Contenuti Dedica • 1
IN RICORDO DI MARIA CRISTINA SALES
Dov’è Itaca? • 2 META E PARTENZA
Nella materia della scrittura • 3
PERSONAGGI IN DIALOGO TRA LE TRAME DELLA POESIA
Saluta l’antica apnea • 4 SCRITTURE
Le ragioni dell’esprimersi • 6
TEATRO, LIMPIDA MERAVIGLIA DI UN DELIRANTE FERMENTO
“Ora ero malata” • 7
RIFLESSIONI SU ANNA MARIA ORTESE
Frastornata, si ferma • 8 SCRITTURA FRESCA
Incontro ravvicinato del terzo tipo • 10 COS’È LA POESIA
La vecchiaia cancellata • 12
LETTERATURA E CINEMA CONTROCORRENTE
Viaggio in famiglia • 15
RACCONTO INTIMO DI UN LUNGO ADDIO
Il matrimonio di Rachel • 18
DUE SORELLE, UN MATRIMONIO E LA RESA DEI CONTI
Malinconica corda • 20 L’ARTE DI VICTORIA FRANCÉS
>> Libri Una poesia della giovinezza • 10
RACCOLTA DI VERSI DI MARTA TORALDO
Editoriale Viaggio nella sconosciuta terra delle relazioni, a provare percorsi nuovi d’incontro. Sopraffatti dal timore di non essere adeguati allo sforamento dell’anima che pervade l’altro. Viaggio nella sconosciuta terra delle proprie emozioni, a provare a sentire l’inconoscibile fruscio dei sentimenti. Sopraffatti dal pieno del cuore che spinge nel petto e fa male. Viaggio nella sconosciuta terra dei propri pensieri, a provare a dire le ossessioni e le briglie della conoscenza. Viaggio doloroso e caldo, respingente e seducente, periglioso e accattivante. Viaggio, semplicemente andare, semplicemente essere. Nel viaggio c’è una scelta e c’è un osare che muove l’energia, la curiosità. Una consapevolezza, una volontà che nell’andare trova, scopre, fa avventura. La cura è anche questo e L’Osservatore in cammino ne racconta la possibilità. La cura, viaggio nel fare, nel trovare in sé le tracce di un nuovo esserci. Nel pieno esprimersi. Caterina Renna Mauro Marino illustrazione di copertina Efrem Barrotta & Giulia Nonne
L’Osservatore in cammino è un progetto Artlab, Atelier per l’espressione e la produzione creativa, all’interno del quale competenze, vocazioni, capacità s’integrano e cooperano insieme. In particolare, scrittura e illustrazione interagiscono per dar vita a una rivista che si muove sul doppio binario della comunicazione, quello verbale e quello visivo. L’Osservatore non è solo una rivista di informazione culturale ma, soprattutto un cantiere libero ed aperto all’incontro, per accogliere nuove vocazioni ed attitudini, un luogo dove sperimentare e mettere a frutto l’inventiva e le capacità comunicative di quanti desiderino aderire al progetto. Chiunque abbia voglia di partecipare a questa avventura trimestrale, può inviare i suoi elaborati (scrittura, grafica o illustrazione), in formato elettronico, alla nostra redazione: produzioni@bigsur.it Puoi trovare L’O presso: Libreria Apuliae, Lecce Libreria Gutenberg, Lecce Libreria Icaro, Lecce Libreria Liberrima, Lecce Libreria Palmieri, Lecce Libreria I Volatori, Nardò Manifatture Knos, Lecce Officine Culturali Ergot, Lecce L’edicola Bla Bla, Lecce Ting, oro e design, Lecce Caffè Letterario, Lecce Koreja, Lecce Fondo Verri, Lecce Big Sur, Lecce
Dedica Questo numero de L’Osservatore in cammino è stato realizzato in ricordo di Maria Cristina Sales Nella speranza che possa sentire anche da lì il calore del nostro abbraccio.
*** Mi avvio verso percorsi indefiniti a volte proibiti a tratti voluti. Ho dinanzi a me volti, luoghi, odori, colori sembianze umane rumori ovattati. Se potessi descrivere raccontare sapori che non conosco spazi infiniti che avvolgono il cielo lo sovrastano schiacciandomi con un soffio verso terre a lungo nascoste e mai capite. La mia storia sembrerebbe quasi un’incognita, un approccio alla vita una vita mutante a volte entusiasmante. Immensamente respiro, non esiste tempo più breve di una tiepida carezza che mi sfiora le labbra. Un saluto in silenzio è fatto per sognare onirici sospiri trepidano e sussultano per giungere da te. Silvia
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L OSSERVATORE IN CAMMINO
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Poesia
di Diletta Polimeno
META E PARTENZA, L’ISOLA DI ULISSE È IN OGNUNO DI NOI. SOLLECITA ALLA RICERCA, ALL’ESPERIENZA, ALL’AVVENTURA. SOLLECITA E RASSERENA. ITACA È VIVERE PIENAMENTE LA VITA, LA SUA STESSA ESSENZA!
Se ti metti in viaggio per Itaca Augurati che sia lunga la via, piena di conoscenza e d’avventure. Non temere Lestrigoni e Ciclopi O l’irascibile Posidone Nulla di ciò troverai mai per strada Se mantieni elevato il pensiero, se un’emozione Eletta ti tocca il corpo e il cuore. né Posidone l’arcigno se non li porti dentro, nel tuo cuore, se non è il cuore a alzarteli davanti. […] Tienila sempre in mente, Itaca. La tua meta è approdarvi. Ma non far fretta al tuo viaggio. Meglio che duri molti anni; e che ormai vecchio alla tua isola attracchi, ricco di quel che guadagnasti per via, senza aspettarti da Itaca ricchezze. Itaca ti ha donato il bel viaggio. Non saresti partito senza di lei. Questo solo so darti.
illustrazione Annalisa Macagnino
Dov’è Itaca?
E se la trovi povera, Itaca non ti ha illuso. Sei diventato così esperto e saggio Che avrai capito che vuol dire Itaca. da Le più belle poesie di Costantino Kavafis traduzione di N. Crocetti, Milano, Crocetti, 1993
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taca: suona in maniera così inspiegabilmente familiare e al contempo, oscuramente inafferrabile questo nome. C’è chi l’ha abbinato alla terra “petrosa”, perduta e desiderabile, verso cui dirigere le vele di ritorno da un “diverso esilio”; chi la immagina come il punto di partenza e, allo stesso tempo, l’estremo approdo di un viaggiatore dotato di una straordinaria curiosità intellettuale e di uno spirito indomito. Costantino Kavafis non cerca di definire Itaca, di descrivere la terra brulla o le messi sfavillanti, gli scogli taglienti e ostili o le spiagge assolate e arroventate dal sole; invita a mettersi in viaggio alla volta di questa terra mitica e arcana, a mantenere “elevato il pensiero”, a lasciarsi invadere, corpo e mente, da un’emozione pura, “eletta”, elevata, vergine, inarrivabile per chi si lascia contaminare dalle miserie morali. E rivela del suo animo o le innumerevoli debolezze, viaggiatore che non si imbatterà in giganti antropofagi, o mostri selvaggi e … se non sarà il suo stesso cuore, attraversato da mille tormenti, ad innalzarglieli davanti. Se il viaggiatore sarà così folle e distratto da avventurarsi in questo viaggio senza aver fatto prima i conti con i mostri che albergano dentro di lui e che egli stesso alimenta con le proprie paure e incertezze, con la crudeltà del suo animo o le innumerevoli debolezze di una coscienza irrisolta, troverà a sbarrargli il passo miriadi di creature spaventose e dalla potenza soverchiante. “Tienila sempre in mente Itaca”, con questo monito nelle orecchie dovrebbe avventurarsi l’aspirante viaggiatore, desideroso di approdarvi ma capace di porre freno alla frenesia del ritorno, al richiamo sensuale ed ammaliante della propria patria. Itaca è, allo stesso tempo, meta e partenza: risveglia la sete del Re che credeva di aver bevuto alle fonti più gustose, la sete più difficile da soddisfare, la brama di conoscenza, avventura, esperienze inaudite e irripetibili. Una volta arrivato, il viaggiatore instancabile avrà dissetato il suo doloroso amore della vita, lo spirito indomito ed irrequieto che lo aveva sospinto al largo avrà trovato una serena pacificazione; forse avrà finalmente chiaro “che vuol dire Itaca”.
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L OSSERVATORE IN CAMMINO
Riflessioni
di Lara Esposito
Nella materia della scrittura IO, TU, L’ALTRO IN SÈ E L’ALTRO DA SÈ: PERSONAGGI IN DIALOGO TRA LE TRAME DELLA POESIA. LETTURA ANALITICA DEI TESTI DEL LABORATORIO DI SCRITTURA CREATIVA DEL CENTRO PER LA CURA E LA RICERCA SUI DISTURBI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE, DSM-ASL LECCE
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rendi in mano una parola, guardala, stringila e assaggiala. Pesala, chiudi gli occhi e cerca di sentirne l’odore. Avvicinarsi alla scrittura è un rito, un processo di affiliazione che implica una scelta di misura: rompere la sacralità dell’espressione e contemporaneamente spezzare la propria presunzione, per accogliere un punto di vista altro. La scrittura è filtro e veicolo del linguaggio e, a sua volta, del pensiero. La scrittura è anche una forma di comunicazione, come lo è un gesto, un sorriso, un silenzio. Le definizioni si sprecano, si accumulano e spesso si contraddicono e questo circolo tortuoso di relazioni serve a soddisfare il bisogno di definizioni, di schemi, di sicurezza. Esiste poi un altro livello, quello del rischio. La scrittura, infatti, è anche una materia sconosciuta, con una propria autonomia, una forza che deriva dalla sua natura di medium. Non è un caso, quindi, che McLuhan rivoluzionò il mondo della comunicazione affermando che il medium, lo strumento, altro non è che il messaggio stesso.
Il tentativo di analizzare i testi prodotti nel laboratorio di scrittura creativa del Centro per la Cura e la Ricerca sui disturbi alimentari di Lecce nasce alla luce di questa duplice dimensione, oscillante tra un approccio scientifico e un altro che tuteli la sacralità e l’inspiegabilità nella scelta di una parola. In ogni azione l’uomo, comunicando, lascia una traccia di sé, della sua storia, del suo pensiero e, inevitabilmente, della sua emotività, quello che in ambito psicologico viene definito inconscio. La presenza del soggetto tra le trame delle parole si riscopre in quello che viene definito l’inconscio testuale, quell’insieme di mascheramenti contenuti all’interno del testo, le tracce di una strategia inconscia che cerca di porsi al riparo nel non detto o di presentare in maniera deformata contenuti ed emozioni dolorose. In ogni testo ci sono delle tensioni, dei flussi linguistici ed emotivi, come il rapporto che l’autore ha con se stesso – quella che Jakobson definisce funzione emotiva –, con il suo lettore, colui a cui consciamente o meno vuole far arrivare la sua voce – la cosiddetta funzione conativa, come uno slancio verso qualcuno o qualcosa –, e infine al contesto, al resto del mondo – la funzione referenziale. Quest’ultimo livello è fisico ma anche relazionale, in cui si annidano altri microcosmi, nuove e differenti tensioni che raccolgono il rapporto che chi scrive ha con lo spazio che lo circonda, con l’Altro in sé (riferibile alla malattia) e l’Altro da sé (gli altri, il resto del mondo). In ogni testo agisce in qualche modo la malattia, l’Altro in sé, sotto forma di angoscia, tristezza, disperazione, folletto, buio, paura e altro ancora. È una forza interna e invisibile che nella poesia acquista una forma visiva riconoscibile, a volte antropomorfizzata, che dialoga con lo spazio, le parole e il soggetto. Nello stesso modo si muove il resto del mondo relazionale, le persone che ci stanno accanto, identificabili o meno: l’Altro da sé. La forza di ogni funzione, di ogni flusso relazionale, è nascosta tra le trame dei pronomi personali, degli aggettivi possessivi, dei verbi utilizzati, del tempo, del tipo di narrazione, del tono, del punto di vista, le figure retoriche e tanto altro. In particolare la forza del soggetto all’interno di un testo poetico si riscontra nell’“eccessiva presenza” di alcuni strumenti linguistici perché il cuore dell’analisi è l’individuazione delle tendenze, delle ricorrenze, delle tracce. In questi varchi si depositano idee e sensazioni, a cui il terapeuta può attingere per comprendere meglio ciò che gravita nella testa e nella pancia di chi scrive.
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L OSSERVATORE IN CAMMINO
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Scritture
Saluta l’antica apnea
illustrazione Annalisa Macagnino
Silvia Sentieri illuminati volti celati braccia immobili pensieri matematici sfondano la mente occhi implacabili governano la pelle. Un groviglio di nubi attraversa la memoria schiacciandomi. Il peso toglie il fiato Voci roche giungono da lontano Echeggia l’aldilà Come grida senza voci. Accarezzando i pensieri riesco a decifrarli, uno a uno come soldati che marciano su pozze di lacrime. Ascolta il mio pudore non ci sarà mai più dopo. Dedicato a…
Saperti raccontare tutto questo per me è difficile. Cercare di spiegarti quanto sia delicato il tempo che passa tra uno sguardo e uno sguardo e un sorriso, tra un bacio e una carezza. Sarebbe come avvicinarmi a te con lo sguardo e prendere con l’immaginazione una stella, avendo paura di proteggerti sapendoti indifesa. Con cura ripongo le tue idee su giacigli di nuvole. Supererai questi momenti brevi ma intensi tappe obbligate di questa vita, momenti esclusivi che non rivedere più. Bendarti gli occhi con petali di rose mi lascia desiderare
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L OSSERVATORE IN CAMMINO
la vita. Respira più aria che puoi e soffia con forza, spazza via il marciume e lascia germogliare quella speranza che è in TE! Mamma
Se solo tu sapessi chi mi ha condotto qui, se capissi perché ho ignorato il tuo amore, ho ingannato me stessa. Ti ho supplicato di abbandonarmi, perché potessi finalmente camminare da sola. Lo hai fatto… ma poi ti sei pentita… mi hai ricomprata a quattro soldi, svenduta e appesa lì ero esposta al miglior offerente. Saperti indifesa mi ha resa indifesa, ma armata di rabbia mi sono crocifissa, flagellata, mortificata. I sensi di colpa mi hanno divorata, i tuoi abbracci erano morsi d’amore i tuoi baci sottili, quasi inesistenti. Il mio cuore batteva sono strati di innumerevoli lastre di ghiaccio. Ora ti vedo, più indifesa di allora, questi momenti del dolore li ricordo appena. Pallide luci riaffiorano, un embrione si affanna a crescere deforme, una guaina sottile lo riveste, si aiuta da solo, arranca, si dimena. Ben presto incontrerà la vita, urla strazianti lo ricondurranno a me. Sono stata ricompensata dai tuoi occhi mai visti. Senza fine sarà la storia mia senza di te non sarei mai stata…
Legata, imbavagliata, ammutolita, resto immobile tra le mura. Amo la mia tristezza. Ignoro l’odore della confusione. Attorcigliata come un gomitolo che non riesce ad essere sflilato. Nodi che strozzano la capacità di dire, di essere… Quando saprò dire tutto ogni cosa riaffiorerà in superficie. Chiazze di colori inumiditi, ammuffiti non sembrano più immagine. Il ricordo è solo stretto in un angolo del mondo ripescato dal nulla. Il bene potrà essere slegato, un oceano di pensieri liberati come bestie rabbiose che azzannano, con fauci insanguinate pezzi di ricordi. La mente rotola, non teme nulla ma solo il tuo volto teme la verità. Non sento nulla ormai alcun dolore su di me. Il cambiamento
Dammi un sorriso e crederò alla gioia. Dammi un pensiero e saprò chi sei. Dammi un abbraccio e mi solleverò dal suolo. Se potessi immaginare tra i tuoi sorrisi vedrei il più bello, lascerei tutto alle mie spalle, avrei il coraggio di cambiare. Muterei in nuova vita queste scaglie di vetro, un nuovo abito indosserei, lo so già. Lo sapevo già da tempo, il tuo respiro era qui scavava tra i miei pensieri la voglia di cambiare. Oramai è nuova vita, la metamorfosi è avvenuta, dai rovi spinosi una crisalide si è trasformata in una donna e quella speranza di vivere per sempre non avrà mai fine. ***
Evelina Dove siamo?
Il paese del verde sembrava lontano, lontanissimo, irraggiungibile. Però esisteva. Il paese del verde lo immaginavo diverso, irreale, a tutto tondo. Il paese del verde mi chiamava, ma il mio cuore era troppo straziato per cogliere il grido, che in me diventava urlo straziante. Il paese del verde esiste, e io lo sapevo. Quello che non sapevo è che è una foresta,
con sentieri ora dritti ora contorti, con terreni ora piani ora scoscesi con strade a volte già segnate a volte da sognare. Né mai immaginavo che il bello del paese del verde fosse proprio il piacere, la forza, la gioia, ma anche il dolore, di riuscire a districarsi, di albero in albero, di tappa in tappa, in questa strabiliante foresta sempre-verde. Mamma
Mamma. Dolcezza infinita. Occhi di cerbiatto e sorrisi di zucchero. E dolce, e caldo, e muto l’abbraccio incancellabile del tuo ultimo dolcissimo respiro. Le mani sorelle
Intreccio di fili sottili che fanno le corde robuste. Magia di radici abbracciate che nutrono tronchi maestosi. Son solide trame intessute da dita che sono sorelle. Nude alla guerra
È la paura. È lei che ti fa nuda. È proprio come Eva che prima delle mele nuda lo era già. Però non lo sapeva… E sempre la paura è lei che ti fa guerra. Figlia di spettri oscuri madre dei mostri Falsi. Il cambiamento
Scorre, scorre, scorre gira, gira, gira dondola, dondola, dondola, rotola, rotola, rotola, intensa misteriosa magica essenza della VITA. Rasserenarsi
Basta. Saluta l’antica apnea. Adesso, puoi prendere fiato!
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Le mie corde
L OSSERVATORE IN CAMMINO
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Teatro
di Sandra Maggio
Le ragioni dell’esprimersi IL TEATRO, LIMPIDA MERAVIGLIA DI UN DELIRANTE FERMENTO. L’INCANTO, LA MAGIA VIVONO E RIVIVONO SULLA SCENA
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er un’attrice come me, che di questa umana avventura ha fatto la sua passione prima, la sua professione poi, tutto ciò significa di volta in volta calarsi nei meandri delle parti che cambiano, in nuovi personaggi, da capire, da studiare, da interpretare, con un lavoro che comincia dentro, nel mio intimo profondo, settimane, se non mesi e molti mesi prima, e trova poi compiuta espressione nello spettacolo, anzi, in ogni spettacolo in cui io lo faccio così rivivere. Significa scostare la propria anima, per fare posto a una nuova; cederle i neuroni del cervello, per quanto sconosciuta e diversa, terribile quindi, perché temiamo quello che ci è ignoto, alieno a noi, eppure ci attrae, irresistibilmente e finiamo poi sempre così con l’amarlo. In questi anni di studi, prima e di esperienze professionali poi, ho viaggiato nel tempo, nello spazio e nelle anime. Ho risentito l’eco chiarissima, quanto straziante delle grida nelle notti di una Medea cruenta e vendicativa, ma pur sempre madre, pur sempre donna; ho respirato le opere e i giorni di una Mirandolina, servetta furba e maliziosa; e sono stata, a modo mio, ma sempre come sempre, Giulietta, nel canto di amore e passione adolescenziale di due giovani amanti, fissato in maniera indelebile da William Shakespeare. Come una teatrante della commedia dell’arte, quasi una reincarnazione di un’attrice della Magna Grecia, che si muoveva nel Salento ai tempi dei Bizantini; poi ancora, in seguito, sui carri nei campi di vite e di olivo nei secoli bui del Medioevo, fra gli Spagnoli, così mi sento, quando con i miei MalfAttori portiamo sulle piazze la comicità delle tradizioni e della cultura popolare. Lo chiamano cabaret ed è un esercizio in cui, per quanto si possa credere diversamente, un attore trova difficoltà uguali, se non maggiori, che interpretare un personaggio classico, perché far ridere, far dimenticare per una sera problemi e preoccupazioni alla gente, è ben difficile e impegnativo. Ritengo poi nobile compito rinsaldare i legami con le radici del territorio: perché senza radici non c’è crescita, non ci può essere solido e florido sviluppo. Ma dal Sud estremo del Salento, passando per la Roma spettacolare dei corsi e delle accademie, sono andata poi anche al Nord, quello del Piemonte dell’Anna Cuculo Group, dove ho continuato i miei studi, di dizione, di declamazione, e soprattutto, in questa fase, di recitazione della poesia, di quegli autori tanto citati, quanto assai poco se non per niente rappresentati. Nell’anno centenario della pubblicazione del manifesto del Futurismo, a Casale Monferrato, a Vercelli (e presto lo rifarò ad Acqui Terme, Asti e Pavia) ho recitato Filippo Tommaso Marinetti, ho fatto sentire la sua poesia: perché poi la poesia si sente, se c’è, si sente con la mente e col cuore e soltanto così esiste. Poi per me si è trattato di entrare nel mondo di questo Maestro del Novecento, di ricostruire il suo quotidiano per conoscere i suoi pensieri, le sue idee, per capirne fino in fondo il genio e analizzarne meticolosamente i contenuti. A me, giovane attrice, chiamata a reggere l’intera parte recitativa dello spettacolo originale, non è sembrata una difficoltà insuperabile, ma un nuovo esercizio mentale, che ha sicuramente arricchito e fatto crescere il mio “Teatro” interiore, in cui però già si annunciano nuovi fermenti. Sì, perché, mentre nei prossimi mesi farò il cabaret della cultura popolare e qualche incursione nella poesia futurista, in realtà quello che veramente farò nei prossimi mesi, dentro di me, è ben altro! Io viaggerò insieme a Pier Paolo Pasolini, ne subirò il fascino intellettuale, leggerò i suoi versi e litigherò con lui, lo amerò e ne sarò, sia pur a suo modo, amata: canterò le meraviglie dell’arte, della musica e della poesia, insomma, perché il prossimo anno sarò Maria Callas in una nuova performance teatrale che farà molto discutere in tutta Italia e io ho già cominciato a studiare la grande diva, quindi a cederle la mia mente, il mio corpo e la mia anima.
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L OSSERVATORE IN CAMMINO
Riflessioni Testimonianze
di Mauro Marino
“Ora ero malata” APPARTATA E INTROVERSA (“SONO SEMPRE STATA SOLA, COME UN GATTO”), LONTANA DALLE CONVENTICOLE LETTERARIE, SEGNATA PER TUTTA LA VITA DAL DOLORE E DALLA POVERTÀ (“SI SCRIVE PERCHÉ SI CERCA COMPAGNIA, POI SI PUBBLICA PERCHÉ GLI EDITORI DANNO UN PO’ DI DENARO”), ANNA MARIA ORTESE È LA MAGGIORE SCRITTRICE - ASSIEME AD ELSA MORANTE - CHE IL NOVECENTO LETTERARIO ITALIANO ABBIA ESPRESSO
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i sono molte suggestioni nel letterario utili alla cura. Parole, narrazioni, versi… Ci sono poi le vite degli artisti, la loro inquietudine che trova balsamo e ritiro nell’opera. C’è una traccia, nel lavoro del laboratorio di scrittura attivato nel Centro DCA di Lecce, che è stata illuminante: l’opera di Anna Maria Ortese. Il suo continuo “chiedere” alla “mancanza”, le folgorazioni teoriche che la scrittura di AMO dona al lettore.
illustrazione Annalisa Macagnino
“Ora ero malata” scrive Anna Maria Ortese in Dove il tempo è un altro, alla pagina 92 di Corpo Celeste. “Ora”, che non è ‘sempre’ e neanche ‘per sempre’. C’è in quell’“Ora” qualcosa che lascia sperare, che apre fessure, spiragli, possibilità. Da lì partire! È la possibilità il valore. Il voler andare oltre, il non fermarsi di fronte alla difficoltà, alla paura che rende inespressivi, muti. Ancora scrive: “Voglio sperare che, poco alla volta, le mie vertigini morali cesseranno, e così quelle della presente generazione. Ma ecco vorrei gridare a tutti – attraverso i colpi di martello che si alzano come una dolorosa musica da ogni parte dell’orizzonte – vorrei gridare: lasciate che gli uomini tutti creino qualcosa con le loro mani, o la loro testa, in tutte le età, e soprattutto nella primissima; che imparino le misteriose leggi della struttura e composizione estetica – prima di ogni altra legge – se avete a cuore libertà e società su questa meteora rapidissima che è il vivere, nel quadro di tutto il non-vivere (ma il duro sopportare) che appare l’Universo. Introducete l’Estetica e le sue leggi nell’ottuso e prigioniero vivere umano. Avrete introdotto libertà – sospensione del dolore –, eleganza, dolcezza” … “Ecco, ho finito. Ho finito anche di essere uno scrittore – se mai lo sono stata –, ma sono lieta di averlo tentato. Sono lieta di aver speso la vita per questo. Sono lieta, in mezzo alle mie tristezze mediterranee, di essere qui. E dirvi che è bello pensare strutture di luce, e gettarle come reti aeree sulla terra, perché essa non sia più quel luogo buio e perduto che a molti appare, o quel luogo di schiavi che a molti si dimostra – se vengono ad occupare i linguaggi, il respiro, la dignità delle persone”.
Chi è ANNA MARIA ORTESE, SCRITTRICE, È NATA A ROMA IL 13 GIUGNO 1914, ED È MORTA A RAPALLO IL 9 MARZO 1998. UNA SUGGESTIVA MEDIAZIONE TRA “IL RISENTIMENTO E IL SOGNO DI UNA SOCIETÀ FELICE, LA PENA DI VIVERE E LA PROIEZIONE FANTASTICA” PRENDE CORPO E LO SPERIMENTALISMO LINGUISTICO PRODUCE ESITI MEMORABILI.
“Uno scrittore-donna, una bestia che parla dunque” Anna Maria Ortese Corpo celeste, Adelphi
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L OSSERVATORE IN CAMMINO
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Scrittura fresca
Frastornata,
si ferma
Eugenia L’ago
A, come attenzione! G, come gioco! O, come ossessione! Una linea sottile, sottilissima che per anni ha tenuto il controllo della mia vita. Hai saputo gestirla a modo tuo, salivi, scendevi, risalivi. In alcuni periodi alleato e amico programmavi la mia giornata e io vivevo in simbiosi con te, di quel che mi costava fare per vederti scendere e io gioivo. Mi sentivo forte, ormai potente, era quel che desideravo: avere il controllo. Anni di estenuanti sacrifici Vivevamo, io e te nessuno poteva intromettersi. Avevamo un bel da fare: rinunce, sudore, isolamento, ossessione era questo il nostro mondo. Oggi non ti guardo, sono di spalle a te e spero che il giorno in cui riuscirò a guardarti sarò io la più forte. Sarai solo un semplice strumento che ha fatto parte della mia vita. Ti guarderò come un vecchio conoscente, a cui riservo rancore per avermi fatto perdere gli anni migliori della mia vita. La piramide
Tasselli uniti uno accanto all’altro, appoggiati l’uno sull’altro con tanta precisione per definire la piramide. Un’idea irreale di perfezionismo della mente offuscata da rabbia, rancore, tristezza. Nella mente la piramide è sempre presente e nel momento in cui qualcosa o qualcuno tenta di rovinarla è la fine. La piramide: sogno irrealizzabile! Non credo mai possa divenire realtà. Piramide uguale perfezione, ossessione, precisione. Vale la pena di vivere così? Spero che il giorno in cui essa Crolli, io riesca a viver meglio… ***
Roberta Poesia
Da trapezio a trapezio, nel silenzio dopo un rullo di tamburo d’un tratto muto. Perché alzo la testa, sento forse qualcosa? L’odio. Una smorfia di estasi amorosa mi deforma il viso. Cieco? Diciamoci la verità: sa creare bellezza. Ma la vita non è più. Da trapezio a trapezio, nel silenzio dopo un rullo di tamburo d’un tratto muto. Non c’è giorno che ritorni?! Dove siamo?
Siamo! Sicuramente qualcosa. Ma dove? In un groviglio di fili di lana, una matassa che un gatto sballottola di qua e di là. Frastornata si ferma. Calma. Ma dove? In un mare Non sempre agitato e in rivolta, spesso anche limpido e cristallino. Forse troppe poche volte, da non permetterci di guardare l’orizzonte piatto, oltre. Ma dov’è oltre? Oltre tutto e tutti, ma di preciso non lo so. Una luce mi riscalda e mi conforta, mi apre gli occhi, mi tranquillizza; mi spinge a camminare in avanti nuotare verso l’orizzonte, oltre, verso di me. La farfalla
Lei urlava, correva, anzi cercava. Cercava qualcosa che non vedeva, non sapeva. Cercava imperterrita E contro il vento si dimenava. Le sue ali sbattevano veloci Emanavano un profumo dolcissimo, colorato di giallo, rosso e blu. La farfalla amava la vita e la rincorreva. ***
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L OSSERVATORE IN CAMMINO
Laura Gioco di luce
Nuovo Il profumo dell’aria. Strano Quel raggio di luce che era lì A due passi da me, dipinge e riveste un tenero fiore. Corre Il vento tra i rami… I suoni scalpitano, si confondono …sovrappongono, si fondono …non si distinguono più. Non c’è spazio per un io solitario. Non un’isola Senza il suo mare. Nuovo Il profumo è nell’aria. Strano quel raggio di luce, che lì Ad un passo da me Ora mi avvolge e stravolge i pensieri. Sono luce anch’io. Questo gioco ormai mi appartiene. Mi basta uno sguardo e tutto riluce. Non c’è spazio. Viaggiare
Non è forse la vita un breve viaggio per una meta oscura? Irrefrenabile il desiderio di muoversi, conoscere, scoprire il mondo. Viaggiare per incontrare qualcuno o per abbandonare qualcun’altro, per lenire un dolore o per dar sfogo alla rabbia, per aiutare il prossimo o per farsi aiutare. Viaggiare per non saper attendere o perché abbiamo atteso troppo, perché si è amici o per fare nuove amicizie. Uno spirito pensante viaggia attraverso il tempo, in uno spazio chiuso eppure senza confini, nella memoria perenne, come in un attimo fuggente. Sul binario della vita, all’improvviso, un treno tanto atteso appare… e invece di trovare una risposta, si riparte nuovamente dal quesito. A che giova viaggiare Per dover tornare, muoversi … e ritrovarsi alla partenza?
Dove siamo
Pensieri, convinzioni. Grattacieli costruiti per raggiungere dei sogni, tunnel scavati per trovare vie d’uscita. Scappare. Affannarsi per raggiungere una meta. Dove siamo? Lo ripeto, dove siamo? Punto e… a capo. Piccoli punti sulla Linea della vita. Una sola direzione. Non si può tornare indietro, basta solo ricordare, imparare a camminare. Dove siamo? Non possiamo controllare ogni nostro spostamento, la vita va da se… e noi ne siamo parte. Ora siamo, siamo e basta. Piccola stella Pensava, piangeva, moriva. Aveva fame d’amore La stella che piano Se stessa tradiva. Abbagliata dal suo stesso splendore Vedeva distorta la sua parte migliore. Gridava, temeva, mentiva. Non aveva calore da dare a colui Che del suo amore gioiva. Sorridi a te stessa, senza mentire. Piccola stella puoi ancora guarire.
Alla fine di questo travagliato viaggio, è vera gioia quella d’aver forgiato bei ricordi… nella certezza d’aver vissuto, vissuto veramente. Piccole eternità
illustrazione Alessandro Colazzo
Una goccia d’inchiostro, perché ci si inginocchi per il via, perché si scatti alla partenza. Non una cosa avverrà se non voglio, poi tutto corre solo, si dilata… ma un batter d’occhio durerà finché lo dico. Piccole eternità fermate in volo. La compassione è mai giunta prima al traguardo? Paura e incertezza, ci sei, ma passerai e in ciò sta la bellezza.
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L OSSERVATORE IN CAMMINO
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Testimonianze
di Irene Leo
Incontro ravvicinato del terzo tipo (OVVERO: FOLLEMENTE FORTISSIMAMENTE VOLLI, POESIA)
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o sempre creduto per una qualche ragione, che la Poesia fosse un tassello mancante. Sì, la spiegazione lecita alla mancanza di un qualcosa, il completamento estremo di quel vivere in maniera terrena. Mi pongo domande, senza risposte, e mi porgo vedendomi da lontano. E mi vedo. E vedo il tutto. Chi siamo noi in fondo? Veniamo al mondo posando subito il piede sul freddo grigiore che ci nega il desiderio più aulico e grande, per il quale venne buttato giù una volta, un angelo negli inferi, probabilmente. Cerchiamo disperatamente il lato diverso delle cose, l’impossibile, l’irraggiungibile e miriamo da lontano l’aguzzo ago che fa scoppiare gli occhi degli altri, sperando non ci tocchi mai. Non troppo. Fredda lancetta che avanza inesorabile sotto i polpastrelli come una firma materica scavata nella carta bianca di un tempo, ora gialla, ora ferma, ora senza il movimento di un moto perpetuo. Fingiamo di non capire noi, e su di un asse poco dritto restiamo in equilibrio prima di vedere il baratro, appena, di ciò che siamo e vorremmo essere. La nostra pochezza è mascherata spesso da malinconie e cose non dette, ci vestiamo il capo di ottimi cappelli, ed ombrelli là sulle labbra, tutto deve rimbalzare via, tutto deve essere perfetto, tutto deve
essere l’inganno meraviglioso di un sole che sorge ad ovest. Ci contiamo le dita, alcuni esclamano di averne sei per mano, e sono quelli più furbi e più veloci. Altri non hanno mani. La coscienza dei nostri limiti è pesante come una spada rovente sul respiro, sul petto, sulle carni nelle vene e punge squarta, trafigge, crocifigge. Non potendo noi condannare noi stessi puntiamo il dito verso il vuoto degli altri. Non sappiamo, o si ...non immaginiamo nemmeno cosa si cela nell’altrove... In quel verso sbiadito e caduto da qualche bocca, appena maturo, c’è il senso più grande di un senso qualunque, quello dell’eterno che si racconta e ci dice che tutto è di più di un volo di gabbiano. Attorno a quell’aria smossa da una penna, si smuovono anche forze distruttrici dal valore più sotterraneo e violento. La vedo con sguardo nuovo ed innamorato, ella è crudele, ed è il boato di un’addio, l’acqua di un’ onda, la smorfia di dolore di una madre, l’assenza di chi non c’è, la presenza viva e ritmata del cuore, la gioia perversa di una farfalla, ella è... Non v’è poesia che non sia sussulto sferico di particelle non tangibili, matassa aggrovigliata di energia scomposta pronta ad esplodere... la senti, la avverti che si dipana nel tempo, strappandolo, ponendosi
Libri È USCITA IN QUESTI GIORNI PER I LIBRI DI ICARO, LA RACCOLTA DI VERSI “VIE FUGGITIVE” DELLA GIOVANISSIMA MARTA TORALDO. “LEI È DICIASSETTENNE. GUARDA E SOGNA. CONFONDE SMARRITA E TROVA, CONTINUAMENTE TROVA SUSSURRI NELLA PAURA DI TROVARSI”.
UNA POESIA DELLA GIOVINEZZA
di Mauro Marino
C’è una poesia della giovinezza? Il disagio sappiamo muove i volti. Toglie le parole. Ed è “santo” chi tenta, oltre il silenzio! Abbiamo amato i poeti adolescenti! In quelle tensioni, ancora, nonostante il tempo, ci riconosciamo. In quelle interrogazioni. In quel non sapere. In quell’astrazione di speranza. I versi di Marta* sono pieni di questo “non so”. Del “ma” che apre,
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al di là del tutto umano che possediamo. Insegna che nei capelli l’aria o il profumo del mare rimangono eterni, anche se i capelli cadranno e saranno bianchi e sbiadiranno dentro angusti spazi orizzontali maleodoranti. Ho sempre pensato che nel mio essere solo un errante passeggero, dovesse esserci una verità nel camminare a piedi nudi sulle spine vetrose. Ho depositato da tempo cappelli ed ombrelli, in cambio della mia pelle, del dono della parola, quale complementarità più grande, oltre me. Ho compreso che il tempo della poesia non esiste, perché sarebbe confinarla, sarebbe ucciderla, ella è orfana di Cronos. Esiste il tempo degli esseri viventi che alla poesia anelano, quale unica eternità. Ho avuto modo di capire. Accade per caso, ammesso esista il caso. E si sa. Si comprende, o ci si avvicina alla comprensione. “Voglio mostrarti una cosa!” La voce di Antonio, (Natile, il mio compagno) ha un solo colore chiaro netto e preciso, i suoi occhi specchiano la sua emozione. Mi porge una sorta di contenitore di cartone, piuttosto spesso. Una cartellina tenuta insieme da un legaccio di fortuna. Ha un odore di cantina, di cose perdute e mai ritrovate, eppure pare come amica alle mie mani che ne slacciano i legacci. Fogli, innumerevoli fogli di poesia e poeti, voci, anime e pezzi di stomaco, pelle vita qua e là... e poi su tutto il piccolo cielo di una pagina, ed una scritta in blu. Ho toccato il solco della penna di Antonio Verri, la sua firma, una dedica scritta di suo pugno su una copertina, un giorno, sul numero di una
rivista conservata nella biblioteca che frequento. Ballyhoo la rivista (“Pensionante de’ Saraceni”), numero speciale, custodita presso l’archivio della poesia pugliese, nella biblioteca comunale di Noci. Mi sono ritrovata a pensarci su estraniandomi. L’illuminazione è stata come uno scossone nelle mie visceri. È stato un attimo breve ma altrettanto lungo, uno scambio di visioni tra me che sono qui, e l’eterno che è altrove. Scorrendo tra le pagine e le scritture colorite, per osmosi ho ascoltato silente nel massimo rispetto una tagliente polifonia. Ho passato due ore cercando di cavare dalla carta, il profumo, l’essenza, l’anima del tutto. “Fate fogli di poesia poeti...”, diceva, ma solo ora ho compreso il perché. Ora che quella spada mi ha trafitto la gola completamente, ora che la ferita è diventata feritoia... solo quando Poesia si è impadronita pienamente di me. Ella è il tassello mancante, tra me e la luna, è l’eternità che non si fa possedere, ma possiede. L’unica Follia che colora le mani...oltre le mani stesse. Lo starnuto in una costellazione di quieti pensieri. (Ho guardato Antonio ed ho chiuso gli occhi, prima di riaprirli in un sorriso nuovo). P.S. Non ho nessuna indicazione stavolta per te caro lettore, scrivi, leggi, pensa, e vivi i tuoi pensieri. Sarà Poesia.
Chi è IRENE LEO POETESSA E BLOGGER SALENTINA. DA BESA, NELLA COLLANA POET/BAR LA SUA PRIMA RACCOLTA DI VERSI ‘SUDAPEST’.
schiude e leggero tenta la possibilità. Scrivere è cercare di spiegarsi la vita, il suo torto divenire. La contemporaneità con le mancanze, le nostalgie, le piccole e grandi ferite. La poesia è pharmacon. Cura. Celebrare le parole, trovargli un suono, armonizzarle al respiro. Quante scoperte! Asciugare il senso. Farlo il senso, aspettarlo nelle pieghe delle parole. Inatteso nelle sospensioni, nelle pause, negli a capo. Punteggiature di respiro, affinano il ritmo. Limarlo, come spolvero fine che scopre l’essenzialità. Ecco, la poesia è canto essenziale, sobrio. Umile dono alla voce. Lei è diciassettenne. Guarda e sogna. Confonde smarrita e trova, continuamente trova sussurri nella paura di trovarsi. Marta scuote, non vuol essere muta, guida il gridare, l’urlo che altri vestono, agghindano, tradiscono! I ‘pari’, con la loro cruda pelle. I ‘pari’ che già mostrano di sapere, navigati nei pochi anni spesi ad assomigliare. Quanta fragilità smarrita, inesorabilmente persa. Lei no, ne fa ricchezza, ne fa parole, versi. Tentativi d’armonia. * Marta Toraldo - Vie fuggitive è edito da I libri di Icaro
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Tema
fotografia Nader Ghavami
di Elisabetta Liguori
La vecchiaia cancellata I VERI VECCHI SONO DIVENTATI UNA RARITÀ! LA VECCHIAIA È SCOMPARSA DALLE FACCE DELLE DONNE, DALLA TELEVISIONE, DALLA COMUNICAZIONE DI MASSA. È FORSE FINITA NELLA LETTERATURA? CAMILLE DE PERETTI È GIOVANISSIMA EPPURE LE SUE DONNE IN ‘PRIMA CHE VENGA LA NOTTE’ EDITO DA FRASSINELLI, SONO ULTRA NOVANTENNI
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er un giorno lasciatemi andare contro corrente, come una carpa che a fatica risalga il fiume. Lasciatemi dire che ho da poco finito di leggere Prima che venga la notte, recentissimo romanzo della scrittrice francese Camille De Peretti, la quale, prima di questo per Frassinelli, aveva pubblicato per Mondadori un piccolo saggio romanzo sull’anoressia e sulla bulimia ed è quindi una che di corpi di donne s’intende parecchio. L’ho appena finito e lasciatemi dire che, nonostante il tema, mi sento soddisfatta. Lasciatemi dire che il tema di questo romanzo sono i vecchi e la vecchiezza. Un tema fuori moda. Contro corrente, appunto. Ma cosa c’entra con la vecchiezza il corpo delle donne? Sono certa, il nesso c’è. Lasciatemi spiegare. L’idea e la verità della vecchiaia cancellata Mi piace l’idea di accostare questo romanzo ad un documentario sconvolgente che da giorni viaggia nel web, dal titolo Il corpo delle donne, frutto dell’osservazione acutissima di Lorella Zanardo, giornalista, consulente organizzativa e docente, che scrive e si occupa di tematiche legate al femminile, particolarmente interessata ai movimenti delle donne del Sud del mondo. In questo documentario si denuncia l’uso che da anni viene fatto dell’immagine femminile. Uso che ha cancellato dalla nostra esistenza l’idea e la verità della vecchiaia. Fotogramma dopo fotogramma. Sì, dice la Zanardo, la vecchiaia è scomparsa dalle facce delle donne, dalla televisione, dalla comunicazione di massa. È forse finita nella letteratura? Camille De Peretti è giovanissima eppure le sue donne sono ultra novantenni. Che tipo di scelta è la sua? Si potrebbe pensare che un romanzo ambientato in una casa di riposo, tra bavosi malati di Alzheimer e arteriosclerotici quadretti, possa essere di una noia mortale. Non è così. C’è più vita in questo romanzo di quanto si possa immaginare. Un fermento, un brulicare grottesco e commovente di medici, infermieri, pazienti, nonni, parenti e visitatori. Davvero difficile immaginare il turbinoso mondo che si cela dietro l’apparente tranquillità senile: storie intricatissime di amori clandestini tra arzilli ottuagenari, liti interminabili tra signore cotonate, progetti di evasione, menzogne mirabolanti e insospettabili intrighi con le infermiere. In altre parole: vita. Un’alternativa a quella che la società globalizzata e monotematica ci
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propina da anni. Vita e verità. Perché le facce delle donne della De Peretti (e dei suoi uomini) sono facce vere, o almeno è così che io, da lettrice, le immagino. Facce per le quali il ricorso alla chirurgia estetica non abbia cancellato ogni segno del tempo, come invece accade sotto i nostri occhi quotidianamente e con effetti devastanti. Quella della De Peretti è quindi una scelta divergente. Un effervescente romanzo Divertente e tenero al contempo, questo suo effervescente romanzo si svolge tutto in un giorno e in un solo luogo, raccontando come sono i nostri nonni, e come saremo (o dovremmo essere) noi. Nell’allegro istituto per anziani Begonias, alla periferia di Parigi accade di tutto. È giorno di festa. Sin dalle nove del mattino, sul linoleum tirato a lucido, tra le piante di plastica verde, scivolano rotelle e pantofole felpate, in un via vai di messe in piega virate al rosa, sgargianti abiti a fiori e golfini fatti a mano. Fervono i preparativi di una stralunata compagnia che attende le visite settimanali della famiglia, per tenere vivo il contatto con il mondo esterno. Un universo a parte che conserva, nutre, agogna relazioni. Quello che stupisce di questa narrazione piena di brio, però, non è la personalità autentica e forte di questi vecchietti apparentemente fragili, né la loro struggente e vitale allegria. Quello che sorprende è che siano stati relegati ad un’eccezione sociale e geografica, a fenomeno da baraccone. Il cinema e la vecchiaia, due film Anche il cinema ogni tanto riflette sulla vecchiaia, ma anche in questo caso pare dover sfondare barriere d’acciaio. Si pensi a pellicole recentissime come Settimo cielo o il Pranzo di ferragosto. Nella prima, tabù si aggiunge a tabù. Sesso e terza età, cosa c’è di più osceno? Contro il film di Andreas Dresen, infatti, già si grida allo scandalo in Germania. Davanti alla passione tra due individui mollicci, le guance appese, la pelle cadente e flaccida, il triplo mento, le tette sciolte, gli occhi annegati tra le rughe, il pubblico vacilla. I due fanno l’amore con le dentiere e le membra tenute insieme con gli spilli, ma è bello e dolce. Come è possibile? Due vecchi cuori e due vecchi corpi: un duro colpo per il comune senso estetico. Nella seconda pellicola, è l’amore tirannico tra una madre più vecchia del cucco e il suo attempato figliolo il tabù da abbattere. Quella di Gianni di Gregorio, regista romano, è pura denuncia sociale. Sembra si parli di alieni sbarcati per caso in un condominio assolato in un ferragosto romano. L’autore racconta quella che è stata la sua personale esperienza di figlio con madre vedova a carico. Tiranneggiato dalla genitrice, nobildonna decaduta, il protagonista trascina le sue giornate fra le faccende domestiche e l’osteria. Il giorno prima di Ferragosto l’amministratore del condominio gli propone di tenere in casa la propria mamma per i due giorni di vacanza. In cambio gli scalerà i debiti accumulati in anni sulle spese condominiali. Gianni è costretto ad accettare, ma a tradimento, l’amministratore si presenta con due signore, invece di una, perché porta anche la zia che non sa dove collocare. Gianni, travolto e annichilito dallo scontro fra i tre potenti caratteri, si adopera eroicamente per farle contente. Quando infine accusa un malore e chiama un amico medico, quest’ultimo lo tranquillizza ma gli lascia in cambio pure la sua vecchia, giusto per quel giorno di festa. È il trionfo di una generazione sull’altra. Quanto più il protagonista della storia sembra rassegnato, tanto più l’osservatore si sente stranito e il suo stupore è lo stesso che ogni tanto ci capita di provare di fronte a certe verità oggi mistificate. Mettiamo il caso: davanti al viso rigoroso e divergente di Rita Montalcini, per esempio. La vecchiaia è, esiste Insomma, come dice anche la Zanardo: i veri vecchi sono diventati una rarità. Non siamo abituati a guardarli in faccia. Con un minimo di attenzione tutti potremmo essere in grado di constatare che le donne, le donne vere (ma non solo le donne a mio avviso), stanno scomparendo dalla tv, dalla comunicazione, sostituite da una rappresentazione grottesca, volgare e umiliante. La perdita è enorme, ma probabilmente talmente subdola e serrata, da non essere percepita in tutta la sua gravità. Stiamo dimenticando la vecchiaia ed è come se, con quella, stessimo rinnegando il tempo, l’identità, l’evoluzione. Solo quando ce la ritroviamo per caso davanti, sia un film, un libro o una vecchia fotografia, ce ne rendiamo conto. Con questo non voglio dire che la vecchiaia sia una bella cosa, è chiaro, voglio solo dire che la vecchiaia è. Esiste. È un
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Testimonianze peso (soprattutto per chi vecchio ancora non è e vuol giustamente vivere la sua vita), è una tristezza, è un pensiero, è una conquista, è una faccia, molte facce. Ancor più triste è pensare che, dinanzi a questa imposta censura sociale, nessuna forma di ribellione sia messa in atto. Neppure ipotizzata, vagheggiata, desiderata. Né tra gli uomini, né tra le donne. Non credo che il punto rilevante sia stabilire se gli interventi chirurgici rendano più o meno belle le persone (uomini e donne che siano). Né perché si desideri sottoporsi agli stessi. Il punto è che sta arrivando il momento di chiedersi: quali effetti scaturiranno dalla rimozione delle nostre facce? Della nostra età, del nostro passato, della nostra vecchiaia? La domanda è profonda e investe le relazioni sociali che formano il tessuto di una società. Ancora una volta lo sforzo della risposta sembra essere stato delegato alla letteratura ed io, da lettrice affamata quale sono, un po’ me ne rallegro, molto me ne dolgo. Camille e Nini Si chiede la Zanardo: se i nostri volti scompaiono, dove reperire i segni della pietas, quella comprensione umana, di cui oggi c’è tanto bisogno? Leggere la storia di Camille alle prese con la sua amata e odiata Nini, despota settantenne su sedia a rotelle, potrebbe aiutarci a capire. Nini è quella che adora i cani pulciosi, che lascia tutto in disordine nell’ospizio come nella sua vecchia casa abbandonata vicino al bosco di betulle sempre gravido di ricordi; quella che grida “a lupo a lupo” perché già sa che morirà da sola; quella che fuma come una turca e si scatena nel turpiloquio anche soltanto se le va di bere una Coca; Nini, mia Ninotchka, che raccontava a memoria il poema tedesco dal titolo Il re degli elfi alla sua figlioccia Camille, chiamandola signorina Logorrea. Lei è quella che ci fa ridere e insieme rabbrividire. La sua storia, la sua faccia, forse potrebbe aiutare, ma potrebbe, io temo, anche non bastare affatto. fotografia Nader Ghavami
Chi è ELISABETTA LIGUORI SCRIVE DI SÉ: SONO NATA A LECCE NEL 1968, QUI LAVORO E VIVO E NON SOLO DI SCRITTURA, MA QUASI. È COMINCIATA CON UN CONCORSO LOCALE. POI LA GENTE, I RINCALZI, I GIORNALI, LE RIVISTE, IL PRIMO ROMANZO E POI IL SECONDO. COSÌ, TUTTO QUELLO CHE SEMBRAVA FORTUITA SOLITUDINE, È DIVENTATO IPERSOCIALITÀ. INVENTO STORIE PER NON STARE SOLA MAI PIÙ. IN PIÙ: IL PRIMO ROMANZO IL CREDITO DELL’IMBIANCHINO (ARGO) È STATO FINALISTA AL PREMIO BERTO E IL PREMIO CARVER 2005. NEL 2007 PER LA CASA EDITRICE PEQUOD È USCITO IL CORRETTORE UN LIBRO DENSO DI SUSPANCE DOVE “LA VERITÀ SEMBRAVA UN OGGETTO PER POCHI, COME CERTE STATUE SACRE SOTTO LA LORO ANTICA CAMPANA DI VETRO”. COLLABORA CON RIVISTE LETTERARIE TRA CUI NUOVI ARGOMENTI E IL QUOTIDIANO IL PAESE NUOVO.
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Racconto
di Lara Esposito
Viaggio in famiglia IL RACCONTO INTIMO DI UN LUNGO ADDIO. SUL FILO CHE SEPARA LA VITA DALLA MORTE DEL NONNO, UNA FAMIGLIA SI RIVELA A SE STESSA E UNA DIMENSIONE NUOVA PRENDE FORMA. IL DISTACCO TRAGICO E DOLOROSO LENTAMENTE DIVENTA ESPERIENZA PREZIOSA
*** Mi basta entrare in macchina e parlocchiare un po’ per sentirmi finalmente al mio posto. Sono rientrata da pochissimo nel mio mondo, nel ruolo che avrò in questi giorni, ed è bene riabituarsi subito. La situazione è difficile, nonno è in ospedale, è grave, molto grave, e come è successo un anno fa con nonna, mia zia Marianna, infermiera, non riesce a evitare l’accanimento terapeutico. È un modo per placare i suoi scrupoli, i suoi sensi di colpa conturbanti e implacabili che, insieme alla rabbia e alla sensazione di essere
sempre gli ultimi tra gli ultimi, caratterizza quello che rimane della famiglia di mia madre. Mio zio, l’unica persona veramente lucida in mezzo a tre sorelle un po’ troppo confuse, è d’accordo con me: nonno ha un tumore ed è in stato terminale. Non c’è molto da fare se non cercare di alleviargli qualche sofferenza, di stargli vicino e fargli sentire tutto l’amore che possiamo. Tutto il resto è solo un modo per allungare una condizione che nonno Giuseppe, 70enne sempre in giro in bicicletta, anche con la neve, nel mio ripido paesino di montagna, non riuscirebbe a sopportare. Mia madre, reduce da un anno di separazione forzata e disperata dopo anni vissuti accanto a un uomo fin troppo inquieto, ha riplasmato la sua vita aggrappandosi alla forte figura di zia Marianna, la più grande ma anche la più scontenta della vita, la più negativa, la più polemica. A questo terzetto si aggiunge zia Francesca che anni di soprusi e di totale mancanza di considerazione e di rispetto da parte di marito e figli, hanno reso realmente un po’ tarda. Ogni volta che ricostruisco questo quadro mi sembra sempre più triste e grottesco e riconosco l’inquietudine che accompagna i miei ritorni a casa. Certo, sento spesso la nostalgia della mia terra ma mai della mia famiglia intesa come un insieme. Mi manca mia madre, mia sorella, mio zio, i cuginetti, il mio cane, ma mai la mia casa, mai l’idea di un nucleo affettivo. Forse perché non lo riconosco o forse perché ho passato troppi anni a disconoscerlo dentro di me per riuscire a viverlo in maniera equilibrata. Torno a casa, il mio cane mi fa mille feste, è incontenibile – e mia madre sempre più stanca. Guardandola sento che non ho ancora pensato realmente a nonno, non riesco a realizzare il perché del mio ritorno improvviso. La mattina dopo tutto precipita.
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eanche il tempo di disfare il borsone e da Lecce devo nuovamente ritornare a casa, in Calabria. Mio nonno sta male ormai da giorni e in queste situazioni la lontananza è ingestibile. Durante il viaggio in pullman con difficoltà riesco a realizzare cosa mi aspetta: non sono triste, non sono preoccupata, ho in testa le tante cose che dovrò affrontare ora che finalmente ho finito l’università: il lavoro, i soldi, i progetti, le paure. Intanto leggo Camere separate di Tondelli ma non riesco a concentrarmi per più di venti minuti consecutivi. Arrivo a Cosenza sul tardi e passo la serata con degli amici a raccontarci la vita, a ricordare Cosenza nei suoi anni d’oro e a prendere in giro Lisandro e i suoi approcci maldestri alle cameriere della zona. Mi sembra tutto lontano, sia Lecce che Decollatura. Cosenza si è trasformata dalla mia unica casa, dal mio rifugio, in un luogo senza tempo dipinto dagli stessi colori di quando l’ho lasciata e che, anche se non riesco ad accettarlo, va avanti anche senza di me. Il giorno dopo girovago un po’ e parlo con Paco del mio progetto a scuola nell’attesa dell’autobus che mi porterà a Lamezia Terme, dove c’è mio zio che mi aspetta di ritorno dall’ospedale.
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Sul presto arriva una telefonata di zia Marianna dall’ospedale: nonno è sempre più grave, è il caso di dimetterlo. La notizia arriva come un fulmine a ciel sereno, e questo mi turba enormemente: sembra che nessuno sia preparato all’evento. Le telefonate si inseguono e dopo un po’ di indecisioni, mia madre parte per Lamezia Terme con l’ambulanza e io, mia sorella e mio zio decidiamo di andare a sistemare la casa dei nonni. È un anno che sta chiusa, da quando mia nonna ci ha lasciato. È la casa dei giochi, quelli poveri e sorridenti, la casa dei rifugi, delle polpette e della fragranza di fagiolini e carne. Ora è polverosa e l’odore di chiuso ristagna dappertutto, dove forse qualche topo ha trovato riparo per l’inverno. Ripulirla è una corsa contro il tempo: l’ambulanza sta per arrivare e non c’è neanche una stanza preparata ad accogliere nonno. Arrivano ad aiutarci anche i miei cuginetti di 7 e 10 anni, Giovanni e Simona. Sembra già tutto surreale, far rivivere un posto dopo tanto tempo per accogliere un evento così triste. Simona e Giovanni sembrano due piccoli adulti e l’intera situazione acquista subito una dimensione quasi ludica.
to i ricordi di Simona e Giovanni: dietro la loro voglia di atteggiarsi a grandi si nascondono comunque due bambini impauriti. Iniziamo così a giocare. Ci promettiamo di dimenticare il nonno per come lo stiamo vedendo ora, con i tubi, magro magro, incosciente. Il nonno è sempre stato il più forte di tutti, ci sollevava con una mano sola, portava con la sua mountain bike (alla quale neanche riusciva ad arrivare!) buste e buste di spesa, a volte anche le casse d’acqua. Il gioco è semplice: è un lavoro sui nostri ricordi. Dobbiamo sforzarci di imprimere nella mente le cose più belle che abbiamo vissuto con nonno, dai racconti sulla sua infanzia e sulla guerra, ai suoi stornelli, ai suoi detti, ai momenti insieme, come la pizza al sabato sera o i succhi di frutta che ci portava dal circolo quando vinceva giocando a carte. L’unico modo per sorridere all’inganno della morte che incombe è trasformare quel dolore in vita, in banalità, in un pensiero leggero. Il lavoro più complicato è ricordare gli stornelli. Li ho ascoltati così tante volte, distrattamente, da averli dimenticati. Ma ce ne è uno in particolare, una strofa dedicata a mia nonna che riesco a recitare ancora…Amuri Amuri chi m’ha fattu fari…de quindici anni m’ha misu in pazzia…si muaru mindi vaiu in paradisu…si nun ce truavu a tie nemmeno ce trasu… La canto ai miei cuginetti che sorridono divertiti immaginando nonno e nonna incontrarsi lassù da qualche parte.
*** L’ambulanza arriva presto e da quel momento il gioco finisce. Nonno è in coma, il suo respiro è lento e affaticato, sciupato in viso, le braccia e le gambe piccole piccole. Le flebo si susseguono l’un l’altra. Dal momento in cui l’ambulanza arriva a casa la sensazione di vivere una storia surreale diventa sempre più nitida. Non mi era mai successo di aspettare la morte, vegliarla e assisterla, rimanere incastrati in una dimensione spaziale e temporale totalmente nuova. È sabato e siamo tutti là. Mia madre, mia sorella, le mie zie, mio zio, mia cugina e i miei cuginetti piccoli. È come se tutti avessero bisogno di stress, di frenesia, per evitare di fermarsi a pensare, a guardare. È vitale trovare qualcosa da fare: curare il giardino abbandonato a se stesso da tempo, sistemare la casa, ripulire la veranda, ordinare vestiti, ecc. Io e i miei cuginetti piccoli rimaniamo accanto a nonno per tutto *** il pomeriggio. Lui non ci sente, Le ore passano, il respiro di nono forse si. Mi preoccupano mol- no è sempre più affaticato e piano
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illustrazione Iroki
piano ci abituiamo al suo ritmo cadenzato, come un suono uguale a tanti altri. La casa inizia a rivivere, si pranza e si cena tutti insieme, si guarda la tv e gradualmente il clima si scioglie. È passato un giorno, siamo tutti accampati lì e l’atmosfera è sempre più ovattata. Il tempo scorre ma rimane appeso, scorre il tempo di questo corpo in lenta distruzione che abbiamo davanti, ma il nostro tempo rimane sospeso, come un respiro mozzato in attesa. L’attesa è l’unica ragione di questi giorni e in maniera del tutto naturale questa strana veglia diventa lo spazio di discorsi, risate, confidenze, racconti. Le ore e i giorni passano e lentamente scopro parte del mio vissuto, ascolto le confidenze e gli sfoghi delle mie zie, ricostruisco pezzi e rimonto i tasselli della personalità di chi mi circonda. E così scopro che, proprio come nelle soap opera sudamericane che passano sulle tv locali, i matrimoni delle mie zie sono tutti in qualche modo imposti. Zia Francesca si pentì qualche giorno prima di sposarsi di questa scelta, sentiva che lo zio non era fatto per lei ma rinunciare all’ultimo momento non era possibile. Una vergogna troppo grande per quegli anni tanto che mio nonno sarebbe stato costretto a disconoscerla o chissà che. Quindi ha detto sì e lentamente si è abbandonata a una vita non voluta fin dall’inizio, fino a lasciarsi opprimere da figli e marito in maniera inesorabile. La storia di zia Marianna, la più grande, la più insoddisfatta, la più polemica, la più incattivita con la vita, non è da meno: un amore stroncato dalle differenze sociali quando aveva 15 anni perché lei era troppo po-
vera per lui e la madre si oppose al loro legame. Ecco spiegato il perché di tanta scontentezza, del perché nonostante abbia due figli straordinari, un bel lavoro e nessun vero motivo per essere insoddisfatta, rigetta tutto ciò che ha: quella vita avrebbe voluto averla con qualcun altro. Storie che si ricostruiscono lentamente, che si plasmano attraverso parole mozzate, confidenze a metà figlie di un momento di fragilità. Gente che va e viene, visite, racconti e storie si rincorrono per ore e ore e la necessità di passare il tempo diventa scoperta e stupore. Così scopro che i nonni appena sposati, dopo la classica fujuta per evitare di pagare la dote, hanno cambiato casa almeno 4 volte. Case senza bagni, in mezzo agli animali, tutti insieme in una sola stanza. Capisco solo ora il senso delle parole di mio nonno «io il salto nella mia vita l’ho fatto» e la loro casetta sgarrupata, con il pavimento spaccato e le formiche dappertutto, mi sembra ancora più accogliente. Intanto il respiro è sempre più rallentato: sono passati 4 giorni e la forte fibra di nonno resiste ancora, nonostante un quadro clinico devastante. Ogni giorno è diventato uguale e diverso, scandito dal ritmo del respiro, il rumore continuo del materasso antidecubito e dalle nostre parole. Si ride, si scherza, si parla degli argomenti più disparati, di robotica, di religione, di scienza e medicina, di vestiti, si raccontano aneddoti, si spettegola. Intanto anche fuori dalla finestra il tempo sembra sospeso: siamo agli ultimi giorni di aprile e fuori c’è la tempesta, la grandine, il vento e fa freddo. Mi piace questa dimensione. È nuova e intensa, dolorosa ma energica e so che quando sarà tutto finito questo vissuto surreale mi avrà lasciato qualcosa dentro che va al di là della perdita di mio nonno. Martedì, dopo varie indecisioni, riparto per Lecce. L’attesa sta diventando ingestibile e ho degli impegni urgenti da rispettare. So che quando tornerò quel nuovo microcosmo che sì è creato sarà sgretolato e inizio a sperare che questo momento arrivi presto. Ogni filo con quella casa, con quei ricordi sarà spezzato ma, forse, non avevamo mai assaggiato davvero il sapore forte della famiglia, dell’appartenenza.
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Cinema
di Letizia Avantaggiato
Il matrimonio di Rachel DUE SORELLE, UN MATRIMONIO E LA RESA DEI CONTI. DUE STORIE OPPOSTE E PARALLELE, DUE DONNE CHE, NEL MOMENTO DEI FESTEGGIAMENTI E DEI RITI, SI GUARDANO IN FACCIA E SI SPUTANO ADDOSSO LE VERITÀ NASCOSTE DA UNA VITA, IN UN FILM DI JONATHAN DEMME
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achel sta organizzando il suo matrimonio. Kimberly è in riabilitazione. Lei è psicologa quasi abilitata, l’altra è in permesso dalla clinica di disintossicazione. La “perfetta” trascurata dal padre, la malata, abbandonata dalla madre. Due solitudini, due speranze, due storie, un destino.
Perché tu me lo affidavi? lo sapevi, lo sapevate tutti. La gente ve lo diceva. Ero una tossica fuori di testa. Ti derubavo, ti mentivo spudoratamente, pesavo sei libbre, mi cadevano i capelli, passavo tutte le cene nel bagno. Tu eri malata! No, tu lo sai cos’era. Restavo in camera per giorni, svenivo continuamente. Ma che pensavi? Perché mi hai abbandonato? Io ero lì, non ti ho abbandonato. Per quale motivo lo affidavi a me? Perché tu eri brava con lui. Mamma, mamma perché lasciavi che una drogata sorvegliasse tuo figlio! No! Tu eri brava con lui! Tu eri al tuo meglio con lui! Come potevo aspettarmi che tu lo uccidessi, tesoro! Non ti ho chiesto di uccidere! O dio! O dio!
Il primo schiaffo. Kim cade sul divano. Si rialza. Risponde con forza. Entra in macchina. Preme l’acceleratore. Finisce contro un albero. È la resa dei conti. Il gioco delle recriminazioni, delle vane attese, degli affetti puntualmente traditi. La disperazione non ha più voce. È un sordido, acuto, straziante dolore. Chi potresti mai essere? Hai sacrificato un brandello d’amore in questa vita. Puoi anche diventare Madre Teresa, ma il passato non si cancella, dagli errori non c’è ritorno. Il mondo gira, il sole continua a sorgere. Tu sei lì, lui no. Cosa potevi fare? come potevate badare a voi stesse se le urla, le liti, i rimproveri vi incatenavano come ombre a un matrimonio ormai finito? Ma ora te lo devono: è il tuo matrimonio, Rachel. Non immagini che luce irradiano i tuoi occhi quando indossi il tuo sarong ecrù per l’ultima prova, prima del grande giorno. Hai fatto tutto da te, ogni dettaglio organizzato con cura: gli abiti per le damigelle, il banchetto, la casa in festa. Per un solo giorno passato e presente si terranno per mano senza rancore, senza rimpianto, per un solo giorno, il tuo. La tua famiglia, la famiglia di Sidney, gli amici tutti stanno per assaporare i profumi, le ghirlande, i cori, le danze della tua nuova terra. Sei un germoglio che si dona al popolo hawaiano, un germoglio che già custodisce il seme di una nuova vita. Desideri che tutto sia perfetto senza interferenze. Non tolleri pretese, né ammende, soprattutto durante la tua cena nuziale. Invece, Kim alza il suo calice di seltz e inizia il monologo, davanti a tutti. Sono uscita distruttore, vostro araldo di sfortuna per questa serata. Vorrei ringraziarvi e darvi il benvenuto anche se non vi vedo dall’ultima permanenza in gattabuia, ma vi trovo favolosi! Durante quella ventina di minuti che non ero in isolamento, per essermi fatta un pugnale con lo spazzolino, sono riuscita a partecipare al famoso programma in dodici passi. Uno dei veri passi consiste nel fare ammenda. Così ho chiesto scusa a un sacco di persone: alcuni si ricordavano appena di me, altri per niente. E ho chiesto scusa, non so, per un assegno a vuoto, per essergli svenuta in bagno e fondamentalmente per averlo coinvolto in sordide attività che cercavano disperatamente di dimenticarmi.
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Quindi vorrei approfittare di questa occasione per congratularmi con la mia straordinaria sorella, la futura esploratrice dei meandri della mente, e col suo adorabile marito in occasione delle loro nozze senza precedenti; ma anche per chiedere scusa alla suddetta sorella, futura esploratrice dei meandri della mente per, non so, tutto quanto. Lo dico col cuore Rachel: sono stata un incubo, tu una santa. Sono maledettamente felice di essere qui con te. Ed ecco brindo col mio seltz e con ciò facendo ammenda. Ora, il ritorno della prodiga figliuola scatena un certo imbarazzo, direi, vergogna. Ma stavolta non gliela farai passare liscia. Tu non mi hai detto una parola che vagamente assomigliasse a una scusa, e a un tratto decidi di gratificarci col tuo miglioramento: ehilà gente, ospiti! In caso vi capitasse di pensare ad altro per 5 minuti, tipo, non so, il matrimonio di mia sorella, mi hanno appena slegata, sono una mina vagante. Sì ma io sono tanto tanto altruista, guardate come tesso su una bella tela di scuse per essere un tantino scollegata! Rachel è un fiume in piena. Non ci sono più veli: papà non ci crederai, ma il tuo assegno non mi è arrivato e il padrone di casa mi odia. Ti sembrerà incredibile, ma ho perso il portafogli, mi hanno rubato il libretto degli assegni e tutti quanti mi odiano e bla bla bla… E poi il colpo finale: tutte quelle attenzioni del padre solo e sempre per lei: hai notizie di Kim? Come sta Kim? Papà, guardami: esisto anche io! Insopportabile. Ingiusto. Odioso. Già, nessuno si è mai chiesto se eri viva, se ti serviva qualcosa, e poi il divorzio, la morte e quel fottuto, malinconico ottimismo. È stato solo un incidente, ripetevano. Non è vero. Tu, Kim, non eri presente, eri completamente fatta, davi Ithan per scontato. Guidavi. Hai perso il controllo dell’auto e giù dal ponte, in acqua. Non sei riuscita a tirarlo fuori dal seggiolino. Non puoi perdonarti, sopravvivi. Quasi non credi in un Dio capace di perdonarti. Ma resta lucida, sobria. Resta viva e presente. Eppure, Rachel, non sapevi che fartene di lei se non era in crisi. Non c’eri nella sua testa incasinata, e qualsiasi tentativo d’aiuto, di sorveglianza si trasformava in un fantasma senza volto. Ora è lì davanti a te: un occhio nero e qualche graffio per essersi schiantata contro l’albero. Bussa alla tua porta, l’unico varco che non le è stato mai negato. La insaponi e sfiori delicatamente la rosa purpurea sulla spalla destra, un nome: Ithan. Le sistemi con cura il sarong, ed eccola pronta la tua damigella d’onore. Tutto è meravigliosamente perfetto: tuo padre ti accompagna verso lo sposo, un coro unanime vi avvolge tra amorevoli braccia di madre. Cerchi di incrociare quello sguardo che hai sempre inseguito Kim, ma non c’è. La perfezione non esiste. Ma sei nel mondo: non restare aggrappata ad una speranza che ti ha sempre deluso, che fugge continuamente da te e dalla tua amata sorella. Non ha sacrificato un brandello d’amore per restare intrappolata nel dolore. Riassapora ancora la vita. Il viaggio continua. Benvenuta. Rachel getting married un film di Jonathan Demme Drammatico - 114 min. - USA 2008 - Sony Pictures con Anne Hathaway, Rosemarie DeWitt, Mather Zickel, Bill Irwin, Anna Deavere Smith, Anisa George, Tunde Adebimpe, Debra Winger, Jerome Le Page, Beau Sia, Dorian Missick, Kyrah Julian, Paul Lazar, Robert Castle, Jim Roche, Carol Jean Lewis, Herreast Harrison, Gonzales Joseph, Donald Harrison Jr, Fab 5 Freddy, Victoria Haynes, Tareq Abboushi, Johnny Farraj, Gaida Hinnawi, Dimitrios Mikelis, Amir El Saffar Titolo originale Rachel Getting Married.
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Tendenze
didi Eliana Francesca Forcignanò Manni
Malinconica corda L’ARTE DI VICTORIA FRANCÉS DISEGNATRICE SPAGNOLA CHE POPOLA I SUOI LAVORI DI VAMPIRI, ZOMBIE E SPETTRI. UN IMMAGINARIO ‘GOTICO’, SCURO, CHE ‘VOLGARMENTE’ DEFINIAMO “DARK”
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o scoperto le opere di Victoria Francés grazie a Diana e Marina, due ragazze che conosco e, quando possibile, frequento. Sento una forte difficoltà a scrivere questa riflessione perché mi risulta estremamente complesso spiegare con le parole concetti che si allontanano dal campo freddo e descrittivo degli aggettivi. Chi di noi è in grado di spiegare razionalmente la propria passione, l’ attrazione verso un oggetto? Quando guardo i personaggi di Favole (trilogia narrata e illustrata da Victoria Francés), la prima cosa che colpisce la mia attenzione è lo sguardo delle donne rappresentate: donne sempre bellissime e fortemente affascinanti, caratterizzate da corpi sinuosi, lunghi e morbidi capelli e abiti straordinariamente barocchi. Ma, ciò che di più bello hanno è l’alta espressività dei volti. Gli occhi di queste donne sono sempre incredibilmente comunicativi: ora tristi, ora vendicativi, ora imploranti pietà e compassione. Le immagini sono tante, ognuna dedicata ad un diverso personaggio, quelle che preferisco ritraggono soggetti ‘traversati’ dalla malinconia. Ribadisco la mia difficoltà a spiegare questa mia attrazione verso ‘la tristezza’ ma non posso certamente negare che essa esista. Le ambientazioni della Francés ricadono spesso in scenari di boschi autunnali, cattedrali gotiche, una Venezia grigia, uggiosa e Settecentesca; i colori utilizzati sono molto cupi e virano sul rosso, il verde scuro e il nero. Probabilmente la descrizione di questo ‘mondo gotico’ può comunicare un senso di angoscia e oppressione ma, al contrario, evoca in me sensazioni di ‘nostalgica malinconia’. La parola ‘nostalgia’ (letteralmente ‘ritorno al dolore’) non è certamente utilizzata per descrivere un ottimale stato d’animo ma, contrariamente a quanto ci si possa razionalmente aspettare, io mi sento una gaudente navigatrice del mare della nostalgia che non è per me un sentimento negativo e da evitare. Mi piace lasciar andare il pensiero e farmi cullare dalle onde dei ricordi. Chissà, forse il mio è un atteggiamento sintomatico o patologico ma cammino guardando sempre alle mie spalle. Il passato è il mio presente. Vivo nei ricordi e mi nutro di essi. Ciò sicuramente non mi permette di vivere pienamente quello che mi succede quotidianamente, ma non riesco a rinunciare alla ‘dolce sofferenza’ provocata dall’affiorare di un ricordo: amo essere colpita dalle “arrugginite munizioni del passato”, giusto per citare Emily Dickinson.
Chi è VICTORIA FRANCÉS È NATA IL 25 OTTOBRE 1982 A VALENCIA. LA SUA INFANZIA È SEGNATA DAL FASCINO DEI BOSCHI GALIZIANI, CHE CONTRIBUISCONO ENORMEMENTE ALLA SUA ODIERNA SENSIBILITÀ GOTICA. ANCHE I SUOI VIAGGI LA AVVICINANO A QUESTO MONDO: RIMANE LETTERALMENTE AFFASCINATA DA LONDRA E PARIGI. SVILUPPA ANCHE UNA CERTA PASSIONE PER LA PITTURA PRERAFFAELITA. MA È SOPRATTUTTO LA LETTERATURA A FARE LA SUA PARTE: GOETHE, STOKER, BAUDELAIRE, POE. DURANTE I SUOI STUDI HA PUBBLICATO PER NORMA EDITORIAL IL PRIMO VOLUME DI FAVOLE, RISCUOTENDO UN BUON SUCCESSO. HA COMUNQUE CONTINUATO A STUDIARE, LAUREANDOSI IN BELLE ARTI ALLA FACOLTÀ DI SAN CARLOS, A VALENCIA. LA SUA PRIMA APPARIZIONE È QUELLA AL SALONE DEL FUMETTO DI BARCELLONA, L’8 MARZO 2004. LA SUA CARRIERA PROSEGUE TUTTORA CON LA PUBBLICAZIONE DI ALTRI LIBRI ILLUSTRATI.
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illustrazione Victoria Francés
Ecco, forse scrivendo sono riuscita a capire cosa c’è di tanto forte che mi attrae in questi disegni gotici: il clima di ‘mancanza’ che li caratterizza. Rifletto sul fatto che mi sento colpita in modo equivalente sia dai soggetti malinconici che da quelli vendicativamente aggressivi, probabilmente i quadri della Francés mi piacciono così tanto perché riflettono due lati marcati del mio carattere: la nostalgia e una rabbiosa vendetta e voglia di riscatto. Azzardando una conclusione goffamente psicanalitica, è probabile che io abbia questa forte componente nostalgica dalla quale voglio però separarmi e sulla quale voglio una soddisfacente vendetta; dovrei riuscire in modo egoistico a rompere le catene del passato che trattengono il mio Essere in ciò che è stato impedendogli di immergersi in ciò che è. Ma come Ulisse non riusciva a rinunciare all’ammaliante canto delle sirene, allo stesso modo io non riesco a sciogliere i nodi della malinconica corda che avverto su di me. Le opere della Francés continueranno ancora a piacermi, temo, perché non riesco ad allontanare da me la forza della nostalgia e il confortante abbraccio di una nebbia composta da rimembranze.
Indagare l'immaginario giovanile, non è compito semplice. C'è una complessità che si esterna in comportamenti, scelte di stile, mode che spesso il mondo adulto è incapace di interpretare senza esternare pregiudizi generazionali. Allora proviamo a far intervenire direttamente i ragazzi, chiediamogli di raccontarci il perché di un modo di vestire, di comportarsi, di una scelta musicale, di una passione letteraria, dell'infatuazione per un gruppo musicale, per un artista. Potremmo così, tentare di comprendere ciò che non ci parla, che ci sembra lontano. Ho chiesto ad una giovanissima amica se c'era un artista che potesse farmi comprendere il suo “mondo”, mi ha parlato di Victoria Francés. (M.M.)
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Anche l’orecchio vuole la sua parte L'INDUSTRIA, LA DIETA, I MESSAGGI PUBBLICITARI E IL COMUNICARE Analizzare il tema dei disturbi del comportamento alimentare dal punto di vista divulgativo ed informativo significa capire il modo in cui, sotto varie forme, si comunica in proposito nel dibattito pubblico attuale. Sarebbe riduttivo ed errato considerare alcune modalità di comunicazione inerenti in particolare cibo, corpo e diete, quali possibili cause primarie del manifestarsi di patologie come l’anoressia e la bulimia nervosa. Tuttavia non possiamo esimerci dal riflettere sull’impatto psicologico di alcune campagne pubblicitarie e sull’influenza esercitata dai mass media in genere: si inneggia ad ideali di magrezza e a canoni estetici volutamente eccessivi come richiesto dalle moderne esigenze di marketing. Ad essere chiamate in causa è la cosiddetta “industria della dieta” che utilizza strategie commerciali attentamente elaborate per suscitare l’interesse e spingere all’azione i destinatari della comunicazione, i quali finiscono per accettare ed adeguarsi a determinati modelli comportamentali. Spesso i messaggi pubblicitari sono particolarmente subdoli e per raggiungere il loro scopo persuasivo vanno a colpire la parte più emotiva e sensibile degli individui, facendo intendere che la perdita di peso e la magrezza siano i soli mezzi per ottenere il successo e la realizzazione personale, oppure enfatizzando il fallimento della dieta come segno di scarsa forza di volontà o mancanza di rigore morale. Significativa e per molti aspetti temibile è dunque l’influenza che le campagne pubblicitarie e i modelli veicolati dai media hanno sulla nostra realtà sociale, al punto da produrre negli individui “difetti di percezione” dell’immagine di sé considerata inadeguata rispetto ai canoni proposti e che vanno così a riversarsi nel rapporto con il cibo e l’alimentazione. Chi ci guadagna da questo pericoloso meccanismo comunicativo è solo il consumismo, il moderno orco cattivo che, promettendo castelli di sabbia, miete indisturbato le sue vittime: anoressia e bulimia mostrano da diverse angolature la distorsione della nostra quotidianità, l’inganno e l’inconsistenza alimentati dal discorso “mediatico” contemporaneo. Riconoscendo quindi che un’attività comunicativa impropria può essere considerata una concausa dei disturbi del comportamento alimentare, occorre iniziare a sfruttare le potenzialità informative e persuasive dei mass media in maniera positiva e benefica, sensibilizzando sulla profonda influenza che essi esercitano sugli individui nella ricerca della propria identità e nel rapporto con il proprio corpo. Come L'Osservatore in cammino che tenta e pratica una qualità differente del comunicare e dell'esprimersi.
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