Contenuti La storia di Augusta • 4
LA TESTIMONIANZA DI UNA DONNA SCHIACCIATA E RIDOTTA A OGGETTO DAL SISTEMA
Elisa Springer • 4
L’AUTRICE DE “IL SILENZIO DEI VIVI” PARLA AGLI ADOLESCENTI
La scrittura come catarsi • 6
A COLLOQUIO CON LA SCRITTRICE ROSETTA LOY
Il sentiero dei nidi di ragno • 8 ISPIRATO AL ROMANZO DI ITALO CALVINO, UN RACCONTO IN FORMA DI POESIA
Gli alberi di Dachau • 10
DOPO UNA VISITA NEL CAMPO DEGLI ORRORI NAZISTI
R’esistere • 11
L’ATTORE E REGISTA IPPOLITO CHIARELLO CI PARLA DELLE SUE LOTTE QUOTIDIANE
Africa mon amour • 12
DIARIO DI UN VIAGGIO IN BURKINA FASO
Come vuoi Tu. • 18
LA TESTIMONIANZA DI UNA DONNA SIEROPOSITIVA, LA SUA BATTAGLIA PACIFICA CONTRO IL PREGIUDIZIO
Le parole di chi non ha parole • 19 IL MANIFESTO REALIZZATO DALLA LILA DI LECCE PER LA GIORNATA MONDIALE DELLA LOTTA ALL’AIDS
I film sulla Shoah • 20
DA SPIELBERG A BENIGNI: COSÌ IL GRANDE SCHERMO RACCONTA IL DRAMMA DEGLI EBREI
Storia, maestra di vita? • 21
QUANTI HANNO STUDIATO E COMPRESO PROFONDAMENTE GLI AVVENIMENTI DELLA STORIA?
Una piazza involontaria • 22
NELLA MODERNA BERLINO, IL MEMORIALE PER LE VITTIME DELL’OLOCAUSTO UN LUOGO DA VIVERE ED ATTRAVERSARE
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L’Osservatore in cammino è un progetto Artlab, Atelier per l’espressione e la produzione creativa, all’interno del quale competenze, vocazioni, capacità s’integrano e cooperano insieme. In particolare, scrittura e illustrazione interagiscono per dar vita a una rivista che si muove sul doppio binario della comunicazione, quello verbale e quello visivo. L’Osservatore non è solo una rivista di informazione culturale ma, soprattutto un cantiere libero ed aperto all’incontro, per accogliere nuove vocazioni ed attitudini, un luogo dove sperimentare e mettere a frutto l’inventiva e le capacità comunicative di quanti desiderino aderire al progetto. Chiunque abbia voglia di partecipare a questa avventura trimestrale, può inviare i suoi elaborati (scrittura, grafica o illustrazione), in formato elettronico, alla nostra redazione: bigsur@bigsur.it illustrazione: Annalisa Macagnino
L’editoriale
di Eliana Forcignanò
Resistere
Sopravvivere
illustrazione: Annalisa Macagnino
L
a terza uscita de L’Osservatore in cammino è dedicata a un tema dalle molteplici sfaccettature: resistere/sopravvivere. L’idea ci è stata suggerita dalla contiguità temporale di questo secondo numero con la Giornata della Memoria: d’altronde, non saremmo osservatori se non ci lasciassimo “toccare” da ciò che accade, reinterpretando continuamente il mondo circostante e sforzandoci di guardare oltre l’ovvio e il già detto. Così, in questo numero, non ci limiteremo a commemorare le vittime della Shoah, esecrando l’orrore, e deplorando la natura, a tratti bestiale, dell’uomo. Tutto questo è già noto, ma quale impatto produce sulle nuove generazioni ascoltare una testimonianza diretta portata, ad esempio, da Elisa Springer? Cosa significa per una giovane donna visitare oggi Dachau, entrare nella famigerata stanza della doccia, vedere un passato che trasuda pianto e dolore? E, ancora, non soltanto i campi di concentramento, in Germania, furono uno strumento atto a mietere vittime, in Italia, gli oppositori, i diversi, erano condannati alla morte civile e rinchiusi in manicomio, così da essere annientati nel corpo e nell’anima. A raccontarci questa storia è il diario di una donna, Augusta F., vissuta negli anni del secondo conflitto mondiale e ricoverata nel manicomio San Giovanni di Trieste con una diagnosi vaga e contraffatta. Augusta ha trascorso gli anni di reclusione, lottando strenuamente per la sopravvivenza e documentando le torture subite, come gli ebrei del ghetto di Varsavia, come Anna Frank, prima di essere imprigionata e la stessa Elisa Springer dopo esser stata liberata. La scrittura aiuta a sopportare il dolore, allevia il carico di emotività connessa a determinati drammi dell’esistenza. I lettori noteranno che in questo numero sono state prese in considerazione soprattutto testimonianze di donne e gli articoli recano firme di donne: insomma, donne che scrivono di donne. È casuale? Probabilmente, non lo è. Talora, la sensibilità femminile ci comunica cose ancora ignote a quella maschile e non teme di svelare il proprio sé, la sofferenza, il pianto: questo atteggiamento pare a molti una debolezza, ad altri, una forza. E non è escluso che, ancora ai nostri giorni, le donne siano chiamate a “resistere” più degli uomini: ci riferiamo anche alle piccole resistenze quotidiane, alle lotte che ognuno conduce per scoprire e affermare la propria identità. Una donna è sempre combattuta fra la sterile omologazione con l’uomo e la conquista dell’autonomia: non è difficile soltanto “sopravvivere”, bensì anche “convivere” e, proprio nel momento in cui la possibilità della convivenza e, dunque della reciproca accettazione e comprensione, viene meno, allora, scatta la necessità della sopravvivenza, ossia quel meccanismo di difesa che permette all’individuo o al gruppo di “resistere” agli attacchi dell’intolleranza. C’è stata l’intolleranza del Reich nei confronti degli ebrei, c’è intolleranza fra i gruppi etnici del Burkina Faso - e in questo numero leggerete un reportage sull’Africa in cui il dramma di queste aree, denominate “del terzo mondo”, è descritto con chiarezza e partecipazione emotiva -, tuttavia, l’intolleranza - anzi le intolleranze - regnano anche fra noi e quotidianamente inquinano le relazioni umane. Non abbiamo smesso di essere Homo homini lupus, non abbiamo smesso di ferirci l’un l’altro e di ferire noi stessi, non abbiamo smesso di non accettarci e, probabilmente, non smetteremo mai del tutto, perché si tratta di atteggiamenti radicati nella natura umana cui facciamo un’immane fatica a resistere. Eppure, è possibile migliorare un po’ ogni giorno, è possibile crescere e maturare una consapevolezza della diversità intesa come ricchezza. Siamo diversi gli uni dagli altri, ma il bello è proprio questo: altrimenti, sarebbe bastato un unico uomo ad abitare la terra.
L’OSSERVATORE IN CAMMINO
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Diario
di Silvia Perrone
La storia di Augusta COSÌ IL TOTALITARISMO SI SERVIVA DELLA FOLLIA PER CONDANNARE I DISSIDENTI. IN UN DIARIO CURATO DA GIOVANNA DEL GIUDICE PER LA CASA EDITRICE SENSIBILI ALLE FOGLIE, LA TESTIMONIANZA DI UNA DONNA SCHIACCIATA E RIDOTTA A OGGETTO DAL SISTEMA.
F
ra gli strumenti cui il totalitarismo è ricorso - e, in alcune parti del mondo, ancora ricorre - per chiudere la bocca ai dissidenti non si annoverano soltanto le minacce, l’esilio, le percosse, la reclusione in durissimi campi di lavoro, l’eliminazione fisica, bensì anche l’internamento in ospedale psichiatrico con diagnosi più o meno oscure. Quale migliore strategia per rendere inoffensivo un oppositore che decretarne la morte civile? Il manicomio ben serviva a questo scopo: chi metteva piede lì dentro, subito, cessava di essere al mondo, passando dalla condizione di soggetto in grado di pensare, scegliere, agire, a quella di oggetto in balia di aguzzini senza scrupoli: il potere dell’istituzionalizzazione, d’altronde, consiste nel tramutare l’individuo con la propria storia, i propri bisogni, legami, sentimenti, emozioni, ricordi, in entità amorfa e astorica. Come nella mitologia greca, appena varcata la soglia del regno degli Inferi, gli uomini diventavano ombre tristi e fugaci, così, in Italia, prima di Basaglia e della Legge 180, essere ricoverati in ospedale psichiatrico significava perdersi in un mondo senza luce, dover rinunciare a se stessi, a un’esistenza dignitosa cui ognuno ha diritto in quanto persona dotata di corpo e anima. Quella di Augusta F., triestina emigrata a Tirana, rimpatriata nel ’39 durante la spedizione fascista in Albania e finita in manicomio per una non meglio precisata “frenosi isterica” - benedetta psicopatologia, sempre prodiga di definizioni e diagnosi! -
è una storia che, a rileggerla oggi, in un’epoca sulla quale volteggia costantemente lo spettro della controriforma, suscita orrore e raccapriccio. Si tratta di un resoconto autobiografico, pagine di diario che il figlio minore della vittima ha ritrovato e consegnato, non a caso, nelle mani di Giovanna Del Giudice, psichiatra e collaboratrice fra le più strette di Franco Basaglia. Così, la storia di Augusta F. è divenuta testimonianza emblematica e fruibile all’opinione pubblica dei delitti che si perpetravano all’interno dell’ospedale psichiatrico San Giovanni di Trieste, “città - ricorda la Del Giudice - in cui, unico in Italia è esistito un campo di sterminio nazista”. Non ci vuol molto ad accostare la condizione dei prigionieri nei campi di concentramento e di sterminio nazisti a quella degli internati in manicomio: insulti, percosse, torture, lavoro coatto, vita di stenti, sradicamento dal contesto familiare e sociale, morte. Sono i destini che l’intolleranza riserva ai “diversi”, siano essi ebrei, folli, “devianti”, oppositori politici. Il diverso atterrisce: minaccia le regole perché non si conforma a esse, difficilmente viene assorbito nel tessuto produttivo, si riconosce in valori e modelli di vita non compatibili con quelli imposti dal potere costituito, crede in un altro Dio, vive in comunità o gruppi marginali. Ancora oggi, ci s’interroga sulle ragioni dell’odio nutrito da Hitler nei confronti degli ebrei e, puntualmente, non si tiene in debito conto la fobia che il nazismo manifestò nei confronti
Elisa Springer,
il dovere della testimonianza L’AUTRICE DE “IL SILENZIO DEI VIVI” PARLA AGLI ADOLESCENTI: “HO VISSUTO PER RACCONTARE CHE LE PIAGHE DEL CORPO SI RIMARGINANO, NON QUELLE DELLO SPIRITO” di Marta Lorenzo
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tredici anni vorresti esser già entrato di diritto nel mondo degli adulti, tuttavia, a volte, ti accadono cose per sopportare il peso delle quali senti di avere le spalle ancora troppo strette. Qualche giorno fa, mi sono decisa a riordinare la mia biblioteca: gli scaffali più alti erano coperti da una patina di polvere decisamente poco salubre, da un po’ non andavo a scartabellare lì sopra e non ricordavo di avervi riposto Elisa Springer. Troppo intense le emozioni che i suoi libri mi hanno trasmesso: un tumulto di afflizione, sdegno, vergogna e, insieme, speranza e gioia di vivere. Avevo solo tredici anni quando mi sono accostata a essi con tutto il bagaglio di noia e preconcetti che può avere una scolaretta costretta a seguire i “consigli per la lettura” dell’insegnante. Mi è bastato dare un’occhiata alle prime pagine de Il silenzio dei vivi, per accorgermi che questa volta sarebbe stato
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L’OSSERVATORE IN CAMMINO
Giovanna Del Giudice Il manoscritto di Augusta F. Sensibili alle foglie, Roma, 1996
illustrazione: Annalisa Macagnino
di ogni possibile “diversità”: ebrei, oppositori politici, zingari, omosessuali, malati di mente. Il mito della “razza ariana” da mantenere pura e incontaminata a tutti i costi non è altro che il delirio dell’omologazione assoluta: tutti uguali nel corpo e nel pensiero, nessuna diversità, dunque, nessuna minaccia. Augusta F. era certamente una “diversa”: una donna controcorrente che si era fatta notare per la sua mancata adesione al fascismo, per la relazione con un tenente albanese - dal marito si era separata presto e lui era in carcere da molti anni a Capodistria con l’accusa di truffa -, per la risolutezza con la quale, da sola, cercava di andare avanti. In manicomio, Augusta è sottoposta a ogni sorta di angherie da parte delle “cuffie” - le infermiere -, e del Primario, uomo che fa della sua professione uno strumento di dominio sugli altri. I suoi tentativi di uscire, le perorazioni presso parenti lontani e conoscenti le valgono unicamente brevi e illusori periodi di ritorno al mondo, un mondo che, oramai, la respinge, perché segnata a vita dallo stigma. Aveva due figli, Augusta: entrambi conoscono l’esperienza della deportazione in Germania e il maggiore, Stelio, vi trova la morte. Questa donna non poté esser madre se non durante gli intervalli di libertà dal manicomio: troppo brevi per rimettere insieme i cocci di una famiglia. Non una, ma più volte, Augusta subì il dramma dell’internamento nella “casa del dolore”: come deve essere, quando ci s’illude di aver finalmente riconquistato la libertà, perderla di nuovo e poi di nuovo e poi di nuovo? Come si fa ad avere ancora la forza di lottare? La speranza di uscirne? La voglia di scrivere? Come si fa a sopravvivere? Probabilmente, è l’istinto di conservazione a muovere il corpo e a fornire alla mente l’energia per pensare. Probabilmente, gli affetti ci danno la forza necessaria ad andare avanti, tuttavia queste sono vane congetture: solo chi ha sperimentato sulla propria pelle può dare risposta.
diverso: in punta di piedi, mi accingevo a varcare la soglia della Storia e un senso di profondo timore misto a rispetto mi assaliva. Naturalmente, tutto si compiva a un livello inconsapevole del mio animo: avevo tredici anni, troppo pochi per comprendere. Elisa venne a trovare me e i miei compagni a scuola. L’auditorium era gremito quella mattina: ho il suo autografo sul libro, un tratto pulito appena un po’ tremulo per l’età ormai avanzata e le molte sofferenze patite. Ciò che la scrittrice raccontava a voce bassa, quasi con vergogna - ma perché? Lei non aveva alcuna colpa! - pareva surreale a noi ragazzi. Lo ricordo bene quel volto scavato e la piega sofferente in cui si contraeva la bocca pronunciando parole come “nazismo”, “fascismo”, “Shoah”. Non sempre il tempo cura le ferite: parlando, Elisa non poteva evitare che, di tanto in tanto, le sfuggisse un singhiozzo. La sua persona, il suo pudore, la famiglia, gli amici, la religione in cui credeva erano stati offesi, spregiati, calpestati e, a lungo, lei aveva cercato di dimenticare, di raccogliere i pezzi della propria esistenza, di condurre una vita normale, da donna normale. Non era servito a nulla. Dopo un interminabile logorio, Elisa aveva compreso che le si apriva dinanzi un’unica via di salvezza: testimoniare agli altri. Testimoniare per insegnare condivisione e dignità. Testimoniare per non lasciar cadere nel dimenticatoio l’orrore, l’incubo del campo di concentramento al quale era miracolosamente sfuggita. Lei era sfuggita, ma tanti non ce l’avevano fatta: ecco perché quella voce bassa, quel malcelato senso di colpa per esser sopravvissuta. Le pareva un privilegio continuare a essere al mondo: oggi, mi ritorna alla mente quel numero tatuato sul suo piccolo polso. Quando lo scoprì io e la mia compagna di banco, sedute vicine, commentammo che quelle cifre impresse in nero sulla carne facevano venire i brividi lungo la schiena e le lacrime agli occhi. Avevo tredici anni, ma le lacrime mi salgono agli occhi anche adesso che ne ho molti di più. Accomiatandosi, ci disse:“Ho vissuto per raccontare che le ferite del corpo si rimarginano con il trascorrere del tempo, non quelle dello spirito, le mie sanguinano ancora”.
L’OSSERVATORE IN CAMMINO
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di Marco Rollo
illustrazione: Erik Chilly (erikchilly@libero.it)
Incontri
La scrittura
come catarsi
“LA SCRITTURA È LIBERAZIONE, CATARSI, RESPIRO, È UN MODO PER INDAGARE SE STESSI E COMUNICARE CON GLI ALTRI” A COLLOQUIO CON ROSETTA LOY, AUTRICE DEL LIBRO LA PAROLA EBREO, RACCONTO DI UN’INFANZIA NELL’ITALIA FASCISTA.
C
os’è la memoria, se non il libro della nostra vita al quale aggiungiamo capitoli su capitoli senza poter mai scrivere la parola “fine”? Non tutte le parti dell’opera sono ben limate: sovente, incontriamo frasi incompiute, periodi appena abbozzati, immagini, odori, parole fermati nelle pagine dell’anima, come appunti frettolosamente presi su un taccuino e non più riordinati. Di tanto in tanto, basta una folata di vento e il taccuino si apre: ne salta fuori qualcosa che ci colpisce, un particolare che avevamo assorbito passivamente non volendo o sapendo decifrarne il significato. D’improvviso, quel particolare riemerge alla coscienza e si fa chiaro: ora abbiamo raggiunto la maturità necessaria per comprendere, troppo tardi? No, c’è sempre tempo per assumere consapevolezza di se stessi e del mondo circostante: la consapevolezza è il fondamento dell’azione, il motore che spinge al cambiamento, affinché non si ripetano gli errori già commessi. “Quel che manca ai nostri giovani è la speranza nel futuro: hanno tutto, ma non la speranza di poter migliorare il domani, così vorrebbero che fossimo noi adulti a dargliela. Amo molto recarmi nelle scuole e dialogare con i ragazzi, eppure sono dispiaciuta perché percepisco distintamente in loro questo senso di vuoto incolmabile”. Sono parole della scrittrice Rosetta Loy, pronunciate qualche mese fa durante un incontro con i lettori a Lecce, nell’Auditorium San Francesco della Scarpa dov’è stata invitata dall’associazione Presidi del Libro per parlare del suo ultimo romanzo Nero l’albero dei ricordi e azzurra l’aria, (Einaudi, 2005). “Il mio libro racconta una storia completamente inventata. - Dice la Loy - Tuttavia, i personaggi che vi compaiono non sono soltanto il frutto della mia fantasia, ma individui in carne e ossa, trasfigurati nella scrittura. Quando si scrive, è inevitabile fare riferimento al proprio bagaglio di esperienze, sia pur con alcune trasformazioni richieste dalle esigenze narrative. La memoria nutre l’arte del narrare: non a caso, a ispirarmi è stato un diario realmente scritto da un giovane soldato, uno studente d’ingegneria italiano, che partecipò alla guerra d’Africa e combatté in prima persona a El Alamein. Questo documento mi è stato utile più di qualsiasi saggio o libro di storia, perché mi ha donato ciò che nemmeno la monografia più accurata può offrire: i particolari.” Sull’Italia mutilata dalla guerra, Rosetta Loy dice: “Certo, non fu una distruzione capillare e condotta scientificamente come avvenne per la Germania, ove si agì con l’intento di annientare ciò che rimaneva del Reich, ma fu lo stesso una catastrofe di dimensioni notevoli, soprattutto al Settentrione. La famiglia di cui ho narrato le sorti nel mio libro, viene molto impoverita dalla guerra e patisce un’inesorabile decadenza che non ha fine con il conflitto, anzi s’intensifica nel generale disorientamento dei mesi successivi alla Liberazione ”. Insomma, un ventennio di dittatura, il disastro di una guerra mondiale e un genocidio non si cancellano con un colpo di spugna da una nazione, né si devono cancellare dalla memoria collettiva, per non offendere quanti hanno coraggiosamente lottato con l’intento di dare un futuro a valori come giustizia e libertà.
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L’OSSERVATORE IN CAMMINO
L’intevista U
na donna semplice, cordiale: gli occhi azzurri e la capigliatura d’argento illuminata dai raggi del sole in un sabato pomeriggio d’inizio estate. Cammina con passo sicuro, sorridendo. È Rosetta Loy, la scrittrice, la donna di cultura schietta e leale che ci prega di riportare fedelmente le sue risposte alle nostre domande, senza manipolazioni di sorta. È l’autrice de La parola ebreo, libro in cui un’infanzia serena incrocia la tragedia dell’antisemitismo nazifascista senza poterne comprendere a pieno la gravità. Una bambina che non si spiega perché all’improvviso i suoi vicini di casa - la signora Della Seta, la famiglia Levi - siano diversi da lei e, soprattutto, in cosa siano diversi. Ma gli adulti, forse, lo sanno? Forse, gli adulti conoscono la colpa degli ebrei? No, perché nessuna era la loro colpa, eppure, nell’anno 1938, non passava giorno senza che qualcuno - fazioso fascista di provincia o studioso affermato pubblicasse un articolo o rendesse nota la propria opinione sulla presunta superiorità della razza ariana. La Chiesa, in un primo momento oppostasi con Pio XI allo scandalo dell’antisemitismo, entrò con il successore Pio XII in una fase di silenzio assenso e ammirazione per i dittatori. L’opinione pubblica taceva atterrita: cominciava l’incubo della deportazione… Com’è nata l’idea di scrivere La parola ebreo? E quale messaggio questo libro si propone di veicolare? “Ogni libro nasce - o dovrebbe nascere da un’esigenza profonda e avvertita da chi scrive in maniera inderogabile: la tragedia degli ebrei nel periodo della seconda guerra mondiale mi ha sempre coinvolto emotivamente, forse per un retaggio dell’infanzia: da piccola, ho conosciuto persone ebree - erano i miei vicini di casa - e ricordo di non aver mai avuto alcun timore di loro. Quando Mussolini decise di avviare la campagna antisemita, stentavo a capire perché questa gente dovesse lasciare le proprie case, rinunciare alle proprie abitudini per andar via. La scuola, la famiglia non mi diedero mai gli strumenti necessari per capire: dopo il fatidic ’45, una autentica censura scese sull’argomento, operando quella che in psicologia è detta rimozione. La verità è che ci si sentiva tutti colpevoli dell’accaduto, perciò nessuno osava parlarne se non malvolentieri e sotto costrizione. Pensate che, in Germania, pur di evitare il termine ebreo, hanno preteso da me che cambiassi il titolo in Via Flaminia 21. Un’infanzia nell’Italia fascista. La proposta mi ha offeso non poco e ho risposto che, in tal caso, preferivo non pubblicare: mi pareva di tradire il mio obiettivo che era quello di parlare ai giovani, riscattandoli da anni e anni d’ignoranza sull’argomento. In questo libro, io parlo soprattutto alle nuove generazioni: è giusto che esse sappiano cos’è accaduto, perché la vergogna per il passato non deve assolutamente tramutarsi in uno scudo di omertà storica”. Ci parli ancora della reazione che una famiglia borghese e cattolica come la sua ebbe dinanzi alla campagna antisemita avviata da Mussolini nel ’38. “Come potete immaginare, nella mia famiglia, la questione delle leggi razziali e della discriminazione nei confronti degli ebrei era tabù. Non che i miei condividessero l’atteggiamento di Mussolini e l’asse con la Germania, tuttavia, nutrivano un profondo rispetto per la Chiesa e l’idea che Pio XII non condannasse apertamente quello scempio li disorientava non poco. Insomma, si preferiva chiudere gli occhi alla realtà e rifiutare il pensiero di ciò che pativano gli ebrei in quella temperie storica. Io ero troppo piccina per comprendere: ricordo che, all’improvviso, fu
Rosetta Loy La parola ebreo Einaudi, 1997
“In questo libro, io parlo soprattutto alle nuove generazioni: è giusto che esse sappiano cos’è accaduto, perché la vergogna per il passato non deve assolutamente tramutarsi in uno scudo di omertà storica”. vietato a noi fanciulli d’intonare Faccetta Nera, la canzone era diventata proibita perché insidiava, con l’invito alla bella abissina, la purezza della razza ariana. Andando dal fornaio, io osservavo con una certa apprensione, il negretto dipinto che reggeva fra le mani la cassettina per il denaro, nella quale bastava far scivolare poche lire per vedere il pupazzo chinare e rialzare il capo in segno di ringraziamento. Guarda, - mi dicevo anche lui è una faccetta nera”. Però, un membro della vostra famiglia non si è mai uniformato alle regole… “Sì, mio fratello Giovanni: il ribelle, lo spirito libero. Introduceva spesso in casa libri sui crimini nazisti, contrariando i miei genitori. Lui voleva sapere e non si fermava dinanzi a nulla: mi ha insegnato ad andare fino in fondo alle cose, senza lasciarmi accontentare da spiegazioni di comodo. Giovanni, non a caso, è presente in tutti i miei romanzi: c’è sempre un personaggio con la sua indole, la medesima sensibilità e i modi di fare. Quale responsabilità avverte uno scrittore che ha attraversato questa parte di Storia? “Non lo so. Non tutti gli scrittori sentono una responsabilità nella scrittura. Posso dirvi ciò che sento io: la responsabilità di trasmettere, tramandare, far conoscere. Non pretendo di detenere la verità assoluta, ma soltanto di portare la mia esperienza e aprirla agli altri. Ecco, per me la scrittura è questo: racconto di esperienze, tentativo di sensibilizzare non solo l’Altro, ma anche se stessi attraverso un’esplorazione della memoria, che io immagino come grande magazzino o cassettiera in cui, dapprima, i ricordi si dispongono in ordine, poi, sempre più confusi, man mano che la loro mole aumenta e, perciò, si fatica a sistemarli”. Quando Lei scrive, cosa accade nella sua memoria? “Si scatena un turbine di ricordi, immagini, frammenti: sembra che esista una forza sconosciuta e indomabile capace di agitare il mio intimo. A volte, devo persino fermarmi, smettere di scrivere, per lasciar decantare il tutto, inoltre, non posso evitare d’identificarmi fin nel midollo con il personaggio di cui narro le vicende: io sento, penso, agisco come lui, tuttavia, ho idea che questo avvenga a ogni scrittore che crede davvero in ciò che scrive e lo ritiene importante prima di tutto per sé e dopo per gli altri. Sapete, pare che Flaubert, dopo aver descritto la morte di Madame Bovary si sia messo a vomitare: quest’atto testimonia la sua identificazione con il personaggio, ma anche una volontà di liberarsi da un peso opprimente. La scrittura è liberazione, catarsi, respiro, è un modo per indagare se stessi e comunicare con gli altri”.
LECCE • Via Nazario Sauro, 16/A
L’OSSERVATORE IN CAMMINO
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Re/Visioni
di Letizia Avantaggiato
Il sentiero
dei nidi di ragno
ISPIRATO AL ROMANZO DI ITALO CALVINO, UN RACCONTO IN FORMA DI POESIA ATTRAVERSO GLI OCCHI DI UN BAMBINO Non c'è nulla di più doloroso al mondo che esser cattivi. Tu me lo insegni. Sono solo. È triste essere come me, un bambino nel mondo dei grandi, sempre un bambino, trattato come qualcosa di divertente e di noioso. Tu, solo tu hai costretto me, noi, loro, tutti a sputare quel marcio che lievita nella coscienza, picchiati, umiliati, sudici di pidocchi, incrostati di sudore e polvere, buttati sulla paglia in silenzio, con le divise a brandelli, le scarpe a pezzi, i capelli e la barba incolti, con le armi che ormai servono solo a uccidere gli animali selvatici. Tu, solo tu hai reso me, noi, loro, tutti belve assetate di sangue, larve cannibali affamate di corpi putridi e cavernosi. Noi, loro, io, tutti spinti da quel furore antico, da quel peso di male che si annida nelle piaghe delle nostre storture, della nostra miseria umana. È tutto qui il significato
della lotta, quella lotta che è in tutti noi, che si sfoga in spari, in nemici uccisi, in un odio selvaggio, crudele, tormentato dalla morsa del riscatto, dalla paura di non aver nulla da cambiare, nulla da difendere. Tu, nemica scoperta degli uomini, tu, carnefice della nostra redenzione, perché ti ostini a condannarmi ad un eterno vagabondare, bambino povero e sperduto? Un giorno sarò grande e potrò essere cattivo con tutti, vendicarmi di quelli che non sono stati buoni con me. Sarò grande con la mia pi- trentotto, seppellita in una nicchia nella parete erbosa dove sono i nidi di ragno. Quello è un posto magico che solo io conosco. Laggiù potrò fare strani incantesimi, diventare un re, un dio. Sarò grande. Farò il partigiano per conto mio, ammirato, temuto, rispettato, conteso in battaglia. Nessuno potrà più conficcarmi gli aghi dei cinturoni nelle guance, nessuno mi manderà a sotterrare i falchi, nessuno mi dirà più: “Dài, Pin,
Italo Calvino Il sentiero dei nidi di ragno Mondadori, Milano, 2005
Protagonista del romanzo è Pin, un bambino proveniente dal mondo della malavita, costretto a confrontarsi con gli anni dell'occupazione nazista in Italia. Pin è cocciuto, vuole appartenere al mondo degli adulti e non si ferma dinanzi a nulla: la prigione, le angherie dei tedeschi, la diffidenza dei partigiani logorano la resistenza solitaria del protagonista, pronto ugualmente a ottenere il suo scopo. Unico conforto è la vicinanza del Cugino, partigiano deluso dalla vita, al quale il piccolo rivela se stesso, trovando il coraggio di condurlo al suo nascondiglio, il “sentiero dei nidi di ragno”.
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L’OSSERVATORE IN CAMMINO
cantacene un po’ una!” Sarò grande. Non sarò sporco traditore, Pelle, con il suo odio anonimo, sbagliato, con la sua cieca disperazione, con la sua furia spietata contro di loro, i suoi compagni di ieri, furia senz'odio o rancore, come in un gioco tra compagni che ha per posta la morte. Sarò grande. Non sarò malato comandante, il Dritto, malato da non poter più stare, da non poter più resistere. Uomo alla deriva, carogna a tutti i costi tra i seni dell'amante, predatore di nauseante compassione, flebile respiro alla minaccia della forca, cercata, voluta,trovata. Sarò grande, uno della banda, fedele berretto russo di Lupo Rosso. A ogni colpo incassato dalla brigata nera, a ogni bomba ad orologeria, a ogni spia che sparisce unanime il sussulto: l'innominato!
con la faccia camusa come un mascherone da fontana. Si dice nemico giurato delle donne, il solo schifato di quella rana pelosa di mia sorella, la Nera. È un uomo come tutti gli altri, il Cugino, ma l'ultima persona che mi resta al mondo. Mi prende per mano la sua mano grandissima, soffice e calda, e non ho più paura, non sono solo. Tu, grande macchina, spinta da piccoli gesti quotidiani, rompi gli ingranaggi del tuo incessante circuito, in cui tutto deve essere logico, in cui tutto si deve capire! Avanzano impetuose le ragioni individuali, si eclissano inesorabili le ragioni collettive. Se tu sei il mio domani io sono il tuo presente: se c'è la storia, c'è che noi siamo la storia.
illustrazione: Annalisa Macagnino
Sarò grande, ma adesso bambino, piantonato nel mio regno, nel mio posto magico, dove fanno il nido i ragni. Sorge un'ombra: un omone
Scrivere è sempre nascondere qualcosa in modo che venga scoperto Italo Calvino
L’OSSERVATORE IN CAMMINO
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Visioni
di Eliana Forcignanò
Gli alberi
di Dachau
“SIATE TESTIMONI, OGNUNO DEVE SAPERE: LA VERITÀ RENDE LIBERI”
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à, dove sono morti uomini, hanno piantato alberi. Si ergono alti, ma secchi, come vestiti a lutto attendono l’inverno impassibili. Io guardo quei rami scheletrici e penso: così erano le ossa dei morti, così pulite dalle carni, consunte, certo non ruvide come legno. E mi chiedo: forse, è solo apparenza? Anche gli alberi, sotto l’impenetrabile corteccia, tremano di paura, perché loro potrebbero tornare. Accompagnati dal clamore della folla, preceduti dal rumore degli scarponi ferrati, aprirebbero ancora il maledetto cancello: Arbeit macht frei. “Lavoriamo, dunque! Abbattiamo questi alberi che impediscono al sole di splendere sulla nostra vittoria! Lavoriamo affinché si affermi la sola libertà a noi sacra: annientare chi non può difendersi.” Il cancello cigola, geme, strazia e i passi ferrati risuonano sempre più vicini, si odono schiacciare resti di foglie accartocciate. Ecco, loro sono qui, sono tornati! Sradicano i tronchi e li bruciano nei forni: disprezzano questo legno pavido e marcio e non sanno che a farlo marcire è stata la paura. Appoggio le labbra alla corteccia: “Avete visto? domando - Conoscete l’orrore?” Gli alberi mi rispondono: “Di quale orrore parli?” Capisco, allora, di aver preso un abbaglio: no, non erano qui questi alberi, essi ignorano i cadaveri ammucchiati al sole - quasi carne da macello - , i illustrazione: Annalisa Macagnino vivi vaganti con occhi incolori, spiritati specchi di anime a brandelli e le urla tonanti degli aguzzini: “Ah, ti abbiamo in pugno “Ah, ti abbiamo in pugno finalmente! Traditore della patria, vergogna dei lavoratori, escremento di finalmente! Traditore della patria, natura, porco d’un comunista, d’un ebreo, d’un vergogna dei lavoratori, pervertito!” E la macabra sinfonia della tortura: escremento di natura, porco “Spogliati! Nudo, come un verme e steso su quel d’un comunista, d’un ebreo, tavolaccio! - Ma questi alberi non hanno visto, non hanno udito, non c’erano. E noi? Forse noi c’eravamo? d’un pervertito!” Io c’ero? Eccomi, ora sono qui, ma ora è tardi. Intirizzisco avvolta nel mio cappotto: fa freddo e, tuttavia, non ho alcun diritto di lamentarmene. Prima di me troppi uomini hanno patito un gelo ben più intenso e nessuno poteva dirlo, bisognava soffrire in silenzio. Mi sembra ancora di vederli, ammassati nella Piazza dell’Appello: indossano la divisa a righe, eppure rimangono immobili, coperti soltanto da una camicia sottile e un paio di pantaloni. Non possono stringersi gli uni agli altri per succhiare dai corpi deperiti l’ultimo calore vitale: dalla torre di guardia si affaccia, nera e puntata diritta sulla piazza, una mitragliatrice. Qualsiasi movimento è sospetto e chi l’ha compiuto rischia di essere scaldato dal fuoco dei proiettili. Ma gli alberi non sanno: non era legno dei loro tronchi quello di cui erano costruiti i letti. “Letti”, che nome altisonante per poche assi messe insieme senza alcun riguardo per la normale statura di un individuo: impossibile distendere le gambe. E in uno stesso giaciglio si dormiva in due, in tre: subito, i compagni di letto diventavano anche compagni di malattie. Così si propagò l’epidemia di tifo, ultimo pedaggio prima della liberazione: infinite anime fuggivano allora dai corpi sfatti e forni crematori divoravano senza tregua. Fumi di rinnovati sacrifici umani salivano ad un cielo senza Dio. Anche i forni crematori ho visto, ricevendo strane impressioni da quelle bocche di fuoco ormai spente: mi parevano le caldaie di una nave dell’Ottocento e immaginavo mozzi con la faccia nera di fuliggine affaticarsi a spalare il carbone. E un bimbo innocente li confonderà senza indugio con i forni nei quali si cuoce il pane: enormi pagnotte per sfamare i poveri del mondo, tutti, come nel paese di Bengodi. A quel bimbo ancora speranzoso nel domani, noi non avremo il coraggio di dire la verità: perché scacciarlo tanto presto dall’Eden dell’infanzia? C’è sempre tempo per vedere Caino che uccide Abele. A scuola, forse, gl’insegneranno ed egli ci odierà non per avergli raccontato la favola della bontà umana, ma perché la bontà umana è soltanto una favola. Presto, nascondiamo gli scarponi ferrati! Il bimbo non deve accorgersi che continuiamo ad indossarli, un’ anima senza colpa non deve sapere di esser nata dagli eredi degli antichi carnefici. Saremo noi a sradicare gli alberi di Dachau e faremo stridere la chiave nella serratura del cancello arrugginito: Arbeit macht frei. Dobbiamo temere la nostra ombra non meno di quella del passato e nasconderci alla vista di chi, per la tenera età, potrebbe assimilare facilmente il pessimo esempio. No, nessuno perdoni il male commesso, nessuno osi trovare giustificazioni sperando, così, di scagionare se stesso e le sue mani sporche di sangue. E voi, amici alberi, quando le vostre chiome torneranno verdi e fluenti, ripetetelo con lo stormire delle foglie al vento: nessuna indulgenza, nessun perdono per gli assassini! E siate testimoni per chi verrà, ognuno deve sapere: Die Wahrheit macht frei.
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L’OSSERVATORE IN CAMMINO
Esistenze
di Ippolito Chiarello
R’esistere
“OGGI LA GUERRA È ALZARSI LA MATTINA, IMBRACCIARE IL NOSTRO FUCILE-CELLULARE E BUTTARCI URLANDO TRA LE LINEE NEMICHE” L’ATTORE E REGISTA IPPOLITO CHIARELLO PARLA DELLE SUE LOTTE QUOTIDIANE
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a vita è un apostrofo rosso tra le parole r’esistere. Sono nato il 27 gennaio del 1967 e molti anni dopo mi sono accorto che in questo giorno, ogni anno, si celebra la Giornata della Memoria. Sembra quasi un destino, ma gradualmente, o forse da sempre, la mia vita si è adagiata su un cammino “entusiasmante” di sopravvivenza e resistenza attiva. Resistere all’amore, resistere al quotidiano, resistere al lavoro, resistere all’ordine, resistere ai sogni, resistere ai compromessi, resistere al Sud, resistere alla politica, resistere alle parole vuote, resistere alle promesse inutili, resistere alla fuga, resistere, resistere, resistere…. È un’attività nobile per l’uomo, da insegnare a scuola fin da piccoli, da predicare in famiglia, da praticare nell’aggregazione sociale. Allenarsi alla resistenza produce anime pensanti e riduce la mediocrità del vivere passivamente nell’attesa che qualcun altro lotti per noi. Resistenza presume l’impegno in prima linea nella propria vita e di riflesso nella comunità, grande o piccola che sia (famiglia, gruppo, paese, nazione, mondo, universo, costellazione...). Ogni resistenza virtuosa produce o anela sempre a una scelta o a un risultato migliore. È inutile pensare, oggi più che mai, di poter vivere senza praticare la nobile arte della resistenza. Qualcuno ha relegato questo termine alla più nota Resistenza Europea durante la Seconda Guerra Mondiale contro il nazismo e il fascismo imperanti, non accorgendosi che ogni giorno di più forse l’uomo, più che lottare per esistere, lotta per r’esistere. Una pratica quotidiana necessaria. Oggi non c’è la guerra, o meglio, la guerra è ovunque, ma ci sembra di viverla solo come notizia. Oggi la guerra è alzarsi la mattina, imbracciare il nostro fucile-cellulare e buttarci urlando tra le linee nemiche, un nemico invisibile ma tremendamente presente: un lavoro che non riusciamo a “toccare” con mano, una donna o un uomo che non riusciamo a “prenderci”, una terra vergine che ci coccola cu lu sule, u mare, u vientu, ma a volte non ci dà il pane, una classe dirigente “povera” di sogni, un’umanità Ippolito Chiarello nasce a Corsano (Le) diffidente, il freddo umido che ti penetra il 27 gennaio del 1967. Dopo l’esperienza nelle ossa, la inevitabile e predicata disonestà come osservatore del lavoro di Dario Fo, nel per poter sopravvivere. 1995 incontra la Compagnia Koreja e inizia Quelli che non riescono a r’esistere, molto la sua carriera da attore professionista misuspesso, scelgono di non esistere, cancellano randosi con lavori sempre più impegnativi la “r” e l’apostrofo rosso e aggiungono un (Giardini di Plastica, Acido fenico, Brecht’s nero “non”. dance), sia come attore (Il Piccolo di Milano, Mi fa impazzire sentir dire che non si Il Valle di Roma, La Fenice di Venezia per la può fare niente, non si può fare resistenza biennale, in Canada, Francia, Spagna, Grecia, contro l’ordine costituito delle cose. Uomo Albania, Egitto) che come pedagogo teatrale sei destinato ad arrenderti… a chi poi? (Università di Lecce e di Tirana, Istituti di A te stesso… in fondo l’uomo pratica la Istruzione Superiore, Istituti di pena e psichiatrici). Ha partecipato a progetti cinemaresistenza contro un comportamento di tografici come attore in Albania e in Italia un suo simile o gruppo. (Illy Pepo, Aldo, Giovanni e Giacomo; WeaIo esisto perché r’esisto. Nella mia vita, da speare, Fluid Video Crew, Gianni De Blasi, quando avevo 16 anni, ho smesso di esistere Fabrizio Colucci, Roberto Quarta, Sky Discoe ho iniziato a r’esistere. Molto spesso ho very Real Time) e video musicali (Valentina avuto momenti difficili, ma mai ho accarezGiovagnini, Sud Sound System). Firma come zato l’idea di arrendermi. Fare l’attore e soggettista, sceneggiatore e regista il cortocontemporaneamente riuscire a campare di metraggio “Fumo” che nel 2006 diventerà questo lavoro non è facile. Lavorare al Sud un film e spots pubblicitari per la comunità è ancora più complesso se non si hanno europea (Progetto Helianthus)e importanti spalle larghe e predisposizione ai sogni e alle ditte nazionali. Attualmente è impegnato nello utopie. Ogni giorno bisogna ricominciare spettacolo Oggi Sposi di e con Ippolito Chiada capo. Io preferisco annegare piuttosto che rello, allestimento drammaturgico di Silvia galleggiare. Scelgo di resistere per sentire Ricciarelli e regia di Maria Cassi di Aringa & che sono vivo e per fare quello che ho sempre Verdurini e con il maestro Luigi Bubbico al sognato. Questa resistenza molte volte dà pianoforte e alla cura delle musiche. fastidio e ti porta all’isolamento, ma in un • info@ippolitochiarello.it percorso lungo una vita ti ripaga abbondan• http://ippoforum.splinder.com temente. Resistere all’amore mi ha portato a conoscerlo meglio, resistere alle difficoltà mi ha allenato alla vita di ogni giorno, resistere al Sud mi Prima sii libero, ha insegnato a conoscerlo e ad amarlo e a dopo chiedi la libertà non partire, resistere alle incertezze del mio lavoro di artista mi ha portato a diventare Fernando Pessoa un bravo professionista e spero un uomo.
L’OSSERVATORE IN CAMMINO
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REPORTAGE di Elisabetta Lapadula
Africa Africa mon amour IL BURKINA FASO, TERRA D’AFRICA, TANTO PIÙ POVERA DI BENI MATERIALI E INSIEME TANTO PIÙ RICCA DI SIGNIFICATI E VALORI RISPETTO ALL’OCCIDENTE INDUSTRIALIZZATO. ELISABETTA, L’AUTRICE DI QUESTO DIARIO DI VIAGGIO, È UNA STUDENTESSA ANDATA IN BURKINA PER RAGGIUNGERE IL
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l pomeriggio mi ritrovo a fumare con mia madre: ho voglia di ricordare, di farmi schiaffeggiare da immagini appena vissute e viste scomparire troppo in fretta, ma non di parlare. Da quando sono rientrata mi sono trincerata in una bolla d’innaturale mutismo: una mancanza di parole, ma anche un tentativo di mettere ordine nello stato di confusione puro che sto vivendo. Appena arrivata a Bari, al di là dello stravolgimento fisico per il cambiamento di temperatura (giusto 30 gradi di differenza...), ho avuto una reazione stranissima, come se i miei sensi stessero percependo odori, ritmi, luci che il mio cervello non riusciva ad elaborare e riconoscere. Come se per un mese avessi spazzato via le caselle, i nomi, le coordinate della mia solita vita. Mi sono sentita svuotata, stordita. Per un giorno intero ho avuto paura a uscire di casa, forse per il timore di reinserirmi in un nuovo e diverso segmento della mia vita e di cercare di nuovo una direzione da darle. Pochi giorni dopo, presa la rincorsa, mi sono lasciata travolgere da un vortice di situazioni, persone e chiacchiere vuote, a una velocità tale da darmi la singolare sensazione di star vivendo a 300 all’ora, quasi nel tentativo di non dare spazio e voce al mio malessere. Faccio cose, vedo persone. Penso realmente di star vivendo un piccolo shock: mi manca tutto. Il calore di tutte le persone che ho incontrato, la loro immediatezza, i loro sguardi pronti ad accogliere quello che accade intorno (ieri camminavo per strada e mi sentivo sola: persone che camminavano con l’aria assente e la mente rivolta solo a sé), ma anche il caos per le strade, le galline tenute per le zampe, i bambini bolliti sulla schiena delle loro mamme, il caldo che ti toglie le energie, il costante senso d’inadeguatezza e di disagio, i tramonti, la polvere, i piedi sporchi, il niente che circonda Ouaga... Chi l’avrebbe mai pensato che un luogo che sprofonda nell’ignoranza occidentale, escluso dai percorsi turistici e dimenticato anche da chi ci abita e non vede l’ora di lasciarlo, chi avrebbe creduto che sarebbe riuscito ad annientare tutti i rigidi schemi in cui mi proteggevo, a schiacciare quella che ero sino a farmi sentire persa, priva di appigli? Questo viaggio mi ha segnata, come i tagli sui volti dei Burkinabè. È come uno spirito che si è intrufolato con forza dentro di me, creando scompiglio.
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L’OSSERVATORE IN CAMMINO
FRATELLO GIUSEPPE, MEDICO SPECIALIZZANDO IN MALATTIE INFETTIVE CHE IN AFRICA COMPLETAVA IL SUO TIROCINIO. QUESTO VIAGGIO HA RAPPRESENTATO PER LEI UN’ESPERIENZA DI MATURAZIONE, A CONTATTO CON UN’UMANITÀ FORGIATA DAL DOLORE E DALLA CONTINUA LOTTA PER LA SOPRAVVIVENZA. QUI ELISABETTA HA INCONTRATO L’ALTRO DA SÉ, HA DONATO E RICEVUTO IN UNO SCAMBIO DAPPRIMA TIMIDO E INCERTO, POI SEMPRE PIÙ VIBRANTE E APPASSIONATO.
Le prime esplorazioni
Ouagadougou, 4 aprile 2005 (…) Ho cominciato a uscire, girando per lo più a piedi o in taxi (anche il prezzo della corsa, come tutte le cose qui in Africa, viene deciso su contrattazione e soprattutto in base al colore della pelle: se sei “nassara” il prezzo è sicuramente il doppio del normale), e a vagare per l’immensa Ouaga. Dico vagare perché, nonostante si tratti della capitale del Burkina Faso, Ouagadougou non ha praticamente nulla da offrire ad un turista doc: non ci sono chiese da visitare, palazzi da osservare, monumenti da fotografare e l’unico museo della città è chiuso da tempo. Trascorro le mie giornate vivendo per le strade di una capitale totalmente diversa da quelle che la logica europea definirebbe tali, respirando l’aria satura di smog e di terra rossa (sì, terra! Tutte le strade qui sono prive di asfalto, oltre che di illuminazione, a esclusione delle arterie principali della “centre ville”), stordendomi per il caldo che diventa sempre meno sopportabile. (…) Mi lascio quotidianamente attraversare, e talvolta dilaniare, da visioni e odori che la mia mente e il mio cuore non avrebbero mai immaginato di ospitare, dalle decine di persone che conosco ogni giorno (sebbene il mio francese faccia veramente pietà): persone che cercano soldi, che vogliono chiacchierare, che cercano di venderti qualsiasi cosa perché sei un “bianco pieno di soldi”, uomini che mi chiedono senza troppi proble-
mi il numero di telefono e mi chiedono di uscire o, nella migliore delle ipotesi, di sposarli. No, non è una battuta: sono molto gettonata. Penso sia per le mie dimensioni: consumo poco, occupo poco spazio e ci vuole poca stoffa per confezionarmi vestiti. Ironia a parte, credo che vedere una donna bianca girare da sola sia per loro simbolo di chissà quale libertà, per cui si permettono di richiamare la mia attenzione, cosa che non si azzarderebbero mai a fare con nessun altro, credo, ricorrendo a versi di tutti i generi - dal classico “psss” ai bacetti volanti, a urla come “ooohh” che tanto mi ricordano la mia cara città natale - o gridandomi : “nassaraaa!!”, oppure “la blanche!!”, oppure: “la belle!” per i più romantici. Non è piacevole, ve l’assicuro. Sai di non poterti mai mimetizzare e sogni di poter lasciare a casa, almeno per un giorno, la tua buccia pallida e tutti i suoi significati.
L’Altro inaspettato
Venerdì sono stata al CASO, struttura costruita dai Camilliani che offre gratuitamente ricovero e assistenza ai malati, prevalentemente di AIDS, o, come si chiama in francese, SIDA, (a differenza di tutte le altre strutture ospedaliere qui in Burkina, che sono a pagamento). Fino a quel momento non ci ero mai stata perché “ti risparmio il CASO per i primi giorni”: queste erano state le parole di mio fratello. La strada che abbiamo percorso per raggiun-
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REPORTAGE BURKINA
BURKINA FASO Il Sahel è una regione dell’Africa subsahariana, caratterizzata da una forte povertà socioeconomica. In questa area geografica è sito il Burkina Faso, un tempo Alta Volta, dove coesistono più di 60 gruppi etnici con caratteristiche sociali e culturali diverse. Le origini del Burkina Faso risalgono all’impero dei Mossi e, al contrario di altri paesi africani, l’amministrazione dell’impero è sempre stata gerarchica. Per proteggere il regno furono create assemblee legislative e strutture amministrative per fronteggiare l’avanzata dei vicini popoli musulmani. Questo spiega perché il Burkina Faso è ancor oggi uno dei pochi paesi dell’Africa occidentale, non a prevalenza musulmana. Sebbene il Burkina Faso sia da sempre uno tra i paesi più poveri al mondo, i suoi abitanti sono noti per l’ospitalità e l’ottimismo, e nonostante dispongano di limitate risorse economiche e naturali, sono stati in grado di erigere un paese culturalmente sofisticato. Gli abitanti del Sahel devono lottare costantemente con un ambiente naturale marginale e deteriorato, pochi mezzi di sussistenza, scarsi servizi sociali di base, la minaccia di epidemie di HIV/AIDS e la costante possibilità di situazioni d’emergenza a causa di siccità e penuria di cibo. In questa difficile realtà, la condizione dei bambini é molto fragile, dato l’alto tasso di malnutrizione, le precarie condizioni sanitarie e l’accesso ai servizi sociali di base non sempre garantito. La situazione dei minori è ulteriormente aggravata dal lavoro nero cui sono costretti per il sostentamento familiare. La diffusione dell’HIV/AIDS tra bambini e adolescenti in Sahel, secondo dati ufficiali, riguarda il 7% in Burkina e tra il 3 e il 4% in Mali. Tuttavia, in molti pensano che i dati siano molti più alti e che la situazione stia degenerando, soprattutto a causa delle migrazioni. Anche la condizione delle donne in Burkina Faso presenta elementi drammatici: il 76 per cento dei soggetti è stato sottoposto a una qualche forma di mutilazione dei genitali femminili (MGF). Questa pratica, che costituisce una delle più gravi violazioni dei diritti umani delle donne, con conseguenze permanenti sulla salute psico-fisica e che, contribuisce all’alto tasso di mortalità materna del paese e facilita la diffusione dell’HIV/AIDS.
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gerlo attraversa la zona più povera che sino ad ora avessi visto in tutta Ouaga: sterrata naturalmente, brulicante di gente, di bambini laceri e scalzi, di polli, capre, rifiuti e cattivi odori. Nessuna abitazione come ce le immagineremmo noi, cioè in mattoni e cemento, ma solo costruzioni in terra, terra rossa naturalmente, come quelle che finora avevo visto solo nei villaggi rurali. (Ho fatto uno sforzo enorme per descrivere, anche se così in generale, tutto questo. Provo un enorme fastidio e timore nel disegnare con le mie parole dalla pancia piena questo tipo di situazioni, le stesse emozioni che, assieme al rispetto per l’altro, m’impediscono di fotografare. Sento repulsione verso me stessa, per cui perdonatemi se in futuro le immagini descritte saranno carenti di particolari o insufficienti per la vostra immaginazione. Forse, al mio ritorno, la distanza provvederà a lenire queste sensazioni spiacevoli e a farmi sentire di nuovo padrona dei miei racconti). Arrivati al CASO, l’impatto è stato molto più forte del previsto, anzi di quello che non avevo previsto, dato che sulla strada non mi ero preparata a nulla, lasciandomi totalmente assorbire da tutto quel movimento che osservavo dal finestrino nella nostra auto climatizzata e che in alcuni momenti avrei desiderato non vedere. Varcato il cancello, sono stata aggredita da un’immagine che non credo dimenticherò: figure di una magrezza mai vista, mai immaginata, di una magrezza che ti fa contare tutti i tubicini blu sotto la pelle. Persone senza muscolatura, senza forza, dalle articolazioni dalle forme singolari, persone che ti domandi come facciano ancora a sorriderti, a stringerti la mano e a chiederti: “Come stai?”. Credo che il mio cervello abbia sospeso le sue funzioni per un po’ perché, senza accorgermene, mi sono rinchiusa in un innaturale e prolungato mutismo. Poi, per quanto sia umiliante ammetterlo, è cominciata a montare la paura: ho iniziato a passare in rassegna tutte le ferite che avevo sul corpo, dalle piccole piaghe ai piedi ai graffi sulle braccia. Queste erano le immagini che prepotentemente occupavano la mia mente, come se qualcuno al posto mio avesse deciso ch’era arrivato il momento di fare un check-up al mio corpo. Pian piano, questi pensieri sono tornati lungo la strada da cui erano provenuti, quando sono riuscita a recepire e a lasciarmi coinvolgere dall’umore sereno di frati, infermieri e pazienti. Questa esperienza ha bruscamente lacerato la membrana che mi teneva separata dall’Altro - questa è la sensazione che ho avuto -, che preservava me stessa dal resto e che mi rendeva solo spettatrice attraverso un vetro insonorizzato. Basta. Mi sono svuotata. Pardon, non riesco più a scrivere.
La visita a Gorom Gorom
Ouagadougou, 11 aprile 2005 Di ritorno dalla visita al CASO e dopo una traversata prevalentemente su strade sterrate e in cattive condizioni, tra polveroni di sabbia che entravano dai finestrini obbligatoriamente aperti per evitare di diventare un bollito misto-, vibrazioni da shakeraggio degli organi interni, continui sbalzi e scossoni e un costante dondolio del nostro sedile rotto, che con grande intelligenza avevamo scelto appena saliti, tra donne dai seni smunti che allattavano i propri bambini e galline starnazzanti, siamo giunti a destinazione. Appena scesi dall’autobus, siamo stati accerchiati da una frotta di ragazzi: chi si offriva come guida, chi come accompagnatore, chi per un passaggio, chi per proporre un hotel, chi per un’iniziale innocente chiacchiera per poi proporti qualcosa da comprare. …Potete
immaginare che piacere questo assalto quando si ha il cervello in panne per la stanchezza! Un po’ per liberarci da questo piccolo assedio, un po’ per necessità, abbiamo chiesto un passaggio per l’albergo, dove avevamo deciso di alloggiare per un semplice motivo: l’unico con aria condizionata. E così, in parte su un carretto trainato da un asino (il mezzo di trasporto più utilizzato), in parte a bordo di un’auto di uno sconosciuto, siamo arrivati in albergo. Sulla via della decomposizione e in procinto di avere le allucinazioni, abbiamo chiesto di poter mettere qualcosa nello stomaco prima di andare a dormire e, durante l’attesa (non so se in tutta l’Africa, ma sicuramente in Burkina i tempi di attesa sono qualcosa di estenuante, soprattutto se hai fame. Non solo nei ristoranti, ma anche nelle banche, negli uffici, ovunque, ti devi predisporre ad aspettare almeno un’ora e mezzo, un’ora se sei fortunato: qui nessuno ha fretta, c’è sempre tempo per la chiacchiera e per i tempi rilassati), siamo stati raggiunti da due ragazzi che si proponevano come guide (anche per questo occorre una digressione: qui non esiste privacy, chi vuole si siede al tuo tavolo e inizia a parlare, in genere per rifilarti qualcosa con grande stile, e si alza solo al momento dell’arrivo del pasto). La mattina seguente, dopo una nottata glaciale per il condizionatore in camera che non poteva essere regolato e che ci aveva sparato addosso un vento nordico per tutta la notte, ci siamo alzati alle 5 per essere alle 6 nella piazza principale di Dori e poter prendere il taxi-brusse (una sorta di pulmino, in genere scassatissimo, che, riempitosi ben bene di gente fino a scoppiare e a farla morire di asfissia, parte per raggiungere tappe fisse) alla volta di Gorom Gorom. Dopo un tempo interminabile di viaggio, siamo arrivati nel villaggio di Gorom Gorom, dove il giovedì si tiene un grande e colorato mercato in cui le diverse etnie che popolano il Sahel, Touareg, Bella e Peule e Songhai, convergono al centro del villaggio per il commercio di alimentari, di bestiame, tessuti e altri articoli. Per tutta la mattina, condotti da un gruppetto di bambini che si erano proposti come guide in cambio di un pallone, abbiamo attraversato il mercato mangiucchiando noccioline, datteri (che ora non voglio vedere più per almeno un anno) e quintali di sabbia, che inevitabilmente finisci con l’ingurgitare appena apri la bocca, o anche semplicemente respirando. Perdonatemi la mancanza di classe, ma lo devo dire: è stato fantastico soffiarsi il naso e vedere uscire muco rosso-marrone.. Alle 3 di pomeriggio, dopo una breve riunione di frasi sconnesse, abbiamo deciso di tornare a Dori, questa volta a bordo di un autobus. (…)Venerdì mattina eravamo in giro con la nostra guida, Coket, uno dei due ragazzi che due sere prima non ci aveva laciati scappare. Dori è un villaggio che affonda tra la sabbia chiara, brulicante di asini, galline, mucche e capre più che di persone. È abitato per lo più da Peules e in parte da Bellas, etnia originariamente schiava dei Touareg e che si distingue per le caratteristiche abitazioni in paglia e per le sue donne, abbigliate con vestiti coloratissimi, decorazioni in argento tra i capelli, ai polsi, alle caviglie e orecchini talmente pesanti da ridurre le loro orecchie a delle fragili forme di groviera scura. Dopo un giro su quello che dopo la stagione delle piogge diventa il letto di un barrajii sono chiamati così i laghi artificiali - e che in quel momento mi sembrava la superficie di un’altro pianeta, talmente secca da essere crepata, Coket ci ha portati a gironzolare per il mercato, dove, tra spezie e odori sconosciuti,
noci di cola, verdure, carne alle mosche e animali anoressici, si è procurato l’occorrente per cena e colazione sulle dune.
Una proposta di matrimonio andata in fumo
Ouagadougou, 12 aprile 2005 Siamo stati anche a Bani e qui -come se da un paese all’altro si fossero comunicati la presenza di 2 Toubakou ( che significa “bianco” nella lingua peule, il Foufouldè) siamo stati immediatamente accolti da un energumeno dall’acre odore di sudore stantio che ci proponeva la visita guidata del villaggio, delle 9 moschee di fango per cui è noto, più il pernottamento presso il suo hotel. Non ci abbiamo pensato su molto prima di accettare, dato che si trattava dell’unico albergo del paese: una costruzione di fango, che riproduce la facciata della grande moschea, con quattro stanze minuscole con tetto e porta in lamiera. La nostra stanza, l’unica occupata naturalmente, consisteva, come le altre 3, in una specie di tana di larghezza pari a un materasso, gettato a terra nella polvere rossa, più uno spazio largo giusto un piede. Un vero lusso. “Naturalmente non dormirete là dentro perché fa troppo caldo” ci dice l’energumeno e ci mostra una specie di chaise-longue a due piazze in canna di bamboo. Dopo averci condotto in giro per il paese e fatti arrampicare sulla collina sacra dove si ergono sette moschee in fango -bellissime e da dove si godeva di una vista meravigliosa del paesaggio saheliano alla luce del tramonto e del villaggio, che visto dall’alto sembrava
“In Europa siete lenti. Prima di sposarvi ci mettete anni per conoscervi. In Burkina bastano 2 mesi. Due mesi bastano per conoscere una donna: apprezzi la sua bellezza, la sua gentilezza, la sua cucina” un ordinato plastico, la nostra guida ci ha condotto dal poliziotto per lasciare i nostri passaporti per la registrazione e poi nuovamente in albergo. Non lavandomi da più di ventiquattr’ore, non vedevo l’ora di farmi una doccia per scrostare - non sto esagerando - la sporcizia che mi si era impastata addosso assieme al sudore conferendomi un bel colorito bruno-rossastro. Quando ho chiesto al nostro albergatore dove fosse il bagno, mi ha accompagnato all’interno di una piccola costruzione fuori dall’albergo, anch’essa in fango con porta in lamiera, ma senza chiave e senza tetto, in modo da osservare con grande relax il passeggio per la strada e le attività dei vicini. Una cabina divisa in due parti, ciascuna provvista di un buco sul pavimento. Evitandomi l’imbarazzante domanda: “Qual è la doccia e quale il cesso?”, il mio accompagnatore ha chiamato un ragazzo e gli ha ordinato di portare l’acqua. In attesa del suo ritorno, giusto per intrattenermi, mi ha chiesto di rimanere lì con lui, di sposarlo e, sentendo i miei “No, merci” pronunciati col sorriso stolido, che in quei momenti è l’unica smorfia che la mia faccia riesce ad assumere, ha iniziato ad argomentare agitando la mano a mezz’aria come se volesse scacciare le mie parole come un pugno di mosche: “In Europa siete lenti. Prima di sposarvi ci mettete anni per conoscervi. In Burkina bastano 2 mesi” e, sfoderando la sua saggezza: “Due mesi bastano per conoscere una donna: apprezzi la sua bellezza, la sua gentilezza, la sua cucina”. “Stasera usciamo insieme perché ci sono alcune cose che dob-
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REPORTAGE
biamo discutere insieme”. “Viene anche mio fratello” ho detto, non sapendo cos’altro dire. Avevo appena iniziavo a visualizzarmi, indurita dal sole, invecchiata prima del tempo, seduta all’ombra di un albero a cucinare couscous con un bambino sulle spalle e un marito sdentato, strabico, più vecchio di me di almeno vent’anni e che rutta per apprezzare la mia cucina, quando le mie fantasie sono state bruscamente interrotte dall’arrivo del ragazzino con un secchio d’acqua e una mini brocca. Rinfrancati dalla doccia, abbiamo deciso di andare dal poliziotto a recuperare i nostri
Durante questo viaggio ho imparato a convivere con la puzza di sudore e con la sporcizia...Non ho ancora capito se si tratta di una conquista: ho sicuramente vinto molte delle mie fissazioni. passaporti. Non credo potrò mai più vivere una situazione analoga: appena ci ha visti arrivare, ci ha chiesto come stessimo e se avessimo fretta. “No” “Allora - indicandoci una panca alle sue spalle - sedetevi qui”. Non sapendo bene cosa fare, abbiamo ubbidito e assistito per un paio d’ore, come spettatori a teatro, alle sue chiacchiere con gli amici, all’ombra di un grande albero. Calato il buio, reso ancora più nero dalla totale mancanza di illuminazione, il nostro poliziotto ciccione si è congedato dai suoi compagni e, chiamato in aiuto un bambino di passaggio, ha iniziato a recuperare sedie e panche per riportarle all’interno del suo ufficio. Poi, come se solo in quel momento fossimo comparsi nel suo campo visivo, si è avvicinato a noi e con molta calma ci ha detto: “Mi dispiace, ma si è fatto buio e non posso più leggere i vostri passaporti. Tornate domani mattina alle 7, prima di partire”.
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Fantastico! Mi sembrava di essere in una novella di Calvino: non poteva essere reale… Dopo essermi un po’ attardata con i bambini del posto, che, come tutti quelli che ho incontrato fino ad ora, appena incontrano un bianco partono come un disco registrato: “Tu as les bonbons? Tu as les Photos? Tu as les balafous?”, sono rientrata in albergo cercando di non travolgere nessuno, di non calpestare polli e di non andare a sbattere contro una mucca di passaggio, e lì ho trovato mio fratello e il mio promesso sposo nel bel mezzo di una trattativa. Seduti a un tavolino, alla luce di una lampada a petrolio, discutevano di matrimonio, la prima parola che ho sentito appena entrata. Dopo avergli assicurato che era la prima volta che faceva una proposta a una sua ospite e detto che ero molto bella, che voleva un figlio meticcio e che voleva rimanessi con lui, ha chiamato sua figlia al suo cospetto, le ha messo una mano sulla spalla e, rivolto a Giuseppe: “È bella. Guardala. È bella? Cucina bene. La vuoi una donna burkinabè?” Un timido “No, merci” di risposta è bastato a far alzare e andar via la figlia, ma non a fermare le sue occhiate liquide nei miei confronti. Mentre con grande abilità si estirpava una caccola dal naso, mi guarda e mi dice: “Mon chery!” Penso che sia stato in quel momento che ho deciso di prenderlo realmente sul serio e di pensarci su: non ho mai avuto un uomo così romantico. Inutile dire che, nonostante la stanchezza, ho trascorso la notte meno riposante della mia vita. Peggio che in bianco: un risvegliarsi continuo in una pozza di sudore o per il chiacchiericcio e le urla dei nostri vicini (credo che qui la notte non si dorma o, per lo meno, non per fare tutta una tirata). Alle 6 naturalmente eravamo in piedi, con delle facce da museo degli orrori, e, senza neanche lavarci (durante questo viaggio ho imparato a convivere con la puzza di sudore e con la sporcizia, che sono praticamente inevitabili in questi posti, a meno che non ci si lavi più e più volte al giorno. Non ho ancora capito se si tratta di una conquista: ho sicuramente vinto molte delle mie fissazioni, ma mi domando se non abbiamo esagerato un po’), abbiamo raccattatto quelle poche cose che avevamo con noi, pagato il mio marito mancato e corsi, dopo una puntata dal poliziotto minchione, alla fermata degli autobus. Davvero delle giornate ricche di sorprese: l’autobus è arrivato in perfetto orario, ma si è fermato lì senza più ripartire: un guasto al motore. “Se non arriva il meccanico da Ouaga, dovrete prendere il prossimo autobus, che è di un’altra compagnia, ma arriva subito. L’autista cercherà di trovare un accordo per farvi utilizzare gli stessi biglietti”.
Un po’ sollevata, chiedo: “E a che ora arriva?” “Alle 2” Mi è venuto un nodo allo stomaco mentre mi prefiguravo le sei ore e mezza di attesa, sotto quel sole che si stava facendo sempre più forte, senza nulla da fare, bloccati in quel maledetto villaggio dimenticato dal mondo, ma ho evitato di esternare i miei pensieri per non perdere completamente il senno, cercando invece di ridere e di calarmi in una dimensione narrativa: una vera impresa. Naturalmente le mie previsioni erano corrette: una mattinata intera trascorsa sotto una capanna di foglie intrecciate e canne, stesi per terra, insozzati come mai dalla sabbia che di tanto in tanto si levava violenta contro di noi e in compagnia degli abitanti del luogo, sereni e completamente abituati a lasciar scivolar via le ore, tutte uguali fra loro, tra chiacchiere vuote e piccole dormite di tanto in tanto. È stato proprio lì, sotto quel tetto di paglia, che ho provato l’emozione - tutt’ora priva di nome - più forte di tutta la mia permanenza qui in Burkina: mentre mangiavo la mia brochette (una specie di spiedino di pezzettini di carne impapricati e infilzati in stecchini artigianali, che viene venduto e si consuma per strada), ho istintivamente sfilato un pezzo di grasso e l’ho gettato per terra. Senza che avessi il tempo di rendermene conto, è arrivato un bambino, che l’ha raccolto furtivamente, forse temendo che potessi cambiare idea, ed è corso a spartirselo con due del suo gruppetto. Non credo di essermi mai sentita peggio in tutta la mia vita. Mi guardavo attorno, forse in cerca di espressioni da assumere, ma quello che era successo non pareva aver interessato nessuno. Anche ora mi si rivoltano nello stomaco il senso di disagio e di inebetimento provati. (…) Penso che andrò avanti con il racconto per non lasciarmi avvolgere, proprio ora mentre scrivo, dallo sconforto. (…)Dicevo: alle 2 e mezza, ormai senza speranze - avevo persino interrotto il mio passatempo, ovvero tinteggiare di marrone i fazzoletti di carta nell’asciugarmi il sudore del viso- ho avvistato un pullman in fondo alla strada. “È arrivato! Oh! È arrivato!” “E l’autista di quello che ci ha lasciati a terra?”: lancio nel vuoto. Ci avviciniamo al mezzo in panne e chiediamo a un altro passeggero: “L’autista?” “È tornato a Ouaga in moto” - come se la cosa non lo turbasse affatto. Non avevamo molto tempo per strabuzzare gli occhi, ridere, incazzarci o perderci in considerazioni inutili; d’altra parte penso che in quel momento, pur di cavarci fuori da quella situazione grottesca che stava assumendo sempre più i toni di un incubo, avremmo raggiunto Ouaga anche a dorso di un asino
chiesto in prestito. In pochi minuti avevamo preso posto nel pullman appena arrivato e stabilito con gli altri viaggiatori rimasti fregati che saremmo andati a chiedere il rimborso del biglietto alla STMB. …State pensando che tutto si concluda così, con un banale lieto fine? Nooo!! Dopo neanche un quarto d’ora di tragitto, sono stata svegliata - sì, mi ero già addormentata, di schianto - da un rumore proveniente dalla parte anteriore dell’autobus, seguito poi da un fischio. “Scendete tutti”: annuncia il copilota. Chiedendomi cos’altro stesse succedendo, ho seguito gli altri. “Si è rotto il radiatore”: sento chiacchierare tra i miei compagni di avventura e nel frattempo mi metto a osservare un gruppo di uomini armeggiare con il motore e riempire il serbatoio. E così ci siamo rimessi su strada, col radiatore rotto e una tranquillità che aleggiava indisturbata sui volti di tutti, fermandoci di tanto in tanto presso villaggi o distributori di benzina (Questo lo devo aggiungere: eravamo così evidentemente impresentabili, puzzolenti e sfatti, che i bambini che accorrono ad ogni fermata non ci chiedevano neanche l’elemosina) per rifondere d’acqua il sebatoio. Alle 9 e mezza o forse più eravamo a casa. …Doccia… Lenzuola… Che meraviglia.
Ritorno in Italia
Ouagadougou, 13 aprile 2005 Se devo essere sincera, inizio a sentire un po’ di nostalgia, anche se, per quanto mi sforzi, non riesco a immaginare come diavolo farò a rientrare tra le coordinate della quotidianità, a ricostruire le abitudini, gli obiettivi, la mia scala delle priorità, che ora mi sembrano così lontani e irreali da farmi apparire la mia vita italiana come una situazione che non mi appartiene più e che ormai può solo fare capolino tra i miei racconti. Ci vediamo tra poco più di una settimana A preeestooo!! (Fotografie di Elisabetta Lapadula)
LECCE • P.zza Mazzini, 66
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Testimonianze
di Eliana Forcignanò
Come vuoi Tu. “CI SONO PERCORSI CHE, PER QUANTO CI SEMBRINO DURI E PERSINO INTOLLERABILI, DOBBIAMO COMUNQUE ATTRAVERSARE. PER CRESCERE, COMPRENDERE DI PIÙ E DIVENTARE MIGLIORI DI CIÒ CHE ERAVAMO”.
“M
amma, oggi ho intervistato una persona sieropositiva. È la prima volta”. L’ho detto a mia madre perché volevo scoprirne la reazione: si sarebbe impressionata? Mi avrebbe risposto che vado sempre a cacciarmi in situazioni difficili? Per lei, come per tutte le madri di questo mondo, io sono ancora una bambina, la sua bambina cui bisogna ricordare di mettere la sciarpa quando esce di casa, perché “fuori si gela”. “All’inizio, avevo paura: e, per questo, mi sentivo la coscienza sporca. - Ho continuato, evitando di guardare mia madre negli occhi. Certo, razionalmente, lo so che l’HIV non si contrae attraverso una semplice stretta di mano, eppure tremavo dentro e mi vergognavo di tremare. Ho cercato di nascondere queste sensazioni e credo di esserci riuscita: non volevo ferire la mia interlocutrice”. Mia madre ha atteso che io smettessi di parlare senza interrompermi: mi sono decisa a tarda sera, mentre lei era già sotto le coperte e io sedevo sul bordo del suo letto in pigiama. “Anch’io, al tuo posto, avrei fatto l’intervista. Ha finalmente risposto mamma - E, probabilmente, anch’io avrei temuto all’inizio. Si dicono tante cose su questa malattia che è normale lasciarsi suggestionare, no?” Il suo tono sereno, partecipe, mi ha invogliato ad andare avanti con il racconto del mio incontro con V., la donna che aveva accettato di aprire il suo cuore a me, una perfetta sconosciuta, che a me e alla mia scrittura si era affidata per comunicare la sua storia e “gettare un sasso nello stagno”, come lei stessa aveva detto. Perché i sassi smuovono l’acqua e, quando qualcosa si muove, c’è sempre la speranza del cambiamento. V. viene dal Camerun ed è una suora. Non è stato facile rompere il ghiaccio: mi ha chiesto quanti anni avessi e, sentito che ne avevo soltanto ventidue, ha detto che preferiva non raccontare la sua storia a una persona così giovane: “Voi giovani siete molto intelligenti in teoria, ma di fronte alla pratica e alla vita reale vi perdete in un bicchier d’acqua”. Ho risposto in maniera cortese che non era obbligata a dirmi nulla, tuttavia, devo ammettere che rabbia e delusione mi hanno assalito: insomma, lei si era detta disponibile a rilasciare un’intervista e, ora, cambiava idea accampando il pretesto della mia età. Mi sentivo quasi vittima di un’ingiustizia e non capivo che
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bisognava soltanto saper attendere: non potevo pretendere di entrare subito in una questione così delicata. Sarebbe stato come operare senza anestesia. Abbiamo cominciato a parlare dell’immigrazione: V. lamentava l’iniquità della Bossi-Fini che costringe gli immigrati a rimanere confinati nei centri d’accoglienza come fossero reclusi e colpevoli di chissà quali reati. “Questa non è accoglienza, è rifiuto. Io ho lavorato in questi centri e vi assicuro che lì dentro regna una grande tristezza. L’Italia non ci vuole: un immigrato può ottenere il permesso di soggiorno soltanto sposando un cittadino italiano, oppure se richiesto da voi come manodopera. Se un bambino figlio di immigrati nasce in Italia, questo non basta a dichiararlo cittadino italiano, anzi, fin dalla nascita, bisogna ottenere per lui il permesso di soggiorno, altrimenti è un clandestino. Il rifiuto, però, non è soltanto da parte delle istituzioni: io sono stata la prima negra ad arrivare nel paesino dove abito ancora adesso e, nei primi tempi, quando entravo in chiesa, la gente si scostava con un senso di diffidenza. Io non ho rinunciato a recarmi nella casa di Dio per questo, ma so di molti immigrati che, invece, hanno smesso di andare ad ascoltare la messa, perché si sentivano guardati con sospetto. I sacerdoti, allora, dicono che gli immigrati non frequentano la parrocchia, ma non si domandano il perché: chi andrebbe volentieri dove non si sente accolto?” V. vorrebbe essere accolta non soltanto dalla gente che incontra tutti i giorni, ma anche dall’ordine monastico di cui ha sempre desiderato far parte: le clarisse. “E perché non inoltri domanda d’ammissione?” Le ho chiesto. “Perché cinque anni fa ho scoperto di essere sieropositiva e, per entrare in una comunità monastica, è richiesto di essere in buona salute. Nessun convento mi accetta così, anche se io non ho intenzione di arrendermi: andrò fino in fondo e consulterò la gerarchia ecclesiastica, perché nei conventi c’è uno stato d’ignoranza e arretratezza che non può protrarsi ancora. La mia battaglia spianerà la strada per il futuro. Cristo non ha mai fatto distinzione fra sani e malati e, per seguirlo, non c’era bisogno di esibire un certificato medico”. Quando V. ha pronunciato la parola “sieropositiva”, di colpo, mi sono resa conto che la paura era svanita. Il suo sguardo dolce,
illustrazione: Annalisa Macagnino
UNA DONNA SIEROPOSITIVA SCEGLIE DI RACCONTARSI PER DARE TESTIMONIANZA DELLA SUA BATTAGLIA PACIFICA CONTRO LA MALATTIA...E CONTRO IL PREGIUDIZIO.
Le parole il tono di voce pacato, i modi gentili ma fermi riportavano la calma nel mio animo prima in tempesta. Nella gola mi bruciavano lacrime e, anche adesso, mentre scrivo, mi salgono agli occhi, ripensando a questa donna che, nonostante tutto, ha ancora la forza di sorridere e di pregare. “Quando hai saputo, come hai fatto a non perdere la fede?” Le ho chiesto. “Senza la fede, avrei perso me stessa. - Mi ha risposto - “Quando ho appreso di essere sieropositiva, sono stata male, non lo nego. Però, è durato poco. Ho preso il mio rosario, mi sono rivolta a Dio e ho detto: Dio mio, come vuoi Tu e, nella preghiera, nell’abbandonarmi a Lui, ho trovato la forza. Lo so, molti, ammalandosi, perdono la fede, tuttavia esistono anche persone che non sanno immaginare la loro vita senza questa luce. Io non sapevo nemmeno cosa fosse l’HIV e, quando mi hanno dato la terapia, l’ho seguita per un mese, credendo che bastasse. Alla visita di controllo, il medico mi ha spiegato che quella terapia avrei dovuto assumerla a vita e, allora, mi ha assalito un altro momento di sconforto: sono andata in ritiro spirituale per chiedere aiuto a Dio e Lui non mi ha lasciata sola. “V., non ti chiedi mai perché sia accaduto proprio a te?” Ho incalzato. “Io mi chiedo ogni giorno perché sia accaduto proprio a me, però so che questo è un mistero che rimarrà tale per tutta la mia vita. Ci sono percorsi che, per quanto ci sembrino duri e persino intollerabili, dobbiamo comunque attraversare per crescere, comprendere di più e diventare migliori di ciò che eravamo. Sperimentare in prima persona la piaga dell’isolamento che affligge i sieropositivi e i malati di HIV, scoprire quante persone muoiono di questa malattia nel mio Paese, perché gli Stati Uniti non concedono a noi la licenza per produrre i farmaci necessari, ma preferiscono venderceli a prezzi elevati, toccare con mano il pregiudizio che inquina anche gli ambienti ecclesiastici sono tutti elementi che mi hanno fatto soffrire, ma, nello stesso tempo, hanno accresciuto la mia sensibilità e mi hanno reso più capace di lavorare per gli altri. Nessuno di noi lavora per sé, tutti siamo uno strumento per gli altri”. Congedandomi, avrei voluto abbracciare V., ma la timidezza me lo ha impedito: ha ragione lei a dire che noi europei siamo troppo in punta di forchetta. “Grazie V.” Le ho detto e, questa volta, non ho esitato a stringerle la mano. Lei mi ha sorriso e ha ricambiato la mia stretta con vigore. Sulla via del ritorno, ero dubbiosa se scrivere questo articolo oppure tenere per me ciò che avevo ricevuto e che, probabilmente, non ho ancora metabolizzato bene, perché molte preziose sfumature di significato emergono a distanza di tempo. Subito dopo l’incontro non sono riuscita a scrivere: troppe emozioni mi turbinavano nella testa. Oggi, trascorse nemmeno ventiquattro ore, è venuto fuori questo che probabilmente non rende nemmeno giustizia alla ricchezza del mio colloquio con V.: pazienza, glielo dedico lo stesso, perché sappia che mi ha portato un raggio di sole e un esempio di straordinaria forza d’animo di cui non posso che far tesoro.
Q UA L I T À C H E A R R E DA
LECCE • Via Orsini Ducas, 12 Tel/Fax 0832.351319
di chi non ha parole
UN MANIFESTO REALIZZATO DALLA LEGA ITALIANA PER LA LOTTA ALL’AIDS DI LECCE, PER DENUNCIARE L’INDIFFERENZA DELLE ISTITUZIONI.
di Paola Maggiore
“È più facile spaccare un atomo che un pregiudizio” (A.Einstein) Partendo da questa citazione la Lega Italiana per la Lotta contro l’Aids di Lecce ha voluto accogliere la sfida e ha ideato e realizzato un manifesto per promuovere una campagna sociale contro il pregiudizio e per la difesa dei diritti delle persone sieropositive. Sono loro che parlano ai cittadini, alla gente comune, ai medici, ai dirigenti delle Aziende Ospedaliere, alle Istituzioni… parlano del loro “non poter dire”, della sensazione di essere costretti a tacere per paura di essere rifiutati, giudicati, per paura di non essere più viste come persone, ma solo come un virus. Lo sguardo del ragazzo del manifesto è lo sguardo di tutte le persone sieropositive del Salento, persone che hanno bisogno innanzitutto di essere ascoltate. Le parole non dette sono le parole di una categoria costretta a vivere nell’ombra. Uscire dall’anonimato ed esporsi in prima persona, rendere pubblica la propria condizione per denunciare i disagi che ne derivano e difendere i propri diritti, significherebbe pagare un costo altissimo, quello dell’esclusione sociale. Invece di numeri e cifre, quest’anno la Lila vuole far parlare le persone e coglie l’occasione del 1° dicembre, Giornata Mondiale della lotta all’Aids, per continuare a dire quelle parole che solo un manifesto non poteva contenere tutte. “…È come se sei sempre con una maschera, devi tenere sempre questa cosa dentro. Io vorrei poter dire a tutti che sono sieropositivo, lo vivrei più tranquillamente, ma probabilmente per gli altri non sarebbe la stessa cosa… io la leggo negli occhi la paura della gente quando dico che sono sieropositiva, è uguale alla mia. Io penso sempre che questo dovrebbe avvicinarci, invece non succede quasi mai”. Quello che emerge da questa testimonianza, una delle tante raccolta in questi anni dalla Lila, è il bisogno di essere riconosciuti come persone, con un’identità e una personalità proprie e soprattutto con il diritto ad un progetto di vita. L’Aids è un problema globale ma richiede una responsabilità locale e le istituzioni in primis devono contribuire a dare risposte alle paure della collettività, devono promuovere un modello sociale tenendo conto che le persone sieropositive sono cittadini come tutti gli altri, con pari opportunità di scelta e con la possibilità di riprogettarsi e di ri-pensarsi in un tempo futuro. LILA Lecce: via Pio XII, 23 - Cavallino (Le) tel. 347.7931075 • 338.4007424 lilalecce@libero.it
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illustrazione: Remo Spada (sirspada@hotmail.com)
Cinema
di Marta Martina
I film sulla Shoah DA SPIELBERG A BENIGNI: COSÌ IL GRANDE SCHERMO RACCONTA IL DRAMMA DEGLI EBREI
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hoah in ebraico vuol dire distruzione. Sull’argomento è stato detto, scritto e girato più di quanto si possa ricordare, tuttavia è interessante soffermarsi su ciò che il cinema ha raccontato di quegli anni sui quali sono state realizzate numerose pellicole. Fra le più note si annoverano, senza dubbio, Schindler’s List, La vita è bella, Jona che visse nella balena. Può essere utile procedere a un’analisi delle storie che questi film narrano. Siamo a Cracovia nel ’39: l’imprenditore spregiudicato e donnaiolo Oskar Schindler, manovrando grazie al suo carisma i vertici nazisti, apre una fabbrica che produce pignatte e marmitte, convincendo poi gli ebrei già reclusi nel ghetto a finanziare l’acquisto dell’edificio in cambio di occupazione. In seguito, costruisce un suo personale campo, dove le milizie non hanno accesso se non con il suo permesso, arrivando, con l’imminente minaccia dello sterminio, e dando fondo a tutte le sue finanze, a costruire una fabbrica di granate, tutte rigorosamente difettose, nella natia Brunnlitz. Con l’aiuto del fidato Stern compila una lista di 1100 ebrei affinché gli vengano affidati come operai. Dopo imprevisti e disavventure, Schindler lavora per sette mesi fino al momento in cui l’armistizio non lo coglie ormai sul lastrico e lo costringe a fuggire potrando però con sé un anello d’oro per lui fabbricato dai suoi operai con incisa una frase del Talmud: “Chi salva una vita salva il mondo intero”. Infatti sono 6000 i discendenti degli ebrei da lui salvati che ancora oggi rendono omaggio a chi ha sacrificato tutto per la loro libertà. Non ce la fa a salvarsi invece Guido, protagonista de La vita è bella, storia di una deportazione vissuta con gli occhi di un bambino in bilico tra la paura e l’eccitazione del gioco, tra la fiducia nel babbo, sempre sorridente, e la sensazione che qualcosa non va. Una storia d’amore, oltre che di guerra e sangue. Guido, toscano delle montagne ed ebreo,
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s’innamora di Dora, cattolica maestra di città, la corteggia e, infine, la sposa. Nasce un figlio: Giosué. Purtroppo, però, a rompere l’idillio sopraggiungono le leggi razziali. Padre e figlio vengono dunque deportati e Dora li segue, pur non essendo ebrea, per star loro vicina. Guido per proteggere il figlio gli fa credere che sia tutto un gioco, in cui bisogna superare delle prove… e gioca fino a quando viene brutalmente eliminato da una mitragliatrice tedesca. Giosué ne esce vivo e ritrovando la madre esulta dicendo: “Abbiamo vinto!” Innumerevoli caratteristiche accomunano Giosué a un altro bambino, protagonista di Jona che visse nella balena: Jona Oberski, ebreo olandese, bambino che ha vissuto dai quattro anni in poi nel campo di BergerBelsen, bambino mai stato tale, ovvero la ricostruzione dello “sterminio” vista da chi non ricorda altro. Per Jona, il lager è qualcosa di normale, è lì che fa le sue prime esperienze di vita: dolore, rapporti sociali, capacità di sopravvivere. Jona assiste alla morte del padre, alla follia e alla morte della madre, vive la disperazione e il rifiuto della vita, ma anche il lento riprendere e accettare l’esistenza. Storie e ancora storie. Viste su un teleschermo, ma, non per questo, meno reali, meno forti, meno dure da mandar giù. Un grazie allora a tutti coloro, registi, attori, sceneggiatori... che ci aiutano a non dimenticare!
ELETTRICA
MACCHIA di Macchia Fabio
Via Badessa, 33 Lequile (Lecce) Tel. 328.0350439 • 360.833740
Riflessioni di Alberto Manca
Redazione dei “Naviganti” Periodico del Centro Diurno, CSM Lecce
Storia,
maestra di vita? illustrazione: Erik Chilly (erikchilly@libero.it)
QUANTI HANNO STUDIATO E COMPRESO GLI AVVENIMENTI DELLA STORIA E QUANTI NON AVENDOLI VISSUTI SULLA PROPRIA PELLE RESTANO AD ESSI INDIFFERENTI? I RIGURGITI DELL'INTOLLERANZA DEI NOSTRI GIORNI SONO GLI STESSI CHE IN PASSATO HANNO GENERATO ORRORI E OLOCAUSTI.
S
i è consumata un’enorme tragedia, nel secolo scorso, in Europa. Questa tragedia ha un solo, terrificante nome: Shoah. Un’intera progenie è stata cancellata dalla faccia della terra dai nazisti, con la La pace non è assenza di guerra: complicità del fascismo. è una virtù, uno stato d'animo, Il popolo ebraico di mezza Europa è stato una disposizione alla benevolenza, mandato al macello, nel tentativo di annientarne alla fiducia, alla giustizia persino la memoria. Milioni di ebrei sono andati nelle camere a gas, nei forni crematoi; i più Baruch De Spinoza fortunati fucilati in massa, altri torturati e usati come cavie per esperimenti pseudo-scientifici aberranti, nel tentativo di far diffondere e trionfare quella che veniva considerata la razza perfetta, ossia la razza ariana. Come se esistessero al mondo razze perfette e imperfette, impure. Il motivo, dicevano loro, era che i progenitori delle loro vittime erano i responsabili dell’uccisione di Gesù Cristo. Il delitto si vestiva, così, di una sua finta dignità. Peccato che la stessa Chiesa di Roma la pensasse diversamente. La chiave per capire questo efferato crimine (ammesso che sia d’obbligo comprendere le radici dell’aberrazione), sta nel fatto che qualsiasi persona considerata “diversa” veniva rinchiusa nei campi di concentramento o, nella migliore delle ipotesi, in manicomio. Disabili di ogni genere, malati mentali e omosessuali erano visti come un ostacolo nella creazione della razza pura. Né si può credere che tutto quello che accadde in quegli anni sia imputabile ad una sola persona e che tutti gli altri fossero semplici esecutori materiali: quella ideologia, sostenuta anche da eminenti filosofi dell’epoca, rappresentava un modo di pensare comune. Chi non era del tutto d’accordo o aveva qualche dubbio sull’operato del nazi-fascismo, veniva zittito con la forza e col terrore dettato dai più. L’uomo comune, si sa, ha la memoria corta, e così assistiamo oggi a un rigurgito di violenza razzista, mai sopita completamente. Nuovi adepti di quelle due fazioni responsabili dell’eccidio, nostalgici o neofiti, fanno rivivere in embrione, ma neanche tanto, il terrore passato, con atti isolati o con guerre di Stato: il “diverso” ha ancora motivo di aver paura, che sia esso nero, ebreo, disabile o portatore di qualsiasi altra forma di differenza somatica, prestazionale o sessuale. Allora, viene da chiedersi se il passato ci abbia davvero insegnato qualcosa, o se stiamo per ripetere gli stessi errori: intolleranza, sopraffazione, tirannia, vessazione degli “ultimi”. C’è da dire che questa mentalità perversa ha oggi numerosi fieri oppositori. Anche la coscienza comune è cambiata, almeno in parte o in apparenza. Certo è che la gente si è stancata di assistere alla violenza, ai soprusi, alla prepotenza di pochi. Nonostante ciò, le classi sociali più basse, si orientano nuovamente verso il servilismo, il clientelismo, il delegare le proprie responsabilità sociali e civili alle alte sfere: nuove pecore pronte a seguire una guida per niente illuminata da buoni sentimenti. Da qualche anno è stata istituita la Giornata della Memoria, proprio al fine di non dimenticare quegli avvenimenti, di una portata biblica, nonché storica. Il pericolo, quando un fatto diventa storia, è che perda l’impatto emotivo di quando è avvenuto, e che venga studiato asetticamente, giustificato persino, catalogato e alla fine archiviato. Aprendo così le porte al suo ripetersi. Un pensatore del passato, tale Vico, diceva che nella storia fatti ed avvenimenti si ripetono ciclicamente. Questa teoria è oggi controbattuta da altri studiosi. I Latini dicevano “historia magistra vitae” e cioè che la storia è una maestra. Ma quanti la conoscono, l’hanno studiata e appresa, e quanti, coloro che non avendo vissuto sulla propria pelle quegli avvenimenti, sono ad essi indifferenti? Quanti addirittura li vedono positivamente e aderiscono con la mente e col cuore a quello stesso modo di pensare? La situazione mondiale attuale non è delle più incoraggianti, ma la coscienza popolare dovrebbe essere educata, erudita, dovrebbero esserle dati degli strumenti conoscitivi e degli spunti di riflessione. Per ora stiamo tutti col fiato sospeso a vedere l’evolversi delle tendenze, non senza dare il proprio apporto perché vadano nella giusta direzione. I risultati di questo lavoro appassionato si vedranno col tempo, sperando che siano positivi.
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Architetture
di Chiara Spata
UNA PIAZZA
INVOLONTARIA IL MEMORIALE PER LE VITTIME DELL’OLOCAUSTO SI ESTENDE PER DICIANNOVEMILA METRI QUADRATI, NELLA MODERNA BERLINO. È UN MONUMENTO CHE NON VUOLE ESSERE AMMIRATO MA VISSUTO E LETTERALMENTE ATTRAVERSATO.
“A
noi non interessano i monumenti”, sostenevano gli architetti moderni, parafrasando Frank Llyod Wright, e avevano ragione. Infatti la parola monumento, tra le due guerre, era usata per esprimere la potenza di uno Stato, spesso dittatoriale, che intendeva magnificare l’autorità, il comando, la gerarchia. La Mosca di Stalin, le scenografie di Hitler, la nuova romanità di Mussolini, ma anche i parlamenti classicheggianti della nuova Finlandia o la sede delle Società delle Nazioni a Ginevra, sono tutti esempi di un’interpretazione totalitaria dell’apparato architettonico. Quello che s’ incontra camminando per Berlino, una volta attraversata la porta di Brandeburgo, a un passo dalla Reichskanzlei, dove Hitler ordinò lo sterminio degli ebrei d’Europa, si definisce monumento, ma è piuttosto un luogo per e della memoria, o come lo ha definito qualcuno un “non luogo”. Il memoriale per le vittime dell’Olocausto, inaugurato lo scorso maggio 2005, si estende su un’area di diciannovemila metri quadrati, adiacente a Potsdamer Platz. Vi si può accedere da ogni lato poiché è circondato da quattro strade e non ha ingressi privilegiati. Guardandolo da lontano appare come un vasto oceano di
La città ha fondamento sopra un misfatto. Chi rivela questo segreto è perduto. Lo spavento mi è servito a tornare indietro. Via dalle smorfie di sarcasmo della tavola del re, è chiaro. Ma dove. In questo caso neanche tu sapresti consigliarmi, madre, posso interrogare quanto voglio le linee della mano, linee chiare, va bene, ma che significa una cosa del genere oggi e qui. Christa Wolf
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L’OSSERVATORE IN CAMMINO
pietra grigia, mosso da onde. Non appena ci si avvicina si scopre la struttura a griglia, un labirinto composto da 2.711 pilastri di calcestruzzo, stele prive di nomi, date, riferimenti storici, che veicolano una forza evocativa tale da invitare immediatamente lo spettatore a perdersi nell’intreccio dei corridoi. Le altezze delle colonne non sono casuali, ma risultano dall’intersezione tra i vuoti della griglia e le linee guida della città. Ancora ai margini dell’area le stele fanno da cornice alla cupola di vetro del Reichstag, agli alberi robusti del Tiergarten, agli edifici diseguali. Man mano che i passi calpestano il tappeto pietroso, la pendenza del terreno aumenta, le stele crescono, s’innalzano come ombre nella sera, sottraggono luce, spazio, aria; alcune, inclinate di qualche grado determinano una dissonanza percettiva, minacciosa e opprimente, che allude alla follia nazista. Più ci si addentra più il disorientamento, il senso di abbandono e di solitudine ci investono, come onde di un mare fermo. La sensazione è quella di sprofondare nell’oscurità e nel male, in uno spazio che sospende il brulicare della città in fermento. E’ una porzione di memoria che s’impone e chiede d’essere vissuta, non vuole essere ammirata, ma letteralmente attraversata da corpi: uomini e donne che solcano gli stretti corridoi anche per raggiungere il loro posto di lavoro; dando così forma ad un processo che permette all’uomo di accettare il male come aspetto insopprimibile della vita quotidiana. Lo stesso Peter Eisenman, l’architetto che nel 1997 si aggiudicò la realizzazione del memoriale, (l’idea d’innalzare un monumento in onore delle vittime dell’olocausto fu di Lea Rosh, giornalista televisiva, nell’ormai lontano 1988) afferma in un’intervista: “Quello che è importante per la Germania in tutta la vicenda Berlinese è la possibilità di superare i vincoli della correttezza politica riguardo alla storia e all’olocausto. I cittadini dovranno poter dire ‘Questo monumento non mi piace’, o ‘Non mi piace Eisenman come architetto’ senza per questo sentirsi antisemiti.” Così quest’artista, capace di sfuggire ad ogni definizione attribuitagli nel corso del suo lungo lavoro (decostruzionista, concettuale, post-strutturalista, etc.) fa storicamente da contraltare ad un altro
architetto, tristemente noto per aver messo il suo genio al servizio del progetto folle di Hitler nel Terzo Reich. Albert Speer, esteta e cerimoniere del nazional-socialismo, divenuto poi ministro degli armamenti e fautore, insieme al Fuhrer, del progetto di creazione di una nuova, grandiosa Berlino, futura capitale della Germania, padrona del mondo dominato dalla razza ariana. Se Speer è stato, a posteriori, definito “l’architetto del diavolo”, Eisenman sarà ricordato probabilmente come “l’architetto della memoria”. Per rappresentare la memoria Eisenman sceglie di allontanarsi dalla tradizione commemorativa tedesca e da quella dei memoriali finora eretti in ricordo del genocidio degli ebrei. La sua opera è molto diversa da quelle del Vad Vashem di Gerusalemme, del Memorial de la Shoah di Parigi o del United States Holocaust Museum di Washinton. Non racconta, evoca. Almeno finché non si entri nel centro di documentazione sotterraneo, il quale raddoppia specularmente la struttura di superficie. Nel piano inferiore, si trovano le ricostruzioni per immagini della guerra e delle deportazioni, integrate da testi e supporti multimediali. Attraverso le cinque stanze che lo compongono si dipanano testimonianze scritte da ebrei durante la prigionia, storie di famiglie disgregate durante gli anni dell’Olocausto e un database consultabile da più terminali che offre la possibilità di cercare informazioni dettagliate sulle singole persone. L’idea di un’opera così completa ed emozionante nasce da una concezione di architettura intesa non come spettacolo, né piegata alla dura legge della moda, ma aperta ai cambiamenti radicali cui la cultura e la società sono soggette. A partire dal ‘68, anno di pubblicazione de La società dello Spettacolo di Guy Debord, la società occidentale ha accresciuto esponenzialmente il suo apparato spettacolare, ma lo spettacolo mediatico dell’11 settembre, con il crollo delle Twin Towers, ha determinato la fine di un paradigma e l’esordio di una “società del
terrore”. L’architettura, come le altre arti, ha seguito questo cambiamento, cominciando a riflettere, anche in senso ideologico e politico, sul nuovo paradigma. Lo stesso Eisenman scrive : "tutti i cambiamenti possono in qualche modo far riferimento a cambiamenti culturali [...], i mutamenti più tangibili [...] sono stati determinati dal progresso tecnologico, dallo sviluppo di nuove condizioni d’uso e dal cambiamento del significato di certi rituali e del loro campo di rappresentazione". Nelle sue opere precedenti, l’architetto sperimenta nuovi modelli attraverso la ricerca di inediti itinerari creativi: esplora le possibilità espressive della geometria non euclidea, delle spirali del DNA e affronta le Leggi del pensiero (1854), messe a punto da George Boole e Augustus De Morgan.. Per questo progetto, che definisce egli stesso, atipico, in quanto atipico nella sua eccezionalità è stato il fenomeno dell’Olocausto, Eisenman si pone, per così dire, in secondo piano e afferma che il progetto non lo riguarda, come artista, architetto o intellettuale, in prima persona, ma piuttosto ha a che fare con il tipo di risposta che l’architettura può dare alla memoria. In un’intervita rilasciata all’Espresso Eisenman racconta: “Come nella “Recherche” di Proust, in un episodio in cui Swann sta facendo una passeggiata, percorre un sentiero e i suoi passi gli ricordano di quando una volta a Venezia aveva camminato su pietre simili a San Marco. Ecco io volevo ricreare questa esperienza della memoria, del camminare in un campo di pietre. Non una pura nostalgia, ma una memoria rivissuta nel presente”. Pare che Eisenman sia riuscito nel suo intento. In una città come Berlino, con un avvenire ancora così difficile da intuire e una storia ormai distante, ma ancora emotivamente così vicina, attraversare questa piazza involontaria fatta di spigoli e schegge di vita è un’esperienza che s’incunea tra le pieghe dell’animo e apre orizzonti di dialogo inesauribili.
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