caratterizzato durante i secoli: le dimensioni e la regolarità dei campi, l’accostamento di diverse colture, i centri urbani connessi da una fitta rete stradale. Per determinare quali elementi sia opportuno tutelare in questo paesaggio agrario, è necessario capire quali siano gli elementi “invarianti” che lo caratterizzano e che ricorrono nella visione del paesaggio risicolo. La piantagione del riso è una coltura che negli anni ha ispirato poeti, scrittori, pittori, fotografi e registi ed è proprio attraverso lo studio di parte di questo materiale che si è cercato di condurre tale operazione. A partire dalla pittura del XIX secolo sono numerose le tele che hanno per Ricerca nel Verbano Cusio Ossola (ARS.UNI.VCO) e dall’Ente Parco Val Grande ai fini dell’attuazione della Carta Europea del turismo sostenibile. 7 I catasti a cui qui si fa riferimento sono il teresiano (1760 ca.), quello francese (1810 ca.) e il Rabbini (1865 ca.). 8 Termine ricorrente nei Sommarioni per la descrizione dei campi coltivati a riso. 151
soggetto le questioni irrigatorie, la quotidianità dei contadini e la situazione politica9. Le considerazioni fin ora esplicate sottolineano l’impossibilità di studiare il paesaggio risicolo escludendo la figura umana e sono infatti avvalorate dalle opere pittoriche, ove è costante la presenza antropica. Tali considerazioni sono osservabili in Per ottanta centesimi (1895) di Angelo Morbelli o in Temporale in risaia (1896) di Pompeo Mariani [Fig. 2] o ancora in Rapsodia della risaia di Enzo Gazzone in cui, su quaranta opere raffiguranti la ciclicità del lavoro in risaia, solo in due la figura umana risulta essere assente. Anche la fotografia ritrae questo paesaggio, seppur con una maggiore attenzione alla composizione scenica, alle inquadrature rigorose10 e, alle atmosfere generate dall’acqua dei campi. La stessa visione del paesaggio che è già emersa dall’analisi dell’iconografia pittorica, si riscontra infatti nelle fotografie di Achille Cagna, in Contadini al lavoro di Guglielmo Chiolini o in Il lavoro delle risaie (1911) di Andrea Tarchetti, ove centrale risulta essere il lavoro dei contadini e delle mondine. Gli elementi ricorrenti desunti dal materiale iconografico e caratterizzanti il paesaggio risultano pertanto essere: le distese d’acqua nel periodo della semina e della monda; i canali o le bealere per la distribuzione dell’acqua e le corde di suddivisione dei campi, entrambi a scansione geometrica del paesaggio; infine i filari di pioppi unico elemento verticale riscontrabile insieme alla presenza antropica.
Percezioni di un territorio da conservare Il paesaggio risicolo è, come afferma Beguin François, «un patrimonio di immagini condivise che può creare un’identità omogenea»11, identità necessaria affinché la popolazione si riconosca in un paesaggio, si senta partecipe di un territorio e operi per individuare le caratteristiche fondamentali e le linee guida atte a tutelarlo. Oltre quindi alla ricerca degli elementi caratterizzanti il paesaggio, si è ritenuto opportuno analizzare la variazione della sua percezione: la continua trasformazione per motivi di produzione comporta difatti una costante evoluzione degli elementi di riferimento e di identificazione della popolazione nel paesaggio. È possibile osservare ciò confrontando la percezione del paesaggio risicolo dei monaci, che a partire dal XII secolo, abitarono l’abbazia di Lucedio con quella delle mondine presenti nei campi nel XX secolo. I monaci di Lucedio si inserirono in un territorio paludoso e ricco di boscaglia, mentre le mondine, come raccontato nel lungometraggio Sorriso Amaro di Matteo Bellezzi, sono circondate da una distesa di acqua e di risaie. I ricordi delle ex mondine si scontrano con il paesaggio attuale e le ex lavoratrici delle risaie percepiscono come primo elemento di cambiamento il silenzio, 9 R. Maggioserra, M. Rosci, Capolavori della pittura piemontese dell’Ottocento dalle collezioni private, Elede, Torino 1997, pp. 15-20. 10 S. Zatti (a cura di), Guglielmo Chiolini: (1900-1991). Paesaggi fotografici, Alinari editore, Firenze 2010, p. 12. 11 M. Irena Mantello, Tutelare il paesaggio: percezione e interpretazione del paesaggio testimone dell’identità locale, in formato PDF su www.italianostraedu.org/wp-content/uploads/2014/06/ Mantello_percezione-e-interpretazione-del-paesaggio-.pdf p.1. U.c. 07 gennaio 2017. 152
Fig. 2 P. Mariani, Temporale in risaia (1896)
Fig. 3 E. Pozzati, Squadre di trapiantatrici al lavoro (1954) 153
dovuto alla mancanza dei canti popolari e dei versi degli animali presenti nei campi: si perde la “risaia abitata”. Anche Giuseppe De Santis nel celebre film Riso Amaro sostiene l’importanza di «raccontare il paesaggio però con dentro l’uomo»12 proprio perché le trasformazioni che hanno interessato questo territorio sono date da secoli di lavoro dell’uomo su di esso andando a creare un «paesaggio culturale»13 in cui uomo e ambiente non possono essere scissi. Tale separazione è però avvenuta negli ultimi decenni a causa dell’introduzione della tecnologia che ha portato all’utilizzo di strumentazione meccanica per la produzione e di pesticidi per garantire una produzione di quantità. L’utilizzo di macchinari ha portato all’abbattimento dei caratteristici filari di pioppi lungo le strade, i campi e le bealere e alla scomparsa delle corde tra i campi stessi laddove la proprietà è stata unificata, portando a una perdita della geometrizzazione del territorio e alla scomparsa della figura umana. Ulteriore elemento caratterizzante è la forte presenza dell’acqua tantoché il territorio è definito come “mare a quadretti” o anche «una distesa di specchi d’acqua e filari di pioppi»14, tuttavia oggi vengono portati avanti studi per individuare una qualità di riso che comporti un minore fabbisogno idrico nella prima fase di vita della pianta del riso e questo comporterebbe in termini 12 E. Morezzi, Fenomenologia della memoria cinematografica agraria: il caso di Riso Amaro, in E. Romeo, E. Morezzi, Che almeno ne resti il ricordo: riflessioni sulla conoscenza del patrimonio architettonico e paesaggistico, Aracne, Roma 2012, p. 53. 13 D. Murtas, Il paesaggio come identità: il paesaggio agrario, in M.R. NAPPI (a cura di), Il paesaggio culturale nelle strategie europee, Electa Napoli, Napoli 1998, p. 197. 14 F. Antonicelli, Attraverso l’Italia. Piemonte orientale, Istituto grafico Bertieri, Milano 1959, p. 12.
Fig. 4 A.I., Mondine in una risaia (1910) 154
Fig. 5 I. Cabiati, La trebbiatura del riso (2016)
paesaggistici una nuova trasformazione andando a eliminare uno degli elementi “invarianti” che in questo paesaggio sono divenuti simbolo di riconoscimento identitario. Le innovazioni hanno modificato il disegno del paesaggio, ma hanno reso possibile la permanenza della popolazione sul territorio. Come si può quindi tutelare un paesaggio senza cristallizzarlo? È possibile assimilare un paesaggio ad un museo? Certamente no, essendo tale territorio in costante mutamento. Tuttavia l’analisi dei catasti, del materiale iconografico e la raccolta di ricordi di coloro che hanno abitato la risaia, creano una “memoria collettiva” che, scientificamente selezionata, può divenire «memoria storica»15 del luogo e strumento per la gestione e tutela del paesaggio risicolo essendo esso stesso un portatore del valore della coltura del riso. Alla luce di ciò quali sono dunque gli strumenti di pianificazione e tutela per questo paesaggio?
Strumenti di tutela e normative regionali a confronto È prioritario considerare che, essendo l’attività risicola di natura produttiva, deve essere garantita la sua sostenibilità economica, quindi la capacità di adattarsi alle innovazioni tecnologiche connesse al settore. Nessuno strumento di tutela può essere efficace se il territorio su cui agisce viene cristallizzato: lo spostamento dell’attività e il conseguente spopolamento e abbandono del territorio costituirebbero una possibilità estremamente realistica. Questa esigenza di innovazione deve quindi coniugarsi con la necessità di conservazione dei tratti storici del territorio; una grande sfida per tutti coloro i quali 15 M.F. Roggero, Le difficili strategie per una tutela diffusa del paesaggio culturale, in M.R. NAPPI (a cura di), Il paesaggio culturale nelle strategie europee, Electa Napoli, Napoli 1998, p. 133. 155
si occupano della pianificazione del territorio è quindi riuscire a contemperare gli aspetti economico-produttivi con quelli ambientali-paesaggistici. Il territorio considerato (tra i fiumi Po, Sesia e Ticino e il canale Cavour a nord) è condiviso dalle regioni Piemonte e Lombardia, le quali applicano sul rispettivo territorio una differente e specifica normativa. Entrambi i Piani Paesaggistici Regionali16 sottolineano alterazioni del paesaggio risicolo storico (in seguito all’avvento delle nuove tecnologie) come l’ingrandimento della dimensione delle camere di coltivazione o la scomparsa dei filari alberati. Tali dinamiche comportano «la semplificazione del mosaico paesistico, senza ricostituire nuovi paesaggi agrari qualitativamente altrettanto significativi»17. A contrasto di tale dinamica, i piani territoriali considerano diverse azioni da intraprendere: in primo luogo alcune porzioni delle colture risicole, come anche le zone umide spesso sede di garzaie e le risorgive, sono state identificate come siti della Rete Natura 2000 (ZPS, SIC-ZSC) o Riserve naturali. Il PPR della Lombardia tende al «recupero di assetti colturali tradizionali, […] utilizzo di materiali e manufatti coerenti con quelli tradizionali»18, alla conservazione della tessitura e del sistema irriguo tradizionali; invece il PPR del Piemonte mira alla creazione di filiere integrate (marchio DOP); alla salvaguardia della piana del riso e del sistema di beni ad esso connesso (rete dei canali e cascine storiche) anche attraverso la realizzazione di percorsi cicloturistici e alla valorizzazione dell’Ecomuseo delle terre d’acqua19. Si registra quindi un differente approccio al tema da parte delle due regioni: se in Lombardia la risicoltura viene salvaguardata in modo prioritario, in Piemonte l’attenzione è orientata anche ai pochi frammenti di territorio rimasti incolti in cui è ancora presente una vegetazione di tipo boschiva o agli ambiti golenali. Fin qui si sono considerati la risicoltura e il suo paesaggio come l’oggetto della tutela. Se però provassimo ad osservare il territorio da un’altra prospettiva, ne riusciremmo a scorgere altri elementi ugualmente importanti. In effetti, sebbene le risaie della Lomellina e del basso Novarese, costituiscano i valori storico-culturali fin qui descritti, sono considerabili (soprattutto nella concezione moderna) una monocultura intensiva e pertanto con un basso livello di biodiversità, in un territorio in cui è stata cancellata quasi completamente la vegetazione autoctona. Inoltre l’attuale espansione della risicoltura avviene anche su suoli di tipo sabbioso-ghiaioso, non adatti «per scarsa protezione del suolo nei confronti delle falde e per rapida perdita di fertilità, comportando un bilancio energetico sfavorevole e una riduzione degli aspetti qualitativi di tutti gli elementi dell’agroecosistema e dei paesaggi fluviali»20. Il PPR Piemonte sottolinea chiaramente le problematiche connesse a tale coltura: vengono quindi affrontati temi quali la cancellazione di ampie superfici boschive e di ambiti golenali ovvero la riduzione di naturalità e vengono promossi «orientamenti 16 Il PPR Lombardia, contrariamente a quello piemontese, è una sezione specifica del PTR. 17 Regione Lombardia, PTR, Piano Paesaggistico – Principali fenomeni di degrado, 2010, p. 9. 18 Regione Lombardia, PTR, Piano Paesaggistico – Indirizzi di tutela, 2010, p. 49. 19 Regione Piemonte, PPR. Schede degli ambiti di paesaggio, 2015, pp. 102 – 148. 20 Ivi, p. 105. 156
agronomici per rendere la risicoltura […] meno impattante, recuperando connessioni della rete ecologica, riducendo l’inquinamento del suolo»21. Dai documenti consultati emerge che le problematiche legate alla risicoltura vengono considerate in modo meno incisivo nel PPR lombardo, questo si occupa in maniera più approfondita della tutela della coltura risicola, preservando «la tessitura territoriale fondata su piccoli o grossi centri di impianto rurale, sulle cascine, sui sistemi viari rettilinei, sulla rete dei percorsi minori legati agli appoderamenti»22 lasciando comunque sempre la possibilità di cambiamento. Sarebbe quindi auspicabile un confronto tra le Regioni in una logica di superamento dei limiti amministrativi e di una condivisione delle strategie da attuare. Perché se è vero che è necessario tutelare il paesaggio tradizionale della coltura risicola della Lomellina e del basso Novarese, conservando la trama territoriale storica e gli elementi che la costituiscono (filari alberati, sistema irriguo, sistema degli appoderamenti, rete delle cascine, etc.) senza contrastare gli sviluppi tecnologici necessari alla sopravvivenza del sistema, è altrettanto vero che tale sistema deve risultare non solo economicamente, ma anche ecologicamente e socialmente sostenibile. La domanda posta in precedenza – cosa tutelare? – a questo punto si è complicata ulteriormente poiché diventa evidente che in taluni ambiti la tutela di un bene può comportare la scomparsa di un altro; l’approccio interdisciplinare e sovraterritoriale aiuta quindi a limitare questo rischio in quanto la «tutela del patrimonio naturaleculturale emblematicamente rappresentato dal paesaggio non può fare a meno di politiche attive nel campo dell’agricoltura, degli insediamenti e delle infrastrutture. E inversamente il paesaggio non può non essere pensato come una risorsa fondamentale per la vita e lo sviluppo delle comunità locali»23.
Bibliografia Antonicelli F., attraverso l’Italia. Piemonte orientale, Istituto grafico Bertieri, Milano 1959. Bagliani F., Cassatella C. (a cura di), Paesaggio: cura, gestione, sostenibilità, Celid, Torino 2014. Cassatella C. (a cura di), Landscape to be = Paesaggio al futuro, Marsilio, Venezia 2009. Ferrari C., Pezzi G., Paesaggio. Ambiente, spazio, luogo, memoria, Diabasis, Reggio Emilia 2012.
21 Ivi, p. 138. 22 Regione Lombardia, PTR, Piano Paesaggistico – I paesaggi della Lombardia: ambiti e caratteri tipologici, 2010, p. 109. 23 C. Ferrata, L’esperienza del paesaggio. Vivere, comprendere e trasformare i luoghi, Carrocci, Roma 2013, p. 17. 157
Ferrata C., L’esperienza del paesaggio. Vivere, comprendere e trasformare i luoghi, Carrocci, Roma, 2013. Irena Mantello M., Tutelare il paesaggio: percezione e interpretazione del paesaggio testimone dell’identità locale, consultato in formato PDF www.italianostraedu.org/wpcontent/uploads/2014/06/Mantello_percezione-e-interpretazione-del-paesaggio-.pdf Maggioserra R., Rosci M., Capolavori della pittura piemontese dell’Ottocento dalle collezioni private, Elede, Torino 1997. Marone E. (a cura di), Il paesaggio agrario tra conservazione e trasformazione: valutazioni economico-estimative, giuridiche ed urbanistiche (Catania 10-11 novembre 2006), Firenze University Press, Firenze 2007. Morezzi E., Fenomenologia della memoria cinematografica agraria: il caso di Riso Amaro, in Romeo E., Morezzi E., Che almeno ne resti il ricordo: riflessioni sulla conoscenza del patrimonio architettonico e paesaggistico, Aracne, Roma 2012. Murtas D., Il paesaggio come identità: il paesaggio agrario, in NAPPI Maria Rosaria (a cura di), Il paesaggio culturale nelle strategie europee, Electa Napoli, Napoli 1998. Zatti S. (a cura di), Guglielmo Chiolini: (1900-1991). Paesaggi fotografici, Alinari editore, Firenze 2010. Regione Lombardia, PTR, PPR, 2010. Regione Piemonte, PPR, 2015.
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Le borgate rurali della Riforma fondiaria Il caso dell’agro di Stigliano
Irene Calbi
L’aspetto della Riforma fondiaria che incise maggiormente sul paesaggio stiglianese fu il processo di popolamento e colonizzazione delle campagne che portò alla nascita di nuovi insediamenti rurali, borgate e centri di servizio che ancora oggi raccontano la storia della presenza umana in queste terre. L’attuazione della riforma a Stigliano è profondamente legata a quella del Comprensorio di riforma di Puglia, Lucania e Molise, il più vasto tra quelli interessati dall’applicazione della Legge Stralcio1. Il comprensorio interessava infatti una superficie di 1.501.807 ettari nel territorio di tre regioni, otto province e 129 comuni. Era costituito per più della metà (52,4 per cento) da aree collinari, per il 30,3 per cento da aree pianeggianti e per il 17,3 per cento da aree di montagna. Naturalmente le province in cui la grande proprietà latifondistica era maggiormente presente occupavano una superficie maggiore: «Matera è stata inclusa per il 100%, Foggia per il 63,3%, Taranto per il 46,5%, Bari per il 40,7%, Potenza per il 33,4%, Brindisi per il 24,4%, Lecce per il 20,8% e Campobasso per il 17,3%.» 2. Stigliano fu uno dei comuni della provincia materana ad essere più interessato dalle trasformazioni della riforma. Questo paese dell’alta collina domina su un mare di boschi, seminativi, superfici argillose e forme calanchive. Il suo territorio ha una superficie di circa 20.990 ettari che si caratterizza per importanti variazioni altimetriche: si va dai 1.100 m s.l.m. delle zone montuose, alle alture collinari attraversate dai torrenti Cavone e Sauro fino ai 120 m del fondovalle dell’Agri. La presenza di masserie isolate, ovili e ricoveri sparsi nelle campagne è una testimonianza importante della natura storicamente latifondistica, sia ecclesiastica che laico borghese, di un territorio che negli anni cinquanta rientrava pienamente nella descrizione di “osso” del Mezzogiorno fatta da Manlio Rossi Doria, nella quale ritroviamo le zone di montagna e quelle dominate dal latifondo; il “mezzogiorno 1 Si tratta della Legge 21 ottobre 1950, n. 841 contenente le “Norme per la espropriazione, bonifica, trasformazione ed assegnazione dei terreni ai contadini”. Questi i comprensori di intervento: Delta Padano, Maremma tosco-laziale, Fucino, Campania, Puglia-Lucania-Molise, Sardegna e il piccolo comprensorio di Caulonia. 2 D. Prinzi (a cura di), La Riforma agraria in Puglia, Lucania e Molise nei primi cinque anni, Laterza, Bari 1956, p.12. 159
nudo” plasmato dall’agricoltura estensiva di carattere cerealicolo-pastorale, animato dalle fatiche stagionali di salariati fissi e avventizi, che sotto contratti precari e usuranti lavoravano terre nude e argillose. Dopo un lungo periodo di lotte e occupazioni bracciantili il legislatore decise di affidare l’attuazione della riforma nel comprensorio di cui faceva parte Stigliano a una Sezione speciale nata dal preesistente Ente per lo sviluppo dell’irrigazione e la trasformazione fondiaria in Puglia e Lucania. La sezione speciale per la riforma fondiaria in Puglia, Lucania e Molise si occupò così dell’elaborazione e gestione dei programmi di trasformazione fondiaria nel proprio territorio di riferimento in modo da rendere l’intervento su di esso organizzato e coerente con le condizioni ambientali e sociali dello stesso e da non ridurlo ad una semplice assegnazione delle terre espropriate. In conformità con l’articolo 16 della legge 12 maggio 1950, n.2303 che prevedeva che l’assegnazione dei terreni espropriati privilegiasse « i lavoratori manuali della terra i quali non siano proprietari o enfiteuti di fondi rustici o tali siano in misura insufficiente all’impiego della manodopera della famiglia» la sezione stabilì una propria graduatoria dei beneficiari che vedeva al primo posto contadini salariati e braccianti nullatenenti e all’ultimo proprietari di piccoli appezzamenti insufficienti per il sostentamento famigliare. L’attuazione dei piani di trasformazione che seguì agli espropri e dunque allo scorporo del latifondo prevedeva in primo luogo la ridistribuzione della proprietà fondiaria. Essa, dopo essere stata lottizzata secondo vari criteri quali la disponibilità di terra nel comprensorio, la sua produttività e la pressione degli assegnatari, venne organizzata in poderi con annesse case coloniche e in quote, ovvero integrazioni di terreno per le piccole proprietà dei contadini più poveri. Vennero poi costruite le strutture necessarie al soddisfacimento dei bisogni materiali e immateriali delle nuove comunità e furono effettuati interventi di bonifica con opere di irrigazione e di sistemazione fondiaria: «dissodamento dei terreni, in scassi, dicioccamenti, spietramenti, sistemazioni superficiali, nello scavo di affossature di scolo, nell’impianto di colture erbacee e arboree, ecc.»4. Furono impiantati oliveti, vigneti, mandorli, frutteti e colture ortive per dare impulso ad un maggior sviluppo della policoltura anche se la cerealicoltura, che si contrasse ben poco, continuò a giocare un ruolo fondamentale. Dove prima c’erano incolto e seminativi sorsero così delle borgate rurali. Il paesaggio delle campagne stiglianesi si trasformò. Vennero costruite le abitazioni per le famiglie contadine dalle tipiche architetture riformistiche, scuole, chiese, spacci commerciali, ambulatori e altre infrastrutture necessarie alla vita nei comprensori. Fu un vero e proprio processo di territorializzazione reso possibile dalla realizzazione di un programma che ebbe come attori lo stato italiano e soprattutto i contadini, veri protagonisti di questo processo. Infatti questi, attraverso la rete di relazioni instaurate con l’ambiente naturale e socioeconomico in cui erano stati inseriti, costruirono un nuovo territorio plasmato dalla vita quotidiana della comunità. 3 Legge 12 maggio 1950, n.230. Provvedimenti per la colonizzazione dell’Altopiano della Sila e dei territori contermini. 4 G.E. Marciani, L’esperienza di riforma agraria in Italia, Giuffrè, Roma 1966 (SVIMEZ, Centro per gli studi sullo sviluppo economico, Collana Francesco Giordani), pp. 95-96. 160
Fig. 1 Insediamento a sviluppo lineare a Carpinello. Archivio storico locale L’Urrrlo del colombo, Stigliano.
Fig. 2 Casa colonica al Tippo con complesso forno, pollaio e porcile. Foto di Irene Calbi. 161
Le case coloniche costituiscono tuttora uno dei segni puntuali più evidenti e più importanti del paesaggio riformato. Perché uno spazio possa diventare abitato, perché possa esservi una presenza umana costante c’è bisogno in primis di abitazioni, costruzioni in cui alloggiare e riconoscersi, sentirsi al sicuro, riposarsi, nutrirsi, coltivare relazioni personali e svolgere alcune delle azioni della vita quotidiana. «Nel tenimento di Stigliano, quasi in ogni contrada, vengono edificate centinaia di palazzine: a Gannano 47, a Serra di croce 42, a Caputo 9, a Cogne 5, in località Petto Petrullo 6, a S. Spirito 37, a Santa Maria la Calvera 13, a Carpinello 46, al Cicatello 18, a Valloni 11, al Tippo 6, a Piana dei santi 7, a Mania 12, alla Torre 14. In tutto 273 abitazioni.»5 La tradizione di studi sulle case rurali in Italia6 ha contribuito a sviluppare la consapevolezza di quanto forme e caratteristiche delle abitazioni rurali rispondano caso per caso a un’esigenza fondamentale, ovvero quella di adattare le costruzioni ai caratteri morfologici e climatici dell’ambiente naturale, alle esigenze funzionali delle aziende agricole e ai bisogni della famiglia contadina. Tuttavia è anche possibile individuare alcuni aspetti comuni che caratterizzano soluzioni abitative appartenenti a territori tra loro distanti. Le dimore della riforma fondiaria ne sono un esempio. Esse infatti rispondono ovunque al progetto uniformante del pianificatore, nel quale si celano le necessità proprie degli ordinamenti colturali e produttivi e delle forme di organizzazione sociale verso i quali orientare i coloni. Se da un lato l’azione pianificatrice interviene pertanto generando all’interno del territorio su cui si estende forme insediative e organizzative simili, dall’altro essa non può prescindere dai singoli contesti locali. Limiti e risorse naturali, strutture economico-sociali, ordinamenti produttivi e logiche politiche si specchiano così nell’abitazione, nei suoi ambienti e nei suoi elementi decorativi, che sono in grado di raccontare le idee, i valori, le fatiche e i rapporti vissuti dalle famiglie contadine nelle nostre campagne. Nella scelta del modello insediativo la sezione speciale per la riforma fondiaria in Puglia, Lucania e Molise optò nella maggior parte dei casi per un tipo di insediamento sparso caratterizzato dalla presenza di case coloniche costruite sui poderi assegnati alle singole famiglie. Questo tipo di soluzione insediativa ben si adattava con le modalità di organizzazione delle piccole aziende agricole dei comprensori di riforma. La collocazione delle case sul podere favoriva infatti uno sfruttamento più efficiente del terreno assegnato ed eliminava i rischi derivati da una convivenza forzata. Lo sviluppo lineare dei poderi lungo la strada poderale, invece, oltre a facilitare l’accesso agli stessi e limitare i costi per gli allacciamenti all’acquedotto e all’elettrodotto favoriva la nascita di relazioni tra assegnatari vicini. Erano insediamenti di piccole dimensioni dove la vita ruotava intorno al legame diretto tra assegnatario, abitazione e podere, la cui dimensione media era compresa tra gli 8 e 9 ettari. Le abitazioni avevano pianta regolare e si sviluppavano su un unico piano ad eccezione di quelle assegnate alle famiglie più numerose che raggiungevano anche i due piani. Dalla porta di ingresso si accedeva alla stanza principale con soggiorno e cucina, un bagno e due o tre camere da letto. Le forme semplici delle abitazioni consentivano 5 M. Sansone, G. Sansone, Storia di Stigliano. Il Novecento, Erreci, Anzi 2009, vol. III, p. 274. 6 Il contributo più rappresentativo di questo filone di studi è rappresentato ancora oggi dai volumi della collana Ricerche sulle dimore rurali in Italia promossa dal Consiglio nazionale delle ricerca e curata dal geografo friulano Renato Biasutti. 162
Fig. 3 Casa colonica a due piani alla Calvera. Foto di Irene Calbi.
Fig. 4 Facciata di una casa colonica a Caputo. Foto di Irene Calbi. 163
ampliamenti successivi, come sopraelevazioni o aggiunta di vani, che si rendevano necessari in caso di aumento dei membri della famiglia o di espansione dell’azienda agricola. La frequenza di interventi di questo tipo è testimoniata dai computi metrici e dai numerosi disegni di progetto della Sezione speciale relativi all’aggiunta di stanze o magazzini consultabili presso l’Archivio storico locale di Stigliano “L’Urrrlo del colombo”. Annesso a ciascuna casa c’era il portico per il deposito degli attrezzi e la stalla per le scorte vive come animali di bassa corte, vacche, equini o suini che gli assegnatari ricevevano dall’Ente riforma al momento dell’ingresso nel podere. Infine «ogni unità poderale era dotata di forno, pollaio, porcile, concimaia», in genere riuniti in un unico complesso a forma rettangolare, ubicato «nell’aia colonica a conveniente distanza dal fabbricato principale»7. La scelta dei materiali di costruzione soprattutto in un primo momento era legata alle disponibilità del territorio. Nell’agro stiglianese per le facciate delle abitazioni, sulle quali non mancava mai la scritta “riforma fondiaria” insieme al numero del podere pitturati in stampatello nero, si usarono tufi, blocchetti di cemento e laterizi intonacati con tinte pastello o lasciati a vista quando forma e fattura dei laterizi era particolarmente buona. In un secondo momento non mancò il ricorso ad elementi prefabbricati come pannelli in calcestruzzo e laterocemento che andarono a sostituire i materiali tradizionali divenuti sempre più costosi e rari. Un territorio perché continui ad essere vissuto deve riuscire a soddisfare tutti i bisogni fondamentali dei suoi abitanti. Per questo l’Ente provvide a fornire alle nuove comunità una serie di servizi e strutture di carattere civile, commerciale e religioso necessari per il benessere dei suoi membri e per tenere vive le relazioni all’interno della comunità e tra questa e il territorio circostante. Si costruirono pertanto scuole elementari per la formazione dei figli degli assegnatari, piccole chiese di campagna, spacci commerciali, ambulatori e uffici postali caratterizzati dalla stessa essenzialità architettonica delle abitazioni costruite nelle stesse aree. Andando più nello specifico «vengono costruiti e avviati tre spacci – a Gannano, a S.Maria la Calvera e a Valloni – sette scuole – a Gannano di Sotto, a Gannano borgo, a Serra di Croce, a Carpinello, a S. Maria la Calvera, a Valloni e a Caputo – due ambulatori medici e due chiese – a Gannano e a S. Maria la Calvera –»8 e un’agenzia postale e telegrafica nella borgata di Serra di Croce. Fu stabilito un raggio di influenza per ogni edificio: 5 km per chiesa, ufficio postale e delegazione comunale e 2 km per scuola spaccio e ambulatorio. Ciò comportò l’esclusione di alcune aree, le quali si organizzarono in nuclei di dimensione ridotta, i centri di servizio, che comprendevano alcuni dei servizi con una minore area di influenza come scuole, cappelle e piccoli spacci. Le scuole erano per lo più costituite da una sola stanza dove la pluriclasse seguiva la lezione e la domenica, in assenza di una chiesa, il parroco vi si recava per celebrare messa. Infine il comune si occupò della realizzazione di un’autolinea che percorreva quotidianamente la tratta Stigliano-Carpinello-Serra di Croce-Gannano. Ulteriori tracce della presenza umana in queste terre sono rappresentate dai segni dell’approvvigionamento di risorse idriche, fondamentali in aree caratterizzate 7 D. Prinzi, op. cit., p. 110. 8 M. Sansone, G. Sansone, op. cit. p. 274. 164
Fig. 5 La scuola elementare di Caputo oggi. Foto di Irene Calbi.
Fig. 6 Lo spaccio di Gannano. Foto di Irene Calbi. 165
dall’aridità estiva tipica degli ambienti mediterranei. Nei primi tempi, dove possibile, vennero effettuati degli allacciamenti con l’Acquedotto Pugliese o si realizzarono piccoli acquedotti rurali attraverso opere di captazione e derivazione delle acque con tanto di fontanili ad uso comune. Ogni podere aveva poi il suo pozzo attingente alla falda e una cisterna per la raccolta dell’acqua piovana. Tracce della dotazione di energia elettrica sono le cabine elettriche isolate nel mezzo delle campagne e gli elettrodotti in linea aerea, che con i loro pali di legno o cemento puntellano le strade delle borgate e si innalzano a fianco di ogni abitazione. Anche la viabilità fu totalmente riformata. Si trattò in primo luogo di collegare le nuove borgate con la rete stradale esistente e quindi con Stigliano e i paesi circostanti e con le altre borgate e centri di servizio e in secondo luogo di dotare i poderi e le quote ricadenti nei singoli comprensori di una rete stradale interna. I piani di intervento dell’Ente riforma prevedevano per «le strade allaccianti i complessi di esproprio alla rete stradale esistente, ai borghi e ai centri agrari» 9 un fondo artificiale e una larghezza compresa tra i 3 e i 5 m e per le strade poderali un fondo artificiale o naturale con una leggera imbrecciatura e una larghezza di 3 metri. Sebbene alcuni degli obiettivi dell’azione di trasformazione fondiaria perpetrata dall’Ente riforma vennero presto raggiunti, già a partire dagli anni sessanta alcuni assegnatari abbandonarono i loro poderi determinando il parziale fallimento dell’operato della Sezione speciale. All’aumento della produttività agricola e della superficie complessiva destinata alla policoltura, alla conquista della certezza della terra, del lavoro e della casa, alle prime forme di meccanizzazione e alle nuove 9 D. Prinzi, op. cit., p. 113.
Fig. 7 Chiesa di Gannano. Foto di Irene Calbi. Fig. 8 Classe di bambini davanti alla scuola elementare di Carpinello. Archivio storico locale L’Urrrlo del colombo, Stigliano. 166
infrastrutture si accompagnarono aspetti più negativi che comportarono una crisi della relazione tra assegnatario, casa, terra e funzionalità agricola. Non mancarono infatti difficoltà legate alla scarsa produttività di alcuni terreni e alle loro dimensioni ridotte, alla carenza di acqua, alla scarsa preparazione tecnica dei coloni, alla deperibilità dei materiali da costruzione e ai ritardi nei lavori e nelle opere di trasformazione. A questo proposito è interessante vedere come nella relazione del 1961 sullo stato delle attività dell’Ente che operava in Puglia, Lucania e Molise, presentata dal suo presidente Aldo Ramadoro emergesse ancora «la necessità di completare le opere di costruzione per l’insediamento di molti assegnatari poiché da un’indagine svolta podere per podere si è visto che non vi è alcuna zona che possa intendersi completamente ultimata.»10. Non bisogna poi sottovalutare la coincidenza temporale per cui gli obiettivi della riforma vennero raggiunti quando ormai una parte della popolazione delle aree più arretrate del Mezzogiorno stava per essere assorbita dai poli industriali del nord Italia. Quello che oggi rimane è un paesaggio rurale caratteristico i cui elementi più evidenti sono costituiti dalle strutture civili proprie dei comprensori di riforma e soprattutto dalle dimore rurali. Alcune di queste, sebbene abbiano perso la loro funzione residenziale, non hanno perso la loro funzione produttiva e continuano ad essere parte importante delle aziende agricole della zona; la maggior parte versa però in uno stato di abbandono e dimenticanza, ma non ha perso il suo potere simbolico ed evocativo. Abitazioni, scuole, chiese, spacci, strade e poderi che insieme agli 10 R. De Leo, La difficile transizione dalla riforma agraria alle politiche di sviluppo. Osservazioni a partire dal caso Puglia-Lucania-Molise, in G. Bonini (a cura di), Riforma fondiaria e paesaggio. A sessant’anni dalle leggi di Riforma: dibattito politico-sociale e linee di sviluppo, Rubbettino, Soveria Mannelli 2012, p. 127.
Fig. 9 Processione a Valloni. Archivio storico locale L’Urrrlo del colombo, Stigliano. 167
altri elementi puntuali del paesaggio e alle sue forme raccontano una storia fatta di fatiche, lotte, conquiste, energie e relazioni propria delle comunità che hanno abitato i comprensori di riforma. Abitazioni e costruzioni fisiche, che pur non essendo abitazioni in senso stretto sono comunque al servizio dell’abitare umano. Elementi costruiti, edifici che sono in primo luogo “cose” e in termini heideggeriani le cose in quanto tali originano luoghi, che a loro volta aprono e dispongono gli spazi. “Di conseguenza gli spazi ricevono la loro essenza non dallo spazio, ma da luoghi”.11 E i luoghi, in quanto cose rappresentano il concreto dell’abitare, inteso come «il soggiornare dei mortali sulla terra»12, che è prima di tutto un soggiornare presso le cose che danno dimora all’abitare e un averne cura.
Bibliografia Bevilacqua P., La riforma agraria e le trasformazioni del paesaggio, in «Eddyburg», http://archivio.eddyburg.it/article/articleview/2316/0/236/ De Leo R., Riforma agraria e politiche di sviluppo. L’esperienza in Puglia, Lucania e Molise (1951-1976), Antezza, Matera 2008. De Leo R., La difficile transizione dalla riforma agraria alle politiche di sviluppo. Osservazioni a partire dal caso Puglia-Lucania-Molise, in G. Bonini (a cura di), Riforma fondiaria e paesaggio. A sessant’anni dalle leggi di Riforma: dibattito politicosociale e linee di sviluppo, Rubbettino, Soveria Mannelli 2012. Heidegger M., Costruire abitare pensare, in G. Vattimo (a cura di), Martin Heidegger. Saggi e discorsi, Mursia, Milano 2016. Marciani G.E., L’esperienza di riforma agraria in Italia, Giuffrè, Roma 1966 (SVIMEZ, Centro per gli studi sullo sviluppo economico, Collana Francesco Giordani). Prinzi D.(a cura di), La Riforma agraria in Puglia, Lucania e Molise nei primi cinque anni, Laterza, Bari 1956. Rossi Doria M., Riforma agraria e azione meridionalista, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli 2003. Sansone M., Sansone G., Storia di Stigliano. Il Novecento, Erreci, Anzi 2009, vol. III.
11 M. Heidegger, Costruire abitare pensare, in G. Vattimo (a cura di), Martin Heidegger. Saggi e discorsi, Mursia, Milano 2016, p. 103. 12 Ivi, p. 99. 168
Pastore: Femminile plurale Un progetto e un film
Anna Kauber
è un viaggio di più di un anno che ha raccolto in tutt’Italia le testimonianze di circa 100 donne pastore. Ambito tipicamente maschile e patriarcale, la ricerca di genere narra come le pastore abbiano ‘ereditato’ il lavoro dalla famiglia ma, ancora di più, come e perchè tante donne si stiano avvicinando all’allevamento ovi-caprino per scelta. Di età compresa fra i 20 e i 102 anni, le video-interviste descrivono un modo differente di intendere la vita stessa - i suoi ritmi e i suoi valori - così come il territorio e la cura degli animali, restituendo con voce di donna un quadro complesso ma esaustivo vuoi delle nuove esperienze che delle memorie della pastorizia, dei suoi antichi saperi e delle innovazioni in atto. Indaga le trasformazioni di filiera, con attenzione a quella del latte e della carne ma anche della lana, secondo una rinnovata progettualità lavorativa nell’allevamento ovi-caprino. Documenta i progetti di recupero delle diverse razze - molte delle quali in via d’estinzione - così come quelli riferiti all’ambiente, centrate sulla rigenerazione dei pascoli, delle attività silvopastorali e delle antiche vie di transumanza.
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Non si tratta delle consuete interviste a cui siamo abituati, ma incontri di intere giornate, con la totale condivisione dei tempi lunghi della quotidianità, e svolti secondo una modalità di approccio calibrato. Da questo formidabile scambio intellettuale ed emozionale nasce la peculiarità forse più straordinaria del lavoro, ovvero la capacità di trasformare delle ‘semplici’ interviste in profonde relazioni umane, di grande empatia e complicità. La videocamera segue il peculiare lavoro delle pastore filmando: il pascolo giornaliero e stagionale, la nascita degli agnelli, la tosatura e la mungitura, la lavorazione e la stagionatura del formaggio e di tutta la filiera, compresa quella eventuale della lana. Ma anche la quotidianità delle loro vite e l’intimità dei loro spazi, per approfondire insieme la specifica visione di genere che informa ogni motivazione, dai perchè della loro scelta agli obiettivi, dalle soddisfazioni alle difficoltà, le gioie e i problemi del loro mestiere.
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PASTORE: FEMMINILE PLURALE è anche - e non ultimo - una raccolta dei superbi paesaggi italiani. Dalle Alpi all’Aspromonte, passando per le isole, i luoghi della pastorizia attraversati sono i poco conosciuti “territori dell’osso”1: la ricerca ne mette in luce le diverse criticità, fra le quali l’inesorabile spopolamento, l’abbandono, l’impoverimento colturale e della biodiversità animale e vegetale. Allo stesso, tuttavia, il progetto dimostra come esista un piccolo esercito di uomini e donne che scelgono di restare e resistere, di vivere secondo un apparato di valori che stabilisce un diverso paradigma di relazioni, di bisogni, di stili di vita e anche di economie. Il progetto: 1 donna alla guida (di una Panda a metano!) 730 giorni (2 anni) 17 regioni attraversate 17000 chilometri di viaggio 100 donne fra i 20 e i 102 anni Il film è prodotto da: Solares Fondazione delle Arti Anna Kauber Aki Film Montaggio: Esmeralda Calabria 1 Ho volutamente citato l’articolo “Territori dell’osso – Patrimonio territoriale e autonomia locale nelle aree interne d’Italia”, del caro amico prof. Rossano Pazzagli, che recita: ...“Territori dell’osso” non è solo una citazione, ma anche la metafora della struttura portante dell’Italia e la rappresentazione plastica della marginalità che ha colpito le aree interne del Paese nel corso del ‘900.”
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PARTE II PROGETTARE IN CAMPANGNA Approfondimenti regionali
Nuove architetture rurali
Andrea Bocco
Il termine “architettura” è inteso in accezione assai ampia e comprende il territorio e lo sviluppo locale, non solo l’edilizia. Il “nuove” sta a significare gli esiti di un nuovo atteggiamento (una volta in campagna si nasceva; oggi spesso si sceglie di rimanerci o di trasferirvisi) e uno sguardo rivolto al futuro: la selezione degli esempi proposti è orientata alla costruzione di un futuro sostenibile (per quanto si possa ancora utilizzare questa parola). È in questo che consiste la “novità” delle architetture, non necessariamente nel fatto che siano edifici di nuova costruzione. I casi proposti sono il frutto di una selezione molto personale, non esempi di “architettura sostenibile” mainstream, fondamentalmente basata su calcoli fisicotecnici e sulla riduzione del consumo energetico per riscaldamento degli edifici: questa è una maniera di intendere la sostenibilità che, pur essendo corretta, anzi essenziale, è tuttavia riduttiva. Gli esempi scelti testimoniano invece un approccio ecologicamente piú radicale e certamente piú di nicchia, che è la conseguenza dell’acquisizione di un punto di vista e addirittura di scelte di vita in contrasto con il modello dominante. Le considerazioni che propongo derivano da studi sull’architettura vernacolare, sul low-tech, e sullo sviluppo locale; alcune di queste sono sorte analizzando territori montani, anzi specificamente alpini: ma penso che molte possano trovare un confronto con se non un’estensione ad altri territori, come quello appenninico. Del resto, quando quest’anno ho trascorso qualche tempo in Giappone ho trovato forti similitudini pur a grande distanza, per esempio nello spopolamento di amplissime aree montane e marginali. Per cominciare: questo [fig. 1] non è un rudere, è un contenitore di futuro. Sono interessato a ricercare cose “capaci di futuro” (zukunftfähig), con potenzialità di trasformazione e di accoglimento di nuova vita. Questo fenomeno sta accadendo: ci sono luoghi – ne abbiamo visti anche ieri – che ritornano alla vita, anche se non alla vita tradizionale (e forse nessuno di noi vorrebbe tornarvi, anche fosse possibile). Occorre essere onesti e tenere questo punto bene a mente: ogniqualvolta sento affermare che si dovrebbe imporre una certa soluzione costruttiva tradizionale, rendendo impraticabili trasformazioni compatibili con le aspettative attuali, ribatto che si dovrebbe allora anche vietare di mangiare pomodori o banane; o imporre di indossare zoccoli di legno. Penso che la “nuova” architettura, ovvero il tornare ad 175
abitare l’immenso patrimonio abbandonato della montagna (non solo gli edifici ma anche i terreni, i territori) consista in parte importante nel recupero rispettoso, ma non feticistico, degli edifici vecchi. Purtroppo, molto spesso tocca scegliere se rispettare gli edifici o rispettare le norme, perché le due cose non sono compatibili a causa del modo in cui le norme vengono interpretate dalla maggior parte degli uffici tecnici italiani, che, per paura di assumere delle responsabilità concedendo interpretazioni non letterali, impongono interventi devastanti nei confronti del costruito tradizionale. Le nostre norme, i nostri software, i nostri procedimenti normalizzati di calcolo e certificazione non sono affatto attrezzati per riconoscere prestazioni che il costruito tradizionale erogava (ed eroga tuttora), come per esempio la resistenza sismica o la capacità di accumulo termico. Le norme sono anche un freno all’innovazione in edilizia. Nel tempo gli edifici sono sempre cambiati, fintantoché essi erano vivi, cioè abitati. Pretendere di definire una “tipicità” - parola scivolosissima - di una certa area imponendo certi materiali o certe soluzioni costruttive, oltre a rendere economicamente improbabili gli interventi di recupero (specie quelli realizzati da abitanti del posto per svolgervi attività residenziali e produttive), è essere antistorici. Ad esempio, gli edifici rurali erano in origine per lo piú coperti a paglia, poi il manto è stato sostituito impiegando altri materiali a seconda delle disponibilità e delle norme che via via venivano imposte, come quelle sulla protezione antincendio. È paradossale che l’aspetto “originario” valga soldi (le case recuperate con grande attenzione spesso diventano case di villeggiatura di forestieri, che hanno la cultura per riconoscere la loro bellezza e la disponibilità economica per pagarla), e che le case che abbiano conservato gli aspetti che riconosciamo come “originali” e “autentici” siano probabilmente abbandonate, poiché quelle non abbandonate sono state oggetto di interventi che talvolta fanno storcere il naso agli architetti, ma sono la conseguenza del loro aver ospitato una continuità di vita che ha portato con sé esigenze e aspettative mutevoli. È stata installata un’antenna, è comparso un avvolgibile a una finestra: cose che si possono evitare con un po’ di attenzione e di gusto, ma che sono conseguenza del fatto che l’edificio è vivo, e che il villaggio di cui esso fa parte è vivo. Ci possono essere interventi per nulla mimetici, che non ripropongono l’aspetto tradizionale dell’edificio su cui sono effettuati, ma tentano di estrarre alcuni elementi dalla tradizione ripensandoli, ed esplicitamente rispondono alla maniera di vivere oggi. Gli edifici sono prima di tutto strumenti, come diceva Demangeon: strumenti di lavoro per il contadino e strumenti per l’abitare. Nonostante ciò possa apparire irrispettoso nei loro riguardi, dedicherò un po’ di tempo a riferire alcune considerazioni su valori degli edifici tradizionali (per approfondimenti, vedi Flessibile come di pietra). Quando insegnavo al primo anno del corso di laurea in architettura, ai miei studenti chiedevo di svolgere un’esercitazione di lettura costruttiva di un edificio tradizionale. Sono convinto che ci sia molto di più da imparare dallo studio dell’architettura vernacolare che non da quella dal modernismo in avanti, che per quello che mi riguarda è di una noia mortale. La ricchezza di soluzioni, la fatica che produce intelligenza sono molto piú sviluppate nell’architettura tradizionale. Tenterò di ricordare molto rapidamente alcuni principî che vi si possono ritrovare e che forse potrebbero essere ancora validi per una “nuova” architettura contemporanea che volesse limitare il proprio impatto sull’ambiente: 176
Fig. 1 Edificio d’alpeggio in abbandono, val Troncea, Pragelato (TO).
– il radicamento nel luogo è molto di piú che l’inserimento pittoresco nel sito: è il radicamento dato dal sostentamento della vita che popola quella costruzione, che si fa ambiente costruito. Luigi Sertorio, un fisico innamorato dell’architettura, ha scritto due libri importanti per Bollati. In uno dice: “una creatività radicata genera armonia”. È questa la ragione, credo, per cui a tante persone piacciono gli edifici vernacolari. – il luogo è la matrice materiale dello stare al mondo. In alcuni casi ci siamo presi la briga di ipotizzare da dove provenisse ciascuno dei materiali usati per costruire un certo edificio. Per esempio un edificio in val di Thures [Cesana Torinese (TO)] è fatto con cinque materiali, tutti reperiti nei dintorni. I materiali sono specifici dei luoghi. Soltanto nell’arco alpino piemontese, ci sono sedici famiglie geologiche di pietre, che producono pareti costruite con tecniche diverse, con o senza malta, di piccola o grande pezzatura, che si spaccano piú o meno facilmente (e quindi producono degli elementi pseudoparallelepipedi oppure di forma molto irregolare), che hanno caratteristiche di resistenza meccanica completamente diverse, texture completamente diverse, colori diversi e cosí via. Talvolta i regolamenti edilizi impongono di utilizzare “la pietra”. Ma questo eventuale obbligo può essere giustificabile solo se ristretto al materiale localmente disponibile. – una volta gli edifici si costruivano come se dovessero durare indefinitamente: approccio che è l’opposto dell’obsolescenza programmata moderna e di quei calcoli di matrice economicistica per cui la spesa sostenuta per ottenere una certa prestazione – per esempio la resistenza termica o la resistenza antisismica – viene ammortizzata in un certo tempo, per esempio cinquanta o trent’anni. In termini ecologici, è diversissimo 177
pensare che un edificio abbia una vita utile che termina, dopodiché va sostituito o pesantemente modificato, oppure che sia fatto per durare. Lo stesso concetto di durabilità è solo apparentemente oggettivo, perché si tende impropriamente a farlo coincidere con quello importato dall’industria, che sostanzialmente consiste nello stabilire che un certo oggetto – per esempio questo microfono – dura un certo tempo, e durante questo tempo semplicemente lo si usa. A un certo momento l’oggetto smette di funzionare: è finita la sua vita utile e lo si butta via. La durabilità si calcola statisticamente, misurando quanto tempo regge, funzionando, un campione di microfoni di questo stesso modello. La durabilità tradizionale era completamente diversa: era garantita da atti continui di manutenzione, anche di limitata entità ma costanti. Noi non vogliamo fare fatica: vogliamo comprare roba e non preoccuparcene piú; è solo per conseguenza di questa logica che riteniamo che gli oggetti e gli edifici tradizionali non durino. Ma ci sono edifici in terra cruda o in legno che durano secoli. Tuttavia, perché durino secoli non si può costruirli e poi dimenticarsene. – una cosa fatta a mano, visibilmente riconoscibile come tale, crea una connessione tra chi la usa e chi la fece. C’è bisogno di intelligenza per fare cose con le mani, che durino, che siano ben fatte; c’è bisogno di intelligenza per riconoscere i segni della mano umana che fece, e sentire quel calore – non so esprimermi in maniera piú tecnica – che un prodotto industriale, per necessità, non può dare. – quando ci si accosta al costruito tradizionale, c’è bisogno di una tecnica dolce, che sappia ascoltare, comprendere e rispettare prima di tutto, e poi faccia il minimo necessario. Bisogna trovare un equilibrio tra l’adattare la vita all’ambiente e l’adattare l’ambiente alla vita. La storia dell’uomo potrebbe, in effetti, essere raccontata da questo punto di vista; non possiamo fare a meno di modificare l’ambiente per soddisfare nostri bisogni ma contemporaneamente, soprattutto oggi, dobbiamo saper usare con sobrietà gli strumenti superpotenti di cui disponiamo e tornare capaci di adattarci alle condizioni climatiche, ambientali, eccetera. Girando per aree interne della montagna, ho riscontrato che la distanza dal potere, cioè la distanza dal controllo, talvolta produce innovazione, produce delle soluzioni che non sarebbero approvabili, e che tuttavia sono rispondenti ai bisogni di chi abita e favoriscono il ritorno delle attività. In un luogo del nord del Piemonte, sessant’anni fa un villaggio [fig. 2] era stato sgomberato d’autorità perché ritenuto a rischio di frana. In tutto il tempo intercorso non c’è stato nessun movimento del terreno, tant’è che all’inizio degli anni Duemila alcuni sono tornati a usare le case e vi hanno fatto dei lavori, ovviamente in modo informale; il Comune lo sa e fa finta di nulla. In questo modo il villaggio può essere recuperato e non s’impone il rispetto di norme che impedirebbero tale recupero. Questa è una soluzione molto pragmatica e pensavo anche molto “italiana”, salvo che in Giappone ho trovato una situazione identica. Quando si parla di sviluppo locale, l’obiettivo primo delle politiche dovrebbe essere il non impedire le spontanee iniziative di riqualificazione. Penso inoltre che quando la questione in gioco è la sopravvivenza, i controlli sul rispetto delle regole stabilite in tempo pre-crisi si allentano: non solo per debolezza del potere, ma per cambiamento delle priorità.
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È molto interessante che alcuni luoghi si stiano rivitalizzando grazie a un curioso mix di insider e outsider, cioè di persone locali e di persone che con questi luoghi non hanno nessun legame, nemmeno una lontana ascendenza; anche dal punto di vista dello stile di vita c’è una mescolanza di attività molto tradizionali come l’agricoltura (talvolta un’agricoltura di punta per qualità del prodotto e per procedimenti assolutamente compatibili con i cicli ambientali) e attività molto avanzate tecnologicamente. Ad esempio, a Félines-sur-Rimandoule, un piccolo villaggio del sud della Francia, c’è la massima densità di ingegneri in un Comune europeo (cosa peraltro non molto significativa statisticamente, poiché ha 36 abitanti), specializzati, non a caso, sul recupero energetico degli edifici. Tra gli elementi fondamentali di questo “nuovo” stile di vita, c’è la relazione con il luogo in termini di sostentamento alimentare ed energetico, insomma il ritorno di una tendenza verso l’autosufficienza. Per esempio, bisogna ricordarsi che una sostenibilità locale basata sull’agricoltura in un territorio come quello italiano, e con la popolazione che ha il nostro Paese, non può che avvicinarsi al vegetarianismo, che non vuol dire che debba scomparire l’allevamento, né che debba scomparire del tutto l’alimentazione a base animale; significa però che occorre ridurre drasticamente la nostra impronta ecologica. Un ritorno alla campagna non può avvenire se non si comprende l’eccidio che è stato perpetrato ai danni della civiltà rurale; quanto essa sia stata disprezzata e denigrata, quanto questa discriminazione sia diventata un pregiudizio radicato nelle menti di tutti, compresi gli stessi contadini, che si sono sentiti inferiori. Gli sforzi profusi per restituire dignità alla vita rurale sono benvenuti, e non mancano esempi (sia pur di nicchia) di ritorno a vestire con orgoglio i panni del contadino, ma con consapevolezze contemporanee che portano ad assumere atteggiamenti di dedizione ai luoghi e di cura delle loro risorse, ad apprezzare i tempi lenti della campagna, a ricercare un legame coevolutivo tra uomo (e sue attività economiche) e ambiente,
Fig. 2 Scorcio di un villaggio in corso di autorecupero spontaneo nell’alta Ossola (VB). 179
e a svolgere produzioni molto qualificate anche grazie alla presenza di suoli non contaminati, dovuta all’abbandono. Al Palènt, una borgata di Macra (CN) a 1500 m di quota, un anziano contadino, ritornato al luogo natio dopo una vita di emigrazione, coltiva erbe officinali con metodo biodinamico. Toyota è famoso per la sua fabbrica di automobili, ma il comune ha un’estensione di diverse centinaia di chilometri quadrati per effetto di accorpamenti amministrativi, e nelle aree piú periferiche le comunità locali sono estremamente autonome, e attive nell’attirare popolazione dalla città e creare le condizioni favorevoli perché ritorni a vivere in campagna. Si riabitano case tradizionali e si costruiscono edifici nuovi; questa che mostro [foto 3] è una nuova casa off grid, vale a dire completamente scollegata dalle reti, sia idrica (non c’è fognatura, non c’è acquedotto) sia elettrica. Ci vive una famiglia giovane, con due figli piccoli, ed è felicissima di questa scelta. Nel distretto di Asahi, stanno nascendo piccole attività imprenditoriali in edifici realizzati utilizzando il legno locale, sugi, una specie di cipresso giapponese. I luoghi marginali sono spesso nicchie di diversità comportamentale; nei loro estesi spazi spopolati, le persone trovano opportunità poco perseguibili in contesti piú densi, anche per condurre un modo di vita eccentrico – un esempio è Vincent Hilton, irlandese, che vive a Trontano (VB) in una casa che ha sistemato con le sue mani, a cui il regista Aurelio Buchwalder ha dedicato il documentario Regeneration. Ma ci sono anche molti casi di sperimentazione nei modi di costruire: di seguito menzionerò alcuni esempi di edifici nati dalla possibilità di diversificazione che i contesti marginali possono offrire. Ecorelief [fig. 4] sta nel centro della Svezia [Brålanda, Vänersborg, 2004]; il proprietario riesce a produrre uva nello spazio interposto tra la casa vera e propria e l’ambiente esterno: spazio che consente alla casa di avere ottime prestazioni termiche. La sua peculiarità, derivante dalla concezione di Bengt Warne, è che il nucleo abitabile è contenuto all’interno di una serra, che offre un microclima eccezionale a quelle latitudini e di conseguenza spazio dove è piacevole stare ed è possibile coltivare. La casa è stata autocostruita dalla famiglia che vi abita. Un’altra possibilità di sperimentazione consiste nell’impiego di materiali naturali, che hanno una bassa impronta ecologica rispetto a quella dei materiali pesantemente trasformati come i metalli e i sintetici. Le balle di paglia hanno poi un’impronta bassissima, minore di quella della maggioranza degli altri materiali naturali. Gernot Minke è uno dei piú eminenti esponenti di quella che definisco “architettura vegetariana” e ha realizzato per Createrra [a Hrubý Šur, Slovacchia, 2010] un grande ambiente centrale a cupola, con otto ambienti piú piccoli attorno, coperti a volta, minimizzando l’impiego di legname, normalmente usato per l’orditura del tetto. Sono in legno le otto colonne centrali, ma per il resto la struttura portante è in balle di paglia, che sono state tagliate come conci di un’apparecchiatura stereotomica utilizzando macchinari speciali progettati dallo stesso Minke. Pure Werner Schmidt, architetto che vive nei Grigioni, costruisce con balle di paglia. La Haus Fliri [Graun im Vinschgau, 2008] [fig. 5], all’estremo nord del Sud Tirolo al confine con l’Austria, coi suoi tre piani e mezzo fuori terra è probabilmente l’edificio con balle di paglia portanti piú alto del mondo.
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Fig. 3 Nuova casa off grid nel distretto di Asahi, cittĂ di Toyota (prefettura di Aichi).
Fig. 4 La casa Ecorelief vista da sud-ovest. 181
Fig. 5 Haus Fliri, Graun im Vinschgau (BZ), fronte ovest.
Un altro architetto grigione è Gion Caminada, che insieme all’ingegnere strutturista Jürg Conzett elabora edifici in legno portante adoperando la tecnica tradizionale dello Strickbau, ma rivisitata: in un edificio tradizionale sarebbe impossibile ottenere delle finestre ampie come quelle della scuola di Duvin [1995], dove c’è un’ingegnerizzazione molto intelligente del materiale naturale. Le sue opere, ormai abbastanza famose nella letteratura architettonica, sono pregevoli dal punto di vista formale, ma sono soprattutto interessanti perché finalizzate allo sviluppo locale; alcune, che ha realizzato nel suo paese natale, Vrin, sono servite a ricostituire un’economia basata sui prodotti del territorio (sostanzialmente, la carne e il legno di larice). Bisogna scavare per trovare il piccolo ma solido filone dell’architettura low-tech che cerca di raggiungere prestazioni molto elevate con un approccio energetico passivo e l’impiego di materiali naturali. È stato calcolato che una casa di Werner Schmidt ha il piú basso consumo energetico della Svizzera (2 kWh/m2a); Bjørn Berge, che vive e lavora in un villaggio nel comune di Farsund, nel sud della Norvegia, è stato incaricato di una ricerca nazionale per dimostrare come ottenere le prestazioni della cosiddetta Passivhaus costruendo esclusivamente in legno e senza installare impianti meccanici di ventilazione controllata. Anche la New autonomous house a Southwell nell’est dell’Inghilterra (1993), di Brenda e Robert Vale, ottiene consumi energetici molto bassi senza impiego di impianti: sfrutta intelligentemente la serra e masse passive di accumulo (serbatoi d’acqua), oltre ovviamente ad avere un forte isolamento termico. Il libro che la coppia di progettisti e abitanti di questa casa hanno scritto per motivare dettagliatamente le scelte effettuate e analizzarne il comportamento dimostra tuttavia che l’impatto ambientale dell’abitare è tanto esito dello stile di vita quanto delle prestazioni dell’edificio. 182
La S-House a Böheimkirchen [di Robert Wimmer e Georg Scheicher, 2004] è invece un edificio per uffici in una zona rurale della Bassa Austria. Qui, sono stati combinati materiali naturali e poco trasformati (legno, paglia) con altri a tecnologia avanzata (vetro, un elemento di connessione basato sull’ingegnerizzazione di scarti dell’agricoltura). Il Weald & Downland grid-shell [Buro Happold ed Edward Cullinan, 2002], nel sud dell’Inghilterra, è probabilmente uno degli edifici strutturalmente piú arditi che siano stati costruiti negli ultimi cinquant’anni in Europa. È senza supporti interni; la struttura è una maglia di elementi molto sottili in legno di quercia con connessioni metalliche, che consentono a questa costruzione di assumere un andamento curvilineo irregolare, ma con un controllo molto preciso delle tensioni nodo per nodo. Questa è una costruzione tecnologicamente molto avanzata, ed è significativo che sia stata realizzata all’interno di un museo di edifici tradizionali all’aria aperta, simile allo Skansen di Stoccolma. Tamera, nel sud del Portogallo, è un tipico esempio di colonizzazione: un gruppo di persone è arrivato dall’estero, e vi ha trovato un buon posto dove fondare un ecovillaggio. Intrattene buone relazioni con la comunità locale e i villaggi circostanti; nondimeno uno stile di vita diverso è venuto a insediarsi in un contesto che non lo ha generato, mentre molte delle innovazioni che abbiamo visto precedentemente sono risposte a desideri di soggetti locali (per esempio la torre in balle di paglia a Graun è stata voluta fortemente dal committente, un allevatore che vive lí, che ha fatto ricorso a un architetto che sta giusto dall’altra parte del confine italo-svizzero). La zona di Tamera era ormai pressoché desertificata, ma grazie alla consulenza di Sepp Holzer, sono stati creati è alcuni laghi artificiali [fig. 6], e si è modificato il microclima. L’area ha ripreso una produttività agricola tanto che oggi i prodotti coltivati attorno ai laghi possono sostenere la comunità di circa 200 abitanti, rigorosamente vegani (ciò che rende la cosa piú facile). In questi luoghi marginali si trovano anche nicchie di sperimentazione scientifica: a Tamera si stanno sperimentando modi per aumentare
Fig. 6 Vista aerea di parte dell’insediamento di Tamera e del suo “Lake One”. 183
l’efficacia dei captatori passivi solari. L’ingegner Kleinwächter brevetta le sue invenzioni e poi le pubblica concedendone la libera riproduzione senza scopo di lucro: cosí le protegge da imprese che ottenendone l’esclusiva commerciale ne impedirebbero la diffusione presso le popolazioni rurali dell’India e dell’Africa, cui sono destinate. In alcuni luoghi marginali si sperimenta non solo architettura, ma anche nuove forme di comunità. Non è questa Summer school l’ambito per addentrarci in questi temi, però è chiaro che un edificio a basso impatto ambientale, che utilizzasse materiali naturali, che avesse le ottime prestazioni che dicevamo, ma che fosse abitato da persone che non accettano di mettere in discussione il loro stile di vita sarebbe contraddittorio. Sieben Linden [fig. 7], a Beetzendorf [Sachsen-Anhalt], è un ecovillaggio in un territorio sostanzialmente spopolato: con la riunificazione, alcuni dei pochi abitanti sono emigrati nell’ex Germania ovest e si sono create le condizioni per l’insediamento di una comunità intenzionale molto dinamica, oggi di circa 130 abitanti, che ha comprato decine di ettari di terreno e li impiega per silvicoltura e agricoltura, e che sta costruendo circa un edificio all’anno. Tra le altre cose, sperimentano in modo molto interessante forme di condivisione degli spazi socialmente molto significative. La “villa Strohbunt” di Sieben Linden è poi una specie di sfida, in un periodo di disponibilità di macchinari molto potenti e di energia a bassissimo prezzo: dimostra che è possibile costruire un edificio con prestazioni contemporanee, utilizzando soltanto strumenti manuali. Anche in Italia ci sono interessanti esempi di ecovillaggi e di recupero di insediamenti abbandonati, con gradi diversi di chiusura o apertura nei confronti della società circostante. Uno dei piú convincenti è Torri Superiore, nell’entroterra di Ventimiglia (IM); una comunità buddista originaria della zona di Zurigo si è trasferita a Bordo [Viganella (VB)], e ha addirittura costruito uno stupa tibetano in mezzo alle baite. Ci sono poi luoghi dove persone vivono in permanenza, ma che sono interessanti soprattutto per il loro proporsi verso l’esterno come centri esemplari e di formazione. Il Viel Audon, nell’Ardèche, è un villaggio che era stato abbandonato nell’Ottocento, in un luogo spettacolare in riva al fiume e sotto una falaise. Dagli anni Settanta ne è comiciato il recupero, che avviene un pezzetto alla volta tramite cantieri scuola estivi, ma la ricostruzione degli edifici è secondaria rispetto agli aspetti di formazione professionale e di inserimento sociale dei ragazzi. Anche Ghesc villaggio laboratorio, nell’Ossola, è un villaggio medievale in pietra che si sta recuperando pezzetto per pezzetto grazie a campi scuola. Diverse università svolgono formazione con attività di recupero sul campo; forse per necessità, ma spesso per scelta, anche per contribuire allo sviluppo locale, questi siti sono quasi sempre in campagna. A Tateyama (prefettura di Chiba) un gruppo di studenti della professoressa Okabe ha recuperato un edificio con copertura a paglia partendo dal ripristino della coltivazione della kaya, poiché è ovvio che se non c’è l’erba, non si può fare un tetto d’erba. L’edificio è destinato alla comunità di villaggio e ha funzione sociale. Hooke park, nel Dorset, è il campo di esercitazioni degli studenti della Architectural Association di Londra. La şcoala de la Buneşti è un campo scuola indipendente, alcuni dei cui docenti provengono dall’UAUIM di Bucarest. Il piú famoso di tutti è il Rural Studio, un gruppo di corsi distaccati, facenti parte del curriculum della Auburn University (Alabama), che costruisce edifici di beneficio comunitario nella seconda contea piú povera degli Stati Uniti. 184
Fig. 7 La cascina che costituisce il nucleo originario dell’ecovillaggio di Sieben Linden.
Fig. 8 Welsh Institute of Sustainable Education (WISE), al Centre for Alternative Technology, Machynlleth (Powys). 185
Fig. 9 Centro comunitario a Imabari, isola di Omishima (città di Imabari, prefettura di Ehime).
Altri siti hanno un carattere eminentemente dimostrativo: sono stati pensati per la visita da parte del pubblico, che può quindi apprendere informazioni avanzate e controcorrente sulla costruzione e sulla gestione del territorio: per esempio Terre Vivante, vicino a Grenoble, oppure il Centre for Alternative Technology, nel Galles centrale, dove oltretutto sono stati ottenuti esiti costruttivi di grandissima qualità, non mimetici e che costituiscono elemento di sviluppo locale: mi riferisco in particolare all’edificio del WISE (Welsh Institute of Sustainable Education) [fig. 8]. Iya è la valle piú remota di Shikoku, dove Alex Kerr, un americano che da decenni vive in Giappone, sta recuperando le case tradizionali e le sta proponendo in affitto a turisti; intorno a questo si ricrea una piccola economia. Omishima è una piccola isola del mare interno giapponese, a cui Toyo Ito ha deciso di dedicare le proprie energie. Sono in corso iniziative che riguardano il recupero di edifici e aree produttive locali, l’impianto di vigneti, il recupero dei fantastici agrumeti tradizionali, la realizzazione di un centro comunitario senza nessuna pretesa di lasciare il marchio dell’archistar [fig. 9]. La cultura e l’innesto di elementi estranei possono essere elementi di rigenerazione (anche economica) di aree marginali. Ma delle volte succede l’opposto: concludo con un caso di resistenza. Onta è un villaggio remoto dell’isola di Kyushu, dove le persone vivono in edifici tradizionali, e soprattutto dove i macchinari e i metodi di produzione delle famose ceramiche è rimasto lo stesso dal medioevo. Prima della tragedia di Fukushima gli esterni che visitavano questo luogo mostravano perplessità sulle possibilità che questo stile di vita 186
potesse durare ancora a lungo. Adesso i forestieri dicono: «ma quanto siete avanti!» eppure, ci raccontava il capo villaggio, «noi non abbiamo mai cambiato niente; abbiamo continuato sempre a fare come i nostri genitori ci avevano insegnato. Sono gli altri che hanno cambiato il loro punto di vista».
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La cascina padana
Daniele Lorusso
Nell’ambito della ricerca geografica, l’organizzazione degli spazi agricoli e le peculiari fisionomie esibite dalle dimore rurali in ciascuna porzione dell’ecumene, hanno rappresentato un tema di richiamo per diverse generazioni di studiosi, attraversando trasversalmente le molteplici correnti epistemiche della disciplina fiorite nel corso del Novecento. La struttura e l’aspetto dei paesaggi agricoli si configurano infatti tra le manifestazioni più significative del rapporto tra uomo e ambiente, oggetto centrale di interesse della geografia umana moderna1. Nelle forme e nelle dimensioni degli insediamenti abitativi e dei poderi, nella selezione delle colture e delle tecniche agricole, senza tralasciare le questioni della struttura delle proprietà, del livello di benessere degli attori coinvolti, dei rapporti con le città e con i mercati dei prodotti, si estrinsecano determinanti tanto naturali, quali le condizioni pedologico-climatiche di ciascuna regione agraria, quanto culturali, come i differenti ordinamenti legislativi vigenti, le tradizioni e le preferenze abitative ed alimentari elaborate nel tempo dai diversi gruppi umani, dando vita a contesti paesaggistici se non unici, sicuramente caratteristici e riconoscibili. Paesaggi che, ancora oggi, seppure invasi da una modernità aggressiva e divoratrice di suoli agricoli, costituiscono la trama di fondo dei nostri territori. Un ordito però sempre più sfilacciato e continuamente soggetto al pericolo dell’abbandono e della progressiva scomparsa, in particolare per ciò che concerne le dimore rurali2 che, se non nelle loro forme esteriori, poiché talora “salvate” da un cambio di destinazione d’uso che ne riutilizza alcuni fabbricati, hanno indubbiamente perso quasi del tutto i loro aspetti funzionali di centri regolatori della vita agricola e di nodi degli insediamenti
1 M.G. Grillotti Di Giacomo, Una geografia per l’agricoltura. Metodologie di analisi e prospettive applicative per il mondo agrario e rurale italiano, Reda edizioni per l’Agricoltura, Roma, 1992, p. 29. 2 Stella Agostini, a inizio anni Duemila, affermava che l’abbandono dei fabbricati rurali interessava il quarantadue per cento dei complessi agricoli attivi in Italia. Pur privi di dati più aggiornati in proposito, sospettiamo ragionevolmente che la situazione non sia migliorata in questo lasso di tempo. S. Agostini, Classificazione delle cascine del Parco Agricolo Sud Milano, Franco Angeli, Milano, 2000, p. 15. 189
umani negli spazi dell’agricoltura3. Strutture che, pur continuando a esistere nelle loro forme materiali, non producono più paesaggio, rimanendo quali elementi passivi di evoluzioni territoriali decise altrove. È questo il caso di molte cascine padane, costrette ad una difficile sopravvivenza o a ripensare le proprie funzioni, spesso in ambiti non più legati all’agricoltura, perdendo così un carattere essenziale della propria identità e riconoscibilità. Una trasformazione che trasfigura sostanzialmente i tratti del paesaggio dell’intera pianura Padana, nella quale la cascina ha rappresentato a lungo un elemento centrale e vitale dell’evoluzione agricola, economica e insediativa, al punto da essere individuata da Eugenio Turri quale iconema della stessa4. La cascina padana era infatti ben di più di una semplice dimora rurale o di un’azienda agricola, ma si configurava piuttosto come il piccolo microcosmo di comunità, talvolta anche molto numerose, che nello spazio collettivo della corte realizzavano per intero la loro esistenza5. La cascina padana racchiude al suo interno un patrimonio storico, culturale e architettonico di cospicuo valore, che rievoca le storie degli uomini che le hanno costruite e abitate, ma anche del territorio e di alcuni prodotti di eccellenza della gastronomia locale. Una eredità che merita di essere quantomeno conservata e raccontata.
La “cascina padana” La “cascina padana”, nel suo significato comunemente inteso, indica una casa rurale di ampie dimensioni a pianta quadrangolare, al centro della quale si trova solitamente una corte dove è ospitata l’aia, più o meno grande in funzione dell’attività prevalente all’interno dell’azienda agricola. Tuttavia, tale definizione risulta piuttosto vaga e non mette al riparo da eventuali confusioni con altre dimore dalla struttura a corte diffuse nelle campagne italiane. Come riconoscere perciò una “semplice” casa a corte da una “cascina padana” vera e propria? Un indizio in proposito può essere ricavato dall’etimologia della parola “cascina”, che pare trovare origine nei termini latini capsus, luogo chiuso, e caseus, formaggio, o dal tardo latino capsia, recinto per gli animali, dai quali si sarebbero successivamente formate le parole capsina-cassina-cascina6. Anche il Vocabolario degli Accademici della Crusca, pubblicato a Venezia nel 1741 – in un periodo che come si vedrà sarà di fioritura per questa forma di azienda agraria – suggerisce infatti un legame con l’allevamento, definendo la cascina come un luogo dove «si tengono e dove pasturano 3 V. Bini, Le cascine nell’area urbana milanese, in D. Gavinelli, M. Morazzoni (a cura di), La Lombardia occidentale, laboratorio di scomposizione e ricomposizione territoriale. Da ambiente naturale a spazio megapolitano, Mimesis, Milano-Udine, 2012, pp. 167-178. 4 E. Turri, Il paesaggio come teatro. Dal territorio vissuto al territorio rappresentato, Marsilio, Venezia, 2003. 5 G. Botta, Cascine attorno a Milano. Funzione, identità, tradizione, storia del territorio, in C. Pirovano (a cura di), Cascine attorno a Milano. Analisi di un territorio in trasformazione: dismissioni, resistenze, progettualità, CUEM, Milano, 2008, pp. 13-21. 6 F. Sangiorgi, Cascine lombarde: stato attuale del recupero e del riuso, in S. Agostini, O. Failla, P. Godano, Recupero e valorizzazione del patrimonio edilizio. Le cascine lombarde, Franco Angeli, Milano, 1998, pp. 13-25. 190
Fig. 1 Biblioteca comunale nella Cascina Grande Chiesa Rossa (Milano). Gli edifici dell’antica cascina sono stati in parte demoliti per realizzare un parco urbano. La stalla è stata riconvertita in una biblioteca. Foto di Daniele Lorusso.
le vacche, ove si fa il burro e il cacio»7. Nei dialetti dell’Italia settentrionale, tuttavia, la parola cassina indicava comunemente solo il fienile8. Nangeroni e Saibene sostengono che da questo significato iniziale, nel corso del tempo, con il termine cascina si è cominciato a distinguere il complesso della casa rurale a corte, quando questa era isolata nelle campagne, considerando tali anche quelle che si occupavano prevalentemente di produzioni cerealicole e non solo quelle zootecniche, mentre il termine “corte” è stato riservato per le abitazioni dotate della medesima struttura, ma agglomerate in villaggi o piccoli paesi9. Le cascine erano invece isolate nel piano campagna poiché rappresentavano grandi aziende agricole unitarie – con poderi di circa 100 ettari – nelle quali abitavano e lavoravano in condizioni di salariati o di avventizi oltre un centinaio di persone. Inoltre, le cascine esibivano una notevole specializzazione colturale, riconducibile a fini prettamente commerciali e resasi possibile solo in seguito a grandi riaccorpamenti fondiari. Perciò, la loro strutturazione è relativamente recente e databile tra il XVII e il XVIII secolo, sebbene alcune dimore, in particolare nelle campagne a sud di Milano e nel Pavese, si innestino su fabbricati di origine più remota nei quali si riconoscono ancora 7 F. Conti, Origine ed evoluzione del tipo della cascina lombarda, in AA. VV., Le antiche corti lombarde, Vigevano, Diakrona, 1994, p. 17. 8 A. Lorenzi, Studi sui tipi antropogeografici della pianura padana, estratto dalla Rivista Geografica Italiana, anno XXI, Ricci, Firenze, 1914, p. 92; D. Gribaudi, Lo studio geografico dell’abitato rurale, Università degli studi di Torino, Facoltà di magistero, a. a. 1947-48, p. 137; C. Saibene, La casa rurale nella pianura e nella collina lombarda, Olschki, Firenze, 1955, p. 36. 9 G. Nangeroni, Geografia delle dimore e degli insediamenti rurali, Milano, 1946, p. 76; C. Saibene, op. cit., p. 160. 191
le forme di antichi castelli o di monasteri10. La loro nascita coincide con un intenso processo di trasformazione in senso capitalistico dell’economia agricola della bassa pianura irrigua, che condusse all’abbandono della mezzadria e al trasferimento della proprietà da piccoli proprietari locali a grandi possidenti di origine prevalentemente cittadina. Una trasformazione attuata per mezzo di rilevanti investimenti di capitali e indirizzata alla riorganizzazione della produzione, privilegiando le colture intensive più remunerative, quali erano foraggio, riso e cereali, in sostituzione dei precedenti sistemi policolturali11. Un’evoluzione sicuramente in grado di produrre un netto miglioramento delle rese agricole, ma che, allo stesso tempo, aveva trasformato i vecchi mezzadri, coloni parziari, livellari e piccoli fittavoli in una massa indistinta di salariati e braccianti agricoli, spesso costretta in contratti e condizioni di sfruttamento da parte delle nuove proprietà peggiori delle precedenti12. Gli esiti di tale processo si manifesteranno sia nel paesaggio agrario «con una nuova distribuzione e conformazione dei centri aziendali, con una diversa configurazione dei confini tra le aziende (e persino tra la proprietà), con una nuova distribuzione, addirittura, di tutto l’habitat rurale»13, sia nella storia politica e sociale italiana, perché proprio i contadini impoveriti delle regioni della bassa padana saranno i primi, sul finire dell’Ottocento, ad aderire agli scioperi agrari e ad abbracciare le idee del movimento socialista. La cascina che si realizza nel Settecento si configura quindi come una sorta di specializzazione della dimora rurale tradizionale. I poderi si allargano e crescono anche le necessità di spazi abitativi e di lavoro all’interno della cascina. La costruzione di nuovi fabbricati porta a completare il perimetro della corte che, in precedenza si sviluppava, in molti casi, solo su due o tre lati del quadrangolo. Nelle cascine a indirizzo lattierocaseario ciò permette di allontanare le abitazioni degli uomini dai ricoveri degli animali, divenuti più numerosi che in passato con l’aumentare delle dimensioni dell’azienda; in quelle cerealicole di aumentare gli spazi per la conservazione dei raccolti.
La “Patria artificiale”. La geografia delle cascine padane La diffusione delle cascine, a dispetto del loro nome che le qualifica come “padane”, non è ubiquitaria all’interno della grande pianura dell’Italia settentrionale. Il tipo di dimora descritto finora è infatti tipico solamente della fascia di pianura compresa tra il limite delle risorgive a nord e le sponde del Po a sud, mentre altrove si sono sviluppate altre forme di abitazioni e altri sistemi colturali. Questa porzione di pianura si definisce abitualmente “bassa”, in contrapposizione con l’alta pianura compresa tra le Prealpi e la linea delle risorgive, e ospita al suo interno almeno due caratteristiche ambientali decisamente favorevoli allo sviluppo delle attività agricole: dei suoli molto fertili e una grande abbondanza di acque di superficie. L’origine di questa tipicità è riconducibile alla genesi geologica dell’intera 10 Ivi, p. 85. 11 S. Agostini, op. cit., p. 24. 12 E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Laterza, Roma-Bari, 1961, p. 340. 13 Ivi, p. 334. 192
pianura Padana: mentre nell’alta pianura si sono accumulati i materiali più pesanti e grossolani (sassi e ciottoli) strappati ai versanti della catena alpina dall’erosione di fiumi e torrenti, la bassa pianura, al contrario, si è colmata con detriti sabbioso-limosi e argillosi più minuti e leggeri. I primi sono generalmente più sterili dei secondi e soprattutto sono molto più permeabili e, così, le acque che si infiltrano in profondità nel sottosuolo dell’alta pianura, sono costrette a riaffiorare in superficie, in risorgive e fontanili, incontrando i sottosuoli meno porosi e impermeabili della bassa pianura14. La quantità di acqua che riemerge dai fontanili è eccezionale: negli anni Cinquanta del Novecento era valutata in circa 500 litri al secondo per chilometro15. La fascia delle risorgive è particolarmente ampia – quasi 20 km – nel Piemonte orientale, nel Milanese e nel Pavese, ma si riduce sensibilmente oltrepassando l’Adda, dove le sfumature tra alta e bassa pianura si attenuano a causa di una più uniforme qualità dei suoli tra le due porzioni del territorio16. I suoli divengono perciò progressivamente meno umidi procedendo da ovest verso est, generando ripercussioni evidenti nella selezione delle colture e conseguentemente anche nell’architettura complessiva delle cascine, che adattano le dimensioni di alcuni 14 S. Agostini, op. cit., p. 22. 15 C. Saibene, op. cit., p. 3. Il volume delle acque di risorgiva è oggi minore per l’abbassamento del livello delle acque di falda determinato dai maggiori prelievi. D. Gavinelli, P. Molinari, A. Pagani, Oltre la città: il Parco Agricolo Sud e l’espansione urbana di Milano, in C. Pirovano (a cura di), Cascine attorno a Milano. Analisi di un territorio in trasformazione: dismissioni, resistenze, progettualità, CUEM, Milano, 2008, pp. 23-64. 16 C. Saibene, op. cit., p. 115.
Fig. 2 Perimetro esterno di cascina Campazzo (Milano). Foto di Daniele Lorusso. 193
Fig. 3 Un frammento del paesaggio agricolo che circonda Cascina Campazzo (Milano). Foto di Daniele Lorusso.
fabbricati o ne costruiscono di altri in ragione del prodotto agricolo prevalente nella regione. E così si incontrano le cascine risicole nelle province del Piemonte orientale, nel Pavese e nella parte sud-occidentale della provincia di Milano, regioni dotate di suoli argillosi particolarmente profondi, forti e naturalmente umidi; le cascine essenzialmente zootecniche nel resto del Milanese e nel Lodigiano, dove l’opera di regimazione delle acque di superficie è stata più remota e capillare; e, infine, le cascine cerealicole nelle province di Bergamo, Brescia e Cremona, limite orientale della diffusione di questa tipologia di azienda agricola, poiché già nel Mantovano emergono dimore dalle caratteristiche non più assimilabili a quelle delle cascine padane. Alle determinanti di tipo ambientale, infine, è necessario aggiungere anche una variabilità prodotta dal diverso passato politico e amministrativo delle province di questa regione, divise ancora alla fine del Settecento in tre entità statali differenti: il Ducato di Savoia, il Ducato di Milano e la Repubblica di Venezia. Ad esempio, Saibene affermava che alla base del precoce sviluppo capitalistico dell’agricoltura Milanese, Pavese e Lodigiana, avvenuto prima che nel resto della bassa, paiono esserci anche le severe imposizioni tributarie del Ducato lombardo, capaci, a suo parere, di stimolare la classe proprietaria a intraprendere opere di razionalizzazione delle produzioni per incrementare i rendimenti, mentre nei domini di Venezia una fiscalità più “morbida” aveva rallentato tali processi17.
17 Ivi, p. 121. 194
Fig. 4 Gli edifici a scopo abitativo all’interno di Cascina Campazzo (Milano). Foto di Daniele Lorusso.
La cascina del basso Milanese e del Lodigiano Nel Milanese e nel Lodigiano si stendeva la “pianura bianca”, vale a dire la pianura del latte e della produzione casearia18. Tale specializzazione produttiva si giovava senza dubbio della vicinanza del grande mercato di Milano, in grado di assorbire giornalmente grandi quantità di prodotti freschi, ma aveva anche delle ragioni prettamente ambientali riconducibili alla presenza diffusa delle risorgive e all’enorme volume d’acqua che ne riemergeva. Un’abbondanza di acqua che ha cominciato ad essere regimentata in canali artificiali già nel XII secolo per evitare gli impaludamenti ed essere sfruttata a fini agricoli. L’esito di questi lavori è una rete capillare di canali di irrigazione che hanno trasformato quest’area in una delle regioni agricole più prospere d’Europa. Carlo Cattaneo descriveva questa porzione di pianura con la definizione di “patria artificiale” poiché il «suolo per nove decimi era opera e conquista degli uomini che l’avevano costruito»19. Il paesaggio del Milanese era dominato delle marcite, una tecnica colturale che sfrutta le acque che riaffiorano dal sottosuolo per irrigare per scorrimento i terreni. Acque che riemergono a temperature costanti, mai inferiori a 9° C, e che permettono 18 C. Pirovano (a cura di), Cascine attorno a Milano. Analisi di un territorio in trasformazione: dismissioni, resistenze, progettualità, CUEM, Milano, 2008, p. 102. 19 C. Cattaneo, D’alcune istituzioni agrarie dell’Alta Italia applicabili a sollievo dell’Irlanda, lettere del dottor Carlo Cattaneo a Roberto Campbell, 1847. La citazione è tratta da E. Sereni, op. cit., p. 388. 195
di non sospendere il taglio del foraggio durante la stagione invernale, eludendo la formazione del ghiaccio e favorendo lo sciogliersi della neve eventualmente presente al suolo. Le marcite esibivano perciò un’esuberanza produttiva spettacolare per l’epoca pre-industriale: circa 350 quintali di foraggio per ettaro e nove tagli annui, anziché i “normali” 200 quintali e i 6 tagli che si ottenevano altrove20. Nelle campagne del Lodigiano, invece, si sopperiva all’assenza dei fontanili, con l’irrigazione artificiale ed enormi quantità di stallatico. La cascina di questa porzione di Lombardia mostra perciò una struttura strettamente legata alle attività lattiero-casearie. Grande spazio era attribuito ai locali delle stalle, le “bergamine”, alle quali era destinato un intero lato lungo della corte. Ancora a inizio Novecento, ciascuna cascina ospitava un numero di vacche da latte oscillante tra 50 e 100, o comunque tale da permettere la produzione di almeno una forma di grana al giorno21. Spesso, la posizione delle stalle era decisiva nel determinare l’orientamento dell’intera struttura della cascina poiché era assegnata loro la migliore esposizione solare durante la giornata. Gli altri fabbricati si disponevano poi in conseguenza di questa scelta. La struttura della corte si completava con un edificio padronale, che occupava solitamente per intero uno dei lati corti della corte e sopra al quale spesso campeggiava il granaio; le abitazioni anguste dei contadini – quasi sempre distribuite su due piani con una sola stanza per livello, la cucina in basso e la camera da letto sopra – disposte lungo un altro lato; il fienile (che in realtà il più delle volte sormontava le stalle); i locali per la lavorazione del latte e la conservazione e la salatura dei formaggi. In questo tipo di cascine, inoltre, erano sempre presenti anche le porcilaie, in modo da riutilizzare vantaggiosamente gli scarti di lavorazione del latte (il siero principalmente) per l’alimentazione dei maiali. Vi erano poi quasi ovunque un forno comune, la ghiacciaia, l’arsenale con le botteghe del fabbro e del falegname e talvolta una chiesa e una scuola. In alcune cascine si ritrovano anche degli spazi per il sarto e per il calzolaio. L’abbondanza dei fabbricati faceva sì che in questa porzione di pianura la corte era quasi sempre interamente chiusa sui quattro lati. La cascina si configurava perciò come un organismo autosufficiente e il tipo di insediamento rurale era piuttosto sparso: la cascina si collocava pressoché al centro del podere e ciò comportava una discreta distanza tra una dimora e l’altra.
La cascina risicola I fabbricati di abitazione e i rustici finora citati sono tipici anche nelle altre tipologie di cascine della bassa Padana, a variare sono piuttosto le loro dimensioni e la loro importanza all’interno dell’azienda agraria, determinate dai diversi indirizzi produttivi di ciascuna regione. La cascina della regione risicola – le province di Novara e Vercelli, la Lomellina e il Pavese – è tra le più grandi perché necessitava di una grande aia lastricata per favorire l’essiccamento del raccolto (tanto che in molte 20 L. Sarzi Amadè, Milano fuori di mano, Mursia, Milano, 1987, p. 254. 21 A. Lorenzi, op. cit., p. 68. Il grana lodigiano, progenitore dell’attuale Grana Padano DOP, era infatti il prodotto tipico di questa fascia di pianura. 196
cascine si osserva la presenza di una seconda aia esterna), e di locali per ospitare la numerosa manodopera straordinaria (principalmente donne, le famose “mondine”) per eseguire alcune lavorazioni stagionali. Di conseguenza, si riducevano le dimensioni dei fabbricati destinati alle stalle delle vacche da latte (talora persino assenti), ma si ampliavano quelle per gli animali da lavoro. Persisteva il fienile e ottenevano molto più spazio gli edifici per i magazzini (utilizzati temporaneamente anche come dormitori) e i granai. Variava anche l’orientamento della cascina, non più pensata in funzione delle stalle, ma dell’aia, esposta sempre a mezzogiorno e raramente cintata per evitare le ombre proiettate dagli edifici della corte stessa22. Le grandi dimensioni dei poderi, spesso prossime ai 200 ettari, determinavano una grande dispersione delle dimore nel paesaggio rurale, bilanciata però dalla presenza di alcuni borghi nei quali si raccoglievano le abitazioni dei numerosi braccianti avventizi.
Le cascine cerealicole tra l’Adda e l’Oglio La bassa pianura che si apre a oriente dell’Adda era invece l’area di elezione delle cascine cerealicole. La qualità dei suoli, in grado di trattenere molta umidità, ha sopperito parzialmente al ritardo delle opere necessarie all’irrigazione artificiale, permettendo ugualmente ottimi rendimenti agricoli per mais e frumento. Nella regione vigeva un sistema colturale a rotazione nel quale si alternavano al frumento e al mais anche alcuni cereali minori, il lino e la canapa. In alcune cascine si trovavano anche alcune risaie a vicenda, mentre i filari di gelsi e pioppi – ai quali si appoggiavano le viti nel classico ordinamento colturale della piantata padana – contornavano sempre i campi lungo i canali di irrigazione. 22 C. Saibene, op. cit., p. 32.
Fig. 5 L’aia. Cascina Campazzo (Milano). Foto di Daniele Lorusso. 197
L’organizzazione agricola a base cerealicola dava adito a cascine di ampie dimensioni, dominate da una vasta aia centrale, vero cuore dell’azienda, verso la quale convergevano tutte le attività e i prodotti agricoli. L’aia rappresentava probabilmente l’edificio più importante di questa tipologia di cascina, raggiungendo dimensioni molto superiori rispetto agli altri tipi regionali, fino a somigliare quasi a una grande piazza rurale23. L’aia determina anche qui l’orientamento di tutti gli altri fabbricati: le cascine presentano generalmente il lato lungo del quadrilatero allungato da est a ovest in modo che l’aia sia perfettamente esposta a mezzogiorno. Quando possibile, si cerca anche di isolarla rispetto agli edifici che la contornano, con questi ultimi mai elevati per limitare l’ombreggiatura. Per questo motivo spesso si ripetono delle corti a struttura semi-aperta, in cui un lato è cintato da una semplice siepe. Anche le abitazioni sono esposte a mezzogiorno e quasi sempre presentano dei porticati e dei loggiati per aumentare gli spazi deputati all’essiccamento e alla raccolta dei prodotti. Aumentano contestualmente anche le dimensioni dei granai e dei magazzini, a discapito prevalentemente delle stalle che non giungono quasi mai a occupare per intero un’ala della cascina. Tuttavia, la fisionomia tradizionale del paesaggio agricolo di questa porzione di pianura si è modificata radicalmente in seguito alla propagazione dei canali irrigatori nel XIX secolo. Con l’irrigazione artificiale, infatti, ai cereali cominceranno ad essere preferite le colture foraggere e le attività zootecniche: nelle cascine compaiono così le grandi stalle per l’allevamento bovino che caratterizzano tuttora l’agricoltura della regione. Le grandi dimensioni delle cascine conducono anche in quest’area a un alto grado di dispersione degli insediamenti nelle campagne, replicando il fenomeno delle borgate di corti raggruppate della bassa pianura risicola, in cui si raccoglievano le famiglie di giornalieri che prestavano la loro opera dove occorreva.
Le cascine padane oggi La cascina padana originale, nelle sue diverse versioni, ha conosciuto un notevole declino con la progressiva meccanizzazione e industrializzazione dell’agricoltura. Le cascine non erano solo delle dimore rurali, ma delle vere e proprie aziende agricole che offrivano lavoro a una grande quantità di manodopera, braccia delle quali non si è più avuta necessità con la diffusione dei mezzi agricoli meccanici. Molti spazi della cascina sono quindi divenuti inadeguati o inutili, in primo luogo le abitazioni. Attualmente, anche nelle cascine che proseguono l’attività agricola, sono poche le famiglie che vi risiedono, spesso solo quella del conduttore, alla quale si affiancano piccoli nuclei di dipendenti. Le antiche abitazioni destinate ai contadini giacciono perciò frequentemente in condizioni di abbandono o vengono sottoutilizzate come depositi e luoghi di servizio24. Anche i vecchi granai, i magazzini e la stessa aia risultano ormai inadatti, sostituiti da moderni silos e da macchinari per la trebbiatura e l’essiccazione e le cascine risultano ormai del tutto trasformate in moderne aziende agricole meccanizzate. 23 Ivi, p. 100; A. Lorenzi, op. cit., p. 83. 24 C. Pirovano, op. cit., p. 91. 198
Fig. 6 Il fienile e la stalla. Cascina Campazzo (Milano). Foto di Daniele Lorusso.
Nell’area del Milanese e del Lodigiano, dove prevaleva la cascina a indirizzo zootecnico, l’intero sistema delle cascine ha cominciato a vacillare negli anni Cinquanta del Novecento, quando molti produttori hanno iniziato a dismettere la produzione casearia in proprio, preferendo conferire il latte raccolto alle Centrali del Latte. I bassi prezzi del latte hanno poi portato rapidamente all’abbandono pressoché generalizzato dell’allevamento bovino e con esso anche del sistema delle marcite, sostituito con le colture del mais e del riso. E così, soprattutto nella porzione Milanese della bassa Padana, molte cascine si ritrovano oggi in stato di completo abbandono e sopravvivono solo come ruderi. Le più vicine alle città sono state spesso inglobate dalla crescita urbana, talvolta ristrutturate per divenire nuove residenze in stile neorurale, altre volte semplicemente abbattute e obliterate dal paesaggio25. Altre hanno trovato una nuova vita trasformandosi in agriturismi e strutture ricettive che, però, del passato, hanno salvaguardato quasi solamente la fisionomia architettonica. Per quelle di proprietà pubblica, e sono numerose, si privilegiano le riconversioni a fini sociali: è il caso ad esempio della cascina Chiesa Rossa a Milano, diventata sede della biblioteca di quartiere. In altri casi, i vasti spazi delle cascine sono stati assegnati al variegato mondo dell’associazionismo cittadino. Alcune cascine superstiti nel tessuto urbano milanese cercano di resistere e di proseguire le attività agricole, tentando di instaurare dei rapporti commerciali e culturali più stretti con gli abitanti della città. Molti produttori partecipano ai mercati 25 V. Bini, op. cit., p. 172. 199
urbani e in alcune cascine si effettua la distribuzione giornaliera del latte fresco e la vendita diretta di prodotti agricoli. La diffusione in alcuni ambiti cittadini dei Gruppi di Acquisto Solidale e di una sensibilità ecologica più radicata sembrano favorire, al momento, questi tentativi di riavvicinare le cascine alle città, rinsaldando, al contempo, le loro basi economiche. Esse, peraltro, si offrono talvolta anche come spazi di socialità e convivialità, nei quali riproporre e rivivere alcune feste e riti tradizionali del mondo contadino – i falò di Sant’Antonio, le feste del raccolto, la fiera di San Martino – nel tentativo di riannodare i fili di un rapporto pressoché perduto tra gli abitanti delle città e un mondo rurale che li circonda ancora da molto vicino e che è stato parte fondante dello sviluppo stesso di Milano e di numerose altre realtà urbane della Bassa pianura26. In conclusione, le cascine padane del passato probabilmente non esistono più, perché non sono più presenti gli elementi strutturali nell’economia e nella società che hanno portato alla loro realizzazione, ed è assente, soprattutto, la vita comunitaria che vi si conduceva al loro interno. Come si è visto, però, non sono del tutto scomparse, poiché molte di esse sopravvivono e si riproducono in nuove forme, in alcuni casi mantenendo il legame con le attività agricole, in altri fungendo da spazi utili per le attività di volontariato o per ospitare servizi sociali e culturali. Le cascine sono testimoni di una parte importante della storia della pianura padana, una storia agricola ancora piuttosto recente e forse dimenticata con troppa fretta, travolta dallo sviluppo industriale e dalle trasformazioni dell’economia e dell’urbanizzazione. La loro presenza, talvolta solo in forma di rudere, costella però ancora gran parte del paesaggio, portando molti a interrogarsi sul loro destino.
Bibliografia Barbieri G., Gambi L. (a cura di), La casa rurale in Italia, Olschki, Firenze, 1970. Botta G., Il paesaggio della Bassa lombarda: intellettuali italiani e viaggiatori stranieri nel Settecento e Ottocento, in ID. (a cura di), Cultura del viaggio. Ricostruzione storico-geografica del territorio, Unicopli, Milano, 1989, pp. 301 – 316. Dematteis G., Alcune relazioni tra l’ambito territoriale dei rapporti sociali e i caratteri della casa rurale, Atti del XIX Congresso Geografico Italiano, vol. 3, Como, 1964, pp. 239-252. Gambi L., Per una storia dell’abitazione rurale in Italia, Rivista Storica Italiana, LXXV, 1964, pp. 427 – 454. Scaramellini G., Paesaggi di carta, paesaggi di parole. Luoghi e ambienti geografici nei resoconti di viaggio (secoli XVIII-XIX), G. Giappichelli Editore, Torino, 2008.
26 G. Botta, op. cit. 200
La casa rurale della pianura emiliana
Gabriella Bonini
La dimora contadina rappresenta, com’è noto, una delle componenti più significative del paesaggio agrario, e ciò in modo particolare quando essa sorge isolata o a piccoli gruppi, e costituisce un centro di attrazione immediato per i campi e le strade poderali. Ma la casa rurale non ha solo interesse come elemento formale del paesaggio, bensì un valore come espressione di soluzioni ecologiche, di situazioni economiche, di tradizioni popolari, di rapporti di lavoro1 La dimora agricola è quindi il fulcro sociale dell’azienda, la base materiale della sua forza di lavoro, e visualmente il suo più chiaro elemento di individuazione, la sintesi di quanto vi si compie. Più categoricamente si può dire che l’azienda vi si riflette: e con la sua organizzazione economica e con i suoi rapporti di produzione e di gestione. Di entrambe le cose – organizzazione e rapporti – la casa dei contadini è in qualche modo una traduzione in termini insediativi. E perciò ogni modifica ed evoluzione dei rapporti gestionali e della organizzazione agronomica (che naturalmente interferiscono fra loro) ha come risultato anche una mutazione delle forme funzionali delle abitazioni contadine2.
Essere a casa, tornare a casa, sentirsi a casa, chiudersi in casa, fare come a casa propria sono espressioni che indicano quanto la casa rappresenti per ognuno di noi una grande condizione di benessere con se stessi e con l’esterno. La casa, nella sua forma e nei suoi elementi caratteristici, si lega strettamente al tipo di famiglia che la abita, al ruolo sociale che essa riveste e al tempo. Abitare vuol dire etimologicamente “essere riparati”, ma anche vivere ed esistere, rappresentare cioè un modo di essere e di intendere il mondo. Il modello familiare prevalente, almeno fin dopo il secondo dopoguerra, è stato quello della famiglia patriarcale, composta dai nonni, dai vari figli e dai nipoti. Era una famiglia, dove l’uomo più anziano svolgeva un ruolo di assoluta preminenza: a lui 1 G. Barbieri, L. Gambi, La casa rurale in Italia, Olschki, 1953. 2 L. Gambi, La cognizione del paesaggio. Scritti di Lucio gambi sull’Emilia Romagna e dintorni, Istituto per i beni artistici, culturali e naturali, Regione Emilia-Romagna, Bononia University Press, 2008. 201
spettava il governo della famiglia e godeva di un’autorevolezza e di un’autorità indiscussa da parte di tutti gli altri componenti. Era la famiglia patriarcale, legata soprattutto al mondo contadino e all’economia agricola, che dettava i valori della comunità: lo spirito religioso, l’attaccamento al lavoro, il legame con la comunità locale. Se il significato di “casa” è condiviso e non genera equivoci, e quando si pensa a “casa” non si pensa solo ad un edificio, ma anche a un contesto vivente a cui sentiamo di appartenere, un porto a cui siamo ancorati da una questione identitaria (si può cambiare casa, ma “casa” non cambia) non è così per la definizione di “rurale” poiché spesso questo aggettivo viene confuso con “agrario”, “campestre”, “campagnolo” o “agreste”. “Rurale” significa ciò che è situato in un ambito dove l’attività agricola si svolge in modo prevalente, anche se non esclusivo. “Agrario” invece risulta un termine più specifico e tecnico e si riferisce unicamente all’esercizio dell’attività agricola.
Un po’ di storia è la colonizzazione romana della Pianura Padana che dà avvio all’attività agricola e, quindi, alla prima strutturazione dell’abitazione rurale. Sono i romani che imprimono al territorio un reticolo basato su due linee guida, il decumanus ed il cardo, la centuriazione, grazie alla quale si definiscono confini e viabilità pubblica. E risale al II secolo la prima distribuzione di terre in precedenza spopolate, con confische, bonifiche e redistribuzioni ai coloni provenienti da Roma e dall’Italia centrale che fanno fiorire l’agricoltura con benefiche ricadute anche sulle popolazioni locali che vivevano tra paludi e boschi. Iniziano così ad affermarsi i primi insediamenti rurali composti da fabbricati d’abitazione e lavoro, il deposito, la residenza padronale e gli edifici disposti attorno a una corte chiusa porticata; è la villa rustica che sarà più volte riproposta e ripresa in futuro. Alla caduta dell’Impero Romano, dai primi anni del V secolo fino al X, seguono le devastazioni e i saccheggi delle invasioni barbariche e la nostra Pianura, al pari dell’Europa intera, attraversa una fase di decadenza generale che interessa anche il mondo dell’agricoltura: cala il numero degli abitanti, aumentano i terreni incolti, si diffonde dall’VIII secolo il modello curtense d’organizzazione della proprietà e del lavoro agricolo in cui la componente rurale viene organizzata come un insieme di più agglomerati a cui si alternano insediamenti con abitazioni isolate o a piccoli gruppi, residenze di medio/piccoli proprietari o di aziende agrarie, a partire dalla villa rustica, attraverso una duplice tipologia: con la terra del padrone coltivata dai servi, o mediante “mansi”, lotti di terreno dati ai servi o a coloro che rinunciavano alla proprietà in cambio della protezione del padrone. I fabbricati restano piuttosto precari, costruiti con materiali deperibili come legno, fango, vimini, canne e mattoni essiccati al sole. La ripresa agricola, con le grandi opere di bonifica, irrigazione, canalizzazione, disboscamento e dissodamento si ha tra l’XI e il XIV secolo con investimenti importanti, affrontabili solo dai signori feudali, dai comuni e dai grandi complessi monastici. A partire, quindi, dal XV secolo le campagne reggiane diventano più sicure ed inizia a svilupparsi un nuovo tipo di contratto, tra proprietari terrieri e conduttori dei fondi, che modificherà radicalmente le abitudini dei contadini emiliani e la 202
Fig. 1 Insediamento rurale a elementi giustapposti, Loc. Barcaccia (comune di San Polo). Foto di Fabrizio Frignani.
Fig. 2 Insediamento rurale a corpi giustapposti, Quattro Castella. Foto di Fabrizio Frignani. 203
morfologia del territorio per oltre tre secoli: la mezzadria. È grazie alla mezzadria che il contadino inizia a necessitare di un’abitazione fissa e quindi la struttura della casa a pilastri lignei sostenenti il tetto, tipica delle palafitte mobili del periodo premedievale, viene potenziata con l’introduzione della muratura per il sistema portante e dei coppi per la copertura. La casa rurale, nella prima forma di società mezzadrile, è di piccole dimensioni: un unico fabbricato per le funzioni domestiche ed un locale per il ricovero di un modesto numero di capi di bestiame. Nel corso del tempo, si modificano i sistemi di coltura, cresce il numero dei componenti della famiglia, si sviluppa l’allevamento. La più evidente innovazione morfologica nel sistema della casa emiliana avviene tra il XVI e il XVIII secolo, a seguito della Rivoluzione Agronomica, cioè della progressiva e sistematica innovazione dei sistemi agrari che porta all’integrazione tra agricoltura e allevamento. Sono i secoli della seconda colonizzazione rurale e l’edilizia rurale assume una fisionomia indipendente da quella urbana. I Bentivoglio a Gualtieri, i Greppi a S. Vittoria, i Re a Gattatico, stimolano gli investimenti agricoli, cambiamo i contratti agrari, prevedono clausole favorevoli agli affittuari che apportano migliorie, generando così le premesse per questa nuova colonizzazione, con uno sfruttamento migliore del suolo e la creazione di nuovi rapporti di conduzione, affitto in denaro, produzioni specializzate in rotazione continua, integrazione tra allevamento e colture. La rotazione del prato artificiale coi cereali e l’allevamento stabile sono i due fattori che portano ad un aumento sostanziale dei locali della casa adibiti a stalla e fienile. In tal modo, quello che in precedenza era un fabbricato costruito con materiali deperibili e isolato sui campi per depositare gli attrezzi, diventa una struttura dalle grandi dimensioni che racchiude tutte le funzioni utili per l’attività agricola: residenza, immagazzinamento di merci e derrate, prima trasformazione del prodotto, ricovero di animali e attrezzi. Le tipologie dell’edilizia rurale reggiana La dimora agricola è la più chiara espressione della vita contadina e porta in sé i segni delle vicissitudini storiche vissute e dell’evoluzione delle condizioni economiche e sociali delle campagne. È il risultato d’un progetto organico. Gli edifici rurali assolvono a una duplice funzione: l’abitativa e la produttiva; sorgono vicino al luogo di lavoro, ai campi coltivati dalla famiglia, hanno una struttura semplice ed essenziale, per comodità e tecnica costruttiva, funzionale al lavoro, al ricovero degli animali e allo stoccaggio dei loro alimenti e, per ultimo, all’abitare della famiglia del contadino, proprietario, affittuario o mezzadro che fosse. A lui è riservata la superficie più contenuta dell’intero complesso rurale. Diverse sono le tipologie edilizie adottate e diversa è la distribuzione degli ambienti interni, in relazione al differente grado di benessere economico delle famiglie e, quindi, al diverso fabbisogno di spazi specializzati per il funzionamento dell’azienda. In una scala ipotetica di valori, all’estremo più basso, economicamente più povero, s’individua un locale singolo per tutte le necessità della famiglia: il sonno, i pasti, il ricovero degli animali, la disposizione e la conservazione dei prodotti dei campi. All’estremo più alto, invece, tutte le strutture più articolate delle grandi aziende 204
Fig. 3 Insediamento rurale a elementi giustapposti con porta morta, tra Bibbiano e San Polo. Foto di Fabrizio Frignani.
Fig. 4 Insediamento rurale a elementi giustapposti con porta morta, tra Calerno e Sant’Ilario d’Enza. Foto di Fabrizio Frignani. 205
agricole, coi molti spazi specializzati in uno o più corpi di fabbrica. I caratteri fondamentali di queste strutture abitative consistono nel rapporto tra casa rurale e divisione del suolo, e le forme dell’insediamento: da questo rapporto dialettico la campagna edificata deriva il suo carattere formale più evidente e contemporaneamente esso definisce le principali differenze formali tra territori e regioni diverse. La definizione di una norma d’uso si traduce infatti in una forma di divisione dei campi, e questo rapporto una volta stabilito, diviene vincolo di permanenza nel tempo3. Anche nella pianura emiliana, come in tutto il resto d’Italia, i modelli insediativi presentano varietà di forme e di strutture, nonostante la generale uniformità delle coltivazioni, grano, mais, prato a erba medica, vite maritata all’olmo. Secondo il Biasutti4 le forme dell’abitazione rurale emiliana sono sostanzialmente tre: 1. la “casa unitaria” con l’abitazione sovrapposta al rustico, forma diffusa “in quasi tutta l’Appenninia” 2. le “forme complesse a elementi sparsi o multipli” con l’abitazione e il rustico distaccati l’una dall’altro. Questa categoria occupa “tutta la sezione est della pianura padano-veneta, pianura emiliana compresa, dove sta probabilmente la sua area di insorgenza” 3. le “forme complesse a corte” nelle quali gli elementi costitutivi della casa si coordinano attorno a uno spazio chiuso quadrangolare. Forma diffusa “soprattutto nella pianura lombarda e piemontese” Secondo l’Ortolani5, invece, nel limitato spazio della pianura emiliana, si riscontrano tre delle quattro forme fondamentali in cui, secondo il Biasutti, si definisce la “casa rurale italica” e cioè: 1. le forme complesse a elementi separati 2. le forme a elementi giustapposti 3. le forme complesse a “corte” Con le forme complesse a elementi separati l’Ortolani intende la casa rurale con abitazione, stalla fienile e servizi accessori, tutti separati gli uni dagli altri. Questa forma è diffusa nella parte orientale della pianura emiliana, il ferrarese compreso, e 3 La relazione tra modi d’uso e definizione formale e dimensionale degli appezzamenti è infatti strettissima, risale alla colonizzazione romana: «si definiscono infatti in modo coerente alle nuove tecniche di lavorazione del terreno ad arature incrociate e alla alternanza biennale della cultura e del riposo del sistema dei due campi, secondo una struttura intrinsecamente ortogonale, non solo la forma, ma anche la dimensione si costituisce in rapporto a quei modi d’uso: la lunghezza del campo romano (1 actus) è infatti secondo Plinio, da riferirsi alla lunghezza del solco che – a quel grado di sviluppo delle tecniche aratorie – un paio di buoi era in grado di tracciare di un sol tratto. Al campo che misura uno jugero sono collegate poi la forma e la misura dell’heredium – di due jugeri – della centuria – di cento heredia». E. Sereni, Città e campagna nell’Italia preromana, in La città etrusca e italica preromana, Atti del Convegno, Bologna, 1965. 4 G. Dainelli, (a cura di), Atlante fisico economico d’Italia, Consociazione turistica italiana, Milano, 1940 5 M. Ortolani, La casa rurale nella pianura emiliana, CNR. Centro di studio per la geografia etnologica, Firenze 1953 206
predomina in particolare nelle aree del bolognese e del modenese. Denota l’esigenza di garantire la presenza di vasti spai liberi per la circolazione degli animali e dei mezzi fra il cortile e i campi, e la preoccupazione di innesco di incendi derivanti dal contatto fra abitazione e fienile. In posizione periferica, rispetto agli edifici principali (abitazione, stalla-fienile, barchessa, pollaio, porcile, forno, pozzo...) si trova l’aia, in terra battuta o in mattoni rossi sulla quale si svolgono diverse delle attività agricole, in particolare l’essiccazione del raccolto (grano, granoturco). Non c’è una regola fissa nella collocazione degli edifici; di solito, le due costruzioni più importanti, l’abitazione e la stalla-fienile, sono disposti perpendicolarmente l’un l’altro, senza però toccarsi. Si trova anche la soluzione che vede i due edifici uno di
Fig. 5 Insediamento rurale a corpi separati o a corte aperta.
Fig. 6 Complesso rurale a “corte aperta”, simile ai modelli bolognesi dei secoli XVII-XVIII: 1) Casa principale; 2) barchessa; 3) torre colombaia; 4) basso servizio; 5) macero; 6) aia. I nuclei più antichi sono spesso perimetrati da un fossato ricoperto da folta vegetazione. 207
fronte all’altro con l’aia interposta. È una forma tipica delle aziende medio-grandi con grossi allevamenti di bestiame e famiglie numerose. La diffusione dell’allevamento bovino, legato alla cultura foraggera e all’industria casearia comporta la costruzione di stalle-fienili di grandi dimensioni. La forma a elementi giustapposti costituisce il modo più economico per ricoverare uomini, animali e raccolto. I singoli elementi edilizi sono riuniti e ridotti di dimensione. Il volume si sviluppa orizzontalmente su pianta rettangolare allungata; l’abitazione e il rustico sono direttamente adiacenti e separati da un porticato. Il tetto può essere unico per abitazione e stalla-fienile o le due parti possono essere semplicemente accostate, mantenendo ciascuna la propria struttura di copertura indipendente, separata dal muro tagliafuoco, il salto nel tetto nel piano di congiunzione. In questa forma edilizia la disposizione interna dei locali è costante: cucina e stalla si trovano sempre a piano terra, camere da letto e fienile al piano superiore. Non esistono compenetrazioni dell’abitazione con il rustico. Solitamente la facciata è rivolta a sud, la stalla-fienile è collocata a destra (est) e l’abitazione a sinistra (ovest). Gli elementi costitutivi sono l’abitazione, la stalla-fienile e il portico che svolge la funzione di rimessa per i mezzi e gli attrezzi agricoli e di provvisorio ambiente di stoccaggio dei prodotti agricoli, in particolare dell’erba per le mucche.
Fig. 7 Ideale appoderamento tipico reggiano: 1) Casa principale con stalla, fienile e abitazione; 2) latrina; 3) pozzo; 4) letamaio; 5) basso servizio; 6) aia; 7) Canne coltivate nel macero; 8) macero; 9) alberi di alto fusto; 10) stradello; 11) ponte; 12) fosso; 13) strada. 208
Il portico si estende su tutta la facciata come corpo avanzato rispetto al rustico o integrato in questo con luci dal numero variabile, a tutta altezza architravate, a sesto ribassato, a tutto sesto, fino a scomparire nella forma della porta morta, tipica del reggiano, con un’unica grande apertura ad arco sita nel punto nodale di congiunzione tra rustico e abitazione. È questo l’elemento architettonico che principalmente caratterizza e distingue la tipologia a elementi giustapposti. Questa forma insediativa è la più diffusa in tutta la pianura emiliana ed è caratteristica della piccola azienda; quando le dimensioni della terra da coltivare aumentano, cresce il volume dei prodotti e il numero degli animali, allora occorre aumentare anche il numero delle costruzioni così da formare le “forme complesse a corte”. La forma a elementi giustapposti è comunque indice di un più moderno appoderamento della terra, di un’intensificazione delle colture e di un parallelo aumento della popolazione. La forma complesse a “corte”. Questa forma insediativa, a sua volta, si struttura in due diverse tipologie, la corte aperta e la corte chiusa. È questa una soluzione che predomina nella parte orientale della pianura emiliana, soprattutto in alcune zone del piacentino che riflettono gli aspetti della contigua pianura lombarda.
Fig. 8 Insediamento rurale a corpo unitario o elementi giustapposti con porta morta.
Fig. 9 Insediamento rurale con elementi giustapposti con tetto unitario. 209
La corte aperta è costituita da edifici separati l’uno dall’altro che sorgono in modo sparso a contorno di un grande cortile; lo spazio resta in parte aperto o limitato da siepi. Nella corte chiusa abitazione e rustici tendono a disporsi in modo regolare intorno a una “corte” quadrangolare, uno spazio o cortile scoperto che, dove non sussistono corpi di fabbrica, è recinto da mura. Vi sono compresi: la casa padronale, la casa del fattore, la casa dei salariati, stalle, fienili, porcilaia, scuderia, forno, ghiacciaia, magazzini, pozzo, caseificio, oratorio, laboratori, concimaia… L’esposizione migliore è riservata alla residenza padronale, che domina il complesso della corte ed è caratterizzata dalle maggiori dimensioni in pianta e in altezza rispetto agli altri edifici; il tetto è in coppi a quattro falde e la facciata tinteggiata. Sul tetto, la torretta con campana che detta i tempi di lavoro nei campi. Le abitazioni dei salariati sono essenziali, allineate a schiera lungo un lato della corte e riconoscibili per i muri privi di tinteggiatura che, quando presente, è comunque di colore diverso rispetto a quella dell’abitazione padronale. Il tetto è a due falde con copertura in coppi. Le unità sono composte da una cucina al pian terreno e dalla stanza al primo piano, comunicanti tramite una scala interna o esterne. La corte chiusa è una struttura legata a forme di proprietà o di conduzione dell’imprenditoria capitalistica o della cooperazione. Deriva il proprio impianto dalla Curtis medievale.
La casa bracciantile Il bracciante, poiché lavora per conto altrui, non necessita di avere capitali per gestire l’azienda, vive soltanto di lavoro, magari integra il modesto salario dedicandosi
Fig. 10 Insediamento rurale a corte chiusa. 210
alla coltivazione di altri terreni in terzerìa6, ottenendo soprattutto dei prodotti destinati all’autoconsumo. Quindi non ha bisogno di veri e propri annessi rustici, ma soltanto dell’abitazione per la sua famiglia. A seconda del lavoro manuale svolto e del tipo di contratto, può risiedere nell’alloggio messo a disposizione dal padrone all’interno del fondo in cui lavora, come nel caso del boàro che spesso dorme in una stanza attigua alla stalla per tenerla costantemente sotto controllo, oppure in una abitazione esterna, priva di adiacenze e in grado di ospitare più famiglie. Le dimore per braccianti si hanno, a partire dalla fine del Settecento e per tutto l’Ottocento, a seguito del passaggio dalla grande proprietà nobiliare o ecclesiastica ai nuovi ricchi borghesi. Sorgono in aree situate nei pressi dei centri abitati, lungo le strade, nelle proprietà demaniali e soprattutto ai margini dei grandi possedimenti. Sono abitazioni assai contenute nelle dimensioni, sovente a un solo piano, basse, con la copertura a due acque, con muri di mattoni spesso crudi. Quando queste case si articolavano in due piani, la scala si compone di due rampe con un ballatoio di mezzo. Le stanze da letto sono al piano superiore per sfuggire all’umidità e anche per potervisi rifugiare in caso di alluvione (come fu per la nostra del 1951)7 A volte questi edifici plurifamiliari si sviluppavano orizzontalmente in maniera seriale, alla stessa stregua delle attuali case a schiera. Sulla facciata principale, allungata e rivolta sempre a mezzogiorno, oltre ad una serie di finestre, si aprono tante porte e spuntavano tanti camini quante le famiglie. 6 Terzerìa: contratto agrario per la coltivazione di terreni in compartecipazione: due terzi al concedente e un terzo al terzadro (il colono) 7 Il 14 novembre 1951 parte della Bassa reggiana venne inondata dalla piena del Po. Gualtieri, Santa Vittoria, Pieve Saliceto, Boretto, Brescello, Meletole e Fodico vennero raggiunti dall’acqua che in quella notte tracimò dal torrente Crostolo. La piena (che nel Polesine provocò anche morti ed ebbe effetti ancora più devastanti) costrinse molti reggiani ad abbandonare le proprie case per un paio di mesi.
Fig. 11 La casa bracciantile. 211
Gli ambienti interni della casa Ogni ambiente della casa contadina ha una precisa collocazione spaziale dovuta alle condizioni climatiche, alle esigenze funzionali ed alla realtà economica e sociale della famiglia. L’accesso alla casa si ha attraverso l’andito, dove trovano collocazione gli attrezzi impiegati in cucina come ad esempio il cassone per la farina bianca e gialla, la gramola per il pane, il filarino... L’andito è il corridoio distributivo della casa intorno al quale si dispongono la cucina e la cantina ed in fondo al quale si trova la scala per salire al piano primo, occupato dalle camere da letto e dal solaio al secondo piano. La cucina (cuséina in dialetto), ossia il focolare della famiglia patriarcale, è il locale principale dove si svolgono numerose azioni, dalla preparazione dell’impasto del pane alla consumazione dei pasti alle faccende domestiche. Solitamente è di grandi dimensioni; è disposta a sud per meglio sfruttare la luce del sole. È sempre collocata all’ingresso dell’abitazione, al pian terreno. Custodisce il camèin (il camino) simbolo arcaico del focolare domestico. Ancora oggi noi emiliani diciamo andare in casa per significare l’andare in cucina. Al centro della cucina sta la grande tavola di legno di olmo affiancata da panche rustiche o sedie impagliate. Su un lato della cucina, il tulêr (tagliere), la rustica madia nella quale si setaccia la farina per il pane e si preparano gli impasti. La maggior parte delle operazioni della cucina avviene però sulla tavola: qui si prepara il pane, si svolge la maggior parte della lavorazione delle carni del suino macellato e naturalmente vi si consumano i pasti. In cucina c’è anche un tavolino sul quale mangiano i bambini e le donne quando non è presente una stanza di disimpegno a fianco. La lavatura delle stoviglie si fa nell’aia, o sotto il portico, o in cucina utilizzando secchi o bacinelle d’acqua. Alla cantina (cantèina) si accede tramite una porta dall’andito. Essa si trova a livello del terreno o a volte due-tre gradini sotto il livello di calpestio; qui vengono collocati i salumi ottenuti dalla macellazione del maiale, lo strutto, il lardo, ma anche le verdure fresche, le uova, le botti di vino, il tino vuoto ed altri oggetti necessari nel processo di vinificazione. La cantina è dotata anche di un’ampia porta che immette sotto il portico per permette l’ingresso di attrezzi di grandi dimensioni. Dall’andito si accede alla scala a doppia rampa che porta al piano superiore dove si trovano le camere. La stanza che sta sopra la cucina è di norma riservata al capofamiglia e a sua moglie, mentre quella di fianco al figlio maggiore sposato. Un’altra camera è per le figlie nubili. In questa stanza, all’inizio di giugno, viene smontato il letto e, al suo posto, collocate le fascine nelle quali maturano i bachi da seta; le ragazze lasciano la stanza e vanno a dormire nella stalla. I ragazzi non sposati possiedono una loro camera oppure si coricano sopra sacchi di tela nel fienile o nel solaio mentre i bambini piccoli dormono in stanza con i genitori. L’arredamento è ridotto all’essenziale; il pagliericcio di scartocc (foglie di spannocchiatura del mais seccate) appoggiate su quat’r asi e du cavalètt (quattro assi e due cavalletti). Le lenzuola di canapa grezza e la coperta fanno parte del corredo della sposa riposto nella cassapanca. Sotto al letto ci sono sempre due bucalèin (vasi da notte); un rustico, sgabello di legno, il prete per mettere le braci a letto d’inverno e poche altre cose come l’immancabile immagine sacra appesa alla parete. 212
Fig. 12 Il fienile. Foto di Graziano Dallaglio, primo premio concorso fotografico Summer School 2017.
Fig. 13 Il granaio. Foto di Anna Zurro, primo premio concorso fotografico Summer School 2016. 213
Tutto l’arredamento della casa è essenziale, solo ciò che direttamente indispensabile alle attività quotidiane. Questo rende più facile il trasloco della famiglia in caso di cambio di podere, circostanza non rara nelle campagne reggiane condotte a mezzadria. A questo proposito Papà Cervi ricorda uno dei traslochi: Il carro grande era già carico di letti, mobili, sedie, tavoli e materassi. Poi c’erano le bighe con l’aratro, le zappe, le falci, le pale e tutta la fa- legnameria. – Non abbiamo lasciato niente? – chiedeva la madre che frugava in tutti gli angoli. – No mamma, non abbiamo lasciato niente rispondevano le nuore che avevano meno pena a lasciare la casa. Il primo carro prese il cammino e dietro gli altri. Io e Genoveffa davanti sul birroccio poi il carro con le donne e i bambini in cima, dietro le bestie e intorno, avanti e sempre cambiando posto, i sette figli in bicicletta8.
Il secondo piano è occupato dal sottotetto dove vengono conservati gli attrezzi stagionali, le botti con l’aceto, la legna da stagionare per la fabbricazione di scale a pioli, ma anche la legna per la stufa o per il camino e il granaio per accogliere i cereali ed altre granaglie. Il granaio, dunque, fa parte dei fabbricati destinati ad abitazione a conferma della grande importanza che il luogo riveste nell’economia della famiglia, al pari della stalla, i due più importanti capitali. Il portico, nella casa a elementi giustapposti, è originariamente aperto sui due lati ma successivamente chiuso sul lato opposto all’ingresso da pannellature ricavate con canna e stocchi di saggina legati da pertiche trasversali che gli danno la caratteristica forma a porta morta. È costituito dal prolungamento del tetto della stalla, sostenuto da grosse colonne in mattoni a sezione quadrata. Sotto al portico si svolgono numerose attività contadine come la macellazione del maiale, la pigiatura dell’uva, la scartocciatura delle pannocchie. È il primo luogo di stoccaggio delle derrate alimentari per il bestiame, dell’erba fresca, del fieno, oltre ad essere quotidianamente utilizzato per il deposito dei macchinari e degli attrezzi da lavoro. Dal portico si accede alla stalla, lo scrigno del contadino. Essa custodisce tutto il suo capitale, ma la stalla è anche il principale centro associativo e comunicativo della casa: alle prime avvisaglie di inverno, vi si trasferiscono le donne per svolgere i lavori di cucito e di filatura sfruttando il tepore naturale emanato dalle mucche; qui ha posto la trasmissione orale dei saperi e della saggezza contadina (valori, tradizioni, mestieri), i filoss, i filaren, il racconto delle fole ai bambini, il teatro da stalla, ma anche le riunioni clandestine. La stalla è caratterizzata da una corsia centrale selciata di mattoni (andador) che la percorre fino alla porta opposta aperta sullo spazio antistante il letamaio. In mezzo alla stalla vi è la corsia di passaggio per le bovine e il bifolco mentre ai lati della corsia centrale sono collocate le poste delle mucche in fondo alle quali c’è la mangiatoia, una cassa rettangolare lunga quanto la posta. Immancabile l’immagine di S. Antonio Abate appesa a una delle colonne. Le colonne, che sorreggono il soffitto a volte, sono gli indispensabili elementi costruttivi portanti che permettono di sorreggere sia il peso delle travi della stalla, sia quello non indifferente del fienile soprastante, luogo dello stoccaggio dell’erba essiccata per l’inverno. 8 A. Cervi, I miei sette figli, Einaudi, Torino 2010. 214
Fig. 14 La piantata, ossia la coltivazione della vite maritata, segue il reticolato romano. Strade e canali ricalcano cardini o decumani
Fig. 15 Il pozzo. Foto di Tataina Pellegrini, segnalazione del Concorso fotografico Summer School 2017.
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Le travi del fienile, a loro volta, sono sorrette da pilastri in mattoni incatenati tra loro e appoggiati sulle sottostanti colonne della stalla. Il fienile ha generalmente il lato verso l’aia sempre aperto e quello esterno chiuso. Quando la facciata verso l’esterno è chiusa sui muri laterali sono presenti aperture a gelosia in mattoni, necessarie per l’areazione del locale che, oltre ad avere funzioni di conservazione del fieno essiccato, sono l’elemento decorativo architettonico di maggior pregio. Sistemare il fieno nel fienile è una operazione molto faticosa per il contadino che spesso deve sollevarlo a mano con l’aiuto di forconi all’altezza del carro e poi accatastarlo negli spazi tra i pilastri. A questi elementi si aggiungono i bassi servizi (diverse barchesse, il pollaio, la porcilaia, il forno…). Sono questi annessi, destinati direttamente alla produzione, che qualificano gli edifici rurali. Mentre l’abitazione colonica risponde a esigenze che non variano molto da luogo a luogo, ma piuttosto dal prestigio sociale ed economico di chi vi doveva abitare, le dipendenze rustiche risentono dell’indirizzo produttivo, che deriva in buona parte dalle caratteristiche ambientali, come la disponibilità o meno di acqua irrigua, dalle caratteristiche pedologiche, dalle vie di comunicazione. Col passare del tempo, man mano che l’agricoltura intraprende la strada delle colture specializzate, la varietà degli annessi si restringe sempre più. La porcilaia non è presente in tutti i casi; se presente, è rivolta verso i campi, per non creare disturbi al resto della cascina per via degli odori sgradevoli emanati. La tipologia più diffusa è a tre corsie, abbastanza brevi, con pianta generalmente quadrata; la corsia centrale, più alta delle altre per una maggiore areazione, è destinata al passaggio degli addetti ed è separata con una parete da quelle laterali dove sono collocati i suini. Le testate della porcilaia sono a “campana spezzata” nelle parti alte, dove si trovano grate di mattoni ovunque, mentre in quelle basse c’è la muratura piena con una grande porta nella corsia mediana. Indispensabile nella vita contadina è il pozzo e, a pochi metri dal lato nord della casa si può trovare un piccolo laghetto, non più profondo di due o tre metri dove sguazzano le oche e dove macerano le mannelle di canapa per la filatura. La cappella è presente, quasi esclusivamente nelle corti; è di solito situata vicino all’ingresso o alla strada d’accesso per consentire di fruirne anche da chi non risiede nella cascina. Tutti i fabbricati sono costruiti in mattoni, con le facciate intonacate a calce oppure dipinte a tempera. I mattoni spesso restano a vista, soprattutto nelle stalle, nei portici e nei rustici. E tutt’intorno i campi di frumento, granturco, vite e prato in una policoltura che porta a conformare i caratteri esterni del paesaggio agrario col taglio dei campi, più minuti e fitti, e con la loro demarcazione attraverso lunghe file di alberi di diverse specie.
I materiali e le tecniche costruttive Materiali e tecniche costruttive dell’abitazione rurale sono sempre stati quelli del territorio e l’edilizia rurale è sempre stata strettamente connessa alle condizioni sociali ed economiche dei suoi utilizzatori. I manufatti sono in argilla, il laterizio, e in mattone crudo. Il laterizio assume molta importanza quando viene utilizzato per la decorazione degli elementi architettonici come archi e volte a tutto sesto, a sesto acuto e a sesto ribassato. 216
Per le coperture dei tetti sono utilizzati i coppi sovrapposti sia nel senso della pendenza, sia trasversalmente con le concavità alternate verso il basso e l’alto. Anche i fienili prevedono un uso intenso del laterizio, con graticci a limitare le aperture dei locali favorendo l’areazione. A volte la struttura portante è fatta di soli pochi pilastri che reggono il tetto, e qui i mattoni sono usati in piano o a coltello, in orizzontale o in verticale, e inclinati per fare i graticci semplici, a scacchiera, a triangoli, a rombi. Il legno non è il materiale di base per la costruzione del fabbricato rurale ma è un fondamentale ausiliario in molte parti dell’edificio, come l’orditura dei tetti e dei solai, gli infissi e molte strutture d’aggetto (scale, balconi e ballatoi). Solitamente i solai sono composti da un’orditura di travi più grosse innestate nella muratura, su cui poggia un second’ordine di travicelli meno pregiati e di minor dimensione, su cui viene collocato il pavimento in tavelle di cotto o in assi di legno. La grossa orditura dei tetti è realizzata con puntoni appoggiati sui muri portanti e da capriate; quando manca il muro maestro interno è però più frequente la copertura con grossa orditura orizzontale, composta da travi portanti in parallelo alla linea di gronda, con orditura secondaria inclinata.
Per concludere Parlare di edilizia rurale significa parlare di beni intrinsecamente legati alla vita e alla storia della nostra comunità e questo significa che la nostra responsabilità individuale e consapevolezza collettiva si devono fare carico della tutela di questo nostro territorio, dei nostri paesaggi, delle nostre “cose”, perché tutto questo è il patrimonio che faticosamente i nostri predecessori hanno costruito nel tempo. Vere e proprie realtà antropologiche, non solo naturalistiche o culturali, dense di significati e di storie che si compenetrano. Luoghi di memoria, fortemente identitari. «Un popolo deve edificare i suoi campi come le sue città9.»
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Biasutti R., L’architettura rustica in rapporto alla alla costituzione ed alle forme del suolo, Firenze, Lares, 1932. Cattaneo C., Saggi di economia rurale, Torino 1939, p. XXXVIII, in Scritti 18391846, Notizie naturali e civili su la Lombardia, in Milano e l’Europa, Torino, 1972. Cervi A., I miei sette figli, Einaudi, Torino, 2010. Dainelli G. (a cura di), Atlante fisico economico d’Italia, Consociazione turistica italiana, Milano, 1940 Gambi L., Strutture rurali e vita contadina, «Cultura popolare dell’EmiliaRomagna», Silvana Editoriale d’Arte, Milano, 1977. Gambi L., Insediamenti e infrastrutture rurali in Emilia Romagna (a cura di), Insediamenti rurali in Emilia Romagna Marche, Giuseppe Adani (a cura di), Amilcare Pizzi editore, Cinisello Balsamo, Milano, 1989. Gambi L., Emilia Romagna: i quadri ambientali come palinsesti, in Il Mondo della Natura in Emilia-Romagna. La pianura e la costa, Silvana Editoriale, Milano, 1990. Gambi L., La cognizione del paesaggio. Scritti di Lucio Gambi sull’Emilia-Romagna e dintorni, Istituto per i beni artistici, culturali e naturali, Regione Emilia-Romagna Bonomia, University Press, Bologna, 2008. Ortilonai M., La casa rurale nella pianura emiliana, CNR. Centro di studio per la geografia etnologica, Firenze 1953. Sereni E., Comunità rurali nell’Italia antica, Edizioni Rinascita, Roma, 1955. Sereni E., Note per una storia del paesaggio agrario emiliano, in Renato Zangheri (a cura di), Le campagne emiliane nell’epoca moderna. Saggi e testimonianze, Feltrinelli, Milano, 1957. Sereni E., Città e campagna nell’Italia preromana, in La città etrusca e italica preromana, Atti del Convegno, Bologna, 1965. Archivio Biblioteca Emilio Sereni, Istituto Alcide Cervi, Gattatico di Reggio Emilia.
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Forme abitative e di insediamento nell’Appennino reggiano
Gaia Monticelli
Distrettazione antica e organizzazione agraria nell’Appennino La Pietra di Bismantova, oggi parte dell’area MAB Unesco, che con le sue pareti verticali di arenaria domina il paesaggio della media collina reggiana, ha da sempre rappresentato un punto di riferimento per le popolazioni che hanno abitato l’Appennino nel corso della storia. La distrattazione territoriale dell’Appennino reggiano si mantiene pressoché inalterata dall’antichità fino all’avvento della dominazione canossiana, quando entra a far parte di un più ampio dominio. Le prime attestazioni di toponimi relativi a quest’area risalgono all’età romana quando troviamo citati il fines Bismanti ed il fines Verabolenses1 che, riprendendo i confini territoriali degli antichi pagi di fondazione ligure, suddividevano tale territorio in due distinti distretti. Tale suddivisione territoriale sarà ripresa anche successivamente la caduta dell’Impero romano e la fine dei regni romano-barbarici nel castrum Bismantuae e nel castrum Verabulum di fondazione bizantina2 e in seguito alla conquista longobarda nel castrum Bismantum3, riorganizzato nel gastaldatus Bismantinus dipendente dal ducato di Parma, e nel Castrum Verabulum in un primo momento rimasto sotto il dominio bizantino4 e in seguito aggregato al ducato di Modena, così come avviene 1 G. Santini, Premesse per uno studio storico sistematico dell’appennino reggiano. Il territorio verabolense-bismantino, pp. 7-9, in AA. VV., Carpineti Medievale. Convegno di Studi Matildici, Reggio Emilia, 1976. 2 Al castrum Verabulum appartenevano la media valle del Secchia con i suoi affluenti, il torrente Dolo ed il torrente Dragone, e la valle del Tresinaro; mentre nel distretto castrense di Bismantuae era compresa l’alta valle del Secchia, da Ligonchio a Felina, e si estendeva ad ovest fino alla valle dell’Enza. In G. Santini, 1976, p. 12. 3 La conquista longobarda del castrum di Bismantova può essere fatta risalire al periodo tra il 593 al 644 d.C., in G. Santini, 1976, p. 14. 4 O. Rombaldi, Carpineti nel Medioevo, in AA. VV., Carpineti Medievale. Convegno di Studi Matildici, Reggio Emilia, 1976, pp. 52-54.; A. Tincani, Pagus Verabulum in Val di Secchia: dalle origini preromane a Matilde di Canossa, attraverso le tappe della sua trasformazione in castrum bizantino ed in corte e pieve di S. Vitale di Verabolo o delle Carpinete, Reggio Emilia 1993, p. 53. 219
anche in età carolingia, con l’istituzione del Regnum Italicum e l’introduzione del sistema comitale, quando il gastaldatus Bismantinus è assegnato al Comitato di Parma5 e il castrum Verabulum al Comitato di Modena6. Le comunità di entrambi i distretti, sia in ambito bizantino che longobardo e successivamente in epoca carolingia e feudale, erano organizzate in corti pubbliche che avevano i loro possedimenti terrieri sparsi in più abitati, a volte distanti anche decine di chilometri7. Questo assetto si manterrà anche negli ordinamenti plebani che vennero a costituire, su iniziativa della popolazione locale, il centro amministrativo e religioso del territorio8. Un diploma di Ottone II del 14 ottobre 980 conferma al Vescovo di Reggio, fra altri beni e diritti, otto pievi nella zona collinare e montana: la pieve di S. Maria di Toano, la pieve di S. Maria a Minozzo (oggi scomparsa), la pieve di Bismantova, cum castrum, trasferita poi a Castelnovo ne’ Monti, San Vitale di Verabulo presso Carpineti, Lizulo presso Paullo, vengono poi citate le pievi di Castrum Oleriano (attuale Castellarano) ed Albinea, con annesse le rispettive corti. Non citata in questo documento, ma coeva alle altre, è la pieve di S. Vincenzo nel comune di Ramiseto, facente parte dell’episcopato di Parma9; a queste nel corso del XI secolo si aggiungeranno le pievi di Baiso nell’alta montagna e di Salvaterra, nella zona della bassa collina. Nello stesso diploma sono menzionate anche le corti di S. Salvatore, Castellarano, Minozzo, Belleo e Albinea, ma non erano le uniche esistenti: nel medio Appennino sono accertate le due corti di Felina e Malliaco, entrambe di proprietà imperiale, mentre nell’alto Appennino troviamo in documenti coevi Lama Fraolaria e la corte di Cerreto, con le rispettive pertinenze. Vito Fumagalli riporta inoltre anche la presenza di altre tre corti: a Nirone, Vallisnera e Cervarezza, collocate a poca distanti dai passi montani che collegano il territorio reggiano con la Toscana. All’interno delle corti, la distribuzione della popolazione sul territorio rurale avveniva in villaggi, o ville, che costituivano nei secoli IX-X il modello più diffuso di insediamento. Si trattava di piccoli centri abitati fissi, composti da pochi nuclei famigliari e abitazioni, in cui gli edifici erano tra loro distanziati e distribuiti in fasce concentriche10. Il territorio ad essi dipendente, denominato nelle fonti del IX e X secolo come locus et fundus, era organizzato in spazi agrari, anch’essi disposti 5 O. Rombaldi, 1976, p. 63. 6 A. Tincani, 1993, p. 71. 7 A. Castagnetti, L’organizzazione del territorio rurale nel medioevo, Bologna, 1982, pp. 6771; un esempio di queste corti studiato da Fumagalli è la corte Vilinianum, il primo acquisto terriero dei Canossa in territorio emiliano. V. Fumagalli, La corte di Vilinianum e le sue dipendenze. Dalle origini alla dinastia dei Canossa, in P. Bonacini (a cura di), Il territorio parmense da Carlo Magno ai Canossa, Atti e Memorie del Convegno, Neviano degli Arduini, 17 settembre 1995, Aedes Muratoria, Modena 1997, pp. 3-10. 8 G. Santini, 1976, p. 15; A. Castagnetti, Circoscrizioni amministrative ecclesiastiche in area canossiana, in Studi matildici. Atti e memorie del III convegno di studi matildici, Modena 1978, pp. 309-330.; A. Castagnetti, 1982, pp. 22-26. 9 O Rombaldi, 1976, p. 61. 10 A.A. Settia, La funzione poleogenetica, pp. 196-197, in A.A. Settia, Proteggere e dominare. Fortificazioni e popolamento nell’Italia medievale, Roma, 1999. 220
Fig. 1 La Pietra di Bismantova vista dalla cima del m. Ventasso. Foto di Gaia Monticelli.
concentricamente all’abitato, sfruttati in modo progressivamente più estensivo via via che ci si allontana dal centro: dagli orti e dalle vigne situati nei pressi delle abitazioni, alla fascia cerealicola e infine ai pascoli più lontani11. Questi insediamenti erano inframezzati da numerosi castelli che, a partire dalla fine del IX secolo, iniziano a sorgere nei pressi di centri già abitati come villaggi, corti o sedi di pievi12. Il castrum, divenendo centro militare, giurisdizionale, economico e sociale di una data zona, crea attorno a sé nuovi distretti, esercitano quindi una forza attrattiva sulle piccole ville disperse nell’habitat rurale13. Numerosi sono i documenti che testimoniano lo spostamento della popolazione dagli insediamenti originari verso l’interno della cerchia fortificata in abitazioni di cui non si conosce la consistenza, ma di cui ci resta testimonianza della dimensione del casamentum, l’area su cui viene edificata la dimora: i più piccoli compresi tra i 20 e i 50 mq e i più estesi tra i 70 e i 100 mq, secondo quanto rilevato da Aldo Settia per l’area canossiana14. La villa resterà la cellula dell’organizzazione politica e sociale del contado reggiano anche nel successivo periodo comunale e in età moderna sotto il dominio estense, costituendo, insieme ai castelli, la base per altrettanti nuclei di potere che ostacoleranno la civitas nel diretto governo del territorio15 e mutando solamente nelle sue forme architettoniche da cui sarà costituita. 11 G. Sergi, Il medioevo di Pierre Toubert fra lunga durata e dinamismo, in Pierre Toubert, Dalla terra ai castelli, paesaggio, agricoltura e poteri nell’Italia medievale, Torino, 1995, p. VIII. 12 A.A. Settia, Castelli e villaggi nelle terre canossiane fra X e XIII secolo, pp. 253-284, in A. A. Settia, 1999. 13 A. Castagnetti, 1982, pp. 67-71. 14 A.A. Settia, 1999, pp. 199-200. 15 A. Gamberini, 2003, pp. 221-223. 221
Le prime abitazioni dell’Appennino emiliano La realizzazione di edifici in muratura in ambito rurale avviene in momenti differenti a seconda dei diversi contesti geografici, in base al materiale disponibile in loco e alle risorse economiche della comunità locale. Nell’Italia centrale del X secolo, le abitazioni sorte all’interno della cinta fortificata dei borghi o del sito incastellato sono edificate “cum muri et parietinis calce et arena aedificatis” e tetto in scandolae, nei due secoli successivi sono denominate domus terrinea scandolicia ed occupano l’intera area delimitata dalla cinta, a cui segue, con l’aumento demografico, dalla seconda metà del XII secolo, un accrescimento in verticale e la comparsa delle prime domus solariate, in alcuni casi con copertura in tegole, domus tegulicia16. Un simile processo di trasformazione degli insediamenti avviene anche per l’Italia settentrionale, ma in epoca successiva. Negli Estimi del 1235 fatti redigere dal comune di Bologna, nella zona della montagna, tra i beni dichiarati troviamo censito, in alcuni casi, il casamentum, cioè l’area attrezzata con la dimora ed i servizi, in altri, si dà maggior importanza all’edificio abitativo, che viene descritto negli elementi principali che ne determinano la stima17. Troviamo quindi domuncula, domus de palea, domus coperte de palea, accanto ad altre strutture in muratura, o con parti in muratura, domus, tubata, domus cum tubata, il medatum18. In analogia con le altre aree dell’Appennino emiliano, anche le costruzioni rurali della montagna reggiana fino alla fine del XIV secolo saranno realizzate impiegando prevalentemente legno, incannicciato, paglia e argilla. Il passaggio tra queste abitazioni e quelle in muratura, composta da materiale lapideo e calce, avvenne molto lentamente: ancora nel XVI e nel XVII secolo troviamo nei documenti abitazioni realizzate in legno e paglia, accostate ad altre in muratura. Inizialmente la muratura in materiale lapideo fù impiegata per la realizzazione delle fondazioni, successivamente per il piano, o tassello19, per circa 2-3 metri fuori terra, ed in seguito alzandosi in altezza. Un’idea delle trasformazioni della consistenza e morfologia degli abitati situati nell’Appennino tra Parma e Reggio avvenuta a cavallo del XIV e del XV secolo, la si può cogliere nell’Estimo del Sale del Contado di Parma20 attraverso le diverse tipologie edilizie menzionate. 16 P. Toubert, Dalla terra ai castelli, paesaggio, agricoltura e poteri nell’Italia medievale, Einaudi, Torino, 1995., p. 71, nota n° 82. 17 F. Bocchi, L’architettura popolare in Italia. Emilia-Romagna, Laterza, Bari, 1984, pp. 26-29. 18 A.S.Bo, Estimi 1235, Creda, Camugnano, Cit. in Ead., 1984, p. 62, n. 30-31. 19 Dall’analisi dei documenti emerge che per tassello si intendeva il solaio costituito da travature e assi lignee e che per estensione andava indicare l’intero piano. 20 L’estimo, redatto nel 1415 per il Marchese Nicolò III d’Este nel periodo di dominio sul contado parmense (1409-1420). Secondo la cronaca di A. M. da Erba, il 29 luglio 1409 furono bruciati dalla popolazione tutte le “bollette” delle tasse viscontee; per questo motivo l’Estimo del Sale costituisce uno dei pochi documenti economico-amministrativi che ci siano pervenuti. In A. Pezzana, Storia della città di Parma, vol. II, Parma, 1837-59, p. 130. Cit. in M. Zanzucchi Castelli, L’Estimo del Sale di Parma del 1415: cenni sulla gabella del sale e Nicolò III d’Este, in M. Zanzucchi Castelli, G. Trenti (a cura di), L’Estimo del Sale di Parma del 1415, Modena-Parma, 1999, p. XVII. 222
Accanto ai tradizionali edifici rurali, come domunculam paleatam e domum paleata, costruzioni in legno ricoperte di paglia, e domum peagneata, con copertura realizzata in piagne, lastre sottili di pietra sovrapposte, compaiono le prime domum murate, in muratura, et cupatam, ricoperta di coppi, ma esistono anche casi di ibridi: domum muratam et paleate, probabilmente con muratura mista e con copertura in paglia. Inoltre sono presenti delle domum terrazatam o interrazatam21, probabilmente su più piani, simile alla domus solariata, e successivamente denominate domum tasselate. Si può notare che in comunità ricche e prossime a fonti di approvvigionamento di pietrame e ciottoli fluviali, come Scurano, Langhirano e Collecchio (attuale provincia parmense) più della metà delle case fossero già in muratura. Gli abitati censiti che si trovano oggi nella provincia reggiana22 sono composti da non più di quattro fuochi, a cui corrisponde una sola abitazione, ad eccezione di 21 A.S.Mo, Camera Ducale Estense, Estimo del Sale di Parma, b.b. 1-4. 22 I comuni censiti che si trovano oggi in provincia di Reggio Emilia sono: Camporella e Montedello, Castagneto, Miscoso, Pieve S. Vincenzo, Succiso, Cereggio e Temporia, nell’attuale Comune di Ramiseto, e Monchio dell’Olle (Comune di Mons Ollarum, contumax. ASMo, Camera Ducale Estense, Estimo del Sale di Parma, Busta 1); Roncaglio e Vedriano, in quello di Canossa, di cui vengono censiti solo i fuochi.
Figg. 3 e 4 Esempi di edifici rurali dell’alta Val Secchia negli anni ‘70 con tetti in legno e paglia (o cumino). Le strutture di servizio sono state realizzate riprendendo le tecniche costruttive tardomedievali fino al primo dopoguerra.
Figg. 3 e 4 Esempi di edifici rurali nei pressi di Villa Minozzo, simili a quelli in figg. 3 e 4, oggi in totale stato di abbandono e fortemente degradate a causa della deperibilità dei materiali con cui erano costruite. 223
alcuni centri come Castagneto ed il plebanato della Pieve di San Vincenzo, composti da più nuclei abitati che arrivano ad una decina di abitazioni. Tale processo di trasformazione si può riscontare anche in alcuni atti notarili redatti tra il 1427 e il 143423, dove sono menzionate, in ordine cronologico, una “terra casamentiva in castro Feline cum domo paleata posita super dicto casamento”, una “terra casamentiva laborativa cum una domo prope ecclesiam de Felina”24, a la Casina, terra di Sarzano, vi è una “terra casamentiva, cum domo copata et murata, curtili, tezia coperta de cuppis”, presso Castelnovo ne’ Monti, in villa de Poio, il monastero di S. Apollonio possiede una terra casamentiva, laborativa cum domo copata e interizata25. Accanto all’abitazione compaiono via via ulteriori strutture di servizio per l’attività agricola, come le tezie o teze26, e a partire dall’inizio del secolo successivo si assiste ad un arricchimento lessicale volto a differenziare le strutture in base alla loro funzione, lasciando supporre un definitivo consolidamento di nuove tipologie edilizie strutturalmente più complesse. Come riscontrato per molte aree geografiche, anche nel reggiano, tra le prime manifestazioni del mutamento della forma insediativa, dall’insediamento accentrato del castrum a quella decentrata dell’insediamento sparso, che si diffonde in modo significativo a partire dal XV secolo con l’instaurarsi della signoria Estense, e della sua consistenza vi sono le abitazioni cum columbaria che fanno la comparsa nella seconda metà del XV secolo. In un documento del 1540 è citata unam domo… ad usum hospitij sive hosterie positam in Comuni Castrinovj in locho dicto “alla tavernella” desuptus domum cum columbaria ubi ad presens habitat mezadrus predicti Doni Antonij27; tre anni dopo, Don Paolo e Joannes Andreas, figli di Laurentij Zilioli e Petrus quondam Jo: Antonij:, di Moziollo, si dividono i beni ereditati dai genitori: unam domum in loco dicto “la casa del fuoco” cum sua columbaria plagnata et solerata que vulgo appelatur “la columbara” et cum suo alia domo… que vulgo appellatur “la casa dove si mangia al presente”28; nel 157929, il notaio Piramo Vologni eroga un Actum in villa mailij preture montis castagneti et in Colombaria Domini Angeli de mailio… e nel 1593, Jo: Maria detto Palazzo prende in affitto da Don Antonio Franceschini unam domum muratam Copatam taxellatam cum Colombario furno tegete et stabulo arrea tuvadis Curtilli, orto et Cannepario ipsis domui et tegeti contiguis sitam in villa colle in loco dicto “alle case et casamenti et Canepari et orto di Gio: Maria d’ambrosso30. 23 Le descrizioni sono cit. in O. Rombaldi, La mezzadria nella prassi notarile reggina del sec. XIV, Estratto da “Deputazione di Storia Patria per le provincie modenesi”, Modena, 1972, p. 215. 24 ASRe, Notai. Franchino Bonzagni senior, bb. 70, 71, 1427-1434. Cit. in Ibid., pp. 174-175. 25 ASRe, Notai. Franchino Bonzagni senior, b. 71, 1426-1427. Cit. in Ibid., p. 176. 26 Le teze, o teggie, erano edifici costituiti da pilastri, solitamente in legno, che sorreggevano una copertura, utilizzate come deposito per gli attrezzi agricoli, come ricovero per gli animali o come fienile; sono frequentemente rappresentate nei Cabrei di inizio XVIII sec. 27 ASRe, Notai, Nicolò Vologni, anno 1540, bb. 874- 887, n. 60. Cit. in M. T. Cagni Di Stefano, Castellanze di Montagna, Rocha, Castra, famiglie di ieri e di oggi, Vol. II, Reggio Emilia, 2011. 28 ASRe, Notai, Piramo Vologni, anno 1593, B. 1995, n. 65. Cit. in Ibid. 29 Ibidem, Piramo Vologni, anno 1570, b. 1962, n. 108. Cit. in Ibid. 30 Ibidem, Piramo Vologni, anno 1593, b. 1995, n. 45. Cit. in Ibid. 224
Fig. 5 Pozzolo di Scurano (Comune di Neviano degli Arduini, PR): la Bastia Fattori è una corte chiusa che si è originata dall’ampliamento delle due torri che ancora emergono rispetto agli altri corpi di fabbrica; la struttura conserva in gran parte i caratteri originali non avendo subito interventi di restauro invasivi, anche se versa oggi in uno stato di semiabbandono.
Quest’ultima tipologia abitativa, diffusa nella maggior parte dei centri abitati, è oggi identificata erroneamente con il termine di casa-torre, facendo riferimento a quelle strutture fortificate che si riscontrano in altri contesti geografici. Nel caso di questi edifici però la funzione preminente non era quella difensiva, ma come sottolineato dai diversi documenti, di allevamento dei colombi, pratica diffusa nella collina reggiana già nel XV secolo, come testimoniato dallo Statuto di Albinea e Montericco della metà del XV secolo31, in cui vengono menzionati i columbus domesticus vel toresano. Le torri colombaie Quattro e Cinquecentesche si caratterizzano tutte per essere dimore di nuclei famigliari di ceto elevato, se rapportato alla situazione economica della zona montana e collinare, appartenenti alla piccola nobiltà rurale di origine notarile o militare, o di proprietari di consistenti possedimenti terrieri. è il caso della corte di Moziollo, nelle seconda metà del Cinquecento di proprietà Dominum Hercolis Zilioli de motiollo32, notaio, o della torre colombaia della famiglia Beretti di 31 Archivio Frosini, busta 6, n°6, cit. in A. Campanini, Gli statuti dei conti Manfredi, edizione delle raccolte di Albinea e Borzano (RE), Università degli Studi di Bologna, dipartimento di Paleografia e Medievistica, sezione “Secietà Economia Territorio”, Bologna, 1995, p. 10, nota 8. L’originale non è più reperibile, ma ne esistono due copie: la più antica, trascritta direttamente dall’originale e terminata nel 1594 e si trova in ASRe, Archivio del Comune di Reggio, parte I, Appendice, 3. Carte relative ai seguenti paesi: Albinea 1523-1654. La seconda copia risalente al XVII secolo si trova in Biblioteca Municipale di Reggio Emilia, collocazione MSS. REGG. C 443. 32 ASMo, Cancelleria ducale, Carteggi dei rettori dello Stato, Reggio e Reggiano, Lettere, me225
Carpineti, che deve la sua fortuna all’aiuto prestato per la conquista di Reggio e Parma al pontefice Giulio II33. I possessori non risultano però essere signori territoriali in diritto di abitare un castello, che resta, nei scoli XV e XVI, ancora appannaggio delle più potenti famiglie di antica origine feudale. Per i secoli XVII e XVIII, di particolare rilievo per l’area trattata sono i catasti relativi alla Podesteria di Castelnovo ne’ Monti34; redatti tra il 1611 ed il 1783. Qui vediamo differenziarsi diverse tipologie di edifici: oltre alle teggie, compaiono stalle, botteghe, osterie, mulini e torri colombaie e le abitazioni si arricchissimo di elementi aggiuntivi come portici, forni e pozzi; in alcuni casi sono indicati con gli aggettivi vetus e novo, a conferma del fatto che gli edifici in muratura sono ormai strutture consolidate nella cultura costruttiva di questi insediamenti. Nelle descrizioni degli estimi, le torri colombaie sembrano distinguersi in differenti strutture: l’indicazione habita in colombara, o semplicemente una Colombara con ara, horto, e prato35 parrebbe riferirsi ad un unico blocco verticaleggiante, contenente sia l’abitazione che la colombaia, diversamente dalla casa con colombara, costituita da un complesso edilizio più articolato, composta da un corpo con sviluppo prettamente orizzontale giustapposto alla torre colombaia, così come descritto in un estimo di Costa (comune di Vetto d’Enza) del 1611, dove vengono censite Due case con colombara e terra, attacati insieme, murati, solerate e piagneati, con un altra casa di sotto murata solerata e piagnata e un’altra casa nova con coperto e colombara, solerata e coperta di coppi36.
Lo sviluppo urbanistico degli insediamenti rurali A partire dalla seconda metà del Cinquecento e per tutto il Seicento, questi edifici vengono connessi o inglobati a sistemi architettonici in cui è l’estensione in superficie più che in altezza e la differenziazione funzionale degli spazi interni ad essere privilegiata, e andranno ad influenzare la morfologia del tessuto urbano che proprio in questi secoli va consolidandosi, raggiungendo la sua definitiva conformazione.
moriali e suppliche, relazioni di ufficiali ducali, di privati e d’altri, Castelnovo ne’ Monti, b. 1, b. 2, anni 1472-1605. 33 O. Rombaldi, Il Cinquecento reggiano, Reggio Emilia, Società Reggiana di Studi Storici, 2001, p. 23. 34 Archivio Storico del Comune di Castelnovo ne’ Monti, Catasti e Estimi, bb. 1-6. La Podesteria di Castelnovo, a partire dalla seconda metà del XVI secolo, diventò il centro amministrativo e militare della montagna reggiana, in quanto sede del Colonnello della Montagna e della sua guarnigione, ed acquista sempre più importanza nel corso del XVII e XVIII a seguito del progressivo estendersi del territorio di sua giurisdizione a discapito dei feudatari e delle altre podesterie limitrofe. 35 Archivio Storico del Comune di Castelnovo ne’ Monti, Estimi e Catasti, b. 2, Volume 5, 1611, Costa. 36 Ibidem. 226
Fig. 6 e 7 Montedello (Comune di Ventasso, RE): esempio di abitato con impianto lineare, caratterizzato dalla presenza di una corte aperta (vista dal lato del cortile). La torre che ha dato origine al complesso è stata ribassata nel corso del Novecento; all’interno dell’abitazione è ancora visibile un portale sopraelevato.
Figg. 8 e 9 La Gatta (comune di Castelnovo ne’ Monti): esempio di abitato a impianto indifferenziato; sono evidenziati il nucleo dell’abitato (in alto) e l’area della corte (in basso) su cui si affacciano il palazzo tardo seicetesco e la torre (fig. 9) della famiglia Gatti.
Fig. 10 e 11 Manno (comune di Toano): la parte padronale della struttura a corte chiusa si sviluppa nel lato est del complesso con un ampio fabbricato con torre colombaia centrale. 227
A Montedello (RE), abitato ad impianto lineare, la torre detta degli Ilariucci37 alla metà del Cinquecento ha costituito il nucleo originario per la corte aperta, chiaramente identificabile nei catasti del 171538 e del 177239 per la presenza dell’oratorio, attorno alla quale l’abitato si è esteso seguendo la direttrice viaria e dando origine ad un impianto di tipo lineare (figg. 6 e 7). Un altro esempio di corte aperta che dà origine ad un abitato stavolta ad impianto indifferenziato, è la corte de La Gatta (comune di Castelnovo ne’ Monti, RE); l’antica abitazione della famiglia Gatti che ingloba la torre dell’inizio del XVI secolo e il palazzo edificato nella seconda metà del XVII secolo sono distribuiti attorno all’aia, situati ai margini dell’abitato, nei pressi della confluenza del rio Spirola con il torrente Secchia che la “chiudono” sui lati opposti all’abitato (figg. 8 e 9). Nel caso invece delle corti chiuse, le colombaie vengono integrate da maniche che si articolano attorno ad un cortile centrale cintato da un muro; generalmente questi complessi si trovano ai margini degli abitati perché non necessitano di essere protetti dagli altri edifici. Esempi di questa tipologia sono quelli riferibili alle corti della famiglia Ghirardini di Manno (comune di Toano, RE - figg. 10 e 11), dei Conti Da Palude di Legoreccio (comune di Vetto d’Enza, RE), formatasi inglobando la torre XIV secolo, dei Rossi a Monchio dei Ferri (Casina) o della corte fortificata di Moziollo (comune di Vetto d’Enza, RE). In quest’ultimo caso l’accesso al cortile interno è caratterizzato da una torre, oggi ribassata, con portale ad arco acuto cinquecentesco, menzionato in un documento del 155140 redatto dal Podestà di Castelnovo che scrive: “in Cameram toresini positi super portam Curtilli”. Anche in altre circostanze in cui le case con colombaia vengono semplicemente inglobate all’interno di un unico blocco edilizio, il nucleo antico dell’insediamento vi si sviluppa attorno: così avviene per l’abitazione della famiglia Beretti (comune di Carpineri, RE - figg. 12 e 13), successivamente inglobata su due lati da un edificio disposto due livelli, situato al centro dell’abitato ad impianto indifferenziato e della casa della famiglia Ceccati a Stiano (comune di Toano, RE - figg. 14 e 15), qui ad una più antica dimora fortificata, attribuibile alla fine XIV-inizio XV secolo, si affianca una casa-torre cinquecentesca, al centro dell’insediamento in linea. Con il passare del tempo, le colombaie assumeranno sempre minori dimensioni e si staccheranno dall’edificio abitativo, limitando la propria funzione alla sola attività agricola, e saranno collocate in prossimità delle coltivazioni, venendo così a meno il rapporto che originariamente le legava con gli insediamenti, ma creando una nuova permeabilità con il contesto paesaggistico circostante.
37 G. Copacchi, Storia, leggenda e araldica minore nelle “Valli dei Cavalieri”, in “Aurea Parma”, n°47, Parma, 1963. 38 ASPr, Catasti ed estimi Farnesiani e Borbonici, Taviano Camporella e Montedello, b. n° 582, 1715. 39 ASPr, Catasti ed estimi Farnesiani e Borbonici, Taviano Camporella e Montedello, b. n° 1372, 1772. 40 ASMo, Cancelleria ducale, Carteggi dei rettori dello Stato, Reggio e Reggiano, Castelnovo ne’ Monti, Lettere, memoriali e suppliche, relazioni di ufficiali ducali, di privati e d’altri, b. 1, b. 2, anni 1472-1605. 228
Figg. 12 e 13 Ca de’ Bretti, comune di Carpineti; esempio di insediamento ad impianto indifferenziato che ha avuto origine da un’abitazione a torre.
Figg. 14 e 15 Stiano, comune di Toano: asempio di insediamento in linea che ha avuto origine da un’abitazione a torre. 229
Conclusioni La ricostruzione storica dei mutamenti del paesaggio e degli insediamenti rurali dell’Appennino ci mostra come nel corso dei secoli la Storia si sia svolta con estrema lentezza e ci fa meditare su quanto la società sia profondamente cambiata a partire dagli anni Cinquanta ad oggi, modificando di conseguenza i luoghi in cui viviamo, omologandoli tra loro e perdendo così quelli che erano i loro caratteri identitari, creati dal rapporto costante che ha da sempre legato le comunità locali ai loro habitat. L’unica testimonianza del passaggio delle generazioni passate che ci resta oggi è questo patrimonio estremamente effimero, reso ancora più precario dal dell’abbandono delle aree montane e dai cattivi interventi perpetrati nei decenni passati, non solo a scapito dell’architettura tradizionale, ma anche dell’ambiente naturale. Certo è impensabile pensare al paesaggio come a qualcosa di immutabile, ma la conoscenza dei luoghi e della loro storia ci può aiutare ad individurae corretti interventi di pianificazione e tutela nel rispetto della vocazione di ciascun territorio in cui si opera. La ricerca storica e la sensibilizzazione della popolazione verso le tematiche di salvaguardia del paesaggio sono senza dubbio strumenti necessari per preservare la memoria materiale di un territorio e recuperarne le aree che versano oggi in stato di abbandono. L’istituzione del Parco Nazionale nel 2001, il riconoscimento come area MAB Unesco e le diverse cooperative che operano sul territorio, come I Briganti di Cerreto, possono essere una riposta a tali esigenze.
Fig. 16 Loc. Fabbrica (comune di Casina, RE): torre colombaia situata in posizione isolata. 230
Architettura rurale e paesaggi storici a Fiesole Un episodio di pianificazione Ilaria Agostini
La pianificazione dei paesaggi storici fiesolani è affidata, a fine anni Settanta del XX secolo, alla Variante al PRGC per le zone agricole chiamata a gestire le trasformazioni sul territorio rurale connesse agli epocali mutamenti socio-economici in atto anche nell’area metropolitana fiorentina. La Variante è resa «drammaticamente urgente»1 dalla legge della Regione Toscana n. 10/1979 che detta le Norme urbanistiche transitorie relative alle zone agricole. La LRT 10/1979 induce infatti i Comuni a dotarsi di variante agli strumenti urbanistici al fine di prevedere una specifica normativa per le «aree che presentino particolari caratteri morfologici, ambientali e produttivi» (art. 1) e per le architetture rurali di «particolare valore culturale o ambientale» che saranno ricomprese in un «apposito elenco» da inserire nelle Norme Tecniche di Attuazione (NTA) del piano regolatore2. Nel maggio del 1979 l’urbanista Gian Franco Di Pietro3
1 G.F. Di Pietro, Fiesole, le aree collinari: la variante al Prgc per il territorio extraurbano, in Salvaguardia del paesaggio. Protezione del patrimonio architettonico-ambientale della Regione Toscana, cat. mostra (Parigi, 1984), Firenze 1986, p. 59. 2 « Per queste costruzioni saranno ammessi solo interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria, restauro e risanamento conservativo» (LRT n. 10/1979, Norme urbanistiche transitorie relative alle zone agricole, art. 1). Si ricorda inoltre che, facendo seguito alla L 457/1978 (Norme per l’edilizia residenziale), la Regione Toscana introduceva, con la LRT 59/1980 (Norme per gli interventi per il recupero del patrimonio edilizio esistente), le classi di intervento sul patrimonio edilizio: «a) manutenzione ordinaria; b) manutenzione straordinaria; c) restauro e risanamento conservativo; d) ristrutturazione edilizia; e) ristrutturazione urbanistica» (art. 2). 3 Gian Franco Di Pietro (Lugo di Romagna, 1935), architetto, urbanista e pianificatore, è stato professore di Progettazione urbanistica alla Facoltà di Architettura dell’Università di Firenze dal 1980 al 2008. Ha redatto, tra l’altro, i PRG di Seravezza (1974), Pietrasanta (1987), Anghiari (1999), San Gimignano (2004), Foiano della Chiana (2008); i Piani per i centri storici di Lugo di Romagna (1968), San Giovanni Valdarno (1975), Sansepolcro (1977), Montevarchi (1984), Betlemme (2008) e i Piani territoriali di coordinamento delle Province di Arezzo (2000) e Siena (2000). Dalla sua produzione bibliografica: E. Detti, G.F. Di Pietro, G. Fanelli, Città murate e sviluppo contemporaneo. 42 centri della Toscana, CISCU, Lucca 1968; G.F. Di Pietro, G. Fanelli, La Valle Tiberina toscana, Firenze 1973; G.F. Di Pietro, Atlante della Val di Chiana. Cronologia della bonifica, Regione Toscana/Debatte, Livorno 2006; Id., Atlante della Val di Chiana. Le fattorie granducali, Regione Toscana/Debatte, Livorno 2009. 231
è incaricato della redazione della Variante, che nel 1984 è portata ad approvazione4. Nelle pagine che seguono vedremo come le Varianti per le zone agricole di alcuni Comuni della ghirlanda collinare fiorentina, redatte ai sensi della 10/1979, pur precedendo di qualche anno la definizione formale della pianificazione paesaggistica avvenuta a partire dal 1985 con la legge Galasso, abbiano costituito un capitolo precoce, precipuamente toscano, di pianificazione dei paesaggi rurali storici.
La pianificazione del paesaggio nell’area fiorentina e le varianti ai PRG A fine anni ‘50 il territorio fiesolano è immortalato in un volume fotografico: Il paesaggio fiorentino di Francesco Rodolico5. A tutta pagina, le foto in bianco e nero raffigurano, per ciò che attiene all’area di cui stiamo trattando: Fiesole e Settignano; le cipressete di Vincigliata; le giravolte dell’Arno al Girone (prima della loro diffusa cementificazione); la particolare visione che si coglie dalla strada per Bologna della valle del Mugnone, modellata nelle argille scagliose e costretta a Sud dal duro contrafforte arenaceo che la separa dalla Piana fiorentina, sul quale si staglia Fiesole; le terrazze ascose di Fontelucente; le cave di macigno del Montececeri; le case rurali, le aie. Poco più di vent’anni dopo, il fronte collinare fiorentino costituisce un esteso «fronte di lotta», scrive Di Pietro nel 1986, di resistenza all’«egemonizzazione dell’extraurbano da parte dell’urbano»6 che produce effetti casuali, imprevedibili da luogo a luogo, dovuti al cambio epocale dello stile di vita nelle campagne italiane. La campagna periurbana fiorentina, si legge nella Relazione alla variante fiesolana, «è divenuta un intreccio inestricabile di flussi contraddittori, di esodo e ritorni, di tensione produttiva e di consumi parassitari, di abbandono e riappropriazione, di invecchiamento e di riscoperta giovanile, un intreccio di culture e di comportamenti diversi e spesso conflittuali, soverchiati dal concomitante progredire delle dinamiche naturali di degrado e di regressione del “costruito” e degli assetti vegetazionali»7. Il «fronte di resistenza collinare» comprende, oltre a Fiesole, i territori comunali di Sesto Fiorentino, Bagno a Ripoli, Scandicci: molteplici gli sforzi in essere già a cavallo tra anni ‘70 e ‘80, finalizzati alla conservazione dei paesaggi rurali storici e alla gestione delle loro mutazioni. Esempio riconosciuto è la salvaguardia delle colline attuata dal PRG fiorentino di Edoardo Detti (1962). La Variante al PRG del Comune di Bagno a Ripoli, avviata precocemente (19728) e redatta da un nutrito gruppo di lavoro guidato da Giorgio Pizziolo, sarà approvata nel 1979. La variante Pizziolo, che assume il territorio rurale come «centro storico 4 Adottata dal Consiglio comunale il 3 marzo 1983, sarà approvata con delibera della Giunta regionale n. 9205 del 10 settembre 1984. 5 F. Rodolico, Il paesaggio fiorentino, Le Monnier, Firenze 1959. Al paesaggio fiesolano sono dedicate, oltre alla copertina, sedici delle cinquantadue immagini ivi pubblicate. 6 Di Pietro, Fiesole, le aree collinari: la variante al Prgc al territorio extraurbano, cit., p. 66.. 7 Id., Variante al Prg per le zone agricole. Relazione, dattiloscritto, Comune di Fiesole, 1984, p. 2. 8 Traggo l’informazione dalla relazione di G. Pizziolo riprodotta in «AT. Mensile d’informazione degli architetti della Toscana», (n. monogr. che raccoglie gli atti della tavola rotonda Normativa edilizia nelle aree agricole, Firenze, 18 febbraio 1983), n. 2, 1983, p. 7. 232
Fig. 1 La collina fiesolana in una foto di lavoro per la stesura della “Variante per le aree agricole del Comune di Fiesole” (ripresa fotografica di Gian Franco Di Pietro).
diffuso»9, parte dalla constatazione che le campagne siano «sottoutilizzate»: la funzione ormai esclusivamente residenziale corrisponde alla «banalizzazione» del territorio stesso. La variante si articola per progetti, tra cui quello per il parco fluviale per l’Arno, che integra agricoltura contadina, naturalizzazione dei corsi d’acqua per l’autodepurazione delle acque, e recupero edilizio degli opifici idraulici; in uno spirito pienamente ecologista di chiusura dei cicli, il Piano gioca con il dinamico fluire delle acque e delle idee secondo i principi espressi nell’opera di Gregory Bateson10. In destra d’Arno, sul fronte settentrionale dei rilievi che fanno da cornice alla piana, una ricerca sul paesaggio del Monte Morello finalizzata alla formazione di un parco territoriale, condotta sotto la responsabilità scientifica di Di Pietro11, servirà di base alla Variante per le zone agricole del Comune di Sesto Fiorentino, a sua volta coordinata con la coeva variante fiesolana, firmate entrambe dall’urbanista romagnolo.
9 G. Pizziolo, Dalla pianificazione urbanistica delle aree extraurbane alla progettazione del parco fluviale dell’Arno: l’esperienza di Bagno a Ripoli, in Salvaguardia del paesaggio, cit., p. 49. 10 Cfr. Id., Il parco fluviale dell’Arno. Progetto di fattibilità, in Salvaguardia del paesaggio, cit., pp. 53-58; Un parco fluviale per l’Arno, a cura di G. Pizziolo, in «Parametro», n. 145, 1986. 11 G.F. Di Pietro, G. Errera, L. Omodei Zorini, P. Piussi, Il parco territoriale di Monte Morello. Analisi delle risorse e metodologia di intervento per la formazione dei parchi territoriali nell’area fiorentina, Provincia di Firenze, ivi 1979. 233
La Variante fiesolana per le zone agricole Gli obbiettivi della Variante per le zone agricole del Comune di Fiesole sono sintetizzati dall’assessore Nuzzo in due principi: «no al monumento, sì al documento» esprime il principio fondativo della variante, ossia l’estensione del valore di monumento a tutto il territorio rurale storico, secondo quanto sancito per la città antica dalla Carta di Gubbio (1960), superando così i criteri esclusivi delle leggi del 1939; e «no alla ristrutturazione, sì alla manutenzione» che corrisponde invece, in estrema sintesi, all’esaltazione delle competenze diffuse territorialmente e al progetto nella continuità storico-geografica; questo principio introduce una gradualità degli interventi ammessi, connessa a una scala di giudizio valoriale del manufatto espressa nell’Elenco di cui parleremo più avanti. La strategia del piano è improntata alla conoscenza capillare del territorio in quanto «prodotto storico e culturale» (o «storicizzato», come allora si diceva), alla schedatura degli elementi di valore e alle relative espressioni di giudizio. «Gli indici [urbanistici] si erano dimostrati pericolosissimi, perciò – afferma Di Pietro – nella Variante di Fiesole non furono impiegati. Guida alle trasformazioni furono il riconoscimento delle qualità paesaggistiche e la restrizione dell’attività edilizia»12. La variante fiesolana – che insiste su un territorio comunale coperto quasi interamente da vincoli paesaggistici ai sensi della L 1497/193913 – si innesta su una normativa già assai rigida e restrittiva per le zone omogenee “E” (agricole), le quali sostanzialmente risultano, in base alle previsioni di Piano, «congelate»14.
Fisionomia agricola e azzonamento La Carta di uso del suolo della variante fiesolana è un aggiornamento delle destinazioni catastali «controllata sul posto, azienda per azienda»15. Merita scorrerne la legenda, che comprende: «Seminativo semplice; Seminativo arborato; Uliveto; Uliveto rado; Ulivetovigneto; Vigneto tradizionale; Vigneto meccanizzato; Frutteto; Prati falciabili; Cespuglieti /cespuglieti arborati /sodaglie; Bosco ceduo; Bosco di alto fusto; Rimboschimenti recenti; Coltivi abbandonati [a loro volta distinti in seminativo, seminativo arborato etc.]; Coltivi abbandonati convertiti a prato falciabile; Coltivi abbandonati trasformati in cespuglieti / cespuglieti arborati / sodaglie; Coltivi abbandonati trasformati in bosco ceduo; Coltivi abbandonati trasformati in bosco misto; Bosco degradato»16. Con linea tratteggiata viene indicato il limite di uso del suolo omogeneo non corrispondente alla particella catastale originale; segni supplementari indicano il 12 Dal dialogo tra Di Pietro e chi scrive risalente al 30 gennaio 2015. 13 Per questi aspetti rimando al mio La pianificazione dei paesaggi storici fiesolani nella “Variante per le aree agricole del Comune di Fiesole” (1984), in «ASUP», n. 5 2017, pp. 174-180 (in stampa). 14 Dal dialogo tra Antonello Nuzzo e l’autrice del 2 febbraio 2015. Cfr. anche Comune di Fiesole, Norme di attuazione del Piano regolatore del Comune, 1974. 15 Di Pietro, Fiesole, le aree collinari: la variante al Prgc al territorio extraurbano, cit., p. 60. 16 Cfr. Variante al Prg per le zone agricole. Carta dell’uso del suolo, 1:5.000, Comune di Fiesole, 1984. 234
passaggio da cespuglieto arborato a bosco di alto fusto di pregio, e da bosco ceduo a seminativo. Nelle tavole dell’uso del suolo – e nell’Elenco degli edifici esistenti che vedremo a breve – è messa in atto una classificazione di ascendenza illuminista, potremmo dire ottimisticamente totalitaria, con una casistica enciclopedica che registra non solo l’esistente, ma anche il percorso che ha portato allo stato presente, particella per particella, campo per campo, casa per casa. La catena evolutiva è illustrata, registrata, per entrare nel nomos e nel progetto. La Variante suddivide in una molteplicità di voci ciò che nella prassi urbanistica è genericamente indicato come «zona omogenea E»: zone di crinale; zone collinari A (a indirizzo colturale misto, art. 7); zone collinari B (a oliveto specializzato, art. 8); zone di fondovalle; zone boscate normali; zone speciali (suddivise in: zone coltivate con particolare valore ambientale e paesaggistico; zone boscate con particolare valore ambientale e paesaggistico; zone di uso pubblico; demanio ferroviario; zone A2 riferite a borghi agricoli; zone di valore storico-paesaggistico; parchi privati; aree comprendenti attrezzature di interesse comune). In nessuna di esse è ammessa la nuova costruzione, se non di nuovi annessi agricoli in conformità con le prescrizioni delle NTA (art. 5). Alcuni esempi danno la cifra dell’incidenza che la variante è supposta poter esercitare sulla tutela paesaggistica: – nelle «zone di crinale», il PPUA (alla cui attuazione, ricordiamo, è vincolata la trasformazione edilizia) potrà prevedere: «prati-pascoli, foraggere, cereali, allevamento ovino, bovino, equino e di animali da cortile, selvicolture. Non è ammesso
Fig. 2 Il nucleo di Fontelucente si affaccia sulla valle del Mugnone che incide energicamente il fronte occidentale della collina di Fiesole (da: Francesco Rodolico, Il paesaggio fiorentino, Firenze, Le Monnier, 1959). 235
il rimboschimento dei crinali e delle aree attuali a prato-pascolo» (NTA, art. 6); – nelle «zone collinari A», cioè a indirizzo colturale misto, la superficie fondiaria minima al fine di consentire interventi edilizi come previsto dalla citata legge regionale 10/1979, non potrà essere inferiore a: «3 ha per vigneti e frutteti specializzati; 4 ha per oliveto specializzato e seminativo irriguo; 6 ha per colture seminative, seminativo arborato, prato, prato irriguo» (NTA, art. 7). Il PPUA potrà prevedere, sempre nell’ambito della policoltura, un incremento massimo del 20% del vigneto specializzato e del 10% delle colture orticole. Le strade, i fossi, gli scoli, le siepi di confine, assumono un ruolo fondamentale nel disegno del suolo, nell’organizzazione della struttura visiva del paesaggio. Pertanto la viabilità – classificata in viabilità di carattere regionale e intercomunale, di carattere comunale (strade asfaltate e non), di distribuzione residenziale, di servizio agricolo –, se di antica formazione, «non può essere modificata nelle sue caratteristiche fondamentali: sezioni, sistemazioni a retta, alberature di arredo, ecc.; i muri a retta dovranno essere mantenuti nella configurazione originaria»17.
L’unità poderale I poderi sono considerati l’elemento fondante della sintassi del paesaggio mezzadrile in cui gli «elementi della struttura “si tenevano” secondo rapporti spaziali necessari, di densità, frequenza, localizzazione specifiche, forme e materiali, a comporre un sistema territoriale ordinato, attraverso il quale il sistema economico generava, anche, qualità ambientale e bellezza»18. La permanenza del podere (formato da casa e terreno) come struttura agraria gestionale unitaria assicura la tutela del paesaggio, viceversa il frazionamento dei fondi si dimostra come una delle principali cause di degrado paesaggistico19. È opinione degli estensori della Variante che l’unità poderale casa-terreno sia da preservare, incoraggiare e promuovere con aiuti finanziari etc., anche nell’ottica di una tutela del lavoro agricolo20. Nella «convinzione della necessità assoluta della tutela»21 che anima la Variante, il podere agricolo, in quanto nucleo generatore del paesaggio, diventa oggetto centrale di salvaguardia: rispetto a quanto previsto dalla legge regionale 10/1979, la relazione tra trasformazione edilizia (incoraggiata dalla stessa legge 10) e PPUA (Piano pluriennale di utilizzazione aziendale) è rafforzata e, potremmo dire, perfino esasperata dalla Variante. Un esempio: l’art. 33 delle Norme di attuazione della variante medesima sancisce che il cambiamento di destinazione d’uso dell’edificio – e in particolare la sua deruralizzazione, ovvero il passaggio da edificio rurale a civile abitazione – è «soggetto a concessione» in conseguenza del piano aziendale (PPUA) redatto ai sensi 17 NTA, art. 25. 18 Di Pietro, Variante al Prg per le zone agricole. Relazione, cit., p. 1. 19 Così nella relazione di A. Nuzzo riprodotta nel citato numero di «AT mensile d’informazione degli architetti della Toscana», 1983, n. 2, p. 4. 20 Da un’affermazione di Di Pietro nel citato dialogo con l’autrice, del gennaio 2015. 21 Da D. Vannetiello, Dialogo [con G.F. Di Pietro], in Id., Verso il progetto di territorio. Luoghi, città, architetture, Aión, Firenze 2009, p. 188. 236
Fig. 3 Casa colonica Livello nel territorio comunale di Fiesole (foto di G.F. Di Pietro).
Fig. 4 Pianta della casa colonica Livello, tratta dall’Elenco degli edifici esistenti della Variante al PRGC per le aree agricole del Comune di Fiesole (1984). 237
delle norme di attuazione, ossia in continuità con le regole storiche di gestione agraria. Come dire che la deruralizzazione, cioè il definitivo distacco della casa dalla terra, è concessa se, e solo se, il fondo su cui la casa si trova è mantenuto a coltura secondo canoni paesaggistici di ascendenza storica. Una convenzione regola il rapporto tra concessore (Comune) e proprietario. Per tutta la durata della convenzione (a Fiesole venti anni, che raddoppiano i dieci anni minimi indicati dall’art. 5 della LRT 10/1979), il proprietario impegna «sé e i suoi successori»22 (nella 10/1979: sé e «gli aventi causa») a non suddividere il podere, secondo il formulario tipico della mezzadria classica toscana: «promisit et obligavit per se et suos heredes»23.
L’architettura rurale Se da una parte la deruralizzazione dell’edificio è concessa in cambio della messa a coltura del podere, dall’altra la trasformazione della casa dovrà essere fermamente regolata e guidata. È necessario perciò, innanzitutto, censire il patrimonio edilizio storico fiesolano: l’Elenco degli edifici esistenti, che ha valore conformativo e prescrittivo, comprende la «globalità degli edifici originati dalla civilizzazione agricola del territorio»24, anteriori cioè al 1940. Tra di essi si annoverano gli edifici notificati ai sensi della legge di Tutela delle cose di interesse artistico e storico (L 1089/1939), nonché gli «altri edifici di rilevante valore architettonico e ambientale»25 (RVAA) e quelli di valore architettonico e ambientale (VAA), come registrati nell’Elenco redatto ai sensi dell’art. 4 lett. B num. 3 delle norme di attuazione. Si noti che, già a partire dai primi anni ’70, nei PRG di Seravezza e Pietrasanta, Di Pietro aveva impiegato il censimento della casa colonica come parte dell’«approccio alla consistenza reale del territorio in tutte le sue emergenze qualitative»26, facendone derivare la «estensione delle zone “A” [ex DM 2 aprile 1968] a tutti i manufatti edilizi appartenenti alla civilizzazione preindustriale del territorio»27; medesimo approccio era stato seguito alla metà del decennio nella schedatura del patrimonio edilizio 22 Cfr. lo Schema di convenzione tipo per le realizzazioni allegato a Comune di Fiesole, Variante al Prgc per le zone agricole. Norme di attuazione. Piani coordinati di Sesto [Fiorentino] e Fiesole, s.d. [1984]. 23 Da un contratto del 10 ottobre 1202 cit. in I. Imberciadori, Mezzadria classica toscana con documentazione inedita dal ix al xiv sec., Vallecchi, Firenze 1951, p. 84. 24 Di Pietro, Fiesole, le aree collinari: la variante al Prgc al territorio extraurbano, cit., p. 64. 25 Così nelle lett. A e B dell’art. 32 delle NTA. 26 Dal citato Dialogo con G.F. Di Pietro in Vannetiello, Verso il progetto di territorio, cit., p. 188. Cfr. anche G.F. Di Pietro, La scheda del censimento delle abitazioni rurali del Casentino, in «Paragone», n. 18, 1979, pp. 85-89. Il ruolo della conoscenza capillare del patrimonio rurale nella pianificazione è sottolineato a più riprese nella produzione bibliografica dell’urbanista: cfr. Di Pietro, Fanelli, La Valle Tiberina, cit.; G.F. Di Pietro, Per la storia dell’architettura della dimora rurale: alcune premesse di metodo, in «Archeologia medievale. Cultura materiale, insediamenti, territorio», 1980, n. VII (Per una storia delle dimore rurali), pp. 343-361; Id., Le case del territorio certaldese, Vallecchi, Firenze 1984; Id., Case coloniche della Valdichiana. Monte S.Savino, Marciano, Lucignano, Foiano, Cortona, Arezzo 1988; Id., La casa rurale lugheseravennate, in «Atti IRTU», 1989-90, pp. 69-75. 27 G.F. Di Pietro, Strumenti urbanistici e identità del territorio, in«Parametro», 69, 1978, p. 39. 238
finalizzata alla costituzione del parco territoriale di Monte Morello (1975-1976)28. Tali esperienze vengono poi riversate nella redazione, immediatamente successiva, degli Elenchi sestese e fiesolano. L’Elenco è formato da quattrocento schede di edifici, «classificati in base al valore storico-culturale ed ambientale, rilevati nei riferimenti planimetrici e analizzati nella datazione, tipologia, dotazione di impianti e annessi, stato di conservazione, uso attuale e potenzialità»29. L’indagine si articola su tre livelli: il meccanismo distributore; i dettagli e gli elementi dell’architettura30; le relazioni edificio-ambiente. L’analisi tipologica, la descrizione dei prospetti e la pianta che corredano ogni scheda edilizia, orienta il taglio per le varie unità edilizie, discrimina gli interventi possibili e prospetta ambiti di compatibilità trasformativa. Infatti, scrive lo stesso Di Pietro, «l’architettura di antica formazione, come quella rurale o dei centri storici, non è pura quantità, all’interno della quale si possono ritagliare arbitrariamente parti minori secondo bisogni disparati; è bensì un fatto organico già costituito con proprie regole e logiche interne di formazione e di crescita; solo rapportandosi a queste regole, e partendo da queste, è possibile il riuso non distruttivo»31. Secondo gli estensori del piano, il frazionamento degli edifici – che avrebbe contribuito a limitare la selezione sociale dei residenti – deve essere rigorosamente indirizzato: il processo storico di formazione del fabbricato e l’esistenza (o meno) di aggregazioni di parti dotate di individualità architettonica (tutto registrato puntualmente nell’Elenco), fungeranno da guida in tale operazione. Viceversa, per quanto riguarda le case di «progetto unitario» (sincroniche) o le case diacroniche che abbiano tuttavia assunto aspetto unitario, non sono ammessi ulteriori frazionamenti oltre quelli eventualmente già esistenti; eccezion fatta per gli edifici di pendìo che «presentano una duplicità di fronti (di norma, ingresso del rustico a valle ed ingresso dell’abitazione a monte) e diversi spazi aperti (aie) di pertinenza»32. Ai sensi della LRT, le classi di intervento ammesse per gli edifici di rilevante valore architettonico sono: manutenzione ordinaria, manutenzione straordinaria, restauro e risanamento conservativo. L’articolo 35 delle NTA, che regola la manutenzione straordinaria, è una summa normativa; questi i commi: intonaci; infissi esterni; dispositivi di oscuramento; porte esterne; rifacimento della sistemazione esterna; pavimentazioni e marciapiedi; pavimentazione dell’aia; arredo vegetale; recinzioni; 28 Cfr. la tav. 4 del Censimento dei manufatti e delle infrastrutture del territorio, scala 1:10.000 (in Di Pietro et al., Il parco territoriale di Monte Morello, cit.) che suddivide gli edifici in base a: struttura tipologica (villa, casa colonica, edificio religioso, molino); giudizio di valore (che può essere architettonico, ambientale o indifferente); uso attuale (originario, abbandonato, residenza singola, residenza collettiva, attrezzatura per il tempo libero, servizi scolastici, conventi e monasteri); alterazioni morfologiche (leggere, gravi, totali). 29 Di Pietro, Fiesole, le aree collinari: la variante al Prgc al territorio extraurbano, cit., p. 61. 30 Proprio tale livello, particolarmente per ciò che attiene agli aspetti “pubblici” dell’edificio colonico, è stato articolato e approfondito, a distanza di anni, in I. Agostini, La casa rurale in Toscana. Guida al recupero, Hoepli, Milano 2011. 31 [G.F. Di Pietro], Variante al Prgc per le zone agricole. Sintesi della relazione. Informazioni sul contenuto e sulle norme di attuazione, Comune di Fiesole, 1983, p. 9. 32 NTA, art. 38, lett. B.3. 239
sistemazioni del terreno; rifacimento dei pavimenti interni ed esterni; tetto; gronda; «gioghetto»; realizzazione di chiusure o aperture interne; apertura di nuove finestre. In merito a quest’ultimo capitolo – l’apertura di nuove finestre –, emerge la particolare attenzione per la storia del manufatto e per l’intenzionalità del progetto diacronico; vi si legge: «Nel caso di facciata storicamente stratificata (riconfigurata con interventi successivi), non è ammesso riaprire finestrature tamponate appartenenti alla stesura originaria nel caso in cui la stesura raggiunta e consolidata presenti una precisa e definitiva configurazione architettonica. È ammessa la riapertura di finestre tamponate appartenenti alla fase consolidata»33. Quanto al già richiamato frazionamento delle unità immobiliari, le norme tecniche prescrivono l’unitarietà dell’area di pertinenza a divisione avvenuta (cioè, niente recinzioni, né cancelli multipli etc.).
Elementi di critica La Variante, di cui è stata riconosciuta la coerenza, la severità, la vastità di portata, sembra – a suo modo – tener di conto delle istanze ecologiste che proprio in quegli anni stanno prendendo forma (peraltro anche in territorio fiesolano) grazie a movimenti di base e organizzazioni politiche: la «ruralizzazione ecologica»34, propugnata dagli ecologisti quale espressione territoriale del dispiegarsi dell’economia di sussistenza, nella forma di un «paesaggio commestibile» che stringe d’assedio le città «chiuse in riserve», non ha obbiettivi dissimili da quelli perseguiti dalla Variante; le vie per la sua attuazione tuttavia divergono nettamente: di carattere normativo-scientifico nella variante fiesolana, attinente alla sfera spirituale presso i «deep ecologists»35. Proviene da quest’ultimo ambiente culturale – l’ecologia profonda – una critica radicale che lamenta la timidezza del Piano: per gli ecologisti, la Variante avrebbe dovuto infatti eleggere a discrimine la «wilderness», ossia la capacità rigenerativa della Natura: ne discende, ad esempio, la richiesta ecologista di indicare nelle NTA come «obbligatorio ed esclusivo»36 l’uso del preromano aratro a chiodo (non invasivo né distruttivo della vitalità dei suoli). Anziché accrescere l’obbligo di «procedure burocratiche» che, invece di liberare la vita contadina, contribuivano a soffocarla, le prescrizioni avrebbero dovuto far leva sul saper fare contadino e sulle tecniche del lavoro agricolo; lavorare sull’uomo anziché sulle carte. Un’osservazione certamente sui generis, testimone tuttavia di fiducia sconfinata nell’urbanistica. Ma i tempi erano diversi da quelli attuali; del resto, 33 NTA, art. 35, n. 13. 34 Sul progetto ecologista di riconciliazione tra città e campagna, si veda I. Agostini, Il diritto alla campagna. Rinascita rurale e rifondazione urbana, Ediesse, Roma 2015. 35 Il riferimento è al movimento ecologista con base a Ontignano (Fiesole) che, tutt’oggi, si riconosce nelle attività dell’associazione “La Fierucola”, fondata proprio nel 1984 (cfr. Agostini, Il diritto alla campagna, cit.). 36 G.F. Di Pietro, Paesaggio o ambiente?, in D. Poli, Progettare il paesaggio nella crisi della modernità. Casi, riflessioni, studi sul senso del paesaggio contemporaneo, All’insegna del Giglio, Firenze 2002, p. 32. Anche in questo saggio, il progettista esprime la sua diffidenza nei confronti della cultura ecologista che conferirebbe la preminenza all’«indice di naturalità», «quando invece a me interessa l’indice di umanizzazione» (ibidem). 240
Fig. 5 Casa colonica La Cipressa nel territorio comunale di Fiesole (foto di G.F. Di Pietro).
Fig. 6 Pianta della casa colonica La Cipressa, tratta dall’Elenco degli edifici esistenti della Variante al PRGC per le aree agricole del Comune di Fiesole (1984). 241
afferma lo stesso Di Pietro in un recente dialogo con la scrivente, «anche in Comune qualcuno pensava che l’urbanistica non fosse completamente inutile».
Il contributo della Variante fiesolana nella pianificazione dei paesaggi rurali toscani L’analisi capillare scientificamente fondata, la categorizzazione e tipizzazione dei paesaggi rurali, l’attenzione ai caratteri figurativi di tali paesaggi e dell’architettura rurale, l’estensione del valore patrimoniale all’intero territorio agricolo, sono caratteri che si prolungano nei PTCP37 delle provincie di Siena e di Arezzo, coordinati dallo stesso Di Pietro tra anni ‘90 e 2000. Tali PTCP si distinguono infatti, nel panorama pianificatorio, per il metodo rigoroso di analisi esteso ai valori paesistici del territorio nella sua interezza che viene ripartito in ambiti e descritto in schede, funzionali alla definizione della pianificazione di livello comunale. La tutela della fruizione paesistica «dei» monumenti e «dai» monumenti, e dell’intorno agricolo di case sparse, nuclei e piccole città è l’occasione per un interessante tentativo di protezione pertinenziale38 che si esplicita nel vincolo di inedificabilità. Riteniamo di poter affermare che l’attuale ultimo capitolo della pianificazione paesaggistica, in capo oggi alla Regione e al Ministero dei beni culturali e ambientali, e finalmente rappresentato dal PIT con valenza di piano paesaggistico (PIT-PP, con il coordinamento scientifico di Paolo Baldeschi, assessore Anna Marson), assume la lezione di Franco Di Pietro: nell’atlante I paesaggi rurali storici della Toscana39, ad esempio, riconosciamo l’apporto dell’esperienza che parte dalla Variante fiesolanosestese, benché il necessario passaggio alla scala regionale affievolisca la precisione del dettaglio analitico. Il PIT-PP applica i principi operativi dell’esperienza fin qui descritta, evolutisi e articolatisi nei successivi trent’anni; tra questi: l’idea forte della tutela (che nella logica del piano “territorialista” è garantita dall’integrazione dell’ottica vincolistica con la codificazione di «regole generative e coevolutive rispetto a un orizzonte temporale di lunga durata»40); l’attenzione cartografica; la ricerca di puntualità nella schedatura; l’importanza conferita al «progetto di territorio» come parte integrante del Piano.
37 In Toscana, i Piani Territoriali di Coordinamento Provinciale (PTCP) assumono valenza paesaggistica con la legge urbanistica regionale n. 5/1995. 38 Cfr. G.F. Di Pietro, T. Gobbò, Il paesaggio come fondamento del PTCP di Siena, in Il piano territoriale di coordinamento della Provincia di Siena (numero monografico), in «Urbanistica Quaderni», n. 36, 2002, pp. 116-118; Il piano territoriale di coordinamento della Provincia di Arezzo (n. monogr. a cura di G.F. Di Pietro, S. Bolletti), in «Urbanistica Quaderni», 40, 2004. 39 Consultabile su http://www.regione.toscana.it/-/piano-di-indirizzo-territoriale-con-valenza-di-piano-paesaggistico (ultima visita: 6 dicembre 2016). 40 Regione Toscana, Piano di indirizzo territoriale con valenza di piano paesaggistico. Relazione generale, 2015, p. 6. Si veda anche A. Marson (a cura di), La struttura del paesaggio. Una sperimentazione multidisciplinare per il Piano della Toscana, Laterza, Roma-Bari 2016. 242
La masseria pugliese
Saverio Russo
Derivato dal tardoromano massa fundorum, il termine massaria definisce nella Puglia medievale – non solo in quella regione – «realtà economiche e insediative molto diverse», connotando generalmente «ogni forma dell’insediamento umano nel territorio rurale che, pur con forme di proprietà, strutture e funzionalità variamente differenziate, si sia qualificata come centro di produzione e di organizzazione del lavoro agrario e dell’insediamento»1. Corrispondenze insediative, e non tanto continuità di funzioni o di struttura architettonica, portano frequentemente dalle masserie medievali fino a quelle di età moderna e, come vedremo, a quanto di queste rimane ai nostri giorni. In questo contributo ci soffermeremo in modo particolare su una particolare accezione del termine, che si riferisce alle aziende cerealicole, o cerealicolopastorali, o pastorali, a carattere prevalentemente estensivo, con superfici di molto superiori ai 100 ettari e spesso ai 200 ettari2, e a tutto il complesso di fabbricati di cui l’azienda è provvista3. L’area di insediamento di questa particolare tipologia aziendale va dal Tavoliere settentrionale, al confine con il Molise, allo Ionio tarantino, passando per la Murgia barese e la Fossa premurgiana, un’area innervata dalla ricca rete tratturale foggiana e dalla più occidentale delle vie pastorali, il tratturo Melfi-Castellaneta. Si tratta di una zona fortemente marcata, sicuramente fino al secondo Ottocento, dalla prevalenza del sistema cerealicolo-pastorale, che comincia ad essere intaccato, a cavallo dell’Unità, dalla diffusione delle colture legnose (oliveto e vigneto) in alcune aree del Tavoliere foggiano e nel nord Barese4. La trasformazione olivicola e viticola di parte delle grandi 1 R. Licinio, Masserie medievali. Masserie, massari e carestie da Federico II alla Dogana delle Pecore, Mario Adda editore, Bari 1998, pp. 10-11. 2 Nel Tavoliere pugliese, le masserie pastorali erano e talvolta sono ancora definite «masserie o poste di pecore», mentre «di campo» sono quelle cerealicole. 3 Ci farà da guida in questa analisi il fondamentale volume di Carmelo Colamonico, con contributi di Osvaldo Baldacci, Andrea A. Bissanti, Luigi Ranieri e Benito Spano, La casa rurale nella Puglia, Olschki, Firenze 1970 (uno dei volumi della grande ricerca sulla casa rurale in Italia promossa dal CNR e diretta da Giuseppe Barbieri e Lucio Gambi). 4 Cfr. S. Russo, Paesaggio agrario e assetti colturali in Puglia tra Otto e Novecento, con il con243
aziende cerealicole rifunzionalizza una parte della precedente masseria, aggiungendo nuovi corpi di fabbrica. Si tratta di strutture insediative che non individuano, di norma, nelle masserie cerealicole, una forma di residenzialità permanente, se non per un numero limitato di unità di personale, addette al governo degli animali da lavoro e ad alcune funzioni di coordinamento, mentre nelle poste ovine, soggette al regime della transumanza, la presenza del personale di custodia è limitato, in Puglia, ai mesi da novembre ai primi di maggio, quando il gregge riprende la marcia verso le montagne abruzzesi, per ridiscenderne dopo fine settembre5. Per quel che concerne il mondo della cerealicoltura, il sistema produttivo prevede un ricorso costante al lavoro migrante, per operazioni stagionali come la semina e, soprattutto, la mietitura e, comunque, un pendolarismo spesso quotidiano tra la masseria e la residenza nelle case dei grandi borghi pugliesi, tanto da connotare quello che è stato definito «nomadismo contadino»6. I borghi si configurano, peraltro, oltre che per la residenza dei lavoratori della terra, come una grande struttura di servizio, ospitando i magazzini dei prodotti (le “fosse” granarie e i fondaci per la lana), il mercato della manodopera e delle merci. La documentazione che di seguito presenteremo si riferisce prevalentemente al Tavoliere foggiano, ma non mancheranno rapidi riferimenti alle altre aree pugliesi7. Occorre ricordare in primo luogo che in buona parte del Tavoliere foggiano soggetto alla transumanza, in cui, fino alla riforma del 1806, i pascoli vengono concessi ai «locati» con affitti annuali o di pochi anni, le «poste» sono costituite da strutture precarie di legname, paglia e frascame. Così le descrive l’agrimensore Agatangelo Della Croce a metà Settecento: «Vi sono […] cinquecento e più Poste, o siano volgarmente chiamati Jacci, con le mandri di legnami, e paglia per custodia de’ pecorini ed altri consimili animali in tempo di notte con li loro pagliari seu capanne
tributo di V. Pepe, Edipuglia, Bari 2001. 5 Sulla transumanza e sul regime amministrativo dei pascoli della Dogana di Foggia, cfr. J.A. Marino, L’economia pastorale nel Regno di Napoli, a c. di L. Piccioni, Guida, Napoli 1992 (ed. or. Johns Hopkins University Press, Baltimore 1988); sulla fase successiva alla Dogana cfr. S. Russo, Tra Abruzzo e Puglia. La transumanza dopo la Dogana, Franco Angeli, Milano 2002. 6 Sul rapporto del territorio agricolo con quelle che sono state definite agrotowns, cfr. A. Massafra, S. Russo, Microfondi e borghi rurali nel Mezzogiorno, in P. Bevilacqua ( a cura di), Storia dell’agricoltura italiana in età contemporanea, vol. I, Spazi e paesaggi, Marsilio, Venezia 1989; pp. 181-228. Sul nomadismo contadino, cfr. A. Sinisi, Migrazioni interne e società rurale in Italia meridionale (secoli XVI-XIX), in «Bollettino di demografia storica», 19, 1993. 7 Un ricco repertorio fotografico sulla masseria pugliese, nelle diverse tipologie, per gli anni Ottanta del Novecento, si trova in L. Mongiello, Le masserie di Puglia: organismi architettonici ed ambiente territoriale, Mario Adda, Bari 1984, A. Calderazzi, Le masserie: l’ architettura rurale in Puglia, Schena, Fasano 1989. A cavallo tra fonti archivistiche e cartografiche ed analisi architettonica di complessi masseriali si muove il volume curato da Dino Borri e Franco Selicato, Studi sulla formazione del paesaggio in età moderna. Masserie di Puglia, Schena, Fasano 1990. Un interessante reportage fotografico sulle tracce del mondo pastorale murgiano è in A. Viggiano, Le pietre dei pastori, Schena-editer, Fasano- Matera 1992. Una ricognizione fotografica e storico-cartografica su ventitré siti legati al mondo pastorale è in S. Russo (a cura di), Sulle tracce della Dogana. Tra archivi e territorio, Claudio Grenzi, Foggia 2008. 244
Fig. 1 Lo “scariazzo” di masseria Torrebianca.
adiacenti di legname, coverti similmente di paglia per ricovero de’ pastori»8. La stabilizzazione del possesso consentita – e imposta – dalla predetta legge di abolizione della Dogana dà il la alla diffusa edificazione di quelle che sono divenute le forme tipiche della posta di pecore: la lunga serie di arcate destinate ad ospitare le pecore per la notte, in leggera pendenza per consentire lo scolo delle deiezioni, denominate scariazze. Più stabile è la struttura della masseria cerealicola, che tende ad inglobare – ma spesso la dinamica è inversa – l’azienda pastorale, dando vita ad aziende miste cerealicolo-pastorali. Una delle tipologie di masseria più diffuse è costituita da un insieme di fabbricati, in ordine più o meno sparso, comprendente: un blocco destinato ad abitazione con casa padronale, quasi sempre a due piani, e, giustapposte ai lati, le abitazioni per i lavoranti fissi («annaroli») e i magazzini per il deposito delle derrate; un complesso con i dormitori per i lavoratori avventizi (cafonerie), la cucina con l’alto camino (fucagna), le stalle per gli animali da lavoro, i depositi dei carri, delle macchine e degli attrezzi. Nella masseria cerealicolo-pastorale si trova anche lo scariazze, con il casone per la lavorazione del latte, la stanza per il massaro e i dormitori per i pastori. A far da raccordo tra i diversi blocchi c’è l’aia, su cui si trebbia, e che ospita alcune fosse per la conservazione dei cereali e gli abbeveratoi. Non infrequentemente, nelle grandi masserie ci sono anche una piccola cappella, una panetteria, la «meta chiusa» per la conservazione della paglia9. Gli elementi, di norma sparsi in pianura, si trovano giustapposti l’uno all’altro nelle aree collinari e talvolta riuniti in un’unica costruzione che tende ad elevarsi. Accanto a queste tipologie, ci sono le grandi masserie monumentali, normalmente più antiche e a due piani con corte interna, spesso fortificate con saittere a garitta pensile o a caditoia, a difesa dai briganti, la cui presenza non è legata solo alle congiunture politiche del Regno. Il primo piano è normalmente destinato all’abitazione del proprietario. 8 Archivio di Stato di Foggia, Dogana, s. I, vol. 20. 9 A.A. Bissanti, Il Tavoliere di Puglia, in Colamonico, La casa rurale in Puglia cit., p. 71. 245
Fig. 2 Impianti catastali del 1895 del complesso masseriale di Tressanti.
Fig. 3 Piante di vari fabbricati della masseria di Santa Maria in Vulgano (1830)
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Fig. 4 Masseria Casone, in abbandono.
Fig. 5 Masseria Resecata tra Foggia e Manfredonia, parzialmente restaurata.
Fig. 6 Masseria Castiglione (Foggia).
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Altra tipologia esistente in passato è quella della masseria-villaggio o masserianucleo, diffusa soprattutto nel Tarantino, dove, a causa della vastità dei terreni da coltivare e della distanza dei centri abitati, gli addetti alla masseria con le loro famiglie vivevano in aggregati anche di cinquanta residenti con, in qualche caso ancora negli anni Cinquanta del Novecento, la scuola rurale, il punto telefonico, la rivendita dei tabacchi e lo spaccio per l’acquisto di beni di prima necessità10. C’è da segnalare, infine –ma prevalentemente per aree ai margini del vasto sistema cerealicolo-pastorale– la tipologia della masseria-casino, destinata a limitate funzioni produttive, con più evidenti caratteri di dimora urbana, ospitando periodicamente, soprattutto nel periodo estivo, la famiglia del proprietario. Non si tratta tuttavia di modelli insediativi statici: se vogliamo restare sul sistema masseriale, legato alla grande proprietà latifondistica, occorre segnalare il parziale – e per certi aspetti effimero – tentativo di “sbracciantizzare” i borghi della Puglia settentrionale, portando i contadini alla residenza sui poderi concessi dall’ONC e poi dall’Ente Riforma, tra gli anni Trenta e i primi anni Cinquanta del Novecento, su terre in parte espropriate11. La costruzione di un migliaio di case rurali e di una decina di borgate nel Tavoliere foggiano non modifica durevolmente le forme dell’abitare, dal momento che negli anni Sessanta l’emigrazione verso il triangolo industriale travolgerà anche molti dei concessionari dei poderi. La prima grande trasformazione della masseria dal punto di vista funzionale si era registrata tra fine Ottocento e inizi Novecento, con la diffusione delle macchine che tendono a sostituire gli animali da lavoro e il lavoro umano. Dapprima sono colpiti i salariati fissi, in precedenza in buon numero adibiti al governo di buoi e giumente, non più necessari con gli stalloni che li ospitavano; più tardi mietitrici e trebbiatrici rendono inutili le enormi cafonerie di un tempo. In parte le vecchie stalle diventano rimesse per le macchine. Inoltre, la diffusione di mezzi di trasporto veloci nel secondo dopoguerra rende non necessaria la permanenza in masseria per gran parte del personale impiegato, se non per quello di custodia. Inoltre, la forte riduzione del numero di ovini allevati – da un milione e trecentomila capi a circa cinquecento mila in un secolo, da fine Settecento a fine Ottocento - rende parimenti sempre più spesso inutili molte delle «poste» edificate in gran numero a partire dai primi decenni del XIX secolo. L’ultima trasformazione si registra con la diffusione del contoterzismo, a partire dagli anni Settanta del Novecento, con la fornitura all’agricoltore di servizi agromeccanici e tecnologici che rendono sempre più frequentemente superflua la dotazione di macchine e personale. Il secondo Novecento vede, inoltre, il venir meno della residenzialità stagionale delle masserie-casino, con il diffondersi, soprattutto dagli anni Sessanta, della villeggiatura al 10 B. Spano, Il Tarantino nord-occidentale, in Colamonico, La casa rurale, cit. Cfr anche di Spano, Insediamenti e dimore rurali della Puglia centro-meridionale (Murgia dei Trulli e Terra d’Otranto), Libreria Goliardica, Pisa 1968. 11 Cfr. F. Mercurio, La frontiera del Tavoliere. Agricoltura, bonifiche e società nel processo di modernizzazione del Mezzogiorno, Amministrazione provinciale di Capitanata, Foggia 1990; L. D’antone, Scienza e governo del territorio. Medici, ingegneri, agronomi ed urbanisti nel Tavoliere di Puglia (1865-1965), Franco Angeli, Milano 1990; S. Russo, F. Mercurio, L’organizzazione spaziale della grande azienda, in «Meridiana», 10, 1990, pp. 95-124. 248
mare o in montagna. Infine, a rendere sempre più disabitate le campagne si sono aggiunti problemi di sicurezza che rendono sempre meno frequente la residenza in masseria. La conseguenza di tutte queste dinamiche è un prevalente abbandono di questo ingente patrimonio edilizio (1035 masserie censite nella sola Capitanata dal Piano Territoriale di coordinamento provinciale di Foggia), che i vincoli del Mibact e la tutela garantita dal piano paesaggistico regionale della Puglia non mettono al riparo dai crolli e dal degrado, in mancanza di politiche coerenti e convergenti di carattere
Fig. 7 Dettaglio di una baracca nel “ghetto” (foto A. Fortarezza)
al riuso per fini produttive, invece della realizzazione di nuovi capannoni accanto
Fig. 8 Foto aerea del “ghetto” (da Google). 249
intersettoriale, che partano in primo luogo dai Piani di sviluppo rurali e che puntino ai ruderi delle vecchie masserie. Non è immaginabile, infatti, una trasformazione di massa in strutture agrituristiche o di ristorazione, che vada molto al di là del livello attuale che ha prodotto, talvolta, irrispettosi stravolgimenti architettonici. E tuttavia all’incirca da venti anni a questa parte, con la diffusione delle colture orticole e industriali in un contesto di globalizzazione che tende ad abbassare i prezzi dei prodotti agricoli (emblematico è il caso del pomodoro), le campagne del Tavoliere tendono a ripopolarsi di lavoratori immigrati, come è tradizione in queste terre, provenienti non più dalle province o dalle regioni contermini, ma dall’est Europa o dall’Africa subsahariana, che trovano precario rifugio in masserie pericolanti o in vere e proprie baraccopoli controllate da caporali, come nel cosiddetto Ghetto di Rignano12. Il riuso parziale delle masserie come “albergo diffuso” – in parte sperimentato dalla Regione Puglia, proprietaria di numerosi manufatti storici, in passate stagioni amministrative, e ricondotto nell’ambito della legalità e di condizioni di vita decenti, potrebbe costituire un futuro possibile per una parte di questo patrimonio edilizio.
12 Sull’argomento, cfr. A. Leogrande, Uomini e caporali: viaggio tra i nuovi schiavi nelle campagne del Sud, Feltrinelli, Milano 2016. 250
I trulli «Architetture senza architetti»
Stefano Rinaldi, Laura Sterlacci
Il titolo la citazione dall’architetto Bernard Rudofsky per indicare i risultati del processo storico che produce architetture magiche senza l’ausilio dello stregone. L’uomo, da specialista dei propri bisogni, ha trovato soluzioni fantastiche. E anche qui, nella Valle d’Itria, ne abbiamo la prova: essa coincide con la parte meridionale dell’Altopiano delle Murge. Nota anche come “Valle dei Trulli”, si estende tra le province di Bari, Taranto e Brindisi comprendendo i comuni di Locorotondo, Martina Franca e Cisternino, con piccole porzioni che ricadono anche nei comuni di Alberobello e Ceglie Messapica. Martina Franca è il comune con la massima altitudine (431 metri slm) e maggiore densità d’abitanti (circa 50.000 ab.) della Valle d’Itria. In età moderna l’economia di questo territorio si è fondata a lungo sulla pastorizia e sull’agricoltura ruotando intorno a piccoli castelli, masserie fortificate e villaggi lungo le vie della transumanza, importante per l’allevamento e le attività commerciali con lo spostamento di greggi dall’Abruzzo al Salento attraverso le Murge. Il fenomeno avveniva in autunno lungo antiche vie di comunicazione dette tratturi e carrari lungo le quali si organizzavano nei borghi attraversati fiere di forte fermento economico. Ancora oggi alcune tracce sono visibili nel paesaggio rurale, portandoci a scoprire e ammirare costruzioni senza tempo, come sono appunto i trulli. «Abitare la terra. Abitare è l’attività continua dell’esistenza umana. Io abito in quanto sono, perché costruisco, coltivo e custodisco, curando con l’arte di vivere il mio luogo di soggiorno. Dimoro nelle svariate forme eterogenee di un mondo caratterizzato dalla connessione dei molteplici elementi coesistenti, manifesti nei diversi modi di coltivare. Abitare è un’abitudine, come indossare un abito, che riflette l’essere al mondo con la disposizione del territorio, creando luoghi e inserendosi nelle trame del tempo. L’abitante si radica nello spazio, seminando con la sua esistenza i segni delle multiformi culture, le epoche e le architetture del nostro mondo, con un’attività generatrice di un processo di paesaggio in un orizzonte visibile»1 1 M. Venturi Ferriolo, La tensione dell’esistenza. Un pensiero di paesaggi senza bordi, Summer School Emilio Sereni, Gattatico 2016. 251
Fig. 1 Vista dei tetti di Alberobello
Dal latino turris, trulla, dal greco tholos, o dal greco-bizantino torullosa, tutti significanti Cupola, sono dei tipici edifici discesi attraverso una millenaria tradizione sino ai tempi nostri. La nascita dei primi trulli risale all’epoca preistorica. Già in questo periodo, infatti, erano presenti nella Valle d’Itria degli insediamenti che portarono alla diffusione dei tholos, tipiche costruzioni a volta usate per seppellire i defunti. Oggi si tratta di un esempio di architettura spontanea, originariamente creata dai contadini nelle campagne. La storia di Alberobello e dei suoi trulli risale alla seconda metà del XVII sec, quando i Conti di Conversano (i conti Acquaviva), feudatari del posto, autorizzavano i contadini a costruire un nuovo villaggio con abitazioni costruite a secco senza utilizzo di malta, in maniera da poterle subito demolire in caso di ispezione regia (i feudatari, infatti, dovevano pagare un tributo al re per la costruzione di nuovi centri abitati). Il contadino cominciava a ripulire il terreno dalle grandi quantità di pietre affioranti e per comodità le utilizzava per realizzare le “casedde” (espressione dialettale per indicare i trulli), monolocali in cui si conservavano gli attrezzi. Piano piano la pianta dell’edificio si è allargata, raddoppiata, moltiplicata fino a raggiungere le dimensioni di una abitazione per famiglie numerose come erano quelle dei contadini. Ed ecco che il laborioso e inventivo lavoro dei contadini della Valle d’Itria, ha prodotto questo nostro paesaggio: terreni geometricamente divisi dai muretti a secco, uliveti e vigneti, mandorli e frutteti e una miriade di trulli (se ne contano a migliaia per la maggior parte utilizzati e in buono stato di conservazione). Nel comprensorio dei trulli, solo la cittadina di Alberobello ha due quartieri interamente a trullo: Rione Monti e Rione Aia Piccola, monumenti nazionali, dichiarati patrimonio dell’umanità dall’ UNESCO nel 1996. (Beni di tipo Paesaggistico – Culturale, rispondono ai criteri di selezione III – IV –V) Un paesaggio, quello dei trulli, tanto pittoresco da sembrare dipinto, un bene così prezioso da dover essere difeso ad ogni costo. «Alberobello è bello, Pittato col pennello, Pittato con l’inchiostro, Alberobello è tutto nostro». La breve filastrocca popolare citata sopra si conclude affermando che: «Alberobello 252
è tutto nostro», un’appartenenza fermamente rivendicata: ma da chi? Dalla popolazione, dalla nazione o dall’umanità tutta intera? Nell’immaginario italiano i trulli di Alberobello rappresentano da un secolo un Sud rurale e arcaico, pittoresco e turistico. Nel 1996 l’Unesco riconoscendo i Trulli come patrimonio dell’umanità, consegnando definitivamente questi insediamenti abitativi così singolari alla cultura e al turismo mondiale. La notorietà di Alberobello prende il via nel lontano 1910, quando quello dei trulli fu il primo paesaggio costruito ad essere tutelato da una legge dello Stato. Questo provvedimento però non fu ben accettato e compreso dalla popolazione locale che come racconta la Dottoressa Annunziata Berrino2, per un secolo l’obbligo di non modificare le proprie abitazioni fu interpretato come una limitazione ingiusta ed estranea, che rendeva ancora più inaccettabili le già difficili condizioni di vita economiche e materiali. Dopo il riconoscimento da parte dell’UNESCO Alberobello e i suoi simbolici trulli hanno superato quello che possiamo definire un travaglio sociale, culturale, amministrativo e politico per la ricerca di un equilibrio che non solo conciliasse i limiti imposti dalla tutela di questi monumenti con le esigenze vitali di una popolazione, ma che garantisse e valorizzasse la disponibilità e la riconoscibilità di Alberobello, nell’immaginario e nella pratica turistica. Caratteristiche architettoniche dei trulli: 1. Il soppalco: Sopra il locale centrale viene allestito un soppalco che funge da deposito per attrezzi agricoli e derrate alimentari o addirittura in alcuni casi utilizzato anche come stanza da letto dei bambini.
2 A. Berrino, I trulli di Alberobello. Un secolo di tutela e di turismo, Il Mulino, Bologna, 2012, p. 156.
Fig. 2 Interno di un trullo 253
2. L’apice: È modellato in calce sulla sommità della copertura della cupola in “chiancarelle”, costituisce il supporto del pinnacolo. 3. I locali: Tutti quadrangolari; i più piccoli, a volte, sono ricoperti non da una cupola, ma da una volta a tutto sesto edificata usando centine di legno. 4. La camera da letto: Il letto matrimoniale tradizionalmente è in ferro battuto, con il copriletto lavorato a mano dalle donne di casa. 5. Il focolare: Nei trulli antichi era costruito sotto la piccola cupola della cucina che fungeva da canna fumaria. Poi con il passare degli anni si sono diffusi anche i caminetti. 6. Entrata principale: Spesso le donne di casa si sistemano davanti all’ingresso e lì, sedute, svolgevano piccoli lavoretti di cucito o si dedicavano alla sgranatura dei legumi. 7. La raccolta dell’acqua: La preziosa acqua piovana, che scorre lungo i solchi alla base dei tetti, viene canalizzata verso una cisterna sotterranea.
I pinnacoli La copertura del trullo si conclude con il pinnacolo. Generalmente è formata da tre pietre soprapposte: una di forma cilindrica, una a forma scodella o di piatto, ed una sfera. Il suo vero significato è tuttora oscuro, ma sono state avanzate diverse ipotesi; c’è chi gli attribuisce valori magici, chi invece pensa che il pinnacolo abbia solo funzione ornamentale, posto sul trullo a complemento dell’opera, secondo le fantasie del trullaro costruttore; ed infine, c’è chi ritiene che il pinnacolo, prima di divenire ornamentale, fosse un segno distintivo, utile al regnante ed imposto da egli stesso. Di sicuro è che i suddetti simboli si ergono dalla cima di tutti i trulli, di varie dimensioni e non solo su quelli di Alberobello ma anche su tutti quelli esistenti sul territorio pugliese.
Fig. 3 Esempi di pinnacoli 254
Fig. 4 Esempi di simboli dipinti sulle caratteristiche coperture dei trulli
I simboli I misteriosi simboli dipinti sul frontone del cono dei trulli sono simboli magici e propiziatori. Alcuni di origine pagana, altri cristiani, ciò perché vi era una multiculturalità all’interno del villaggio. Ad alcuni di questi segni disegnati in calce sulle “chianche” si possono attribuire vari significati ma i più diffusi sono: protezione della famiglia dal malocchio o venerazione di qualche divinità propiziatoria per un buon raccolto. Con il passare del tempo molti di essi sono scomparsi o hanno perso il loro valore originale poiché gli abitanti dei trulli non hanno mantenuto viva quest’usanza iniziata dai loro antenati. «Forse il capolavoro delle Puglie è proprio Alberobello. Non c’è manuale turistico che lo ignori, né libro di geografia per scuole medie che non porti la fotografia dei suoi trulli. Niente invece, in questo paese, che sappia di colore locale. Alberobello è un paese perfetto la cui formula si è fatta stile nel rigore con cui è stata applicata. Dal primo muro all’ultimo, non un corpo estraneo, non un plagio, non una zeppa, non una stonatura. L’ammasso dei trulli nel terreno a saliscendi si profila sereno e puro, venato dalle strette strade pulitissime che fendono la sua architettura grottesca e squisita. I colori sono rigidamente il bianco – un bianco ovattato e freddo, con qualche striscia azzurrina – e il nerofumo. Ma ogni tanto nell’infrangibile ordito di questa architettura degna di una fantasia, maniaca e rigorosa – un Paolo Uccello, un Kafka – si apre una frattura dove furoreggia tranquillo il verde smeraldo e l’arancione di un orto. È il cielo… È difficile raccontare la purezza del cielo, in quella domenica sera, a Alberobello: un cielo inesistente, puro connettivo di luce sulle prospettive fantastiche del paese.»3 3 P. Pasolini, Pasolini, reporter in Puglia, in «La Repubblica», 23 Ottobre 2005. 255
I trulli da semplici abitazioni ad attrazioni turistiche Di un trullo isolato si potrebbe parlare solo con i termini della cristallografia. Tutti i corpi solidi vi sono fusi mostruosamente per dar forma a un corpo nuovo, delicato, leggero. L’impegno degli operatori in campo turistico in azioni formative è quello di assicurare la crescita culturale ed imprenditoriale per competere al meglio nel mercato sempre più difficile dell’offerta turistica. Tutto ciò avviene attraverso un’ottima campagna di promozione turistica che prevede la continua innovazione dell’immagine della città attraverso iniziative come “Alberobello Light Festival” che fin ora ha mostrato ai turisti la bellezza dei trulli esaltandola con la magia delle luci di Natale nel periodo invernale, e dei colorati dipinti di Van Gogh e di altri artisti durante quello estivo. Oggi giorno l’intervento turistico ha di fatto contribuito alla buona riuscita economica (e non solo) della città di Alberobello e della Valle d’Itria. Si può quindi affermare che, i trulli non sono solo un brand con il quale si identifica la nostra zona, ma la vera anima del luogo, valorizzata con l’aiuto dell’amministrazione locale che ha voluto fortemente puntare sul valore d’esistenza e l’utilizzo turistico di queste strutture promuovendone l’ospitalità e il non localismo. Ciò ha permesso agli abitanti locali, i presunti “custodi” di questo tesoro di mantenere innanzitutto il loro valore d’esistenza e d’identità locale sviluppando un’armonia tra gli attori locali e il paesaggio per un costruire futuro. La sensibilità degli abitanti ha permesso di conservare in modo quasi completamente intatto l’intero patrimonio di circa 1500 trulli solo ad Alberobello. B&B, agriturismi, e negozietti di artigianato locale ricavati dal recupero architettonico di queste strutture sono il risultato di una connessione con l’esterno che ha permesso di diffondere e conservare la memoria di queste terre. «Se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà. All’esistenza di orrendi palazzi sorti all’improvviso, con tutto il loro squallore, da azioni speculative, ci si abitua con pronta facilità a dimenticarsi com’erano quei luoghi prima. È per questo che bisognerebbe educare la gente alla bellezza: perché in uomini e donne non si insinui più l’abitudine a la rassegnazione ma rimangano sempre vivi la curiosità e lo stupore.»4
4 G. Impastato, Discorso pronunciato da Luigi Lo Cascio nel film I Cento passi, 2000, scenografia di Claudio Fava, Monica Zapelli e Marco Tullio Giordana. 256
La casa rurale in Irpinia fra la fine dell’Ottocento e gli anni Sessanta
Daniela Stroffolino
In questo periodo di profonda crisi, dopo il crollo del settore immobiliare e quello dell’industria venuta dal nord, la nostra provincia, l’Irpinia, si sta sempre più convincendo che l’unica ancora di salvezza rimane l’agricoltura – oggi intesa anche dal punto di vista turistico e culturale. Gli incentivi rivolti ai giovani che si rivolgono a questo settore sono sempre più rilevanti. Pertanto vale la pena capire qual è la storia della nostra agricoltura, quali i prodotti storicamente compatibili con questa terra, ma anche e soprattutto recuperare la conoscenza del mondo contadino, dalle abitazioni, all’alimentazione, al vestiario, ai giudizi che i vari studi svolti nei due secoli passati, esprimevano su questo settore. L’Irpinia pur essendo una provincia da sempre vocata all’agricoltura non è mai riuscita a trasformare questa, in un’attività produttiva vantaggiosa, rendendola tuttalpiù sufficiente a provvedere alla sopravvivenza dei contadini, il cui lavoro è sempre stato l’unica vera risorsa di questa terra, manchevole di contro, come scrive Valagara, di intelligenza (capacità e volontà di applicare i miglioramenti negli attrezzi da lavoro e nelle tecniche di coltivazione) e di investimenti. Per questo viaggio nel mondo agricolo irpino partiamo dalla Relazione sull’agricoltura, la pastorizia, l’economia rurale nel Principato Ulteriore, scritta da Raffaele Valagara nel 18801 nell’ambito della nota Inchiesta Jacini. In riferimento alle case rurali, sulle quali intendiamo soffermarci essendo ormai l’unica testimonianza materiale di questo settore, anche se in quasi totale stato di abbandono, Valagara stabilisce in primo luogo in che percentuale la popolazione dei tre distretti in cui era divisa la nostra provincia – Avellino, Ariano, Sant’Angelo dei Lombardi - viveva in agglomerati urbani o in case sparse, vicine o sui terreni da coltivare. Il circondario di Avellino, il più popolato dei tre e con un maggiore frazionamento della proprietà fondiaria, presentava un maggior numero di case rurali sparse sulle colline anche per appezzamenti di terreni piccoli, poiché da quanto risultava già dalla indagine statistica svolta da Cassitto nel 1839 per la Reale Società d’Incoraggiamento, la classe dei gentiluomini «era solita dirigere di persona i propri interessi rurali» specie in seguito alle vicende politiche rivoluzionarie che li avevano spinti a spostarsi 1 R. Valagara, Relazione sull’agricoltura, la pastorizia, l’economia rurale nel Principato Ulteriore, Pergola, Tulimiero, Avellino 1880.
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Fig. 1 Casone di Montevaccaro, Lacedonia (AV).
dall’agglomerato dei comuni alle campagne e conseguentemente avevano preso ad interessarsi ai problemi agricoli2. Il circondario di Ariano contava circa 2000 case rurali, considerate poche da Valagara, rispetto alla popolazione agricola che risiedeva quasi totalmente nei comuni. In quello di Sant’Angelo le case erano in numero leggermente superiore, circa 2030. L’indagine di Valagara, confermata da quelle che si susseguirono nel secolo successivo, riscontra una situazione poco favorevole allo sviluppo dell’agricoltura, in quanto i contadini quasi sempre vivevano nei paesi, lontano dai luoghi di lavoro, perdendo «un sesto del tempo utile ai lavori agricoli per conferirsi la mattina nei campi che debbono coltivare, e per ritornare la sera»3. La soluzione prospettata è quella di incoraggiare i proprietari terrieri all’edificazione di case coloniche dove far vivere i contadini, case che, permettendo una maggiore permanenza sul luogo di lavoro, aumentavano di conseguenza la produzione del fondo a vantaggio del proprietario, ma anche dell’intero paese. In un successivo paragrafo lo studioso si sofferma a descrivere le abitazioni dei lavoratori della terra. Queste appaiono come tuguri sporchi e angusti, formati il più delle volte da un’unica stanza a pian terreno poco luminosa e poco areata. «Le pareti sono affumicate, il soffitto è tappezzato di ragnatele», spesso lo stesso ambiente viene utilizzato anche come rifugio notturno per gli animali: polli, maiali, un asinello. I contadini più agiati hanno abitazioni provviste di una seconda stanza che funge da cucina. In questo vano, addossata ad una parete vi è una cassa contenente terra dove si accende il fuoco fra due sassi. Il fumo esce da un finestrino superiore o da un foro praticato nel soffitto 2 R. De Lorenzo, Istituzioni e territorio nell’ottocento borbonico: la «Reale Società Economica di Principato Ultra», Pergola, Avellino 1987, p. 282. 3 Ivi, p. 28 258
poiché non esistono le canne fumarie. Valagara sottolinea come questa mancanza sia il principale motivo dei numerosi incendi, ma anche come la sporcizia di queste abitazioni sia indicativa non solo della grande povertà di queste genti, ma anche della mancanza del senso dell’ordine e della pulizia. Solo trent’anni dopo, fra il 1909 e il 1911, fu pubblicata a Roma l’Inchiesta parlamentare sulle condizioni dei contadini nelle province meridionali e nelle Sicilie. Il volume sulla Campania fu scritto dal Prof. Oreste Bordiga che definisce innanzitutto sei zone agrarie. La provincia di Avellino ricade nella 4° zona e nella 5°, per la parte collinare che va verso l’adriatico, con colture che vanno da quelle intensive a seminativi alberati, a quelle estensive a grano e granoturco. Per quanto riguarda la distribuzione della popolazione rurale, le zone diventano cinque e quella irpina ricade fra la 3° e la 4°. Il circondario di Avellino «è caratterizzato da alte proporzioni di abitanti sparsi nelle campagne. Fanno eccezione Serino, Volturara, e Montella, il cui territorio ha una notevole proporzione di pascoli e boschi, dove gli abitanti non hanno impellenti ragioni per stabilirsi definitivamente in proporzione abbastanza sensibile»4. Molto diversa la situazione della 4° zona, in cui ...prevale la coltura estensiva e dove si verifica il fenomeno dell’accentramento della popolazione in grossi centri e della quasi assenza di piccoli villaggi. Solo Ariano di Puglia fa notevole eccezione con 10 frazioni e quasi la metà di popolazione sparsa. Anche nel circondario di Sant’Angelo i mandamenti di Aquilonia e Lacedonia hanno poco o nulla di popolazione sparsa e come nei precedenti nel loro territorio si trovano poche grandi masserie e quasi nessuna casetta colonica. Invece Andretta e Sant’Angelo si distinguono per un notevole frazionamento in piccoli centri e per una forte proporzione di abitanti sparsi nelle campagne, poiché vi prevalgono piccolo possesso e piccola cultura. In codesta regione anche l’affittuario e il piccolo possidente abitano nel paese, pur avendo talvolta qualche po’ di casa colonica in campagna. Le grandi proprietà hanno stalle, magazzini e i dormitori per degli operai e i salariati fissi, però non vi è quasi mai residenza costante di famiglie coloniche o del personale di coltura nelle dette case5.
O. Bordiga, Campania...
Nel capitolo Sulle abitazioni dei contadini, Bordiga riporta nel paragrafo Bilancio di una famiglia dell’Avellinese, resoconto inviato dal dott. Teodoro de Caprariis, la descrizione di una casa colonica sita in Atripalda paese vicino ad Avellino sul fondo preso in fitto da una famiglia di contadini. La casa è composta da «un pianterreno (cucina, stalla, cellaio, con un tino e un torchio preadamatico e casotto per l’aia), piano superiore al quale si accede con scala in muratura di pietra e legno, con tre stanze da letto ed una adibita a dispensa. Il sottotetto viene usato per la conservazione di fieno , cartocci di granone e steli di fagiuoli. Nella cucina havvi pure il casotto per 4 O. Bordiga, Campania: Inchiesta parlamentare sulle condizioni dei contadini nelle province meridionali e nelle Sicilie, Tip. Nazionale di Giovanni Bertero e C., Roma 1909, vol. IV, p. 274 5 Ivi, p. 275 259
il maiale: la stalla è ampia e vi stanno comodamente 2 vacche, coi vitelli e l’asinello6». Una situazione dunque alquanto decorosa e non rara da trovare nel circondario di Avellino, mentre di tutt’altre condizioni igienico-edilizie erano le abitazioni analizzate degli altri due circondari. In quello di Ariano le case dei contadini si trovavano quasi tutte nei paesi ed erano di misere condizioni, spesso di una sola stanza da dividere con gli animali. La zona pugliese e quella dell’altipiano hanno grandi masserie generalmente in condizioni edilizie poco favorevoli, soprattutto per antichità e trascurata manutenzione. Ad Ariano di Puglia l’acqua è pessima, le case insufficienti alla popolazione e talune di esse scavate nell’arenaria, su cui è costrutto il paese. In coteste grotte hanno anche ricovero con l’uomo asino, capre e maiale. I massari e medi affittuari abitano in casette di una o due stanze a pianterreno, due superiori, sempre però meschine e di misero aspetto. Tutto ciò è quanto si osserva dal più al meno in tutti i paesi del versante adriatico. Quelli del tirreno sono in condizioni un po’ migliori, perché ivi una buona parte dei contadini vive in campagna. Però le case sparse sono nella massima parte vecchie e dirute anche per trascurata manutenzione […]. Nel circondario di Sant’Angelo dei Lombardi, come si è già detto, in alcune zone si ha un minore accentramento di popolazione nei paesi, dove però sempre vi sono vie strette, piccoli cortili, abituri affollati. In quanto ad accessori igienici, si ripetono le condizioni dell’Arianese ed è pure frequente il caso dell’abitazione promiscua dell’uomo con gli animali. Le famiglie del contadino e del piccolo coltivatore hanno una sola camera con al più due letti, raramente tre. I massari o grossi e medi fittuari hanno quartierini di costruzione molto modesta di 3 o 4 ambienti, oltre una stalla per gli animali da soma o da tiro, con cui si recano in campagna. In tutta la regione il piccolo coltivatore erige pagliai per ricoveri provvisori al momento delle messi ed i percorsi sono generalmente notevoli, anche per il fatto della situazione degli abitanti sulla cima dei colli o dei monti, le notevoli accidentalità del territorio e l’orribile stato delle strade7.
A partire dal 1929, l’Istituto Centrale di Statistica fu impegnato nella stesura del nuovo Catasto Agrario che basato su quello del 1910 si arricchiva di nuovi dati. Per quanto riguarda l’Irpinia esiste uno specifico volume all’interno del Compartimento della Campania8, realizzato grazie all’impegno di una equipe di lavoro operante sul posto diretta da Elio Gramignani, direttore della Cattedra Ambulante di Agricoltura di Avellino e Capo dell’Ispettorato Agrario Provinciale. Al nuovo catasto si affiancò, l’anno successivo, uno scrupoloso Censimento generale dell’agricoltura che destina il secondo volume – composto da due parti: la prima riporta una relazione generale9, 6 Ivi, p. 411 7 Ivi, pp. 434-435 8 ISTAT, Provincia di Avellino, in Catasto agrario 1929-VIII, Compartimento della Campania, fasc. 67, Ist. Poligrafico dello Stato, Roma 1935. 9 ISTAT, Censimento delle aziende agricole, in Censimento generale dell’agricoltura, 19 marzo 1930-VIII, vol. II, t. I, Ist. Poligrafico dello Stato, Roma 1936. 260
la seconda le tavole10 – alle aziende agricole. Definita la situazione generale, nel 1933 viene affrontata la situazione delle case rurali con una specifica indagine11. Nelle Direttive per l’indagine statistica sulle case rurali lo stesso Benito Mussolini stabilisce le quattro categorie con cui definire l’abitazione: 1. Case Abitabili; 2. Case abitabili con piccole riparazioni; 3. Case abitabili con grandi riparazioni; 4. Case da demolire perché non abitabili. La premessa è espressa dal Duce con queste parole: «Tutti i rurali Italiani devono avere una casa vasta e sana, dove le generazioni contadine possano vivere e durare nei secoli come base sicura e immutabile della razza. Solo così si combatte il nefasto urbasesimo, solo così si possono ricondurre ai villaggi e ai campi gli illusi e i delusi, che hanno assottigliato le vecchie famiglie per inseguire i miraggi del salario in contanti e del facile divertimento»12. L’indagine fu svolta dall’Istituto attraverso la comparazione di due modelli inviati ad ogni comune e compilati dal Podestà e dal medico condotto. Il modello A a cura del Podestà doveva indicare il numero delle case rurali abitate dai proprietari coltivatori diretti, dagli affittuari, dai coloni e mezzadri, dai braccianti e giornalieri di campagna, operai agricoli, ecc. e doveva sintetizzare il modello B a cura del medico condotto che, per il suo stesso ufficio, aveva molteplici occasioni di visionare le case rurali e valutare le condizioni igienico-edilizie. Come risultato si ebbero delle tavole statistiche che riguardavano tutti i capoluoghi di provincia accompagnate dalle relazioni dei Prefetti. In quegli anni Prefetto di Avellino era Enrico Trotta il cui nome si accompagnò a numerose grandi opere estese a tutta la provincia. La relazione molto accurata 10 ISTAT, Censimento delle aziende agricole, in Censimento generale dell’agricoltura, 19 marzo 1930-VIII, vol. II, t. II, Tavole, Ist. Poligrafico dello Stato, Roma 1935. 11 ISTAT, Indagine sulle case rurali in Italia, Ist. Poligrafico dello Stato, Roma 1934. 12 Ivi, p. 7.
Fig. 2 Masseria Lo Parco, Frigento (AV), da www.paesaggiirpini.it 261
riprende quelle del Valagara e del Bordiga. Come loro, anche Trotta mette in evidenza l’alto numero di abitazioni contadine all’interno dei centri urbani, causa di quel “nomadismo agricolo” da risolvere necessariamente, in quanto causa di una notevole perdita di molto tempo lavorativo e dell’abbandono completo dei terreni durante i mesi invernali. Di contro i comuni in cui si contavano più case rurali di campagna erano: Avellino, Bonito, Fontanarosa, Frigento, Gesualdo, Grottaminarda, Guardia dei Lombardi, Melito Irpino, Mirabella Eclano, Montemarano, Nusco, Pietradefusi, Sant’Angelo dei Lombardi e Trevico. Il Prefetto indica un terzo all’incirca delle case rurali di campagna come abitabili sia dal punto di vista tecnico-edilizio che igienico-edilizio, senza necessità di alcuna riparazione, a tal proposito scrive: «esse sono costruite secondo le buone norme dell’edilizia e non difettano neanche dal lato igienico, sono formate di più ambienti adibiti a camera da letto, cucina, deposito, ecc., e le stalle sono formate secondo i dettami dell’igiene». Le abitazioni peggiori sono all’interno dei comuni, spesso formate da una sola stanza, come già si è detto, in alcuni casi affianco o sotto alla stanza vi è la stalla, che però non ha pavimenti inclinati ed impermeabili e cunette di scolo, ed è spesso molto poco areata. Il Prefetto così conclude: ...può affermarsi che le case coloniche, nella misura del 60%, non corrispondono alle norme dell’edilizia, dell’igiene e della moralità; non sono sufficienti per ampiezza e per numero di vani, ed hanno bisogno, perché sieno rese efficienti, di piccole o grandi riparazioni. Le case da demolire, sono, all’incirca 2500. Sono vecchie catapecchie, molto simili alle tane […]. In quasi tutti i comuni della provincia vi sono case inabitabili, da demolire. tranne che in quelli di Andretta, Avella, Bagnoli Irpino, Baiano, Bisaccia, Bonito, Cairano, Castelbaronia, Cervinara, Chiusano San Domenico, Contrada, Mercogliano, Mugnano del Cardinale, Ospedaletto, Pietradefusi, Quadrelle, Sant’Angelo a Scala, S. Michele di Serino, Serino, Sirignano, Sperone, Summonte e Taurasi, almeno per quanto è stato possibile appurare, dato il breve tempo assegnato all’indagine. Per le pessime condizioni edilizie e per la convivenza con gli animali domestici, i rurali che abitano detti tuguri vanno spessissimo soggetti a malattie di varia natura. Detti tuguri dovrebbero senz’altro essere demoliti, perché non si prestano ad alcuna riparazione. I dati catastali riassuntivi rispondono, con tutta approssimazione, allo stato di fatto delle case rurali di questa provincia, che, assolutamente agricola, non pochi benefici potrebbe ripromettersi, in avvenire, da una elevazione sociale dei contadini, che rappresentano, nella loro quasi totalità, la classe lavoratrice per eccellenza, sobria, pacifica, e politicamente fedele al Regime13. ISTAT, Indagine sulle case rurali in Italia
Ad un anno dalla pubblicazione dell’Indagine esce un articolo sul «Corriere dell’Irpinia» intitolato ll problema delle case rurali, in esso il giornalista riporta innanzitutto la volontà espressa dal Duce di migliorare tutte le case rurali per dare nuova 13 Ivi, p. 46 262
linfa a questo settore e descrive, nei termini già riportati, le case dei contadini irpini, inoltre aggiunge: «Non ci sono fienili, perché il fieno, quando si realizza è abbigato all’aperto. La paglia che nei casi di mancanza di fieno è adibita nell’alimentazione del bestiame bovino ed equino, integrata da razioni di avena o da granone, è conservata nelle così dette ‘pagliare’ che consistono in tante capanne. Non esistono depositi per macchinari agricoli, dei quali si fa rarissimo uso in questa provincia. Non parliamo poi dei fabbricati rurali, ubicati in zone malariche, che non godono di alcuna protezione meccanica». Sicuramente il giornalista si riferisce alla Piana del Dragone un’area molto vasta nei pressi del comune di Volturara che per la posizione e la natura del terreno nei mesi più piovosi si allagava completamente dando vita ad un vero e proprio lago, rendendo impossibile ogni forma di coltivazione e rendendo la zona fortemente malsana. Prosegue ribadendo il problema profondamente sentito del ‘nomadismo agricolo’ per cui i contadini per mancanza di case coloniche dovevano percorrere ogni giorno a piedi lunghe distanze. Segue la descrizione delle rare case coloniche secondo le tipologie già descritte, a cui aggiunge: «Quasi sempre vicino la casa colonica resta la famosa ‘pagliara’, la quale pur troppo viene adibita in alcune zone ad abitazione del contadino. Queste ‘pagliare’ hanno lo scheletro di tronco di alberi con rivestimenti e coperture di materiale vegetale: cannucce, sagginale, ristoppio, lentische etc. Poco distante v’è la stalla, a mo’ di dire: un ambiente oscuro, umido ed antigienico per il ricovero degli animali». Descritta la situazione esistente, il giornalista passa alle proposte, auspicando una completa riformulazione dell’assetto agrario, tenendo però presente che ciò che esiste oggi scaturisce da «una grande varietà di condizioni fisiche, di sistemi culturali, di modi di conduzione, di fattori storici, psicologici e forse anche etnici. Ottima l’idea di promuovere un concorso per la progettazione dei tipi preferibili di case rurali. Ma non bisogna dimenticare che nell’Irpinia occorrono case vaste e sane, senza inutili dispersioni economiche, ma seguendo il principio chiave che tutti i contadini, grandi e piccoli, devono stare in campagna ed avere la casa semplice e sana, baciata dal sole, a due passi dal lavoro usato, in modo che la sera, la famiglia rurale possa senza preoccupazioni di sorta riunirsi intorno al desco frugale e sano»14. Il giornalista, in questa parte finale, pone l’accento su una questione molto importante legata a fattori antropologici e culturali, di cui il Regime spesso, però, non tenne conto nell’edificare i nuovi borghi rurali, i quali infatti in alcuni casi funzionarono per breve tempo e finirono per essere abbandonati. Il primo lavoro sulle aziende agricole irpine scritto subito dopo la seconda guerra mondiale si deve al prof. Elio Gramignani, già nominato, e fa parte di un volumetto intitolato Problemi irpini pubblicato nel 194715. Nello scritto l’autore fa riferimento ad un censimento autonomamente eseguito nel 1930, quindi in concomitanza con il lavoro svolto per l’Istituto di Statistica. La tabella da lui stilata riporta per i 111 comuni irpini: il numero di poderi senza casa colonica; il numero di poderi con casa colonica 14 Il problema delle case rurali, «Corriere dell’Irpinia», n.13, 30 maggio 1935. L’anno seguente alla VI Triennale di Milano fu realizzata la Mostra dell’Architettura rurale nel bacino del Mediterraneo curata da Giuseppe Pagano e Guarniero Panel. La casa rurale campana fu illustrata attraverso il lavoro di Roberto Pane, lavoro pubblicato lo stesso anno con il titolo Architettura rurale Campana, Società editrice Rinascimento del libro, Firenze 1936, corredato da 53 disegni dell’autore. 15 E. Gramignani, Problemi irpini, Pergola, Avellino 1947 263
insufficiente; la superficie totale di terreno data dalla somma delle due tipologie, con un conteggio totale di circa 4000 case coloniche mancanti, situazione che non era di molto migliorata durante gli anni del fascismo, nonostante la grande attenzione per la questione. Gramignani chiama paesismo l’annosa questione della forte concentrazione di contadini all’interno dei paesi piuttosto che nelle campagne, e spiega dettagliatamente le problematiche che scaturiscono dal fenomeno. Già abbiamo ampiamente parlato della perdita di ore lavorative a causa del nomadismo, l’autore a questo aggiunge la assenza di allevamenti di bestiame, da cui anche la mancanza di letame per concimare, l’uso esclusivo dell’asino sia per gli spostamenti che per il lavoro dei campi, l’impossibilità di sfruttare i mezzi meccanici per la mancanza di strutture di deposito sul posto e conseguentemente l’arretratezza degli strumenti agricoli, la presenza solo delle colture che non hanno bisogno di continua cura, da cui l’inevitabile esclusione di vigne, ulivi, alberi da frutta, orti, la perdita di collaborazione da parte di tutti i componenti della famiglia. A questi si aggiungono problemi di ordine morale e igienico-sanitari che comporta il vivere in miseri tuguri all’interno dei paesi. Per risolvere l’impasse Gramignani auspica un sostanziale e sostanzioso aiuto da parte dello Stato che dovrebbe impegnarsi a supportare economicamente quei privati che intendono rimodernare le aziende o costruirle ex novo. L’autore annota anche l’importanza di creare forme di cooperazione fra i contadini, sistemi del tutto assenti nel territorio irpino. Pochi anni dopo viene pubblicato da Pellegrino Tarantino il volume Aspetti della Riforma Agraria nell’Irpinia16, dove nell’ambito della riforma agraria in atto per il Mezzogiorno si valutano le caratteristiche e le criticità sulle quali intervenire per migliorare l’economia fortemente agricola di questa provincia. Uno dei grandi problemi da affrontare risulta essere, proprio, quello del basso numero di case coloniche, analizzato dall’autore riprendendo in toto i punti già espressi da Gramignani. In un successivo studio Tarantino pubblica una nuova indagine statistica sempre sulle case sparse. Le tabelle compilate riguardano: la percentuale di popolazione residente nelle case sparse per ogni comune delle quattro province campane; il confronto fra la percentuale al 1921 e al 1951, con il riscontro di un aumento dei residenti in case sparse; i contributi, adeguati al 50%, concessi fra gli anni 1953-1956 dallo Stato per costruire o riparare case coloniche ed accessori ai sensi dell’art. 3 della Legge 25 luglio 1952, n.991. In quest’ultima tabella si nota un numero di richieste abbastanza esiguo per la provincia di Avellino, che ancora una volta non riuscì a cogliere quest’occasione per migliorare il proprio sistema agricolo. Nel 1964 viene pubblicato il volume La casa rurale nella Campania, uno dei 31 volumi della collana – curata da Lucio Gambi e Giuseppe Barbieri - Ricerche sulle dimore rurali in Italia del Consiglio Nazionale delle Ricerche17. Il capitolo sulla provincia di Avellino, scritto da Luchino Franciosa, ribadisce l’inadeguatezza di questa tipologia rispetto alla superfice di territorio coltivabile, e analizza l’esistente, componendo il più approfondito e completo resoconto scritto in quegli anni su questo tema. Innanzitutto 16 P. Tarantino, Aspetti della riforma agraria dell’Irpinia, Catania 1950 17 M. Fondi, L. Franciosa, L. Pedreschi, D. Ruocco, La casa rurale nella Campania, Leo S. Olschki Editore, Firenze 1964. 264
Fig. 3 Le principali forme di abitazione rurale nella provincia di Avellino: 1. Tipo elementare a unico vano; 2. Tipo unitario collinare a due piani e scala esterna; 3. Tipo initario montano a due o più vani giustapposti; 4. Tipo unitario montano a due piani con una scala parzialmente interna; «masseriole». (da L. Franciosa, La casa rurale in provincia di Avellino, 1964, p. 410).
la provincia viene divisa in zona occidentale (circondario di Avellino) e zona orientale (circondario di Ariano e Sant’Angelo dei Lombardi); per la prima si analizzano le tipologie presenti in collina e in montagna, per la seconda quelle presenti nei centri abitati e quelle di collina, queste ultime appaiono di impianto più complesso rispetto a quelle della zona occidentale e spesso provviste di un elemento architettonicamente incisivo come la torretta colombaia, rinvenibile soprattutto nell’arianese e nell’area compresa fra il Calore e l’Ufita. Le tipologie sono quelle già più volte citate, a partire dal Valagara, ma Franciosa approfondisce ulteriormente l’argomento, riportandone le planimetrie, i materiali, gli orientamenti, le fogge dei tetti, la posizione della scala coperta o scoperta, la modalità di costruzione degli edifici in pendio, le pertinenze. Un discorso a parte viene fatto per le ‘masserie’, caratteristiche del territorio di Ariano Irpino, e nominalmente collegate al solo tipo delle aziende con ordinamento estensivo cerealicolo-pastorale, affiancate alle ‘masseriole’, tipo di aziende più piccole per estensione di terreno e per impianto. Le masserie più grandi sono caratterizzate da un «vasto cortile interno quadrangolare, che è ricoperto di ciottoli ai margini del quale sorgono i fabbricati in costruzioni unite o staccate: si va dalle ampie stalle alle abitazioni dei lavoranti fissi e avventizi, ai locali di trasformazione del latte, ai magazzini di macchine e attrezzi, ai vari altri servizi di carattere accessorio, tutti 265
al piano terra. […] Talvolta l’ingresso al cortile è rappresentato da due colonne, in muratura o in mattoni, imbiancate con calce e intonacate, su cui spicca il nome del proprietario»18. Molto interessante è anche lo schema di sintesi messo a punto dal Franciosa per racchiudere in tre grandi gruppi le tipologie di case rurali irpine: 1) Forme semplici: a)tipo elementare (unico vano) presente solo in montagna o nei centri compatti; b) tipo unitario (due o più vani terranei giustapposti) quasi solo submontano e montano. 2) Forme complesse: a) tipo unitario collinare a due piani e scala esterna, completamente o quasi scoperta, con rustico terraneo e abitazione al primo piano (ma con recenti trasferimenti della cucina al piano terra); b) tipo unitario submontano a due piani (ripartiti come il tipo precedente) e a scala un po’ interna e un po’ esterna, ma parzialmente coperta da tettoia; c) varietà collinare con torretta colombaia. 3)Forme speciali: a) casini di villeggiatura; b) masserie: semplici, dette «masseriole» (di tipo unitario), o complesse, con più fabbricati a elementi congiunti o ad elementi disgiunti19. Infine lo studioso allega una mappa della provincia di Avellino con leggenda per graficizzare le diverse tipologie individuate, definendone le aree di pertinenza geografica. Il terremoto del 1980 ha quasi completamente cancellato le testimonianze dell’architettura rurale. Pochi degli edifici fotografati in quest’ultimo volume o in quello del Bordiga sono ancora presenti sul territorio. I più sono ormai ruderi completamente abbandonati, qualcun altro ha continuato a vivere trasformato in agriturismo nei migliori dei casi, oggetto di ristrutturazioni spesso opinabili. Il Centro Regionale Beni Culturali ha iniziato nel 2008 il 1° Censimento dell’Architettura rurale «che ha avuto il compito di definire una metodologia di lavoro con la definizione di un primo territorio di applicazione sperimentale individuato nei Sette Parchi Regionali»20. Alcuni comuni della provincia di Avellino ricadono sia nel Parco Regionale del Partenio che nel Parco Regionale dei Monti Piacentini, cosicchè si può avere una visione aggiornata della situazione degli edifici presenti in queste aree; ma moltissimo è ancora da fare, anche se questo si può considerare, certamente, un primo passo per arrivare a stabilire una strategia di tutela e valorizzazione dei beni culturali che ricadono nell’ambito civiltà rurale.
18 Ivi, p. 405-406. 19 Ivi, pp. 408-409. 20 Si vedano i siti internet: http://www.campaniacrbc.it/portal/generaPagina. do?idPagina=20H549 ; http://www.retepoat.beniculturali.it/download/catalogazione-architettura-rurale-campania/ 266
Fig. 4 Agriturismo Torre Gialluise, Gesualdo (Av)
Bibliografia Bordiga O., Campania: Inchiesta parlamentare sulle condizioni dei contadini nelle province meridionali e nelle Sicilie, Tip. Nazionale di Giovanni Bertero e C., Roma 1909. De Lorenzo R., Istituzioni e territorio nell’ottocento borbonico: la «Reale Società Economica di Principato Ultra», Pergola, Avellino 1987. De Rocchi Storai T., Bibliografia degli studi sulla casa rurale italiana, Leo S. Olschki Editore, Firenze 1969. Fondi M., Franciosa L., Pedreschi L., Ruocco D., La casa rurale nella Campania, Leo S. Olschki Editore, Firenze 1964. Gramignani E., Problemi irpini, Pergola, Avellino 1947. Istat, Provincia di Avellino, in Catasto agrario 1929-VIII, Compartimento della Campania, fasc. 67, Ist. Poligrafico dello Stato, Roma 1935. Istat, Censimento delle aziende agricole, in Censimento generale dell’agricoltura, 19 marzo 1930-VIII, vol. II, t. I, Ist. Poligrafico dello Stato, Roma 1936. 267
Istat, Censimento delle aziende agricole, in Censimento generale dell’agricoltura, 19 marzo 1930-VIII, vol. II, t. II, Tavole, Ist. Poligrafico dello Stato, Roma 1935. Istat, Indagine sulle case rurali in Italia, Ist. Poligrafico dello Stato, Roma 1934. Pane R., Architettura rurale Campana, Società editrice Rinascimento del libro, Firenze 1936. Tarantino P., Aspetti della riforma agraria dell’Irpinia, Catania 1950. Valagara R., Relazione sull’agricoltura, la pastorizia, l’economia rurale nel Principato Ulteriore, Tulimiero, Avellino 1880.
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Scuola, intercultura, paesaggio agrario
Mario Calidoni
Farming Simulator 171 è una simulazione che consente di gestire in tutto e per tutto il lavoro in una fattoria, dalla semina al raccolto sino all’allevamento degli animali. Il videogame è ai primi posti nelle classifiche e pare seguire l’onda del nuovo interesse per il mondo agricolo. Il paesaggio nel quale si muovono i trattori più innovativi e le altre macchine per il lavoro agricolo come mietitrebbiatrici ibride o atomizzatori etc., è un paesaggio agrario reale ricavato da mappe dettagliate degli Usa ed europee. “Il paesaggio agricolo è un ambiente naturale che è stato modellato dall’uomo attraverso una lunga serie di lente trasformazioni legate all’agricoltura e all’allevamento del bestiame[…]. Negli ultimi cinquanta anni in Italia si è verificato il passaggio da una economia agricola tradizionale a un’economia prevalentemente industriale[…] il rapporto tra città e campagna non ha ancora trovato il suo equilibrio [...] interessante in questo senso è la richiesta di istituire parchi agricoli con l’obbiettivo da un lato di mantenere l’attività produttiva delle aziende agrarie , dall’altro creare spazi verdi per gli abitanti delle città[…]”2.
Abbiamo iniziato con queste due citazioni perché ci paiono riassumere bene il contrasto tra l’immagine scolastica datata con la quale si misura il paesaggio agrario nella maggioranza delle nostre aule e il modello con il quale si misurano i ragazzi nel mondo dove il reale si mescola con il virtuale nell’indeterminatezza degli spazi. La prima domanda che il laboratorio si pone quindi può essere la seguente. Quale immaginario del paesaggio agrario hanno o non hanno i nostri alunni, in ogni ordine di scuola? L’idea bucolica e “romantica” del paesaggio agrario come luogo della nostalgia di una infanzia fatta di affetti familiari e di un lavoro a contatto con i grandi ritmi della natura, il ritmo delle stagioni, appannaggio solo dei nonni/bisnonni e ormai superata dal grande cambiamento del progresso e dall’ “emancipazione cittadina”? 1 www. store.steampowered.com › ... › Farming Simulator 17. 2 C. Capranico, F. Cartella, S.Dellavecchia, “ Il nuovo immaginario”, corso di educazione artistica per la scuola media, Ed. Petrini, 1996. 269
Oppure la convinzione che il paesaggio agrario sia il luogo della ricerca della produttività e del cambiamento tecnico e tecnologico che trasforma i paesaggi con l’ esaltazione della capacità dell’uomo di governare la natura? Oppure ancora la convinzione che il paesaggio agrario si possa mescolare e integrare con il paesaggio delle grandi immagini di natura che i documentari più sorprendenti ci offrono a ritmo serrato, senza pensare che per quel tramonto sui campi di grano maturo sono state necessarie riprese che hanno durato ore e giorni di preparazione e di attesa? Di fronte a questi interrogativi il dibattito culturale e la trasformazione sociale che attraversano la nostra scuola, ci pongono davanti all’esigenza di progettare e fare scuola con un PENSIERO nuovo sia rispetto agli alunni, sempre più di culture diverse, che al contenuto PATRIMONIO/PAESAGGIO nel quale si inscrive il Paesaggio agrario come elemento essenziale. Le riflessioni e la progettualità che il laboratorio intende sollecitare partono dalla condivisione di alcune linee guida riassunte nelle seguenti. 1. La scuola è ambiente di apprendimento e, nel contempo, mondo vitale. Questi due concetti che attraversano le Indicazioni nazionali per il ciclo primario e che ispirano documenti di indirizzo a livello nazionale ed internazionale per la scuola e la cultura, indicano precise direzioni di operatività didattica. Si tratta di criteri guida che sottolineano la necessità di ordinare le esperienze costruite “intenzionalmente per consentire percorsi attivi e consapevoli in cui lo studente sia orientato ma non diretto. Luoghi ricchi e variegati per esperienze possibili e materiali di lavoro, caratterizzati da una forte struttura, ma allo stesso tempo aperti e polisemici in cui gli studenti possano aiutarsi reciprocamente, utilizzando una varietà di strumenti e di risorse in attività guidate. Un ambiente arricchito da momenti di riflessione individuale e collettiva, da domande euristiche e da consegne che lo studente può affrontare autodeterminando modi e percorsi, sulla base del proprio stile, degli interessi e delle strategie personali”.3 Inoltre il concetto di mondo vitale, ripreso dalle riflessioni del filosofo Habermas sul contrasto tra sistema e mondo vitale nella contemporaneità, mette in guardia sul perenne pericolo del prevalere della norma sulla vita. La Buona Scuola saprà mettersi su questa linea? Con questa idea di scuola va a braccetto la diversità culturale che non è una novità dovuta all’arrivo degli immigrati, ma è una caratteristica generale della società. “L’Educazione interculturale allora interviene su aspetti dell’immaginario individuale e collettivo, su preconoscenze, stereotipi, pregiudizi, blocchi identitari. Questo significa che i percorsi didattici proposti devono passare non solo sul piano cognitivo, ma anche su quello affettivo, valoriale e comportamentale, utilizzando tecniche adeguate per far emergere questo piano. Una didattica interculturale dunque non utilizzerà tanto percorsi ‘freddi”, dove prevale l’analisi logico-razionale, ma si servirà di percorsi “caldi”, che propongano problematiche fortemente sentite e mettano in moto la discussione e l’autoriflessione.4 Quindi si fa educazione interculturale non tanto studiando il diverso lontano, quanto comprendendo e vivendo il presente vicino. 3 A. Calvani, Costruttivismo, progettazione didattica e tecnologie, in D. Bramanti, Progettazione formativa e valutazione, Carocci, 1998. 4 M. Medi, www.funzioniobiettivo.it/glossadid/intercultura/intercultura.htm. 270
L’Educazione interculturale non é materia in più ma un’ottica con cui affrontare i contenuti disciplinari e vitali. 2. Il Paesaggio agrario come contenuto di esperienze a scuola non è più la conoscenza del settore primario – agricoltura – dell’economia del paese o la riduttiva storia dell’evoluzione della veduta dei campi coltivati come paesaggio storico. Si inserisce nell’idea ormai condivisa del paesaggio come luogo nel quale si depositano gli immaginari individuali e collettivi di coloro che abitano gli spazi e di coloro che li frequentano, le preconoscenze, gli stereotipi, i pregiudizi, i blocchi identitari di chi vive a stretto contatto di quei luoghi. Pensiamo in questo senso a tutte le culture che convivono nelle nostre classi e che caricano i paesaggi agrari circostanti di questi significati. Il paesaggio come luogo che L. Bonesio5 così definisce: “mentre il paesaggio come immagine estetica appartiene all’ordine della visibilità, il paesaggio come luogo affonda le radici [...] in quello che è stato chiamato il volume scenico del paesaggio” con l’agire dei suoi attori. Dunque elemento fondante del paesaggio è l’attaccamento ai luoghi che si configura in vari modi e a livelli diversi di intensità come legame funzionale e/o emotivo, di lavoro e di vita. Il senso del luogo è un concetto collettivo, percezione indefinita dalla quale nascono decisioni, nel luogo si impara ad orientarsi nello spazio e nel tempo e lo si percepisce come prodotto culturale. Osserva il geografo Franco Farinelli: “Nella logica dei luoghi ogni brano del volto della terra mantiene la propria specificità, la propria irriducibilità nei confronti degli altri insomma le proprie qualità. Al contrario, la logica dello spazio, che è quantitativa è quella dell’equivalenza generali delle parti , della loro reciproca interscambiabilità e fungibilità… secondo la trasformazione di quel che nel Seicento s’inizia a chiamare globo terracqueo in un’unica gigantesca mappa.”6
Vediamo la possibilità di “insegnare” il paesaggio agrario a scuola in ambiente interculturale approfondendo alcune “nozioni/prospettive” di paesaggio agrario che l’attuale dibattito culturale sta sviluppando e che sinterizziamo in modo assolutamente riduttivo ma da mettere alla prova della didattica. Il paesaggio rurale storico considera lo spazio dell’agricoltura integrante del patrimonio culturale, da tutelare per il suo valore storico, ma anche per il potenziale economico che rappresenta per lo sviluppo locale. Il Catalogo nazionale dei paesaggi rurali storici è il punto di riferimento essenziale per il territorio nazionale.7 La nozione di “paesaggio culturale”, fa riferimento a quella adottata nel 1992 dal Comitato del Patrimonio Mondiale dell’UNESCO come “opera combinata della natura 5 L. Bonesio, Paesaggio, identità e comunità tra locale e globale, Diabasis, 2009 6 F. Farinelli, Rimonta di una disciplina esiliata che Giulio Cesare capì benissimo, in “La Lettura”, Corriere della sera, 2015. 7 M. Agnoletti (a cura di), Paesaggi rurali storici, per un catalogo nazionale, Laterza, 2011 271
e dell’uomo […] illustrativa dell’evoluzione della società umana e di adattamento nel corso del tempo, sotto l’influenza dei vincoli fisici e/o delle opportunità offerte dal loro ambiente naturale e delle forze sociali, economiche e culturali successive, sia esterne che interne”.8
La nozione di patrimonio /paesaggio “migrante” si riferisce specificatamente al fatto che se il patrimonio e l’idea di paesaggio si collegano al vissuto e all’identità è lo stesso patrimonio che cambia di valore e si evolve nel momento in cui si mette in movimento e varia le sue ubicazioni, non pare possibile immaginarci un patrimonio senza migrazioni. Il paesaggio agrario dei vigneti mediterranei sul mare e nelle isole quanto devono all’evoluzione dell’idea di cultura greca classica che arriva sino a noi?. E un fenomeno come internet sta determinando un nuovo modello di assimilazione e diffusione del patrimonio stesso.9 La nozione di agroecologia riguarda tutta la riflessione e gli studi che di fronte alla espansione indefinita dell’agricoltura estensiva propongono di rinunciare alla logica delle performance e dell’economia a tutti i costi ri-valorizzando la parte selvaggia della terra, con i suoi frutti spontanei, che da sempre convive con la parte coltivata. La parte selvaggia del paesaggio agrario fornisce anch’essa nutrimento per il corpo ma anche per la mente rendendoci felici nella scoperta e nell’esplorazione di luoghi selvaggi. Pare una sorta di rivendicazione dei contadini a restare tali e non a trasformarsi in imprenditori assoluti o bioingegneri delle mutazioni genetiche.10 A questa prospettiva si collega direttamente lo studio portato avanti da Jan D. Van Der Ploeg che considera eccellenza quelle esperienze di attività rurale in diverse parti del mondo che si distinguono per “l’eterogeneità interna che le caratterizza, ossia per il loro strutturarsi su risorse, storia e repertori locali”. In queste esperienze si evidenzia la contrapposizione tra la modernizzazione globale e lo sviluppo sostenibile dell’agricoltura e delle economie rurali con i paesaggi agrari che ne conseguono.11
8 Paesaggi culturali i beni culturali che rappresentano “creazioni congiunte dell’uomo e della natura” così come definiti all’articolo 1 della Convenzione e che illustrano l’evoluzione di una società e del suo insediamento nel tempo sotto l’influenza di costrizioni e/o opportunità presentate, all’interno e all’esterno, dall’ambiente naturale e da spinte culturali, economiche e sociali. Convenzione per la Salvaguardia del Patrimonio Culturale Immateriale, adottata dalla Conferenza Generale dell’UNESCO il 17 ottobre 2003 e sulla Convenzione per la Protezione e la Promozione delle Diversità delle Espressioni Culturali, adottata dalla Conferenza Generale dell’UNESCO il 20 ottobre 2005. 9 R. Huerta, Il Patrimonio educativo migrante, in Il Museo come officina di esperienze con il patrimonio, l’esempio del MOdE, Qui Edit, 2014. 10 E.O. Wilson, Metà della terra, salvare il futuro della vita, Codice edizioni, 2016. 11 J.D. Van Der Ploeg, I nuovi contadini, Donzelli ed. 2009. 272
Abitare la Terra Dalla Via Emilia alle Cinque Terre
Fabrizio Frignani
Paesaggi costruiti dall’uomo sull’impianto geomorfologico di madre terra, un paesaggio ormai ovunque umanizzato che esprime e sintetizza i comportamenti dell’uomo, oggi spesso troppo aggressivi irrispettosi ed incuranti delle conseguenze verso un territorio sempre più fragile, al contrario di un tempo non così lontano, dove le generazioni che ci hanno preceduto, con coscienza ed esperienza avevano imparato a preservare ogni porzione di terreno per produrre e prelevare ciò che serviva per vivere in perfetto equilibrio con l’ambiente ed il territorio. Oggi per preservare il territorio c’è un parco, il Parco Nazionale dell’Appennino Tosco-Emiliano, con un ambito territoriale molto ampio; apparentemente una linea di confine tra il Continente ed il Mediterraneo, un confine climatico, culturale, tra genti, con uno spartiacque imponente che delimita i due limiti geografici ideologici, (per fortuna senza muri e barriere) tra Nord e Sud. Un parco è per antonomasia un’area protetta, ma è/o può diventare un luogo di protezione non solo dell’ambiente, ma anche dei valori culturali, sociali, antropologici espressi dall’uomo su quel territorio. Il Parco Nazionale grazie alla sua straordinaria configurazione (si sviluppa lungo una linea Est –Ovest che collega le Alpi con l’Adriatico), la sua posizione (al centro dell’Appennino tosco-emiliano), lo fanno diventare un ponte di collegamento tra pianura e mare, così come era l’appennino nei tempi antichi, quando veniva attraversato dalle genti che si recavano in pellegrinaggio dall’Europa centrale a Roma, oppure cercavano nuovi sbocchi commerciali per le proprie merci. Il crinale con i suoi borghi antichi, oggi spesso abbandonati, diventa punto di riferimento, per le genti dei due versanti opposti, ma allo stesso tempo un ponte che attraverso la porta mediterranea diventa anche ideologicamente il luogo di scambio per culture che vengono dal Nord anche dal continente più lontano o dal Sud, dal mare luogo per eccellenza dell’infinito (oggi per molti di speranza per una vita migliore). La porta, oggetto in se banale, ognuno di noi quotidianamente ne apre un’infinità, se osservata in modo attento diventa un qualcosa di unico, in una casa separa l’interno dall’esterno, il mondo conosciuto rassicurante dove esprimiamo la nostra intimità il nostro ordine, dal mondo sconosciuto disordinato dove abbiamo più difficoltà a trovare un ordine di cui abbiamo continuamente bisogno, un mondo che a volte ci incute ancora paura. 273
Attraverso la porta possiamo scrutare, osservare, entrare nel mondo che ci circonda, nel paesaggio esterno; ed è a questo punto che la porta diventa il ponte il punto di scambio tra culture e mondi diversi oppure semplicemente un qualcosa che ci permette di entrare ed uscire da un personale, ma molto intimo mondo immaginato.
Il progetto Collegare il Parco Nazionale Appennino Tosco Emiliano con il parco delle Cinque Terre, il primo MaB dell’Unesco il secondo Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO, partendo dalla parola chiave Scambio, intesa come ponte per la conoscenza di persone di altri luoghi, di altre culture, prendendo come punto di riferimento un elemento semplice, quotidiano; la porta di un’abitazione. Aprire una porta di una casa a Castelnovo ne Monti, un’altra in un borgo del crinale (più emozionante abbandonato), un’ altra alle Cinque terre, per capire prima di tutto le differenze delle case, delle abitazioni e delle genti che le abitano (scambio sulle culture, sulle tradizioni sui comportamenti personali, le memorie attraverso gli oggetti in esse contenuti), case profondamente diverse tra loro; sull’Appennino sono “appoggiate” alla terra, seguono le sinuosità dei versanti come a cercare il “rispetto” del luogo. Sembra incredibile oggi dove la presenza dell’uomo rispetto il territorio diventa debordante insaziabile di consumismo, che l’uomo un tempo nel costruirle abbia chiesto un semplice posso? Al contrario delle case alle Cinque Terre aggrappate al versante, nel poco spazio che la natura ha predestinato alla vita dell’uomo tra montagna e mare, un mare amico nemico con la quale la gente convive da sempre. Da queste porte osservare e fotografare i paesaggi le persone, gli oggetti personali, per capire e conoscere questi territori attraverso un reportage fotografico documentario completato con interviste. Fotografare le persone con un obiettivo ben preciso, il confronto, che diventa successivamente scambio culturale, di alcuni giovani che su quel determinato territorio in quel paesaggio svolgono mestieri “antichi” che vengono dalle tradizioni e producono eccellenze che devono per forza convivere con la sostenibilità. Le figure professionali individuate sono: • • • •
il casaro che produce parmigiano reggiano per quanto riguarda il territorio di Castelnovo ne monti, il pastore con le sue greggi che vive nei borghi in prossimità del crinale appenninico, il pescatore alle Cinque terre, l’agricoltore che coltiva sui terrazzamenti sempre alle Cinque terre.
Alla fine del progetto di questo viaggio tra i due “mondi” è realizzata una mostra fotografica dal titolo Dalla via Emilia alle Cinque Terre presentata nel circutito OFF di Fotografia Europea e nella sezione didattica della Summer School della scuola del paesaggio del Museo Cervi (Biblioteca-Archivio Emilio Sereni) che nel 2016 ha avuto come titolo proprio Abitare la Terra. 274
Spiare la terra/LAAI
Antonella De Nisco
Il Signore disse a Mosè: Manda alcuni a esplorare la terra di Canaan, che sto per dare al popolo d’Israele. Per ogni tribù scegli un uomo tra i capi. Mosè ubbidì all’ordine del Signore e, dal deserto di Paran, inviò, come spie, uomini scelti fra i capi degli Israeliti. Il Libro dei Numeri, La Bibbia CEI TILC, 1974, 13
L’installazione ci invita spiare la terra non dal satellite, in missione speciale o segreta, ma attraverso un muro intrecciato con lo sguardo e l’azione di uno spionaggio reale.
Fig. 1 Antonella De Nisco, progetto “Spiare la Terra” e particolare dell’installazione -2016 275
Fig. 2 Antonella De Nisco, Installazione Spiare la Terra - 2016
Sguardo&finestre sul mondo, a cura di Antonella De Nisco Liceo Matilde di Canossa RE – a. s. 2016/17 Dall’installazione Spiare la terra 2016, realizzata per la Summer School Emilio Sereni, Abitare la terra, nasce questa idea di didattica dell’arte e di approfondimento con l’esercizio scritto-grafico Sguardo/finestra sul mondo, condotto con alcune mie classi del Liceo Matilde di Canossa di Reggio Emilia. Il tema della finestra, come “dispositivo per lo sguardo”, spazio attraverso il quale guardare con occhi che vedono senza farsi vedere: spiare il mondo. Abitiamo la città, le periferie, i paesi, oramai lontani, lontanissimi dalle certezze rinascimentali di spazi ideali dove case e palazzi con finestre, a volte enormi, collegano lo spazio interno a quello pubblico attraverso ingegnose e previste inquadrature. Non esiste più quel “tempo ideale” capace di trasformare lo spazio di una piazza, in un teatro per gli sguardi, verso il territorio e l’infinito. Dalle nostre case, attrezzate con piccole “finestre di periferia”, cosa dobbiamo guardare? Cosa possiamo sognare di vedere? Eppure le finestre possono ancora trasformarsi in fantastiche camere ottiche: vogliamo affacciarci? Sconfinare dalla nostra distrazione quotidiana per ritrovarci a scoprire/guardare finalmente, non dentro lo “specchio nero” di uno smartphone, perché la finestra ci invita a fissare un soggetto. Dalla finestra possiamo spiare, contemplare, assistere ad uno svelamento oppure possiamo sostare senza esserci. Scegliere di essere vicini o distanti, aperti o isolati nel guardare il mondo che si espone 276
Fig. 3 Antonella De Nisco, Installazione Spiare la Terra, Biblioteca Emilio Sereni/esterno, 2016, midollino/sisal/rami (cm 300x400 ca.) 277
e nasconde simultaneamente. La finestra taglia, separa, sottolinea può allontanare ma anche rendere simultaneo il mondo come ci ha mostrato Umberto Boccioni nelle opere La strada entra nella casa o Visioni simultanee del 1911, dove la compenetrazione tra esterno e interno è costante. L’esercizio proposto alle classi serve a comprendere che possiamo scoprire, attraverso spunti personali, piccole verità psicologiche, si può anche rifiutare di fissare il mondo e allontanarsi attraverso una visione fantastica (irreale?). Questo breve laboratorio ha come oggetto di studio la capacità di esporre lo sguardo, anche attraverso espedienti artificiali come il disegno e la fotografia. Si espone una situazione, qualche volta brutale o inconsapevolmente ironica, tutto in superficie ma anche in relazione, strade come attraversamenti per cogliere l’inaspettato, finestre come un luogo d’incontro. Le finestre diventano maschere verso lo spazio che, dall’astrazione di un esercizio, riflette una realtà, forse anche interiore, di avvicinamento al modo, per comprendere il territorio che abitiamo. I disegni degli allievi, disposti insieme in una installazione a parete, sembrano emettere suoni, si sente il rumore delle cose, della terra che vive. Si tratta, infine, della descrizione sintetica della realtà realizzata attraverso lo scarto del disegno, un attimo di nitida concentrazione sui luoghi che usiamo, attraversiamo, consumiamo e qualche volta proteggiamo, a distanza dalla nostra camera. Altro approfondimento dell’esercizio scritto-grafico è sulle opere degli artisti che hanno cercato di raccontare/catturare paesaggi e orizzonti di senso attraverso il tema della “finestra”, guardare e approfondire le opere di questi autori significa leggere e comprendere il loro punto di vista e, forse, non sentirsi soli. Per i nostri allievi/e non ci sono vedute eroiche ma concrete, biografiche, che hanno come confine la finestra della propria camera. Eppure attraverso l’immaginazione lo sguardo può spostarsi, ampliarsi e con l’uso della scrittura, finire dentro visioni che ci riconducono ad una libertà inconsapevole e, finalmente, tutta individuale. Gli/le allievi/e scattano fotografie di tramonti, cortili che circondano case indifferenti al paesaggio, dove un apparente ordine rivela, a tratti, la tristezza dell’abitare. L’esercizio serve a spostare l’attenzione sul nostro territorio fragile, a guardarlo finalmente! Paesaggio da riconoscere, oltre quell’edulcorato studio della storia dell’arte (o dell’immagine turistica) che, troppe volte, propone piccole sezioni di sguardo dove i templi di Agrigento nascondono la città abusiva e sbriciolata che gli sta accanto: anche le nostre città, a tratti falsamente ordinate, ci mostrano deserti di bruttezza che non sappiamo riconoscere, ai quali ci siamo purtroppo abituati. Dobbiamo ritornare a sostare con Leon Battista Alberti, Piero della Francesca, Johann Wolfgang (von) Goethe, Caspar David Friedrich, Paul Cézanne, Henri-ÉmileBenoît Matisse, Giorgio de Chirico … tanti altri artisti e, insieme a loro, imparare a guardare contemporaneamente il bello e il brutto che è capace di incantare e di spaventare. Anche con questo piccolo esercizio tentiamo di acquisire una coscienza critica dell’attraversamento, dello sguardo sul mondo che, non può banalmente e distrattamente, circondare la nostra esistenza.
278
Esercizio scritto grafico: Sguardo&finestre sul mondo a. s. 2016/17 Esercizio intende creare ipotesi scritto-grafiche e riflessioni personali, ripercorrendo la storia della finestra nell’arte occidentale, attraverso l’indagine sulle opere di alcuni tra i più grandi artisti di tutti i tempi. Finestra come dispositivo per lo sguardo e metafora allusiva: • • • •
luogo geometrico della pittura (Leon Battista Alberti); sentimento romantico (Johann Heinrich Füssli); finestre dalle quali si affacciano figure che scrutano l’orizzonte; finestre capaci di creare moti dell’animo, stravolgere il rapporto tra spazio interno e spazio esterno, rivoluzionando le regole prospettiche.
1. tavola scritto-grafica di una casa/finestra assegnata a tutti/e (semplice e apparentemente banale) sulla quale intervenire con tecniche grafiche libere. 2. finestra cercata nella storia dell’arte e riproposta attraverso una tecnica scritto-grafica, d’impaginazione personale che unisce parole e immagini. 3. una foto personale che presenti l’inaspettato nel quotidiano. 4. una foto personale, un punto di vista dalla finestra della propria “cameretta”, che diventa una cartolina da inviare scrivendo cosa si “sogna di vedere”.
Fig. 4 Particolare installazione/esempi scritto-grafici realizzati dalle classi del Liceo Matilde di Canossa RE 279
Fig. 5 Esempi scritto-grafici realizzati dalle classi del Liceo Matilde di Canossa RE
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Fig. 6 Esempi scritto-grafici realizzati dalle classi del Liceo Matilde di Canossa RE
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Fig. 7 Particolare installazione/esempi scritto-grafici realizzati dalle classi del Liceo Matilde di Canossa RE
Bibliografia De Nisco A., Esercizi di Laboratorio. Esperienze didattiche 2004/2009, Quaderni Canossa, Collana Arte Multimedialità/RE, 2010. Fenêtres de la Renaissance à nos jours à la Fondation de l’Hermitage, Catalogo a cura di Marco Franciolli, Skira, Milano, 2013. Bonini G., Visentin C., Istituto Alcide Cervi - Geografie, storie, paesaggi per un’Italia da cambiare, Aracne, Roma, 2013. Jakob M., Sulla panchina. Percorsi dello sguardo nei giardini e nell’arte, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 2014. Scarpa T., L’anima segreta delle cose, Gli specchi Marsilio, Venezia, 2015. Zaoui P., L’arte di scomparire. Vivere con discrezione, Il Saggiatore, Milano, 2015.
282
PARTE III PAESAGGI LENTI Escursione in Appennino
L’evoluzione dell’agricoltura nell’Appennino Reggiano Dal viaggio di Filippo Re ad oggi
Emiro Endrighi
Filippo Re – botanico, agronomo, docente universitario, letterato1 – compì il suo viaggio di studio nell’Appennino reggiano nel corso dell’estate dell’anno 1800. Le informazioni circa le condizioni incontrate in quella zona, relative non solo all’agricoltura, ma anche alle condizioni di vita, ai modi di essere e di pensare delle genti di montagna dell’epoca, sono desumibili dalla raccolta di lettere scritte da quei luoghi ed indirizzate all’amico don Fioroni e successivamente raccolte nel volume Viaggio agronomico per la montagna reggiana. Dalla lettura di quest’opera emerge un mondo tutt’affatto diverso dall’attuale; sicuramente più semplice nella sua articolazione socio-economica, prevalentemente basato su una agricoltura di autoconsumo, spesso isolato dalla zona di pianura e dagli avvenimenti socio-politici importanti. In termini comparativi risalta innanzitutto l’elevata complessità che oggi caratterizza il ‘Sistema Appennino’ rispetto a due secoli fa. La stessa agricoltura, su cui qui ci si focalizza, che da sempre svolge un ruolo determinante in questi territori, ha visto, a fianco della progressiva riduzione della sua importanza economica relativa, complessificarsi il suo rapporto con il territorio e con le sue diverse espressioni tramite, in particolare, la progressiva specializzazione, la forte interconnessione con altre attività, l’intreccio con i rilevanti interventi normativi e di sostegno che hanno caratterizzato, in particolare, gli ultimi 40 anni. Nelle presenti brevi note ci si concentra sulla configurazione strutturale del comparto agricolo, ponendone in evidenza, per quanto possibile, l’evoluzione nel corso dei due secoli trascorsi da quando Filippo Re compì il suo viaggio nel 1800, con un approfondimento sulle modifiche intervenute nell’epoca più recente.
L’evoluzione storica dell’agricoltura dell’Appennino Reggiano Le informazioni fornite da Filippo Re2 possono rappresentare il primo, seppur molto frammentario, punto di partenza di un excursus storico sull’agricoltura nella 1 Per una sintetica presentazione di Filippo Re si rinvia all’appendice. 2 F. Re, Viaggio agronomico per la montagna reggiana, Ed. orig.1927, ristampa del 1998 da parte di Parco del Gigante, Busana. 285
montagna reggiana. Tale fonte riporta indicazioni generali sulle produzioni agricole o, meglio, sulle piante coltivale e sugli animali allevati; sono assenti informazioni di tipo strutturale sulle singole unità che, ad ogni buon conto, si configurano come attività indirizzate all’autoconsumo, quindi molto diffuse e con ridotta produzione. Non sono quindi riconducibili a vere imprese rivolte al mercato, seppur locale, e finalizzate alla produzione di reddito. Per disporre di informazioni sullo stato dell’agricoltura in Appennino relative ad epoche successive bisogna attendere l’’Inchiesta Jacini’ ed, in particolare, i dati contenuti nella monografia redatta ai fini di tali indagine e curata da Andrea Balletti e Giulio Gatti nel 1888 3. Per una dettagliata rilevazione è però necessario arrivare ai censimenti dell’agricoltura realizzati a partire dal 1961 e ripetuti con cadenza normalmente decennale. Mentre il confronto tra i valori del medesimo parametro riferiti a momenti censuari diversi è decisamente fattibile, lo stesso non può dirsi tra questi e le precedenti due fonti di informazioni per cui la valutazione comparativa lungo l’arco temporale considerato (1800-2010) è difficile e quindi da effettuare cum grano salis. Tra l’altro si rende necessario omogeneizzare l’area di riferimento, assumendo – in quanto più limitata – quella dell’’Inchiesta Jacini’4; rimane poi da rimarcare che, mentre nei censimenti sono rilevate le aziende agrarie, nelle opere redatte per tale inchiesta è rilevata la proprietà fondiaria, generando quindi una certa discrepanza tra i dati. Tale differenza risulta comunque meno evidente in montagna in quanto la maggior parte dei proprietari sono anche coltivatori del fondo, risultando poco diffusi in queste zone la mezzadria o l’affitto. In via generale, si evidenzia che il numero di aziende presenti in Appennino è progressivamente diminuito, fino al 1990, ad un ritmo abbastanza costante, per poi subire una brusca accelerazione, rilevata da due riduzioni intracensuarie pari a circa il 50% (Tab. 1 e Fig. 1). In poco più di un secolo sono quindi scomparse nove aziende su dieci e sei su sette nel solo cinquantennio dal primo censimento ISTAT. Parallelamente, la superficie ha mantenuto dimensioni complessive quasi costanti fino al 1990 per poi subire rilevanti contrazioni negli ultimi due periodi intracensuari (-32% tra il ’90 e il 2000 e -28% tra il 2000 e il 2010) (Tab. 1). La combinazione tra l’evoluzione di tali due grandezze ha comportato il costante aumento nel corso del tempo della superficie media per azienda che passa da circa 3 ha nel 1888 a 4,7 ha nel 1961 (primo censimento agricolo) sino a raggiungere i 14,5 ha nel 2010. Questo andamento conferma che il fenomeno di redistribuzione della superficie coltivata (ancorché contrattasi nel complesso) in un numero minore di aziende di maggiori dimensioni, già in atto nella prima metà del ‘900, è proseguito significativamente con una spinta rilevante nell’ultimo ventennio. Ciò consegue sia dall’obiettivo degli operatori attivi di migliorare la redditività grazie alle economie di scala sia dalla costante riduzione del valore aggiunto per unità di prodotto, penalizzato 3 G. Badini, a cura di, L’agricoltura reggiana dell’ottocento. Le opere di Balletti-Gatti e Cantù per l’Inchiesta Jacini, supplemento a Reggio Storia, n. 91, 2001. 4 Tale area differisce da quella tradizionalmente identificata come territorio montano e coincidente con quella della (ex) Comunità Montana, in quanto non comprende, a differenza di quest’ultima, i comuni di Viano e Canossa; i comuni considerati nel presente saggio sono quindi: Baiso, Busana, Casina, Castelnovo ne’ Monti, Carpineti, Collagna, Lingonchio, Ramiseto, Toano, Vetto, Villa Minozzo. 286
Tab. 1 Evoluzione delle aziende agricole e degli animali allevati nell’Appennino Reggiano Censimenti ISTAT
Fonte
Filippo Re
Balletti
Anno
1800
1888
1961
1970
1982
1990
2000
2010
SAU - ha
44.516
43.426
46.008
42.808
39.431
26.918
19.429
N° aziende
13.648
9.280
7.641
6.292
5.414
2.547
1.345
3,26
4,68
6,02
6,80
7,28
10,57
14,45
Sup. media (ha) Animali allevati (N°) Bovini
15.580
14.241
28.163
27.096
31.829
32.729
25.463
23.826
Pecore
67.111
47.482
24.518
22.687
15.762
5.942
3.817
3.810
Capre
14.376
5.923
88
106
726
249
168
202
Suini
11.300
4.046
7.330
31.630
41.917
27.519
21.677
20.754
Fonte: elaborazioni da fonti varie (Re, Balletti-Gatti, ISTAT)
Fig. 1 Fig. Evoluzione delle aziende agricole nell’Anell'Appennino ppennino Reggiano (numeri assoluti e 1 - Evoluzione delle aziende agricole Reggiano variazioni intracensuarie)(numeri assoluti e variazioni intracensuarie) 16.000
0,0%
14.000
-10,0%
12.000
-20,0%
10.000 8.000 6.000 4.000
Var. %
-40,0%
N° aziende
-50,0%
2.000 0
-30,0%
1888
1961
1970
Fonte: ns. elaborazioni su dati Balletti-Gatti e Istat
1982
1990
2000
2010
-60,0%
Fonte: ns. elaborazioni su dati Balletti-Gatti e ISTAT
dalla concorrenza delle produzioni di pianura e di quelle importate, entrambe caratterizzate da minori costi di produzione. Da qui la chiusura di molte aziende e l’esodo dall’agricoltura e dalla stessa zona montana. Le informazioni relative alle coltivazioni sono limitate, anche piuttosto grossolane quelle riguardanti l’’800; il confronto, soprattutto tra le epoche temporalmente più distanti, è proponibile solo per ordine di grandezza. Per gli anni a cavallo del 1800, Filippo Re precisa che “tutta la nostra montagna produce all’incirca: Frumento, staja N. 45000. Fava staja N. 1000. Frumentone staja N. 2000. Misture staja N. 42000. Castagne staja N. 102000.”5. All’epoca della ‘Inchiesta Jacini’, Balletti e Gatti affermano 5 F. Re, 1998, p. 50. La trasposizione all’oggi, a fini comparativi, di informazioni relative a fenomeni piuttosto lontani nel tempo e misurati con modalità diverse è sempre operazione piuttosto problematica. Al solo fine di fornire un orientamento generale si propone la seguente ricostruzione: a) una staja è pare all’incirca a 60 litri (Ministero di Agricoltura, Industria e 287
Fig. 2 - Evoluzione del bestiame allevato nell'Appennino Reggiano
(n. capi) Fig. 2 Evoluzione del bestiame allevato nell’Appennino Reggiano (n. capi) 80.000
70.000 60.000 50.000 Bovini
40.000
Pecore
30.000
Suini
20.000 10.000 0
1800
1888
1961
1970
1982
1990
2000
2010
Fonte: ns. elaborazioni sda fonti varie (Filippo Re, Balletti-Gatti, ISTAT)
Fonte: ns. elaborazioni da fonti varie (Filippo Re, Balletti-Gatti, ISTAT)
che nella zona montana “la coltura predominante è quella dei cerali. Il castagno è la pianta più importante per le alte valli dell’Appennino”6. Nel ‘900 e, soprattutto, nell’epoca più recente si assiste al progressivo, ed oggigiorno pressoché completo, abbandono dei castagneti così come decresce la coltivazione dei cereali. Tant’è che nel 2015 la superficie destinata a quest’ultimi è pari a soli 706 ha (4,2% del totale) e il contributo di tale coltura al valore aggiunto agricolo della montagna non supera lo 0,7%7. Simmetricamente, essendo cresciuto di molto l’allevamento bovino che è alla base della più remunerativa produzione di Parmigiano Reggiano, le foraggere occupano oggi il 95% della superficie totale8. Relativamente agli allevamenti, avendo il Re fornito alcune informazioni dettagliate, è possibile quantificare, almeno a grandi linee, l’andamento su un arco temporale ampio (Tab. 1, Fig. 2). Emerge con tutta evidenza che nel corso di due secoli si è passati da una situazione di predominio dell’allevamento ovino ad una in cui gli animali allevati sono soprattutto suini e bovini. Mentre la diminuzione di importanza dell’allevamento ovino è stata graduale fino al 1980, per poi subire un tracollo, l’aumento dei capi bovini allevati è avvenuto soprattutto nella prima metà del ‘900 per poi attestarsi sulle posizioni raggiunte e subire un calo (-25% circa) nell’ultimo ventennio. La fortissima contrazione dell’allevamento di pecore è un fenomeno condiviso con parecchie altre zone per via della progressiva sostituzione con le vacche, maggiormente Commercio (1877), b) si assume che il valore ettolitrico del frumento fosse (all’epoca) compreso tra 40 e 50 Kg/hl. La produzione complessiva di frumento in Appennino a cavallo del 1800 avrebbe di conseguenza oscillato attorno ai 12-13.000 quintali (assai meno della metà di oggi). Con una resa media all’epoca che si può stimare non superiore ai 4-5 q/ha (e 5-9 q/ha per la pianura, vedi Farolfi B., Fornasari M., 2011, p. 20) la superficie complessivamente coltivata a frumento nell’Appennino reggiano si può ipotizzare oscillasse attorno ai 3.000 ha, più del quadruplo dell’attuale. 6 G. Badini, 2001, p. 33. 7 CCIAA, 2016. 8 Ibidem 288
produttive in una agricoltura più evoluta. Storicamente tale allevamento ha avuto un ruolo fondamentale e il formaggio di pecora - denominato caseo (in latino caseus) o cacio – era di gran lunga il più ricco degli alimenti. Solo dopo il Mille, quando le più produttive vacche sono impiegate non solo come forza motrice ma anche per la produzione di latte, il prodotto trasformato viene realizzato in formato maggiore impiegando apposite cascine (dette forme), da cui il termine, nel linguaggio del luogo, di formadio per il prodotto del latte di vacca. Nell’Appennino reggiano correva il Limes Bizantinum, il confine che vide contrapposte due culture. Da un lato quella calata con le invasioni Longobarde che riprende la cultura dei Galli con la diffusione del maiale (nero, una sorta di cinghiale domestico) come animale da carne unitamente anche all’introduzione di nuove vacche da latte; dall’altro permane la cultura bizantina ancora incentrata sull’allevamento della pecora. Nei secoli successivi la pecora venne scalzata dalle aziende di maggiori dimensioni, monastiche o di grosse famiglie feudali, permanendo nelle zone più povere come il crinale date le minori esigenze così da non entrare in competizione con l’uomo per l’impiego della terra destinata innanzitutto a soddisfare le esigenze alimentari delle famiglie. E la pecora unisce il grande pregio di fornire (oltre alla carne) latte e lana indispensabili per l’economia prevalente sino al Novecento nelle campagne appenniniche. La progressiva urbanizzazione ha ridotto o isolato i pascoli dove poter ‘svernare’, in particolare in pianura, e la mancanza di ricambio generazionale, spesso imposto, più che da motivi demografici, dal modesto riconoscimento sociale di tale lavoro, peraltro non faticoso ma impegnativo, hanno via via determinato la progressiva e inesorabile contrazione della pastorizia transumante. Ciononostante ancora nel 1955 nell’Appennino reggiano si contavano circa 50.000 ovini; i pastori praticavano con regolarità la transumanza, prima nelle zone della ‘bassa’ reggiana poi allargandosi in zone sempre più ampie fino ad arrivare in Toscana e nel Mantovano. La maggiore parte realizzava un formaggio a carattere locale e la razza largamente presente era la Massese. Oggi rimangono ben pochi capi ovini in Appennino, nonostante qualche significativa iniziativa imprenditoriale che fa leva su modalità innovative di allevamento e sulla valorizzazione della produzione locale del formaggio.
L’evoluzione in dettaglio negli ultimi 30 anni La struttura delle aziende In occasione del VI° Censimento dell’agricoltura (2010) sono state rilevate nell’area dell’Appennino reggiano 1345 aziende agricole con una SAU complessiva pari a 19.429 ettari (Tab. 1). Rispetto al Censimento del 1982, il numero delle aziende risulta diminuito del 78,6 %, a fronte di una riduzione proporzionalmente più contenuta, ma comunque elevata, della SAU (- 54,6%). In ogni caso, in trent’anni sono stati persi circa 23 mila ettari di terreno agricolo. Il differente andamento delle due variabili si è riflesso sull’estensione della SAU media delle aziende montane che nel trentennio è più che raddoppiata passando da 6,8 a 14,5 ettari. Al 2010, la distribuzione delle aziende e delle relative superfici per classi di estensione mostra come nel settore agricolo appenninico risulti ancora massiccia la 289
presenza di micro-aziende, nonostante negli ultimi decenni molte abbiano chiuso e almeno parte dei relativi terreni siano stati redistribuiti tra le aziende rimaste attive (Fig 3). Infatti, sono ben 504 (pari al 37,4% del totale) le aziende che hanno meno di 5 ettari di SAU, con un grado di copertura soltanto del 6,1% della SAU complessivamente rilevata in Appennino; di contro le aziende con oltre 30 ettari di SAU sono 175 e, pur rappresentando il 13,0% del totale, coprono il 50,7% della SAU totale. Dal confronto con i risultati del Censimento del 1982 emergono alcune differenze nella dinamica delle aziende e relativa superficie in relazione alle diverse classi di SAU (Fig. 4). Mentre infatti nel trentennio la numerosità totale delle aziende è diminuita del 78,6%, il fenomeno è stato via via meno intenso all’aumentare della SAU: da – 95,9% per la classe ‘meno di un ettaro’ a – 28,0% per la classe 20-30 ha, fino ad osservare un aumento di circa il 20% sia nel numero di aziende che nella SAU per la classe 30 – 50 ha e del 94% per le aziende e 80% per la SAU nella classe 50 -100 ettari. Infine una drastica riduzione per quelle di dimensione superiore ai 100 ettari. Andamento questo marcatamente differente da quello che si osserva prendendo in considerazione l’intera provincia di Reggio Emilia ove si nota che, a fronte di una forte riduzione di aziende e SAU per le classi fino a 30 ettari, si hanno consistenti aumenti per le classi superiori, a significare una ridistribuzione dell’attività agricola verso aziende di maggiori dimensioni che in Appennino è avvenuta solo nell’ambito delle aziende di medie dimensioni. Nell’Appennino reggiano continuano a prevalere largamente le aziende a conduzione diretta del coltivatore e, tra queste, quelle condotte con manodopera esclusivamente familiare. Nel 2010 sono 1.285, pari 95,5% del totale (93,7% nel 2000). Parimenti sono 1.241 (92%) le aziende con soli terreni in proprietà, mentre le altre combinano a quelli in proprietà altri terreni in affitto e/o in uso gratuito. Da segnalare infine la rilevanza del fenomeno della dispersione dei terreni per singola azienda; nell’area appenninica reggiana 688 aziende (51,2%) opera su sei o più corpi (circa la metà di queste, addirittura su più di 10). Tenuto conto che a livello dell’intera provincia la quota di aziende così altamente parcellizzate è del 16%, è del tutto Fig. 3 Distribuzione (in percentuale) delle aziende dellaper SAU per di classi Fig. 3 - Distribuzione delle aziende e dellaeSAU classi SAUdi SAU nel 2010 (Distribuzione % nel 2010) nell’Appennino Reggiano 25,0 20,0 15,0 10,0
Aziende
S.A.U. (ha)
5,0 0,0
Fonte: ns. elaborazioni su dati ISTAT 290
evidente l’intensità del fenomeno nella zona montana e soprattutto la sua ricaduta negativa in termini di efficienza delle operazioni e quindi di appesantimento dei costi di produzione.
Gli allevamenti Alla data del VI censimento, le aziende agricole dell’Appennino Reggiano che praticavano l’allevamento di bestiame erano 644, pari al 47,9% del totale. Si tratta di una numerosità nettamente inferiore (-87%) rispetto a quella rilevata nel 1982, con perdite proporzionalmente maggiori rispetto al complesso delle aziende agricole (6 punti in %). Ciò in quanto una parte delle aziende sopravvissute hanno comunque escluso l’attività zootecnica, proprio a causa degli elevati impegni di manodopera e di investimenti materiali che comporta. L’allevamento maggiormente diffuso è quello dei bovini (490 aziende e 23.826 capi); seguono gli allevamenti di ovini (61 aziende e 3.810 capi) e di suini (40 aziende e 20.754 capi). Con riguardo al trentennio 1982-2010, le dinamiche relative agli allevamenti delle diverse specie di bestiame non sono dissimili da quelle generali. Le perdite più consistenti hanno interessato l’allevamento di suini (- 93% di aziende e – 50,5%di capi) mentre sono state solo lievemente più contenute, ancorché di notevole entità, le riduzioni del numero di aziende con allevamenti bovini (-77% di aziende e –25,1% di capi) mentre per gli ovini s’è contratto pesantemente il numero degli animali (-58% di aziende e -75,8% di capi). La realtà zootecnica di maggiore rilievo nell’Appennino Reggiano risulta essere quella dell’allevamento bovino da latte per lo più destinato alla trasformazione in Parmigiano Reggiano; tant’è che le vacche da latte rappresentano all’incirca il 70% dei capi cui sono da aggiungere le giovani femmine per la rimonta. Le dinamiche dell’articolazione per classe dimensionale di tale allevamento nell’Appennino reggiano nel corso del trentennio 1982-2010 hanno comportato la drastica diminuzione del Fig. 4 -eAziende Sau per classi Sau nell' Appennino Reggiano percentuali Fig. 4 Aziende Sau per eclassi di Sau nell’diAppennino Reggiano (Variazioni (Variazioni percentuali 2010 - 1982) 2010 - 1982) 100,0 80,0 60,0 40,0 20,0 0,0 -20,0 -40,0 -60,0 -80,0 -100,0
Fonte: ns. elaborazioni su dati Istat
N° aziende S.A.U. (ha)
Fonte: ns. elaborazioni su dati ISTAT 291
numero di aziende per tutte le classi dimensionali fino a 20 capi (tra –87 e –95%). La fascia 20–50 capi è rimasta pressoché stabile (147 aziende) mentre sono nettamente aumentate quelle maggiori: quella 50–100 capi passa da 32 a 104 aziende e quella 100200 da 3 a 54 aziende. Le aziende bovine di dimensioni superiori, assenti nel 1982, sono 12 nel 2010. L’andamento nel tempo e l’attuale configurazione non sono esclusivi dell’Appennino; ricalcano quanto osservabile nell’intero territorio provinciale con la differenza di una maggiore traslazione verso le classi dimensionali maggiori tanto che la moda cade sulla classe 50-100 capi in provincia contro quella 20-50 capi per l’Appennino e che le aziende con più di 500 capi sono 33 in pianura mentre sono assenti in montagna.
Le prospettive L’evoluzione del settore agricolo ha visto un progressivo mutamento del ruolo e delle funzioni assegnate all’agricoltura e a coloro che operano in esso. Da una parte, si è assistito alla progressiva industrializzazione del settore che ha portato al costante ridimensionamento delle attività agricole nelle zone marginali inadeguate ai sistemi intensivi, come quelle appenniniche. L’intensivazione dell’agricoltura ha indotto la variazione del suo rapporto con l’ambiente, slegando i processi produttivi dalle sole esigenze di sussistenza della famiglia, concentrando la produzione, delegando la fase di trasformazione all’industria così che spesso si sono creati i presupposti per l’insorgere di problemi di conservazione/manutenzione del suolo in aree montane. Con la progressiva trasformazione del settore e il manifestarsi degli effetti negativi ad essa legati, si è parallelamente acuita la sensibilità della società verso la questione ambientale e la salubrità degli alimenti, portando ad una nuova concezione dell’agricoltura che vede lo sviluppo sostenibile e l’ambiente come elementi prioritari. In controtendenza con l’agricoltura tecnologica emergono nuove realtà produttive che si rifanno a metodi diversi da quello standard (lotta integrata, biologico, biodinamico); essi cercano di rispondere alle nuove sensibilità della società sviluppando una agricoltura che sia anche occasione per recuperare il legame con l’ambiente naturale e le tradizioni, aspetti questi più facilmente valorizzabili per quelle realtà aziendali fino ad ora rimaste ai margini dei più spinti processi di intensivazione perché localizzate in aree svantaggiate come quelle appenniniche. Il territorio rurale non è più esclusivamente recepito come agricolo, ma come luogo di interazione tra forme economiche, sociali e culturali sfuggite all’azione omologante della società industriale; questo processo porta all’affermazione di nuovi modelli di produzione, fortemente legati ai territori di origine e prevalentemente finalizzati alle caratteristiche di qualità dei prodotti piuttosto che alle rese del processo. Il territorio appenninico è quindi da considerare come un sistema locale rurale dove interagiscono tra loro soggetti diversi, quali l’ambiente, le famiglie, le imprese e le istituzioni e in cui l’agricoltura è una componente interrelata sia in termini di sistema agroalimentare sia, più globalmente, con le diverse componenti e manifestazioni fisico- ambientali e socio-economiche. Nei territori appenninici si deve quindi sottolineare il significato profondo del contesto territoriale combinato con alcune specificità, quali: 292
• • • •
il maggior ruolo dell’agricoltura nell’ambito dell’economia della zona; la più ampia gamma di funzioni extra-produttive che l’agricoltura di montagna è chiamata a svolgere o che, comunque, sono (sarebbero) sempre più attese dalla società; la minore redditività, in media, delle aziende agricole appenniniche, normalmente di dimensioni più contenute, con conseguente maggiore fragilità economica e minore attrattività in termini occupazionali; la necessità di ricercare integrazione con redditi provenienti da altri settori che sono, però, assai meno sviluppati in tali aree e, quindi, in grado di offrire ad oggi minori opportunità.
Bibliografia Badini G. (a cura di), L’agricoltura reggiana dell’ottocento. Le opere di Balletti-Gatti e Cantù per l’Inchiesta Jacini, supplemento a Reggio Storia, n. 91, 2001. Badini G., Fresta A., Alto Appennino Reggiano, l’ambiente e l’uomo, Ed. Cassa di Risparmio di Reggio Emilia, 1987. C.C.I.A.A. Reggio Emilia, Il valore aggiunto dell’agricoltura a Reggio Emilia. Anno 2015, Reggio Emilia 2016. Endrighi E. (2002), Le produzioni tipiche locali tra strategie d’impresa e promozione del territorio, in E. Basile, D. Romano (a cura di) Sviluppo rurale: societa’, territorio, impresa, Franco Angeli Editore, Milano, pp. 444-462. Farolfi B., Fornasari M., Agricoltura e sviluppo economico: il caso italiano (secoli XVIII-XX), in M. Canali G. Di Sandro B. Farolfi M. Fornasari, L’agricoltura italiana e gli economisti agrari dall’Ottocento al Novecento, Franco Angeli Editore, Milano 2011. Guardasoni M., (1955), Le pecore nell’Appennino reggiano, in Il pescatore reggiano. Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, Tavole di ragguaglio dei pesi e delle misure già in uso nelle varie provincie del Regno col sistema metrico decimale, (Approvate con decreto reale 20 maggio 1877, n. 3836), Stamperia Reale, Roma 1877. Re F., Viaggio agronomico per la montagna reggiana, Ed. orig.1927, ristampa del 1998 da parte di Parco del Gigante, Busana.
293
Appendice Brevi note su Filippo Re Filippo Re nasce il 20 luglio1763 a Reggio Emilia. La famiglia Re, di origine lombarda, si era trasferita in Emilia a partire dal nonno di Filippo, cui era stato assegnato, dal Duca Francesco III d’Este, l’incarico di riscuotere le gabelle. In breve la famiglia fa fortuna, acquista numerosi terreni, si fa strada nell’alta società del tempo e ottiene il titolo nobiliare di Conte. La famiglia è invero un po’ particolare. Il fratello maggiore Antonio è un uomo ambizioso e spregiudicato; ricopre diversi ruoli politicoistituzionali sia nella fase repubblicana che dopo il 1815 quando diventa governatore di Reggio. La madre è, secondo lo stesso Filippo, retriva e bigotta; due sorelle sono monache e l’altro fratello, Ignazio, canonico. Filippo viene mandato a studiare a Ravenna presso il Collegio dei Gesuiti ma nel 1773, con la soppressione della Compagnia, ritorna nella città natale e prosegue gli studi nel Seminario-collegio di Reggio dove nel 1781 ottiene il diploma. Il padre vorrebbe che si dedicasse alla matematica ma lui preferisce la botanica; a tal fine utilizza il giardino di casa e l’orto di Santa Croce dotandolo di serre e di un laboratorio attrezzato con moderni strumenti analitici. Manifesta da subito una sensibilità culturale e scientifica non separata da un impegno pratico muovendosi tra l’osservazione, la sperimentazione e la classificazione. Nel 1790 il Duca gli assegna la cattedra di agricoltura a Reggio Emilia; gli appunti delle relative lezioni saranno poi da lui stesso raccolti e pubblicati nel testo Elementi di agricoltura. Nel 1795 viene invitato a Firenze all’Accademia dei Georgofili dove presenta una sua memoria, di stampo scientifico ma con chiaro intendimento applicativo, dal titolo Della più vantaggiosa ed economica maniera di concimare i campi. Filippo è un uomo prudente; nel periodo rivoluzionario più intenso anche un po’ frastornato. Pur ricoprendo cariche politiche cittadine è spesso in difficoltà, compresso tra opposte fazioni. Nell’aprile del 1798, in concomitanza con una forte ondata giacobina, si rifugia alla Mucciatella (poco fuori Reggio), presso il suo amico don Fioroni per sentirsi libero e dedicarsi ai suoi studi. In compagnia di quest’ultimo compie, in quello stesso anno, il primo significativo viaggio nell’Appennino reggiano resocontato ne ll viaggio al monte Ventasso e alle terme di Quara, allo stesso tempo testimonianza delle doti di osservatore acuto di Filippo Re e documento storico sulle condizioni del territori all’epoca. Dopo un breve ritorno in città Filippo l’abbandona di nuovo e nell’estate del 1800 compie il secondo viaggio in Appennino il cui resoconto, in forma epistolare, è rinvenibile nel libretto dal titolo Il viaggio agronomico per la montagna reggiana. Nei successivi 3 anni si dedicherà esclusivamente agli studi, agli erbari, alle pubblicazioni. Nel 1803, sotto Napoleone, ottiene l’incarico di professore di Agraria all’Università di Bologna e dal 1805 al 1806 sarà Magnifico Rettore di quella Università. A Bologna si impegna per sviluppare l’Orto Botanico, avvia la pubblicazione degli Annali di agricoltura del Regno d’Italia, promuove e coordina la prima moderna inchiesta agraria nel panorama italiano - pubblicata sui fascicoli degli Annali fra il 1809 e il 1813 - concepita per delineare il quadro agrario di ogni comprensorio, con riguardo alle colture più diffuse, le rotazioni, i sistemi di conduzione, gli strumenti, gli allevamenti maggiori fino all’orticoltura e alle industrie agrarie. 294
Caduto il Regno d’Italia, Filippo Re perde la cattedra all’Università di Bologna; grazie alla sua fama gli viene offerta la cattedra di agricoltura sia da Napoli che da Pavia ma, per rimanere vicino a casa, accetta la proposta degli Estensi e diventa docente di Agraria e Botanica all’Università di Modena. Si impegna molto nell’insegnamento e negli studi diventando anche direttore dell’Orto Botanico che cura con particolare impegno e che arricchisce di nuove piante. Muore il 26 marzo del 1817 durante una epidemia di tifo. La posizione di Filippo Re è riconducibile ai valori e agli ideali di un illuminismo temperato, in una Emilia della scienza e del sogno neoclassico; sicuramente attento alle scoperte e alle innovazione, in campo agronomico e non solo, volto ad integrare l’agronomia italiana nel contesto europeo, tende a privilegiare una saggia empiria, il senso del molteplice, della ‘diversità’ facendo frequente ricorso all’indagine diretta ed al confronto tra situazioni diverse onde trarre conoscenze ed indicazioni operative. Forse si attarda sull’economia signorile ma non ne ignora i limiti. Osservatore straordinario e scrittore efficace, ha fatto ricorso a generi diversi per presentare il suo lavoro scientifico: la memoria, il saggio, la dissertazione, la prolusione accademica, l’elogio; ed ancora: il trattato, il manuale e l’almanacco, dove si rivolge non solo ai proprietari ma anche ai ‘rustici’ perché il miglioramento venga scientificamente motivato e, per quanto possibile, diffuso a tutti gli strati sociali. A parte qualche slancio letterario, i suoi testi sono ricondotti entro quadri di realtà, sviluppati sull’osservazione e sull’analisi delle cose e degli uomini, conformemente a quell’ empirismo critico che è il suo habitus, confermato dalla tendenza a riferirsi sempre ad esperienze verificate di persona. La sua cultura fu ampia ed estesa, possedendo una biblioteca dove abbondavano le opere letterarie; già ampia quando la ereditò dal padre, con le sue aggiunte arrivò a contare 4200 volumi nel 1811. Filippo Re è un osservatore straordinario, scienziato in grado di integrare discipline diverse, capace di rivolgere il suo sguardo lucido e penetrante verso i luoghi, gli elementi animati e inanimati dell’ambiente e allo stesso tempo verso gli uomini e il loro comportamento. Mentre esplora la montagna è attento soprattutto ai fatti reali: le produzioni, l’istruzione, il ruolo dei parroci, che di solito lo ricevono e gli danno accoglienza ed ospitalità. E dalla fase interpretativa passa a quella propositiva; alla capacità di cogliere e descrivere le forme di vita, le miserie, le difficoltà, abbina indicazioni sulle possibili riforme, i miglioramenti di questa o di quella coltivazione, come nel trattatello Dei mezzi di migliorare l’agricoltura delle montagne reggiane. ‘Riforma’ è una delle parole che più gli stanno a cuore e che sarà una direttiva costante del suo agire di scienziato.
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Bibliografia Bonini G., Canovi A. (a cura di), Narrazioni intorno a Filippo Re, Edizioni Diabasis, Reggio Emilia, 2006. Casadei F., Filippo Re e le discipline agrarie tra ricerca e didattica universitaria: temi di un percorso storiografico, in Filippo Re e le sue lettere a duecentocinquanta anni dalla nascita, (a cura di) Biblioteca di Agraria “Gabriele Goidanich”, Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, 2013. Sereni E., Pensiero agronomico e forze produttive agricole in Emilia nell’età del Risorgimento: Filippo Re, in Sereni E., Per la storia del paesaggio agrario e del pensiero agronomico dell’Emilia Romagna, I Quaderni del Museo della Civiltà Contadina 4, Bologna, 2012.
Fig. 5 Giovanni Antonio Sasso, Conte Filippo Re, [S.l., s.n., 1809-1827 ca.], incisione su carta non vergata, maniera a punti e acquaforte. Esemplare acquerellato. 296
Montagna inCantata Intorno ad una geoesplorazione in Appennino Antonio Canovi
Cronica, 25 agosto 2016: l’Appennino reggiano in tre soste geonarranti (in sinergia con il Consorzio di Bonifica dell’Emilia Centrale) La prima sosta è al Casale di Bismantova. Alla fontana che data al 1879, per la precisione: da qui risaliamo verso la base della Pietra seguendo la Via Crucis disposta dagli abitanti del luogo. Il cammino è lieve. Nel bosco si costeggiano grandi totem naturali di pietra distaccatisi dalla cima. Così avvicinata, la Pietra si lascia appena intravedere, perde la posa da diva e lascia il posto al sentimento. Che cosa significhi questo gran sasso nella memoria e nell’immaginario dei nativi ce lo spiega una guida d’eccezione, la signora Paola Favali, coltivatrice diretta e “bismantina” di nascita.
Fig. 1 La Pietra di Bismantova vista da sud. 297
La cronaca di Filippo Re «...giunti in faccia alla Pieve di Castel Novo de’ monti ci rivolgemmo a levante per salire su Bismantova, che le sta in faccia. La nostra poca pratica ci fe’ sul principio sbagliare la via, che per altro è disastrosa; ma rimessi sul buon sentiero, dopo un’ora e mezzo ci trovammo al romitaggio. [...] Bismantova è un alto monte composto, per quanto è dato di vedere, da un sasso rivestito in alcuni luoghi di buona terra coltiva. [...] La strada, o a dir meglio il dirupato sentiero, che conduce alla sommità del sasso, è appena praticabile. [...] Essa abbonda di prati interrotti da folte macchie. La nostra guida ci assicurò, che un anno per l’altro vi si ricavano ottanta buoni traini di fieno, cioè circa mille pesi, oltre il pascolo. Vi sono pure dei campi coperti di scandella, che danno sessanta staja circa di raccolta.»
Viaggio al Monte Ventasso e alle Terme di Quara nel Reggiano, 1798. La seconda sosta è a Cerreto Alpi. Qui proponiamo un nuovo scostamento di paesaggio. Lasciamo a monte l’ingresso stradale, per traversare a piedi il piccolo ponte sul Secchia. Siamo al Mulino in pietra, oggi trasformato in struttura di accoglienza per il turismo slow dalla cooperativa di comunità dei “briganti del Cerreto”: una bella esperienza di rigenerazione a “quota Mille”. Il borgo storico in sasso è una perla dell’architettura appenninica: inframmezzate alle case tra loro addossate, come a proteggersi vicendevolmente dalle intemperie, si dispongono piccole corti dove gli abitanti avvicendavano i raccolti di stagione. C’è persino un metato per le castagne. Le vie sono cammini tortuosi, punteggiati di fontane medievali. Il pranzo con i cooperatori è una festa conviviale.
La cronaca di Filippo Re Culagna [Collagna], 17 agosto 1800. «…debbo darvi contezza di uno dei paesi più poveri dell’alpe. Quest’è Cerreto dell’Alpi villa di 260 persone, antica colonia di Culagna. Situata poco lunge dalla origine di Secchia al nord-est, cinta dall’alpi al sud ed oves rimane esposta a tutta la furia dell’aquilone. L’inverno vi è qui lunghissimo, e crudele. Appena si semina frumento che non frutta che il due. Non si conoscono quasi né veccia, né fava. Le scandelle danno il 4 e mezzo e fra il sei e il sette le segale (Secate cereale L.). Hanno bellissimi canepai lavorati coll’aratro. Che ne sarebbe se li vangassero? Ristretti ma rigogliosi sono gli orti. Da due o tre anni in qua seminano rape in alcuni campi posti sull’alpe, e vi riescono assai. Quivi penso che benissimo riuscirebbero le patate. Anche i fagioli meriterebbero di essere coltivati. I pascoli ed i prati sono ottimi. Segano questi ultimi sino a due volte, massime quelli vicini all’abitato. Pure con molto foraggio hanno poco bestiame. Non contano più di 500 tra vacche e vitelli, otto o dieci branchi di pecore e capre, poco numerosi. [...] In alcuni siti prosperebbono le castagne, ma nessuno si azzarda a piantarne. In questo villaggio gli abitanti provano tutti gli effetti 298
dell’influenza del freddo sul morale. Vi si fabbricano però delle pietre da aguzzare i ferri da segare.
Viaggio agronomico per la montagna reggiana, edizione anastatica Parco del Gigante, 1998. La terza sosta è Gazzolo. Il tempo stringe e lasciamo a parte il centro storico, pur suggestivo nella sua compattezza medievale, per dirigerci verso la microarea artigianale. Qui si trova una grande Latteria sociale che funge da punto di riferimento della filiera lattiero-casearia per gli allevamenti posti a monte, nel Ramisetano. La sosta prevede due momenti: una riflessione in chiave comparativa sulla montagna, l’abbandono e le nuove iniziative di rigenerazione (Appennino emiliano/Piemonte); la visita ai diversi comparti della Latteria, accompagnati dalla famiglia del casaro, naturalmente con assaggio finale.
La cronaca di Filippo Re Nismozza, 26 luglio 1800. «Pigliossi la via di Gazzolo, che non è separato da quello [da Gottano, ndr] se non se da una frana (lavina), abbenché segnato assai lontano nella Carta Vandelli. Qui lavorano a tre stagioni. Dividono ogni fondo in tre parti. Una rimane vuota. Questa travagliano in estate per seminarvi poi in primavera scandelle, veccie e moco (Ervum Ervilia L.), e nell’autunno seguente la coprono di frumento. Un tal uso sembra necessario per la sterminata ampiezza, e distanza dei fondi appartenenti ad uno stesso agricoltore, per la scarsezza delle braccia, mentre qui non sono che 134 abitanti, e per la brevità dell’estate. I boschi sono numerosi come i pascoli, e perciò piuttosto abbondanti sono i bestiami, mancando solo le capre. E’ un gran male che il terreno sia particolarmente verso levante soggetto a franare. Esso corrisponde al lavoro, ma rende poco più di un tre. Seminano le spelte nei ronchi. Far dei ronchi vuol dire colà dissodare una porzione di terreno incolto collo svellere il bosco e gli sterpi dalle più profonde radici, e seminarlo di grani. Raccolti questi viene il terreno nuovamente per più anni abbandonato. Nessuno può appropriarsi questi ronchi. Essi sono posseduti nel lungo giro di più anni da tutti i singoli. La proprietà rimane della villa. Le castagne di Gazzolo sono belle. Vi si trova molta uva, che non si lascia maturare per un abuso comune a tutta la montagna superiore, onde i vini ne soffrono assai. Le api qui prosperano, e se ne trovano molte. In questo paese appena si conosce la vanga.»
Viaggio agronomico per la montagna reggiana, edizione anastatica Parco del Gigante, 1998.
Montagna inCantata: geofilosofia di un progetto Partiamo dal documento di presentazione del progetto (stilato nella tarda primavera 2012). Vi si legge che Montagna inCantata costituisce la «prima goccia 299
stillata dal progetto Camminare nel paesaggio della comunità promosso dal Consorzio di Bonifica dell’Emilia Centrale (CBEC), in collaborazione con gli attori sociali della comunità di Civago e dell’Alta Val Dolo, a cominciare dalla Pro Loco e dalla Cooperativa “Alti Monti”». Il nucleo progettuale (pensato con l’associazione Eutopia-Rigenerazioni territoriali) ruotava attorno al concetto di Laboratorio di comunità. Sei le parole-chiave enucleate: paesaggio (interrogare l’identità culturale); geostoria (l’abitare nel tempo e nello spazio come forma di conoscenza); memoria (i saperi nativi assunti come tradizione da reinterrogare in quanto “maestria”); geoeplorazione (occorre camminare per cambiare di postura ed apprendere nel mondo che cambia, nella convinzione che non vi sia nulla di più esotico della geografia esperita nella quotidianità); quota mille (la quota altimetrica limite su cui si è attestato l’uomo per vivere stanzialmente in Appennino); rigenerazione territoriale (assumere il presente come posta in gioco). Il Consorzio scelse come sito territoriale di sperimentazione del progetto Civago, il borgo più alto della Val Dolo, a ridosso del crinale tosco-emiliano. Le linee guida del progetto furono condivise in modo particolare con Teresa Giglioli (sua l’idea di collegarsi con la scuola per arrivare agli adulti: partimmo dalla scuola d’infanzia di Case Bagatti) e Angela Tincani, il tecnico “reputato” della zona, presenza fondamentale per assicurarsi buone relazioni con gli abitanti nativi. Per la conferenza stampa si fece una scelta mirata, fuori dagli schemi consueti, e ciò nell’intento di spostare fisicamente lo sguardo dell’opinione pubblica verso “quota mille”: la piazzetta di Civago, nel giorno del solstizio d’estate. Ne usciranno una bella giornata e la prima geoesplorazione, assieme ad un nutrito gruppo scolastico della secondaria di Villa Minozzo. L’azione di rigenerazione fu concentrata nella settimana fra il 28 luglio e il 5 agosto, a ridosso dell’alta stagione turistica (che si trovava ormai ridotta, parliamo di cinque anni fa, a due settimane). Per fare cosa? Fondamentalmente, per reinterrogare le memorie “dormienti” della comunità e reinterpretarle in quanto patrimonio presente - non trapassato - di maestrie e saperi e culture. CBEC aveva la reputazione, in quanto erede del Consorzio Tresinaro-Secchia, per offrirsi come attore riconosciuto della modernizzazione del territorio, tra gli anni ’50 e ’60 del Novecento. Quello fu il paradigma assunto come fondale storico, con ben tre mostre allestite: una prima, con materiale documentario di CBEC, dedicata alla costruzione delle infrastrutture territoriali; una seconda, con gli scatti del parroco di Civago, nel medesimo periodo storico, assemblata tramite procedura partecipativa insieme agli abitanti; una terza, dedicata sempre alla fotografia, con scene storiche della vita in Appennino. Due, infine, i luoghi di memoria individuati per fungere da “fuoco comunitario” della rigenerazione auspicata: la vecchia scuola primaria e il mulino abbandonato. La settimana trascorse come esercizio permanente di reinterpretazione della memoria collettiva e dello spazio geografico abitato dalla comunità di Civago. Ogni giorno ci si muoveva in modo differenziato, mai con mezzi meccanici, sempre camminando tra luoghi diversi: dai “picchiarini” ai cantori del Maggio, dai musici ai taglialegna, dai partigiani agli emigrati, dai poeti popolari alla cucina di erbe spontanee, dagli usi civici alle narrazioni storiche alle geoesplorazioni. Lo scopo era quello di far “cantare” le cose di ogni giorno della comunità locale, la Montagna inCantata, per l’appunto. Una opera di disseminazione rigenerativa che troverà la sua 300
Fig. 2 Fontana storica del Casale di Fig. 3 Stazione della Via Crucis nel bosco di Bismantova. Bismantova
messa in scena rituale con la posa pubblica di targhe geo-antro-referenziate riferite a luoghi e situazioni del paese. Quale voce narrante, seguendo la suggestione di Tonino Guerra a Pennabilli, fu scelta l’opera di un poeta popolare del secondo dopoguerra, defunto ma ancora ben ricordato: Ralfo Monti, nativo di Civago e testimone con la propria biografia di marinaio della diaspora culturale dell’Appennino nel mondo. Se le aspettative riposte nel progetto da parte del Consorzio erano tante, bisogna anche dire che i nostri referenti nella comunità locale erano sì contenti, ma non ancora convinti. La settimana girò in realtà subito bene: quando reinterrogate in modo adeguato, le vocazioni territoriali si manifestano per quel che valgono, una memoria a noi presente. A Civago abbiamo compreso come l’Appennino abbia di che inCantare, a patto di oltrepassare quel rassegnato scetticismo che alberga tra le generazioni in bilico fra tradizione e globalizzazione.
Abitare la terra, geoesplorare nel paesaggio Dalla prima edizione, Montagna inCantata ha preso la consistenza di un format culturale. Abbiamo esplorato nuove geografie, dell’Appennino e non solo, attrezzandoci per incontrare comunità locali tra loro differenziate. Il metodo geostorico ha questa forza euristica: guarda al paesaggio come ad un bene comune, fragile e mutevole negli esiti a venire quanto inalienabile nel suo portato storico di saperi complessi 301
e stratificati. Questa modalità interpretativa ha fatto leva sulla capacità di CBEC a strutturarsi, con i suoi operatori, in quanto formidabile nodo di rete territoriale. Il tecnico del Consorzio, in tal senso, ha acquisito con Montagna inCantata sempre maggiore consapevolezza del proprio ruolo di interprete del paesaggio in cui opera; contestualmente, le sinergie territoriali attivate nel corso degli anni hanno consentito una migliore efficacia dell’offerta interpretativa. Come raccontare il vecchio “mestiere dell’acqua”? La rigenerazione è un processo di reinterpretazione espressiva. Abbiamo provato a riattivare tutti i sensi di cui siamo dotati, cercando interlocutori tra poeti, cantori, musici, teatranti, artisti e sempre più con i nuovi interpreti della cucina naturale. La implementazione dei processi reticolari e partecipativi - ce lo ha mostrato Maria Lai - favorisce l’appaesamento, ma domanda un lavoro approfondito sotto il profilo memoriale. Andar per memorie “nel” Paesaggio lo abbiamo fatto dalla prima edizione ed è assimilabile ad un vero e proprio “lavoro del lutto”, dove si sceglie tra ciò che va obliato e quanto intendiamo trasmettere. Attivare strumenti efficaci di interpretazione “nel” paesaggio, giusta questa filosofia progettuale, diventa un elemento di rilievo all’interno dei processi culturali, ma anche demografici, che percorrono le geocomunità a “quota mille”. Con la finalità ultima di favorire il ritorno alla montagna. Della memoria, individuale e collettiva, ci interessa in tal senso la sua natura carsica e persistente, la capacità di rispondere alle domande che stanno nel presente, la facoltà di offrire risposte che si proiettano nel futuro. Nella formula di festival diffuso, Montagna inCantata ha investito sempre più su appuntamenti a carattere multi espressivo, complessi nella gestione, ma anche passibili di suscitare tra i partecipanti momenti esperienziali, dunque memorabili. I macro temi frequentati nel corso degli anni - mestiere dell’acqua, biodiversità, maestrie, usi civici, ecc. – sono stati via via inanellati secondo una modalità orizzontale, che potremmo definire concettualmente infrastruttura seminariale diffusa.
“Dal Po a quota Mille”: un territorio, otto paesaggi d’acqua Nel 2012 ho cominciato a geoesplorare il territorio che si estende tra i bacini dell’Enza e del Secchia, di competenza del Consorzio di Bonifica dell’Emilia Centrale. Nel 2016, con Maria Teresa Gilioli - la responsabile della didattica e della comunicazione in CBEC -, abbiamo provato a fare un esercizio di riconoscimento geostorico che si sta rivelando assai proficuo nella progettazione didattica e culturale: la “traduzione” di questo territorio idraulico in forma di paesaggio. Per questa via, abbiamo identificato otto distinti paesaggi: l’Alto Appennino, dove l’uomo ha situato a “quota mille” la propria linea altimetrica di resilienza; l’Appennino Interno, caratterizzato da estesi coltivi strappati ai torrenti e difesi dalle frane; - la Collina che strapiomba sulla pianura, paesaggio calanchivo e fragile per eccellenza; - l’Alta pianura punteggiata di fontanili e attraversata dai canali storici discendenti dal fiume Secchia e dal torrente Enza; - i Prati stabili irrigui della Val d’Enza, straordinaria invenzione agronomica che presiede alla genesi della filiera lattiero-casearia, oggi assunta sotto il profilo culturale come patrimonio immateriale dell’umanità; 302
Fig. 4 Stazione della Via Crucis nel bosco di Fig. 5 Corsisti durante l’escursione nel bosco Bismantova. di Bismantova.
- la Via Emilia, alla quale ha fatto capo l’opera di centuriazione in epoca romana e che costituisce tuttora la “frontiera” interna alla regione, distinguendone la parte asciutta da quella irrigua; - la Bassa pianura, scolpitasi nel vivo del corpo a corpo tra l’uomo e le acque, di cui sono caratteri paesistici distintivi le Valli e le Casse di Espansione, tra loro in equilibrio grazie alle grandi opere di canalizzazione e ai monumentali nodi idraulici; - il Fiume Po, con le sue ampie golene e la civiltà “costiera” che vi si è consolidata lungo il perimetro dell’argine maestro.
Un territorio -dieci, cento, mille paesaggi da geoesplorare? La geoesplorazione è, al fondo, una modalità transculturale: traduce i dati del reale in dati esperienziali. Attraverso i cinque sensi “facciamo esperienza”, ovvero reimmaginiamo la realtà esterna in relazione al movimento tracciato dal nostro corpo. Perciò, tecnicamente, si procede slow: camminando, pedalando, remando… comunque procedendo con uno sguardo “rasoterra”. La finalità della geoesplorazione è quella di “riappaesarsi”, ovvero di tradurre il territorio – uno spazio naturale definito secondo coordinate geopolitiche – in paesaggio, non più spazio, ma luogo del sentimento e della memoria. 303
Troviamo “bello” quel determinato paesaggio che suscita in noi l’esperienza del sentirsi finalmente “a casa”. Si intuisce allora perché, di fronte alla globalizzazione, la nozione di paesaggio abbia trasceso la rappresentazione pittorica e narrativa, per assumere una dimensione olistica. Il paesaggio, in tal senso, funge da palinsesto su cui proiettare gli interrogativi che scuotono la nostra identità culturale presente.
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PARTE IV PROSPETTIVE E POLITICHE DI RICERCA Il futuro dei paesaggi agrari italiani
Mauro Agnoletti
l registro nazionale dei paesaggi storici é una lista nazionale nella quale vengono inseriti paesaggi che hanno mantenuto caratteristiche legate alla persistenza di pratiche agricole, forestali e pastorali tradizionali rappresentative di forme di produzione associate alla identità cultural dei luoghi. Il registro nasce per rispondere ad un modello di agricoltura industriale che puntando su produzioni quantitative e tendendo ad abbassare i costi di produzione, ha cercato di promuovere l’economia rurale, ma è stato messo in profonda crisi dalla globalizzazione e dalla importazione di prodotti a costi più bassi che hanno messo fuori mercato le nostre aziende, oltre a degradare la qualità del paesaggio. A questa crisi si è cercato di rispondere proponendo produzioni di qualità caratterizzate da un forte legame fra qualità del prodotto e qualità del paesaggio, assicurato dal mantenimento di pratiche agricole tradizionali che il registro intende valorizzare. Un esempio, fra tanti, del conflitto in atto è la questione del grano. In Italia abbiamo varietà locali di grano duro ritenute non compatibili con gli standard qualitativi della produzione industriale della pasta. Le notizie date da una certa parte della stampa e dei media propongono due argomenti principali a sostegno della necessità dell’importazione dall’estero: uno è lo standard qualitativo basso, l’altro è l’incapacità del nostro paese di poter fare fronte alle quantità di grano richieste. In realtà i nostri grani locali sono perfettamente compatibili con la produzione artigianale di pasta di qualità, mentre basterebbe recuperare una minima parte dei terreni abbandonati per essere autosufficienti. Certamente i costi di produzione sarebbero più alti, obbligando l’industria agroalimentare a pagare di più il grano alle piccole imprese agricole consentendogli di stare sul mercato, invece di abbandonare l’attività. L’abbandono dell’agricoltura in Italia, negli ultimi sessanta anni, ammonta a circa 10 milioni di ettari. Questo processo, insieme al ritorno del bosco sui terreni abbandonati, ha contribuito alla perdita di diversità del paesaggio per circa il 45% in Toscana. Il fenomeno, sicuramente legato ad aspetti socioeconomici è però sostenuto dagli strumenti della tutela che sono prevalentemente rivolti a favorire il ritorno della natura più che la conservazione del paesaggio rurale. Si tratta del risultato di un processo culturale di origine nord europea e nord americana che ha imposto il ritorno della natura rispetto al paesaggio culturale che caratterizza l’Italia, ma che è stato 307
recepito attraverso lo strumento delle aree protette, del vincolo paesaggistico e che si è imposto anche nella percezione del paesaggio di una popolazione ormai lontana dalle sue origini agricole e non informata sulla storia e sui caratteri culturali del paesaggio italiano, ne della scuola ne dai mezzi di informazione. Le 120 aree di studio realizzate per il catalogo dei paesaggi storici italiani hanno dimostrato che nel 60% dei casi gli strumenti di conservazione e di tutela presenti (vincolo paesaggistico e aree protette) contribuiscono al processo di abbandono. I casi sono numerosissimi e significativi, tipico è il territorio delle Cinque Terre, sito UNESCO e Parco Nazionale, un paesaggio terrazzato in cui negli ultimi 30 anni abbiamo avuto circa il 70% di abbandono ed in cui sono stati realizzati siti per la protezione di presunti habitat naturali per la rete europea NATURA 2000, su aree terrazzate abbandonate. C’é poi il caso del bosco di Sant’Antonio in Abruzzo, un pascolo arborato di faggi capitozzati per la produzione di frasca da foraggio, dove le norme di tutela ed il vincolo paesaggistico stabiliscono l’esclusione proprio di quelle attività di pascolo che hanno consentito al bosco di assumere quei valori che si intenderebbe salvaguardare. Un altro caso è il bosco ceduo del Marganai nel Sulcis, in Sardegna, finito su giornali e mezzi di informazione per la ripresa di questa forma di gestione, ma bloccata dalla soprintendenza, perché andrebbe a modificare i caratteri del paesaggio rispetto al vincolo posto nel passato quando il bosco era ugualmente un bosco ceduo e non certo un bosco naturale. La natura sociale ed economica del paesaggio rurale italiano, ben spiegata da Emilio Sereni, in realtà non è stata mai inserita negli strumenti di tutela, basati su una visione del paesaggio come “bellezza naturale” eredità della visione crociana proposta dalla legge 1497 del 1939. Queste sono le premesse che giustificavano l’istituzione del registro, che inizialmente è stato guardato con un certo scetticismo. Oggi ci sono cinque paesaggi iscritti e vi sono più di settanta richieste in lista di attesa. Da un lato sono potenzialmente interessate al registro molte delle nostre aree marginali di montagna e collina che si sentono in qualche modo minacciate dall’abbandono, dove sta scomparendo una civiltà, non solamente un paesaggio, e che in questo modo cercano di ottenere visibilità per uscire dalla marginalità e valorizzare i propri territori. Dall’altro abbiamo invece aree di produzione soprattutto viticola dove si coglie l’altro messaggio del registro: definire un concetto di qualità del vino che non pensi più solo all’aspetto organolettico, al clima, o al terreno, ma alla qualità del vino legata alla qualità del paesaggio. Diversamente non usciremo mai da standard qualitativi, soprattutto transalpini, che in realtà stiamo inseguendo da anni senza poter affermare il valore aggiunto delle produzioni vinicole nazionali. Ci sono poi altri due strumenti che si associano al registro: un marchio di certificazione che premia gli agricoltori e i contributi dei programmi di sviluppo rurale regionale che però devono collegarsi alla pianificazione. Non so quanti abbiano seguito le vicende del piano paesistico della Toscana, che ha fallito proprio nel rapporto fra agricoltura e pianificazione urbanistica, e che è stato rivisto più volte prima di essere approvato. Era stato tatto un accordo con il Ministero dei Beni Culturali per far si che i piani paesistici, per la parte agricola, passassero attraverso il Ministero dell’Agricoltura per un parere, ma tutto questo non è avvenuto ed i risultati si sono visti. Tutto questo significa che se non risolviamo il problema del rapporto fra gli strumenti di tutela e lo sviluppo delle aree rurali trascineremo i conflitti ancora per anni con danni al paesaggio e 308
alla competitività del nostro paese. Potrà sembrare provocatorio, ma ciò che avviene nella realtà è una specie di alleanza tra un settore ambientalista figlio di una cultura urbane, che vede come natura ciò che invece è cultura, specie nelle aree alto collinari e montane, ed un settore agroindustriale che tende a marginalizzare e abbandonare terreni difficili da coltivare preferendo coltivare in pianura dove si già concentrano il 90% dei fenomeni di urbanizzazione. I trend analizzati dal secondo dopoguerra ad oggi mostrano che alla fine del secolo, mantenendo inalterati i processi di abbandono e urbanizzazione, avremo in Italia solo estese aree metropolitane circondate da circa 4.000.000 ha di agricoltura residua nelle pianure, ed il resto del paese sarà totalmente abbandonato.
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Emiro Endrighi
L’argomento è intrigante perché tratta di paesaggio e di futuro. ‘Paesaggio’ è termine polisemico; per brevità in questo contesto possiamo affidarci a Emilio Sereni per la definizione di paesaggio, integrandolo con l’approccio ‘etico’ del professor Venturi Feriolo il quale, in sintonia con Sereni afferma “ogni paesaggio è il prodotto di un agire antropico volto a mutare la natura verso l’utile e il bello”. Sul bello ci sarebbe molto di che riflettere, a partire dall’eterogeneità dei giudizi estetici e dall’origine dei medesimi. In merito all’utile, e considerando in particolar modo di paesaggio rurale, ci viene in soccorso sempre il professor Venturi Feriolo che introduce un concetto fondamentale, quello del pensiero paesaggistico; egli in particolare afferma: “Nei paesaggi, a chi sappia leggerli, si riflette l’azione creatrice degli uomini”. Se così è, il futuro dei paesaggi agrari italiani dipenderà dall’attività agricola, ne sarà l’effetto estetico. In taluni casi non ci sarà più un paesaggio agricolo, perché l’agricoltura in quei luoghi sarà stata abbandonata, in altri soppiantata. Più in generale, si può vedere e intravvedere, sulla base dell’oggi che viene dall’ieri, il domani? Si possono delineare degli scenari, assumendo delle ipotesi. Se prevarrà questo modello di sviluppo dell’agricoltura, che sta dentro un modello generale di sviluppo, allora dal punto di vista quantitativo, la disponibilità di suolo agricolo proseguirà la sua più o meno intensa riduzione; dal punto di vista della fisionomia del territorio agricolo – per quello che rimarrà e sarà coltivato - sarà evidente l’effetto, ancora più spinto di quanto appaia oggi, dei processi di industrializzazione e di specializzazione. Ne è una concreta conferma quanto verificatosi in provincia di Reggio Emilia, di cui ci siamo occupati qualche anno fa: nel giro di una trentina d’anni si è assistito ad un mutamento sostanziale della distribuzione delle diverse colture sul territorio provinciale per effetto della progressiva specializzazione delle aziende agricole, sempre meno ad indirizzo misto e sempre più monocolturali. Tant’è che la viticoltura oggi è concentrata in due aree, e ciò è chiaramente visibile ad uno ‘sguardo paesaggistico’: quella della pianura orientale, in particolare da Reggio est fino a Fabbrico passando per San Martino, Correggio, Novellara, Campagnola e Rio Saliceto, dove si concentra la coltivazione del Lambrusco e dell’Ancellotta, e quella della pedecollina tra Scandiano e Quattro Castella con diversi vitigni. Si tratta di aziende viticole specializzate, collocate laddove il terreno è maggiormente adatto a questa coltura. è l’effetto della specializzazione, 311
connessa alla ricerca di economie di scala, di economie di scopo, dello sfruttamento di competenze specifiche. Per altri versi e per le medesime ragioni, le aziende a produzione lattiera (per Parmigiano Reggiano) hanno eliminato il vigneto, caratteristica presenza fino ad un passato recente. Allo stesso tempo, nelle zone più difficili, con i costi di produzione più elevati come in montagna, le aziende agricole stanno progressivamente scomparendo e ciò che appare non è il ‘paesaggio naturale’ come viene presentato da qualche sprovveduto – non commettiamo questo errore! – ma un territorio caratterizzato da un rimboschimento selvaggio. Cosa ben diversa dalla naturalità! Nel paesaggio agrario ci stanno anche le stalle. Oggi le stalle sono enormi, soprattutto in pianura; sembrano dei borghi con delle vacche che hanno delle mammelle enormi e non sono più animali ma fabbriche. Mammelloni giganti per produrre 100 e più quintali di latte in un anno. Una follia, per certi aspetti; infatti, dopo due lattazioni le sopprimono perché non si reggono nemmeno più in piedi. Questi ‘borghi’, che arrivano ad ospitare anche migliaia di vacche, permarranno ed aumenteranno di numero, ciascuno assorbendo le vecchie piccole e medie stalle che hanno punteggiato il territorio padano per secoli. E il paesaggio registrerà questa evoluzione, o degrado? Guardiamo ad un altro fenomeno: in Emilia i suini negli ultimi anni sono un po’ diminuiti perché la regione Emilia Romagna ha adottato una normativa più restrittiva sullo spargimento dei liquami e quindi se non si dispone di terreno sufficiente si riducono gli animali. Molti allevamenti si sono spostati in Lombardia; ma è sempre Italia, è sempre Padania, è sempre Po inquinato. In questo caso rimangono, per tempi più o meno lunghi, strutture abbandonate a punteggiare un territorio ricordandoci un altro passato. Tutto è legato a un motore, il motore della competizione sul prezzo e quindi sul costo. Bisogna abbassare i costi di produzione, si afferma con insistenza, senza pensare agli effetti né, tantomeno, ad uno sviluppo diverso. Due casi: il prezzo del frumento è caduto ormai del 30%; chi seminerà frumento quest’autunno? Il prezzo del latte alimentare è attorno ai 25 centesimi; perché? Perché l’industria lo può importare a tale prezzo dalla Polonia o da altri Paesi dell’Est. Allora bisogna raschiare il barile dei costi di produzione, aumentare la produzione per vacca al fine di conseguire economie di scala, come per i macchinari nell’epoca fordista. Per questo si trasforma la vacca in un onnivoro, altrimenti non riesce con il solo foraggio ad assumere nutrienti in quantità sufficiente per ottenere quei livelli di prodotto, data la bassa densità nutrizionale del foraggio. Ciò però porta i bovini, che sono erbivori, in competizione con l’uomo, perché per produrre 100 q a lattazione bisogna assumere molti cereali, ad alta densità di nutrienti. Il ruolo degli erbivori nella catena alimentare si riduce con i relativi squilibri nella disponibilità di cibo e nella sostenibilità ambientale. Se si intraprende questa strada della competizione sui costi non c’è limite; ci sarà sempre uno sfortunato, per non dire ‘disgraziato’, polacco, cinese, africano che produrrà a un costo inferiore al nostro. Non ci sarà una fine, con tutte le conseguenze in termini di tensioni nel sistema, di attacco alla sostenibilità, di riduzione della qualità e salubrità dei prodotti e, più in generale, di squilibrio nella qualità della vita. L’altra grande criticità è generata dalla subordinazione di molteplici scelte alle 312
esigenze e agli interessi dell’industria alimentare, dove dominano alcune grandi multinazionali; il tipo di colture e di varietà ‘imposte’ condiziona le attività agricole e il paesaggio che ne è l’espressione. Simmetricamente contano meno le esigenze umane, almeno quelle meno funzionali al business. Per esempio, è del tutto evidente che oggigiorno nel settore del frumento c’è qualcosa di più della questione della qualità del grano; oggi la relazione è con il benessere, laddove, parallelamente all’esplosione dei casi di celiachia si vanno moltiplicando quelli della intolleranza ai grani moderni, ossia della gluten sensitivity non celiaca. Secondo i nutrizionisti che se ne occupano, tali disturbi sono destinati ad aumentare in maniera rilevante nei prossimi 5/10 anni. Non ci sono ancora grandi evidenze scientifiche però c’è la quasi certezza che, almeno per quanto riguarda la gluten sensitivity, quindi l’intolleranza, ciò sia dovuto alle caratteristiche del glutine dei grani moderni, appositamente selezionati proprio in funzione di una tipologia di glutine particolarmente rispondente agli obiettivi di industrializzazione della lavorazione delle relative farine; tale glutine è però non tollerato da parecchie persone. Noi umani siamo cresciuti insieme con i grani per millenni. Nel giro di 30 anni sono stati modificati nelle componenti essenziali (in questo caso la parte proteica); così non tutti li tollerano e si scatena una reazione allergica. I programmi finalizzati a recuperare le vecchie varietà vanno incontro a difficoltà notevoli, a partire dal ridottissimo finanziamento della ricerca dove vengono privilegiati obiettivi tecnologici, di livelli produttivi, ecc.. Questo insieme di aspetti sono propri di un modello di agricoltura che sta dentro a un modello generale di società, di sistema economico; il paesaggio ne è, serenianamente, l’effetto che noi percepiamo osservando il territorio. Oggi la grande questione delle nostre società, dette ‘avanzate’, è la disuguaglianza, economica, sociale, culturale tra cittadini ma anche tra imprese e tra settori. Stiglitz, premio Nobel per l’economia, parla dell’1% di persone che nel mondo possiede più dell’altro 99%. Questa situazione non attiene solo alla etica, comunque fondamentale; tocca da vicino il funzionamento del sistema economico di stampo capitalistico. Ma è ciò che i neo-liberisti, assiomatici come sono, non riescono e non vogliono capire. Se nel corso dei vent’anni precedenti la crisi del 2008, secondo l’OCSE, la quota del reddito da lavoro sul reddito totale è diminuita rispetto al reddito da capitale di 15/20 punti percentuali (da quasi 70 % al poco più del 50% sul reddito totale) vuol dire che la classe media e medio-bassa ha visto ridursi il reddito e senza questo reddito non si acquistano i beni e i servizi che si producono. D’altra parte chi ha aumentato il proprio reddito da capitale – già alto - non lo destina all’investimento come assume il modello liberista. Una volta si diceva che chi ottiene un reddito maggiore – per lo più da capitale - lo risparmia e poi investe attraverso il circuito finanziario; nelle epoche più recenti non sta succedendo. I risparmi dei soggetti a maggiore reddito prendono altre vie, quelle della finanza speculativa in primis. La questione è che, pur rimanendo dentro il sistema capitalistico – perché di meglio l’uomo non è riuscito ad inventare – tale sistema va difeso dai danni provocati da comportamenti egoistici e miopi. Il reddito che si abbassa incide anche sulla qualità dei beni che si comprano, sui beni alimentari, e in una situazione del genere non possiamo sempre aspettarci che venga privilegiato un prodotto locale che costa di più in un momento in cui calano i redditi delle famiglie. Dall’altra parte della filiera, a soffrire di più sono gli agricoltori, anello debole compresso dal maggiore potere contrattuale dell’industria e 313
della distribuzione. Taluni, mutuando il gergo marxiano, parlano di proletarizzazione dei contadini. Difficile non condividere tale impressione di fronte ad una situazione in cui al produttore (allevatore) di latte alimentare viene riconosciuto un prezzo di 25 cent per litro alla stalla e noi lo acquistiamo al supermercato a 1,60 € al litro. Difficile pensare che un’agricoltura penalizzata entro la morsa delle competizione nella filiera possa reggere; si tratta di squilibri conseguenti ad un certo tipo di modello economico che si è affermato, in cui non si tiene conto delle interconnessioni, della circolarità e delle esternalità. E, ancora una volta, il paesaggio attuale e quello futuro ne saranno l’espressine estetica. Come si esce? Si esce in termini culturali da un consumismo ‘strampalato’ e pericoloso, dove noi umani assomigliamo ai criceti nella ruota: lavoriamo per consumare, e dopo? Con tutta l’innovazione realizzata nel Novecento chi ha la fortuna, oggi, di lavorare, lavora 7/8 ore al giorno, più o meno come ai primi del secolo scorso; e gli altri? 40% di disoccupazione giovanile. Tornando all’agricoltura e al paesaggio, è evidente che molto dipenderà da noi tutti, dalle scelte in merito ai prodotti agricoli ed alimentari, soprattutto dalla consapevolezza circa il valore complessivo dei prodotti, gli effetti sull’ambiente dei processi produttivi adottati, che non sono tutti uguali. C’è una componente fondamentale in tutto questo che si rifletterà anche sul paesaggio che cercheremo di avere e riguarda la cultura che trasmetteremo alle giovani generazioni; “educare, educare, educare” è indispensabile soprattutto su temi come l’agricoltura e il paesaggio dove i giovani sono per lo più sprovvisti di conoscenze circa i processi produttivi, l’impatto sull’ambiente e la salute, la cultura del mondo contadino. In tutto ciò, lungi dal proporre o suggerire posizioni o idee di tipo pauperistico come la decrescita sostenuta da Serge Latouche; non è di questo che si tratta, ma della consapevolezza che non si può non assumere una visione integrata in grado di avere contezza dei vari elementi, delle connessioni e delle condizioni specifiche. Ne è un esempio la montagna e il ruolo che si assegna alle attività che lì si svolgono, compresa l’agricoltura, per il governo del territorio e il ‘bel paesaggio’. Ma se non ci sono le condizioni per fare reddito nel rispetto dell’ambiente, le persone, in primis i giovani, abbandonano quei luoghi e le conseguenze ricadono sull’intera comunità, compreso chi abita in pianura. Su tutto ciò è necessario riflettere se, chiedendoci quale sarà il paesaggio del futuro, non vogliamo accettare passivamente un paesaggio espressione di scelte produttive, sociali, culturali ed ambientali in linea con quelle che hanno prevalso negli ultimi decenni e che sono nel complesso riconducibili al paradigma neoliberista.
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Massimo Fiorio
Tra le prime cause del cambiamento del paesaggio, dei rischi cui è sottoposto, vi è il tema del consumo del suolo. Come riferiva l’On. De Castro, per consumo del suolo è da intendersi l’approvvigionamento di terreni in zone marginali da parte di grandi potenze; agricoltura invasiva, quando trasforma in modo violento il paesaggio; cementificazione e permeabilizzazione del suolo, le tematiche su cui recentemente si è concentrato ed ha posto l’attenzione il Parlamento ed il pubblico dibattito, pur con notevole ritardo rispetto ad altri paesi, come per esempio la Germania, che giá nel 1998 si era dotata di una legge organica. La Germania però è uno di quei paesi che si sta opponendo ad una direttiva comunitaria che prevede per l’Europa, entro il 2050, una riduzione a 0 del consumo di suolo. Un dato parziale, poiché di fatto, se da una parte alcuni paesi hanno già intrapreso direttive dal punto di vista legislativo, in realtà, se andiamo a leggere la legislazione e analizzare il comportamento politico, abbiamo una risultanza alquanto diversa. L’Italia comunque arriva tardi a questo tema, ad affrontarlo in forma normativa. Però devo dire che un primo passaggio, per lo meno alla Camera, è avvenuto, e ciò è un dato significativo, poiché qualsiasi legge organica sull’urbanistica, in questo paese, è naufragata, probabilmente motivata dalla complessità, dal fatto che fosse portata avanti in modo organico che impediva di affrontarne soltanto una parte, come ora stiamo facendo, quella del consumo di suolo. È vero, l’obiezione “No, voi affrontate materia urbanistica”, di fatto in qualche modo è giusto, ci sono obiezioni assolutamente legittime, ma, devo dire, non solo per questa legislazione, ma anche per quelle precedenti, è almeno l’unica legge di governance territoriale arrivata a un punto di attivazione avanzato. È chiaro che il passaggio al Senato, per come sono composti questo Senato e questa maggioranza, rende problematica la soluzione definitiva, però ci sono condizioni per cui, credo, il lavoro condotto alla Camera sia buono. Questa legge nasce su una proposta già avanzata nella scorsa legislatura dall’allora ministro Catania. In realtà questa legge é profondamente più avanzata, io ritengo, perché quella del ministro Catania era soltanto riferita ai terreni e al suolo agricolo, questa invece fa un’operazione culturale molto importante e assolutamente profonda: considera la superficie agricola al di là della definizione catastale. Quindi, la definizione catastale non è l’unico elemento discriminante per definire un suolo agricolo. Si tratta di 315
un passaggio non indifferente, importante, che definisce, consente di pensare, il terreno agricolo addirittura all’interno della città, superando il concetto di divisione tradizionale agglomerato urbano=città, fuori della città=suolo, superficie agricola. Lo ritengo un passaggio culturale non indifferente, in sintonia con alcuni processi che la città sta vivendo: gli orti urbani ne sono uno, ma lo dico anche rispetto ad altre soluzioni normative. Penso al tema dell’agricoltura sociale, a quella possibilità di dare soluzione o comunque di affrontare il disagio, anche urbano, attraverso l’agricoltura, quel tipo di agricoltura che si sviluppa in quelle aree un po’ grigie delle periferie, ma che sono aree agricole già in questo momento. Penso alla superficie non impermeabilizzata, perché è questo il criterio discriminante: tutto quello che non è impermeabilizzato,che non è nelle cosiddette aree intercluse di sviluppo dentro la città, è area agricola. Questo è un passaggio importante e problematico, questa è una legge fortemente dibattuta nella sede delle due Commissioni Agricoltura e Ambiente che se ne sono occupate. Noi abbiamo riscritto sostanzialmente per tre volte il testo nato da una proposta del governo, poi riscritto in sede di commissione dopo un giro di 500 importanti emendamenti. A quella riscrittura il governo ha partecipato; altro giro di emendamenti, altra riscrittura, poi il passaggio finale che ha cambiato il testo iniziale. Il tempo intercorso dalla presentazione nel 2013 all’approvazione alla Camera nel mese di maggio 2015, è stato un periodo fortemente dibattuto, anche sugli organi di stampa, ma soprattutto dai portatori di interesse in campo, l’Anci, la Confindustria e via dicendo, che avevano posizioni anche legittime rispetto a quello che si stava proponendo. È chiaro che noi rispondevamo a un’esigenza fortemente sentita in questo paese, a tutto quello che è il tema del cosiddetto urban sprawl, del propagarsi in modo disordinato di costruire Qualcuno pensa che la crisi sia stata un elemento che abbia in qualche modo contenuto il consumo di suolo, perché ha reso più complicato, più disordinato questo tipo di costruzioni. Se leggiamo i resoconti dell’ISPRA ci accorgiamo che non è la sola componente privata a consumare suolo; sempre più abbiamo una componente pubblica invasiva di suolo agricolo; non ci sono più incroci, ci sono solo delle rotonde, gli svincoli, occupano 500 m/1 km in più rispetto a un vecchio crocevia. Tutto questo provoca consumo di terreno e di terreno fertile. In questo quadro é venuta meno la definizione di governo del territorio. La formula “togliere i lacci e i lacciuoli” è stata effettivamente e fortemente applicata nel nostro paese: governo del territorio così pensato ha fermato l’iniziativa che avrebbe dovuto procedere in una certa direzionve, dando forma sostanzialmente a consumo di suolo. Le città si sono sviluppate sempre di più nelle seconde e nelle terze cinture abbandonando progressivamente i centri urbani che sono diventati centri di servizi poco abitati e, come dire, andando a riempire le cosiddette periferie. La qualità della vita da offrire ai cittadini è problematica in termini di servizi, di trasporti, di infrastrutture e via dicendo. Questa legge interviene in questo senso, come anzidetto: nella definizione propria di suolo, di superficie agricola attua un’operazione importante, la intende davvero oltre alla definizione catastale. Qualcuno ha rilevato la possibilità che ciò avrebbe aperto a ricorsi: non vedo perché, la definizione catastale non significa che un terreno possa essere agricolo. Un terreno diventa agricolo se coltivato, al di là della sua definizione catastale, tant’è che, 316
lo sapete benissimo, i terreni produttivi o residenziali su cui ancora non si è costruito, su cui ancora non è stata posta impermeabilizzazione artificiale, sono coltivati, quindi sono terreni agricoli a tutti gli effetti. Tant’è che pigliano i premi, i pac, tanto come i terreni agricoli catastalmente definiti. Questo è stato un passaggio, lo rivendico, anche culturalmente impattante, che è riuscito a superare lo scoglio delle obiezioni. Non è considerato consumo di suolo l’intervento dell’azienda agricola. Naturalmente l’obiezione è: “Come? Il capannone, la costruzione che ha fini imprenditoriali da parte dell’azienda non è consumo di suolo?” Io credo che questo tema riguardi molto le commissioni paesaggistiche dei Comuni in cui le aziende agricole intervengono, ma è evidente che se noi avessimo, ritenuto consumo di suolo anche quel tipo di intervento, la componente agricola avrebbe perso. Infatti, diversamente dalla legge tedesca, la normativa italiana si esplica attraverso un decreto del MIPAF, del Ministero dell’Agricoltura, sentito il MIBACT, il Ministero dello Sport, il Ministero delle Attività Produttive, che stabilisce il consumo di suolo per 5 anni, mentre in Germania é bensì una legge a sancire quantitativamente il suolo consumabile per anno. In Italia, il decreto passa alla Conferenza stato- regioni, che stabilirà criteri e orientamenti sul consumo quantitativo di suolo, in base alle richieste dei piani regolatori dei rispettivi comuni. Una delle obiezioni forti posta è: “Voi avete lavorato tutti in termini quantitativi”. Tenete conto che questo è un paese complicato, alcune regioni hanno già meccanismi di riduzione del consumo di suolo, ma ci sono anche città, paesi privi di piani regolatori oppure che utilizzano ancora vecchi piani di programmazione. Pertanto, respingo l’obiezione per cui noi abbiamo ragionato solo in termini quantitativi poichè la Conferenza Stato-Regioni detta criteri e orientamenti rispetto alle proprie tipicità territoriali, al tipo di agricoltura, di suolo, spetta quindi ad essa ripartire il plafond e alle regioni gestirlo, in un meccanismo dove ogni soggetto attivo faccia la propria parte. Le polemiche si sono concentrate poi sugli elementi transitori che prevedono un arco di tre anni dalla promulgazione all’entrata in vigore della legge, norme transitorie che comportano clausole a salvaguardia di sconsiderate corse all’accaparramento ‘per la trasformazione di terreni, e di interesse anche dal punto di vista culturale. Su ciò dovremo intervenire, ma registro nel contempo una certa miopia di tanti nel concentrarsi sui termini delle normative transitorie, anzichè sull’organicitá del tema. Chiudo marcando la necessità di un continuo intervento sul tema e sulle cause che generano il problema stesso. Chi ritiene sia giustificato fermare questa legge in nome di una eventuale crescita, sbaglia anche dal punto di vista culturale. La crisi economica attuale é anche e probabilmente indotta da meccanismi legati alla tipologia costruttiva e produttiva che hanno fortemente agganciato il sistema finanziario; crisi che é nata dal sistema credito-residenza-costruzione, non solo in Italia, ma soprattutto all’estero. Pensare quindi che la situazione di difficoltà economica attuale trovi soluzione nel ritorno al sistema che l’ha generata è equivalente a curare una malattia con la malattia stessa. *Trascrizione dell’intervento a cura di Marzia Bassi. Testo non rivisto dall’autore. 317
Relazione conclusiva
Carlo Tosco
Come da tradizione tocca a me oggi concludere questa edizione della Summer School. Chi è stato responsabile scientifico ha il compito di tirare le fila, anche se tentare uno sguardo generale di questa Summer School è difficilissimo, perché abbiamo trattato temi davvero molto diversi. Come si fa a mettere insieme tutte le tematiche affrontate, le questioni complesse che abbiamo evocato? Proverò a ripercorrere brevemente questi cinque giorni che sono stati impegnativi e ne siamo contenti: volevamo che lo fossero con il susseguirsi dei diversi appuntamenti uno dietro l’altro. Non esprimo ringraziamenti ufficiali, lasciando a Gabriella questo compito, ma ci tenevo a ringraziare almeno gli studenti e tutte le persone che hanno partecipato, perché veramente hanno dimostrato di avere voglia di stare qui e di lavorare, intervenendo e dialogando. Siamo riusciti così ad uscire dai rituali accademici, che io personalmente non amo e che in questa Scuola non sono mai entrati: siamo stati molto liberi di parlare e di discutere insieme, mantenendo il più possibile un approccio seminariale. Detto questo proviamo a fare qualche flash e qualche evocazione qua e là dei diversi interventi che ci aiuteranno a richiamare alla memoria cioè che si è detto. Non me ne vogliano i docenti che sono intervenuti perché dirò solo poche parole, sebbene i loro interventi siano stati ben più articolati. Abbiamo iniziato con Romano Prodi ed è stato bello partire con lui perché ci ha portato verso la grande politica, verso il grande mondo, verso chi ha gestito questi processi da protagonista, perché Prodi è stato un protagonista sia a livello europeo, sia a livello nazionale. Quando ha raccontato l’aneddoto in cui la sera riceveva la telefonata di Gheddafi che lo minacciava di mandargli i clandestini il giorno dopo, ha fatto su tutti noi un certo effetto, perché vuol dire che abbiamo ascoltato una persona che, in qualche modo, ha contribuito realmente a decidere le sorti del mondo mediterraneo in cui viviamo. Prodi ha detto tante cose, ma io vorrei ricordarne una in particolare, che lui stesso ha sottolineato, cioè come l’Europa sia un incontro di minoranze: questo è un concetto bellissimo perché non ci dovrebbe essere una maggioranza egemone, anche se a volte quest’ipotesi si è profilata, e speriamo che la Brexit significhi un ritorno al respiro delle minoranze, come nel caso del leader ungherese, evocato da Prodi, che diceva “Io sono 319
figlio di un uomo della minoranza assassinato, e io sono qui perché voglio essere un uomo della minoranza”. Allora, con questa eredità di fondo, quando i contadini in Italia sono il 4% e possono quindi essere considerati anch’essi una minoranza, anche noi incontriamo e difendiamo le minoranze. Detto questo, ci siamo poi buttati con Massimo Venturi Ferriolo per un’ora in un mondo di grande fascino e di vasta evocazione culturale, introducendo i temi della Summer School di quest’anno. Massimo Venturi Ferriolo è stato un grande protagonista dell’approccio al paesaggio che tutti condividiamo. Siamo stati infatti molto lieti che abbia aderito a questa Summer School, rinunciando ad un viaggio in America, e lui stesso mi ha confidato che si è trattenuto qui fino ad oggi, nonostante i molteplici impegni, perché ha potuto constatare personalmente quanto l’esperienza della nostra Scuola sia ricca e stimolante. Massimo Venturi Ferriolo è stato un grande riferimento, dapprima per il tema dei giardini, scrivendo moltissimo al riguardo, e poi sul paesaggio, in particolare sulla dimensione etica del paesaggio e cioè, come sottolineo sempre, l’idea che il paesaggio non sia solamente un fatto estetico, come sappiamo tutti benissimo, e neanche solo un fatto di lavoro, ma sia anche un’etica, sia un impegno, in qualche modo un dovere. L’etica è, in sostanza, decidere cosa sia bene e cosa sia male: di fronte al paesaggio tutti i giorni ci poniamo proprio questa domanda. È il domandarsi come agire. Venturi Ferriolo ha parlato di autoctonia durante una lezione densissima e difficile, impossibile da riassumere, soprattutto per chi non ha già nozioni di filosofia, ma proviamo a fare il punto. Innanzi tutto, l’autoctonia è l’essere dei luoghi, il far parte dei luoghi, è l’idea del nomos della terra, per citare Carl Schmitt, l’idea della legge che c’è dentro la terra che in qualche modo emerge con l’autoctonia e che si profila con essa. Tutta questa corrente filosofica usa molto la mitologia e vi fa riferimento, nella maggior parte dei casi in senso junghiano, cioè vede il paesaggio come luogo di deposito archetipico delle nostre conoscenze e delle nostre tensioni psicologiche che si riflettono sul mondo. Venturi Ferriolo ha fatto allora riferimento all’contrapposizione mitologica Apollo-Artemide, in cui Apollo rappresenta l’equilibrio apollineo razionale del mondo, che corrisponde cioè all’organizzazione del paesaggio, come possono essere ad esempio i paesaggi agricoli, mentre Artemide rappresenta l’aspetto ferino, selvaggio, non controllato, oscuro, silvano della dimensione del paesaggio, come può essere il paesaggio naturale non governato dall’uomo. Queste due anime, l’anima di Artemide e l’anima apollinea, si scontrano e s’incontrano nel paesaggio, e ricordare che nella mitologia questi due personaggi sono gemelli ci aiuta a capire, in senso junghiano, la contrapposizione che si nasconde nelle nostre polarità psicologiche. C’è poi il discorso dell’evento, il luogo che crea un evento e l’evento fondante che crea un luogo: il luogo non è uno spazio geometrico neutro, ma è carico di forza culturale, perchè un evento crea il luogo. Dirlo qui al Museo Cervi, in questo luogo di cultura, è bellissimo, perché questo luogo si fonda sul sacrificio dei sette fratelli Cervi e noi oggi effettivamente siamo fondati su quell’evento, che è un evento storico e come tale agisce sul presente arrivando fino a noi, rendendoci portatori dell’eredità di questi 320
sette resistenti, sette uomini di grande civiltà e sette contadini. Massimo Venturi Ferriolo ci ha aiutato a riflettere su queste cose, concludendo con il tema dell’identità. Oggi l’identità non va più di moda perché se ne sono appropriati gruppi politici a noi non simpatici, ma in realtà l’identità è importantissima, io non vorrei mai negare la mia, penso di avercela e penso che tutti noi dobbiamo averne una. Certo se l’identità diventa qualcosa di rigido, che non si confronta con altre culture, è un’identità becera che non ci interessa, ma l’identità dialogica, l’identità dialettica che si costruisce nell’incontro con l’altro, è quella che ci interessa. Venturi Ferriolo ha infine proposto di passare dal concetto di identità al concetto di riconoscibilità: l’identità può essere pensata in termini di riconoscibilità, innanzi tutto come autoriconoscibilità, cioè riconoscersi in sé stessi e poi riconoscibilità nell’altro, nei valori dell’altro e nell’incontro. È questa una strada su cui si può veramente riflettere. Dopo l’alto volo introduttivo siamo tornati sulla terra carichi di stimoli e di pensieri, con la giornata di mercoledì dove abbiamo riflettuto sul tema della terra e dell’organizzazione dei paesaggi agrari, legati sempre alle questioni di etica e di filosofia. La Summer School di quest’anno doveva essere in teoria centrata sull’Architettura, ma abbiamo volutamente fatto in modo che questo non fosse il tema preponderante, abbiamo infatti voluto affrontare anche altri temi che girano intorno al concetto di Abitare la terra, proprio per seguire l’idea che deriva dalle correnti di pensiero che si rifanno a certi scritti di Martin Heiddeger, che hanno alla base un concetto dell’abitare molto più ampio del solo approccio architettonico: l’idea che l’operaio abita la fabbrica, il camionista abita l’autostrada e il contadino abita i campi coltivati. L’abitare non è solo la casa, ma è molto di più. Rossano Pazzagli ci ha introdotto ai sistemi agrari, un tema che lui studia da molto tempo, fissando l’idea sul rapporto tra la casa e il sistema agrario: esistono sistemi agrari dove la presenza di edifici è importante, è forte, è visibile, è panoramicamente riconoscibile, mentre ce ne sono alti in cui invece questo rapporto è molto più lontano e assente. Esiste in Italia un’agricoltura senza casa, come ad esempio la Maremma nell’Ottocento, che veniva vista dai viaggiatori stranieri come un paesaggio senza poderi e appariva strana. Che ne sia oggi di questi paesaggi ce lo possiamo chiedere. Tutto questo ci ha introdotto alla bellissima frase con cui si apre l’Inchiesta Jacini: “Le parecchie Italie agricole”, è questa la ricchezza dei paesaggi agrari italiani, un’idea molto sereniana. Tutto il libro di Sereni è composto da capitoli che sono brevi storie di paesaggi delle tante Italie che si succedono storicamente. Nulla di più sbagliato sarebbe tentare di omologare o creare dei grandi sistemi, con due o tre tipologie di paesaggio, perché l’Italia è un paese di molteplicità, ed è questo il suo fascino. Fabio Parascandolo ci ha invece parlato da geografo presentando l’eredità culturale della grande geografia italiana. In Italia c’è stata una grande geografia, di cui Fabio è sicuramente erede, che ha guardato con interesse altissimo al tema del paesaggio; ci sono tanti modi di fare geografia e la geografia dei paesaggi è stata una forza della geografia italiana. Quaini parlava dello sguardo archeologico sul paesaggio, che non può non affascinarci, nel senso di approccio stratigrafico allo studio: un altro tema chiave della nostra Summer School e anche un tema sereniano. Sereni utilizza il 321
termine stratificazione in anticipo rispetto al grande successo che ha oggi. Fabio Parascandolo ha parlato della contrapposizione tra due grandi problemi: il problema della megalopoli e il problema della monocoltura. Se vogliamo sintetizzare in due parole i grandi temi su cui lui ha focalizzato la sua attenzione è l’opposizione tra questi due modelli che si mangiano i nostri paesaggi agricoli e i nostri paesaggio storici: da una parte l’estensione della città e dall’altra il rischio della monocoltura omologante che cancella le eredità storiche. Jan Douwe Van der Ploeg, sociologo, notissimo autore a livello internazionale e pioniere di un certo modo di studiare il lavoro, ci ha presentato una nuova idea d’azienda, non in modo teorico, con calcoli o con studi “da scrivania”, ma attraverso la ricerca sociologica sul campo, cioè studiando direttamente le nuove aziende che si sono create negli ultimi anni, presentandoci esempi virtuosi, provenienti per lo più dall’Olanda, di giovani che hanno creato strutture di successo. Ciò che rende interessanti queste attività è la loro multifunzionalità: il loro segreto è il non specializzarsi troppo per poter essere elastiche e potersi adattare per rispondere via via alle nuove possibilità ed esigenze. Van der Ploeg ha concluso con un discorso forte sull’autogestione come possibilità per riuscire ad avere successo. Francamento non so quanto sia facile applicare questi principi in Italia, e quando siamo stati sull’Appennino abbiamo visto le difficoltà incontrate sui nostri territori nei rapporti con i governi locali. Carla Danani ci ha riportati con il suo intervento ai temi filosofici. Riprendendo il discorso di Massimo Venturi Ferriolo siamo tornati alla dimensione etica, che per Venturi era etica legata al paesaggio, mentre Carla Danani ha delineato i principi di un’etica legata all’abitare, come dimensione in cui ci si rapporta con il mondo. Al centro del suo discorso c’era l’idea di una allocazione trascendentale dell’essere umano, termine difficilissimo per chi non studia filosofia, ma in realtà, come ha spiegato lei stessa, molto più semplice di quanto non sembri: l’allocazione è lo stare in un luogo, trascendentale in senso kantiano, cioè a priori - che sta a priori dell’esistenza dell’essere umano - cioè l’essere umano sta a priori in un luogo, fa parte di un luogo e abitata in un luogo. Questo pensiero concorda anche con alcune tendenze della psicologia, ed è interessante ricordare Jean Piaget che ha sottolineato, molto più di Sigmund Freud, il ruolo forte che hanno i luoghi nella formazione del bambino. La costruzione della psiche è anche una costruzione di spazi, il bambino costruisce i suoi spazi, nel rapporto con la madre, con il pavimento, con i mobili, con i luoghi in cui abita, costruisce piano piano il suo mondo e insieme la sua psiche. Questa è una forte tendenza di Piaget, uno psicologo un po’ dimenticato, ma che è utile riscoprire per le nostre riflessioni sul paesaggio. Carla Danani ha poi trattato delle patologie del tempo, il tempo che si dilata o si contrae troppo facendo perdere il senso dell’equilibrio: se si dilata troppo il passato, diventa un tempo nostalgico, si vive troppo nel passato e non più nel presente, se si dilata troppo nel futuro si crea un’eccessiva aspirazione, creando un rifiuto del presente e vivendo in un sogno irrealizzabile. Bisogna quindi uscire dalle patologie del tempo e ritrovare la dimensione dell’equilibrio, dell’ora, del presente che diventa in senso spaziale dell’in est, per riprendere Heidegger, l’esserci, essere in un luogo. 322
Danani ha concluso con la gratitudine dell’essere ospitati, il ricordare che il vivere in un luogo è una gratitudine, perché noi viviamo in un luogo che non ci siamo costruiti da soli, ma che abbiamo ereditato: fin da bambini viviamo in case che non abbiamo costruito, non abbiamo arato i campi che vediamo e camminiamo su strade che non abbiamo tracciato noi. C’è quindi un senso di gratitudine verso quello che abbiamo perché lo abbiamo ricevuto. Luigi Costanzo e Alessandra Ferrara ci hanno illustrato i risultati del progetto BES, che riguarda il benessere equo e sostenibile, che io trovo interessantissimo. Confesso che userò questi dati anche nei mie corsi universitari, perché provengono da statistiche lette in chiave territoriale, proiettate su delle mappe, fornite dall’ISTAT, che assumono quindi un ruolo ufficiale per il nostro Stato, trattandosi di un ente pubblico al servizio dei cittadini, degli studiosi e di chiunque lo voglia utilizzare. La visita sull’Appennino è stata poi una delle migliori tra quelle organizzate nella tradizione della nostra Summer School, e per questo ringrazio molto Gabriella Bonini ed Emiro Endrighi. Seguire lo stesso tracciato percorso da Filippo Re duecento anni fa è stato davvero affascinante, soprattutto seguirlo leggendo quello che lui aveva scritto, con tutta l’eredità del secolo dei lumi e la volontà e l’entusiasmo di cambiare il mondo che gli intellettuali avevano all’inizio dell’Ottocento, dopo secoli di oscurantismo. Incontrare direttamente la gente che abita in Appennino, come la Cooperativa dei Briganti del Cerreto, mi ha subito ricordato il discorso di Van der Ploeg e l’idea dell’autogestione. Il giorno seguente abbiamo parlato di architettura, in particolare Andrea Bocco ha tenuto un intervento molto affascinate sul rapporto tra passato e futuro, mettendo insieme immagini e frasi ad effetto che hanno fatto riflettere. Abbiamo spaziato dall’Alabama al Giappone, allargando il nostro sguardo sulle esperienze di architettura, di un’architettura che è lontana dal mainstreaming degli architetti patinati che si vedono sulle riviste, un’architettura diversa che si rivela attenta ai luoghi, alle tradizioni, ma non si fissa nel passato e cerca di pensare al futuro. Andrea Bocco ha detto: “C’è molto più da imparare nell’architettura vernacolare che nell’architettura contemporanea”. Ora, confesso che questo l’ho sempre pensato, però quando lo dice un tecnologo del Politecnico di Torino assume un significato ben maggiore. Se c’è da imparare da questa architettura che viene “dal basso”, allora siamo sulla strada giusta. Ci si è posti a questo punto il quesito se si debba rispettare gli edifici del passato o applicare la normativa attuale. Dovendo sottostare alla gabbia normativa entro cui siamo tenuti ad agire, assistiamo allora a quegli orrori di edifici svuotati al loro interno, che conservano solamente le facciate in pietra, ma dentro non hanno più nulla di quella che era la struttura, la funzionalità, l’abitare dell’edificio del passato. Poi è stata fatta una carrellata di vari territori: con Daniele Lorusso che ci ha parlato della cascina lombarda, con Saverio Russo della Puglia, Daniela Stroffolino della Campania e con Gabriella Bonini dei luoghi padani in cui ci troviamo. Infine Ilaria Agostini ha trattato di urbanistica, della dimensione pianificatoria dell’agire 323
nello spazio, e di “urbanistica spirituale”, un termine che oggi quasi più nessuno usa, basato non solo su numeri e tabelle, ma che sa riscoprire la centralità dell’uomo nella pianificazione dei territori, proponendoci l’esempio del Piano regolatore Di Pietro, con i suoi successi e suoi insuccessi. Che ne è di tutto questo? Sta a voi portarvi a casa questo piccolo patrimonio culturale che ci siamo scambiati. Se vogliamo proprio concludere, possiamo forse mettere in evidenza tre punti fondamentali: 1. Il passato che non passa: il passato resta qua, ci resta addosso e continua a contaminare i nostri luoghi e noi siamo contenti di questo. 2. La sito-specificità della cultura e dell’innovazione: si può pensare ad una strada per sviluppare i nostri paesaggi, ogni luogo racconta delle storie, offre degli input, offre delle risorse ed è su questo che dobbiamo lavorare, sulla specificità dei luoghi. 3. Costruire un’etica: il tema dell’etica può essere pensato in termini di costruzione, in una metafora architettonica, e in termini di un’etica con la terra e di localizzazione, dello stare nei luoghi, cioè un’etica che risponde sempre a delle esigenze momentanee, quando si vuole distinguere il bene dal male per agire concretamente. Un tema forte che ci ha accompagnato in questi giorni è stato quello della Resistenza, voglio ricordarlo ancora: noi siamo eredi della resistenza dei fratelli Cervi, ma anche oggi c’è una resistenza civile e disarmata, come quella dei contadini, che prosegue quella resistenza armata contro il nazi-fascismo che fu dei Cervi. Grazie a tutti.
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I VOLTI DELLA SCUOLA
Abitare la terra: inaugurazione VIII edizione della Summer School 2016
Inaugurazione della VIII edizione della Summer School Emilio Sereni 2016
R. Prodi
R. De Pasquale
R. Prodi, D. Scanavino e S. Caselli
A. Soliani, G. Maiola e R. Prodi 327
Consegna delle borse di studio e premiazioni
L. Salina e V. Amendolara (Coldiretti)
O. Porcelli e R. Iotti (Confagricoltura) 328
A. Cervi (CIA) e I. Calbi
S. Veluti e R. Iotti (Confagricoltura)
Consegna delle borse di studio e premiazioni
A. Brazzale e V. Amendolara (Coldiretti)
A. Cervi (CIA) e R. Ibba (I premio di studio E. Sereni)
A. Cervi (CIA) e V. Luise
E. Zanni (fotografo) e G. Bonini 329
Paesaggi Lenti: Escursione in Appennino
In visita alla Pietra di Bismantova
Incontro con la cooperativa I Briganti di Cerreto, presso il mulino di Cerreto Alpi
E. Endrighi, presso il mulino di Cerreto Alpi 330
Discenti presso il mulino di Cerreto Alpi
Le lezioni della Summer School
M. Venturi Ferriolo
C. Tosco e G. Bonini
A. Longhi
E. Endrighi e S. Russo
A. De Nisco
M. Agnoletti, M. Mariani e M. Florio 331
Le lezioni della Summer School
A. Soliani e R. Pazzagli
L. Sassi e L. Costanzo
Discenti
Un momento di lezione 332
R. Pazzagli e A. Cervi
Le lezioni della Summer School
Un momento dell’Aperilibro e di un Laboratorio
Maria Papadia
Il coffee breack con i discenti della scuola
Rina Cervi e Marina Regosa
Emiliana Zigatti 333
Autori
Agnoletti Mauro Professore presso l’Università di Firenze, dove insegna pianificazione del territorio rurale e storia ambientale. è coordinatore del gruppo di lavoro sul paesaggio presso il Ministero dell’Agricoltura, presidente del comitato scientifico programma FAO sulla conservazione del patrimonio agricolo e presidente dell’Osservatorio del Paesaggio della Regione Toscana. Agostini Ilaria Ricercatrice di Urbanistica all’Università di Bologna e docente presso il dottorato di Ingegneria dell’architettura e dell’urbanistica della Sapienza di Roma. Tra i suoi libri: Il paesaggio antico. Res rustica e classicità tra XVIII e XIX secolo (2009), La casa rurale in Toscana. Guida al recupero (2011), Il diritto alla campagna (2015). Ha curato: Viaggio in Italia. Le città nel trentennio neoliberista (con P. Bevilacqua, manifestolibri, 2016); La conversione dell’abitare (con D. Vannetiello, 2015); Consumo di luogo. Neoliberismo nel disegno di legge urbanistica dell’Emilia-Romagna (pref. Tomaso Montanari, 2017). Banino Marta Laureata al Politecnico di Torino in Architettura per il Restauro e la Valorizzazione del Patrimonio e specializzata in Beni architettonici e del Paesaggio (Politecnico di Torino). Svolge collaborazioni con studi per sviluppare progetti di restauro e partecipa alle attività di ricerca presso il Centro studi della Reggia di Venaria Reale (To). Bocco Andrea Professore associato in Tecnologia dell’architettura presso il Politecnico di Torino. Le sue pubblicazioni concernono, tra l’altro, Bernard Rudofsky, Yona Friedman, analisi dell’ambiente costruito, rigenerazione di villaggi montani, architettura contemporanea low-tech, costruzione con materiali naturali, nonché tesauri per l’architettura e l’edilizia. Ha diretto il dipartimento “Tecniche urbane” della ONG Cicsene, occupandosi di rigenerazione urbana e sviluppo locale ed è stato tra i fondatori della cooperativa Sumisura. Ha fondato e diretto l’Agenzia per lo Sviluppo Locale di San Salvario (Torino).
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Bonini Gabriella Responsabile scientifico della Biblioteca Archivio Emilio Sereni dell’Istituto Alcide Cervi, convegnistica, pubblicazioni, Summer School Emilio Sereni Storia del Paesaggio agrario italiano, Scuola di governo del territorio SdGT E. Sereni. Docente di Italiano e Storia nella Scuola superiore, Dottore di Ricerca in Scienze Tecnologiche e Biotecnologiche Agroalimentari, Università di Modena e Reggio Emilia. Calbi Irene Dopo il liceo classico si laurea con lode in Scienze umane dell’ambiente, del territorio e del paesaggio presso il dipartimento di Beni culturali e ambientali dell’Università degli studi Milano. Attualmente frequenta il corso di laurea magistrale interateneo di Geografia e scienze territoriali presso l’Università degli studi di Torino. Calidoni Mario Già insegnante, dirigente e ispettore del MiUR per la scuola secondaria di I grado, è membro esperto della Commissione Educazione e mediazione di ICOM Italia. Coordina progetti per l’educazione al patrimonio e cura pubblicazioni didattiche e divulgative sul patrimonio del territorio. Canovi Antonio Geostorico, cura progetti di rigenerazione territoriale e di didattica del paesaggio. Tiene un corso presso il Master in Pubblic History organizzato dall’Università di Modena e Reggio Emilia. Nel 2016 ha curato per la Fondazione Gajani di Bologna il volume Case con gli occhi (Zeledizioni). Castiglioni Benedetta Professore associato di Geografia presso l’Università di Padova. Le sue ricerche sul paesaggio si concentrano sulla relazione tra popolazione e territorio affrontando le questioni delle percezioni sociali, delle attribuzioni di valore, dell’educazione e sensibilizzazione, della patrimonializzazione. Costanzo Luigi Laureato in architettura, è stato borsista del CNR, specializzandosi nell’analisi territoriale dei dati. Lavora in Istat dal 1999 come ricercatore e tecnologo e dal 2014 è nel settore delle statistiche ambientali. È stato membro della Commissione scientifica per la misurazione del benessere e dal 2013 è co-responsabile del capitolo “Paesaggio e patrimonio culturale” del Rapporto BES. Danani Carla insegna Filosofia politica e Filosofia dell’abitare all’Università di Macerata, fa parte della Direzione di riviste e collane editoriali, è membro del Consiglio Scientifico di istituzioni di ricerca (tra cui CEGA e Centro Studi Filosofici di Gallarate); si occupa di ermeneutica, filosofia politica, etica sociale con particolare attenzione all’allocazione trascendentale dell’umano. Tra le sue pubblicazioni Abitanti, di passaggio. Riflessioni filosofiche sull’abitare umano, (2013). È stata responsabile scientifico del progetto CultLAB e direttrice del corso di formazione “Cultura creatività innovazione. Creare valore con le imprese culturali creative”. 336
De Nisco Antonella Artista e docente di Disegno e Storia dell’Arte nella Scuola Superiore, affianca alle attività espositive collaborazioni in progetti, installazioni, eventi, lezioni e pubblicazioni. Ha ideato LAAI, Laboratorio di Arte Ambientale Itinerante, con il quale realizza installazioni territoriali intrecciate, tessute, assemblate. Raccoglie le esperienze artistiche nella serie tascabile Collane di Plastica. È l’artista che ogni anno interpreta artisticamente il tema delle edizioni della Summer School Emilio Sereni. Endrighi Emiro Laureato in Scienze Agrarie e Scienze politiche e sociali all’Università di Bologna, è professore di Economia e Sviluppo rurale all’Università di Modena e Reggio Emilia dove è presidente del CdS in “Scienze e Tecnologie agrarie e degli alimenti’ e vice-direttore del Polo Museale. è stato Membro del “Comitato scientifico per le Denominazioni d’Origine” dell’UE, Presidente del “Consorzio per la valorizzazione dei prodotti dell’Appennino”, Presidente del GAL Antico Frignano e Appennino Reggiano; è membro del Comitato scientifico della Summer School sul Paesaggio Agrario ‘Emilio Sereni’. Ferrara Alessandra Geografa, ricercatore senior Istat, esperta di analisi spaziali e costruzione di sistemi di indicatori statistici. Coordina il progetto Analisi integrata delle infrastrutture e dei servizi in ambito urbano ed è referente per il progetto del Piano Statistico Nazionale Valenze e criticità dell’ambiente urbano e rurale – indicatori su paesaggio e consumo di suolo. Collabora a progetti finalizzati all’incremento dell’informazione statistica per livelli territoriali a piccola scala: mappatura nazionale di copertura del suolo; definizione delle aree urbane; indicatori per l’analisi dei paesaggi urbani e rurali e delle relazioni tra paesaggio e benessere. Fiorio Massimo Vicepresidente della XIII Commissione Agricoltura della Camera dei Deputati ed estensore del disegno di legge sul Contenimento del consumo del suolo e riuso del suolo edificato. Già sindaco di Calamandrana (Asti) per due legislature e Presidente dell’Unione dei Comuni Vigne&Vini. Frignani Fabrizio Laureato in lettere presso l’Università di Parma, ha conseguito il Master di II° livello in Public History presso l’Università di Modena e Reggio Emilia. Ha pubblicato Paesaggi visti dal treno e curato diverse mostre: Il M. Pezzola un balcone naturale per infinite emozioni, Dal Po a quota 1000, Acque e Bonifica tra passato e presente. La fotografia comparata una realtà documentaria per lo studio dei mutamenti del paesaggio rurale, Belvedere paesaggi a noi contemporanei, Cento anni dopo... ricordare per segni, Dalla via Emilia alle Cinque Terre. Giani Alice Laureata all’Ecole Nationale Supérieure d’architecture di Saint-Etienne in Architettura con indirizzo Architettura, urbanistica, territorio e specializzata in Beni architettonici e del Paesaggio (Politecnico di Torino). Attualmente collabora con studi dell’area torinese in progetti di pianificazione territoriale ed è membro del Comitato Giovani della C.N.I. UNESCO. 337
Kauber Anna Regista, scrittrice e architetto paesaggista. Da anni documenta la vita e il lavoro nel mondo rurale, occupandosi in particolare di tematiche sociali e culturali delle comunità. Le esperienze di ricerca in ambito rurale sono state in parte raccolte nel libro Le vie dei campi (2014) e nel progetto/documentario Pastore: femminile plurale. Longhi Andrea Professore associato di Storia dell’Architettura al Politecnico di Torino. La sua attività di ricerca riguarda l’analisi storica del territorio e del paesaggio nel quadro di progetti europei e di convenzioni tra Politecnico e Regione Piemonte. Ha coordinato il gruppo di lavoro storico-territoriale per il Piano Paesaggistico Regionale del Piemonte, si occupa del monitoraggio scientifico di progetti di valorizzazione per la Compagnia di San Paolo ed è membro della Commissione regionale per la salvaguardia del patrimonio paesaggistico. Tra le sue pubblicazioni: La storia del territorio per il progetto del paesaggio (2004) e Cadastres et territoires. L’analyse des archives cadastrales pour l’interprétation du paysage et pour l’aménagement du territoire (2008). Lorusso Daniele Assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Beni Culturali e Ambientali dell’Università degli Studi di Milano. I suoi principali interessi di ricerca vertono sulla climatologia storica e la geografia del paesaggio, con particolare attenzione ai paesaggi agrari tradizionali e alla viticoltura. In passato ha collaborato anche con CIPRA (Commissione Internazionale per la Protezione delle Alpi) e l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) nella sede di Bologna. Matrone Francesca Laureata al Politecnico di Torino in Architettura per il Restauro e la Valorizzazione del Patrimonio e specializzata in Beni architettonici e del paesaggio (Politecnico di Torino). Collaboratrice presso la Fondazione LINKS (Leading Innovation & Knowledge for the Society), si occupa di gestione e valorizzazione dei beni UNESCO. Monticelli Gaia Laureata in Architettura (Restauro e Valorizzazione) e specializzanda in Beni Architettonici e del Paesaggio presso il Politecnico di Torino; attualmente svolge attività di ricerca inerente la catalogazione del patrimonio architettonico rurale dell’Appennino parmense. Parascandolo Fabio Ricercatore di Geografia e docente di Geografia del paesaggio e dell’ambiente presso l’Università di Cagliari. La sua attività di ricerca si concentra soprattutto sulla storia territoriale delle collettività rurali e sui modelli sociali di rappresentazione, frequentazione e uso dei beni naturali e dei paesaggi. Tra le sue più recenti pubblicazioni si segnala Crisis of landscapes, landscapes of the crisis: notes for a socio-ecological approach (2016).
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Pazzagli Rossano Professore associato di Storia moderna e Presidente del Corso di Laurea in Scienze turistiche all’Università degli Studi del Molise. Direttore della Summer School Emilio Sereni e membro del Comitato Scientifico dell’Istituto Cervi. Autore di numerose pubblicazioni sulla realtà economica e sociale dell’Italia, fa parte della Società dei Territorialisti e della redazione delle riviste “Ricerche storiche” e “Glocale”. Ramella Gal Martina Laureata in Architettura (Restauro e Valorizzazione del Patrimonio), a novembre 2014 inizia al Politecnico di Torino il dottorato in Beni Architettonici e Paesaggistici, lavorando all’interno del centro di ricerca SiTI (TO), in cui si specializza su temi riguardanti il paesaggio, le candidature Unesco e la gestione dei siti patrimonio mondiale dell’umanità. Rinaldi Stefano Diplomato alla scuola Alberghiera, attualmente frequenta il corso di laurea di Scienze Turistiche dell’Università degli studi del Molise presso la sede di Termoli, dove è anche rappresentante degli studenti. Russo Saverio Insegna storia moderna presso l’Università di Foggia. Si occupa di storia economica e sociale del Mezzogiorno in età moderna ed ha dedicato numerose ricerche al paesaggio rurale pugliese e alla transumanza, collaborando alla redazione del Piano paesaggistico della Puglia. Sterlacci Laura Laureanda in Scienze Turistiche presso l’Università del Molise. Attualmente è attiva nell’ambito del sociale e sta svolgendo un tirocinio presso l’Azienda Autonomia di Soggiorno e Turismo di Termoli (CB), che si occupa di promozione turistica e sviluppo di dinamiche territoriali locali. Stroffolino Daniela Ricercatore del CNR, si è occupata prevalentemente d’iconografia urbana fra il XV e il XIX secolo. Autrice di numerose pubblicazioni, è membro del comitato scientifico del Centro interdipartimentale di ricerca sull’iconografia della città europea, Università degli Studi di Napoli “Federico II”, e del comitato scientifico della rivista Eikonocity. Attualmente svolge la sua attività di ricerca presso l’Istituto di Scienze dell’Alimentazione del Consiglio Nazionale di Ricerca di Avellino, dove si occupa di storia del paesaggio. Tarpino Antonella Storica di formazione è editor di saggistica per la casa editrice Einaudi. Collabora inoltre con la Fondazione Nuto Revelli dedicata allo scrittore e partigiano piemontese e con la Rete del ritorno all’Italia in abbandono. Tra i suoi libri: Sentimenti del passato. La dimensione esistenziale del lavoro storico (1997), ha curato, con V. Teti, Il paese che non c’è (2011), Geografie della memoria. Case, rovine, oggetti quotidiani (2008) e Spaesati. Luoghi dell’Italia in abbandono tra memoria e futuro (2012). 339
Tosco Carlo Docente ordinario di Storia dell’architettura e direttore della Scuola di Specializzazione in Beni Architettonici e del Paesaggio al Politecnico di Torino. È autore di diversi volumi sull’arte medievale e sulla storia del paesaggio, tra cui: Il castello, la casa, la chiesa. Architettura e società nel Medioevo (2003); Il paesaggio come storia (2006); Il paesaggio storico. Le fonti e i metodi di ricerca (2009); Petrarca: paesaggi, città, architetture, Quodlibet 2011; I beni culturali: storia, tutela e valorizzazione (2014); L’architettura medievale in Italia (600-1200) (2016); Le abbazie cistercensi (2017). Van der Ploeg Jan Douwe Professore di Sociologia rurale presso l’Università di Wageningen nei Paesi Bassi. È stato consulente del ministero italiano dell’Agricoltura e collabora attivamente con la Comunità europea in svariati progetti di ricerca sull’impatto socio-economico dei processi rurali. È autore di numerose pubblicazioni sullo sviluppo rurale, l’agricoltura contadina e l’impatto delle trasformazioni tecnologiche nel mondo agricolo, tra cui Nuovi contadini. Le campagne e le risposte alla globalizzazione (2009). Venturi Ferriolo Massimo Ordinario di Estetica nel Politecnico di Milano, Visiting Professor nell’Università Complutense (Madrid), nella Università Autónoma Metropolitana (Città del Messico), nella Harvard University (Washington D.C.), nell’École Normale Superieure (Paris), membro di Jury del dottorato «Jardins Paysages Territoires» (École des Hautes Études en Sciences Sociales, Paris), membro del comitato scientifico e della giuria del premio internazionale Carlo Scarpa per il giardino (Fondazione Benetton Studi Ricerche). Si occupa di estetica del progetto nel processo di paesaggio e nel governo delle trasformazioni dei luoghi, su cui ha pubblicato numerosi libri, articoli e saggi.
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ISBN 978 - 88 - 941999 - 5 - 6
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