L'ISTRIONE - scritture, visioni e azioni, dentro e intorno al teatro

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L’ISTRIONE

scritture, visioni e azioni, dentro e intorno al teatro N° 0 in attesa di registrazione

Agosto 2009

un laboratorio editoriale a cura di

Cantieri Teatrali Koreja Università del Salento

Insegnamento di Sociologia della Comunicazione del Corso di Laurea Triennale in Scienze della Comunicazione

Big Sur, immagini e visioni

in questo numero: IL SOGNO DI UN UNIVERSO TRANSGENDER di Nicola Viesti

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coordinamento progetto

Stefano Cristante (Università del Salento) Francesco Maggiore (Big Sur) Franco Ungaro (Cantieri Teatrali Koreja) responsabile di redazione

Francesco Baccaro redazione

Angela Fauzzi Erika Grillo Sara Leo Maria Angela Nestola Federico Vaglio progetto grafico e impaginazione

Alessandro Colazzo e Francesco Maggiore (Big Sur) revisione testi

Gioacchino Salento stampa

Movimedia, Lecce

TRANSESSUALITÀ di Chiara Spata

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PARLANDO DI SESSUALITÀ di Alessandro Taurino

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IDENTITÀ OLTRE LA TOLLERANZA

di Stefano Cristante

hanno collaborato a questo numero: contributi

Stefano Cristante, Paolo Pisanelli, Chiara Spata, Alessandro Taurino, Franco Ungaro, Nicola Viesti scritture

Tonio De Nitto, Lara Esposito, Tobia Lamare

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la fotografia dipinta di

PIERRE & GILLES 25

illustrazioni

Riccardo Argenti, Francesco Maggiore, Iroki, Valentina Schito, Patrizia Scialpi fotografie

Rossella Venezia, Alessandro Colazzo, Sergio Quarta

JEAN GENET

antagonista poetico tra arte, carcere e politica

34 Big Sur edizioni Via A. G. Coppola, 3 Lecce - 73100 - tel. 0832.346903 bigsur@bigsur.it - www.bigsur.it Cantieri Teatrali Koreja - Stabile di innovazione del Salento Via Guido Dorso, 70 Lecce - 73100 - tel./fax: +39.0832.242000 - 240752 info@teatrokoreja.it - www.teatrokoreja.it

VOGLIO UN CINEMA SPERICOLATO

incontro con Paolo Pisanelli

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GENDERBENDER Per informazioni o per collaborare con L’Istrione scrivi a: edizioni@bigsur.it

la creatività è queer

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L’ISTRIONE FREE DOWNLOAD >> www.teatrokoreja.it - www.bigsur.it foto di copertina Pierre & Gilles, ELIANE PINE CARINGHTON, 1992


Carissimi lettori e amici, ERA NOSTRA INTENZIONE PROVARE A TRASMETTERVI CON L’ISTRIONE LE ENERGIE, I PENSIERI, I TURBAMENTI, I SOGNI, LE SFIDE CHE ACCOMPAGNANO LA VITA DEGLI ARTISTI E CON ESSA LA VITA DELLA NOSTRA CITTÀ. DESIDERAVAMO RACCONTARE IL TEATRO, L’ARTE, LA CULTURA A LECCE COME FRAMMENTI E VISIONI DI UN MONDO CHE VUOLE SUPERARE I PROPRI LIMITI. LIMITI DI PROVINCIALISMO, DI VUOTO PNEUMATICO, DI INDIFFERENZA, DI VOCAZIONE AL PEGGIO. Dopo un numero zero che abbiamo giudicato poco soddisfacente per noi e poco interessante per voi, ora L'Istrione ha una veste e un progetto nuovo che consente a noi e a voi di esplicitare con maggiore chiarezza e intensità motivazioni e bisogni. Parliamo di nuovo progetto perché d'ora innanzi Koreja lo condivide pienamente con Big Sur, con Stefano Cristante, docente all’Università del Salento e con un gruppo di suoi studenti ed ex studenti (Maria Angela, Sara, Erika, Francesco, Federico, Alessandro) che sono i veri autori e artefici di ciò che avete tra le mani. Nuovo perché intendiamo d’ora innanzi la rivista come un laboratorio collettivo che ricerca, scopre, sperimenta sul campo affrontando apertamente il rischio del mare aperto in tempesta dove nulla è sicuro e garantito, dove tutte le conquiste e le mete sono frutto di un lungo e comune peregrinare. Anche per questo motivo ci scusiamo per il ritardo, a un certo punto ci è sembrato che la strada da percorrere non dovesse finire mai. Nuovo perché abbiamo deciso che ogni numero avrà una focale attraverso la quale guarderemo e leggeremo quello che accade e ci accade. Partiamo dalla focale dell’universo transgender che rilancia originali punti vista sulla realtà e sull’arte, sbalzandoci dopo una forte scossa fuori dai luoghi comuni. Nuovo, soprattutto, nel segno e nel senso che persone in carne e ossa vogliono testimoniare, sporcandosi le mani, abbandonando certezze, timori e pregiudizi, affrontando la scrittura, il teatro, l’arte come necessità vitale e sfida. Vogliamo misurarci con le tensioni verso cui l'arte e la realtà ci spingono, come spazio e tempo del non-quotidiano, come ricerca delle infinite possibilità, come paesaggio di emozioni e come movimento continuo verso quel destino che proviamo a rendere sempre più vicino e concreto: la bellezza che appartiene all'arte quando è vita e alla vita quando è arte! Franco Ungaro

fotografia di Sergio Quarta (Big Sur)

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CONTRIBUTI

IL SOGNO DI UN UNIVERSO

TRANS GENDER L’2

di Nicola Viesti

TUTTI I GRANDI DEL TEATRO IN OGNI EPOCA HANNO AVUTO BEN PRESENTE IL GIOCO CON UNA DOPPIA NATURA MASCHILE E FEMMINILE

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e riteniamo il teatro come l’arte dell’attore – e potrebbe esserlo nella maggior parte dei casi – allora dovremmo considerare la scena come il regno del genere sessuale indistinto. Usando un termine molto in voga, si potrebbe affermare che sul palcoscenico si avvera il sogno di un universo transgender. Un sogno che si ripete da un bel po’ di secoli, da quando cioè l’attore si trova al cospetto di un pubblico con cui deve instaurare un flusso di

illustrazione di Francesco Maggiore (Big Sur)


comunicazione che, nei casi migliori e più efficaci, si da questo. Tutti i grandi del teatro in ogni epoca – si trasforma in fascinazione. D’altronde, non si dice co- consideri l’opera di Shakespeare e il teatro orientamunemente che l’interprete deve saper catturare gli le poi! – hanno avuto ben presente il gioco con una spettatori? Usa sapientemente la voce ma anche il doppia natura maschile e femminile. Per fare solo un corpo, si fa attraversare da una vasta gamma di senti- esempio altissimo basti pensare a Carmelo Bene, al menti, crea un’emozione che arriva in platea per col- mito di un Narciso infranto in mille specchi. Credo che pire alla testa, al cuore ma anche ai visceri e, qualche parlare quindi di un teatro omosessuale, come tutrara e fortunata volta, ancora più giù. Bisogna diffida- te le generalizzazioni, sia un po’ riduttivo. Certo vi è re degli spettacoli – meno male pochi – che vogliono una drammaturgia a tematica omosessuale; vi sono il coinvolgimento attivo del registi, attori, produttori e parpubblico. Il pubblico “per conti più o meno consistenti di IL TEATRO È UN LUOGO DI SEDUvenzione” deve essere lasciato pubblico omosessuali – non ZIONE TOTALE. OGNI ATTORE È UN alla sua dimensione “voyeristiincludo i critici perché ormai ca” che può permettergli – in sono una razza, un tempo IMPENITENTE SEDUTTORE E GLI tutta riservatezza nel buio delassai gay, in estinzione – e SPETTATORI LI PRETENDE TUTTI AI la sala – un libero approccio certo sarebbe utile studiare SUOI PIEDI, MASCHI E FEMMINE. con la scena. Pensiamo a un una storia del teatro tenendo E ANCHE IL PUBBLICO VUOLE GIUinterprete, ad esempio, celeconto dell’omosessualità di alSTAMENTE ESSERE AFFASCINATO E bre non solo per la sua bracuni dei suoi protagonisti e si SOLLECITATO A PRESCINDERE DAL vura ma anche per essere un farebbero scoperte di grande impenitente seduttore. Sarebinteresse. Nei paesi anglosasSESSO DELL’INTERPRETE. be impensabile che, una volta soni, ad esempio, simili studi si messo piede in palcoscenico, conducono da tempo mentre possa bastargli l’applauso e l’apprezzamento del solo in Italia, e specie ora in un momento così opaco, è genere femminile. Come minimo si imbufalirebbe, gli vana la speranza che si possano intraprendere. Cospettatori li pretende tutti ai suoi piedi, maschi e fem- munque le sommarie e arruffate considerazioni di mine, e certo non gradirebbe un camerino pieno solo cui sopra credo possano portare a una riflessione non di gentili signore. Una volta messo il piede fuori dal banale: il buon teatro, uno spettacolo con una sua teatro, ovviamente, sarebbe un’altra storia. E anche forte necessità e motivazione, costituiscono sempre il pubblico, da parte sua, non ci starebbe a farsi am- una maniera in cui si esercita, anche se per poche ore, maliare a seconda del sesso dell’attore: vuole giusta- una grande e totale libertà, che è un bene sempre da mente essere affascinato e sollecitato a prescindere ricercare, proteggere e curare.

EXTRA | visual art

ECCE OMO, IL GIOCO IRONICO DI RICCARDO ARGENTI. Riccardo Argenti è nato nel 1969 a Lecce. Negli anni Novanta ha cominciato a dipingere le trasformazioni dei corpi umani in relazione alla vita contemporanea, filtrata attraverso il suo approccio classico, influenzato soprattutto dal manierismo. Tutti questi studi sono stati riassunti nel progetto “La costruzione dell’angelo” del 1993-95. Era il tentativo di dare un volto all’uomo contemporaneo come un nuovo modello di corpo e tecnologia, uscendo dalle semplici rappresentazioni iperrealistiche ma utilizzando dei riferimenti simbolici. Presto tale lavoro ha coinvolto molte immagini dai giornali, dalla pubblicità o dalle icone sacre, spesso utilizzando materiali diversi come metallo, fotocopie, lucidi o immagini dello stesso artista, per affermare l’arte come esperienza reale e personale. (www.riccardoargenti.com)

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PICCHÌ MI GUARDI SI TU SI MASCULU VISIONI

“Da qualche anno sono alla ricerca di una nuova ragione di teatro. Dopo una lunga sperimentazione nelle estetiche delle arti sceniche attraverso le tecnologie il corpo aveva assunto una funzione marginale nella composizione dell’apparato spettacolare. La perdita del corpo inevitabilmente ha determinato in me uno stato di crisi, un disorientamento, sul piano creativo e non solo. Da questa crisi prende forma il mio viaggio di ora (…) un viaggio introspettivo che fa emergere il mio corpo, i suoi conflitti, la sua patologia, la sua condizione estrema con l’obesità, la voce malata, con l’obliquo sguardo sul mondo. Fragilità, buio, silenzio e al tempo stesso grido. Ho bisogno di un teatro che sia il mio teatro. Dalla scrittura all’esecuzione mi catapulto senza inibizioni dentro la mia esperienza, origini, ricordi, vergogne, per portare a galla materiali che divengono denuncia e autodenuncia. A difesa della diversità in tutte le sue forme, razziale, sessuale, politica, religiosa, psicologica, fisica. Questo il tema di Picchì mi guardi si tu si masculu, monologo scritto sempre in calabrese, in cui indago, attraverso la mia sessualità, nei conflitti di questo “corpo estremo” che instancabilmente porto in giro. (…) In scena con me il corpo, la voce e la musica di Peppe Voltarelli (…)”. Giancarlo Cauteruccio

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di Erika Grillo

PICCHÌ MI GUARDI SI TU SI MASCULU Compagnia Krypton (Firenze) di e con Giancarlo Cauteruccio musiche e canzoni eseguite dal vivo da Peppe Voltarelli scene Loris Gianicola collaborazione all’allestimento Massimo Bevilacqua sinossi Nell’ormai evidente tramonto del teatro di narrazione, le performance di artisti solitari continuano. C’erano prima di quel teatro, ci sono ancora e sono, forse, il meglio del nostro teatro, là dove, a volte, compare in scena la verità. Essa compare in Picchì mi guardi si tu si masculu […] nel più classico dei modi, nel modo della finzione. Franco Cordelli “Il Corriere della sera”


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vederlo così, con quel corpaccione deformato dall’obesità, quella voce roca, quell’ispida parlata calabrese, tutto si potrebbe pensare di Giancarlo Cauteruccio, tranne che riesca a esprimere in scena la delicatezza, l’ambigua leggerezza, la pudica sensualità con cui affronta questo suo monologo scritto per il “Garofano verde”, la rassegna romana di teatro omosessuale: la premessa non è superflua, perché è subito chiaro che le zone d’ombra, le allusioni, i sentimenti sospesi, nel testo, pesano più di ciò che è esplicito, e sottraggono il racconto alla sfera meramente personale per conferirgli una più ampia risonanza esistenziale, che colpisce. Il regista-attore ripercorre un episodio di seduzione da parte di un uomo - poco importa se reale o immaginario - che il protagonista subisce e accetta in età adulta: ma lo pone in relazione con un’analoga esperienza vissuta tra adolescenti, in un incontro in cui si intrecciano l’amicizia e la scoperta di un acerbo erotismo. Proprio in questa descrizione, insieme candida e dettagliata, sta a mio avviso l’invenzione più poetica dello spettacolo: una ridda di sensazioni, di piccoli soprassalti fisici e interiori che trascende la circostanza in sé per evocare l’emozione di qualunque iniziazione sessuale, con tutti i misteri e gli imbarazzi che essa comporta. Due sono gli aspetti fon-

damentali della proposta: da un lato il ricorso a uno stretto dialetto calabrese che è appunto la lingua della memoria, dell’infanzia, e serve a Cauteruccio per creare una partitura verbale bizzarramente consona a questi contenuti, coi quali sembra contrastare per la sua durezza, ma che proprio in quanto dura li pone alla necessaria distanza, li asciuga, li riscatta da toni morbosi. Dall’altro lato l’uso che egli fa delle proprie movenze grevi, delle proprie carni deformi, anch’esse esibite come paradossale antitesi a ogni attrazione seduttiva, ulteriore fattore di diversità in quello che è già un viaggio nel “diverso”. E poi c’è l’insostituibile apporto di Peppe Voltarelli, autore delle musiche, fisarmonicista, interprete nel ruolo dell’amante: una presenza a tutto tondo, che canta benissimo, suona come pochi, recita con efficacia e riesce addirittura a far recitare la sua fisarmonica, la cui “voce” ha un risalto che va al di là della pura funzione di accompagnamento: è esemplare, in questo senso, la scena - di una forza davvero inquietante - in cui l’accoppiamento fra i due, suggerito da loro con gesti stilizzati, viene soprattutto mimato dal metaforico contrarsi e dilatarsi dello strumento, con un lancinante effetto non solo visivo ma anche sonoro.

STRALCI DI RASSEGNA STAMPA “Cauteruccio approfitta di questo testo per rimettersi al centro della scena con quelle che sono due caratteristiche forti e peculiari della sua persona e della sua storia: la lingua e il peso. Con questi due elementi forti, Cauteruccio racconta la storia di un turbamento maschile, destinato per altro a concludersi con soddisfazione. È lo stupore di chi si sente guardato e desiderato da uno sguardo, che però è maschile. Un’esperienza che l’uomo prima rifiuta, poi accetta aiutato da un lato dalla vanità del corteggiamento, e dall’altra da certi ricordi dell’infanzia, che tornano ogni volta con piacere. La vera invenzione è che quello ‘sguardo’ indiscreto prende corpo sulla scena della fisarmonica e nel canto di Peppe Voltarelli, elemento che aiuta quella ‘seduzione’ a volare alto. E che fa di quella piccola storia (in quella lingua, e con tutte le emozioni che Cauteruccio attore sa trasmettere) una esperienza affascinante per tutti. In una serena accettazione dell’amore di ognuno. Senza pruriti e senza eroismi.” Gianfranco Capitta – Il Manifesto – 15 giugno 2008 “Un ‘melò’ fassbinderiano trapiantato nel Sud di Leo De Berardinis con interludi di ballate popolari eseguiti dal fisarmonicista Peppe Voltarellli che lo affianca come un oscuro oggetto del desiderio. Inchiodato a una sedia, le spalle al muro nella pala d’altare profana creata da un cono di luce, i confini tra masculo e femmina, anima e carne, si fondono in una mostruosità gentile, un cammeo commovente con licenza di sorriso.” Nico Garrone – La Repubblica – 16 giugno 2008 “La vergogna di chi non si sente degno di essere desiderato e il ricordo dei primi impulsi adolescenziali, la confessione del primo amplesso omosessuale e l’omaggio ai compagni uccisi dalla malattia compongono questo breve lampo teatrale che ha la sua forza proprio nel suono scabro e arcaico del dialetto e nella presenza potente di un corpo anomalo, sincero.” Simona Spaventa – La Repubblica - 13 febbraio 2009

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LA VITA IN FRAMMENTI Beckett rivisto da Peter Brook sotto nuova luce VISIONI

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Cantieri Teatrali Koreja “invasi” da un pubblico entusiasta per i Fragments beckettiani, firmati dal grande Peter Brook. Uno spettacolo concepito in francese, per festeggiare a Parigi il centenario della nascita di Samuel Beckett (1906-2006), che oggi il noto regista riallestisce in inglese. Un importante progetto sviluppato dalla compagnia Théatre des Bouffes du Nord di Parigi, che per l’occasione si compone di tre attori di altissimo livello: Cesar Sarachu, Antonio Gil Martinez e la magnifica Hayley Carmichael. Peter Brook sceglie di portare in scena Samuel Beckett perché, spiega, è “un autore che affonda lo sguardo nell’insondabile abisso dell’esistenza umana. Viaggia sulla sottile linea che lega il teatro greco antico, attraversando Shakespeare per giungere al nostro tempo, celebrando senza compromessi la verità. Una verità sconosciuta, terribile, sconvolgente”. Con questi presupposti nasce uno spettacolo intenso, semplice e al contempo poetico, composto da cinque brevi ma molto significativi frammenti: Teatro I, Dondolo, Neither, Atto senza parole II, Va’ e vieni. Merito del regista il saper vedere l’anima degli attori, la capacità di oltrepassare la dimensione “teatrale” svelandone tutta l’umanità possibile. Due uomini e una donna: sono loro stessi a interpretare le scene mute e quelle parlate, a dibattersi nel surrealismo ermetico di Beckett e uscirne con una carica emotiva fortissima. Lo spettacolo, vincitore del prestigioso premio Ubu come migliore spettacolo straniero, non ha bisogno di nient’altro che di pochi, precisi oggetti; si avvale dunque consapevolmente di tutta l’“assenza” necessaria a rendere la misura di una creatività artistica instancabile. Brook, giocando solo su sapienti effetti di luce e sulla squassante intensità dei testi, di cui pone in risalto la vena spietatamente umoristica, fa sì che le scene prendano forma su un vero e proprio “ring” delimitato di volta in volta da un confine lu-

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di Erika Grillo

minoso: netta linea di demarcazione tra ciò che è sulla scena e ciò che non ne fa parte. Ironiche, grottesche, dissacranti e insieme tragiche e poetiche, le storie di Beckett raccontano di barboni ciechi e storpi che resistono ancora alla morte in virtù di una riserva segreta di energia; di uomini opposti, uno frustrato e l’altro appagato della medesima vita, due metà dello stesso clown che ripetono all’infinito ossessivi gesti con approcci diametralmente opposti; di tre vecchiette sedute su una panchina a ricordare i tempi andati, con un ironico senso di nostalgia; di una donna precocemente invecchiata, adagiata su una sedia a dondolo in attesa della morte. In questo susseguirsi di atti, si riassume la ricerca di un equilibrio da parte del regista, tra il colore acceso e vivo della teatralità e dell’humour e il tono sommesso e realistico della metafora. In Beckett infatti, come nello spettatore, non prevale in modo decisivo uno stato d’animo, quanto piuttosto la continua, percepibile, lotta fra essi. Peter Brook sembra saper interpretare sapientemente quest’ambiguità, tirandola fuori con delicatezza e dolcezza dai suoi attori, che da autentici supereroi lanciano verso il pubblico un’energia commovente piuttosto rara.

CREDITS FRAGMENTS di Samuel Beckett Théâtre des Bouffes du Nord (Parigi/Francia) regia Peter Brook collaborazione alla regia Marie-Hélène Estienne con Hayley Carmichael, Antonio Gil Martinez, César Sarachu luci Philippe Vialatte produzione C.I.C.T./Théâtre des Bouffes du Nord sinossi In questi testi brevi e brevissimi, Brook scava il piacere (anche il proprio) del teatro. La loro semplicità apodittica squarcia la complessità fasulla di tante sovrastrutture teatrali in cui spesso è più facile rifugiarsi. Una sorta di “grado zero” che invece ha tutta la densità dell’esistenza. Il pubblico ride, perché la forza comunicativa di quelle parole è ineluttabile, ma sono le stesse situazioni a gridare una condizione disperata da cui solo la parola può aiutare a uscire. Gianfranco Capitta “Il Manifesto”


LA FIERA LIBERA DEL SENTIMENTO L’umanità selvaggia della vita metropolitana VISIONI

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o Zoo di notte prende forma in una tranquilla serata leccese presso i Cantieri Teatrali Koreja… Si accede al palcoscenico ignari di ciò che a breve si presenterà ai nostri occhi: poco più di un’ora di spettacolo intenso, crudo, incredibilmente realista. Uno spaccato dello Zoo metropolitano, abitato da “bestie umane” allo sbando, senza soldi né dimora, con in mano armi e alcool a sufficienza per allucinarsi l’anima. Due ragazzi, Jo e Mike, le cui vite si intrecciano come filo spinato a quella di Sarah, madre troppo giovane, padrona di un corpo troppo spesso prestato per far soldi. Poi un uomo: estraneo visitatore dello Zoo, spettatore al di fuori delle gabbie, che non ha pagato il biglietto per vedere quella devastazione, preda della curiosità dei diversi. Le loro figure appaiono e scompaiono dietro i teli neri sul fondo della scena; si sdoppiano e si ricompongono, come corpi abitati da due anime diverse, in un gioco nevrotico di luci e ombre. Tutti indossano abiti fortemente caratterizzanti i loro personaggi: borchie e jeans strappati per i ragazzi dei combattimenti notturni; giacca rosso fuoco e tacchi rumorosi per Lei che deve ostentare ardore e passionalità; cappello sotto il quale nascondere lo sguardo e abito elegante per l’Uomo intruso. Poca testualità e molto ritmo; le urla confuse e violente si frappongono ai dolci sussurri in una frenesia che oggigiorno è propria degli adolescenti e sembrano riecheggiare fastidiosamente nella mente degli spettatori all’uscita della sala. I protagonisti si “sbranano” alla conquista l’uno dell’altro, e poi – a tratti – si riavvicinano in cerca di baci e tenerezze per accaparrarsi l’unica cosa che sembrano possedere realmente: sé stessi. Essenziale l’obiettivo: mettere a nudo le radici più profonde dell’affettività umana, ricercare codifiche universali per gesti apparentemente assurdi e incoerenti.

di Erika Grillo

Appare così allo spettatore la solitudine amorosa e il bisogno morboso d’affetto dei ragazzi di oggi che vivono quelle stesse – disumane – condizioni. La rappresentazione sembra inoltre denunciare l’ottusità delle menti tradizionaliste e avverse ai mutamenti classici dei divari generazionali. Così i giovani attori protagonisti gettano violentemente i propri semi di speranza, badando bene che essi non si disperdano nel vento o non rimbalzino su una terra lontana e asciuttissima, ormai incapace di fiorire.

CREDITS ZOO DI NOTTE di Michel Azama Mise en espace Giovanni De Monte con Giovanni De Monte, Alessio Pala, Alessandra Crocco, Antonella Iallorenzi e Paolo Gubello traduzione Paola Ciccolella sinossi Michel Azama è uno dei più importanti esponenti della nouvelle vague teatrale francese di questi ultimi anni. Si dedica alla scrittura, è drammaturgo al nuovo teatro di Bourgogne. Attualmente conduce seminari di scrittura in Francia, Italia, Spagna, Colombia, Cile. Traduce molti autori, spagnoli, catalani, cileni e si dedica alla formazione. Le sue opere sono tradotte in numerose lingue e rappresentate in molti paesi dell’Europa e dell’America latina.

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I NUOVI ITALIANI DI SINAGOSYTY Viaggio nella vita dei figli di migranti nati e cresciuti in Italia VISIONI

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roiezioni improvvise nella vita altrui, quella delle “seconde generazioni”. La storia di Aram Kian e di tutti coloro che, come lui, sono nati e cresciuti in una nazione che si chiama Italia da genitori stranieri. Questa l’anima dello spettacolo Sinagosyty, portato in scena dal Teatro di Alessandria ai Cantieri Teatrali Koreja, per la regia di Gabriele Vacis. Un tuffo nella periferia di una grande città del nord in cui il padre del giovane Aram è stato catapultato dal lontano Iran; una città in cui, seppur faticosamente, il piccolo Aram nasce e vive, trascorre l’infanzia e la giovinezza, diventa uomo. Dimensione particolare, per la quale quest’uomo è costretto a interrogarsi continuamente sulla propria identità; condizione scomoda alla quale dover quasi trovare una plausibile “giustificazione”. Sono due gli attori che si alternano sulla scena, Aram Kian e Francesca Porrini, i quali ripercorrono squisitamente momenti di vita memorabili per loro stessi e per il pubblico in sala: dagli esami di maturità al primo viaggio da maggiorenni, dalle canzoni storiche di Lucio Battisti alla vittoria italiana ai mondiali dell’’82. Ricordi felici, accennati come lampi in mezzo al buio di una giovinezza trascorsa a difendersi dal pregiudizio, a tentare di spiegare e di spiegarsi, a costruirsi una figura dignitosa, a cercare un posto di lavoro nonostante la carnagione olivastra. Un palcoscenico vestito nei toni purissimi del bianco, dalle luci ai tendaggi; “bianco, bianco, bianco… tutto bianco” come grida il piccolo Aram mentre da bambino colora con un pennello e una latta di vernice tutta la terrazza… e poi i mobili del giardino… e poi ancora il suo cane…, quasi a voler evocare quell’unico raro colore di cui, da grande, avrebbe voluto colorare la sua pelle, per esularsi dalle forme di razzismo. Il Teatro assume dunque il suo ruolo fondamentale: narrare il presente mediante uno stralcio di vita

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di Erika Grillo

e di memoria, e guardare al futuro di una società che dovrebbe imparare, ogni giorno un po’ di più, a essere “multietnica”. In bilico tra incanto, ironia e tragedia, Sinagosyty fa ridere di gusto, fa riflettere, poi d’improvviso fa indignare e vergognare, fa desiderare di non appartenere a quel sistema per il quale la giustizia funziona a favore del ladro-imprenditore italiano e a discapito dell’onesto lavoratore italo-iraniano. Dalla scrittura all’esecuzione, Aram ci catapulta senza inibizioni dentro la sua esperienza, alle sue origini, vergogne, memorie, per portare a galla materiali che divengono denuncia e autodenuncia, contro ogni forma di incomprensione nei confronti della diversità razziale, sessuale, politica, religiosa, psicologica, fisica. Personalmente dedicherei questo spettacolo a una nuova, urgente cultura dei sentimenti, da controproporre ai pregiudizi oggigiorno annidati nei linguaggi, nei riti sociali, nei meccanismi economici, nei tabù della religione.

CREDITS SYNAGOSYTY di Gabriele Vacis e Aram Kian Teatro di Alessandria (Alessandria) regia Gabriele Vacis con Aram Kian e Francesca Porrini scenofonia Roberto Tarasco scene e costumi Lucio Diana Io sono uno di quelli che si riempiono lo zainetto di esplosivo e fanno saltare la metropolitana di Londra… Se uno alto, biondo venisse qui a dirti: ho lo zainetto pieno di bombe… tu ti metteresti a ridere, no?... Ma se te lo dico io? Un brivido ti viene, no? Solo perché sono basso e nero. Che poi non sono neanche tanto nero… al limite un po’ olivastro… Che adesso è anche peggio. Almeno… fossi senegalese!


EN TRAVESTI Personaggio che in un’opera teatrale viene interpretato da un attore di sesso opposto. Questo fenomeno assume un carattere del tutto normale durante il periodo dell’opera lirica barocca nel ’600 e nel ’700, per la proibizione, esistente in alcune piazze come Roma, di impiegare donne sul palcoscenico (sostituite con giovani castrati), in quanto si considerava la voce bianca (soprani e contralti, castrati) la sola adatta a esprimere la dimensione lirica, e inoltre perché si distanziava dai timbri più comuni percepiti come volgari (baritono e mezzo soprano). L’uso del TRAVESTI ebbe un ultimo sussulto di gran voga all’inizio dell’800, quando, per l’assenza di castrati, il ruolo di primo musico nelle compagnie operistiche venne assunto dai mezzo soprani o contralti definiti come “Contralti musici” (tra i sostenitori di questo fenomeno, Rossini e Donizetti). Con l’affermarsi del realismo romantico le parti maschili in TRAVESTI furono affidate a personaggi di età adolescenziale sul modello del Cherubino delle Nozze di Figaro di Mozart. Per quanto riguarda il teatro (varietà) contemporaneo invece, abbiamo un esempio del bel canto en travesti che ritroviamo nei gruppi vocali come quelli delle Sorelle Bandiera e delle Sorelle Marinetti.

LE SORELLE MARINETTI: Turbina, Mercuria e Scintilla, fuori dalla scena sono Nicola Olivieri, Andrea Allione e Marco Lugli. Prendono il nome Sorelle Marinetti dal caposcuola del futurismo Filippo Tommaso Marinetti e si esibiscono con un repertorio di brani swing composti da autori degli anni ‘30, divenuti nel tempo degli evergreen (Il pinguino innamorato, Ma le gambe, Tulipan). Si definiscono signorine perbene e suffragette della musica e nelle loro performance valorizzano l’uso dei vocalizzi in falsetto. A differenza delle Sorelle Bandiera, trio comico musicale attivo tra il 1976 e il 1992 in un programma di Renzo Arbore dove cantavano la sigla della trasmissione e giocavano molto sul tema dell’ambiguità allora molto in voga (si pensi al boom di Amanda Lear promossa proprio grazie a una trovata pubblicitaria che la voleva transessuale).

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LA LEZIONE DEL DODONA THEATER In scena la crudeltà della violenza e il terrore dei ricordi VISIONI

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ekim Lumi mette in scena Mësimi / La lezione, un originale adattamento del testo di Ionesco in cui violenza e terrore sono i veri protagonisti: la violenza di un professore, il terrore di una studentessa. Una sedia, come unico oggetto di scena, è posta su un palcoscenico vuoto e assume le sembianze di un terzo attore. Un innocente vestitino rosso è indossato da una studentessa alle prese con le interminabili domande di un professore cinico ed esigente che rende la lezione un ritratto macchiato da molestie psichiche e fisiche. Il caratteristico palcoscenico, povero di scenografia, fa da sfondo a un’eccezionale in-

terpretazione, da parte degli attori Adriana Matoshi e Astrit Kabashi, delle scene anche più crude e brutali, come lo stupro e l’uccisione della studentessa intrappolata a una sedia su cui è incisa, bianco su nero, la stella di Davide. La presentazione dell’opera in lingua originale (albanese) non distoglie l’attenzione del pubblico dai gesti secchi, chiari e violenti, dagli sguardi persi, impauriti e innocenti, in grado di comunicare più delle parole. Nessuna esitazione da parte della platea ad applaudire una “lezione” sulla violenza che calpesta e distrugge i più deboli, gli indifesi, i sottomessi; come una donna travolta dall’ira e dalla pazzia di

INTERVISTA AL DODONA THEATER Come si è formato il Dodona Theater? È iniziato tutto negli anni ‘90, quando il regime di Milosevich invase il Paese. Fu un periodo molto difficile: tutte le porte dell’arte erano state chiuse, come ogni istituzione culturale e università. Tutti coloro che lavoravano furono cacciati. Il Dodona Theater è l’idea di alcuni artisti per cercare di dare alla popolazione un momento di cultura ma anche di divertimento in una triste situazione. Per più di dieci anni è stato l’unico ente a trasmettere iniziative culturali; dato che la loro sede era in periferia e non nel centro di Pristina (capitale del Kosovo) fortunatamente non è stata scoperta dalla polizia serba. Lo spazio era poco: solo 160 posti a sedere, ma non c’è da sorprendersi se c’era sempre il pienone tanto che molta gente rimaneva in piedi. Le loro rappresentazioni erano prevalentemente commedie. Nonostante fosse un luogo di svago era l’unico

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che avesse un’aria di resistenza e di protesta. Durante tutti i lunghi anni di guerra il Dodona Theater non si è mai perso d’animo e ha sempre continuato la sua lotta; anche quando il 22 marzo 1999 la polizia serba ha ucciso Adriana Abdullahu, una giovane attrice ventiduenne. Nonostante la polizia avesse chiuso il teatro, gli attori si sono riuniti per le strade rendendo ugualmente omaggio alla vittima. Ma ancora non era abbastanza: la Compagnia ha anche viaggiato per la Macedonia e l’Albania presentando spettacoli in tenda e continuando a dare il sorriso alle persone stanche della guerra. Come mai avete scelto di rappresentare proprio questo spettacolo? Non è stata una coincidenza. Abbiamo scelto questo spettacolo perché fa parte di quello che abbiamo vissuto. Volevamo rendere il pubblico partecipe di quello che ci è rimasto:

flash agghiaccianti, fotografie orribili e brutti ricordi. Arriva un momento in cui tutto questo vuole essere condiviso. Inoltre riteniamo che questo spettacolo non sia fuori luogo nella società odierna; riprende le situazioni vissute dai bambini in Kosovo, Afghanistan, Iran e in tutti i Paesi tormentati dalla guerra, non è lontano dalla figura di Anna Frank e in alcuni nostri connazionali può suscitare il ricordo dell’attrice uccisa. Perché così tanta violenza? Fa parte di quelle fotografie che abbiamo memorizzato nelle nostre menti. L’intenzione non era quella di stancare o terrorizzare il pubblico, ma di far capire che queste non sono scene teatrali o tratte da film, accadevano veramente. Volevamo trasmettere emozioni. Se siamo riusciti a commuovervi, abbiamo fatto un buono spettacolo. Vogliamo che lo spettatore viva con noi e abbia delle reazioni verosimili. “Io sono fan di un


BEKIM LUMI METTE IN SCENA UN ORIGINALE ADATTAMENTO DEL TESTO DI IONESCO IN CUI VIOLENZA E TERRORE SONO I VERI PROTAGONISTI: LA VIOLENZA DI UN PROFESSORE, IL TERRORE DI UNA STUDENTESSA.

di Erika Grillo

un uomo, un ebreo condannato dalle pretese di uomini folli, un essere umano privato dei propri diritti e della propria vita da parte di un altro essere umano privato, a sua volta, della ragione. Mësimi / La lezione, definito dalla critica come il miglior spettacolo del Kosovo postbellico, emoziona e travolge l’animo umano, lasciando i segni di un vero e proprio insegnamento.

CREDITS MËSIMI/LA LEZIONE tratto da La lezione di Eugéne Ionesco Dodona Theater (Pristina / Kosovo) regia Bekim Lumi con Adriana Matoshi e Astrit Kabashi musiche Artan Cernaveri luci Philippe Vialatte sinossi Mai durante gli anni della guerra il Dodona Theater ha interrotto la sua attività, fino al 22 marzo 1999, quando la polizia serba e le forze paramilitari hanno ammazzato Adriana Abdullahu, un’attrice di 22 anni. Anche in seguito, gli attori di questo teatro hanno continuato a mostrare i loro spettacoli in situazioni drammatiche. Per onorare l’attrice uccisa, il Dodona Theater ha istituito un premio in suo nome per la migliore attrice/attore all’International Student Theater Festival “Skena UP”.

di Angela Fauzzi e Sara Leo teatro caldo, non freddo, che tocca il cuore dello spettatore” afferma il regista. Il testo originale è differente e prolisso. Con quali criteri c’è stata la rielaborazione del testo? Abbiamo scelto di fare una versione completamente kosovara, non volevamo assomigliasse alle altre viste in altre parti del mondo. Non voleva essere una semplice interpretazione del testo letterario, ne è stato rappresentato volutamente solo una parte. Sono scelte registiche, soprattutto per quel che riguarda la scena. Quello che ci ha toccato di più è stata la violenza che aumenta man mano che lo spettacolo avanza. Prima verbale, poi psicologica, poi fisica, per passare in seguito alla violenza sessuale e infine all’uccisione dell’alunna. Vi è anche una morale in tutto questo: bisogna stroncare qualunque tipo di violenza sul nascere, perché il confine tra quella verbale e quella fisica è sottile.

Come funziona il Dodona Theater dalpunto di vista economico? “Non ce lo chiedete!”­, sorridono­. Purtroppo i soldi scarseggiano. Questo spettacolo è stato realizzato con mille euro che erano un risparmio del regista. “Il teatro non lo fanno i soldi, ma il desiderio di fare teatro. Mi piace il teatro povero e con poca scenografia. Penso che due attori e una sedia bastino e avanzino per fare un bello spettacolo. Diceva Confucio: ‘Dodici uova e un po’ di fortuna possono fare tredici galline’”. Come scegliete i testi di riferimento? Preferite i classici o quelli albanesi? Risponde Bekim Lumi: Preferisco i testi degli autori stranieri poiché non ho ancora trovato autori albanesi che rispecchiassero la mia anima. A molti registi piacciono gli autori nazionali, ma spesso questi testi si rivolgono a una cerchia ristretta di persone. Io amo indirizzare uno spet-

tacolo a tutto il pubblico. Com’è stato realizzato questo spettacolo? Per Mësimi / La lezione ci sono voluti tre mesi e mezzo di lavoro e molte prove stancanti. La regia migliore è il lavoro con gli attori e non la scenografia. Il primo passo nonché il più importante è la lettura e l’analisi del testo da rappresentare insieme agli attori. In questo modo costruiamo le emozioni, le espressioni e la temperatura della voce e, una volta superata questa fase, iniziamo a provare in scena. “Ed è qui che inizia il lavoro duro!” Bekim Lumi, Adriana Matoshi e Astrit Kabashi si lasciano andare a una serie di battute affettuose, divertendo il pubblico e dimostrando rispetto reciproco e una grande umanità. E con questo piccolo sketch salutano e si congedano.

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LE CINQUE ROSE DI JENNIFER di Arturo Cirillo

SIAMO TUTTI UN PO’ JENNIFER La solitudine del trans metafora della nosta esistenza VISIONI FUORI DAI CANTIERI

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di Tonio De Nitto

e cinque rose di Jennifer da poco ritornadelineare lo spazio confortevole e allo stesso tempo to sulla scena teatrale italiana grazie alla oppressivo di Jennifer. Quando la possibilità di codelicata ed equilibrata versione di Artumunicare con l’esterno bussa alla sua porta, viene ro Cirillo per il Teatro Nuovo di Napoli, subito allontanata: Anna, l’altro travestito in preda è un testo di straordinaria profondità, allo sconforto, nella felice trovata di Cirillo, è un’altra un’indagine sulla solitudine e l’incomuJennifer, un altro essere destinato alla solitudine che nicabilità tra individui. Il testo compare nel 1980 ed nemmeno la grazia del suo dio può salvare. è messo in scena dallo stesso giovanissimo Ruccello, Con delicatezza e senza mai esasperare e stereotiallora ventiquattrenne, vera promessa della drampare l’immagine di questa creatura, Cirillo ci emomaturgia partenopea, stroncato ziona e seduce alternando toni troppo presto da un incidente volgari, immagini da fotoroSI MUORE DI SOLITUDINE. UN ATTORE stradale qualche anno più tardi. manzo e momenti di grande CHE SI TRAVESTE, UNA ATTRICE CHE SI Cirillo, lontano da facili trovapoesia, regalandoci il ritratto di TRAVESTE. MESTRUAZIONI FINTE, SENI te di paillette e ammiccamenti una Jennifer che si lascia guarPIATTI, PARTI MAI AVVENUTI. TUTTO un po’ fru fru in cui gran parte dare dentro, senza arrestarci NELLA MENTE DI UN RAGAZZO DI UNA del teatro italiano è scivolato all’apparente dissonanza del CITTÀ DI PROVINCIA. QUESTO SONO LE nell’affrontare quest’opera, ci corpo; una Jennifer che può asNOSTRE “CINQUE ROSE DI JENNIFER”. restituisce la lucida visionariesomigliarci nella nostra fragilità tà e drammaticità di Ruccello, e nel vuoto di questo mondo autore a lui molto caro di cui ha messo in scena in che con grande sforzo fatichiamo a colmare. Accanpassato Mamma per la regia di Sepe e L’ereditiera di to alla misurata ed emozionante Jennifer di Cirillo, la cui firma la regia, insignita del premio Ubu nel 2004. cupa, disperata e convincente figura di Anna, l’altra Jennifer è un travestito che vive in un fantomatico Jennifer, è interpretata da Monica Piseddu, giustaquartiere trans di Napoli, un ghetto forse, dove la mente premiata con l’Ubu nel 2007. comunicazione tra gli individui è resa ancora più difficile per via di strani disguidi telefonici che confondono le telefonate tra le abitazioni, dove tutti sembrano dipendere da una radio che scandisce CREDITS le giornate con notizie, dediche, chicche musicali LE CINQUE ROSE DI JENNIFER (che attingono alla migliore discografia musicale di Annibale Ruccello gay: Mina, Patty Pravo, Romina Power) pronte ad amplificare i sentimenti di Jennifer e di qualunque regia di Arturo Cirillo anima sola. Con tocco di noir, lo speaker della radio assistente alla regia Roberto Capasso ci aggiorna sugli strani omicidi che vanno diffondenproduzione Nuovo Teatro Nuovo di Napoli dosi di ora in ora nel quartiere con caratteristiche in collaborazione con Amat interpreti Arturo Cirillo e Monica Piseddu simili: una pistola, la serratura chiusa dall’interno e scene Massimo Bellando Randone cinque rose rosse per terra. Una cornice vuota sul costumi Gianluca Falaschi suo comodino e una telefonata che sembra non luci Pasquale Mari arrivare mai, quella di Franco, il tanto desiderato musiche Francesco De Melis marinaio corteggiatore che le ha promesso di tornare, un vaso con cinque rose e pochi elementi per >> www.nuovoteatronuovo.it

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CINEMA CIELO di Danio Manfredini

GRAZIE AL CIELO

Tutti gli esclusi trovano “compagnia” in una sala a luci rosse nel centro di Milano VISIONI FUORI DAI CANTIERI

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inema Cielo è un insolito spettacolo diretto da Danio Manfredini e vincitore del Premio Ubu 2004 per la miglior regia. Il Cielo era un cinema a luci rosse nel centro di Milano che chiuse definitivamente con l’avvento di videocassette hard e club privé. Era molto frequentato e divenne famoso per essere la sede di svariati incontri proibiti. Manfredini trascorse parte della sua vita a studiare luoghi affini e il mondo che gli gravitava intorno. Un’umanità in cerca di emozioni vere, alla ricerca di una cura contro la solitudine e le sue fragilità. È intrinseco nella natura umana lottare contro le incertezze e le certezze possono divenire tali solo attraverso l’accettazione da parte del gruppo. Spesso però i “diversi”, come quelli rappresentati in quest’opera, non beneficiano di un’integrazione sociale e usano il sesso per acquistare un’irraggiungibile normalità, come ultima speranza per l’affermazione di se stessi. Non gli resta altro per sconfiggere quell’agghiacciante solitudine: il sesso. E il Cielo era uno dei loro rifugi. Per questo la comunicazione creata dagli attori è soprattutto visiva: il corpo è il vero protagonista. Manfredini mette in risalto la presenza di questi individui nella società (spesso volutamente ignorata) e la loro condizione di personaggi in fuga dalla solitudine “che approdano su una delle ultime spiagge per tutti quelli che vivono senza amore”. Lo spettacolo è ambientato proprio nella sala di questo piccolo cinema. Sul finto schermo viene proiettato un ipotetico film tratto da un romanzo di Jean Genet del 1944, Nostra Signora dei Fiori. La particolarità consiste nel non vedere le immagini, ma sentire solo frammenti di battute e il suono della pioggia che cade. Questo è lo sfondo per le “vignette” tragicomiche inscenate dai personaggi interpretati dai quattro protagonisti (tra cui il regista stesso) che vanno dalle drag queens alle cassiere isteriche, da uno zoppo pervertito agli esibizionisti, dai gay alle coppie sposate, fino a includere immigrati e

di Sara Leo

giocolieri. I sei diversi finali con i quali termina lo spettacolo sono un altro elemento di originalità del progetto di Manfredini. Come riuscire a scegliere? Sembra impossibile tagliare questa o quell’altra vicenda quando i soggetti sono così forti. In un gioco di contrasti e analogie le azioni dentro il finto cinema interagiscono con quelle del finto film, dando a volte un senso di smarrimento e confusione, altre volte un senso di somiglianza e sovrapposizione. L’intenzione di Manfredini di realizzare un vero e proprio film dall’opera di Genet, suo ispiratore e scrittore di riferimento, fa sì che i personaggi di Cinema Cielo si incrocino con quelli del romanzo: è questa relazione che rende lo spettacolo effettivamente unico, mettendo in evidenza i lati oscuri di entrambe le opere e gli spigoli della società.

CREDITS CINEMA CIELO di Danio Manfredini ideazione e regia Danio Manfredini assistente alla regia Patrizia Aroldi con Patrizia Aroldi, Vincenzo Del Prete, Danio Manfredini, Giuseppe Semeraro luci Maurizio Viani colonna sonora Marco Olivieri produzione ERT Emilia Romagna Teatro Fondazione

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LA TRAGEDIA GRIKA

Le Troiane di Euripide ai tempi della nuova tradizionalità VISIONI

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l teatro greco di Euripide ritorna sul palcoscenico dei Cantieri Teatrali Koreja; rinnovato e adattato ai mutamenti sociali, denuncia ancora una volta con la tragedia classica gli orrori – purtroppo sempre attuali – delle guerre. Da quest’idea e con questo fine Salvatore Tramacere “partorisce” La Passione delle Troiane, autentico capolavoro collocato nel mezzo tra teatro e musica, tra concerto e spettacolo. Musiche eseguite dal vivo, canti e lamenti intersecano meravigliosamente la figura del piccolo Astianatte con quella del Cristo, l’innocente per antonomasia. Il pianto della madre Andromaca dunque si fonde con quello della Vergine nell’unico immenso dolore delle madri costrette alla perdita dei propri figli. In questa comparazione risiede la commistione tra Vita e Morte, rinascita del genere umano e genocidio; l’intera creazione grida il NO alla guerra delle nuove come delle vecchie generazioni. In griko gli attori e le attrici esprimono parole e sentimenti, con i canti della tradizione locale esternano il dolore. Nella scenografia essenziale che rompe le convenzioni teatrali si stagliano figure nere di lutto: figure femminili, madri e nonne indignate nella loro compostezza, ma pur sempre fiere e capaci di denuncia, poiché l’orrore è un urlo muto che sale e scende all’infinito. Al centro il candore del corpo nudo del piccolo Astianatte, pronto alla sepoltura, che richiama alla mente l’immagine della crocifissione. Si riportano alla luce ricordi della sua breve vita, attraverso la memoria decomposta e decostruita delle donne che lo circondano adesso nell’ora della morte. Alle loro spalle uno schermo sul quale scorrono immagini di volta in volta paradisiache o infernali; sopra di loro i riflettori: bianchi di sogno, blu di lamenti notturni, rossi del sangue di guerra. Una rappresentazione in grado di emozionare, perché capace di tratteggiare sapientemente le pulsioni irrazionali dell’animo umano e la tormen-

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di Erika Grillo

tata sensibilità della ragione sconvolta dal lutto; interessante e ben riuscita la coniugazione tra passato e presente, tradizioni salentine e modernità globali.

CREDITS LA PASSIONE DELLE TROIANE Koreja - Teatro Stabile d’Innovazione (Lecce) idea e progetto Salvatore Tramacere regia Antonio Pizzicato, Salvatore Tramacere con Alessandra Crocco/Maria Rosaria Ponzetta - Cassandra, Vito De Lorenzi - Percussioni, Fabrizio Saccomanno - Coro, Emanuela Gabrieli - Coro, Ninfa Giannuzzi - Andromaca, Riccardo Marconi - Chitarra, Silvia Ricciardelli - Ecuba, Admir Shkurtaj - Fisarmonica, Fabio Tinella - Astianatte elaborazione testi Angela De Gaetano, Antonio Pizzicato, Salvatore Tramacere musiche dal vivo di De Lorenzi, Gabrieli, Giannuzzi, Marconi, Pizzicato, Shkurtaj con il coordinamento musicale di Antonio Pizzicato assistenza alla regia Laura Scorrano scene, luci e visual Luca Ruzza con Bruno Capezzuoli e Fabio Di Salvo consulenza/traduzione griko Gianni De Santis luci, fonica e tecnica Angelo Piccinni, Mario Daniele Si ringraziano Eliana Forcignanò e prof.Gino Pisanò, Kurumuny per la concessione delle immagini tratte da Stendalì di Cecilia Mangini foto di scena Elisa Manta


TRANSESSUALITÀ CONTRIBUTI

LA SESSUALITÀ UMANA È UN DIAMANTE DALLE MILLE SFACCETTATURE CHE NON PUÒ ESSERE RIDOTTO A UNA TESTIMONIANZA FUNZIONALE ALLO SPETTACOLO, ALLA TRASMISSIONE TELEVISIVA O ALL’ARTICOLO DI GIORNALE fotografia di Rossella Venezia

di Chiara Spata

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a notte del 28 Giugno 1969, nella città di New York, otto agenti dell’Unità Morale del Primo Settore del Dipartimento di polizia entrano in un bar frequentato principalmente da travestiti e transessuali. Noto con il nome di Stonewall Inn e situato al numero 53 di Christopher Street nel Greenwich Village, il locale era già stato oggetto di retate e ispezioni per presunte relazioni con reti mafiose vincolate al mondo della droga e della prostituzione.

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Questa volta l’accaduto sembra essere più grave del solito: un gruppo di transessuali afroamericani e portoricani sono attaccati e brutalmente picchiati senza alcuna apparente motivazione. Durante quest’ennesimo abuso di potere delle forze dell’ordine, Sylvia Rivera, una transessuale dal portamento faraonico lancia una bottiglia contro uno dei poliziotti, ferendolo. A questo primo gesto di resistenza seguiranno tre giorni di rivolta e scontri con le forze armate, che saranno ricordati come i moti di Stonewall e rappresenteranno il momento di nascita del movimento di liberazione gay moderno in tutto il mondo. Una simbolica “presa della Bastiglia”, come scriverà più tardi Edmund White. Lo spirito di ribellione di quelle transessuali con il cranio aperto dai manganelli darà una decisiva svolta a tutto il movimento gay e lesbico che fino a quel momento aveva soltanto aspirato all’integrazione normalizzante nella società. Da quel fatidico ’69, ogni anno, nelle capitali di tutta Europa, il 28 Giugno viene ricordato e celebrato come il giorno dell’orgoglio gay. Già storicamente, sembra essere innegabile l’importanza della comunità transessuale nel ruolo di agente politico di lotta per la liberazione delle minoranze sessuali. Eppure, ogni anno, in occasione delle sfilate nel giorno dell’orgoglio gay, si apre un acceso dibattito sull’eccessiva presenza di transessuali e travestite come rappresentanti dell’aspetto più vergognoso e meno accettabile della trasgressione, dell’esteticismo provocatorio, ma soprattutto del modello stereotipato dell’uomo/femmina. Il rifiuto di quest’Altro, così appariscente e fastidioso, proviene tanto dal mondo eterosessuale dominante, quanto dalle comunità gay e femministe più radicali, pronte a ricalcare acriticamente pensieri e atteggiamenti straight. Ma cos’è che rende la situazione transessuale così fortemente destabilizzante? Sicuramente accanto a una cattiva conoscenza delle questioni legate alle identità di genere c’è una componente di rappresentazione del corpo che mette in discussione qualcosa di molto profondo: l’alchimia tra il maschile e il femminile. Quando parliamo di transessualismo e di transgenderismo, parliamo di transizione, cioè quella fase di cambiamento e trasformazione, attraverso cui passano tutte le persone che mettono in discussione la propria identità di genere, identificabile dalla presenza sul proprio corpo di un determinato apparato genitale. Parliamo, però, anche di possibile trasformazione e auspicabile crescita politica e sociale. Quello che implica la rivendicazione del mondo transessuale e transgender è la libera gestione del corpo e il suo riconoscimento pubblico, a tutti gli effetti: politico, giuridico e sociale. Se il corpo è così rilevan-

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te nelle rivendicazioni delle minoranze sessuali è perché dall’epoca del Rinascimento si è convertito in uno dei principali spazi d’intervento da parte del potere. Un potere che ogni giorno affila le proprie armi di controllo per offrirci una realtà preconfezionata, uno scenario di cartone, velleitario e simmetricamente presentato. Una realtà ordinata da regole binarie (maschio/femmina, eterosessuale/omosessuale, bianco/nero, occidente/oriente ecc.), supportata da un sogno prefrabbricato e nutrita da un immaginario di favole popolate da principi e principesse dalle identità decise e sfolgoranti. Uomini e donne che si amano, si odiano, diventano ricchi, si sposano, ma soprattutto sono sempre Topolino e Minnie, Paperino e Paperina, la Bella e la Bestia. Immagini che nella realtà corrispondono a precise aspettative parentali accuratamente precostituite, diverse e ben separate per il “maschietto” e la “femminuccia”. Ma a una sensibilità e a uno sguardo più attenti non può sfuggire la pretesa balorda e fuorviante di una realtà compenetrata di leggi, di ordine e di ruoli stabiliti. Non si possono chiudere gli occhi davanti a tutto quello che, in qualità di Altro, rappresenta la molteplicità e la varietà, e insieme l’uso della fantasia e delle infinite possibilità di scelta che si offrono nel ventaglio di colori presenti fra il bianco e il nero. Se quest’ordine fittizio è stato da sempre funzionale al mantenimento dei poteri, primo fra tutti quello religioso, consacrato alla difesa di interessi temporali piuttosto che spirituali e trascendentali, alle arti è spettato il compito di ribaltarlo. Il cinema e il teatro, arti di massa per eccellenza, hanno sempre posseduto la potenzialità intrinseca di rappresentare altri possibili mondi e di tenere alto il valore delle differenze. Alcune volte lo hanno fatto rimanendo nell’area del politicamente corretto, altre (poche) rompendo con forza sovversiva l’ordine e l’immaginario stabiliti. È anche vero però che, come notava Mario Mieli già nel 1977 “[…] in genere, conformisticamente si giustifica un omosessuale qualora sia artista, poiché in base al luogo comune, gli artisti sono da che mondo è mondo estrosi, anticonformisti, lunatici e quindi possono bene essere ‘invertiti’: in fin dei conti, agli occhi dei ‘normali’, l’arte riscatta l’anomalia, la depravazione sessuale. […] Similmente, l’omosessualità viene tollerata, concessa, qualora si accompagni ad una espressione ‘artistica’, poiché in tal modo essa si riallaccia alla sfera dell’immaginario, della fantasia, della sublimazione e non intacca direttamente i rapporti reali correnti ritenuti ‘normali’”. Allora ben vengano gli spazi di rappresentazione per raccontare il ‘diverso’, ma attenzione a non ricalcare orme di passi già previsti. L’incontro con l’Altro è e deve essere una pratica


DIZIONARIO

quotidiana, di vita e di conoscenza. La sessualità umana è un diamante dalle mille sfaccettature che non può essere ridotto a una testimonianza funzionale allo spettacolo, alla trasmissione televisiva o all’articolo di giornale. Le persone sono tante e, come sempre, semplici e complesse, infinitamente diverse le une dalle altre, con le loro esperienze di vita, anche transessuale, hanno la necessità e la voglia di esprimersi e raccontarsi con la propria voce. Vivono forti emozioni, forti sensazioni oppure a volte scelgono di non vivere e anche questo ci riguarda.

Straight, dall’inglese “dritto”. La straight mind è la disciplina che sottende le forme di dominio di genere e la sottomissione delle donne nelle società patriarcali. Il termine transgender nasce come termine “ombrello” dentro cui si possono identificare tutte le persone che non si sentono racchiuse dentro lo “stereotipo di genere” normalmente identificato come “maschile” e “femminile”. Il transgenderismo sostiene che l’identità di genere di una persona non è una realtà duale “maschio/femmina”, ma un continuum di identità ai cui estremi vi sono i concetti di “maschio” e “femmina”.

WEBGRAFIA www.mit-italia.it www.genderbender.it www.facciamobreccia.org www.pornflakes.it www.ecn.org/sexyshock

SE L’AMORE È MESSO ALL’INDICE

di Umberto Galimberti

tratto da “La Repubblica”, 30 ottobre 2004

Il legame affettivo tra persone dello stesso sesso è sempre esistito in tutte le culture e interpretato in alcune come evento naturale, in altre come evento contro natura. Platone è il primo ad avanzare l’ipotesi che a discriminare l’omosessualità non sia la natura ma la legge, e perciò scrive che: "Ovunque è stabilito che è riprovevole essere coinvolti in una relazione omosessuale (letteralmente: "Soddisfare gli amanti, charizesthai herastais") ciò è dovuto a difetto dei legislatori, al dispotismo da parte dei governanti, a viltà da parte dei governati" (Simposio, 182 d). Nell’antichità l’omosessualità non era un problema, perché l’attenzione era rivolta all’amore tra persone (charizesthai herastais) che poteva trascendere il sesso, perché capace di includere dimensioni culturali, spirituali ed estetiche. Fu con le crociate del XIII e XIV secolo contro i non cristiani che prese avvio un clima di intolleranza, non solo contro i musulmani, ma contro gli eretici, gli ebrei espulsi da molte aree d’Europa. Alle crociate seguì l’Inquisizione per stroncare magia e stregoneria, quando non anche scienza e filosofia. E in questo clima di intolleranza verso le deviazioni dalla norma della maggioranza cristiana furono coinvolti anche gli omosessuali. Ma la condanna definitiva dell’omosessualità giunse nell’Ottocento con il nascere della medicina scientifica che, con il suo sguardo puntato esclusivamente sull’anatomia, la fisiologia e la patologia dei corpi, ha stabilito che siccome gli organi sessuali sono deputati alla riproduzione che è possibile solo tra maschio e femmina, ogni espressione sessuale al di fuori di questo registro è patologica. Fu così che l’omosessualità da "peccato" divenne "malattia". Quando poi la storia prese a trescare con i deliri della razza pura, gli omosessuali fecero la fine degli handicappati, degli ebrei e degli zingari. Che dire a questo punto? Che la storia è piena di giudizi e pregiudizi e che a governarla non è tanto la natura dell’uomo, quanto la sua cultura, che non rifiuta il riferimento alla natura quando questo dovesse servire a fondare le sue norme etiche e giuridiche. Ne consegue che allora ha ragione Platone là dove dice, a proposito dell’omosessualità, che il vero problema non è il sesso, ma piuttosto la democrazia.

illustrazione di Iroki

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PARLANDO DI SESSUALITÀ CONTRIBUTI

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er parlare di sessualità oggi è necessario riconoscere che la complessità che contraddistingue la nostra contingenza storico-sociale e culturale pone le premesse per guardare alle differenze di genere attraverso un approccio mentale che porti a decostruire, rivedere, reinterpretare, rielaborare, ridefinire i vecchi modelli attraverso cui si può guardare al genere, al sesso, all’identità di genere, ai diversi e possibili orientamenti sessuali, alle soggettività di genere. Per parlare di sessualità è imprescindibile avere la consapevolezza di quali siano i costrutti che organizzano l’identità sessualmente connotata, rilevando che il sesso biologico (l’avere un pene o una vagina), il sesso psicologico (il sentirsi maschile o femminile), l’orientamento sessuale, il sé corporeo, il vissuto corporeo sono dimensioni assolutamente indipendenti. Assumere questa impostazione vuol dire superare quel sistema rigido che porta a considerare come unica modalità legittima il nascere maschi o femmine, il sentirsi rispettivamente maschi o femmine in modo congruente al sesso biologico, l’avere un orientamento sessuale di tipo esclusivamente eterosessuale. Superare le strettoie di questo modello implica il rilevare che è possibile nascere maschi ma potersi sentire femmine, avere un orientamento omosessuale, senza che tutto ciò rientri nell’etichetta della disfunzionalità, della patologia, della perversione. O ancora, su un ulteriore livello, è possibile nascere maschi, diventare femmine (come nel caso del transessualismo FtM) e avere un orientamento sessuale che non risponda ai canoni dell’eterosessualità (trans-eterosessualità: donna trans attratta da uomini) ma dell’omosessualità (trans-omosessualità: donna trans attratta da donne). Parlare di sessualità oggi vuol dire riconoscere, accanto a un’identità di tipo eterosessuale a cui nessuno vuole togliere legittimità, l’emersione di configurazioni “alternative” della sessualità, l’affermazione di nuovi generi, di nuove identità sessuali, che pongono le premesse per la non impo-

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di Alessandro Taurino

sizione di concezioni totalizzanti e generalizzanti sulla sessualità. Soggettività radicali che concepiscono la loro individualità come costituita da strati di differenze che frammentano l’utopica unità dell’Io in una poliedrica molteplicità; soggettività “eccentriche”, “ibride” che sconvolgono, attraverso una forma di simbolico nomadismo, il sistema delle opposizioni dicotomiche (maschio-femmina; etero-omo). Identità in divenire, che pongono continue interrogazioni sui significati e i significanti di una sessualità naturale, ovvia, lineare e scontata. Parlare di sessualità implica il riconoscere una dimensione transgender che veicola il senso di una trasformazione che non è il passaggio dall’uno all’altro sesso anatomico, bensì la metamorfosi in un essere al di là dei due generi (maschile e femminile), al di là dei due sessi (maschio e femmina), al di là delle due forme tradizionali di organizzazione sessuale (eterosessuale e omosessuale). La dimensione transgender offre una visione dello spettro infinito di possibilità che si presentano transitando da un punto all’altro dell’identità di genere stessa, legittimando l’esistenza di infinite posizioni dell’identità nel percorso che da eterosessuale porta a omosessuale, o che da uomo porta a donna. Questo atteggiamento culturale presuppone l’interiorizzazione di un costrutto di differenza che interpreta l’identità sessuale come un continuum lungo il quale gli individui possono scorrere finché non trovano la dimensione che soddisfi il loro desiderio di autenticità. Parlare di sessualità vuol dire favorire oggi nuove narrazioni sulle “marginalità” sessuali, promuovendo, accanto a soggetti binari (uomini e donne, eterosessuali e omosessuali), strutture identitarie trasversali, plurime, plurali, che incarnando nuovi codici di significazione sessuale, propongono la valorizzazione della differenza sessuale come punto di ri-costruzione di più complessi sistemi sociali, culturali, scientifici ed epistemologici centrati sul superamento e sull’abolizione di logiche univoche, e in quanto tali, discriminanti. immagine tratta da disegni per il teatro di Gianluigi Toccafondo


IDENTITÀ OLTRE LA TOLLERANZA CONTRIBUTI

di Stefano Cristante

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a maggioranza degli esseri umani ha una chiara inclinazione sessuale nei confronti di esseri di genere opposto. Una cospicua minoranza inclina verso individui dello stesso genere. Minoranze più ristrette ritengono di essere nate in un involucro corporale che non corrisponde al proprio, e si comportano di conseguenza. Minoranze ancora più ristrette ritengono di poter fare a meno del sesso. Anche se la situazione, messa in questi termini, sembra semplicemente una scheda a uso di extraterrestri per informarli della situazione generale degli umani, la durezza della questione non è in realtà in discussione. Non solo per le odiose ripercussioni che si sono abbattute nel corso dei secoli sulle minoranze (che hanno subito discriminazioni di ogni tipo, a volte concretizzatesi in sanzioni estremamente violente, fino ad arrivare a tortura, campi di concentramento e morte) ma per la diffusione di pregiudizi che hanno reso le loro vite difficili, a volte impossibili. Agli omosessuali si sono associate depravazione e mollezza morale, infingardaggine e isteria, corruzione dei costumi e pedofilia. Oggi, senza affrontare simili abomini, un certo immaginario conformista continua a riconoscersi nella frase: “A me gli omosessuali non danno alcun fastidio...”. Ci può essere qualcosa di più ipocrita e squallido? Perché dovrebbero “dare fastidio”? In che modo? Perché amano in modo non conforme alla maggioranza? E che cosa significa questo esattamente? Con una disposizione culturale ampia e positiva, queste domande potrebbero anche trovare il modo di porsi nella loro potenzialità generale. Con una buona disposizione, queste domande andrebbero a centrare un problema che è di tutti gli esseri umani.

se stesso nelle condizioni di estendere la sfera delle sensibilità, rappresentando i moti tumultuosi dell’animo umano. Per aggredire la sfera spirituale, l’arte e lo spettacolo hanno dovuto oltrepassare le angustie strettoie del senso comune. All’epoca della tragedia greca i maschi, il solo genere che potesse presentarsi sotto le vesti di attore, svolgevano anche le parti femminili. Così facendo la messa in scena di un travestimento doveva cercare di impossessarsi dei contenuti e delle forme dell’animo non maschile. L’affinamento di sensibilità che questo lavoro comporta confina con una maggiore liberalità di costumi, che deriva da un gioco di identità da cui la sfera morale è – fortunatamente – assente. Lo spettacolo è il gioco delle identità non fisse e non scontate. In altre parole, lo spettacolo è il gioco di un nomadismo spirituale che ha fatto grande il patrimonio culturale dell’umanità. È un gioco che continua ancora oggi, e che ancora oggi ci porta a uscire dalla dialettica fasulla di maggioranze e minoranze quando in discussione è in realtà l’essere umano “indistinto”, l’unico che resta capace di guardare con curiosità e profondità di sguardo a tutte le declinazioni possibili non solo dell’amare, ma dell’essere. Non per tolleranza, ma per passione di vivere in questo pianeta (che, come spesso ci dimentichiamo, è anch’esso l’unico che abbiamo).

AMARE. CHE VUOL DIRE ESATTAMENTE? ANCHE SE AMIAMO SECONDO LE INCLINAZIONI MAGGIORITARIE, SIAMO SICURI DI NON AVERE NULLA DA APPRENDERE SU MODI DI AMARE DIVERSI? Siamo sicuri che la sofferenza, legata per forza di cose alla repressione secolare dei modi non convenzionali di amare, non abbia qualcosa da insegnare a tutti? Il mondo dello spettacolo ha, da sempre, messo illustrazione di Patrizia Scialpi

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illustrazione di Gianluca Costantini


MORIRE PER AMORE QUANDO L’OMOSESSUALITÀ È REATO

NON SOLO EMARGINAZIONE, DISCRIMINAZIONI E UMILIAZIONI, MA ANCHE RECLUSIONE, LAVORI FORZATI E, ADDIRITTURA, LA PENA DI MORTE. QUESTO È CIÒ CHE ACCADE AGLI OMOSESSUALI CHE VIVONO IN ALCUNI PAESI DEL MONDO DOVE È REATO AVERE TENDENZE NON ETERO. IN TEORIA GLI OMOSESSUALI – SI LEGGE SU UN DOCUMENTO DI AMNESTY INTERNATIONAL – GODONO DELLA PROTEZIONE DEI TRATTATI INTERNAZIONALI SUI DIRITTI UMANI, QUALI LA CARTA INTERNAZIONALE DEI DIRITTI DELL’UOMO, IL PATTO INTERNAZIONALE SU DIRITTI CIVILI E POLITICI E IL PATTO INTERNAZIONALE SUI DIRITTI ECONOMICI, SOCIALI E CULTURALI… ALCUNI PAESI HANNO RICONOSCIUTO LA PARITÀ FRA OMOSESSUALI E ETEROSESSUALI. NEGLI USA – PER ESEMPIO - DIECI STATI HANNO ESPLICITAMENTE PROIBITO LE DISCRIMINAZIONI SESSUALI E IL SUD AFRICA NEL 1996, PER LA PRIMA VOLTA NELLA SUA STORIA, HA RIBADITO L’UGUAGLIANZA TRA TUTTI I CITTADINI, BANDENDO LE DISCRIMINAZIONI BASATE SULLE PREFERENZE SESSUALI DI CIASCUNO. di Maria Angela Nestola

Nel dettaglio, con le relative pene ci accorgeremo che non si tratta solo di una questione religiosa: AFGHANISTAN: pena di morte sotto il regime talebano; fase di cambiamento nel corso del nuovo ordinamento politico. ALGERIA: fino a tre anni di reclusione e pagamento di un’ammenda. ARABIA SAUDITA: pena di morte. BANGLADESH: reclusione fino a dieci anni. BRUNEI: reclusione fino a dieci anni e pagamento di un’ammenda. CAMERUN: reclusione da sei mesi a cinque anni e pagamento di un’ammenda. CINA: reclusione fino a cinque anni. CUBA: reclusione fino a tre anni per la manifestazione pubblica. EGITTO: reclusione o lavori forzati fino a cinque anni. EMIRATI ARABI UNITI: in alcuni Emirati fino a sette anni di reclusione, in altri fino a quattordici. ETIOPIA: reclusione da dieci giorni a tre anni. GIAMAICA: reclusione e lavori forzati fino a cinque anni. GHANA: è prevista la reclusione; ci sono testimonianze di torture.

INDIA: reclusione a vita. IRAN: pena di morte. Se minorenne 100 frustate. KENYA: reclusione da cinque a quattordici anni. KUWAIT: reclusione fino a sette anni. LIBANO: fino ad un anno di reclusione. LIBIA: reclusione da tre a cinque anni LIBERIA: reclusione fino a tre anni. MALESIA: reclusione da due a venti anni. MAROCCO: reclusione da sei mesi a cinque anni. MOZAMBICO: reclusione fino a tre anni. NICARAGUA: reclusione fino a tre ani. NIGERIA: reclusione fino a quattordici anni, quando non viene applicata la sharia che condanna a morte. PAKISTAN: reclusione fino a due anni e 100 frustate. PORTORICO: reclusione fino a dieci anni. QATAR: reclusione fino a cinque anni. SENEGAL: reclusione da uno a cinque anni più il pagamento di un’ammenda. SINGAPORE: reclusione a vita. SIRIA: reclusione fino a un anno. SOMALIA: reclusione da tre mesi a tre anni. SRI LANKA: reclusione fino a dieci anni. TUNISIA: reclusione fino a tre anni.

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IL DIALOGO TRA UN PESCE E UNA BICICLETTA “IL PRIMO PASSO PER LEGITTIMARE L’ESISTENZA DELLA DIFFERENZA È NOMINARLA”

INCONTRI

di Francesco Baccaro

Incontro con Monia Dragone di ArciLesbica Salento “Le Pizzicanti”

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onia Dragone fonda ArciLesbica Salento “Le Pizzicanti” nel 2005 insieme con Carmela Càsole. Oggi il circolo, dopo i primi due anni in cui le fondatrici hanno organizzato da sole numerosissime iniziative, è molto partecipato e attivo sul territorio. La incontriamo in un mite pomeriggio di primavera per parlare con lei di identità di genere, di cultura, di diritti negati. Lo facciamo partendo dalla rassegna “Identità multiple”, che il circolo ha contribuito a organizzare, collaborando con Officine culturali Ergot. Allora Monia, come comincia l’avventura di “Identità multiple”. “Identità multiple nasce da una bellissima idea di Officine culturali Ergot, che un bel giorno ci propone di contribuire all’organizzazione di una rassegna artistico-culturale sugli universi transgender. Noi, naturalmente, siamo state subito entusiaste di collaborare a un evento che ha portato una città la cui offerta culturale è sempre stata mainstream, a interrogarsi su questioni scomode. Quello che ne è venuto fuori è veramente impensabile: una sei giorni (sei!!) di dibattiti, mostre, teatro, presentazioni di libri. Un evento che nelle grandi città fanno un’immane fatica a realizzare. Noi ce l’abbiamo fatta senza finanziamenti o particolari appoggi, ma solo con la nostra forza di volontà e con la spinta di un pubblico numerosissimo. Un’esperienza fantastica”. E quanto ne è valsa la pena. A quanto è servito. “Io credo sia servito a tanto. Primo perché tutte le iniziative in programma sono state partecipate da un pubblico molto numeroso, buona parte del quale non appartenente al mondo omosessuale. Secondo perché la questione è stata affrontata in maniera profonda, seria. Penso che molti dei presenti, partecipando ai

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illustrazione di Vale Sky


TROPPE VOLTE LA NOSTRA SOFFERENZA, CHE HA PER OGGETTO LE PERSONE CHE AMIAMO, DIPENDE DAL FATTO CHE QUESTE PERSONE NON CORRISPONDONO ALLE NOSTRE ATTESE, AI NOSTRI DESIDERI, ALLA NOSTRA VISIONE DEL MONDO E, SICCOME NON SIAMO IN GRADO DI ABBANDONARE IL NOSTRO PUNTO DI VISTA, SOFFRIAMO PERCHÉ LE PERSONE CHE AMIAMO NON VI CORRISPONDONO. ALLA BASE DI QUESTA SOFFERENZA C’È IL MISCONOSCIMENTO DELL’ALTRO, LA NEGAZIONE DELLA SUA ALTERITÀ. SE POI QUESTO ALTRO È NOSTRO FIGLIO O NOSTRA FIGLIA LA SOFFERENZA CHE PROVIAMO DICE CHE ANCORA NON LI ABBIAMO DEL TUTTO GENERATI, NON LI ABBIAMO DAVVERO STACCATI DA NOI, NON ABBIAMO FATTO LORO DONO DELLA LORO LIBERTÀ. E PIÙ ATROCE È LA SOFFERENZA PIÙ DENOTA QUANTO L’ATTACCAMENTO ALLE NOSTRE ATTESE E AI NOSTRI DESIDERI È PIÙ FORTE DELL’AMORE CHE NUTRIAMO PER LORO, LASCIANDO COSÌ INTENDERE CHE PER “NOI” AMORE SIGNIFICA POSSESSO, NEL SENSO CHE, CONTRARIAMENTE ALLE APPARENZE, NON RIUSCIAMO AD AMARE DAVVERO CHI FUORIESCE DALLA NOSTRA VISIONE DEL MONDO, NON RIUSCIAMO AD ACCETTARE CHE NON SIA QUELLO CHE È. NATURALMENTE, MAN MANO CHE LA NOSTRA SOFFERENZA (SOTTO LA QUALE TRASPARE INEVITABILMENTE LA NOSTRA DISAPPROVAZIONE) SI FA MANIFESTA, PIÙ RADICHIAMO L’ALTRO NELLA SUA CONDOTTA, IMPEDENDOGLI DI FATTO UNA RICONSIDERAZIONE DEL SUO MODO DI VIVERE E DI AMARE, PERCHÉ L’ESIGENZA DELLA LIBERTÀ, CHE PROMUOVE L’IDENTITÀ E L’INDIVIDUAZIONE, È DECISAMENTE PIÙ FORTE E DIREI ANCHE PIÙ SERIA DI QUANTO NON LO SIA CONDURRE UNA VITA COME UNA RISPOSTA AGLI ALTRI. Umberto Galimberti

tratto da “Donna” di Repubblica dell’8 novembre 2008

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dibattiti, abbiano cambiato il tuo caso, ma spesso è così. per lo meno la propria sensibiLe differenze invece ci sono e PARLARE DI SESSUALITÀ OGGI lità verso il tema, con tutte le sono determinanti. Se non alVUOL DIRE RICONOSCERE L’AFvite e le realtà che contiene. E tro perché io, dal punto di viFERMAZIONE DI NUOVI GENERI, non è poco”. sta giuridico, non ho il diritto DI NUOVE IDENTITÀ SESSUALI Dunque il segreto è parlarne. di vivere il mio amore come lo CHE PONGONO LE PREMESSE PER Ma a che prezzo. Esiste una vivi tu. Il primo passo per lelinea di confine oltre la quale gittimare l’esistenza della difLA NON IMPOSIZIONE DI CONCEl’omosessualità viene “usaferenza è nominarla, in maZIONI TOTALIZZANTI E ONNICOMta” perché crea tendenza o niera chiara e trasparente”. PRENSIVE SULLA SESSUALITÀ perché consente di fare più In tutto questo, quanto è alto audience. “Certamente nei il rischio di ghettizzazione. circuiti mediatici c’è spesso una rappresentazione “Rilevare l’esistenza di differenze non è ghettizzarsi. massificata dell’omosessualità, comoda a molte indu- Ovviamente tutte noi abbiamo un vissuto comune, strie. In realtà, però, non esiste una vera e propria li- che si fonda sulla condivisione di una vera e propria nea di confine che stabilisce ciò che è giusto e ciò che condizione, umana e sociale. Una donna che si sotè sbagliato. A volte aiuta il fatto che se ne parli, per- trae alla relazione con un uomo, uscendo dal classico ché contribuisce al processo di accettazione culturale rapporto basato sulla suddivisione dei ruoli e sulla e sociale del’omosessualità. Altre volte può essere complementarità dei generi, ha un modo di relazioun’arma a doppio taglio, soprattutto quando si ten- narsi diverso. Proprio per questo l’attenzione e la de a creare una confusione totale ed esasperante su solidarietà che c’è tra noi è molto forte. Mi viene in questioni che avrebbero bisogno di chiarezza. Quello mente, a proposito di questo, lo storico slogan delche voglio dire è che c’è bisogno di un ragionamento le femministe inglesi: ‘Una donna senza un uomo è un po’ più elevato della ‘pornografia sentimentale’ come un pesce senza la bicicletta’”. che ci propinano tutti i giorni dallo schermo televisi- Mi sembra di capire che tu credi nella necessità di vo. Credo che l’unica soluzione sia quella di valutare rendere visibile la propria omosessualità. “Visibilità caso per caso, senza rigidi schemi o particolari griglie deve essere la parola d’ordine. Vedi, quando i miei di valutazione”. colleghi di lavoro, per lo più uomini, hanno saputo Concretamente, dal punto di vista sia politico che che sono lesbica, non è cambiata la loro opinione culturale, a che punto siamo. “Dal punto di vista su di me ma sulle lesbiche, nei confronti delle quali politico siamo in condizioni disastrose, se pensiamo magari avevano dei pregiudizi ingiustificati. È la noche in Italia non esiste una normativa contro le discri- stra vita, la nostra realtà che ci legittima all’interno minazioni basate sull’identità di genere e l’orienta- della società e non il nostro orientamento sessuale, mento sessuale. A livello giuridico, dunque, possono del quale per fortuna la maggior parte delle persone discriminarmi e non esiste una legge specifica che mi non tiene conto. Quella della visibilità, dunque, è una tuteli. Questo è preoccupante, in tempi in cui i casi di questione fondamentale sulla quale incidono vari omofobia purtroppo esistono e spesso vengono oc- fattori. Il più importante è la condizione economica e cultati dai media generalisti. Dal punto di vista socio- lavorativa. In questo, naturalmente, la precarietà inciculturale, anche se la chiesa ha un enorme potere de tantissimo. Se hai un lavoro precario sei molto più sulle coscienze e sulla formazione delle opinioni, il ricattabile, molto più debole. Perciò spesso la paura fatto che tantissime persone abbiano un conoscente, è più forte della voglia di rendersi visibili. Qui al sud, un parente, un amico, un collega omosessuale aiuta poi, il problema si fa ancora più complesso perché aumolto. Posso tranquillamente dire di non aver mai menta l’insicurezza sul lavoro; quindi l’indipendenza subito discriminazioni a livello sociale, ma solo dal economica, che è l’elemento decisivo, è più difficile punto di vista legale”. da conquistare. Direi che la differenza maggiore, coSono sincero: parlando con te di omosessualità ho munque, è tra grandi città e piccoli paesi, dove oltre paura di sbagliare nel dire qualcosa, o di dare con- al ricatto sul lavoro si subisce anche un forte ricatto sistenza a un concetto per me inconsistente, che è morale rispetto alla famiglia”. quello di diversità. “Io, invece, credo che delle diver- Dare un nome alle cose. “Esattamente. Quindi, finsità ci siano e debbano essere evidenziate. Tutti quelli ché l’uguaglianza sarà solo formale e non sostanziale, che negano il riconoscimento di diritti e dignità agli io rivendicherò sempre il fatto di essere lesbica. E lo omosessuali, sostengono di considerarli persone nor- dirò ogni volta che serve”. mali, uguali a tutte le altre. Proprio per questo non vedono l’esistenza del problema, dunque nemmeno la necessità di risolverlo. Non credo che questo sia

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Pierre

& Gilles

SE LA FOTOGRAFIA DA SOLA NON BASTA LA DOLCEZZA E LA VIOLENZA NEGLI SCATTI RITOCCATI DI PIERRE & GILLES

Pierre e Gilles sono due fotografi esponenti di un’arte alternativa. Hanno iniziato la loro vita comune a Parigi nel 1976, anno in cui si sono incontrati per la prima volta. Da allora lavorano insieme e sono diventati famosi per le foto ritoccate con la pittura attraverso le quali creano ritratti, personaggi e pezzi unici di una “fotografia dipinta”. Questa coppia di artisti costituisce un’entità non divisibile dalle loro creazioni; la loro vita quotidiana e il loro lavoro sono stretti in un rapporto biunivoco di condizionamento. Gli ambienti da loro creati, infatti, non sono tutti ideali perché, oltre alla bellezza della vita, Pierre e Gilles vogliono evidenziare le tristezze, le angosce e le paure che risiedono nell’animo umano. Le immagini sono modificate per rendere visibili le emozioni e le sensazioni dell’umanità e degli artisti stessi e per superare i limiti della fotografia che, per quanto possa essere realistica, non può mai rispecchiare la visione dell’occhio umano e le impressioni che possono scaturire nell’assistere personalmente a un evento. I temi affrontati sono molteplici: marinai, principi, santi e peccatori, gay (entrando anche nella pornografia), star e amici anonimi, magia, religione e cultura pop, tutto circondato da luoghi fiabeschi e pieni d’amore, oppure infernali e raccapriccianti. Le scenografie delle foto sono curate nei minimi particolari. Le atmosfere create da Pierre e Gilles riescono ad astrarre i modelli dalla realtà catapultandoli in un limbo di simboli e metafore. I modelli sono sempre belli e sensuali, naturali e mai “modificati”. Oltre a persone sconosciute hanno fotografato anche personaggi di rilievo come Jean-Paul Gaultier, Madonna, Nina Hagen e molti altri. In Italia la coppia ha esposto le proprie opere nella mostra “Da Von Gloeden a Pierre et Gilles”, tenuta a Milano dal 4 luglio al 16 settembre 2007. Con la partecipazione di centocinquanta artisti e il divieto ai minori di diciotto anni, è stata la più grande esposizione di arte contemporanea a tematica omoerotica mai allestita nel nostro Paese.

fotografia di Pierre & Gilles ( SÉBASTIEN DE LA MER - Laurent, 1994 )

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UN SOGNO DA RINNOVARE

INCONTRI

di Erika Grillo

S

alvatore Tramacere ci racconta il suo teatro. Dalla glorie giovanili nella piccola Aradeo a oggi, i Cantieri Koreja sono una realtà solida ma ancora senza garanzie. Prima di recarmi in platea per la visione di uno spettacolo della stagione teatrale Strade Maestre, mi trattengo nel foyer dei Cantieri Teatrali Koreja nella speranza di “rubare” qualche minuto e qualche confidenza al regista. Egli si dimostra entusiasta della mia curiosità e mi invita gentilmente a sedere nel suo ufficio. Entro in una stanza accogliente, piena dei ricordi di un passato che rivive in piccoli bigliettini, fotografie, manifesti… Sono sin da subito a mio agio e rivolgo a Salvatore le mie domande:

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fotografia di Alessandro Colazzo (Big Sur)


Cosa porta un uomo come Salvatore Tramacere a “partorire” il Progetto Koreja? La volontà di cambiare. La voglia di far qualcosa di diverso in un piccolo centro come Aradeo. Inoltre ho avuto l’opportunità di incontrare fortuitamente Cesar Brie, noto regista argentino, il quale mi ha spinto in questa avventura. Alla fine ci siamo messi a far quello, ma avremmo potuto far politica, o aprire un piccolo bar… abbiamo scelto il teatro perché ha permesso a noi, ragazzi con molta passione e inesperienza, di cercare e trovare pian piano tutto quello che volevamo. Quel piccolo paesino era divenuto come il centro del mondo; abbiamo portato dentro i nostri miti e tutto il resto… non per il successo, ma per un obiettivo ben diverso e molto più chiaro. Il teatro dunque nasce per lei come passione e diventa mestiere, diventa lavoro… Credo sia la massima aspirazione per un uomo. Lei oggi è soddisfatto? Soddisfatto, sì. Ma consapevole del fatto che questa non è una condizione garantita, bensì da rinnovare continuamente. Qui c’è un’oggettiva difficoltà e non c’è riconoscimento. Ogni giorno è per noi un giorno nuovo. Questo era il sogno di un gruppo, di una piccola comunità… in parte lo abbiamo realizzato. In un’epoca di comunicazione virtuale e mass-media, perché resiste ancora il teatro? Il teatro resiste perché è uno dei pochi luoghi di verità, cioè dove la verità viene fuori. Infatti quando il teatro non è vero non ci credi. Io divido il teatro in “vero” e “non vero”, ove per “vero” intendo dire che chi sta sulla scena fa qualcosa in cui il pubblico si riconosce. Il teatro è infatti per me luogo di trincea… si parla molto oggi di Teatri di guerra, cioè capaci di forti cambiamenti. Un regista come lei, cosa dà ai suoi attori? E cosa da essi “cattura” ogni volta dentro di sé? Ogni volta ho delle aspettative differenti; non adotto una metodologia sempre uguale. Vi sono sempre approcci differenti a seconda del tema che tratto, o delle persone con cui mi trovo a lavorare. In fondo è con loro che devo confrontarmi quotidianamente. Verità, Etica e Visione sono le parole chiave che mi guidano. Il regista è colui che ha delle “visioni” e deve trasmetterle al suo pubblico rappresentando la verità e seguendo principi di etica. I giovani e il teatro… cosa ne pensa? Nel Salento siamo eccessivi e barocchi in tutte le cose, ma questo non è un male. Vi è un’eccessiva produzione teatrale che mi fa contento, ma si ca-

pisce anche che l’eccessiva quantità manca molto spesso di risultati, di qualità. I giovani li ritengo spettatori interessati, infatti la nostra rassegna di Teatro in Tasca riscuote sempre parecchio successo. Inoltre vi sono bambini che hanno visto in passato i nostri spettacoli e che ritornano a seguirci da adulti…questa è un’emozione forte, significa aver lasciato un segno… speriamo positivo! Ricorda il suo primo spettacolo?…e oggi le piacerebbe riportarlo in scena? Ricordo benissimo il mio primo spettacolo. Era Dovevamo vincere, iniziato con Cesar Brie. Alcuni anni fa, in occasione del ventennale dei Cantieri Teatrali Koreja, lo abbiamo riproposto con quattro giovani attori e io nuovamente in scena! Credo che gli spettacoli non muoiono, ma ritornano… non perché sono belli, ma semplicemente perché ancora oggi hanno un senso. A me piace molto il teatro che non so fare, lontano da me. Il teatro di parola ad esempio, poiché so che io non farei mai uno spettacolo del genere. Le mie visioni mi portano a pensare che a volte i gesti valgono più di mille parole. Due sogni nel cassetto, se ci sono… Uno dal Salvatore attore, l’altro dal Salvatore regista. Da attore mi piace pensarmi seduto in un teatro con delle persone a fare quello che voglio… mentre loro, come spettatori, semplicemente stanno lì e mi guardano. Da regista mi piacerebbe riprendere lo spettacolo Un’opera da tre soldi di Bertolt Brecht. Sarebbe un progetto molto ambizioso. E poi… un sogno al quale tengo moltissimo è vedere Koreja vivere un domani con dignità autonoma e conquistata, più che altro per le persone che hanno lavorato tanto e che meritano questo. Un messaggio ai nostri lettori… …Credo che è arrivato il tempo che cominciamo ad aprire gli occhi e a farci carico delle nostre responsabilità. Bisogna far qualcosa, altrimenti le cose andranno peggiorando. Il teatro oggi ha questa difficile funzione: stimolare.

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TRANS FOREVER UNA “FAVOLA” ARTIFICIALMENTE NATURALE VISUAL ARTS “LA GENTE HA PAURA DI NOI, MA NOI NON SIAMO CATTIVI!”. È LA VOCE DI EVA SHOGUN CHE EMERGE NEL VIDEO REALIZZATO DALLA GIOVANE ARTISTA ELENA ROSSELLA LANA. LA VOCE DI UN TRANS LA CUI VITA E QUOTIDIANITÀ È PERCORSA DA IMMAGINI VELOCI CHE MOSTRANO UN MISTO DI VOLGARITÀ E NATURALEZZA DI CHI, COME EVA, FA PARTE DI UN UNIVERSO ESSENZIALMENTE ARTIFICIALE. L’28

Il transessuale ha una dimensione innata della teatralità e questa è connaturata all’esibizione. Il travestimento è una delle belle arti e risale a tempi lontani. Fin dall’antica Grecia, infatti, gli attori indossavano maschere e si travestivano, dovendo interpretare anche ruoli femminili. Purtroppo questo “corpo” viene costantemente negato; nel teatro stesso i transessuali sono poco considerati. Ma in loro favore ci sono nomi come Jean Genet con il suo libro “Notre-Dame des Fleurs” (Nostra Signora dei Fiori) che evoca l’infanzia e le figure ambigue della notte degli omosessuali nella Parigi dell’anteguerra, poi diventato anche spettacolo teatrale, o come Copi, nome d’arte di Raúl Damonte Botana, fumettista, drammaturgo e attore francese di origine italiana che interpretava i suoi ruoli en travesti. Un esempio tutto italiano è il femminiello, figura della tradizione drammaturgica napoletana che fa parte del cuore mitico e magico di una città che sa coniugare la vita con la morte e utilizza come tramite il transessuale. Quest’ultimo può essere considerato una specie di Sibilla, vergine mitologica con capacità profetiche; per alcuni infatti i trans possiedono una saggezza superiore. Angela Fauzzi di Francesca De Filippi*

“Trans”, la personale di Elena Rossella Lana (Ugento, Lecce, 1985; vive a Lecce), è la terza tappa - dopo le precedenti dedicate ad Antonio Annichiarico e Michele Giangrande - del più ampio Passages: arte, architettura e design, progetto volto a indagare gli sconfinamenti imprevedibili dei nuovi linguaggi della contemporaneità, ideato e curato da Marco Petroni. Per circa un anno, l’artista pugliese ha seguito un gruppo di transessuali, documentandone la quotidianità attraverso riprese fotografiche e video. Tutto il percorso umano, estetico, artistico e socio-

fotografia di Elena Rossella Lana


logico si è svolto lungo il fil rouge dell’imprevedibilità, dell’intercambiabilità, del non definito. Elena Rossella Lana non ha vestito realmente il ruolo del trans, ma ne ha assorbito come una spugna la vitalità, i colori, gli umori e le emozioni. Trascinata da un profondo desiderio di trovare, nell’indeterminazione di quelle vite ambigue, conflittuali ma al contempo autentiche, un principio unificante e unificatore dell’entropia esistenziale, ha intrapreso un viaggio “iniziatico” all’interno della propria ricerca artistica. Trans è un simbolo, e simbolici sono i suoi protagonisti, idoli della contaminazione umana, della globalizzazione, di un sistema che auto-implode. Protagonisti di una favola, di una contemporanea mitologia, i transessuali di Lana riscrivono il mondo e la sua storia, e lo fanno ogni giorno in modo diverso. Immortalati dagli scatti dell’artista, svelano la loro multi-essenza, trascendono la realtà, svuotano

bigotte prevenzioni e mute indignazioni, coniando un linguaggio trasversale che avvince a attrae per la sua genuinità disarmante. Così come trasversale è l’uso che Lana fa dei media: che sia la macchina fotografica o la videocamera, ciò che affascina è la loro capacità di essere essi stessi testimoni della realtà, di codificarla a tal punto da renderla narrazione, ma anche intreccio di mito e storia. Gli strumenti usati da Lana, che quasi si eclissa per lasciare gli eventi liberi di scorrere, ritrattano la realtà, restituendo al presente un’immagine non descrittiva, che non è rappresentazione né presentazione, ma che forse possiede il dono di essere più autentica della realtà stessa. Interessante, in questo senso, è la “riesumazione” che l’artista fa di una pratica oggi considerata obsoleta, realizzando Trans forever, il fotoromanzo senza un senso, un’edizione di dodici frame che compongono una serie aperta di storie, non prevedendo una sequenza prestabilita. *Tratto da www.exibart.com

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SUPER

SENTIERI NEOBAROCCHI TRA ARTE E DESIGN

Un ciclo di eventi espositivi e performativi cominciato a maggio è in programma fino a dicembre a Lecce per il progetto SUPER > sentieri neobarocchi tra arte e design inserito in “Puglia Circuito del contemporaneo”, il progetto regionale approvato attraverso uno specifico atto integrativo all’Accordo di Programma Quadro “Sensi Contemporanei” sottoscritto dalla Regione Puglia con il Ministero per i Beni e le Attività Culturali, il Ministero dello Sviluppo Economico e realizzato dalla Provincia di Lecce con il coordinamento della Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Puglia. Il progetto propone una riflessione attorno al design in senso stretto e alle arti contemporanee in senso lato e svela connessioni, percorsi e domande attorno a un nuovo patto sociale tra arti e mondo, tra natura e cultura. L’evento si compone di tre sezioni. Design, dal 17 maggio fino al 12 luglio e curata da Marco Petroni, “è un

sommesso tentativo di riferire il design non solo all’ideazione di prodotti, ma alla progettazione ampia del nostro quotidiano e quindi anche all’organizzazione delle nostre vite su più livelli, da quello culturale a quello politico”. Antonio Cassiano cura la sezione Antefatti, da giugno a dicembre: “Un percorso evolutivo della produzione salentina tra architettura e arti applicate che presenterà in modo organico e interdisciplinare i creativi, legati al territorio salentino, che hanno sviluppato nuove modalità espressive in una periferia che voleva uscire da stanchi e ripetitivi schemi”. Tra ottobre e novembre la terza sezione, I guerrieri della bellezza – arti performative, curata dai Cantieri Teatrali Koreja, dedicata a installazioni e pratiche performative basate sulla commistione tra vari linguaggi artistici, dalla pittura alla scultura, all’architettura, alla musica, alla poesia, al teatro e a complessi meccanismi di visione.

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M

Lunedì sera [29 Aprile 1895], carcere di S.M., Holloway

io carissimo ragazzo, questo è per assicurarti del mio amore immortale, eterno per te. Domani sarà tutto finito. Se la prigione e il disonore saranno il mio destino, pensa che il mio amore per te e questa idea, questa convinzione ancora più divina, che tu a tua volta mi ami, mi sosterranno nella mia infelicità e mi renderanno capace, spero, di sopportare il mio dolore con ogni pazienza. Poiché la speranza, anzi, la certezza, di incontrarti di nuovo in un altro mondo è la meta e l’ incoraggiamento della mia vita attuale, ah! debbo continuare a vivere in questo mondo, per questa ragione. Il caro… mi è venuto a trovare oggi. Gli ho dato parecchi messaggi per te. Mi ha detto una cosa che mi ha rassicurato: che a mia madre non mancherà mai niente. Ho sempre provveduto io al suo mantenimento, e il pensiero che avrebbe potuto soffrire delle privazioni mi rendeva infelice.

SCRITTURE

OSCAR WILDE

Quanto a te (grazioso ragazzo dal cuore degno di un Cristo), quanto a te, ti prego, non appena avrai fatto tutto quello che puoi fare, parti per l’Italia e riconquista la tua calma, e componi quelle belle poesie che sai fare tu, con quella grazia così strana. Non esporti all’Inghilterra per nessuna ragione al mondo. Se un giorno, a Corfù o in qualche isola incantata, ci fosse una casetta dove potessimo vivere insieme, oh! la vita sarebbe più dolce di quanto sia stata mai.

DE PROFUNDIS

Il tuo amore ha ali larghe ed è forte, il tuo amore mi giunge attraverso le sbarre della mia prigione e mi conforta, il tuo amore è la luce di tutte le mie ore. Se il fato ci sarà avverso, coloro che non sanno cos’è l’amore scriveranno, lo so, che ho avuto una cattiva influenza sulla tua vita. Se ciò avverrà, tu scriverai, tu dirai a tua volta che non è vero. Il nostro amore è sempre stato bello e nobile, e se io sono stato il bersaglio di una terribile tragedia, è perchè la natura di quell’ amore non è stata compresa.

De Profundis è una lunghissima lettera di sfogo che Oscar Wilde scrisse, dopo essere stato processato per omosessualità, al suo compagno, Alfred Douglas, proprio durante il periodo della carcerazione. Venne consegnata a “Bosie” (Douglas) dopo che Wilde venne scarcerato ma Bosie negò sempre di averla ricevuta. Il testo è stato pubblicato prima nel 1905, cinque anni dopo la morte di Wilde e poi in tutta la sua completezza solo nel 1959. Con i suoi più di cinquantamila caratteri, è la lettera più lunga che sia mai stata scritta. Il passaggio che segue, conosciuto per l’interpretazione di Roberto Benigni durante l’ultimo festival di Sanremo, è una struggente e toccante dichiarazione d’amore verso l’amato.

Nella tua lettera di stamattina tu dici una cosa che mi dà coraggio. Debbo ricordarla. Scrivi che è mio dovere verso di te e verso me stesso vivere, malgrado tutto. Credo sia vero. Ci proverò e lo farò. Voglio che tu tenga informato Mr Humphreys dei tuoi spostamenti così che quando viene mi possa dire cosa fai. Credo che gli avvocati possano vedere i detenuti con una certa frequenza. Così potrò comunicare con te. Sono così felice che tu sia partito! So cosa deve esserti costato. Per me sarebbe stato un tormento pensarti in Inghilterra mentre il tuo nome veniva fatto in tribunale. Spero tu abbia copie di tutti i miei libri. I miei sono stati tutti venduti. Tendo le mani verso di te. Oh! possa io vivere per toccare i tuoi capelli e le tue mani. Credo che il tuo amore veglierà sulla mia vita. Se dovessi morire, voglio che tu viva una vita dolce e pacifica in qualche luogo fra fiori, quadri, libri, e moltissimo lavoro. Cerca di farmi avere tue notizie. Ti scrivo questa lettera in mezzo a grandi sofferenze ; la lunga giornata in tribunale mi ha spossato. Carissimo ragazzo, dolcissimo fra tutti i giovani, amatissimo e più amabile. Oh! aspettami! aspettami! io sono ora, come sempre dal giorno in cui ci siamo conosciuti, devotamente il tuo, con un amore immortale.

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SCRITTURE

PIER PAOLO PASOLINI

AMADO MIO Scritto nel primissimo dopoguerra – probabilmente tra il ’46 e il ’48 – e pubblicato postumo nel 1982 insieme a un altro romanzo breve, Atti impuri, Amado mio è una delle opere più serene e meno colpevolizzate scritte da Pasolini sul tema dell’omosessualità. Appare un’opera corale, pur avendo un protagonista, Desiderio, giovane elegante, raffinato, colto che, insieme all’amico Gilberto, frequenta un gruppo di ragazzini di paese, innamorandosi in particolare di Benito, che lui preferirà chiamare Iasìs. Nel passo che segue, Desiderio e Benito si incontrano per la seconda volta. Il primo, già attratto dall’altro, gli propone una passeggiata verso la campagna, lontano dal gruppo. Qui cerca di amarlo, di baciarlo, di sedurlo.

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­ ardi laggiù la barca dei F.,” esclamò Benito. u “Ci andiamo?” chiese trepidante Desi. “Si, andiamoci…”; così tagliarono per le boschine di vincastri, sulla sabbia; lì il braccio del fiume si staccava dalla riva e si internava nel greto. Sulla striscia azzurra dell’acqua, presso un ammasso di blocchi di cemento, si profilava la curva di una chiglia. Vi giunsero quasi correndo: e per mezzora la barca fu tutto per Benito. La vararono sull’acqua abbastanza profonda e così tersa che vi si vedevano i muschi d’oro e i sassolini del fondo; vi fecero il bagno, loro due soli, saltando dai bordi della vecchia barca che s’empiva d’acqua. Fu un bagno meraviglioso: tutto era verde, azzurro… nel cielo non c’era una nube… Quando furono stanchi di nuotare si stesero ad asciugarsi sulla ghiaia del greto. Erano vicinissimi. Dopo avere un po’ chiacchierato delle solite innocenti fanciullaggini, Desiderio chiese d’improvviso: “E perché quella domenica ti sei lasciato baciare?” Benito arrossì, e non rispose nulla. “Rispondi,” impose Desiderio ridendo. “Non lo so”: era molto imbarazzato il povero ragazzo, ma non lo lasciava capire: pareva piuttosto che volesse restare fedele gelosamente a un suo delizioso segreto. “Allora lascia che ti dia un bacio anche oggi,” disse Desiderio. Benito gli porse la guancia, e Desiderio la sfiorò appena: non voleva allarmarlo. Ma subito, pentito, cercò le labbra, e lo baciò a lungo; Benito stette fermo, e rispose come sapeva…

PILLOLE TEATRALI IL MONOLOGO Il monologo è una composizione scenica, o parte di una composizione scenica, teatrale o di altro tipo, pensata per essere recitata da un solo attore, che è da solo in scena nel momento in cui parla. Per esempio sono monologhi: l’“Essere o non essere” nell’Amleto di William Shakespeare, o i dialoghi di Eduardo De Filippo con il professore sul set di Questi fantasmi, ma anche composizioni sceniche complete, che prevedono diversi gradi di partecipazione del pubblico, come Novecento di Alessandro Baricco, o il Mistero Buffo di Dario Fo. Talvolta un monologo può essere un prologo o un epilogo, quando l’attore si ritrova da solo a recitare, all’apertura o alla conclusione della messa in scena, con intento esplicativo. In alcuni casi la funzione introduttiva o conclusiva di tali monologhi è esplicitata, come nel caso in cui l’attore impersona direttamente un personaggio che ha funzione narrativa, chiamato direttamente Prologo, come nelle commedie di Pietro Aretino. In altri casi la funzione è implicita alla scena, ad esempio quando, nel Riccardo III, è egli stesso un personaggio della storia, che introduce lo spettatore nelle vicende, con esplicazione degli antecedenti e dichiarazione degli intenti futuri.

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SCRITTURE

CHRISTOPHER MARLOWE

EDOARDO II Edoardo II è una tragedia in cinque atti di Christopher Marlowe. Scritta e rappresentata per la prima volta nel 1592, narra la storia di Re Edoardo II d’inghilterra, la cui omosessualità si palesava nella relazione con il consigliere di corte Piers Gaveston. Tale amore è però malvisto dalla moglie del re, Isabella di Francia, e dal capo dei Pari Roger Mortimer, che conduce con la regina una relazione adulterina. Nel passo che segue, Atto I Scena IV, il saluto tra Edoardo II e Gaveston che, tornato dall’esilio per intercessione dello stesso re, viene di nuovo condannato a tale pena dal perfido Mortimer.

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aveston. Signor mio, sento mormorar per ogni dove ch’io son bandito e che debbo fuggir via da questo paese. Re Edoardo. È vero, dolce Gaveston… oh, così potesse esser falso! Il legato del papa vuole che così sia, e tu devi allontanarti, ovvero io sarò deposto. Ma io regnerò tanto da vendicarmi di essi; e perciò, dolce amico, accetta con pazienza la tua sorte. Vivi dove più t’aggrada, ti manderò abbastanza danaro; non resterai a lungo lontano da me, ovvero se vi resterai, verrò a trovarti; il mio amore non diminuirà mai. Gaveston. Tutte le mie speranze son dunque volte in questo inferno di dolore? Re Edoardo. Non strapparmi il cuore colle tue troppo penetranti parole: tu da questo suolo, io son bandito da me stesso. Gaveston. Non è l’andar via da questi luoghi che affanna il povero Gaveston; l’abbandonar voi, bensì, nei cui graziosi sguardi riposa la felicità di Gaveston: in nessun luogo tranne che in questo, egli ricerca infatti la sua felicità. Re Edoardo. E soltanto questo tormenta la sventurata anima mia, che cioè, sia che io lo voglia, sia che non lo voglia, tu devi partire. Sii governatore dell’Irlanda in vece mia, e dimora quivi fintantochè la buona sorte non ti richiami in patria. Accetta questo mio ritratto e dammene, da portar sempre meco, uno tuo in cambio; [si scambiano i ritratti] Oh, potessi io tenerti come tengo questo, sarei felice: io che mi sento, ora, carico d’assai sventure. Gaveston. È qualcosa risvegliare la pietà d’un re. Re Edoardo. Tu non partirai; penserò a nasconderti, Gaveston. Gaveston. Mi troveranno, e ciò aumenterà la mia pena. Re Edoardo. Gentili parole e vicendevole conversazione rendon maggiore il nostro affanno: perciò, con un muto abbraccio, separiamoci… rimani, Gaveston! io non posso lasciarti così. Gaveston. Ad ogni sguardo, signor mio, cade una lagrima: dal momento che debbo andare, non rinnovate il mio dolore. Re Edoardo. Breve è il tempo che ti è concesso per rimanere, e perciò io ti prego che tu mi conceda di guardarti finchè io ne sia sazio: ma vieni, dolce amico, io ti accompagnerò un tratto. Gaveston. I pari aggrotteran la fronte. Re Edoardo. Della loro rabbia io non mi curo. Vieni, andiamo. Oh, così come noi andiamo potessimo tornare indietro!

EXTRA LINKS CULTURAGAY.IT Una sorta di “enciclopedia online” dell’omosessualità, in cui riunire insieme i lavori sparsi di chi si occupa di cultura omosessuale. Il risultato? Un archivio collettivo di consultazione e approfondimento in lingua italiana, con contenuti di qualità. Sul modello di progetti analoghi basati sullo sforzo collettivo volontario e la condivisione di conoscenze e competenze, in un’ottica di liberazione gay, il sito promuove la circolazione delle idee e il confronto di opinioni, mirando al consolidamento della cultura omosessuale italiana. Che voi siate studiosi, ricercatori o semplici curiosi… visitate: www.culturagay.it


GLAM PARADE MUSICA

di Tobia Lamare

“SE LO SHOW NON FUNZIONA POSSIAMO SEMPRE FARE UNA SFILATA DI TUTINE…”.

Questo disse Elvis negli anni ’70, e , almeno in questo, non era stato il primo. Tutto quello che brilla, che luccica, che è prepotentemente colorato, sessuale, androgino, misto, pacchiano, furbo allora è Glam. Se bisogna partire da un punto, per spiegare tutto questo, si parte da un libro: Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde. La sua irripetibile e inimitabile vita finisce all’inizio del secolo che decreta la nascita dello show business, e la sua lezione, nel mondo della musica pop, è pesante quanto la somma dei tacchi delle zeppe di Elton John. Le icone irriverenti che hanno fatto attribuire alla parole Glam un determinato stile è una somma di molti orpelli e di atteggiamenti strani e bizzarri. Per alcuni artisti molti di questi elementi si legavano perfettamente alle loro vite e ai loro eccessi, per altri invece era più una vera e propria messa in scena. David Bowie è stato il maestro del Glam, la sua ambiguità non era solo sessuale ma in realtà non si capiva bene qual era il confine tra la sua vita e il palcoscenico. Da mod a cantante folk, da starlette spaziale a freddo vampiro degli anni ’80, da rocker cibernetico a elegante e raffinato cinquantenne, Bowie è stato un po’ come Madonna: ha sempre portato alla massa ciò che si muoveva nell’underground. Stella degli anni ’70 era anche Marc Bolan. Lui cantava con i T-Rex, e nel Regno Unito è considerato a pari merito con Bowie il padrino del Glam Rock. I suoi capelli cotonati e il rossetto hanno fatto scuola a Robert Smith dei Cure, e le sue tutine potevano fare invidia a quelle di Freddie Mercury. Freddie, che dal total look degli anni ’70 si è trasformato negli anni ’80 con jeans, canotta, baffi e capelli corti. Ma la sua era un’eccentricità al contrario ed è stata la sua inconsapevole arma per entrare nei cuori di tutti i suoi fan. La disco music invece è come una piscina piena di icone e di starlette: Sylvester, Gloria Gaynor, Village People, Abba, e continuando per gli anni ’80 ci mettiamo i Bronsky Beat, Marc Almond, Macho Man, George Michael e gli Wham, Amanda Lear, il nostro Renato Zero, i Frankie Goes to Hollywood con il loro video di Relax, Madonna la regina n°1, Blondie…e poi andando indietro negli anni ’60 come non citare Andy Wharol, la Factory e Lou Reed. Probabilmente “Walk On the Wild Side” cantata con i capelli biondo platino e gli occhiali a goccia, e i versi che parlano di rasoi che depilano le gambe, rapporti orali, valium, marchette e James Dean è il brano che inserisce Lou Reed nella top ten delle icone gay di tutti i tempi. Perché icona si nasce, non si diventa. E Steven Patrick Morrissey nasce a Manchester nel 1959 e negli immagine tratta da The Rocky Horror Picture Show

anni ’80 forma i The Smiths. Assolutamente per me il numero uno. I suoi testi, romantici e spregiudicati, irriverenti e reali, sono poesia unita a carica punk. Il brano “This Charming Man” è uno dei pochi brani che ancora mi fa venire i brividi dopo anni di ascolti. Lui è un’icona che non vive del suo passato, come molte, e che non si ricicla facendo finta di avere ancora vent’anni come fa Madonna da un po’ di tempo, lui è orgoglioso dei suoi cappelli grigi, porta ancora il ciuffo, il suo sorriso è quello di sempre… gli è bastato invecchiare per diventare Quest’uomo affascinante. Morrissey è stata anche l’ispirazione per Michael Stipe dei R.E.M., che non ha mai nascosto di essersi ispirato proprio al cantante degli Smiths quando agli inizi non sapeva proprio come muoversi sul palco. Invece nella fredda Norvegia le tanto famose figurine di Tom of Finland hanno fatto scuola ai Turbonegro. Formazione hard rock spinta che si presentano sul palco vestiti di pelle, da marinai e molto spesso accompagnati da un pastore tedesco. Kurt Cobain è una strana icona gay. Con la sua band, i Nirvana, molti non sanno che si sono molto spesso battuti per i diritti degli omosessuali in America, sono stati coverizzati dalla band gay the Pansy Division con Smells like a Gay Spirit. Tra le note di copertina di quel disco i Pansy Division scrissero: “Baci ai Nirvana, mai nessuna band americana prima d’ora ha avuto il coraggio di schierarsi così apertamente a favore della causa omosessuale”. Nel rock britannico degli anni ’90 c’è da perdere la testa: Jarvis Cocker dei Pulp e Brett Anderson dei Suede sicuramente sono tra i più importanti. Cocker con quel suo look anni ’60 e Anderson che nel video di Animal Nitrate era un Bowie in pelle lucida anni ’80, in controtendenza all’outlook del britpop. Sicuramente quella copertina dei Take That con le chiappe al vento (tra l’altro i già citati Turbonegro avevano fatto una parodia di questa foto aggiungendo dei fuochi d’artificio che uscivano proprio da lì) ha fatto sì che il loro remake di Relight my Fire diventasse una hit delle disco gay europee. Per non essere i soliti esterofili dobbiamo per forza citare Miss Donatella Rettore, che faceva il verso a Bowie, Raffaella Carrà irresistibile ballerina e cantante, Mina gettonatissima tra le drag queen, Nada e il suo Amore Disperato, Ivan Cattaneo e i suoi Italian Slip. Questa ricerca nella galassia delle stelle brillantinate può andare avanti per giorni e per infinite pagine di giornale, infiniti dischi, infiniti file o foto, e le direzioni sono tante, molteplici e personali. Sicuramente la mia continua nei brani che mi fanno ballare, alzare le mani e fare un po’ come cantavano gli Abba: You can dance, you can jive having the time of your life, see that girl, watch that scene, dig in the Dancing Queen.

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JEAN GENET: “ANTAGONISTA POETICO” IN BILICO TRA ARTE, CARCERE E POLITICA

LETTERATURA

JEAN GENET

QUEL MALEDETTO DONO DELL’OMOSESSUALITÀ ROMANZI Notre-Dame des Fleurs (1944) Il miracolo della rosa (1946) Pompe funebri (1947) Querelle di Brest (1947) Il diario del ladro (1949) TEATRO Le serve (1947) Massima sorveglianza (1949) Il balcone (1956) I negri (1959) I paraventi (1961) Quattro ore a chatila (1982) Le Bagne (1994), edizione postuma RACCONTI Un captif amoureux (1986) POESIA Il Condannato a morte (1942) FILMOGRAFIA ‘Un chant d’amour’ (1950) - cortometraggio

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Nato a Parigi il 19 ottobre 1910, fu abbandonato e affidato a una famiglia adottiva dove fu seguito amorevolmente da una balia. Ebbe una buona istruzione e crebbe un ragazzo introverso e beneducato. Alla giovane età di dieci anni, però, Jean assaporò la sua prima trasgressione con un piccolo furto. Fu punito severamente, ma tale rigore non fece altro che esaltare questo gesto sconsiderato; Genet ne rimase così eccitato e affascinato da continuare a rubare ovunque andasse. Iniziò una carriera come tipografo ma fu presto licenziato a causa del suo vizio. Fu rinchiuso nella colonia penitenziaria di Mettray, per poi arruolarsi nella Legione Straniera grazie alla quale conobbe l’Africa del Nord e il Vicino Oriente. Tornato a Parigi visse di piccoli furti tra una prigione e l’altra. Proprio durante i suoi periodi di prigionia scrisse le sue prime poesie e le bozze di alcuni romanzi che furono viste e riviste, corrette e modificate a causa della sua mania di perfezionismo e del suo culto per la “bella parola” dal significato intenso e violento. Pubblicò le prime opere a sue spese e fu presto conosciuto da Jean Cocteau e poi da Sartre; personaggi che lo aiutarono in più di un’occasione evitandogli anche il carcere a vita. I primi romanzi, tra cui spicca Il diario del ladro (1949), una sorta di autobiografia in cui racconta le avventure più o meno piacevoli di un giovane ladro, furono censurati perché pornografici, ma distribuiti ugualmente di nascosto. Un altro romanzo, Querelle di Brest, scritto nel 1947, nel 1982 è diventato un film di Rainer Werner Fassbinder coprodotto da Germania Ovest e Francia. Nell’ultimo periodo della sua vita si dedicò soprattutto al teatro, scrivendo varie opere, Le serve (1947), Il balcone (1956), I negri (1959), I paraventi (1961) divenuti tutti grandi successi. Ben presto i suoi interessi si ampliarono e diventarono più impegnativi; tra questi la politica che lo fece viaggiare, conoscere molta gente e lo ispirò per una nuova opera teatrale: Quattro ore a Chatila. Le lotte politiche da lui sostenute lo portarono sempre a difendere le persone meno fortunate e relegate ai margini della società: i poveri, i deboli, gli oppressi. Genet alloggiava sempre in piccoli hotel squallidi e sporchi e il suo bagaglio era solo una piccola valigia dove riponeva la corrispondenza dei suoi amici e i suoi manoscritti. Quando il compagno Abdallah (che ispirò la poesia Il funambolo) morì, la dipendenza da barbiturici contribuì a incrinare la sua vita. Morì di cancro a Parigi il 15 aprile 1986 e fu sepolto in Marocco come lui stesso desiderava. Jean Genet dedicò la sua vita all’arte, vedendola con gli occhi di uno scrittore, drammaturgo e poeta. Si rifaceva alla “poetica della materia riscattata” di Friedrich Nietzsche, con la quale si ribaltava completamente la scala dei valori, assumendo come fondamentali tutti quelli più odiati e disprezzati dalla gente. Negli anni Quaranta descriveva l’omosessualità come un tesoro per lui inestimabile trasferendo nei suoi scritti tutti i suoi desideri erotici e le sue fantasie più nascoste; questo quando tutti gli altri omosessuali si nascondevano vergognandosi del proprio essere. Nonostante questa spavalderia nel gridare al mondo le sue inclinazioni sessuali, Genet non aveva nessuna intenzione di riscattare la posizione dei gay nella società; per lui infatti l’omosessualità non era politica ma semplicemente vita, destino e poesia.


LETTURE Margherita Giacobino

Pier Vittorio Tondelli

L’EDUCAZIONE SENTIMENTALE DI C.B.

UNITI IN CAMERE SEPARATE

2007 - La Tartaruga

2001 - Bompiani

L’educazione sentimentale di C.B. è lo straordinario racconto di una ragazzina che si scopre lesbica tra l’adolescenza e la maturità e che vive in una società che giustifica le regole del “dover essere”, nelle quali però spesso non ci si riconosce, cercando in ogni modo di prendere le giuste distanze. Alla protagonista succede di innamorarsi della “ragazza bionda della sezione A” senza sentirsi minimamente in colpa per questo, ma convivendo e combattendo quotidianamente il dilemma tra essere e apparire, con la determinata volontà di conoscersi e conoscere, rimanendo sempre fedele a se stessa. L’autrice, Margherita Giacobino, unisce semplicità, naturalezza e capacità narrativa, raccontando magistralmente la sotterranea e clandestina omosessualità femminile, riuscendo a trovare le parole giuste per appassionare ed emozionare il lettore.

Pier Vittorio Tondelli racconta un intenso rapporto omosessuale che rompe gli stereotipi fino a divenire metafora dell’amore universale. I lunghi flashback disegnano un rapporto tra due uomini che si amano quasi con pudore, lontano dai cliché del mondo gay. Il libro è un lungo viaggio nel ricordo di Leo e del suo amore perduto – e mai realmente posseduto – per il giovane Thomas, morto ormai da due anni. Il suo è un amore inibito, relegato nello spazio di due camere separate, da cui i due amanti possono sfiorarsi ma senza possedersi, pensarsi ma senza viversi realmente. La mancanza di un riconoscimento sociale e la paura di cadere in una quotidianità atipica e diversa, costringono Leo e Thomas a rimanere estranei l’uno all’altro. La disperata storia d’amore diventa uno spazio che accoglie riflessioni sulla vita intera, sulla famiglia, il possesso, l’amore universale, la solitudine, il senso di colpa, la convivenza.

Maria Angela Nestola

Lara Esposito

MANNI EDITORI

LA CASA EDITRICE SALENTINA DEDICA UNA COLLANA ALLE IDENTITÀ DI GENERE I cambiamenti culturali che interessano le libertà e i diritti delle persone, passano attraverso le rughe del tempo, le scavano per lasciare le tracce di una storia che trascorre con tutte le sue battaglie, i sorrisi, i fallimenti, le conquiste. Non giungono all’improvviso, non sono repentini. Si sedimentano nelle stagioni degli anni che si susseguono, correndo veloci nei momenti favorevoli e resistendo in quelli più scuri e difficili. In un tempo in cui è molto più semplice balbettare che parlare, la casa editrice “Manni” ci regala queste tre pubblicazioni che trattano, ognuna a suo modo, il tema, dibattuto e spesso abusato, dell’omosessualità. Lo fanno con gaiezza e con serenità, con romanticismo e rivendicazione. Probabilmente non serviranno a conquistare diritti e dignità, ma restano tasselli importanti per quel cambiamento culturale che parte dai gesti, dalle capacità e dalle azioni quotidiane.

“ANCHE QUANDO CERCHI DI FARLO, COME ADESSO, IN REALTÀ NON PUOI. LE PAROLE NON SONO QUELLE GIUSTE…”

GAY EVERYDAY

2006 - Manni Editori

RACCONTI DELLA QUOTIDIANITÀ OMOSESSUALE L’esperienza di Gay everyday comincia quasi per caso, da un insieme di relazioni amicali intrattenute dalla sua curatrice, Agnese Manni. È un insieme di racconti, alcuni dei quali scritti da “penne esperte” come Giò Stajano, Nico Naldini, Willy Vaira. Un prisma di storie dalle quali si evince una sincera e schietta normalità, senza particolari tecnicismi e virtuosismi lessicali. Un bellissimo esperimento editoriale, carico d’orgoglio e di sentimento.

PUBBLICI SCANDALI E PRIVATE VIRTÙ DALLA DOLCE VITA AL CONVENTO

2006 - Manni Editori

Un viaggio attraverso una vita. Quella della “scandalosa” Giò Stajano, icona gay degli anni Cinquanta, oggi riservata signora tornata nella sua città natale, Sannicola in provincia di Lecce. In un lungo dialogo con Willy Vaira, Giò si racconta senza freni o inibizioni di sorta, si descrive narrando i propri amori, gli affetti, la sua “dolce vita” e gli eccessi, il ritiro in monastero e infine, oggi, la vita quasi francescana nel Salento. Un libro che mostra il coraggio di una persona che rifiuta di occultare il proprio modo di essere, non per ideologia ma per naturalezza e spontaneità.

QUELLO CHE C’È TRA NOI

2006 - Manni Editori

STORIE D’AMORE OMOSESSUALE Un rapporto d’amore tra due persone è fatto di attrazione, passione, dedizione, ma anche di piccoli gesti, di quotidianità, di banalità divise per due. Questo libro non parla dell’omosessualità come un’etichetta, ma si confronta con i sentimenti omosessuali. Lo fa attraverso un insieme di racconti scritti da autori disparati che, a prescindere dal proprio orientamento, ci regalano un insieme di storie minime ma altamente significative per chi le sperimenta sulla propria pelle.

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LE IDENTITÀ MULTIPLE DI ERGOT LUOGHI

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fficine culturali Ergot è un luogo fondamentale per una città in cui cresce e si diffonde una cultura non omologata, che traccia la propria rotta in maniera indipendente e libera. Ergot è una realtà che, oltre a un’accurata selezione di libri provenienti da circuiti editoriali indipendenti – le librerie “Interno 4” -, propone molte iniziative interessanti. Tra cui, lo scorso anno, “Identità multiple”. “L’idea di un evento dedicato all’identità di genere deriva dall’attenzione che Ergot rivolge da sempre a questi temi. Volevamo che la città si interrogasse seriamente su un tema affrontato spesso in maniera banale. In collaborazione con ArciLesbica Salento ‘Le Pizzicanti’, abbiamo dunque pensato ‘Identità multiple’, rassegna artistico-culturale sugli universi transgender. Mostre fotografiche, presentazioni di libri, dibattiti, teatro. E tanta tanta gente che è venuta a trovarci. Molto oltre le nostre previsioni”. L’iniziativa è il frutto del grande interesse che Ergot nutre per la comprensione delle differenze, la libera circolazione dei pensieri, le molteplici forme di espressione artistica e sociale. Simone è fiero del proprio lavoro e del proprio luogo, crocevia di mondi spesso dimenticati, inesplorati più per mancanza di profitti che per l’incidenza sociale che portano con sé. “Da quando questo luogo è attivo, cioè dall’estate del 2004, è presente uno scaffale dedicato all’identità di genere. Questa è una delle poche realtà in Italia, nel meridione in particolare che, attraverso il circuito ‘Interno 4’, dedica una sezione specifica a questi temi”. In relazione a ciò, quando si trattano queste tematiche, spesso si stila un elenco di banalità e di tristi luoghi comuni. In che modo, secondo te, bisogna parlare di tali questioni senza inciampare nella mediocrità. “Io sono convinto che l’unico riferimento possibile sia la cultura, la conoscenza, l’informazione. In questo, naturalmente, il ruolo e il potere che hanno i libri, se fatti bene, è enorme. A proposito vorrei segnalare che, da quasi quindici anni, è attiva la casa editrice ‘Il dito e la luna’, che pubblica testi di narrativa e saggistica sull’identità di genere. La letteratura riguardante tali tematiche è necessaria per la costruzione di storie, di modelli di comportamento, di linguaggi: per la

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di Francesco Baccaro

creazione, cioè, di un universo culturale e di uno spazio condiviso che serva da volano per il riconoscimento di diritti e libertà purtroppo ancora oggi negate”. Parlando di una letteratura, di un teatro o di un cinema omosessuale, quanto è alto il rischio di auto-ghettizzazione. “Credo che anche nel mondo omosessuale, come in qualsiasi sottogruppo sociale, il rischio di auto-ghettizzazione sia sempre dietro l’angolo. È per questo che ogni iniziativa su questi temi deve avere l’obiettivo prioritario di un pubblico trasversale, senza vincoli di appartenenza. Inoltre credo che il pericolo di chiusura e isolamento del mondo omosessuale possa essere risolto solo affrontando il tema con un dialogo sereno e serio. La società civile è, in linea generale, tollerante e rispettosa verso queste persone, riconosce la necessità di una regolamentazione giuridica dei diritti e delle libertà. La politica è molto più indietro”. Forse anche per questo ‘Identità multiple’ ha avuto così tanto successo. “Certamente. Vedi, il tema dell’omosessualità ha due livelli di ragionamento: uno politico, del quale purtroppo non è il momento di parlare. In Italia abbiamo una classe politica che ancora non riconosce, con una miopia intellettuale spaventosa, l’esistenza di relazioni diverse rispetto alla classica famiglia fondata su un uomo e su una donna. Tanti altri Stati, tra cui Spagna e America, sono molto più avanti di noi. Poi c’è un livello sociale, dove per fortuna ognuno si vive la propria vita, la propria relazione e il proprio amore in maniera libera e privata. La maggior parte di noi ha un amico, un parente o un collega omosessuale, accettandolo in maniera molto tranquilla. Per questo l’opinione pubblica è molto più pronta e preparata, nonostante l’enorme manipolazione da parte dei mass media”. Progetti per il futuro. “L’idea è quella di proporre in futuro l’iniziativa, naturalmente riprogettandola e ripensandola. Sono convinto che sia un evento interessante e utile per stimolare un dibattito e catalizzare, attraverso l’arte e la cultura, l’attenzione su questioni importanti che interessano la vita, la quotidianità”.

LUOGHI ”OFFICINE CULTURALI ERGOT” Libreria Interno 4- P.tta Falconieri s.c. 73100 Lecce - 0832/246074 - info @ergot.it


VOGLIO UN CINEMA

SPERICOLATO! CINEMA

di Maria Angela Nestola

CINEMA DEL REALE È UN CINEMA APERTO ALL’IMPREVISTO, ALL’INATTESO CHE PERMETTE DI AMPLIARE GLI ORIZZONTI DEL PAESAGGIO UMANO. UN CINEMA CHE RACCONTA LE REALTÀ DEL MONDO COME QUELLE DI GAY, LESBICHE, TRANSGENDER, BISESSUALI CHE NEL 2000, L’ANNO SANTO DEL GIUBILEO, HANNO PARTECIPATO AL WORLD GAY PRIDE DI ROMA. NE PARLIAMO CON IL FILMAKER PAOLO PISANELLI AUTORE DEL FILM ‘ROMA AD 000’ E DIRETTORE ARTISTICO DELLA FESTA DI CINEMA DEL REALE.

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l “Cinema de la réalité” è stato uno degli attributi più ricorrenti nei dibattiti francesi per indicare quelle esperienze che, tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta, cominciarono a cambiare il modo di far cinema in tutto il mondo. Da allora il cinema del reale costituisce il superamento di vecchi modi di pensare, e la sua problematicità sempre aperta non è altro che la sua forza e la sua ricchezza. Un cinema come strumento di conoscenza, che offre un’occasione di dibattito, dove lo spettatore diventa interlocutore, e la pellicola motivo di incontro e soprattutto di scambio, è un cinema spericolato, curioso, inventivo, che si propone di far conoscere e diffondere autori e opere audiovisive che offrono descrizioni e interpretazioni personali e singolari delle realtà passate e presenti del mondo e rivela-

fotografie Archivio Cinema del Reale (Big Sur)

no generi documentari differenti: film sperimentali, film-saggio, diari personali, film di famiglia, grandi reportage, inchieste storiche, narrazioni classiche, racconti frammentari... Tutti questi sono aspetti caratteristici e caratterizzanti di un cinema di sperimentazione, che rimane purtroppo per lo più nascosto al grande pubblico, per via di un sistema poco attento a questi canali d’informazione. Eppure si tratta di un modo di darsi del cinema, che oltre ad appagare il bisogno comune di immagini e immaginari, offre spazio al pensiero e alla riflessione su contenuti che di volta in volta veicolano molto più e meglio di tanto cinema di finzione ampiamente pubblicizzato nelle sale cinematografiche. Per parlare di cinema del reale, però, non potevamo non interpellare un ‘addetto ai lavori’ come Paolo Pisanelli, filmaker, autore di film-documentari pluripre-

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miati a festival nazionali e internazionali e direttore artistico della Festa di Cinema del reale, un evento ideato e organizzato da Big Sur che si svolge da cinque anni nel Salento e che in quest’ultimo anno è approdato anche a Roma e a Berlino con una rassegna dedicata agli autori pugliesi. Roma a.d. 000, film realizzato da Pisanelli nel 2000 per TELE +, racconta la tensione di una città che sta per essere “invasa” da migliaia di gay, lesbiche, transgender, bisessuali provenienti da tutto il mondo per partecipare al World Gay Pride che si conluderà con la grande parata per le vie della capitale. Siamo nel 2000, Anno Santo, soprattutto per Roma, città consacrata all’accoglienza di migliaia di pellegrini che accorrono da tutto il mondo per celebrare il grande Giubileo del Millennio. Il succedersi degli avvenimenti viene scandito attraverso i titoli dei giornali quotidiani, che “sparano” in prima pagina le notizie riguardanti le polemiche intorno al World Pride facendo nascere polemiche in cui si discute di laicità dello Stato, di rapporti tra Stato e Chiesa, di etica cattolica e sessualità. È un film sulla crisi politica, religiosa, sociale che questo avvenimento ha determinato, partendo da Roma, fino a diventare un “caso” nazionale e internazionale. Roma A.D. 000 racconta la trasformazione della cultura italiana rispetto al tema dell’omossesualità attraverso i punti di vista e le esperienze di alcune persone gay, lesbiche e transessuali. Nella prima parte è strutturato quasi come una cronaca: la cronaca dei giorni che precedono l’evento e culminano nella settimana di manifestazioni legate al World Pride. Ma dopo l’esplosione dell’evento si segue il ritorno alla vita “normale” dei personaggi incontrati. “Sicuramente non è stato semplice accattivarsi la fiducia delle persone-attori protagoniste del documentario – racconta Paolo Pisanelli - così il primo obiettivo è stato quello di instaurare un rapporto di complicità con questo universo (quello omosessuale), nel quale io mi sentivo quasi in difetto per la mia eterosessualità, che mi ha permesso però di essere un osservatore oggettivo e discreto, coinvolto quanto basta per non inquinare la giusta strategia narrativa del film. Ho cercato di far emergere il conflitto politico- culturale e religioso che Roma si preparava a dover affrontare; ero di fronte a un palcoscenico calcato da pellegrini provenienti da ogni parte del mondo, che erano però impreparati all’intrusione scomoda e carnevalesca dell’universo omosessuale, giunto come una nota stonata nel contesto giubilare. Ero un occhio attento a catturare e raccontare la verità da diversi punti di vista, uno strumento, un tramite, una macchina preoccupata di riuscire a scorgere la realtà delle cose attorno a me.

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Fare un film documentario non solo è un’esperienza creativa, ma spesso diventa anche un atto di democrazia, un modo per dare la parola a chi vuole difendere i suoi diritti e usare i media per comunicare realmente questa ‘necessità’ di vivere”. Un cinema con una forte valenza etica e “politica”, capace di trasmettere emozioni, sensazioni, messaggi e significati in modo efficace e sottile, che non è solo la “fiaba della buona notte” che ci fa dormire sogni tranquilli, ma un cinema “altro”, che può rivelare al nostro sguardo proprio un reale umano, capace di superare ogni fantasia. Paolo esprime la sua personale poetica sul documentario quasi come una formula magica, che lui definisce “degna della trance di un posseduto”: “Il documentario è un corpo a corpo tra chi filma e chi è filmato, è un’improvvisazione dinamica fatta di sguardi, parole e movimenti. Questo confronto aiuta a chiarire se stessi e a mirare all’intelligenza delle cose”.

EXTRA LINKS >> CINEMA DEL REALE Cinema del reale è un progetto del laboratorio di comunicazione Big Sur dedicato al cinema più spericolato, curioso, inventivo che si possa vedere in Italia. L’obiettivo è diffondere autori e opere audiovisive che offrono descrizioni personali e singolari delle realtà del mondo e rivelano generi documentari differenti: film sperimentali, filmsaggio, diari personali, film di famiglia, grandi reportage, inchieste storiche, narrazioni classiche, racconti frammentari... Opere di autori conosciuti o meno noti, con diversi orizzonti geografici, politici e culturali, sono espressione di un cinema che dispone di scarse risorse economiche ma che è dotato di grandi capacità inventive e comunicative. www.cinemadelreale.it >> GIONATA - PROGETTO SU FEDE E OMOSESSUALITÀ Gionata è un portale che parla di fede e omosessualità attraverso le testimonianze di vita, raccontando le varie esperienze e il cammino - poco conosciuto - dei gruppi di credenti omosessuali, per avviare una discussione seria e serena su queste tematiche ancora oggi ritenute scomode dalla maggior parte della Chiesa. www.gionata.org


CINEMA DEL REALE archivio ROMA A.D. 000 di Paolo Pisanelli

1999 - BigSur

Roma A.D.000 racconta la crescente tensione di una città nell’attesa del Giubileo millenario. È un film sull’isteria di Roma che sta per essere invasa. È strutturato quasi come una cronaca: la cronaca dei nove mesi che precedono l’apertura dell’Anno Santo, raccontati attraverso il quotidiano districarsi di una decina di personaggi. Tredicimilacinquecentomiliardi sono stati stanziati e spesi per la “beautyfication” di Roma e cinquantacinquemilioni di pellegrini e turisti sono attesi per l’anno 2000. Il sogno del Governo Italiano, del Campidoglio e del Vaticano di lasciare un segno sulla Città Eterna si è materializzato in un enorme cantiere urbano in cui hanno lavorato più di cinquantamila persone, ma ha messo a dura prova la pazienza dei romani. E in sottofondo nonostante tutto, la religione, l’attesa febbrile, i gruppi che si preparano al pellegrinaggio, la ricerca della spiritualità, l’immobile, segreta mole del Vaticano.

LA PERSONA DE LEO N. di Alberto Vendemmiati

2005 - Millennium Storm

Nicole vive sospesa nell’atmosfera surreale del carnevale di Venezia, dove lavora proprio in un negozio di maschere e costumi. È impegnata come attrice in uno spettacolo dai continui travestimenti e si prostituisce in strada per finanziare i suoi trattamenti cosmetici. Questi sono palcoscenici della sua memoria che la guidano secondo le procedure previste dalla legge al tanto atteso intervento chirurgico di rettificazione degli attributi sessuali e dell’identità sessuale anagrafica. Un percorso lungo e doloroso, soprattutto sotto il profilo psicologico, vissuto nella solitudine esasperata dalla continua ricerca della madre, che non la vuole vedere perché non accetta che suo figlio possa diventare presto sua figlia. Una storia personale, non un’inchiesta giornalistica, e nemmeno un reportage di costume che indaga il fenomeno, così intimo e quindi individuale. Piuttosto è il racconto emotivo di una vicenda vissuta in prima persona, che nella sua dimensione paradossale ed emblematica, agisce come una lente di ingrandimento dei bisogni, delle paure e delle speranze di ogni essere umano impegnato con grande sacrificio e coraggio nella realizzazione della propria identità.

NO VAT - LE REGOLE DEL VATICANO di Alessandro Avellis

2007 - Les Films du Contraire

Com’e finanziata la propaganda reazionaria del Vaticano? Quali sono il percorso e l’ideologia di Papa Benedetto XVI? Possiamo continuare a considerare l’Italia come uno Stato laico? Questo documentario cerca risposta a tali quesiti, rende omaggio ad Alfredo Ormando, che nel gennaio del 1998 si bruciò vivo davanti alla Basilica di San Pietro per protestare contro l’omofobia delle gerarchie cattoliche, investiga sui privilegi del Vaticano e segue l’animato dibattito sul Disegno di legge per le unioni civili (Dico poi Cus) che ha diviso l’opinione pubblica italiana nel corso del 2007. Con le testimonianze di Don Franco Barbero, Don Vitaliano Della Sala, Aurelio Mancuso (Arcigay), Maria Gigliola Toniollo (CGIL), Francesco Paoletti (UAAR) e Elena Biagini (Facciamo Breccia). Questo film ha ricevuto la “benedizione” delle Suore della Perpetua Indulgenza del Convegno di Parigi. (Togay 2008)

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CINEMA DUE VOLTE GENITORI

di Claudio Cipelletti

| 2008 - Agedo

Questo documentario nasce dalla forte motivazione dei genitori di AGEDO (Associazione di genitori amici di omosessuali) di dar voce alle famiglie con figli gay. Il progetto biennale europeo Daphne II “Family matters” ha permesso di realizzare questo lavoro all’interno di una vasta ricerca sociologica sulle famiglie con figli e figlie omosessuali condotta in tre Paesi. Il film indaga tra le aspettative tradite dai figli, e l’accettazione non tanto dell’omosessualità, ma della propria rinascita come genitori, ripartendo da zero. La messa in discussione del proprio ruolo di genitori e perfino dell’amore per i figli, il senso di colpa, la paura del giudizio. Tutto questo accade e poi pian piano si trasforma, diventa nuova energia e porta queste famiglie verso esiti inaspettati, verso un’autenticità pungente che disarma qualunque dottrina morale. L’amore trionfa, ma non basta. Bisogna mettersi in gioco. E questi genitori hanno saputo farlo fino in fondo. Scoprendo che la loro è una goccia nell’oceano, e che c’è ancora tutto da fare.

IMPROVVISAMENTE L’INVERNO SCORSO

di Gustav Hofer

| 2008 - HIQ PRODUCTIONS

È la storia di Luca e Gustav, che da anni vivono serenamente insieme a Roma. Quando però, nel febbraio 2007, il governo italiano propone di varare una legge sulle unioni di fatto estesa anche alle coppie omosessuali (DiCo), in sintonia con le direttive dell’Unione Europea, la loro vita cambia radicalmente. L’intero paese si divide tra sostenitori e oppositori. Improvvisamente è il tema discusso ovunque e costantemente, dai pulpiti delle chiese ai salotti televisivi. In breve tempo, però si raggiungono livelli parossistici di intolleranza. Dall’apertura della proposta dei DiCo a un’omofobia crescente. Gustav e Luca, alla ricerca di un contatto e di un dialogo con tutte le parti in campo, iniziano un viaggio in un’Italia a loro totalmente sconosciuta.

UN ALTRO PIANETA

di Stefano Tummolini

| 2008 - Ripley’s Film

Salvatore è un gay un po’ macho e molto rozzo, che vorrebbe solo starsene in pace con i suoi ricordi. Una mattina d’estate, si addentra tra le dune che costeggiano il mare per un incontro occasionale con un uomo; un atto silenzioso e privo di sentimento. Ancora non sa che in spiaggia sta per incontrare un gruppo di donne che lo costringerà a fare i conti proprio con le parole e con i sentimenti, quelli sepolti nel passato e quelli che potrebbero sbocciare in un futuro che ha già fatto capolino. Girato in una settimana nella spiaggia di Capocotta, nei pressi di Torvajanica, Un altro pianeta di Stefano Tummolini è un prodotto alieno tanto rispetto alle consuetudini produttive (980 euro di budget in tutto, auto-reperiti ed autogestiti) quanto rispetto alla commedia italiana odierna, poiché riporta in auge il progetto zavattiniano di mostrare novanta minuti consecutivi della vita di un uomo e farne uno spettacolo non di pop art ma di umana materia.

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DA SODOMA A HOLLYWOOD

CINEMA

N

di Angela Fauzzi

el 1981 Ottavio Mai e Giovanni Minerba decidono di "opporsi" a un certo cinema che utilizzava il "personaggio" omosessuale in ruoli marginali e/o, addirittura, a dir poco offensivi, girando in video il loro primo film Dalla vita di Piero. Accolto positivamente al Festival Cinema Giovani di Torino il film viene poi invitato in vari festival internazionali. Da qui parte l'idea del Festival Internazionale di Film con Tematiche Omosessuali “Da Sodoma a Hollywood” di Torino. L'idea del Festival viene presentata agli enti locali, Regione, Provincia e Comune: ma per tre anni non ottengono risposte. Nel 1985 al Comune di Torino viene nominato Assessore alla Cultura un ‘illuminato", Marziano Marzano, grazie al quale la manifestazione nasce nel 1986, ottenendo anche il contributo della Provincia di Torino e della Regione Piemonte oltre all’importante sostegno artistico e culturale, mantenuto negli anni, di importanti enti nazionali e internazionali quali il Museo Nazionale del Cinema, il British Council, il Goethe Institut, il Colegio

de Salamanca, il B.F.I., l’Ambasciata del Canada, il Ministero dello Spettacolo di Spagna, il Centre Culturel Français. Nata in un primo momento come rassegnavetrina, la manifestazione si trasforma in Festival nel 1989 ed ottiene il riconoscimento del Ministero del Turismo e dello Spettacolo nel 1990. L'attività del Festival ha sempre avuto tra i suoi scopi non soltanto quello di presentare film in anteprima nazionale ma, soprattutto, quello di essere una specie di “occhio” italiano particolarmente attento a un cinema che altrimenti non avrebbe alcuna possibilità di circuitazione nel nostro paese, pur dimostrando un alto valore artistico e riscuotendo successo nei maggiori festival internazionali. Un cinema che ha sempre trovato difficoltà distributiva soprattutto in Italia. Si pensi alle difficoltà distributive del formato video che spesso si abbina all’espressività artistica del documentario e si pensi ai cortometraggi. Frequentato da “addetti ai lavori” (critici, giornalisti, professionisti), da studenti e cinefili appassionati, il Festival ha da sempre anche voluto mantenere uno stretto legame con lo spettatore “comune”, offrendo momenti di spettacolarità legati alla scoperta delle realtà internazionali ma soprattutto dando la possibilità alle nuove generazioni di scoprire, attraverso le retrospettive, personaggi fondamentali per il cinema e la cultura omosessuale. Questo è un dato peculiare del Festival: infatti, prendendo come termine di paragone qualsiasi altra rassegna estera di cinema con tematiche omosessuali, si potrà notare che il Festival di Torino è uno dei pochi al mondo a trovare riscontri presso un pubblico indifferenziato nonché presso la stampa, tv e scritta, che ha seguito con sempre crescente interesse la manifestazione, sostenendola spesso fattivamente.

In occasione della presentazione del Festival cinematografico Da Sodoma a Hollywood, il foyer dei Cantieri Teatrali Koreja ha ospitato il direttore artistico e ideatore Giovanni Minerba, che assieme al suo amico Ottavio Mai (scomparso nel 1993) decise nei primi anni Ottanta di girare un film intitolato Dalla vita di Piero, con l’intento di dare una sana rilettura dell’immagine omosessuale per troppo tempo derisa dal mondo del cinema. Da quell’esperienza partì l’avventura del Festival, ormai realtà affermata in Italia e all’estero. L’omosessualità è il tema centrale sostenuto ed esaltato da ben ventiquattro anni da tale evento, il cui nome deriva da Sodoma – antica città palestinese che, secondo il racconto biblico, fu distrutta da Dio a causa delle bizzarre pratiche sessuali dei suoi abitanti – e da Hollywood, capitale mondiale del cinema. L’esaltante fusione tra il cinema e la tematica omosessuale offre una carrellata di film italiani e stranieri che testimoniano le tante realtà vissute in modo differente nelle varie parti del mondo. Il film Milk ne è un palese esempio - a cui lo stesso Minerba fa riferimento – perché contrappone la situazione meno soffocante che queste persone vivono in un paese liberale come gli USA, alla schizofrenia tipica dell’Italia influenzata dalla presenza della chiesa, che reprime senza limiti né compromessi ciò che reputa “diverso”.

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la creatività

È QUEER INCONTRO CON GLI ORGANIZZATORI DEL PIÙ IMPORTANTE FESTIVAL ITALIANO LEGATO AL TEMA DELLA SESSUALITÀ “ALTRA”.

VISUAL ARTS

G

ender Bender è noto al grande pubblico, almeno bolognese, come un festival omosex. Nell’intestazione presente sul sito non si parla, però, esplicitamente, di omosessualità. È una maniera per edulcorare una materia difficile da comunicare, oppure è proprio così, cioè che l’omosessualità è solo uno dei temi toccati ed è la gente che tende a volgarizzare? Daniele: Gender Bender è esattamente quello che dichiara di essere: “Un festival internazionale che presenta al pubblico gli immaginari prodotti dalla cultura contemporanea legati alle nuove rappresentazioni del corpo, delle identità di genere e di orientamento sessuale”. In questa concezione le differenze di orientamento sessuale sono una delle linee guida della programmazione, ma di certo non la sola e unica. Questa maggiore apertura, fortemente legata al concetto di identità, ci ha permesso negli anni di raccogliere un pubblico più trasversale rispetto a quello di un festival esclusivamente dedicato a tematiche GLBT. Come si svolge l’attività di fund raising e come bisogna muoversi per ottenere l’approvazione degli enti e dei privati? Valentina: Sicuramente i finanziamenti pubblici sono ottenuti su basi diverse rispetto ai privati, e quindi i due piani vanno distinti. Fin dal 2003, anno della prima edizione di Gender Bender, Comune, Provincia e

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di Federico Vaglio

Regione hanno riconosciuto il valore del festival, e del Cassero che lo produce, proprio per le sue caratteristiche di innovazione culturale, di interdisciplinarità e di novità. Il finanziamento pubblico può oscillare da un’edizione all’altra, ma di certo è sempre stato confermato, senza che alcun assessorato temesse per i suoi contenuti. Per quanto riguarda gli sponsor privati, i finanziamenti più consistenti sono venuti da quei partner (Coop Adriatica, Lavazza, ma anche Cult Network) che hanno visto nel festival la possibilità di costruire un progetto fortemente condiviso. Le campagne pubblicitarie di Gender Bender sono ormai parte dell’immaginario bolognese: il leone drag queen è un’icona ormai storica, mentre Hitler in veste da casalinga che pela le patate possiamo dire che abbia anticipato in maniera più elegante le recenti campagne della Rai che rivisitavano con ironia l’idea di determinismo storico. È chiaro che il festival deve molto ai suoi pubblicitari. Quali gli ingredienti di questa formula vincente? Giovanni: In realtà l’idea creativa di ogni edizione nasce da uno scambio reciproco tra noi e il creatore del Festival, cioè Daniele. Direi che il suo immaginario funge un po’ da linea guida per l’elaborazione delle immagini e delle idee. Di solito comunque si cerca di lavorare sui corto circuiti visivo/semantici che scaturiscono dall’accostamento di due concetti apparentemente lontani e incomunicanti, come Hitler e una

illustrazioni di Gender Bender


casalinga altoatesina o un leone e la parrucca di Doris Day o ancora impastare la pizza con gioielli e smalto alle unghie. C’è un filo comune tra le diverse campagne? Giovanni: Il filo conduttore è proprio questa sorta di ribaltamento di senso, lo stesso che fra l’altro è visualizzato graficamente nel logo, che possa dare nuovi significati a immagini di per sé banali. La declinazione tematica di ogni edizione è accessoria rispetto all’idea, sempre presente e sempre ricca di stimoli, di accostare e mescolare in maniera irriverente cose diverse e antitetiche. Il visual della campagna del 2008 ritrae una serie di omini da calcio balilla impalati sul tipico asse da biliardino. Tra questi spicca uno, diverso per colore e chiaramente caratterizzato come gay, visti anche i tacchi a spillo; è come se si volesse mettere in risalto la maggiore libertà dell’omino rosso rispetto agli altri, rigidi e tutti uguali. Quale è il rapporto tra omosessualità e libertà secondo Gender Bender? Daniele: Secondo me, quasi lo stesso di quello che esiste tra eterosessualità e libertà! Scherzi a parte, sono convinto che la differenza la faccia l’individuo e che il principio di libertà personale dipenda molto dalle singole persone. Tuttavia, credo anche che per molte persone acquisire una chiara coscienza della propria identità gay, lesbica o transessuale possa essere una grande possibilità di vedere criticamente quelle regole societarie che sono interiorizzate da ognuno di noi e che gli eterosessuali danno per scontate, come fossero un fatto “naturale”. L’identità gay, lesbica o transessuale anche oggi crea un contraddittorio con la società anche semplicemente per il fatto di esistere. E decidere di vivere ascoltando e vivendo liberamente la propria natura, inseguendo una propria personale idea di felicità che a volte va a cozzare con regole, divieti e silenzi presuppone la volontà di tracciare un proprio percorso di libertà. Una grossa fetta del cartellone è fatta di rappresentazioni teatrali e performance. C’è più teatro che musica, ad esempio. Ritenete che il teatro sia sessualmente più “carico” delle altre arti o la sessualità può passare con la stessa forza con la musica, il video, la parola, ecc? Daniele: È vero, c’è più teatro e danza che musica in Gender Bender, ma solo per questioni di gusto e interesse personale dei curatori e della direzione, oltre che per mere questioni produttive. La rappresentazione del corpo nelle arti non ha dei media o delle discipline privile-

giate, ciò che passa con immediatezza e in maniera potente è di solito l’idea che c’è dietro. Negli anni Elvis Presley, David Bowie, Boy George o oggi Beth Ditto dei The Gossip e Antony and the Johnsons hanno fatto un gran lavoro in campo musicale. Detto questo, oggi il teatro e la danza sono forse i luoghi in cui la messa in scena dei corpi conduce maggiormente gli autori a utilizzarli per interrogarsi in maniera più diretta e articolata sulle questioni identitarie. Talvolta con risultati straordinari per intensità e lucidità. Il teatro mette in scena il corpo ed esplora la sessualità. Si può dire che il teatro abbia un orientamento, o delle “preferenze” sessuali? Daniele: Il teatro in sé non ha un orientamento o delle preferenze, ma è fatto da autori, interpreti e pubblico e se anche solo uno dei tre esprime o interpreta le dimensioni del corpo e della sessualità ecco che queste ne fanno parte a pieno titolo. Giovanni Battistini grafico e creativo Daniele Del Pozzo direttore artistico Valentina Lanzetti responsabile comunicazione

Nel mondo queer anglosassone “Gender Bender”, che sta per “piegatore di genere”, è chi non sottostà alla rigida categorizzazione binomiale di maschile/femminile e lo manifesta attivamente nella società. Con questa espressione densa di significato i tizi del Cassero Gay e Lesbian Center di Bologna hanno deciso di battezzare forse il più importante in Italia tra i festival legati al tema della sessualità “altra”. Non semplicemente un festival sull’omosessualità, ma un’indagine su un tema ricco di sfumature e di intrecci con la contemporaneità. Sin dalla prima edizione del 2003 Gender Bender si è mosso in direzione della rottura delle regole e del mescolamento dei generi artistici, della varietà espressiva, avendo un occhio di riguardo per l’arte d’avanguardia, che è poi il modo migliore per manifestare la vocazione alla rottura delle regole. Al suo interno troviamo proiezioni cinematografiche, spettacoli di danza e teatro, performance, mostre e installazioni di arti visive, incontri e convegni di letteratura, concerti e live set di musicisti e dj, party notturni. La comunicazione svolta dai creativi ha avuto un ruolo importante nel presentare il festival al pubblico: una comunicazione colorata, vivace, che riesce a scioccare visivamente e cognitivamente il lettore, o il passante per strada, servendosi dei mezzi dell’ironia e mai di quelli della volgarità.

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ZOO DI NOTTE COPIONI

JO Conosci il mare? MIKE L’ho visto. Una volta. È azzurro. JO Ti confondi con le cartoline. Tu non hai mai visto il mare. Perché menti? MIKE Cazzo. Se avessi un pettine. JO Lasciati stare i capelli. Sono belli così. Sporchi e ingarbugliati. MIKE Jo? Spesso mi dico il mondo non può continuare così com’è. È veramente malato Jo. Mi dico se fossimo grandi lo avremmo messo a culo in aria il mondo gli avremmo ridato la salute ma siamo rimasti piccoli. JO Sì. Siamo tutti dei nani. MIKE Io mi dico il dio della felicità si è addormentato da un sacco di tempo. È dall’inizio del mondo che russa e russerà così ancora a lungo. JO Il mondo avanza come il gambero ragazzo. Una bestiola che cammina all’indietro. MIKE Guarda. Un bidone di benzina. Non è vuoto. Aiutami a cercare una scatola di conserva. JO Una conserva di che cosa? MIKE Una scatola di conserva qualsiasi. Una vuota imbecille. JO Che hai intenzione di fare? MIKE Aspetta un po’. Si vedranno le fiamme a distanza di chilometri. JO Tu sei tutto matto. MIKE Tutto il paesaggio come una torcia e l’odore di bruciato fino alle stelle. JO Smettila. Jo gli frega l’accendino. MIKE Per quanto tempo riesci a guardare il sole senza strizzare gli occhi? JO Diventerai cieco stronzetto. MIKE Parlami. JO Di cosa? MIKE Di me. JO La tua voce. Il tuo sorriso. I tuoi denti. Le tue mani. Le tue labbra. I tuoi occhi. I tuoi capelli. Le tue dita. La tua pancia. MIKE Non toccarmi. Mi fa male quando fai così. Gli uomini ti piacciono troppo non è vero? JO Sei tu che mi piaci. Nessun altro. Se ami un cavallo non ami i cavalli capito? MIKE Un giorno mi sono fatto rimorchiare da un marinaio non ho fatto niente con lui solo un po’ gentile e poi mi ha sbattuto un mucchio di banconote sul muso.

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Michel Azama, autore di fama internazionale, è uno dei piu’ importanti esponenti della nouvelle vague teatrale francese di questi ultimi anni. Attore, scrittore e drammaturgo, attualmente conduce seminari di scrittura in Francia, Italia, Spagna, Colombia, Cile. Traduce molti autori, spagnoli, catalani, cileni e si dedica alla formazione. Le sue opere sono tradotte in numerose lingue e rappresentate in numerosi paesi dell’Europa e dell’America latina. Scritto nel 1994 durante una residenza del CNES a La Chartreuse e della Scena Nazionale di Martigues, su “La solitudine amorosa degli adolescenti”, Zoo di notte è il racconto di un’ossessione di purezza: uno squarcio di disperazione senza ritorno, un bisogno assillante di mettere a nudo le radici dell’affettività umana, per legare i gesti alle passioni profonde. Un tempo puramente denotativo, uno spazio vuoto, il non luogo della solitudine, che imprigionano Jo, Sarah e Mike, i giovani protagonisti del racconto.

Un altro giorno una canaglia mi voleva rifilare una ragazza brutta e grassa che diceva che era sua sorella io non la volevo sua sorella. Un’ora dopo la canaglia si vendica in una strada deserta mi pianta le dita negli occhi mi deruba e scappa. Dei marinai mi hanno portato in braccio in ospedale. Un altro giorno dopo tre whiskey mi succhiavo le dita dipinte della barista bevendomela con gli occhi. Lei sorrideva e mi lasciava fare. Un altro giorno salgo con una coppia. Fanno l’amore io li guardo poi mi unisco a loro. JO Tante persone hanno posato le loro sporche zampe su di te. MIKE Sì. Ma nessuno mi ha mai toccato veramente. Tranne te. Tu sei buono Jo. Ma io mi annoio sempre... JO Sempre a domandarti che rumore farebbe la luna cadendo sulla terra. Non stiamo bene qui? Non stiamo insieme qui? MIKE E tu sempre a rallegrarti di avere una pleurite dato che temevi un cancro... No Jo non stiamo bene qui. Semplicemente non possiamo andare altrove tutto qui. JO Tu ci pensi vero? Ti piace vero? MIKE Chi? JO Ipocrita. Con l’accendino Jo appicca il fuoco alla benzina. Tacciono. Jo esce.


NOTE DI REDAZIONE L’Istrione prende forma giorno dopo giorno e attecchisce, sorprende, estrae, trascrive, riflette. L’Istrione cala il sipario e si immerge nella spettacolarità dell’arte toccando con mano le svariate sfaccettature della realtà. Si pone domande, sbircia i retroscena, osserva figure insolite, crea collegamenti, recensisce, cita voci del passato. Poi si ferma a pensare. Si incuriosisce, si confronta e mi trasporta in realtà talmente attuali da essermi paradossalmente distanti. Angela Fauzzi

Aver impostato il progetto come un laboratorio (e non essendo noi degli esperti o grandi conoscitori dei temi trattati) ci ha permesso di impiegare il giusto tempo per attuare un processo che passasse dalla curiosità alla conoscenza (scoperta) alla discussione e infine all’elaborazione degli articoli, facendo in modo che questi prendessero vita solo dopo una lenta gestazione (decisamente caratterizzante!!!). Maria Angela Nestola

È stato molto difficile cambiare L’Istrione. Ogni giorno si presentavano nuovi problemi, critiche, modifiche da apportare… inoltre bisognava rapportarsi con persone nuove, una nuova realtà. Non per tutti è stato semplice accettare il cambiamento, le nuove regole imposte da necessità tecniche. Fortunatamente le critiche sono state costruttive. Ci siamo conosciuti lavorando fianco a fianco, giorno dopo giorno. Finalmente si è creata una vera redazione! Ognuno con i suoi compiti, le sue specialità, il proprio modo di scrivere, di esprimersi, di affrontare gli argomenti più disparati. L’Istrione ne è uscito trasformato! Sicuramente è più bello e corposo di prima e sicuramente non ancora totalmente definito e perfetto. Ma il lavoro non ci spaventa! Sara Leo

Essendo il primo numero di una nuova rivista, che in realtà è un laboratorio fatto da persone per lo più alle prime esperienze “editoriali”, che si vedono per le prime volte nella loro vita, direi che L’Istrione, nel suo istinto sbruffone e non convenzionale, ci è andato giù pesante. Il tema che abbiamo trattato è infido, scivoloso, di quelli

che ti prendi una responsabilità non indifferente. E questo perchè, purtroppo, le parole a cui noi vogliamo dare un senso, spesso si aprono a sensi “altri”, diversi, lontani dal nostro. Naturalmente spero non sia questo il caso. Francesco Baccaro

Personalmente non mastico il teatro. È ignoranza mia, ovviamente, ma in parte ci colpa il destino che me ne ha tenuto lontano e in una parte maggiore il fatto che il teatro che mi è arrivato più vicino o era troppo difficile, o troppo lezioso, o troppo casereccio. Perché allora prestarsi a collaborare? Un po’ per superare queste remore, sicuramente. Ma è stata più che altro la natura laboratoriale della rivista ad attrarmi, unita allo spirito di una agenzia per cui nutro assoluta fiducia. La cosa è ancora senza forma e l’idea di plasmare l’informe mi genera sempre un certo godimento, specie se si tratta di organizzare pensieri, idee, di lavorare con il significato. Immagino che una goduria del genere la provi il fornaio, il pasticciere o il vasaio. Federico Vaglio

Immagino questa rivista come un teatro che non è solo il palcoscenico ma (come accade anche a Koreja) un luogo di relazioni, di contaminazioni. Un luogo che ci predispone ad accogliere qualcosa a noi ancora sconosciuto. Per questo nella rivista partiamo dalle visioni di teatro. Così come ci accade durante uno spettacolo, ci allontaniamo dall’ordinario per perderci nella scena e uscirne “spaesati”, disorientati ma più predisposti ad accogliere qualcosa di nuovo. A mio avviso questa rivista dovrebbe seguire un ritmo narrativo, saperci sussurrare, emozionarci e sorprenderci con dei “colpi di scena”. Con L’Istrione vorremo andare dietro le quinte, conoscere il lavoro dell’attore, del light designer, del costumista. Conoscere la scrittura dei testi teatrali, l’umanità che c’è dentro una compagnia teatrale, guardare la scena dal punto di vista dell’attore, osservare il pubblico dal palcoscenico. Francesco Maggiore


“Se riteniamo il teatro come l’arte dell’attore – e potrebbe esserlo nella maggior parte dei casi – allora dovremmo considerare la scena come il regno del genere sessuale indistinto. Usando un termine molto in voga, si potrebbe affermare che sul palcoscenico si avvera il sogno di un universo transgender. Un sogno che si ripete da un bel po’ di secoli, da quando cioè l’attore si trova al cospetto di un pubblico con cui deve instaurare un flusso di comunicazione che, nei casi migliori e più efficaci, si trasforma in fascinazione. (…) Ogni attore è un impenitente seduttore e gli spettatori li pretende tutti ai suoi piedi, maschi e femmine”. Nicola Viesti


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