Istituto Musicale “Luigi Boccherini”
Rivista dell’Istituto Superiore di Studi Musicali “Luigi Boccherini” di Lucca n. 5 - anno 2014 - nuova serie
ISBN 978-88-8347-765-2
€ 17,00
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n. 5 - anno 2014
CODICE 602
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CODICE 602 Rivista dell’Istituto Superiore di Studi Musicali “Luigi Boccherini” di Lucca n. 5 - anno 2014 - nuova serie
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Indice Editoriale 7 di Sara Matteucci
La parola del direttore 11 di GianPaolo Mazzoli
Contributi “Un’eco nella mia musica”. Scelte e strategie di lettura nella lirica da camera di Mario Castelnuovo-Tedesco degli anni fiorentini di Mila De Santis
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La musica e il resto. Alcune considerazioni su The Little Sweep op. 45 di Benjamin Britten di Ennio Speranza
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Joaquín Rodrigo: un marchese nei giardini della chitarra dalla Spagna all’Italia di Giacomo Parimbelli
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Studi sulla musica lucchese Michele Puccini, primo storico della musica lucchese di Gabriella Biagi Ravenni
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Orazione pronunciata agli alunni dell’Istituto Musicale di Lucca di Michele Puccini
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La tesi di laurea L’importanza dell’impressionismo di Claude Debussy e della figura di Manuel De Falla nella rinascita della chitarra di Chiara Festa
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Editoriale
di Sara Matteucci
Quest’anno la rivista dell’Istituto Superiore di Studi Musicali “L. Boccherini” riprende il suo consueto percorso di approfondimento musicale, prendendo spunto da alcuni degli appuntamenti principali della stagione artistica “Boccherini OPEN”. Dopo la notevole coincidenza di vari anniversari di rilievo per la storia della musica occidentale, affrontati nel numero precedente di «Codice 602», rivolgiamo adesso l’attenzione a due importanti eventi che hanno animato gli scorsi Percorsi Musicali di Primavera, caratterizzati da concerti, seminari e masterclass con personalità di calibro internazionale e studenti provenienti da ogni parte d’Italia e dall’estero. Nello specifico ci riferiamo al “Boccherini Guitar Festival”, tre intensi giorni di manifestazioni dedicate alla chitarra, e all’OPEN DAY del 31 maggio, l’annuale giornata celebrativa delle attività dell’Istituto contraddistinta dall’accoglienza del pubblico in tutte le aule, sale e auditorium della scuola, e dall’offerta gratuita di performances e incontri culturali. Nel contesto delle multiformi iniziative proposte all’interno del festival chitarristico, particolare considerazione è stata rivolta alla figura di Mario Castelnuovo-Tedesco. Per quanto la sua produzione sia in special modo amata e valorizzata proprio nell’universo della chitarra classica, il suo eclettismo musicale è ben noto: la sua attività fu rivolta infatti a un ampio spettro di generi compositivi tra cui spicca, per quantità e spessore dell’ispirazione, la musica vocale. È dunque a questo aspetto che è stato dedicato l’importante contributo di Mila De Santis (“Un’eco nella mia musica”. Scelte e strategie di lettura nella lirica da camera di Mario Castelnuovo-Tedesco degli anni fiorentini), la quale illustra circostanziatamente la marcata originalità della posizione di Castelnuovo-Tedesco nel genere della lirica per voce e pianoforte durante i primi decenni del Novecento. Codice 602
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Alla diffusione della musica di Joaquín Rodrigo, altro autorevole ‘baluardo’ nel mondo della composizione chitarristica, è indirizzato invece l’interesse di Giacomo Parimbelli, che con l’articolo Joaquín Rodrigo: un marchese nei giardini della chitarra, esamina la frequentazione delle principali composizioni per chitarra sola e con orchestra del grande autore spagnolo, in particolare il celebre Concerto di Aranjuez. Infine, anche il contributo di Chiara Festa, che trova spazio in questa Rivista nella sezione dedicata a una delle migliori tesi di Laurea di un allievo dell’Istituto Musicale “Boccherini”, si inserisce convenientemente nell’ambito del grande rilievo rivolto alla chitarra durante il mese di maggio. L’estratto dalla tesi si intitola L’importanza dell’impressionismo di Claude Debussy e della figura di Manuel De Falla nella rinascita della chitarra e analizza l’effettiva riscoperta dello strumento del grande Andrés Segovia nel primo Novecento. Nel giorno del già citato OPEN DAY, tra le varie iniziative l’Istituto “Boccherini” ha realizzato, con le sole proprie risorse, tre rappresentazioni dell’opera The Little Sweep di Benjamin Britten, nella versione tradotta in italiano. Di questa singolare opera si parla ampiamente in La musica e il resto. Alcune considerazioni su The Little Sweep op. 45 di Benjamin Britten di Ennio Speranza, in cui si disserta in maniera decisamente persuasiva sull’identità riscontrabile tra la costruzione musicale di questo lavoro destinato a bambini e ragazzi e quella del resto della produzione operistica del grande compositore inglese: Britten qui non rinnega il proprio ‘stile’ e la sua ricerca personale, ma semplifica funzionalmente il dettato musicale lasciandone intatte le procedure. Da sempre presente, e particolare orgoglio della nostra Rivista, la sezione “Studi sulla Musica a Lucca” si occupa quest’anno di Michele Puccini, a 150 anni dalla sua scomparsa, secondo il profilo insolito di storico musicale. Pubblichiamo infatti integralmente il manoscritto dell’Orazione da lui pronunciata agli alunni dell’Istituto Musicale di Lucca nel settembre del 1850, poi nuovamente letta – con qualche modifica – 13 anni dopo dinanzi alla Reale Accademia Lucchese, in cui si illustra con dovizia di dettagli la storia della musica locale fino a quel momento. Gabriella Biagi Ravenni, notoriamente uno dei maggiori esperti della dinastia Puccini e della musica a Lucca in generale, nel suo articolo Michele Puccini primo storico della musica lucchese ci accompagna dunque in questa inedita indagine storico-musicologica, che tende a evidenziare come gli studi del padre del famoso Giacomo potrebbero porsi quali precursori di quelli, più noti, condotti dal suo allievo Luigi Nerici. 8
Con questo quinto numero della Rivista «Codice 602» anche quest’anno ci auguriamo di gettare un ulteriore seme per l’interesse di tutti verso la musicologia, e di rendere testimonianza dell’impegno dell’Istituto “Boccherini” a fare cultura con la musica e per la musica. Ricordiamo che i precedenti numeri della Rivista sono sempre disponibili per la consultazione nel sito web www.boccherini.it. Un doveroso ringraziamento va ancora al Direttore dell’Istituto GianPaolo Mazzoli a cui si affianca la riconoscenza per il comitato scientifico, gli autori dei saggi, la casa editrice Sillabe, e in particolar modo per i colleghi del comitato di redazione, i professori Giulio Battelli e Fabrizio Papi. Buona lettura.
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La parola del direttore
È l’ultimo anno del mio secondo mandato da Direttore presso l’Istituto Superiore di Studi Musicali “Luigi Boccherini”. È giunto quindi il momento di fare un bilancio delle cose fatte e di quelle che si potevano fare. Certamente sono stati anni impegnativi che hanno richiesto tanta energia, impegno e costanza nel perseguire gli obiettivi prefissati. Fin dai primi mesi del mio mandato è stata chiara la necessità di aumentare la visibilità cittadina delle nostre iniziative. Far conoscere alla città e non solo il nostro potenziale didattico, artistico e formativo. Farsi apprezzare per far capire quale valore aggiunto fosse per la città di Lucca avere una vera e propria Università della Musica. Per raggiungere quest’obiettivo è stato essenziale promuovere nuove iniziative per ogni segmento della nostra produzione didattica e artistica. La parola d’ordine è stata “innovare per rinnovarsi”. Per interpretare al meglio il cambiamento e farlo conoscere, abbiamo lavorato su una migliore comunicazione di quanto stava avvenendo e cambiando all’interno del nostro prestigioso e storico Istituto. Ci siamo impegnati per fare comprendere quali opportunità potevano esserci con i nuovi percorsi di studio e cosa significasse oggi conseguire un Diploma di Laurea in studi musicali. Abbiamo quindi lavorato per creare un percorso di studi che portasse i nostri allievi, in modo qualificato, dai primi anni di studio al conseguimento della Laurea. Non ci siamo però limitati a migliorare la percezione cittadina delle nostre attività ma abbiamo perseguito un’internazionalizzazione necessaria a fare della nostra scuola un’eccellenza anche in campo europeo. Per questo abbiamo usato i nuovi strumenti che la Riforma ci ha messo a disposizione (come il Progetto Erasmus) ma abbiamo anche attivato una rete di rapporti internazionali con importanti e prestigiosi Istituti Musicali europei e aperto, inoltre, nuove frontiere Codice 602
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di scambi con la Cina e con gli Stati Uniti. La nostra copiosa produzione artistica ha portato a Lucca i più importanti nomi del panorama musicale internazionale ed è servita ai nostri allievi come opportunità di confronto e di riflessione sul mestiere del musicista oggi. Attraverso il Master in Direzione Artistica e Management Musicale (MaDAMM) abbiamo cercato di creare nuove figure professionali spendibili in un nuovo e diverso musicale mercato del lavoro. La nostra Rivista musicologica «Codice 602», presente oggi nelle più importanti biblioteche, librerie e bookshop italiani rappresenta forse la sintesi di quello che è stato l’impegno del nostro Istituto per la promozione e la diffusione della cultura musicale. Ringrazio pertanto i docenti del Comitato di redazione che in questi anni ne hanno consentito la crescita riuscendo a farne un prezioso punto di riferimento della cultura musicale internazionale.
M° GianPaolo Mazzoli Direttore dell’Istituto Superiore di Studi Musicali “L. Boccherini”
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Contributi
“Un’eco nella mia musica”. Scelte e strategie di lettura nella lirica da camera di Mario Castelnuovo-Tedesco degli anni fiorentini
di Mila De Santis*
L’apparizione di Mario Castelnuovo-Tedesco compositore sul palcoscenico della musica nazionale e internazionale coincise con il debutto delle attività concertistiche della Società Nazionale di Musica (poi SIMM, Società Italiana di Musica Moderna). Come si legge nello Statuto, approvato il 15 luglio 1917, la SNM era sorta per “promuovere nell’arte musicale italiana uno spirito di rinnovamento e di ricerca, incoraggiando in tutti i modi la produzione e l’esecuzione di composizioni musicali interessanti per meriti di originalità, audacia e novità”1. Accanto a quelli di colleghi più anziani e già da tempo in carriera – ovvero Ildebrando Pizzetti, all’epoca suo maestro al Conservatorio Cherubini di Firenze, Alfredo Casella, suo ‘scopritore’ nonché ispiratore e massimo artefice della SNM-SIMM, Vincenzo Tommasini, Gian Francesco Malipiero e Marco Enrico Bossi – il nome del giovanissimo compositore fiorentino figura infatti, con il pianistico Raggio verde e con il ciclo di liriche Por la niña de mi corazón (le future Coplas) per canto e pianoforte, nel programma del concerto che a Parigi, il 15 febbraio 1917, inaugurò la prima stagione. Né si sarebbe trattato di apparizione isolata: se il solo Raggio verde fu ripreso a Torino (17 febbraio), entrambe le composizioni furono riproposte a Roma (16 marzo) e a Milano (16 aprile), mentre a Ferrara (14 aprile) aveva intanto fatto la sua comparsa il ciclo delle Briciole, liriche su versi * Mila De Santis è professore associato di Musicologia e Storia della musica presso l’Università di Firenze. è autrice di studi sulla Storia della musica italiana del Sette, Otto e soprattutto Novecento (in particolare su Casella, Malipiero, Busoni, Dallapiccola, Savinio, Castelnuovo-Tedesco, Berio), sulla lessicologia musicale, sui rapporti poesia/ musica, sulla critica musicale ed è curatrice di edizioni di poesia per musica di ambito rinascimentale. è stata collaboratrice del BaDaCriM (Banca Dati della Critica Musicale italiana del Novecento) ed è attualmente responsabile nazionale del Programma di Ricerca di Interesse Nazionale “Articoli musicali nei quotidiani italiani dell’Ottocento” (ARTMUS), finanziato dal MIUR per il triennio 2014-16. 1 Cfr. «Ars nova», I, 1, luglio 1917, p. 4. Codice 602
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di Palazzeschi, e a Roma, nell’ultimo concerto di quella prima stagione (4 maggio), si sarebbe eseguita la ‘futuristica’ Lucertolina per pianoforte. Su un altro elemento dovremo appuntare subito la nostra attenzione, ovvero la cospicua presenza della lirica da camera nell’ambito della programmazione complessiva della SNM-SIMM. Nel concerto parigino la nuova musica italiana si fa conoscere infatti anche attraverso le tre liriche di Pizzetti (I pastori, San Basilio e Il Clefta prigione) e le quattro, su testi del poeta indiano Tagore, che formano il ciclo de l’Adieu à la vie di Casella. Nei successivi concerti di quella medesima prima stagione 1917, le tre liriche di Pizzetti saranno eseguite più volte, insieme a molte altre: ancora di Casella e Pizzetti (rispettivamente Il bove e la Passeggiata), ma anche di Ottorino Respighi, Marco Enrico Bossi, Vittorio Gui, Gian Francesco Malipiero, Riccardo Zandonai, Domenico Alaleona, Adolfo Gandino. Non si intende certo sottovalutare la relativa semplicità che comportava, sul piano organizzativo, mettere in programma composizioni per canto e pianoforte, in considerazione dell’organico ridotto e della loro tendenziale brevità; né il fatto che quella programmazione era stata anche, necessariamente, il frutto di un compromesso tra la volontà di offrire una campionatura ampia della nuova produzione italiana, con ciò evitando il rischio di malumori tra i compositori che avevano aderito alla nuova Società, e la necessità di garantirne la qualità. Resta però indubbio che a quell’altezza di tempo – grazie a una ricercata finezza di scrittura, a un uso della voce che si voleva spogliato del suo ingombrante protagonismo ottocentesco e al ritrovato contatto con pagine importanti di letteratura in versi – la lirica da camera poteva vantare il merito di rappresentare di per se stessa un aspetto significativo del modernismo musicale italiano. Sul piano teorico, questo traguardo era stato focalizzato da Pizzetti in due ben noti saggi critici, apparsi a stampa il primo (I versi per musica) nel 19082, il secondo (La lirica vocale da camera) nel 19143. Due i passaggi su cui puntare lo sguardo in questa sede. Il primo: Pizzetti riconosceva come momento qualificante del nuovo genere il fatto che le nuove generazioni si confrontassero ora con la “vera poesia dei veri poeti”4. Era dunque la poesia ‘assoluta’ quella che doveva interessare la musica: questa ne avrebbe potenziato le risonanze espressive, rintracciandone – per usare ancora le parole di Pizzetti, tornato sull’argomento a distanza di molti anni – la “musicalità recondita, sotterranea”, quella sorta di “cantus obscurior” cui
2 «Il momento», VI, 297, 25 ottobre 1908, pp. 1-2; quindi in Id., Musicisti contemporanei, Milano, Treves, 1914, pp. 271-277 (da cui si cita). 3 «Il marzocco», XIX, 1, 15 marzo 1914, p. 3; quindi in Id., Intermezzi critici, Firenze, Vallecchi, [1921], pp. 163-172 (da cui si cita). 4 Ildebrando Pizzetti, La lirica vocale da camera, cit., p. 166.
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offrire concretezza sonora5. Il secondo: le tendenze in atto presso i compositori europei contemporanei (oltre a citare espressamente Debussy e Ravel, Pizzetti parla genericamente dei “più avanzati musicisti francesi, spagnuoli, russi, tedeschi”) attribuivano alla musica il compito di fornire una “espressione particolareggiata e quasi analitica, della poesia”6, una sorta di ‘commento in prosa musicale’ al testo poetico, ciò che era ottenuto soprattutto con la rinuncia alle forme periodiche e con una «straordinaria ricchezza di novissime espressioni strumentali». Il prezzo pagato – quello, si deve sottintendere, che sarebbe auspicabile che i compositori italiani non pagassero – era la “grande povertà di accenti espressivi nella parte vocale”7, la mancanza di un vero e proprio canto, inteso come spia di “profonda intima vita sentimentale”8. Un esempio paradigmatico di scelta letteraria alta e di moderna intonazione lo aveva fornito per tempo lo stesso Pizzetti musicando nel 1908 I pastori di Gabriele d’Annunzio: una poesia in endecasillabi, dall’andamento semiprosastico, di ricercata e scarna semplicità, descrittiva di un concreto ambiente pastorale italiano, ancorché in parte idealizzato ed elevato a simbolo di arcaica mediterraneità. Una poesia evidentemente agli antipodi di quella facile musicabilità e di quella banalità di contenuti imputate in sede critica ai versi della vecchia romanza ottocentesca, le cui qualità formali e contenutistiche erano state esaltate da Pizzetti mediante una sobria declamazione e il richiamo alle antiche modalità9. Naturalmente il rivolgersi finalmente alla “vera poesia dei veri poeti” non obbligava di per sé a scelte oggettivamente tanto ardue, dovendosi intendere quella espressione più come un requisito tecnico che non come un filtro estetico di valore assoluto: una poesia concepita appunto come tale, non come versi destinati ab origine all’intonazione musicale. Proprio la rimeria del celebrato poeta pescarese offriva ai compositori un ampio ventaglio di soluzioni e certo non meraviglia che siano state proprio le sue poesie più scopertamente ‘musicali’, per tipologie metriche e di contenuto, delle raccolte Canto novo, La chimera (in particolare quelle della sezione non a caso intitolata Intermezzo melico) e del Poema paradisiaco ad attirare maggiormente l’attenzione dei compositori. Quando si riaccosterà al d’Annunzio lirico, a pochi anni di distanza dai Pastori, lo stesso Pizzetti si lascerà tentare dalle atmosfere esotiche, molli e cullanti di Ondeggiano i 5 Id., La musica delle parole, in Musica, I, Firenze, Sansoni, 1942, pp. 125-142: 126. 6 Id., La lirica vocale da camera, cit., p. 169. 7 Ivi, p. 170. 8 Ivi, p. 171. 9 Cfr. Mila De Santis, Aspetti della lirica da camera su testi di d’Annunzio, in D’Annunzio musico imaginifico, Atti del Convegno internazionale di studi (Siena, 14-16 luglio 2005), a cura di Adriana Guarnieri, Fiamma Nicolodi, Cesare Orselli, Firenze, Olschki, 2008, pp. 215-251: 215-216. Codice 602
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letti di rose, estratto appunto da Intermezzo melico, ripristinando per la sua Erotica (1911, ma pubblicata solo nel 1922) forme di stroficità variata e un tracciato melodico di respiro ampio e cantabile10. Vi torneremo. In questo quadro, alcuni dati macroscopici bene evidenziano come Castelnuovo-Tedesco, anziché limitarsi a seguire le orme del maestro, si sia ritagliato una posizione di tutto rilievo: a) il numero delle liriche da camera da lui composte in Italia, dal 1910 circa fino alla fine degli anni Trenta, nel trentennio cioè in cui il genere conosce il suo exploit, non trova eguali nei cataloghi dei suoi colleghi, neppure in termini percentuali; b) a una produzione tanto cospicua corrisponde nella fattispecie una lucida consapevolezza delle proprie inclinazioni: Castelnuovo-Tedesco avrà modo di riconoscere apertamente nel genere della lirica da camera “la forma di espressione più adatta” al suo temperamento, e le sue liriche come le più rappresentative della sua personalità�; c) fondamentale, non solo attraverso l’apporto delle proprie musiche, ma anche per mezzo di suggerimenti e indicazioni relative a musiche altrui, è il contributo fornito da Castelnuovo-Tedesco al nuovo corso di attività della casa editrice fiorentina Forlivesi il quale, nel panorama editoriale italiano di primo Novecento, si distinse proprio per l’ampio spazio riservato in catalogo alla lirica da camera11. Si potrà parlare allora di una più che perfetta adesione a quelle istanze del modernismo musicale cui prima si è fatto riferimento? Come vedremo presto, la condivisione di gusti e orientamenti dominanti fu in realtà solo parziale, molti risultando piuttosto i tratti di marcata originalità. A cominciare dall’ambito delle scelte poetiche. Pur nella loro estrema varietà, è forse utile provare a raggruppare per linee di indirizzo le selezioni operate dai compositori di lirica da camera attivi in Italia negli anni fiorentini di Castelnuovo-Tedesco. Nel trentennio in esame, il rapporto con la “vera poesia dei veri poeti” contemporanei tende ad allentarsi progressivamente. A parte rare eccezioni, gli astri di Giosuè Carducci e di Giovanni Pascoli non illuminano i compositori di maggiore autorevolezza (ma nel 1913, ancora in terra francese, Casella eleggeva proprio Carducci a simbolo d’italianità poetica selezionando le celeberrime Il bove e Pianto antico per due liriche per voce e pianoforte e destinando la ben più impervia sestina Notte di maggio a una densa pagina per voce e orchestra). Al 1912 risale l’ultimo ricorso di Respighi all’amatissima Ada Negri. La contemporaneità resta dun10 Cfr. Cesare Orselli, “Un’espressione particolareggiata e quasi analitica della poesia”. Annotazioni sulla lirica di Pizzetti, in Pizzetti oggi, Atti del Convegno (Parma 21-22 dicembre 2002), a cura di Gian Paolo Minardi, Parma, Teatro Regio-ContrAppunti, 2006, pp. 95-128: 100105. 11 Cfr. ivi, pp. 109-111.
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que rappresentata, almeno in modo quantitativamente significativo, dal solo d’Annunzio: il quale, da una parte, è già considerabile un classico e dunque garante del più alto statuto poetico; svolge, dall’altra, un ruolo sempre attivo sull’orientamento dei gusti e, almeno apparentemente, anche nel sostegno alla nuova musica italiana12. A differenza di Pizzetti e di altri esponenti della generazione dell’Ottanta – per i quali l’avvicinamento alla variegata rimeria dannunziana rappresentò un ‘gesto’ comunque significativo, vuoi per reale affinità estetica, vuoi piuttosto per scelta tattica – Castelnuovo-Tedesco si tenne lontano dai versi “too sonorous and decorative”13 del poeta pescarese, ostentando anche negli scritti autobiografici e critici il suo convinto distacco. Pur avendo predicato bene, ad esempio, quanto alla necessità di esprimere con la pagina musicale una “vero profondo sentimento di umanità”14, il suo maestro avrebbe poi razzolato male ricorrendo a Ondeggiano i letti di rose di d’Annunzio per la già ricordata Erotica: una poesia – come si legge nella recensione che Castelnuovo-Tedesco consegnò alla «Critica musicale» – “elegante e forbita sì, ma, sebbene erotica, frigida quant’altre mai”, a conferma che certe poesie “per quanto esteriormente impeccabili e apparentemente musicali, per la fluida armonia del verso, sono d’altra parte, per la loro povertà di contenuto umano, fra le più inadatte ad esser musicate”15. Di uno spesso velo di silenzio Castelnuovo-Tedesco avrebbe circondato però la propria unica ma significativa incursione nell’officina dannunziana. Nel 1923 attinse infatti ad Alcyone, il terzo libro delle Laudi, per un componimento di ben maggiore impegno intellettuale e allo stesso tempo più consentaneo all’espressione di quella ‘toscanità musicale’, su cui avremo modo di tornare, che di Castelnuovo Tedesco stava per divenire una sorta di marchio di fabbrica: la sua Sera fiesolana, forse perché già concessa da d’Annunzio alle cure musicali di Casella, rimase in ogni caso inedita16. Decisamente rari e spesso legati a specifiche occasioni o a conoscenze personali si fanno dunque in Italia i contatti tra musica e poesia contemporanee, tra le quali si instaura anzi una sorta di reciproca diffidenza. 12 Cfr. Oltre a De Santis, Aspetti della lirica da camera su testi di d’Annunzio cit., si vedano Adriana Guarnieri Corazzol, Romanza e lirica da camera in Ead., Musica e letteratura in Italia tra Ottocento e Novecento, Milano, Sansoni, 2000, pp. 285-316 e l’accenno della stessa in Interazioni di musica e letteratura nell’Italia del primo dopoguerra, in Casella e l’Europa, Atti del Convegno Internazionale di Studi (Siena, 7-9 giugno 2001), a cura di M. De Santis, Firenze, Olschki, 2003, p. 284. 13 Mario Castelnuovo-Tedesco, Music and Poetry: Problems of a Songwriter, «The Musical Quarterly», XXX, 1, (January 1944), p. 106. 14 Pizzetti, La lirica vocale da camera, cit., p. 170. 15 Mario Castelnuovo-Tedesco, La musica e il libro. Ildebrando Pizzetti, «La critica musicale», V, 3 (marzo 1922), pp. 87-88. 16 Cfr. De Santis, Aspetti della lirica da camera su testi di d’Annunzio, cit., pp. 237-240. Codice 602
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Le preferenze vanno inizialmente alla “poesia descrittiva, narrativa, dominata da un gusto prevalentemente crepuscolare”17 (si pensi alla scelta di Gozzano per Salvezza e per La morte del cardellino e di Sergio Corazzini per Per organo di Barberia da parte del giovane Petrassi, ma anche alle ricordate Briciole di Castelnuovo-Tedesco, su testo di Palazzeschi), mentre sporadici resteranno gli incontri con i ‘neoclassici’ (di Cardarelli è il testo dei Colori del tempo di Petrassi). Verso la fine del periodo considerato fanno capolino anche taluni interessi per “la suggestione letteraria, l’immagine non perfettamente delineata, accennata”18 latamente inquadrabili nel gusto ermetico (il Lamento di Arianna ancora di Petrassi su testo di Libero de Libero; le Tre liriche di Mario Labroca su testi di Giorgio Vigolo), anche se di Ungaretti si prediligono i testi più apertamente espressivi delle sofferenze causate dal primo conflitto mondiale (Due poesie di Ungaretti di Ildebrando Pizzetti). In questo la posizione di Castelnuovo non si differenzia sostanzialmente da quella dei colleghi. Non è agevole comprendere a chi si stia riferendo esattamente quando, nel 1944, definirà la produzione contemporanea in termini di “arid poetry, which often (it may be the fault of the times) offers few attractions to a composer’s fancy”; o ancora di una “collection of verses and rhythms interesting as an intellectual game, but frequently too exoteric to arouse a sympathetic chord in another artist’s heart”19: qualora l’oggetto delle considerazioni del compositore sia ancora la poesia italiana, non ci si allontanerà troppo dal vero pensando proprio alle tendenze ermetiche. Osserveremo però, in parentesi, come la situazione non sia diversa neppure di fronte a un autore dai toni volutamente dimessi e dalle tematiche più intime e confidenziali come Umberto Saba. Parallelamente all’interesse per la poesia di schietta tradizione popolare, cui si accennerà anche oltre, si afferma semmai con gli anni Venti il ricorso a una poesia d’autore di tono popolareggiante, in particolare d’ispirazione infantile, come le ninne nanne, le filastrocche, ecc. (Castelnuovo-Tedesco ne offre un’ampia campionatura20) e alla poesia vernacolare, nella sua declinazione più domestica e sentimentale (le liriche del poeta gradese Biagio Marin, ad esempio, intonate dall’esordiente Dallapiccola); o drammatico-passionale (ai testi di Salvatore Di Giacomo 17 Gabriele Becheri, La musica e la poesia contemporanea nell’Italia degli anni Venti e Quaranta, “Arte Musica Spettacolo. Annali del Dipartimento di Storia delle Arti e dello Spettacolo dell’Università degli Studi di Firenze”, I, 2000, pp. 77-90: 79. 18 Ibid. 19 Castelnuovo-Tedesco, Music and Poetry, cit., pp. 105-106. 20 Si vedano Ninna nanna per l’album di una bimba, testo del fratello Ugo CastelnuovoTedesco (1914, ed. 1919), Il girotondo dei golosi, testo di Renzo Simi (1920); Piccino picciò, testo di Corrado Pavolini (1922), La Barba bianca, testo di Vamba (1923, ed. 1924), Due preghiere per i bimbi d’Italia, testo di Vamba (1923).
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attingono non solo autori di romanze, ma anche Pizzetti e il fiorentino Vito Frazzi, oltre che i napoletani Achille Longo e Mario Pilati); o burlesca e satirica (da Trilussa sono estratti i versi delle Quattro favole romanesche di Casella e della Tartaruga di Pilati). Sotto il nume tutelare di Gabriele d’Annunzio e forte di uno spirito nazionalistico di matrice postrisorgimentale acuitosi con il primo conflitto mondiale, dilaga a partire dal dopoguerra la riscoperta da parte dei compositori italiani delle vestigia della cultura italiana antica: una riscoperta che si vuole funzionale a un moderno sviluppo dell’arte e non asettico campo di ricerca per storici e musicologi21. Per ciò che attiene alla scelta dei testi letterari, non si tratterà tanto di ritornare ai classici della letteratura italiana antica, ovvero alla lirica di Dante e Petrarca, che a ben vedere non era stata estromessa neppure dai leggii dei compositori di romanze dell’Ottocento. Sarà piuttosto la rimeria italiana d’intonazione popolaresca, religiosa e profana, d’autore noto o meno, a essere ritenuta depositaria della più autentica vena creativa nazionale e a stimolare un nuovo interesse in ambito compositivo. Vi ricorrono in particolare Casella, con le Tre canzoni trecentesche (1923), e soprattutto Gian Francesco Malipiero, con le sue rivisitazioni musicali di Tre poesie di Angelo Poliziano (1920), Quattro sonetti del Burchiello (1921) e Due sonetti del Berni (1922), nonché di testi dal XIII al XVII secolo selezionati per le prime tre delle quattro Stagioni italiche (1923); su questa stessa scia si collocano ancora, solo per fare alcuni esempi, la scelta di un anonimo testo trecentesco per la Ninna nanna di Mario Pilati (1924)22 o la produzione lirica del giovane Ghedini, dai Quattro strambotti di Giustiniani del 1925 alle Quattro liriche dal Canzoniere del Boiardo, del 1935 (ma anche, aprendo la disamina a formazioni cameristiche più ampie, il Dallapiccola del Divertimento in quattro esercizi, per voce e piccola orchestra, 1934). Porta un marchio dannunziano, infine, anche il recupero estetizzante della lauda francescana e jacoponica: un aspetto ulteriore – al di là delle sensibilità e della maggiore o minore consentaneità spirituale dei singoli compositori – di quella semplicità e autenticità originarie, che si vogliono ora al cuore della cultura nazionale. Solo in parte, e con obiettivi in buona parte diversi, l’atteggiamento di Castelnuovo-Tedesco si confà alla ‘parola d’ordine’ del repêchage culturale 21 Per uno sguardo complessivo sul fenomeno del recupero dell’antico rimando al mio Ricezione del passato nel primo Novecento musicale italiano, «Arte Musica Spettacolo. Annali del Dipartimento di Storia delle Arti e dello Spettacolo dell’Università degli Studi di Firenze», VII, 2007, pp. 46-87. 22 Sulla lirica da camera di Mario Pilati, amico fraterno di Castelnuovo-Tedesco dalla metà circa degli anni Venti sino alla precoce scomparsa, avvenuta nel 1938, si veda Marta Poggesi, “Quando trovo le parole fatte per la mia musica, questa non si rifiuta di… nascere. Le liriche da camera di Mario Pilati, in Mario Pilati e la musica del Novecento a Napoli tra le due guerre, Atti del convegno nel centenario della nascita (Napoli, 5-6 dicembre 2003), a cura di Renato Di Benedetto, Napoli, ESI, 2007, pp. 281-307. Codice 602
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nazionale. Il suo interesse per l’antico letterario italiano non si esplica nel segno della ricerca programmatica di vene espressive originarie, della riscoperta della pagina ingiustamente dimenticata che si vorrebbe ora manifesto di una autenticità primigenia, ma si riconduce a sollecitazioni di carattere più generale e al tempo stesso più personale: accostandosi a tanta ‘vera poesia dei veri poeti’ entrata a far parte del suo cospicuo bagaglio di studi e di letture private, Castelnuovo-Tedesco incarna estensivamente la figura del compositore di liriche delineata dal suo maestro. Da questo punto di vista il suo rivolgersi a Dante (per Sera, 1921, dall’VIII canto del Purgatorio; per i Quattro sonetti da “La vita nova”, 1926, ed. 1927) e a Petrarca (con i Due sonetti e i Tre madrigali, 1933, ed. 1934) non ha un valore sostanzialmente diverso rispetto alla scelta dell’Infinito di Leopardi (1921) o delle Sei odi di Orazio, in latino (1930), o ancora, come vedremo tra poco, di molti momenti significativi estratti dalla letteratura internazionale. Nella sua autobiografia, Castelnuovo-Tedesco avrebbe ammesso con semplicità disarmante: “Una delle mie ambizioni maggiori è sempre stata quella di unire la mia musica alle poesie più belle che mi occorresse di leggere”23. Se un filo programmatico è dato rintracciare, questo collega idealmente una significativa sequenza di autori toscani: si pensi non solo ai già ricordati Dante e Petrarca, ma alla Ballata di Poliziano (1923) e alle due serie dei Quattro scherzi per musica di messer Francesco Redi (1924 e 1925, ed. risp. 1925 e 1926) che affiancano le scelte del tutto affini operate in ambito drammaturgico-musicale (La mandragola da Machiavelli, 1923, rappr. 1926, e il Bacco in toscana da Redi, 1925-26, rappr. 1931). È indubbio che nella variegata morfologia del mito della mediterraneità, alimentato dalle correnti nazionalistiche e suffragato ancora una volta dall’autorevolezza culturale di d’Annunzio, una posizione del tutto particolare veniva ad essere occupata proprio dalla ‘toscanità’: ragioni di lingua e di storia della cultura letteraria e artistica, unite agli elementi temperati del suo paesaggio e del suo clima, eleggevano quasi naturalmente la Toscana a simbolo di una ‘italianità’ quintessenziata. Non è un caso, ad esempio, che Alfredo Casella, il principale alfiere della nuova musica italiana, faccia pubblica professione di fede neoclassica attraverso due lavori vocali in diverso modo collegati alla terra toscana (le già ricordate Tre canzoni trecentesche, su testi di Cino da Pistoia, e la dannunziana Sera fiesolana, sempre del 1923); né che la sua ‘svolta stilistica’, ovvero l’abbandono dell’indeterminatezza tonale e dello sperimentalismo cromatico a vantaggio di una scrittura semplificata e più chiaramente delineata in tutti i suoi parametri, venga autogiustificata sul piano teorico proprio dalla scoperta delle armonie e del nitore di quel paesaggio24. 23 Una vita di musica, cit., p. 164. 24 Alfredo Casella, I segreti della giara, Firenze, Sansoni, 1942, p. 211.
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Scelte e strategie di lettura nella lirica da camera di Mario Castelnuovo-Tedesco
Con la seconda metà degli anni Venti, l’aggancio alla Toscana (e a Firenze) valse alla critica l’opportunità di riassumere e motivare alcune delle costanti stilistiche unanimemente riconosciute a Castelnuovo-Tedesco, a prescindere dal giudizio di valore sulle singole nuove creazioni. Se al compositore non furono risparmiate infatti alcune censure, relative a una certa uniformità e monotonia di scrittura, al latitare di un solido materiale tematico, alla piega scopertamente neoromantica presa in particolare dalla produzione cameristica, non era chi non fosse disposto a riconoscergli eleganza, equilibrio, raffinatezza, assenza di esasperazioni e radicalismi, “senso di sorridente buonumore e di serenità paesaggistica”25. (Nel 1932, sui legami della musica con il paesaggio, Guido M. Gatti, direttore della «Rassegna musicale», gli avrebbe fatto persino richiesta di un saggio specifico; la proposta non ebbe però seguito)26. Dal punto di vista del compositore, in ogni caso, la ‘toscanità’ e ancor più precisamente la ‘fiorentinità’ non furono evidentemente né scoperta, né mito, quanto piuttosto via di affermazione di un tratto identitario (che buon gioco gli avrebbe fatto, soprattutto nei primi anni di forzato autoesilio negli Stati Uniti d’America). Così come identitario, per quanto apparentemente paradossale e contraddittorio questo possa apparire, fu il suo peculiare multiculturalismo. Nel periodo considerato, il rivolgersi a pagine della letteratura straniera, tanto contemporanee quanto classiche, non solo nelle diverse lingue d’origine ma anche in traduzione, costituisce per i compositori italiani vieppiù l’eccezione che non la regola. Col rientro in patria, ad esempio, Casella si lasciò alle spalle i testi dei classicisti e dei simbolisti francesi sui quali si erano basate le numerose mélodies composte negli anni parigini, mentre nel catalogo sotto questo rispetto ben più nutrito di Malipiero nulla figura che non abbia origine dalla poesia italiana. Le eccezioni dovranno ricondursi, innanzi tutto, a un nuovo interesse per il canto popolare, espressione delle più diverse culture locali europee ed extraeuropee: tradotti in abbondanza in italiano a partire dalla fine dell’Ottocento, in questa veste conobbero grande successo anche in ambito musicale (basti qui ricordare i Cinque canti greci di Pizzetti, o i Canti armeni di Respighi). Con l’onda lunga del gusto esotico e spiritualista di fine secolo potrà poi spiegarsi l’autentico entusiasmo, come tale passeggero, suscitato da Rabindranath Tagore, vincitore nel 1913 del premio Nobel: se Casella – ancora a Parigi – utilizzerà la traduzione francese di André Gide per il già ricordato ciclo Adieu à la vie, della traduzione 25 Gianandrea Gavazzeni, Recensione a “La dodicesima notte” e “Il racconto d’inverno”, «La rassegna musicale», aprile 1936. 26 Si veda la lettera di risposta di Castelnuovo-Tedesco a Gatti, riportata in Alberto Compagno, Gli anni fiorentini di Mario Castelnuovo-Tedesco, Carrara, 2000, p. 92. Codice 602
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italiana si servono, tra i più noti, Respighi (La fine, 1917), Virgilio Mortari (Tre liriche, 1924), nonché lo stesso Castelnuovo-Tedesco con le Due liriche dal “Giardiniere”, del 1917, rimaste però inedite (di autentica fedeltà al poeta bengalino si potrà parlare solo nel caso di Franco Alfano, autore di decine di prelievi dalle raccolte Gitanjali e Il giardiniere, a partire dai Tre poemi pubblicati nel 1919). Tradizionalmente più forte è il legame della cultura italiana con la letteratura francese: anche Respighi – come già Casella – include tra le sue Sei liriche del 1912 un testo di un delicato simbolista quale Albert Samain, e più volte attinge al filone popolare. Amato, ma rigorosamente in traduzione, è il romantico Shelley, che Respighi destina più spesso alla scrittura per voce e orchestra. Decisamente eccezionale, in questo quadro, è l’interesse per la letteratura tedesca in lingua originale dimostrato da Ettore Desderi, le cui numerose liriche sono rimaste tuttavia pressoché tutte inedite. A parte il dato ovvio della preferenza accordata alla lingua nazionale, sarebbe errato vedere in questo disinteresse il risultato di un’inadeguata preparazione culturale; né saremmo nel giusto ricercando più o meno espliciti divieti nelle politiche culturali del governo fascista. È però indubbio che proprio l’individuazione della lirica vocale da camera come genere rappresentativo della modernità musicale italiana, in quanto tale dotato di caratteristiche proprie e identificabili su base nazionale, portava in qualche modo con sé anche la scommessa sulle risorse letterarie e linguistiche autoctone. Da questo punto di vista lo scarto rappresentato dalle scelte poetiche di Castelnuovo-Tedesco è eclatante, distintivo tanto di un iter formativo e di un’impronta familiare di tipo cosmopolita certamente eccezionali, quanto di quel peculiare investimento sul genere della lirica da camera cui prima si è accennato. A parte deliberate eccezioni, il tipo di rapporto instaurato da Castelnuovo-Tedesco con i testi poetici selezionati non sembra conoscere mutamenti sostanziali lungo l’arco di tempo considerato: il compositore ‘riconosce’ il testo come parte della propria esperienza biografica, culturale ed estetica e si prefigge di restituirne “un’eco”27 in musica, vale a dire un completamento sonoro, ciò che implica innanzi tutto la ricerca dei ‘giusti’ accenti, ritmi, timbri, tessiture armoniche. L’esperienza del testo poetico - il quale parla sì attraverso la semantica delle sue parole, ma anche attraverso una complessa rete di rimandi culturali che, dalla scelta del metro e dal disporsi delle parole nel verso, si estende fino alle inflessioni e ai fonemi stessi che ne identificano la lingua – è fatta dunque reagire dal compositore con l’esperienza storicizzata e connotante della musica. Indubbia, a questo proposito, è la sua peculiare disposizione mimetica, la 27 Castelnuovo-Tedesco, Una vita di musica, cit., p. 285. (Diverso ovviamente il caso dei pastiches, per cui si veda oltre).
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capacità di ricreare attraverso la pagina musicale una determinata temperie geo-culturale. La sua tavolozza dispone a questo scopo di istanze ancora perfettamente romantiche (la poetica del ‘pezzo caratteristico’, la capacità di imitazione o allusione stilistica, la scrittura pianistica evocatrice – come in Schubert – di determinate atmosfere o – come in Schumann – chiamata a interagire con la voce nella creazione della trama sonora, il senso della ‘forma-canzone’28, ecc.) unite ai colori moderni di una ricerca armonica e di una declamazione testuale di aperta derivazione francese. Le ‘ragioni del testo’ possono talora risultare prevaricanti rispetto a quelle della composizione e la ricerca di una veste musicale appropriata rischia talora di avere la meglio su una lettura più soggettiva. Castelnuovo-Tedesco se ne dimostra ben consapevole quando, ad esempio, valuta Féeries e Charmes (1936), su poesie di Paul Valéry, come “meno personali” e “più genericamente francesi”29. E tuttavia, nei molti casi che anche la critica coeva giudicò positivamente, gli elementi connotanti della musica non costituiscono una semplice vernice esteriore, ma entrano piuttosto nel tessuto vivo e originale della composizione. Nei primi due cicli di liriche, le già ricordate Coplas e le Stelle cadenti, sarebbe stato facile far prevalere la segnaletica della couleur locale, limitandosi al calco di stilemi tipici rispettivamente del canto popolare spagnolo per le prime o dello stornello fiorentino per le seconde: l’interesse è rivolto invece all’integrazione di quella in una trama compositiva raffinata e tutta novecentesca. Si veda, ad esempio, il gioco imitativo sul melisma popolareggiante associato all’interiezione iniziale, nella prima delle Stelle cadenti (Es. 1). Nel caso di testi a carattere più universalmente meditativo, la ricerca di un’ambientazione sonora si avvale di modalità di scrittura riconducibili al liederismo schubertiano (come ad esempio nella resa dell’interlocuzione con lo sferzare del vento, che è pietra di paragone delle sofferenze dell’io lirico, in Winter wind, nel secondo libro dei Shakespeare Songs, Es. 2), oppure dei toni più sfumati e analogici propri della temperie simbolista. È quest’ultimo il caso della Ballade des biens immeubles (1931, ed. 1933), su testo di André Gide, dove il senso d’irrealtà e di angoscia e al tempo stesso di fissità procurato dall’immagine della marea montante è trasmesso dalla quartina di semicrome su scala cromatica (Es. 3); o di Am Leuchtturm (Drei Heine Lieder, seconda serie, n. 2), ove la stabilità/instabilità del mare che fa da sfondo alle immaginazioni dei giovani seduti davanti alla casa del pescatore è simboleggiata nella figurazione ostinata delle terzine 28 Quello di “avere riportato la lirica da camera ad una più vera e genuina significazione musicale […] rinnovando in modo tutto suo e geniale la forma della canzone, che tutti avevano ormai abbandonata” è ad esempio il merito maggiore riconosciutogli in questo ambito dal collega Pilati (Vita musicale – Lettera da Milano, «La rassegna musicale», I, 3, (marzo 1928), pp. 184-188). 29 Castelnuovo-Tedesco, Una vita di musica, cit., p. 285. Codice 602
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discendenti sull’intervallo complessivo di nona (quarta + quinta, o quinta + quarta, Es. 4). Ne L’infinito, sulla celeberrima canzone di Leopardi, il senso della profondità dello spazio è resa richiamandosi esplicitamente alla stratificazione del piani sonori già esplorata da Debussy con La cathédrale engloutie, mentre è la figura del trillo prolungato, che si oppone alla fissità accordale, a indicare il movimento vitale in contrasto con l’immobilità dell’eterno (Es. 5). Della connotazione musicale del testo è investito spesso il livello del registro stilistico: quello infantile, ad esempio, caratterizza la prima parte di Kinderspiele (Drei Heine Lieder, seconda serie, n. 1), ove la minuziosa rappresentazione dell’originaria spensieratezza (con il ricordo dei giochi in campagna e l’imitazione del canto del gallo e del miagolio dei gatti) precede il rapido disincanto della stagione matura (Es. 6); oppure quello della canzone popolare, associato non solo a testi di marca schiettamente popolare, ma anche ad alcuni testi d’autore. È questa la scelta operata per Benedetto sia il giorno, il mese e l’anno, il secondo dei Due sonetti del Petrarca, il cui stacco – in voluto contrasto con il composto raccoglimento del primo sonetto – ricorda ancora una volta le modalità dello stornellare toscano. La musicazione comporta spesso, lo si è anticipato, la marcatura delle coordinate geografiche o storiche del testo, relative all’ambito della sua composizione oppure a quello dei suoi contenuti: il pianoforte evocherà allora il suono e gli stilemi esecutivi tipici di una determinata epoca e di un determinato ambiente, siano o meno, questi, espressamente citati nel testo. Si pensi allo strappo delle corde della lira (Orpheus, dal terzo libro dei Shakespeare Songs, n. 1, Es. 7), o dell’arpa classica (Sei odi di Orazio, V, A Venere), al ‘rasgueado’ della chitarra (Coplas e Stelle cadenti), al pizzicato del mandolino per le atmosfere settecentesche di Watteau, nei Trois fragments de Marcel Proust; ma anche allo squillo dell’antico buccine col ribattuto su ritmo puntato (Sei odi di Orazio, III, A Bacco); oppure a misture timbriche più complesse, come nella prima delle Sei odi di Orazio (Al servo), ove la mano sinistra recupera l’arpeggio dello strumento cordofono (“quasi arpa”) e la destra si muove per quinte parallele, a imitazione del melodizzare con gli strumenti a fiato (“quasi flauti”, Es. 8). In altri casi è una determinata figurazione ritmica a evocare una danza geograficamente identificata (la habanera nelle Coplas); oppure è un particolare uso della vocalità: quella del vocalizzo popolare, in particolare in sede di ultima sillaba tonica del verso, ancora per Coplas e Stelle cadenti, ad esempio; ma anche quella espressionistica del cabaret tedesco alla Kurt Weill, nel momento in cui Heine ironizza sulla grettezza dei Berlinesi (Drei Heine Lieder, seconda serie, n. 3, Der wunderbare Traum (Ess. 9 a-b). Non mancano, pur se quantitativamente poco rilevanti, episodi di ricorso a oggetti musicali precomposti: nei pochi casi di pastiches con musiche altrui, l’abbinamento del ready made musicale al testo poetico non ha 26
Scelte e strategie di lettura nella lirica da camera di Mario Castelnuovo-Tedesco
Es. 1: Mario Castelnuovo-Tedesco, Stelle cadenti, n. 1, Firenze, Forlivesi, 1919, bb. 1-7 Codice 602
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Es. 2: Mario Castelnuovo-Tedesco, Shakespeare Songs, First series, Book II, n. 2, Winter wind, London, Chester, 1923, bb. 1-5
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Es. 3: Mario Castelnuovo-Tedesco, Ballade des biens immeubles, Milano, Ricordi, 1933, bb. 1-8 Codice 602
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Es. 4: Mario Castelnuovo-Tedesco, Drei Heine Lieder, seconda serie, n. 2, Am Leuchtturm, Firenze, Forlivesi, 1933, bb. 1-6
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Scelte e strategie di lettura nella lirica da camera di Mario Castelnuovo-Tedesco
Es. 5: Mario Castelnuovo-Tedesco, “L’infinito”, Firenze, Forlivesi, 1931, bb. 1-7 Codice 602
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Es. 6: Mario Castelnuovo-Tedesco, Drei Heine Lieder, seconda serie, n. 1, Kinderspiele, Firenze, Forlivesi, 1933, bb. 13-25
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Scelte e strategie di lettura nella lirica da camera di Mario Castelnuovo-Tedesco
Es. 7: Mario Castelnuovo-Tedesco, Shakespeare Songs, libro terzo, n. 1, Orpheus, London, Chester, 1934, bb. 1-8 Codice 602
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Es. 8: Mario Castelnuovo-Tedesco, Sei odi di Orazio, n. 1, Al servo, Milano, Ricordi, 1931, bb. 1-7
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Es. 9a: Mario Castelnuovo-Tedesco, Drei Heine Lieder, seconda serie, n. 3, Der wunderbare Traum, Firenze, Forlivesi, 1933, bb. 92-103 Codice 602
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Es. 9b: Mario Castelnuovo-Tedesco, Drei Heine Lieder, seconda serie, n. 3, Der wunderbare Traum, Firenze, Forlivesi, 1933, bb. 92-103
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ragioni di contiguità geografica, storica o culturale, ma può avvenire sulla base di un generico afflato lirico (Chopin-Elisabeth Barett Browning, Poem and flowers, terzo dei Three sonnets from the portuguese; Chopin-Petrarca, Due madrigali), oppure valere come divertissement blandamente polemico proprio contro il neoclassicismo (1830: trois chansons par Alfred de Musset mises en musique sur des fragments de Bach). Si ricorderà infine come una delle più importanti chiavi di accesso a una lettura musicale dei testi poetici provenga al compositore dalla loro stessa lingua, intesa come specifico insieme di suoni, oltre che come prima espressione di una determinata cultura nazionale. Decisamente pionieristico, nel contesto del panorama musicale italiano, appare in particolare l’interesse per la lingua inglese, cui Castelnuovo-Tedesco compositore si era avvicinato giovanissimo, con i Songs shakespeariani, e che – a dispetto della crescente ‘autarchia culturale’ che caratterizza la seconda metà degli anni Trenta – era tornato a sollecitarlo veicolandogli i versi entusiasmanti quanto ‘scomodi’ di Walt Whitman30. Ogni lingua ha la sua propria musicalità […]: certo, fra le lingue che ho musicato, l’italiano è il più ampio e sonoro (simile, ma con qualche mollezza e durezza in più è lo spagnuolo); il francese è il più delicato e sottile (e meglio si presta a uno stile recitativo), il tedesco è il più aspro e drammatico, ma l’inglese è fra tutti il più intimo e, direi, il più spirituale31.
Una considerazione, quest’ultima, esposta in modo appena più circostanziato nell’articolo, già citato, consegnato al «Musical Quarterly» nel 1944. Vi si legge che la mancanza di “sonorous substance [ovvero la presenza di un numero limitato di vocali rispetto a quello delle consonanti, e di una considerevole quantità di parole monosillabiche] lends English its charm, and makes it one of the most spiritual and transparent languages I know”32. All’epoca di questa dichiarazione Castelnuovo-Tedesco – in conseguenza dei famigerati “provvedimenti per la difesa della razza italiana” emanati nel 1938 dal governo fascista – aveva passato l’oceano da alcuni anni, facendo degli Stati Uniti la sua nuova residenza: la lunga sequenza di testi in lingua inglese accostati nei suoi anni fiorentini è lì a dimostrare come tali dichiarazioni non scaturissero solo da comprensibile gratitudine per la terra che lo aveva accolto, ma da un’intima e quasi profetica consentaneità.
30 Cfr. Castelnuovo-Tedesco, Una vita di musica, cit., pp. 283-284. 31 Ivi, p. 157. 32 Castelnuovo-Tedesco, Music and Poetry, cit., p. 108. Codice 602
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La musica e il resto. Alcune considerazioni su The Little Sweep op. 45 di Benjamin Britten
di Ennio Speranza*
Come sappiamo, The Little Sweep op. 45 è la terza, diremmo quasi esemplificativa parte di un lavoro teatrale composito, Let’s make an opera!, su libretto di Eric Crozier, concepito per la seconda edizione del Festival di Aldeburgh del 1949 e che dispiega davanti agli occhi degli spettatori il farsi di un’opera per musica, ossia il tentativo – riuscito – di un gruppo di bambini e di adulti di allestire una rappresentazione musicale di cui essi stessi saranno i personaggi – An entertainment for Young People, come scritto sul frontespizio della partitura. Britten e Crozier pensarono a un cast vocale composito di professionisti e dilettanti e coinvolsero il pubblico – che nelle intenzioni dovrebbe essere formato soprattutto da ragazzi – in quattro brani, da cantarsi rispettivamente prima dell’apertura del sipario (The Sweep’s Song), come interludi tra le scene (Sammy’s Bath e The Night Song) e alla fine (Coaching Song). L’organico strumentale, formato da un quartetto d’archi, un pianoforte a quattro mani e percussioni, è allo stesso tempo funzionale a un’ampia fruibilità – d’altronde era nelle principali intenzioni dell’English Opera Group l’idea di progettare opere ‘leggere’, cameristiche, che potessero conciliare economicità e originalità strumentale – ma consente altresì a Britten di sperimentare, pur * Ennio Speranza è nato a Roma il 24 aprile 1966. Laureato in lettere e diplomato in chitarra, ha conseguito il dottorato di ricerca in Storia e Analisi delle culture musicali. È stato professore a contratto in Storia della musica presso l’Università “Sapienza” di Roma e ha insegnato presso l’Università IUAV di Venezia e la SP Escola de Teatro di São Paulo, Brasile. Collabora con Rai Radio Tre in qualità di consulente musicale, regista e conduttore. Oltre ad articoli, saggi musicologici, ha all’attivo sceneggiature per il cinema, libretti d’opera e testi teatrali messi in scena in importanti sedi come il Parco della Musica e il teatro Sistina di Roma, il teatro Gobetti di Torino, il Salone Magliabechiano della Biblioteca degli Uffizi di Firenze, il teatro Alfieri di Asti, il teatro Sociale di Bellinzona. Nel 2010 ha pubblicato per la casa editrice Giulio Perrone il libro di racconti La volubile e altre storie e nel 2013, sempre presso Perrone, la raccolta di testi teatrali Teatro ossessivo. In quello stesso anno per EDT è uscito il volume “Una pianta fuori di clima”. Il quartetto per archi in Italia da Verdi a Casella. Attualmente insegna Storia della Popular Music presso il Conservatorio “L. Refice” di Frosinone. Codice 602
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nella semplicità del dettato musicale, impasti timbrici assai originali e di grande effetto. Nel corso delle due parti iniziali viene ideato e sviluppato l’intreccio, vengono allestite le scene e vengono provati i vari momenti del libretto con la partecipazione del pubblico in alcuni cori. Infine, nel terzo atto, giunge il momento di rappresentare il lavoro vero e proprio, una sorta di opera in miniatura che prevede arie, cori e momenti recitati come in un Singspiel. Nelle prime due sezioni, in forma di commedia, aveva preso corpo la decisione del gruppo di adulti e bambini di realizzare l’opera sulla base del racconto delle prepotenze che un piccolo spazzacamino di otto anni subisce. L’atmosfera e il soggetto dell’opera non possono non far pensare a Dickens, senza dubbio, ma è evidente anche il rimando al romanzo vittoriano per bambini The Water Babies del reverendo Charles Kingsley pubblicato nel 1863 e, soprattutto, alle due poesie dell’amato William Blake intitolate entrambe The Chimney Sweeper e presenti una nei Songs of Innocence, pubblicati per la prima volta nel 1789, e l’altra nei Songs of Experience del 1794. Il risultato a cui Britten perviene, invero, è tutt’altro che pesante o pensoso o meramente denunciatore anche se, al di là delle gaiezze profuse a piene mani, della levità e del delicato umorismo presenti, al di là dell’impianto scopertamente metateatrale di tale ‘invito all’opera’, mettendo da parte il fatto che uno dei conclamati obiettivi del lavoro è certo quello di smontare i pregiudizi sull’insincerità e sull’obsolescenza del genere operistico, al di là di precise connessioni stilistiche che rendono il tutto una sorta di compendio quasi didattico, non è possibile non rimarcare che, al postutto, i moventi dell’opera sono proprio quelli dell’abbandono – condizione da cui parte la vicenda – dello sfruttamento dell’infanzia, del difficile rapporto tra mondo adulto e mondo infantile, della frattura tra singolo e società entro la quale il singolo si trova a vivere. Tutti argomenti già delineati nell’opera Peter Grimes di quattro anni prima e che vedranno in seguito altre appassionate declinazioni. Questo porta a considerare The Little Sweep non già una parentesi for Young People nella produzione operistica ‘adulta’ di Britten, ma una delle diverse variazioni ‘sul tema’. Il protagonista della vicenda, ambientata nel Suffolk del 1810, è il piccolo Sam, venduto da genitori troppo poveri a Black Bob, un “brutale spazzacamino” il quale, di concerto con suo figlio Clem, decide di sfruttarlo senza nessun ritegno. D’altronde, la tremenda pratica di usare bambini per pulire le canne fumarie più strette e pericolose in Inghilterra fu di fatto abolita solo alla fine del XIX secolo. Sam deve quindi salire sul comignolo dell’asilo di Iken Hall per pulirne la cappa. È il suo battesimo della fuliggine. L’aspetto miserevole del bambino non commuove per nulla Miss Baggot, antipatica e grossolana governante preoccupata solo che i camini vengano puliti a dovere. Rowan invece, la tata dell’asilo, l’unico personaggio adulto compassionevole, prova a fare di tutto per convincere Black Bob a non 40
Alcune considerazioni su The Little Sweep op. 45 di Benjamin Britten
impiegare il piccolo, ovviamente senza successo. Sam, piangente, entra a fatica nella canna fumaria sporca e dopo un po’, lasciato solo, si rende conto di trovarsi in difficoltà. Invoca aiuto. Le sue impaurite richieste di soccorso vengono finalmente intercettate dai piccoli ospiti dell’asilo: Juliet, Gay, Sophie e i loro cuginetti Jonny, Hughie e Tina. Il salvataggio è immediato e, con la complicità di Rowan, il piccolo spazzacamino viene pulito, accudito e nascosto dentro l’armadio dei giocattoli fino al mattino successivo, quando, chiuso in una valigia, e dopo varie vicissitudini, potrà uscire dall’asilo per andare in vacanza insieme alla bambinaia e agli altri bambini. Un’analisi completa dell’opera occuperebbe uno spazio troppo esteso ed esulerebbe dal piccolo obiettivo di queste pagine, che vogliono semplicemente mettere in luce alcuni preliminari aspetti. Il primo di essi è che Britten, pur essendo pienamente consapevole di trovarsi di fronte a un uditorio diverso da quello abituale dei teatri d’opera, concepisce il suo lavoro asciugando sì il dettato melodico e rendendolo più compatto, godibile, semplificando quindi alcune soluzioni formali, ma senza rinunciare a tutte quelle sottigliezze armoniche, drammaturgiche e soprattutto simboliche che è possibile rintracciare nelle opere per ‘adulti’. Nemmeno per un momento Britten dimostra di considerare i ragazzi e gli amatori che fruiscono dell’opera come ‘incompetenti’. La semplificazione del linguaggio musicale, doverosa soprattutto nelle audience songs, non intacca minimamente le consuete procedure del compositore inglese e, mutatis mutandis, non sembra sussistere differenza di ‘pensiero’ tra tale lavoro e il resto della sua produzione operistica. Vorrei concentrarmi solo su due momenti dell’opera al solo scopo di esemplificare quanto asserito. The Little Sweep si apre appunto con un’audience song in cui vengono presentati i presupposti della vicenda contestualmente al lavoro degli spazzacamini e alla penosa condizione del piccolo protagonista. Questo il testo della canzone: Sweep! Sweep! Saddle your donkey and set on your way! There’s chimneys need sweeping at Iken today. Bring brushers and scrapers and baskets and sacks to harvest the soot from our chimerney stacks. So Sweep! Sweep! Black Bob is coming and with him is lad, A sullen apprentice as black as his Dad; Their cries as they ride through the sharp morning air Set partridges drumming and startle the hare. So Sweep! Sweep! Sam is the white boy and sweep is his job, Codice 602
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His father has sold him to cruel Black Bob. Today is his black day, today he must climb A chimerney stack for the very first time. So Sweep! Sweep! Snape lies behind them and over the bridge They strike to the left by a narrowing ridge; Then follow the wandering dyke where it leads Through thickets of rushes and tussocks of reeds. So Sweep! Sweep! (Enter Clem and Bob singing gaily, driving a miserable and tear-stained Sam before them) Clem and Bob Saddle you donkey and set on your way! There’s chimneys need sweeping at Iken today Bring brushers and scrapers and baskets and sacks To harvest the soot from our chimerney stacks so Sweep! Sweep! (Spazzacamino! Spazzacamino! Sella il tuo asino e preparati ad andare!/ Ci sono camini che hanno bisogno di essere puliti a Iken oggi./ Porta spazzole e raschietti e ceste e sacchi per raccogliere la fuliggine dalla nostre canne fumarie, così// Spazza! Spazza! Black Bob sta arrivando e con lui il suo ragazzo,/ Un cupo apprendista nero come il padre;/ le loro grida attraversano l’aria tagliente del mattino./ Scuotono la pernice e spaventano la lepre, così// Spazza! Spazza! Sam è il ragazzo bianco e spazzare è il suo lavoro,/ Suo padre lo ha venduto al crudele Black Bob./ Oggi è proprio il suo giorno nero, oggi egli deve salire su una canna fumaria per la prima volta, così// Spazza! Spazza! Snape si trova dietro di loro e sopra il ponte/ essi si dirigono verso sinistra prendendo uno stretto crinale che conduce a un’ampia diga/ attraverso boschetti di giunchi e ciuffi di canne. così// Spazza! Spazza! (Entrano Clem e Bob, cantando allegramente, alla guida di un Sam infelice e piangente che li precede)/ Sella il tuo asino e preparati ad andare!/ Ci sono camini che hanno bisogno di essere puliti a Iken oggi./ Porta spazzole e raschietti e ceste e sacchi per raccogliere la fuliggine dalla nostra canna fumaria, così// Spazza! Spazza!)
La marcia di avvicinamento dei due spazzacamini e del loro piccolo sottoposto verso Iken Hall, luogo in cui è ambientata la vicenda, è svolta da Britten per mezzo di un marcato 5/4 in cui una stessa enunciazione di sei battute viene intonata e ripetuta tale e quale per sei volte. Ogni enunciazione comprende un’intera strofa. Ogni strofa vera e propria della canzone è preceduta dal grido “Sweep!” intonato due volte, con un movimento di volta e con un ritmo isocrono, marziale (minima-minimacroma, pausa di croma) sulle note Re4-Do4-Re4. Tale grido possiede una funzione ‘drammaturgica’, ossia descrive il cammino arrogante e ottusa42
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mente baldanzoso degli spazzacamini e altresì assolve le mansioni di sipario sulla vicenda, coinvolgendo gli spettatori sin dal primissimo momento per mezzo di un perentorio gesto musicale che, oltre a essere ‘liberatorio’, è facilissimo da memorizzare. Vi è però qualcosa di ‘stonato’ in questa baldanza, in questa perentorietà, qualcosa di ‘non giusto’, di ‘perverso’. Noi lo sappiamo cos’è: basta fare attenzione alle parole della canzone e magari aver prima fatto attenzione al paratesto. Ma, in un’opera che si rispetti, è anche la musica che deve raccontarcelo, lì e in quel momento. Mentre la voce superiore intona il movimento Re4-Do4-Re4, alla voce interiore di un’ottava è richiesto il movimento Re3-Do#3-Re3, con un evidente urto cromatico. Da un lato, da parte del compositore vi è senz’altro un’ironia ‘metamusicale’: un ampio ed eterogeneo pubblico composto da adulti e bambini difficilmente riuscirà a intonare precisi e netti intervalli di ottava e così Britten scrive in partitura ciò che potrebbe accadere nella concreta pratica dell’esecuzione. Ma c’è dell’altro. Una ragione più sottile, per così dire ‘interna’ alla vicenda, che risulta più evidente se si osserva, nelle prime battute, il movimento del basso che è Re-Sol-Re, ossia I-IV-I. Lo scontro melodico e armonico che ne consegue rende ambiguo il passaggio – visto che l’accordo sul secondo movimento della battuta è Sol-Do#-Do – nonostante la graniticità ritmico-melodica delle due battute. Tale frizione, che rimanda a una cadenza I-VII-I ma contemporaneamente adombra anche un I-VIIb-I, può essere letta come la metafora musicale di una costrizione, ossia della violenza subita sin da principio dal piccolo Sam, in corrispondenza proprio della parola “Sweep” che rimanda sia al verbo “spazzare” che al termine “spazzacamino”. E questo non è che l’inizio. Il grido “Sweep! Sweep!” viene ripetuto, come detto, per sei volte e ogni volta è armonizzato in maniera differente. La melodia che segue tale grido, basata su una serie di terzine di crome ribattute e su un andamento modulante presto ricondotto alla tonica Re, è sempre la stessa. Ciò che cambia è appunto l’armonizzazione e il movimento del basso che, nel corso delle varie ripetizioni, compie un lungo giro discendente quasi frigio (Re-Do-Sib-Lab-Sol-Fa-Mib) per attestarsi infine su Re in concomitanza con la tronfia entrata di Bob e Clem i quali ripetono la melodia all’unisono per poi concludere con un movimento cadenzale che si attesta sul Re maggiore. La terza maggiore, raggiunta dopo lo sguaiato gorgheggio dei due, in tale caso non possiede nulla di ‘positivo’, ma anzi suona alquanto beffarda, a meno che non si voglia assumere il ‘punto di vista’ di Bob e Clem. In un così semplice pezzo strofico dai contorni apparentemente netti Britten condensa una serie di ‘informazioni’ e soprattutto fa provare al pubblico, sottotraccia, l’esperienza della coercizione a cui è sottoposto il piccolo Sam. Un altro esempio, ma non l’unico, in cui l’intervallo cromatico riveste allo stesso tempo un ruolo di grande importanza drammaturgica, psicoCodice 602
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logica e ‘atmosferica’ può essere rintracciato in ciò che accade al termine del duetto tra Bob e Clem (n. III, Duet) i quali, nonostante le preghiere di Sam, costringono il ragazzo a entrare nel camino. Sam, come anticipato, viene lasciato da solo all’interno della canna fumaria, in una situazione di disagio e di estrema oscurità, con la corda penzolante nel camino della scuola in quel momento vuota. In sole cinque battute (le ultime del numero, in corrispondenza con l’indicazione agogica Slower), e con grandissima economia di mezzi, Britten riesce a trasmettere il senso di desolazione del piccolo protagonista in modo magistrale. Il pianoforte fa risuonare l’accordo di La minore in pianissimo mentre violoncello, viola e secondo violino creano un tappeto sonoro formato dalle note Mi e Do (Mi al violoncello, due Do in ottava alla viola e una quinta vuota La-Mi al violino). Nel frattempo, al primo violino è affidata una melodia che, partendo dall’intervallo ascendente di terza La4-Do5, precipita su una scala che da Reb4 (ossia Do#) si inerpica sino a Do5 passando per le note Mib-Fa-Solb-Lab-La (una sequenza formata da T-ST-T-ST). Quindi l’intervallo discendente Do5 -Reb4, sempre sull’armonia statica di La minore, viene ripetuto tre volte: il modo minore viene così intaccato dal disturbante Reb che, in questo caso lungi dall’affermare funzionalmente una nuova tonalità, confonde però le acque, le intorbidisce, rende il passaggio piuttosto inquietante: sorta di allegoria musicale del timore di Sam. D’altronde, l’utilizzo più o meno simultaneo o contiguo di modo minore e maggiore o un uso strutturale dell’intervallo cromatico può essere considerato un vero e proprio di marchio di fabbrica di Britten: basti pensare al movimento finale della Sinfonia da Requiem – in cui il Re maggiore e il Re minore si alternano creando una grande tensione emotiva – o al passaggio dal Primo Interludio marino alla prima scena del Peter Grimes – in cui il placido risveglio del borgo attuato con la canzone in maggiore contrasta con la figurazione degli archi in la minore dell’interludio che si immette quasi come una staffilata tra coro e fiati creando un sottotesto evidente: quella che sembra la placidità del borgo è contraddetta dalla sotterranea tensione che produce la frizione tra le tonalità. È ovvio che l’opposizione Do/Do# (Reb) rimanda direttamente al grido “Sweep!” ascoltato all’avvio dell’opera e, d’altronde, il piccolo Sam intrappolato nella canna fumaria è proprio alle prese con il lavoro (“Sweep!”) che gli è stato imposto. Una desolazione basata su un’opposizione armonica di semitono, ancora più terribile, si respirerà nel tragico finale del Turn of the Screw in cui lo scontro e la compresenza delle tonalità di La e di Lab (Sol#) saranno indicative del dramma in atto e del rapporto tra il giovane Miles e l’istitutrice. Niente di così terribile in questo caso, ma è interessante notare come uno stesso procedimento, al di là dei toni, degli accenti e dei generi, venga da Britten utilizzato musicalmente per commentare situazioni che si pongono sotto l’egida della frattura, 44
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dell’incombenza, dell’afflizione. Le voci degli altri bambini dapprima provengono fuori dalla scena. Una volta entrati nella sala, le grida di Sam li scuotono. Il salvataggio avviene sulle parole “Pull the rope gently until he is free! Pull O! heave O!” (“Tira la corda delicatamente fino a quando egli non sarà libero! O tira! O issa!”) e con un movimento musicale quasi cullante, che dalla tonica si trasferisce alla dominante per poi tornare alla tonica e riprendere con più lena, aumentando infine la velocità (il numero viene da Britten intitolato Shanty, che in questo caso sta per “canzone marinaresca”: il canto con cui i bambini si danno da fare per attuare il salvataggio troverà un contraltare ben più drammatico nell’opera seguente, quel Billy Budd del 1951, tutta ambientata su una nave e ricca appunto di shanties). Una volta liberato, Sam ripete quasi pateticamente la frase “Please don’t send me up again!” (“Per favore non mandatemi lì un’altra volta”) e lo fa su una breve sequenza di due note che scendono cromaticamente: prima da Re# a Re e poi da Do# a Do, seguendo in ciò la tradizione del ‘lamento’ operistico, a prescindere dell’atmosfera ormai gaia per il sopraggiunto salvataggio. All’ascolto, i passaggi che abbiamo provato a descrivere e ad analizzare brevemente non sono dotati di evidente ‘terribilità’, ed è giusto che sia così, però mostrano come Britten si serva semanticamente di un vocabolario adattandolo alla vicenda, all’interlocutore e alla propria sensibilità del momento, ma non cambiando mai il modus operandi. Questo rivela la grande attenzione che Britten ha riservato alle composizioni per gli amatori e per ragazzi, trattandole alla stregua delle proprie composizioni maggiori e ci convince che, risultati conseguiti a parte, invero assai notevoli vista la sottigliezza degli sviluppi e visto il modo in cui il soggetto è stato musicalmente trattato, The Little Sweep possa e debba essere considerata a tutti gli effetti un’opera al pari delle altre, in perfetta linea con i temi e gli stilemi del resto della sua produzione teatrale. D’altronde, di innocenza tradita e di innocenza salvata o affondata ‘parla’, in un modo o nell’altro, tutta la produzione operistica di Benjamin Britten.
Bibliografia essenziale Peter Evans, The Music of Benjamin Britten, Dent, London, 1979, pp. 264-271 Imogen Holst, Britten’s ‘Let’s Make an Opera!’, in «Tempo», 1948-49, 18, pp. 12-16 Imogen Holst, Entertaining the Young: The Little Sweep, in The Britten Companion, a cura di Christopher Palmer, Faber, London, 1984, pp. 161-164 Patricia Howard, The Operas of Benjamin Britten, Greenwood Press, Minneapolis 1979 Eric Walter White, Benjamin Britten: His Life and Operas, Faber, London, 1970, 2a ed. riv. da John Evans, Faber, London, 1983 Alessandro Macchia, Benjamin Britten, L’Epos, Palermo, 2013 Claire Seymour, The Operas of Benjamin Britten, The Boydell Press, Woodbridge, 2004 Codice 602
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Figg. 1-2: Il piccolo spazzacamino di Benjamin Britten, Auditorium dell’Istituto Musicale “L. Boccherini” di Lucca, 30 maggio 2014
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Joaquín Rodrigo: un marchese nei giardini della chitarra dalla Spagna all’Italia
di Giacomo Parimbelli*
L’occasione di scorgere, nel Boccherini Guitar Festival 2014, un significativo programma monografico dedicato alle opere chitarristiche del compositore e pianista spagnolo Joaquín Rodrigo, marchese dei giardini di Aranjuez (Sagunto, 22 novembre 1901-Madrid, 6 luglio 1999), ci permette oggi di comporre questo articolo. Le musiche sono tratte dalla Fantasía para un gentilhombre per chitarra e orchestra; il Concierto Andaluz per quattro chitarre ed orchestra (entrambi qui nella versione per chitarra/e e pianoforte) ed opere per chitarra sola. Per iniziare, una confidenza ed un chiarimento d’omonimia. La confidenza: quella che fu la mia prima visione di una chitarra in concerto, avvenne proprio ascoltando il Concierto de Aranjuez, eseguito dal chitarrista Oscar Ghiglia a Gargnano, sulla riva del Lago di Garda. * Giacomo Parimbelli chitarrista e storico della chitarra classica. Dopo i titoli umanistici, si diploma al Conservatorio di Verona. Tra i suoi rinvenimenti si segnala la localizzazione dei più antichi documenti di storia liutaria europea su Leonardo Giovanni da Martinengo, maestro degli Amati; il ritrovamento degli atti biografici del chitarrista-compositore Lodovico Antonio Roncalli e quello dei primi documenti sulla dinastia dei liutai Rovetta (’800). Nell’anno 2001 riceve il Premio “Nino Zucchelli” dell’Ateneo di Scienze, Lettere ed Arti di Bergamo. Realizza, presso la Civica Biblioteca “Angelo Mai” di Bergamo, la Mostra “Liuto e chitarra a Bergamo”. Pubblicazioni: musiche di Campion, G. A. Terzi, G. Donizetti, F. Calegari, M. Giuliani, A. Mazzola, E. B. Terzi, H. Berlioz (dal 2002 per le Ed. EurArte); Liuto, chitarra a Bergamo nei secoli con la biografia del chitarristacompositore Enrico Benvenuto Terzi (Ed. Villadiseriane, 2005); Dizionario dei Chitarristi e Liutai italiani del 1937 con primo restauro moderno (Ed. Villadiseriane, 2008); Metodo (intimo) per chitarra Ed. Novecento, 2013) e I nativi Rovetta di Azzano liutai e musicisti dell’Ottocento Italiano (Ed. Comune di Azzano San Paolo, 2014). Discografia: Citarodia Bergomense (Ed. Eurarte, 2004);Capricci Armonici per Chitarra spagnola di L. A. Roncalli (Ed. Tactus, BO, 2005), “La Chitarra di Pietro Gallinotti, liutaio di Solero” (Comune di Solero, 2009). è fondatore dell’Associazione ‘Bergamo Chitarra – Centro Studi e Ricerche “La Chitarra” – Archivio Chitarristico Italiano’. è inserito nell’Enciclopedia de la Guitarra di Francisco Herrera (Ed. Piles, Valencia, Spagna, 2009). La sua raccolta di rare opere per chitarra e strumenti, è presentata in concerti, conferenze e mostre in Europa e paesi extra-europei.
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Il chiarimento d’omonimia: nei Promessi Sposi del Manzoni vi è un Don Rodrigo: convenendo sulla diversità dei personaggi, è però vero che ciò ne facilita l’evidenza mnemonica del nome. Circa le opere di Rodrigo possiamo oggi rintracciare, sia nei formati cartacei che in quelli digitali, abbondanti notizie storiche, musicologiche, iconografiche, oltre che documenti video-sonori. La domanda è quindi d’obbligo per il musicologo odierno: cosa poter dire di più, al suo riguardo? Un argomento ci sarebbe, poco battuto e frequentato: il tema della diffusione della sua musica in Italia ed in particolare il viaggio ideale del suo chitarrismo compositivo verso l’Italia. Premetto che un conto è scrivere di Rodrigo, un altro suonare Rodrigo ed altro ancora ascoltarlo.
Ascoltare la coloristica di Joaquín Rodrigo Partirei dalla cosa più “orecchiabile” e pubblica che è il suo ascolto: chi non si è mai imbattuto in quell’aria dell’Adagio del Concierto de Aranjuez, che da sola (circa una ventina di battute) è riuscita a passare alla Storia? E chi anche non è andato oltre quell’insaziabile tema, dal potere di un refrain di una delle più gettonate canzonette d’autore? Credo che Rodrigo sapesse quanto doveva a quell’aria anche zufolata (scrivibile onomatopeicamente: ta, ta, taa -tara, ta, taa), che ha circuitato in tutte le sale e balere del mondo e fra tutti i generi musicali da quello colto, a quello leggero e popolare. Sicuramente egli individuò una sua coloristica sonora che ti fa sentire quanto in Spagna quanto in Europa: questa è la cifra della sua composizione in linea con il ripescaggio intelligente e moderno dei temi antichi. Ed aggettivare ‘coloristica’ l’opera di un compositore cieco, non è un controsenso, ma una lode artistica aggiunta. Basti pensare come la Fantasía para un gentilhombre, interamente intessuta sulle melodie cavalleresche del chitarrista Gaspar Sanz (1640-1710), abbia messo in salvo dall’oblìo l’opera originale per chitarra barocca di questo sacerdote chitarrista aragonese. A questa Fantasía non è fuori luogo l’abbinamento con Antiche danze e arie per liuto: quella novecentesca orchestrazione di Ottorino Respighi composta tra il 1917 e il 1937, la quale mette in salvo maestri italiani antichi, come quel Lodovico Antonio Roncalli (Bergamo, 1654-1713) antenato di Papa Roncalli e autore dei Capricci Armonici per chitarra spagnola (1692). Ciò non deve stupire anche quel musicologo più ortodosso: nell’orecchiabilità di un tema, si nasconde il suo successo. Non è stato così dai secoli del melodramma quando le sole arie d’opera bastavano a sminuire l’opera stessa di provenienza, e ad avere loro stesse una presenza autonoma sui palcoscenici? 48
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Vi è anche un documento sonoro, uno dei primi, del Concierto de Aranjuez, registrato nel 1947-1948 dall’Orquesta Nacional de España, con la direzione di Ataúlfo Argenta e il chitarrista Regino Sainz de la Maza (ristampato dalle edizioni Chanterelle CHR 004), ove troviamo dedicatario ed esecutore nella medesima persona. Incuriosisce che, nel disco originale a 78 giri, l’Adagio sia stato “tagliato” perché non completamente “scrivibile” sullo spazio dei supporti dell’epoca; eseguito per giunta in modo più veloce per poter incidere più note possibile. La notizia non è secondaria per chi volesse intendere certe incisioni d’epoca e relative velocità d’esecuzione: in questo caso la semiminima o quarto dell’Adagio è impostato ad un battito di 60 anziché a 40 (come indicato dall’autore). Solo nel 1963 si ha una nuova incisione di Sainz de la Maza (per la RCA), con andamenti più vicini alle 40 pulsazioni. L’incisione che mette in rilancio il Concierto è quella di Narciso Yepes del 1947, sempre con lo stesso direttore Argenta (DG 439-526-2). Yepes incise qualche anno prima la colonna sonora del film d’essai Jeux interdits di René Clement (Giochi proibiti: un tema molto caro al chitarrismo italiano degli anni 1960-1970, derivato da un tema originale di Fernando Sor): ciò arrecò ulteriore notorietà al Concierto di Rodrigo, tanto che l’immagine del chitarrista Yepes ne risultò quasi identificata sia con il Concierto che con il tema di Jeux interdits. Da segnalare l’ammirevole opera del chitarrista Alirio Díaz che incise due volte Invocación y danza di Rodrigo, nei dischi in vinile: Anthologie de la Guitare N. 6, RCA (Parigi, 1962) e Masters of the Guitar, vol. 2 (RCA, Stati Uniti, 1964). È invece un documento sonoro di grande pregio artistico, l’incisione del Concierto de Aranjuez per la Odeon, EMI (Caracas, 1967) con l’Orquesta Nacional Española, diretta da Rafael Frühbeck de Burgos, nel quale Díaz affianca anche il Concerto per chitarra ed orchestra op. 30 di Mauro Giuliani. Tale incisione fu poi diffusa n Italia nella collana discografica della Fabbri Editori I Grandi interpreti della Musica nell’anno 1979, arricchita da un buon lavoro grafico e di ricerca documentaria. Alirio Díaz, del Concierto effettuerà un’altra incisione a Los Angeles (California), per la Everest Records nell’anno 1976 con l’Orquesta Nacional Española, sempre diretta da Ataúlfo Argenta, che potremmo definire il direttore paladino del repertorio spagnolo per orchestra ed in particolare del Concierto. Va inoltre segnalata la trasmissione radiofonica del 1951 per la BBC del Concierto con il diciottenne chitarrista J. Bream e la storica interpretazione di Paco de Lucía del 1991 in un video della Polygram Iberica (tale evento dimostrò il positivo connubio dell’arte flamenca con un’opera classica conterranea). Anche in Italia le cronache musicali radiofoniche contribuirono alla diffusione in tutta la penisola del celebre Concierto, decretando il 1951 Codice 602
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come l’anno dello sbarco della sua musica diffusa via radio in Italia, partita dalla Spagna nel 1938, sebbene il suo nome appaia tre volte nella rivista «La Chitarra» tra il 1935 ed il 1938. Ne abbiamo conferma dai resoconti di riviste specializzate: in un resoconto da «L’Arte Chitarristica» di novembre-dicembre 1951, n. 30, leggiamo: Abbiamo ascoltato alla Radio il chitarrista Narciso García Yepes e ben noto in Ispagna, dove ha suonato nei maggiori teatri sostenendo la parte di chitarra solista nel famoso “Concierto de Aranjuez” di Joaquin Rodrigo. In Italia il suo nome era pressoché sconosciuto, anche a molti chitarristi, prima del 5 aprile; prima cioè che la RAI irradiasse il bel concerto diretto da Ataulfo Argenta. Centro del concerto l’opera del Rodrigo, in prima esecuzione per l’Italia. Narciso Yepes ha interpretato con vigore e sentimento la difficile parte, riscuotendo calorosissimi applausi dai presenti e facendosi apprezzare da tutti gli ascoltatori che hanno dovuto accontentarsi di udire il Concerto attraverso la Radio.
Nella stessa pagina dei concerti si legge anche di chitarristi coevi a Yepes, quali: Lutezemberger, Palladino, Presti e Tonazzi. Sempre nell’editoriale della rivista «L’Arte Chitarristica» di marzoaprile 1956 n. 56, si legge: Mario Gangi, come al solito applauditissimo ed elogiato con voce unanime dalla critica, questo nostro grande virtuoso, che presto sentiremo a Bologna, ha eseguito in modo superbo all’Angelicum di Milano, la sera del 13 marzo. Il Gangi ha in seguito eseguito alla Radio un programma con musiche di Murtula, Almeida, Pezzoli, Rodrigo.
La composizione delle composizioni Tra il mese di settembre 1938 e la primavera 1939, Rodrigo scrisse questo Concierto, dedicandolo al chitarrista Regino Sainz de La Maza di Burgos (1897-1981) da lui conosciuto. In diverse notizie biografiche, si apprende che l’idea di scrivere il Concierto, avvenne casualmente durante un pranzo nella città di San Sebastián, verso la fine dell’estate 1938. La forma di questo concerto è tripartita, quale omaggio alla forma settecentesca, nei tempi di Allegro con spirito (tonalità di Re maggiore), Adagio (tonalità di Si minore) e Allegro gentile (tonalità di Re maggiore). È lo stesso Rodrigo ad affermare che sia il secondo che il terzo tempo del Concierto gli apparvero una mattina nella mente, quasi sotto la spinta di un’ispirazione improvvisa “sovrannaturale”. Scritto quando l’autore si trovava a Parigi, ma desiderava tornare in Spagna: vi tornò due giorni prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale, il 30 agosto 1939, impossibilitato prima a causa della guerra civile. Con questa composizione Rodrigo rimise in luce la chitarra sui podi 50
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orchestrali, rimasta fuori dai tempi dei concerti settecenteschi e ottocenteschi, rispettivamente dei Quintetti e Fandango di Luigi Boccherini e dei concerti per chitarra e orchestra di Mauro Giuliani, autori storicamente assurti a mirabile esempio di amalgama tra chitarrismo ed archi. Gli anni 1940 sono i medesimi della gestazione di altri capisaldi del repertorio per chitarra ed orchestra, quali il Concerto op. 99 di Mario Castelnuovo-Tedesco (1939) ed il Concierto del Sur di Ponce (1941); del 1951 invece il Concerto para Violão e pequena orquestra di Heitor Villa-Lobos. Lo stesso Rodrigo sul tema dell’orchestrazione disse: “Ignoravo persino il quintetto che Boccherini aveva scritto per chitarra e che è considerato l’esempio più illustre”. Rodrigo non era un chitarrista. È ipotizzabile che per una consulenza chitarristica egli fosse pervenuto al chitarrista e musicologo Emilio Pujol, in quell’epoca attivo in Francia. Proprio a questi si deve presumibilmente la composizione Sarabande lointaine (Ed. Max Echig, Parigi, 1934), dedicata al vihuelista Luis Milán (del quale Pujol fu tra i primi promotori editando trascrizioni di musica antica per chitarra moderna) e diteggiata da egli stesso. La sua scrittura compositiva di Rodrigo risultò innovativa ad esempio per la realizzazione delle scale musicali nel Concierto, da eseguirsi diversamente rispetto alle scale di una Sonata per chitarra di Paganini, per l’uso diversificato e ragionato ora del tocco appoggiato, ora del tocco non appoggiato. Il Concierto deve la sua ispirazione alla residenza estiva dei Re Borboni: un’alternanza di giardini e palazzi presso Aranjuez, che la cecità del compositore, contratta per una difterite infantile, fece risaltare ancor maggiormente nella sua fantasia poetica. Di una cosa siamo edotti: la celebrità di quest’opera, ed in particolare dell’Adagio, ha messo in ombra le scritture compositive di Rodrigo precedenti e successive. Tra queste è doveroso citare la Canzonetta per violino ed orchestra del 1923, il Cántico de la esposa del 1934, i Quattro pezzi per piano del 1938 e la composizione per chitarra sola Invocación y danza del 1961, nella quale si evidenzia un raro e pregevole amalgama di melodie ed armonici naturali ed ottavati.
Lo sbarco in Italia del repertorio di Rodrigo Il Concierto fu tenuto in prima assoluta a Barcellona il 9 novembre 1940, eseguito con il chitarrista dedicatario Regino Sainz de la Maza. Pare che Segovia avesse chiesto al compositore una trascrizione dell’opera in un’altra tonalità “in stile segoviano” (Segovia si tenne lontano dalla Spagna fino al 1952). Fu accontentato molti anni dopo dallo stesso Rodrigo che nel 1954 gli dedicò la Fantasía para un gentilhombre. Il Concierto de Aranjuez incanalò su di sé le mani dei maggiori chitarristi del ’900, da Narciso Yepes, Julian Codice 602
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Bream, John Williams a Pepe Romero a Paco de Lucía. Il tema dell’Adagio, seguito dal suo Concierto, giunse tuttavia in Italia solo una decina di anni dopo gli esordi spagnoli. Il chitarrismo italiano degli anni 1930-1940 stava facendo i conti con le musiche di Tárrega, del quale idolatrato compositore si eseguivano i soli temi di Adelita e Lagrima (dei quali si son trovate prime copie manoscritte nelle custodie di chitarristi italiani); mentre i temi Recuerdos de la Alhambra e la Serenata Capriccio Arabo, erano appannaggio di pochi italiani, alcuni dei quali riuscivano nell’impresa pur impiegando corde in ferro. Il 1947 fu l’anno dell’introduzione delle corde in nylon, rarefacendosi quelle in budello, mentre più facile da reperire quelle in ferro. Molte delle chitarre in uso in Italia non erano di tipo spagnolo, ma le loro dimensioni ridotte non permettevano grandi diteggiature e movimentazioni. Gli italiani dell’epoca si sperimentavano con le nuove opere degli autori segoviani da Ponce, Torroba a Villa Lobos e lo stesso interprete Andrés Segovia sbalordiva gli uditori italiani, tanto che molti chitarristi italiani modificarono i loro repertori e strumenti sullo stile di Segovia. Molti di essi accorrendo, qualora ammessi, ai Corsi dell’Accademia Chigiana di Siena, per certi aspetti tradendo la secolare tradizione della chitarra italiana, compresi liutai ed autori. Solo figure come, prima Manuel Díaz Cano e poi Alizio Díaz, Mario Gangi, e più tardi Oscar Ghiglia, poterono mettere in pubblico i nuovi titoli di Rodrigo. Tra le prime esecuzioni in Italia si segnala quella del 17 aprile 1953 preso il Teatro Donizetti di Bergamo con il chitarrista Manuel Díaz Cano, arrivato a Bergamo grazie all’attivismo del celebre concertista Enrico Benvenuto Terzi (corrispondente tra gli altri, con Segovia, Llobet, Pujol ed il poeta Rebora). Così il prof. Marcello Ballini, noto musicologo ed autore di una monumentale biografia su Ludwig van Beethoven, critico musicale dell’«Eco di Bergamo», all’indomani del concerto, il 18 aprile 1953 con firma m.b., scriveva: Va detto senz’altro che la curiosità e l’attesa del pubblico si appuntavano soprattutto sull’anzidetto concerto per chitarra, data l’assoluta novità di un simile accoppiamento di codesto strumento con l’orchestra. Il Concerto de Aranjuez del compositore spagnuolo contemporaneo Joaquin Rodrigo […]. Al pubblico la composizione è piaciuta (anche per la rara valentia del solista, il chitarrista Manuel Diaz Cano) e l’approvazione nei riguardi dell’esecuzione ha costretto il solista a ben due bis.
Il chitarrismo italiano del primo Novecento, formatosi alla scuola dei metodi Carulli, Carcassi, Nava, si trovava di fronte a nuove formule tecniche, venute dall’impero del chitarrismo europeo che aveva sede in Spagna e delle quali solo Segovia poteva educere. 52
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Forse è anche per questo che ancora oggi si identifica istintivamente ed ingenuamente la chitarra come uno strumento iberico per eccellenza (compiendo un procedimento analogo a chi fa del violino uno strumento tzigano). Solo dagli anni 1980-1990 il Concierto de Aranjuez, può dirsi integrato nella programmazione concertistica italiana, unitamente alle altre opere di Rodrigo, le quali hanno trovato nutrimento nel nuovo chitarrismo degli anni 1950, avviato dalla “rivoluzione segoviana”, presso l’Accademia Chigiana.
Rodrigo nelle riviste italiane d’epoca Nel periodo della pubblicazione della rivista «La Chitarra» compreso tra gli anni 1934-1942, queste sono le uniche prime notizie in Italia sulle opere di Rodrigo. Si tratta di tre notizie d’importanza storica che qui riporto. Rivista «La Chitarra», settembre 1935, n. 9: Titolo: L’evoluzione della chitarra in Ispagna di L. Quievreux Continuando la sua rassegna dei grandi chitarristi spagnoli Don José Subirà giunge ai tempi attuali. Parla di Aguado, di Arcas, di Tarrega, poi di quelli viventi Llobet, Segovia, Pujol, Daniel Fortea, Regino Sainz de la Maza, nonché dei compositori – non chitarristi – che hanno scritto per questo bell’istrumento: De Falla, Turina, Moreno Torroba, Joaquin Rodrigo, Guridi, ecc. La conferenza di Don José Subirà ha questo d’interessante: egli evoca la filiazione della chitarra nel suo paese d’origine nel suo stretto rapporto con la vihuela. Rivista «La Chitarra», luglio – agosto 1937 n. 7-8: Titolo: La chitarra spagnola di Regino Sainz de la Maza La letteratura si sta arricchendo coi nomi dei musici contemporanei di ogni nazionalità e su di ogni scuola […] Falla mostrò per primo, col suo omaggio a Debussy, di quali alte realizzazioni artistiche era capace la chitarra; e seguono il suo esempio i Turina, Salazar, Torroba, Chavarri, Rodrigo, Julian Bautista, Pittaluga, Baccarise, gli Halfter, Antonio Jose, Palau, Ponce, Villalobos, Tansmann, Samazeuilh, Collet, Migot, Castelnuovo-Tedesco e molti altri. Rivista «La Chitarra», aprile 1938 n. 4: Libri e Musiche: “Sarabande lointaine” di Joaquin Rodrigo. Editore Max Eschig. Parigi. Prezzo Fr. 6,25. Questa sarabanda è stata dedicata dall’autore alla vihuela di Luis Milan; omaggio certamente devoto di un connazionale al celebre liutista spagnola del 500. Il disegno melodico e l’armonia sono improntate in maniera moderna. Ben realizzato lo stile grave della danza con belle successioni di accordi. Ottima l’accurata digitazione del M. E. Pujol. Codice 602
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Successivamente il nome di Rodrigo e delle sue composizioni, riaffiora sempre più frequentemente nei numeri de «L’Arte chitarristica» (1947-1961), che ne riporta anche le cronache delle prime esecuzioni. Rivista «L’Arte chitarristica», agosto-ottobre 1948, n. 10-11: Titolo: Il “Concierto de Aranjuez” per chitarra e orchestra di Joaquin Rodrigo, di M.G.C. La sera dell’11 dicembre 1940, un’atmosfera di vivo interesse, di intensa curiosità, di ansiosa aspettativa, l’atmosfera particolare dei grandi avvenimenti artistici, regnava al Teatro Espagnol di Madrid, illuminato a festa e gremito da un pubblico foltissimo, fra cui si notavano le più rappresentative figure del mondo musicale. […] Il Concierto de Aranjuez, piccolo e perfetto come un palazzo neoclassico […], l’equilibrio dei timbri, la coerenza e la chiarità della finissima atmosfera sonora […], Regino Sainz de la Maza fu l’interprete ideale dell’opera, superando colla sua nota nobiltà di stile, le difficoltà della complicata lettura. […]. La chitarra, nelle mani di Regino, si staccava perfettamente dal fondo orchestrale e , quando occorreva, vi si fondeva soavemente […] dandoci la possibilità di ascoltare il Concierto di Joaquin Rodrigo interpretato con una comprensione perfetta. Rivista «L’Arte chitarristica», novembre- dicembre 1951, n. 30: Concerti: Diede termine alla bella trasmissione l’esecuzione del terzo e ultimo movimento del “Concierto de Aranjuez” di Rodrigo, con l’Orchestra Nazionale Spagnola diretta dal M°. Ataulfo Argenta ed il solista di chitarra Prof. Regino Sainz de la Maza. Il M°. Mario Gangi, del quale è ben noto il brillante virtuosismo, ha di questi giorni registrato sette programmi per la Radio (rubrica: “I nostri solisti”) ed inciso due dischi per la R.C.A. I programmi per la Radio andranno in onda nell’attuale stagione estiva, e siccome il “Radio corriere” (come e avvenuto per altri solisti) non elencherà le opere che verranno eseguite, siamo sicuri di dar cosa gradita ai nostri lettori dando precise informazioni sul programma: Murtula, La piccola sorgente Almeida, Insomnia Pezzoli, Stornello Rodrigo, En los trigales.
A seguire segnalo le riviste il «Plettro Italiano» (1948-1953); il «Notiziario tecnico professionale dell’Accademia della chitarra classica» (19701986); «Il Fronimo» dal 1972 e le più recenti riviste «Seicorde» e «Guitart». Tra le pagine di queste riviste sono ricorrenti i titoli ed interpreti delle composizioni di Rodrigo.
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Joaquín Rodrigo: un marchese nei giardini della chitarra dalla Spagna all’Italia
Concerti ed audizioni musicali contemporanee Le opere di Rodrigo figurano nei programmi dei vari Festival chitarristici e musicali in genere e lo stesso Rodrigo soggiornò in varie occasioni in Italia negli anni negli anni 1972-1975 alle audizioni musicali “F. Sor” di Palermo e Roma a fianco di Emilio Pujol, Federico Moreno Torroba, Alberto Ponce e Alirio Díaz.
Conclusione Sia i temi del Concierto de Aranjuez, della Fantasía para un gentilhombre, del Concierto Madrigal e il Concierto Andaluz, che le opere per chitarra sola di Rodrigo, sono estratti fedeli di quella coloritura novecentesca europea iniziata con i Debussy, i De Falla ed i Respighi. Anche per chi non si cimenterà mai con queste opere in qualità di esecutore, il loro ascolto mirato può offrire indicazioni attendibili per l’interpretazione del linguaggio artistico e della poetica musicale e culturale del XX secolo.
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Joaquín Rodrigo, Cuatro Madrigales Amatorios inspirados en musica española del siglo XVI para canto y piano (la versione per canto e orchestra si trova nell’Archivio Musicale della S.G.A.E.), edizione anno 1957
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Joaquín Rodrigo: un marchese nei giardini della chitarra dalla Spagna all’Italia
Joaquín Rodrigo, Cuatro Madrigales Amatorios inspirados en musica española del siglo XVI para canto y piano: immagine dell’elenco delle opere pubblicate con elenco al 1957; archivio Giacomo Parimbelli Codice 602
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Studi sulla Musica a Lucca
Michele Puccini, primo storico della musica lucchese
di Gabriella Biagi Ravenni*
Che Michele Puccini dovesse essere considerato il primo storico della musica lucchese lo avevo constatato già in tempi lontanissimi: mentre preparavo la mia tesi di laurea, I Dorati, una famiglia di musicisti lucchesi, mi imbattei in un manoscritto, Della Musica in Lucca. Cenni storici. Discorso letto alla R. Accademia Lucchese nella tornata del 5 Giugno 1863 da Michele Puccini, conservato nel Legato Cerù dell’Archivio di Stato di Lucca1. Il Legato Cerù, che raccoglie un numero cospicuo di autografi di persone illustri oltre a una serie di documenti che per brevità possiamo dire familiari e attinenti in generale alla storia lucchese, è pervenuto all’Archivio di Stato di Lucca grazie a un legato testamentario di Nicolao Cerù che, com’è noto, era cugino di Michele Puccini, e che, com’è altrettanto noto, alla morte di lui divenne il tutore degli orfani e sostenne gli studi di Giacomo Puccini (e anche del fratello Michele jr) a Milano. Sul manoscritto Nicolao Cerù stesso ha apposto, tra parentesi, l’indicazione “autografo”. Dalla tesi ricavai un articolo2 in cui, fra l’altro, mettevo in evidenza l’importanza di quel manoscritto, da considerare l’antecedente delle pubblicazioni ottocentesche sulla musica a Lucca solitamente citate,
* Gabriella Ravenni è professore associato di Musicologia all’Università degli studi di Pisa. È socio fondatore del Centro studi Giacomo Puccini, del quale è attualmente Presidente e membro del Comitato scientifico. Fa parte della Commissione scientifica dell’Edizione Nazionale delle Opere di Giacomo Puccini, nell’ambito della quale coordina il Comitato per l’edizione dell’Epistolario. È Direttore della Fondazione Giacomo Puccini di Lucca e Direttore del Museo Casa natale di Giacomo Puccini a Lucca. Vicepresidente del Centro studi Luigi Boccherini, e membro del Comitato scientifico, è inoltre socio ordinario dell’Accademia Lucchese di Scienze, Lettere e Arti. 1 Archivio di Stato di Lucca (A.S.L.), Legato Cerù 171/1. 2 Gabriella Biagi Ravenni, I Dorati, musicisti lucchesi, alla luce di nuovi documenti d’archivio, «Rivista Italiana di Musicologia», vii/1, 1972, pp. 39-81. Codice 602
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Gabriella Biagi Ravenni
quelle di Domenico Agostino Cerù e soprattutto di Luigi Nerici3. Domenico Agostino Cerù era il fratello di Nicolao e dunque pure lui cugino di Michele, mentre Luigi Nerici ne era stato allievo di composizione. Più avanti, richiesta di un contributo ‘pucciniano’, scrissi un articoletto per una miscellanea celebrativa4, che si concludeva con un proposito che non ho mantenuto, quello di rileggere criticamente il testo del discorso tenuto in Accademia nel 1863 e di riproporlo “al più presto” all’attenzione dei cultori della storia della musica lucchese! Nel frattempo, comunque, sono emersi altri elementi che confermano fortemente quella primogenitura negli studi che avevo colto. Mette conto preliminarmente di ripercorrere brevemente la biografia del nostro Michele5. Nato a Lucca il 27 novembre 1813 da Domenico e Angela Cerù, rimane orfano di padre a meno di due anni (Domenico muore prematuramente il 25 maggio 1815)6. Sostenuto dall’interessamento costante del nonno Antonio, intraprese gli studi musicali nella città natale (allievo per la composizione di Marco Santucci) e si perfezionò a Bologna con Giuseppe Pilotti, poi a Napoli al Conservatorio7. Durante il soggiorno bolognese fu aggregato all’Accademica Filarmonica. Rientrato a Lucca nel 1840, dove aveva in serbo la carica di organista della Cattedrale (ricoperta da un membro della famiglia Puccini già da un secolo), trovò la sua collocazione professionale soprattutto all’interno dell’Istituto Musicale, dove fu docente di varie discipline e anche Direttore (dal novembre 1862). Provò a intraprendere la carriera operistica, con Giambattista Cattani, azione drammatica (su libretto di Luisa Amalia Paladini) che andò in scena al Teatro Pantera nel 1844, e con altri due lavori non ultimati. Compose invece soprattutto musica sacra, prevalentemente per i grandi organici necessari per i servizi musicali che la Cappella legata all’Istituto continuava a svolgere per le grandi festività liturgiche. Per le 3 Domenico Agostino Cerù, Cenni storici dell’insegnamento della musica in Lucca e dei più notabili maestri compositori che vi hanno fiorito, Lucca, Tipografia Giusti, 1871; Luigi Nerici, Storia della Musica in Lucca, Lucca, Tipografia Giusti, 1879 (Memorie e documenti per servire alla storia di Lucca, tomo XII (ristampa anastatica, Bologna, Forni, 1969). 4 Gabriella Biagi Ravenni, Michele Puccini, il primo storico della musica lucchese, in Ricordando i Puccini, Numero unico per il 50° anniversario della morte di Giacomo Puccini, Lucca, 1974, pp. 21-23. 5 Vedi: La famiglia Puccini. Una tradizione, Lucca, la musica, catalogo della mostra (Milano, Museo Teatrale alla Scala, dicembre 1992; Lucca, Museo nazionale di Palazzo Mansi, febbraio-maggio 1993), Milano, Campi, 1992-93, a cura di Gabriella Biagi Ravenni, passim. 6 Successivamente alla morte di Domenico, la famiglia Puccini si trasferisce nella casa di Via di Poggio/Corte S. Lorenzo, dove Michele vivrà e morirà. Al primo piano del palazzo in quegli anni viveva la famiglia Cerù. 7 Non ha trovato riscontro la notizia, che si continua a tramandare, che Michele sia stato allievo a Napoli di Saverio Mercadante e Gaetano Donizetti.
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necessità del suo insegnamento “compilò un trattato di Armonia ed un altro di Contrappunto, co’ quali guidava i suoi allievi alla difficile arte del comporre, e che sono rimasti inediti”8. Il trattato di Armonia risulta perduto, mentre quello di Contrappunto – più precisamente Corso pratico di Contrappunto, compilato da Michele Puccini per uso de’ suoi allievi, 1846, a dì 10 agosto – è stato fortunatamente recuperato e acquisito di recente dal Museo Puccini di Celle9. Notevole è l’elenco dei suoi allievi10, compilato da lui stesso, che distingue tra “Scolari di Contrappunto e Composizione” e quelli “puramente d’Armonia teorico-Pratica” ovvero del corso inferiore. Alla prima annotazione Michele ha aggiunto in seguito particolari relativi alla carriera percorsa dai suoi scolari. Notiamo nel primo elenco: Carlo Marsili, che diventerà Direttore dell’Istituto nel 1872, Luigi Nerici, e tre insegnanti di Giacomo Puccini all’Istituto: Augusto Michelangeli, animatore della vita musicale cittadina e docente di violino, il cognato Fortunato Magi, e Carlo Angeloni, il più amato. All’apice della carriera – era da poco diventato Direttore dell’Istituto – Michele muore prematuramente il 23 gennaio 1864. E veniamo alla sua attività di storico della musica. La prima testimonianza del suo interesse per la storia della musica lucchese sembra essere proprio l’Orazione pronunziata dall’Ill.mo Profess: Mro Signor Michele Puccini nell’Occasione del Pubblico Esperimento, Consegna dei Diplomi di Maestro Compositore e Distribuzione de Premi agli Alunni dell’Istituto Musicale Dipendente dall’I: e R. Accademia Fiorentina delle Belle arti Onorato dalla Presenza dell’Illustre Signor Presidente Luca Bourbon Marchese del Monte S.a Maria. In Lucca li 16 Settembre 185011. È interessante leggerne la premessa, dopo l’epigrafe di Sallustio “Majorum gloria posteris quasi lumen est” che chiarisce già la prospettiva. Dopo aver sottolineato la solennità dell’occasione, Michele ci fa capire qual era l’incarico che aveva ricevuto in proposito “io doveva inaugurarlo con un discorso di Subietto musicale”, e poi le motivazioni della scelta: 8 Nerici, Storia della musica, p. 108. 9 Giulio Battelli, Tesori di Giacomo Puccini a Celle. Casa Museo, Lucca, Maria Pacini Fazzi, 2010, p. 57. Il trattato ha destato l’interesse di vari studiosi, tra cui Nicholas Baragwanath, The Musical Style of Giacomo Puccini, London, Ashgate, 2008, che vi ha individuato le radici di alcuni stilemi della produzione di Giacomo Puccini. 10 A.S.L., Legato Cerù 171/3, cc. 28-29. 11 A.S.L., R. Cappella e Istituto Musicale 18, prot. 132. Una nota del segretario dell’istituzione, Filippo Biagi, attesta che “La Presente Copia è l’estratto preciso conforme all’Originale dall’Illmo Prof: M:o Michele Puccini dettato e rilasciato per lo scopo di estrarsene Copia e non ritirato che dopo Averla collazionata, e trovatala conforme l’ha anuita come vedesi dalla sua propria firma per rimanere in atti”. La firma di Michele Puccini è in calce all’ultima carta dell’Orazione. Michele però non si deve essere accorto di alcuni errori del copista, tra cui: Arlopea legale invece di Capiopea legale, Allari invece di Allacci, Hayden invece di Haydn. Codice 602
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al riflettere che le materie puramente speculative e critiche oltre esser superiori alle mie forze, erano state già sovranamente trattate dalle dotte e maestre penne del Zarlino […] fra gli Italiani dal Fux […] fra gli oltremontani, Sicché io infimo fra gli artisti nullo fra i letterati, male avrei potuto sodisfare al mio impegno ove altra idea non mi fosse sorta in mente. Pensai dunque alla Storia, ma anche qui mi si fecero innanzi e Bontempi […] e sopra tutti Padre Maestro Martini dopo di cui fra me diceva è inutile ritoccar quest’argomento. Ma la parola Storia fermò alquanto la mia attenzione e riflettendo che Lucca ha mai sempre goduto della fama di città Musicale12 credetti non fare cosa discara a miei concittadini se parlando della Storia della musica in Lucca gli avessi per breve tempo trattenuti.
Interessante anche apprendere il metodo: Mi detti in allora a far ricerca di notizie e documenti all’oggetto di formare una storia della musica in Lucca, e agli archivi di stato, e de’ canonaci della Cattedrale, de’ Seminarj, gli storici, i Biografi, non che parecchie notizie, che io possedeva in famiglia, mi hanno fornito di lumi non pochi per la mia materia.
Curioso leggere il proposito, dopo la dichiarazione che l’occasione e il poco tempo avuto per compiere le ricerche lo obbligavano alla brevità: “dare alla luce una più estesa storia della Musica in Lucca”. Michele non dette mai alla luce una più estesa storia, ma continuò a coltivare il suo interesse in modo sistematico e approfondito. Alla luce dette un articolo su Francesco Geminiani13, che uscì, in una rubrica Cenni biografici di uomini celebri, nel periodico lucchese «La scena. Foglio umoristico letterario artistico e teatrale» (I/15, 24 febbraio 1854, pp. 1-2). Interessanti le note del redattore a piè di pagina: Questa Biografia fa parte di un’opera inedita intitolata Dizionario Biografico Musicale Lucchese compilato dal Ch. Maestro Sig. Michele Puc-
12 Per quanto è di mia conoscenza, questa di Michele Puccini è la prima formulazione del concetto che, con variazioni, viene ancora riproposto. Michele lo ripeterà a ogni occasione opportuna. 13 Questo articolo sembra essere il primo contributo italiano sul compositore lucchese. L’interesse dei Puccini per Geminiani è testimoniato da un autografo di Domenico (A.S.L., Legato Cerù 171/8), che sembra essere un abbozzo di traduzione dal francese del trattato Guide harmonique, ou dictionnaire harmonique (Parigi, 1756). Di Domenico Puccini sono conservati anche una bozza di un dizionario di musica (Legato Cerù, 171/10) e appunti da cui si evince un interesse per le biografie dei musicisti (Legato Cerù 171/9). Un autografo di Antonio Puccini, Esposizione della Questione, ed Osservazioni sopra quella (Legato Cerù 142/29), conferma l’attitudine teorica/musicologica dei Puccini. Antonio affronta questioni di armonia che erano state oggetto di un dibattito tra teorici italiani, corredandole di riferimenti bibliografici; vi è pure una sorta di appendice, con brevi note su compositori che sembrano tratte da Jean-Benjamin de La Borde, Essai sur la musique ancienne et moderne, Paris, P. D. Pierres, 1780.
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cini Professore di Composizione e Armonia nel nostro Liceo Musicale. Dizionario che noi facciamo voti onde venga dato alla luce, e per lustro che apporterebbe alla patria nostra, e perché potrebbe servire d’incitamento alla compilazione di un Dizionario Biografico Musicale Italiano. Alla Biografia del Geminiani ne terranno dietro altre anche più interessanti dettate dal Prof. Puccini (il quale ci onoriamo di avere a collaboratore), la prima delle quali sarà quella del nostro Boccherini.
Contrariamente all’annuncio, in un successivo numero del periodico (I/17, 10 marzo 1854) compare la biografia di Filippo Manfredi. In seguito la collaborazione di Michele dovette cessare, dato che in numeri successivi compaiono biografie di musicisti, non lucchesi, firmate da Zirardini. Materiali preparatori per il progettato Dizionario Biografico Musicale Lucchese sono individuabili in altre carte conservate nel Legato Cerù: Note ed Appunti di Musici di Michele Puccini, 186314, brevi schede organizzate in ordine alfabetico, la cui stesura è sicuramente legata a quella di Della musica in Lucca. Cenni storici. Dei risultati delle ricerche di Michele farà tesoro il cugino Domenico Agostino Cerù, che nel 1871 pubblicherà Cenni storici dell’insegnamento della musica in Lucca e dei più notabili maestri compositori che vi hanno fiorito15. A Luigi Boccherini, tra tutti i musicisti lucchesi, Michele Puccini dedica le ricerche più attente e approfondite. Inizia assai presto, collaborando con il suo caro amico Masseangelo Masseangeli nella ricerca di autografi16: Amico carissimo Lucca 7 Maggio 1850 […] Per ciò che riguarda la Pormarini (?) non vi è mistero alcuno. La persona morta in Spagna è la madre della giovine che sta attualmente in Lucca, quella medesima che si era incaricata di trovare gli autografi Boccherini. 14 A.S.L., Legato Cerù 171/ 2. Del Dizionario è rimasta almeno una scheda più estesa, quella su Domenico Vannucci, che Michele Puccini riteneva fosse il maestro di Boccherini, in Legato Cerù 29/252. 15 Vedi nota 3. La derivazione è confermata anche dalla stesura manoscritta di Cerù, Musicisti lucchesi. Note di Domenico Agostino Cerù in A.S.L., Legato Cerù 171/15. 16 Accademia Filarmonica di Bologna, Collezione Masseangeli. Masseangelo Masseangeli (Lucca, 1809-Gello, Lucca, 1878), dopo gli studi a Lucca, e la laurea in legge all’Università di Roma, era stato segretario dell’Accademia dei Filomati di Lucca fino al 1837, poi si era stabilito a Napoli, impiegato come precettore dei figli del principe di Monte Mileto fino al 1848. Ritornato a Lucca, si era stabilito a Gello di Camaiore. Ebbe altri impieghi come precettore (a Livorno e ancora a Napoli). La sua attività principale fu un’instancabile ricerca di autografi e manoscritti di vario genere. In un primo testamento aveva manifestato il proposito di lasciare tutta la sua ricchissima raccolta alla Biblioteca pubblica di S. Frediano di Lucca, ma successivamente decise per il lascito all’Accademia Filarmonica di Bologna. Altri fondi furono destinati al Museo Civico di Venezia, alla Biblioteca Nazionale di Firenze, agli Archivi emiliani di Parma e all’Archivio di Milano. Codice 602
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Gli autografi del Serassi non esistono altrimenti in Lucca non essendovi stato alcuno che sia mai entrato in trattative con quella fabbrica per commettere lavori. Con facilità ne potrai trovare in Pisa, e forse presso il M.° Benvenuti avendo in quel Duomo fabbricato un grand’organo, ed essendo il Benvenuti M.° di quella Chiesa. Rinnovo le proteste di amicizia cordiale, e vorrei potermi spendere per te come tu fai con me. La Mamma ti ritorna i saluti, e ringraziamenti delle memorie, e credimi Affezionato amico MPuccini
Oltre a ricercare autografi, Michele si procurò la prima monografia sul compositore lucchese di Louis Picquot, pubblicata nel 185117. L’interesse era condiviso da Antonio Mazzarosa, al quale evidentemente dette in prestito il volume, che fu restituito il 29 luglio 1852, come attesta questa lettera: Pregiatissimo Sig. Maestro Restituisco il libro e la ringrazio molto del gran piacere avuto nel leggerlo. Finalmente si è trovato chi ha voluto e potuto illustrare in degno modo quel meraviglioso nostro concittadino. Ed io ho preso nota del libro per acquistarlo e fine di arricchirne la mia piccola biblioteca lucchese. E ripetendole i miei ringraziamenti, passo a segnarmi con la debita stima Suo servitore aff.mo Antonio Mazzarosa All’Ill.mo Signore Michele Puccini Professore di Musica
E in effetti la copia della monografia di Picquot oggi conservata presso la Biblioteca Comunale Sormani di Milano è quella che Michele Puccini si era procurato, come è attestato da una nota di possesso18. Non si dimentichi che il Mazzarosa, oltre a inserire in una sua pubblicazione19 un ammirato profilo di Boccherini, si era procurato la partitura dello Stabat mater, che era stato “eseguito nella chiesa collegiata di S. Paolino”20 nel 1840. I frutti delle ricerche boccheriniane di Michele Puccini possono es17 Louis Picquot, Notice sur la vie et les ouvrages de Luigi Boccherini, suivie du catalogue raisonné de toutes ses oeuvres, tant publiées qu’inédites, Paris, chez Phillip, 1851. 18 Marco Mangani, Luigi Boccherini, Palermo, L’Epos, 2005, p. 42, nota 23. L’ultima iscrizione è firmata Gino Zampieri: “dono del m° Giacomo Puccini, Milano, gennaio 1906”. 19 Antonio Mazzarosa, Della instruzione dei Lucchesi. Compendio storico-critico, in Opere del marchese Antonio Mazzarosa, tomo I, Lucca, Tipografia Giusti, 1841, pp. 130-132. 20 Nerici, Storia della musica, p. 303, nota 91.
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sere letti in Notizie istoriche intorno alla vita di Luigi Boccherini Violoncellista e celebrato compositore di musica strumentale, vari estratti da documenti e da libri 21, prevalentemente un autografo, con aggiunte successive che possono essere attribuite a Nicolao e Domenico Agostino Cerù. Anche in questo caso Domenico Agostino fece tesoro delle ricerche del cugino, e infatti, poco dopo la morte di Michele, pubblicò la prima monografia lucchese su Boccherini22. Del resto Michele e Domenico Agostino erano entrambi membri della Società del Quartetto, fondata a Lucca nel 186223. Ritorniamo all’Orazione del 1850 e al Della Musica in Lucca del 1863, ovvero i due profili della storia musicale lucchese. Tra le due date, come si è visto, si era inserita un’intensa attività di ricerca e qualche pubblicazione24. L’impianto è fondamentalmente il medesimo, una sorta di premessa metodologica, e una serie di punti/capitoli (che in Della Musica in Lucca sono numerati), che trattano dei medesimi argomenti. Diverse le due premesse, e pure le conclusioni, com’è logico considerando la diversità dei destinatari, neo diplomati in composizione e alunni dell’Istituto da una parte, un consesso di accademici dall’altra. Merita citare la seconda premessa: L’Istoria di qualunque arte, è a mio credere una delle maggiori, e più difficili intraprese: intendo dire di una Storia perfetta che poco o nulla lascia a desiderare. La storia poi della Musica abbracciando tante parti svariate, richiede a ben trattarla il corredo di tanti lumi che può esser considerata come una delle più difficili. La cognizione delle lingue dotte, delle scienze fisico-matematiche, la conoscenza di tutte le cifre e caratteri usati per più di dodici secoli, e di tutti ancora gli autori sì teorici che prattici, la scienza de’ suoni delle proporzioni la ragione de suoi principi filosofici l’armonia, la melodia il metro il ritmo etc. sono tutti materiali che lo scrittore storico dovrà porre in opra come pietra fondamentale del suo edificio: Assai migliore è 21 A.S.L., Legato Cerù 171/12 (autografo). 22 Domenico Agostino Cerù, Cenni intorno alla Vita e le Opere di Luigi Boccherini letti alla R. Accademia de’ Filomati nella tornata del 18 aprile 1864 da D.A. Cerù, Pubblicati dalla Società del Quartetto Instituita in Lucca, Lucca, Tipografia Fratelli Cheli, 1864. 23 Marco Tovani, La Società del Quartetto e la Società Orchestrale Boccherini, in Puccini e Lucca. “Quando sentirò la dolce nostalgia della mia terra nativa”, catalogo della mostra (Lucca, Palazzo Guinigi, 14 giugno-22 dicembre 2008), a cura di Gabriella Biagi Ravenni e Giulio Battelli, Lucca, M. Pacini Fazzi, 2008, pp. 64-71. 24 Si segnala anche Elogio funebre di Giuseppe Rustici Maestro della Cappella e Scuole Musicali del Municipio di Lucca nei solenni funerali celebrati dalla Venerabile Confraternita di S. Cecilia nella Chiesa de’ SS. Giovanni e Reparata il XXVII settembre MDCCCLVI del Prof. Michele Puccini Maestro Direttore della Cappellla e Scuole Musicali del Municipio di Lucca Maestro di Cappella della Metropolitana Accademico Filarmonico di Bologna di quella di Guido d’Arezzo Socio Prof. dell’Accademia Fiorentina di Belle Arti e Segretario della Confraternita di S. Cecilia, Lucca, Tip. Bertini, 1856, in cui il nostro, oltre a fornire un importante quadro dei metodi didattici della scuola musicale lucchese, nomina i più importanti compositori lucchesi. Codice 602
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la condizione di colui che detta la storia delle poesia, e dell’arte del disegno: le di loro produzioni vivono e possono agevolemente venire poste sott’occhio d’ognuno: Laddove quelle dell’arte musicale già più non esistono nell’atto in cui t’apparecchi ad esaminarle, ed a render ragione delle di loro bellezze Né giova il rispondere che esistono le carte musicali poiché in tal faccenda l’ufficio (?) dell’occhio non può che imperfettamente supplire a quello dell’orecchio. Oltre che i caratteri della musica formano una lingua incomprensibile per chiunque non l’ha appresa. Essi non possono porgere altra notizia che della sola composizione, e sono per così dire simili a quelli d’una lingua morta che abbisognano di esser tradotti per essere intesi.
Poi la corrispondenza puntuale, fino alle conclusioni, ancora diverse. Si leggano prima le raccomandazioni ai neodiplomati in composizione, alle carte 27-29 dell’Orazione, in particolare: Non gretto compositore io vi desidero, ma compositor filosofico, e perciò vi raccomando per vostra seria occupazione la cultura delle lettere, laddove vogliate sentimentalmente esprimere musicando i concetti sì della italiana come della latina favella, e perché non debba rimproverarsi a voi come l’Arteaga fa di quei maestri la di cui anima non esiste fuor de’ tasti del cembalo, la cui esistenza tutta si raduna sulle punta delle dita, la carta geografica sono gli spartiti ove si comprende tutto il loro scientifico.
E poi il capitolo XXII di Della musica in Lucca: Nel compendiare questi cenni storici non ho avuto altro scopo che di presentare una pura e semplice cronaca. Mi riserbo di sviluppare le singole materie per titoli, come p: e: delle Scuole, della Cappella, de Teatri, delle Musiche Ecclesiastiche, ed altro, con aggiungervi un Dizionario Biografico di Musicisti, ed artisti Lucchesi, elemento tutto che già posseggo fornito di relativi documenti.
Azzardato trovare corrispondenza con l’articolazione della Storia della Musica in Lucca del Nerici? Che nella Ragione e dedica dell’opera25, rivolta “Ai soci della R. Accademia Lucchese”, cita proprio il discorso letto nella stessa Accademia da Michele Puccini, discorso “il quale, per non essere stato da lui consegnato al nostro Segretario, andò disgraziatamente perduto”. Si potrebbero citare comunque molte corrispondenze puntuali, nelle notizie fornite e nelle fonti citate (specialmente illuminanti le ripetizioni di informazioni che oggi risultano non esatte). Dunque, corrispondenza puntuale degli argomenti, tra Orazione e Della Musica in Lucca, anche se Michele Puccini aggiunge nel secondo discorso 25 Nerici, Storia della musica, pp. 3-6.
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informazioni nuove, e ne corregge molte. Una correzione importante26 la troviamo nel capitolo dedicato a Luigi Boccherini, che in entrambe le fonti inizia così: Ma che dirò di colui, che genio trascendentale destò l’ammirazione Europea come compositore di musica Strumentale in particolare, di colui che fù l’onore della musica italiana, che di cui natali natura volle che Lucca fosse privilegiata?
Il capitolo dedicato ai suoi antenati nel secondo discorso è ripreso quasi letteralmente: Non vorrei che sembrasse ostentazione da un lato, ed ambizione dall’altro, se tacessi o parlassi de miei antenati i quali hanno avuto una qualche parte nella storia musicale del nostro paese. Crederei di defraudare la loro memoria se ne tacessi, ed a parlarne mi trovo appoggiato dal Gervasoni e dal Me Mazzarosa. Questi tre storici tengono proposito della famiglia Puccini, ed io non farò che ripetere in epilogo le di loro espressioni […].
È certo che per i suoi studi Michele si sia avvalso della ricca biblioteca di famiglia, che conteneva, oltre alle composizioni dei suoi antenati, anche una collezione importante di composizioni di altri autori, non solo lucchesi, e di trattati teorici. Doveva esserci anche una collezione di autografi se, dopo la morte di Michele, Masseangelo Masseangeli scrisse a Nicolao Cerù una lettera in cui, oltre a manifestare il suo grande dolore per la “perdita della più cara persona che avessi al mondo”, chiede informazioni27: Parlatemi di lui più che potete, ditemi le sue disposizioni testamentarie se ha potuto darle: Ditemi che si pensa di fare della sua Libreria musicale, del suo copioso Archivio. Io ho qualche volume di Suo, che religiosamente restituirò quando mi avrete informato in proposito. Se mai si trattasse di vendita o in tutto o in parte, fatemelo sapere, e ricordatevi sempre che, in proposito di autografi originali, vi sono anch’io per acquistarne, e sopra tutto quel piccolo brano di Marcello, che era da dividersi me lo avrebbe ceduto per metà.
È noto che Albina Magi, rimasta vedova con una schiera di figli da mantenere e da educare, iniziò a vendere i beni di famiglia, tra cui anche pezzi pregiati della ‘libreria musicale’ e del ‘copioso Archivio’28. Lo
26 La vera ragione per cui Boccherini ‘perse’ l’amico Manfredi fu perché il violinista fu richiamato in patria dagli Anziani, che non gli avevano rinnovato il congedo per rimanere in Spagna. 27 A.S.L., Legato Cerù 202/32, pp. 159-160. 28 Giulio Battelli, schede 11 e 12 (sezione 1) in Puccini e Lucca, p. 222. Codice 602
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confermano anche alcune lettere di Giacomo alla mamma da Milano29, in cui raccomanda l’invio del catalogo, evidentemente per sottoporlo a eventuali acquirenti. Come si sa, pochi anni dopo, Giacomo Puccini donò all’archivio dell’Istituto le musiche dei suoi antenati (salvo pochi pezzi che volle tenere per ‘memoria dinastica’), molto probabilmente per manifestare il suo attaccamento alla città che gli aveva tributato i massimi onori nell’occasione del grande successo di Edgar al Teatro del Giglio30. L’altra parte della ‘libreria’ e del ‘copioso archivio’ dei Puccini (o di quello che ne restava) rimase nella sua proprietà, e oggi è custodito presso la Villa Mausoleo di Torre del Lago31. Un solo pezzo, tramite donazione di Rita Dell’Anna, è tornato nella casa di Michele Puccini, oggi Puccini Museum – Casa natale di Giacomo Puccini: una petizione autografa di Niccolò Paganini a Federico Guglielmo di Prussia, datata Berlino, 20 febbraio 1829. Ma se è lecito cercare di rintracciare dei segni negli eventi, trovo simbolicamente rilevante che partiture, volumi e autografi che facevano parte del patrimonio di memorie musicali di una dinastia, e oggetto di studio da parte di Michele, siano stati ‘convertiti’ nel sostentamento di Giacomo all’inizio della sua carriera.
29 In particolare quella del 3 marzo 1884 (in Puccini com’era, a cura di Arnaldo Marchetti, Milano, Curci, 1973, n. 34): “Mi raccomando che sul serio pensi al catalogo dei libri perché ho bisogno di qualche sgheroo e voglio tentare se mi riesce ricavarne qualche cosa”. 30 Lettera al Sindaco di Lucca, Enrico Del Carlo, del 26 novembre 1891, pubblicata in Puccini e Lucca, p. 205. 31 Un solo pezzo, tramite donazione di Rita Dell’Anna, è tornato nella casa di Michele Puccini, oggi Puccini Museum – Casa natale di Giacomo Puccini: una petizione autografa di Niccolò Paganini a Federico Guglielmo di Prussia, datata Berlino, 20 febbraio 1829.
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Orazione pronunciata agli alunni dell’Istituto Musicale di di Michele Puccini
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La tesi di laurea
di
L’importanza dell’impressionismo Claude Debussy e della figura di Manuel De Falla nella rinascita della chitarra
di Chiara Festa
Come premessa, è fondamentale dire che la “rinascita” della chitarra si colloca in un periodo storico, quello del primo Novecento, in cui avvenne un forte cambiamento estetico nel panorama musicale europeo: ossia un passaggio dal grande sinfonismo, che aveva monopolizzato la seconda metà dell’Ottocento, alla ricerca del colore e della sperimentazione timbrica (aspetti che possono essere considerati fondanti del cosiddetto Impressionismo musicale). Nella seconda metà dell’Ottocento la chitarra visse all’ombra dei grandi concertisti e compositori, che seguendo la scia del Romanticismo ricercavano sonorità orchestrali e l’espansione del tessuto armonico, lasciando allo strumento a corde ben poco interesse. Inoltre l’Ottocento è il secolo che vede la consacrazione del pianoforte: i continui miglioramenti della meccanica e la scoperta di nuove possibilità tecniche, soprattutto timbriche e dinamiche, lo fecero diventare il re delle sale da concerto. Fu così che la chitarra venne relegata ad un uso famigliare e salottiero, rimanendo di fatto emarginata dalla scena musicale ottocentesca. Questo strumento possedeva però un grande potenziale descrittivo e coloristico, che presto divenne oggetto d’interesse della musica colta europea, e in questo senso una figura chiave, decisiva per la sua evoluzione, è quella di Francisco Tárrega (1852-1909). Il grande chitarrista spagnolo si trovò ad operare in un momento in cui la tenue e misteriosa sonorità della chitarra cominciava ad essere apprezzata e ascoltata nella sua essenza, ed è forse proprio questa la ragione profonda del suo successo. Con le sue tournées in patria e all’estero suscitò ovunque interesse ed entusiasmo, anche presso grandi musicisti, e per questo può essere definito come un antesignano della rinascita della chitarra, verificatasi agli albori del Novecento. Scoprì effetti e sonorità particolari, voltando decisamente le spalle allo stile sinfonico, per concentrarsi sulla vocazione timbrica dello strumento; secondo la critica contemporanea e le maggiori riviste musicali odierne, dalla tedesca Zeitung für Musik al periodico italiano Codice 602
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«Il Fronimo», Tárrega viene considerato come il primo, dopo Giuliani e Sor, a riportare la chitarra a una qualità concertante e ad una concezione della stessa come strumento virtuosistico. Ciò non toglie che vi siano dei limiti nella figura di Tárrega, i cui meriti furono forse troppo enfatizzati dai suoi allievi (Pujol e Llobet su tutti). Non vi è comunque alcun dubbio che come esecutore, trascrittore e compositore migliorò notevolmente la sonorità dello strumento a sei corde, dando un importante contributo anche dal punto di vista costruttivo: la sua collaborazione con il grande liutaio spagnolo Antonio de Torres, infatti, fu fondamentale per la nascita della chitarra moderna. Inoltre i dati storici rivelano che Tárrega lasciò un numero limitato di opere per chitarra sola, e molte sono andate perdute, perché rimaste manoscritte: proprio per questo motivo non può essere paragonato a Giuliani e tantomeno a Sor, ma la sua importanza sta nell’essere stato un innovatore, capace di portare la chitarra verso una nuova rinascita, che avrebbe avuto in Llobet, Pujol e Segovia magistrali interpreti. Grazie anche all’opera di Tárrega, finalmente le qualità descrittive e coloristiche della chitarra cominciarono ad attirare l’interesse di musicisti non chitarristi e nomi di primo piano della storia della musica. In questo senso due nomi di spicco sono Claude Debussy e Manuel de Falla: questi due grandi compositori ebbero il merito di aver intuito le potenzialità della chitarra, quando ancora su questo strumento pesava il pregiudizio degli ambienti musicali colti, che lo consideravano principalmente uno strumento popolare.
Debussy e la chitarra Innanzitutto è necessario specificare che il maestro francese non scrisse mai un pezzo per chitarra, ma piuttosto il suo obiettivo fu quello di inserire nella sua scrittura pianistica effetti chitarristici, volti a evocare atmosfere esotiche e lontane. A questo proposito poco plausibile appare la notizia secondo cui Debussy sarebbe stato interessato a scrivere per chitarra, ma Miguel Llobet lo avrebbe dissuaso dicendogli che era impossibile scrivere per lo strumento se non lo si sapeva suonare. In primo luogo, questa notizia è tutta da verificare, in quanto non è di seconda, ma addirittura di terza mano: sembra che Andrés Segovia l’avesse riferita a Castelnuovo-Tedesco, dopo averla appresa in confidenza da Emma Bardac, vedova di Debussy. In secondo luogo, non si capisce perché Llobet (che aveva tutto da guadagnarci!) avrebbe dovuto scoraggiare Debussy, anche perché il maestro francese non era certo musicista da scoraggiarsi di fronte al parere di un chitarrista, per quanto illustre. Ciò non fa altro che confermare come la chitarra evocata da Debussy non sia una chitarra concreta, reale, ma piuttosto un’essenza sonora trasferibile su altri strumenti, in questo caso il pianoforte, suo strumento prediletto.
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In ogni caso, il fatto che Debussy si fosse interessato alla chitarra e alla musica spagnola non è affatto casuale: in quegli anni la musica flamenca, in forme più o meno ibride, incontrava il gusto del pubblico parigino, e i compositori francesi in particolare si mostravano inclini a questa sorta di spagnolismo, divenuto molto di moda in quell’epoca. Una dimostrazione di questo è l’enorme successo ottenuto dalla Carmen di George Bizet. A proposito della chitarra invece, è necessario sottolineare come la cultura francese riconoscesse a questo strumento una duplice natura: quella di strumento del folclore spagnolo e di strumento del Settecento francese. Acceso e sensuale il primo, delicato e vaporoso il secondo. Emblematica è una lettera, che Debussy inviò all’amico scrittore e poeta Pierre Louÿs, partito alla volta della Spagna per un viaggio di alcuni mesi, nella quale scriveva: “portami una chitarra da dove, se per caso urtata, sfugga come fine polvere sonora la malinconia barbara che un tempo la pervadeva”1. La presenza di termini come “malinconia”, “fine polvere sonora”, “un tempo”, conferma la propensione di Debussy (in questi primi anni) a legare la chitarra a colori tenui e ad atmosfere liriche e intimiste, presenti anche nella pittura di Watteau, che più volte nei suoi quadri aveva rappresentato la chitarra. Nel 1881 Debussy aveva iniziato a mettere in musica alcune liriche tratte dalle Fêtes galantes di Verlaine; tra queste spicca Mandoline (Es. 1) considerato un testo rappresentativo di come venisse immaginata la chitarra settecentesca. La versione musicale di Debussy è in piena sintonia col mondo espressivo del poeta: la sonorità del mandolino, che viene equiparata a quella della chitarra, viene resa da accordi arpeggiati in pianissimo, come se nascessero dal silenzio.
Es. 1: Claude Debussy, Mandoline, 1890 (inizio)
1 Cit. in François Lesure, Debussy et le syndrome de Grenade, «Revue de musicologie», 1982, p. 102. Codice 602
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È quindi evidente come l’intento di Debussy sia quello di evocare lo strumento a sei corde: lo dimostra anche l’inizio del brano, che si apre con una nota isolata, preceduta però da un’appoggiatura che lo fa risuonare come una nota pizzicata. Nel suo saggio su Debussy (Debussy e la Spagna)2 de Falla attribuì a questo brano un carattere spagnolo; oltre che essere forse una forzatura di stampo nazionalistico, quest’affermazione può essere interpretata a un livello più profondo. Al compositore spagnolo infatti sfuggiva la distinzione tutta francese fra chitarra settecentesca e chitarra spagnola, e l’identificazione della chitarra con la Spagna lo portava a interpretare come spagnoli tutti quei pezzi che avevano un riferimento chitarristico. Questo equivoco si ripete anche in altri brani, come Fantoches e Masques, e anche nelle Danze per arpe e orchestra: brani senza alcun riferimento alla Spagna, ma virtualmente spagnoli agli occhi di de Falla per il ricorso a effetti chitarristici e per l’impiego di uno strumento affine alla chitarra, come l’arpa. Dopo questi primi “esperimenti”, per ritrovare altri riferimenti alla chitarra bisogna spostarsi in avanti di circa vent’anni, e precisamente al 1903, anno di composizione delle Estampes per pianoforte. Questa raccolta si articola in tre brani: Pagodes, La soirée dans Grenade e Jardins sous la pluie. Il secondo brano in particolare, La soirée dans Grenade, è in piena linea con lo spagnolismo in voga tra i compositori francesi del tempo. In questo senso Granada rappresentava il luogo privilegiato dell’esotismo francese, una sorta di trait d’union tra Europa e Medioriente; fu così che Granada, grazie alla sua storia e alla sua mescolanza di culture, divenne il cuore più caratteristico della Spagna, un ideale luogo di fusione tra spagnolismo e orientalismo. Altri riferimenti di Debussy alla meravigliosa città spagnola si trovano in Lindaraja, brano composto nel 1901 per pianoforte a quattro mani, che prende il titolo da un giardino dell’Alhambra, la fortezza mora di Granada; bisogna aspettare il 1913 per la Puerta del Vino (una delle porte dell’Alhambra). La soirée si mostra vicina a certe tendenze dello spagnolismo musicale francese, prima fra tutte l’adozione del ritmo di Habanera, che sin dalla Carmen di Bizet rappresentava agli occhi dei compositori francesi il ritmo spagnolo per eccellenza. Ancora tradizionale è il carattere orientaleggiante delle melodie, reso particolare dalla presenza di arabeschi e alterazioni cromatiche. Manuel de Falla notava che La soirée “in relazione a ciò che l’ha ispirata, ha lo stesso effetto delle immagini che al chiarore lunare si rispecchiano nelle acque limpide delle albercas di cui è ricca l’Alhambra”3. 2 Manuel de Falla, Debussy e la Spagna, da Escritos sobre música y músicos, Madrid, Espasa Calpe, 1988, p. 72. 3 Manuel de Falla, Debussy e la Spagna, pp. 73-74.
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L’uso dello staccato e della nota ribattuta trasporta sul pianoforte l’effetto del tocco ‘punteado’, mentre l’accordo arpeggiato, reso più rilevante dalla collocazione sul quarto tempo della battuta, imita il tocco ‘rasgueado’ (Es. 2). Inoltre, la dissonanza prodotta dalle settime parallele vuole forse dare al timbro degli accordi quella nota di “rumore”, tradizionalmente associata alla sonorità della chitarra spagnola (Es. 3). Possono essere interpretate come chitarristiche anche le battute 109-112 e 115-118 (Es. 4), se non altro perché anticipano un tipo di scrittura che troverà un più ampio sviluppo qualche anno più tardi, nel chitarrismo della Sérénade interrompue.
Es. 2: Claude Debussy, La soirée dans Grenade, 1903
Es. 3: Claude Debussy, La soirée dans Grenade, 1903
Es. 4: Claude Debussy, La soirée dans Grenade, 1903 Codice 602
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S’è già accennato a come la chitarra in Debussy non abbia una presenza reale, come se fosse un’essenza sonora trasferibile su altri strumenti: in questo senso il gioco dell’immaginazione la può sottoporre a continue trasformazioni. Dal momento che è privata della sua corporeità può rimpicciolirsi o ingrandirsi a piacimento: per esempio, in Matin d’un jour de fête, terzo pannello di Ibéria (1905-1908), l’orchestra diviene una gigantesca chitarra. Debussy infatti indica agli orchestrali di mettere lo strumento ad arco sotto il braccio, a mo’ di chitarra, e di pizzicare le corde come in un ‘rasgueado’ (emblematica l’indicazione Quasi guitara). Questa notazione ha un carattere ironico di fronte alla composta serietà delle formazioni orchestrali, ma l’effetto è travolgente, sia dal punto di vista visivo che musicale (Es. 5).
Es. 5: Claude Debussy, Matin d’un jour de fête, terzo pannello di Ibéria (1905-1908)
Negli stessi anni di Ibéria Debussy porta a termine Children’s Corner, composizione dedicata alla piccola figlia Claude-Emma (soprannominata Chou-Chou), nata nel 1906. Si tratta di un viaggio immaginario nella stanza della figlia, e nel terzo brano, Serenade for the doll (Es. 6), presenta un elemento inedito, destinato col tempo ad assumere sempre più im108
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portanza. Accanto alle quinte vuote e alle acciaccature, fa il suo ingresso per la prima volta l’intervallo di quarta, caratteristico dell’accordatura della chitarra, ma mai utilizzato fino a quel momento da Debussy in relazione allo strumento a sei corde.
Es. 6: Claude Debussy, Serenade for the doll, da Children’s Corner
Fino ad allora i compositori francesi avevano caratterizzato la chitarra attraverso l’uso della quinta vuota, che aveva conquistato e conservato una forte credibilità chitarristica: la si ritrova per esempio, nello stesso periodo, in Alborada del gracioso di Maurice Ravel. In quegli anni però, il progressivo interesse per aggregazioni accordali diverse dalla triade spingeva i compositori in diverse direzioni, e l’accordatura per quarte della chitarra poteva ispirare nuove ricerche armoniche e timbriche. In questi primi anni del Novecento quindi, l’accordo basato sulle corde a vuoto della chitarra comincia a sprigionare il suo fascino e in breve diviene l’accordo evocativo per eccellenza, quello che riesce a cogliere al meglio l’essenza sonora della chitarra. Se fino a questo momento gli effetti chitarristici utilizzati da Debussy avevano una funzione prevalentemente timbrica e coloristica, allo scopo di creare un’atmosfera esotica (spagnola o settecentesca), dalla Sérénade interrompue (Es. 7), inclusa nel primo libro dei Préludes e composta nel 1910, avviene un cambiamento. Il chitarrismo utilizzato da Debussy non è più di superficie, ma viene integrato in un linguaggio compositivo originale. Elementi come il puntillismo timbrico e armonico, come il frammentismo melodico, prima sfruttati per evocare sul pianoforte una pittoresca chitarra, ora si combinano per creare un linguaggio innovativo. Questo nuovo linguaggio è basato sull’abbattimento della tradizionale separazione tra melodia e armonia, tra la dimensione orizzontale e la dimensione verticale, fondata sulla funzionalità dei gradi armonici. Ed è proprio ciò che avviene nella Sérénade interrompue, dove il tematismo è portato a un livello zero, tale da far saltare i tradizionali parametri del discorso musicale: la presenza di piccoli ritmi e di frasi dal breve respiro di due o tre battute portano all’assurdo di una melodia che non canta e di un accompagnamento che non accompagna. Codice 602
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Es. 7: Claude Debussy, Sérénade interrompue, dal primo libro dei Préludes, 1910
In questo senso, la Puerta del Vino (1913) prosegue questa idea di riduzione al minimo del discorso musicale, ma lo concilia con lo spagnolismo tipico della Soirée dans Grenade. Non si tratta ovviamente di un ritorno al passato: la melodia della Soirée rientra comunque nel gusto dell’orientalismo tipico di quel periodo, mentre quella della Puerta del Vino (Es. 8) si distingue per la sua povertà. Nella Soirée esiste ancora un rapporto di convergenza tra la melodia e il ritmo di Habanera; al contrario nella Puerta vi è uno sfasamento fra i due elementi.
Es. 8: Claude Debussy, La Puerta del Vino
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S’è già detto come un espediente per rendere il ‘rasgueado’ chitarristico sul pianoforte fosse l’arpeggio verso l’alto; ma in realtà sulla chitarra questo effetto prevede l’esecuzione degli accordi alternativamente verso l’alto e verso il basso. Debussy è stato il primo compositore francese (non chitarrista!) a intuire le potenzialità espressive dell’accordo discendente in ambito spagnolistico. Nella Puerta del Vino lo isola e ne coglie l’importanza. Sarà poi Manuel de Falla a raccogliere l’eredità dell’accordo discendente nel suo Concerto per clavicembalo e soprattutto nell’Homenaje pour le tombeau de Claude Debussy, dove rappresenta uno degli elementi portanti del brano. È importante sottolineare che il ricorso di Debussy a effetti chitarristici si estende per un lungo arco di tempo, precisamente dal 1882 al 1915, con una significativa intensificazione negli ultimi dieci anni di attività. Ovviamente un fenomeno così eclatante non poteva sfuggire agli studiosi della sua opera: già pochi anni dopo la sua morte infatti, molti critici gli riconoscevano il merito di aver precorso i tempi nell’aver intuito le potenzialità coloristiche della chitarra. Il primo a concordare con tale affermazione, e a farsene interprete, fu certamente Manuel de Falla, che nel 1920 scriveva: Certi aspetti li conosciamo in Andalusia perché vengono realizzati in germe, in modo istintivo e inconscio sulla chitarra della gente del popolo. Cosa curiosa: i musicisti spagnoli hanno trascurato e persino disprezzato questi effetti, considerandoli qualcosa di barbaro, e tutt’al più adattandoli a convenzionali procedimenti armonici e melodici: fu Claude Debussy a indicar loro con quanta fantasia ci si potesse servire di queste figurazioni chitarristiche.
Queste affermazioni erano destinate ad essere accolte come manna dal cielo dal mondo chitarristico del tempo, che ovviamente cercava di ottenere riconoscimenti da parte di illustri musicisti: in questo modo si è visto trasformare Debussy in una sorta di “profeta” del chitarrismo moderno. In realtà, come è già stato detto, il punto di riferimento per Debussy non era una chitarra concreta; il suo obiettivo era quello di ricreare sul pianoforte (e su altri strumenti) svariati effetti chitarristici, come staccati, note ribattute, arpeggi, ecc. La particolarità, tutta debussiana, sta nell’utilizzo di questi effetti, che non si limita solamente a uno spagnolismo di superficie: il maestro francese infatti riuscì a inserirli pienamente nel suo linguaggio, conferendogli una profonda dignità stilistica e organizzandoli in una sintassi molto articolata, capace di rovesciare gli equilibri della scrittura pianistica e orchestrale tradizionale. Secondo de Falla, la maggior qualità del chitarrismo di Debussy sta nella conoscenza diretta dell’autentica musica popolare spagnola, il cante Codice 602
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jondo, che il compositore avrebbe avuto modo di conoscere durante l’Esposizione Universale del 1900. Purtroppo questa ipotesi non può trovare una certezza storica, anche perché gli effetti chitarristici della Soirée dans Grenade, composta nel 1903, rientrano ancora in un gusto abbastanza tradizionale. Il cambiamento si comincia a notare solo intorno agli anni di Ibéria, composta tra il 1905 e il 1908, fino al linguaggio innovativo della Sérénade interrompue (1910). In questo senso è molto più probabile che Debussy sia stato influenzato dall’Iberia di Isaac Albéniz, composta negli stessi anni, dal 1905-06 al 1908, e ritenuta il capolavoro del grande maestro spagnolo. Proprio per la vicinanza cronologica delle due opere però, sono avvenuti diversi dibattiti tra i musicologi su quale opera abbia influenzato l’altra: oggi sembra più probabile che sia stata l’Iberia di Isaac Albéniz a condizionare quella di Debussy, e la prova di ciò sta nel fatto che il “chitarrismo pianistico” del maestro francese trova la sua piena maturazione nel 1910 (anno di composizione della Sérénade interrompue), quando ormai Albéniz aveva già terminato la composizione di Iberia. Detto questo, è importante precisare che il costante interesse di Debussy per le sonorità chitarristiche non presuppone una considerazione per questo strumento superiore o diversa dai suoi contemporanei. La definizione di “clavicembalo espressivo”, creata per la chitarra da Debussy (pare dopo aver assistito a un concerto di Miguel Llobet), conferma una visione esotista di questo strumento: è curioso infatti l’associazione della chitarra al clavicembalo, e non, per esempio, a uno strumento più contemporaneo come l’arpa. La spiegazione sta nel fatto che in quel periodo il clavicembalo era visto come un’espressione di un esotismo storico, e proprio per questo non veniva mai utilizzato direttamente, ma solo evocato: basti pensare alla Suite Bergamasque di Debussy, o alla Pavane o alla Sonatine di Ravel. Alla luce di queste considerazioni, si può ipotizzare che il rifiuto di Debussy a scrivere per la chitarra fosse causato dal fatto che probabilmente, nella sua visione, rimaneva uno strumento pittoresco, in grado di evocare mondi e atmosfere lontane. Tuttavia, i tempi erano destinati a cambiare: l’arrivo di Andrés Segovia a Parigi nel 1924 avrebbe portato diversi compositori francesi a scrivere per chitarra, come Albert Roussel (Segovia op. 29), Georges Migot (Pour un hommage à Claude Debussy), Gustave Samazeuilh (Sérénade) e Jacques Ibert (Française). Debussy era morto solo sei anni prima: purtroppo non sapremo mai quale strada avrebbe intrapreso, e se un possibile incontro con Segovia avrebbe potuto regalare alla letteratura chitarristica una composizione di uno dei più grandi compositori del XX secolo. Nel periodo compreso tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento non vi è alcun dubbio che fosse Parigi la capitale europea della cultura e delle arti, divenendo così un punto d’incontro fra i più importanti intellettuali, artisti e musicisti dell’epoca. In ambito musicale, Parigi divenne 112
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la meta più ambita dei musicisti spagnoli in particolare: qui si ritrovarono personalità come Joaquín Turina, Isaac Albéniz, Enrique Granados e soprattutto Manuel de Falla, considerato il più grande compositore spagnolo di questo periodo. A Parigi cominciarono a frequentare l’ambiente di Vincent d’Indy, Gabriel Fauré, Claude Debussy, Paul Dukas, allo scopo di dar vita a un’arte nazionale ma non nazionalistica, che sapesse fondere il folclore spagnolo con la tradizione francese dell’Impressionismo, con le sue preziose armonie e i suoi colori. A questo proposito, è importante dire che per tutto l’Ottocento la Spagna rimase estranea allo sviluppo economico e alla cultura della borghesia liberale: è evidente quindi come la mancanza di un contatto con l’Europa abbia condizionato anche la vita musicale spagnola, fin dal Settecento dominata dalla tradizione operistica italiana. Esempi illustri sono l’operista Domingo Terradellas (1713-1751), che studiò a Napoli, e il clavicembalista e organista Antonio Soler (1729-1783), allievo di Domenico Scarlatti. Tuttavia dalla seconda metà dell’Ottocento sarà l’influenza francese a prevalere, e a dare la spinta decisiva alla cosiddetta rinascita musicale spagnola.
Manuel de Falla e la chitarra Oltre che essere definito come il più grande compositore spagnolo del Novecento, Manuel de Falla è stato, tra i compositori non chitarristi, colui che più profondamente ha compreso l’essenza della chitarra, nonostante il fatto che per questo strumento abbia composto un solo brano: l’Homenaje pour le tombeau de Claude Debussy. La prima prova dell’interesse di de Falla per la chitarra risale al 1905, l’anno della sua prima composizione importante, il dramma lirico La vida breve: già in quest’opera infatti il compositore affida alla chitarra dei passaggi con accordi ritmati. Ovviamente il momento evolutivo più importante per de Falla corrisponde al suo soggiorno a Parigi, iniziato nel 1907 e concluso allo scoppio della prima guerra mondiale: qui, con i compatrioti Turina e Albéniz comincia a coltivare quel sentimento di ‘andalucismo universal’ che lo accompagnerà fino alla morte. Ma l’avvenimento più importante è senz’alcun dubbio l’incontro con Debussy, Ravel e Stravinskij, personalità di spicco del mondo musicale europeo capaci di rivelargli nuovi orizzonti musicali. La lezione di Debussy e di Ravel è evidente nelle impressioni sinfoniche Noches en los jardines de España per pianoforte e orchestra, soprattutto nelle magiche colorazioni dell’orchestra; a ciò però si aggiunge l’attrazione di de Falla per l’elemento magico, stregonesco, che sarà protagonista nelle sue opere successive, come El amor brujo. Per de Falla il suono della chitarra è portatore di onde e di mistero, di un senso di oscurità, è custode di un passato arcano e lontano: una concezione della chitarra che ovviamente è stata stimolata da Claude Debussy. La riconoCodice 602
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scenza e il rispetto di de Falla per il grande maestro francese è tale che quando, nel 1920, fu invitato a partecipare alla commemorazione di Debussy, indetta dalla nuova «Revue musicale», decise di farlo componendo un pezzo per chitarra a lui dedicato. Un altro omaggio viene espresso anche nel suo scritto intitolato “El cante jondo (canto primitivo andaluz) Análisis de los elementos musicales del cante jondo” pubblicato a Granada nel 1922. In questo scritto Manuel de Falla parla proprio della chitarra: L’impiego nella musica popolare della chitarra rappresenta due valori ben determinati: quello ritmico esteriore o immediatamente percettibile e il valore puramente tonale – armonico. Il primo è stato l’unico utilizzato per molto tempo nella musica più o meno artistica, mentre l’importanza del valore tonale – armonico è stato appena riconosciuto dai compositori, fatta eccezione per Domenico Scarlatti, fino a un’epoca relativamente recente […]. È Claude Debussy il compositore a cui dobbiamo, in un certo senso, l’incorporazione di questi valori alla musica artistica; la sua scrittura armonica, il suo tessuto sonoro lo testimoniano in non pochi casi.
Da ciò si deduce come la concezione chitarristica di de Falla provenga dal suo contatto con il cante jondo, e da come questa visione sia stata stimolata da Debussy. Ma in un passaggio successivo del saggio si capisce come l’aspetto per lui più affascinante della chitarra non sia quello melodico o concertante (in pratica la chitarra classica ottocentesca), ma quello delle combinazioni accordali, che si generano nella musica spontanea dei chitarristi di cante jondo: […] crediamo che i nostri strumentisti del XV secolo furono probabilmente i primi ad accompagnare armonicamente (con accordi) la melodia vocale o strumentale. E non ci riferiamo alla musica mora – andalusa, ma a quella castigliana, dato che non bisogna confondere la chitarra moresca con quella latina. Il maestro Pedrell, nella sua Organografia musicale antica spagnola, afferma che la chitarra moresca si usa ancora in Algeria e in Marocco, con il nome di kitra (kitharachitarra) e che si suona pizzicando le corde. Invece il primitivo suono della chitarra castigliana fu il rasgueado, com’è ancor oggi frequentemente nel popolo. Ne deriva che l’uso dello strumento moresco è stato, ed è ancora, melodico (come nei nostri attuali liuto e mandolino), mentre era armonico l’uso spagnolo-latino, dato che rasgueando le corde si possono produrre solo accordi. Accordi barbari, diranno molti. Rivelazione meravigliosa di possibilità sonore mai sospettate, affermiamo noi.
In questo modo de Falla si ricollegò alla forma più primitiva e autentica del folclore spagnolo, ossia il cante jondo, esattamente come Stravinskij si ispirò ai canti e alle danze arcaiche della Russia, e Bartók alle musiche popolari ungheresi e balcaniche. In questo senso, sorprendente è la re114
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azione antiromantica di de Falla, analoga a quella di Debussy, e molto chiara risulta la sua visione della chitarra come strumento moderno per la musica moderna. Non stupisce dunque il fatto che de Falla, nel suo scritto, si guardi bene dal nominare i classici chitarristi dell’Ottocento, anche se spagnoli come Fernando Sor e Dionisio Aguado, e si richiami invece ai musicisti antichi del XV secolo. L’appassionato interesse di de Falla per la chitarra è condizionato anche da un altro avvenimento, ossia il suo soggiorno a Granada: il maestro spagnolo aveva già visitato la capitale andalusa dopo il suo rimpatrio da Parigi, e nel 1920 vi si stabilì in sede stabile fino al 1922. L’affetto di de Falla per Granada è dovuto tanto a ragioni culturali, quanto ambientali e umane: come testimonia lo storico irlandese Ian Gibson, nel suo saggio dedicato a García Lorca (“La morte di Federico García Lorca e la repressione nazionalista di Granada del 1936”): […] l’atmosfera di Granada favoriva enormemente a quell’epoca lo sviluppo delle capacità artistiche […] l’esistenza della città non era rimasta minimamente turbata da una guerra mondiale […] il costo della vita era ancora basso […]. C’era tempo di parlare, di leggere, di ascoltare il mormorio delle innumerevoli fontane cittadine, di contemplare i tramonti più belli di tutta la Spagna […].
Nel 1922 de Falla ebbe l’idea di promuovere, con l’aiuto di numerosi amici artisti, un festival dedicato al cante jondo: un’idea unica ma sfortunata, proprio perché questo festival non ebbe un seguito, nonostante un vistoso successo di propaganda e mondanità. A Granada si creò quindi un circolo di artisti e intellettuali notevole, che si riunì intorno alla persona di Manuel de Falla: spicca fra tutti il grande poeta spagnolo Federico García Lorca, il docente di diritto politico Fernando de los Ríos e altri ottimi insegnanti universitari, pittori come Manuel Ortiz e scultori come Juan Cristóbal, ma anche diversi chitarristi, come Ángel Barrios, il più vicino a de Falla di tutti i chitarristi granadini. Queste grandi personalità erano solite ritrovarsi nelle cosiddette tertulias letterarie, ossia dei ritrovi che avevano come sfondo i caffè e le taverne della città. Tutto ciò fa capire come Manuel de Falla trovò in Granada l’ambiente favorevole per indagare sulle origini del cante jondo, che tanto lo affascinava. La presenza di García Lorca in particolare ebbe una grandissima influenza sul maestro spagnolo: proprio in quegli anni Lorca avrebbe scritto le sue bellissime poesie ispirate alla chitarra (La guitarra, Adivinanza de la guitarra, Las seis cuerdas) e una delle sue opere più celebri, il Poema del cante jondo, pubblicato nel 1921. Attraverso la promozione del festival, de Falla e Lorca si proponevano il duplice obiettivo di valorizzare il cante jondo come musica d’arte e di sottrarlo alla sua progressiva decadenza, riportandolo alla purezza delle origini. Proprio per la vicinanza di intenti, Codice 602
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e per la grande stima reciproca, i due artisti intrecciarono una profonda amicizia, al punto che de Falla tentò, all’arresto di Lorca nel 1936, di salvargli la vita. Tuttavia, la fucilazione del poeta da parte del regime spagnolo fu forse il colpo di grazia che obbligò de Falla a lasciare la sua amatissima Spagna. In una città come Granada, quindi, non è così strano che de Falla abbia scelto proprio la chitarra per omaggiare una figura tanto ammirata quanto Claude Debussy. Ma ora è necessario parlare del canto che ha tanto affascinato il maestro spagnolo, ossia il cante jondo.
L’anima dell’Andalusia e il suo canto primitivo: il cante jondo L’Andalusia, tanto decantata nelle opere di de Falla e di Debussy, è quella regione che si estende a sud della penisola iberica, e che, per quanto riguarda la musica popolare, ha i suoi centri principali nelle città di Granada, Siviglia e Cordoba. Essa rappresenta il crocevia di almeno sei civiltà, diverse e simili a un tempo, dalla celtica all’ebraica, dalla bizantina alla romana, dalla zigana (indiana) all’araba. In particolare le ultime due hanno lasciato molte tracce, in quanto sono state le più lunghe nel tempo e le più recenti in epoca moderna: basti pensare alla meravigliosa reggia dell’Alhambra, situata alle porte di Granada. Il cante jondo, o “profondo”, “intimo”, è il risultato di una complessa stratificazione di tradizioni musicali differenti, che comprendono i canti della liturgia bizantina (ossia i primitivi canti cristiani), adottati dalla Chiesa in Spagna, con le relative scale modali; alcuni aspetti della musica araba, che si radicò in Spagna grazie alla dominazione dei Mori (dall’VIII al XVI secolo circa); infine i canti delle tribù gitane o zigane, che si stabilirono nella penisola iberica nel XV secolo. In particolare, come sostiene lo stesso de Falla nel suo saggio, sono proprio le tribù nomadi zigane, provenienti dall’Oriente, a dare il contributo determinante alla nascita del cante jondo, che proprio per questo presenta notevoli analogie con i canti orientali primitivi. La prima di queste è l’enarmonismo, usato come strumento modulante: ovviamente per “modulante” non si intende il significato moderno (il passaggio da una tonalità all’altra), bensì un’oscillazione melodica basata su intervalli più piccoli del semitono e creata da innalzamenti e depressioni della voce. Questa è senza dubbio un’eredità dell’antica musica indiana, che si ricollega al primitivo genere enarmonico. Altre caratteristiche comuni sono l’uso di un ambito melodico piuttosto limitato, che raramente oltrepassa l’intervallo di sesta, e l’uso reiterato e persino ossessionante di una stessa nota, frequentemente accompagnata dall’appoggiatura superiore e inferiore. Come dice lo stesso de Falla “questo procedimento è proprio di certe formule di incantesimo e persino di quei recitati che potremmo chiamare preistorici”. 116
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In questo modo si ottiene, in determinate canzoni andaluse come la siguiriya gitana (considerata la forma più genuina di canto andaluso), la distruzione della sensazione di ritmo metrico, producendo l’impressione di una prosa cantata. Ovviamente questi canti andalusi non sono semplicemente canti trapiantati da Oriente a Occidente: si tratta piuttosto di un innesto, nato da quel crocevia di culture che a quel tempo era l’Andalusia. In conclusione, è naturale che questo canto così particolare e così intenso abbia influenzato anche altri grandi compositori europei: in primo luogo i russi, a partire da Michail Ivanovič Glinka, per arrivare ai membri del cosiddetto “gruppo dei cinque” (formato da Balakirev, Cui, Borodin, Mussorgskij, Rimskij-Korsakov) e soprattutto i francesi, Claude Debussy su tutti; ma anche Maurice Ravel, altro grande maestro dell’Impressionismo francese, ha utilizzato nelle sue opere molti elementi essenziali della lirica popolare andalusa, da Habanera, una delle sue prime composizioni per pianoforte, alla Rapsodie espagnole, fino al celeberrimo Boléro.
L’Homenaje pour le tombeau de Claude Debussy Com’è già stato accennato in questo articolo, la nascita di questo brano si deve all’invito che la «Revue musicale» d rivolse ai più importanti compositori europei a scrivere dei componimenti in memoria di Claude Debussy, morto nel 1918. Tra gli autori dei vari epicedi, pubblicati in un unico numero, intitolato Le tombeau de Debussy, spiccavano i nomi di Dukas, Stravinskij, Ravel, de Falla, Malipiero, Bartók, Satie, protagonisti indiscussi del rinnovamento musicale europeo. Questa raccolta comprende dieci composizioni, prevalentemente scritte per pianoforte, ma anche per duo di violino e violoncello (nel caso di Ravel), per chitarra (l’Homenaje di de Falla) e per voce e pianoforte (l’omaggio di Satie). Di seguito riportiamo i titoli delle composizioni, specificando gli organici strumentali: Paul Dukas, La plainte, au loin, du faune (per pianoforte); Albert Roussel, L’Accueil des Muses (per pianoforte); G. Francesco Malipiero, Hommage (per pianoforte); Eugène Goossens, Hommage (per pianoforte); Béla Bartók, Hommage (per pianoforte); Florent Schmitt, Et Pan, au fond des blés lunaires, s’accouda (per pianoforte); Igor Stravinskij, Fragment des Symphonies pour instruments à vent, à la memoire de Claude Achille Debussy (per pianoforte); Maurice Ravel, Duo pour violon et violoncelle; Manuel de Falla, Homenaje (per chitarra); Erik Satie, “Que me font se vallons”, En souvenir d’une admirative et douce amitié de trente ans (per voce e pianoforte). Codice 602
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In questo saggio il mio obiettivo è quello di soffermarmi soprattutto sull’omaggio scritto da Manuel de Falla, la cui particolarità è quella di essere stato scritto e pensato per chitarra. Solo successivamente, de Falla stesso ha curato un arrangiamento per pianoforte, pubblicato nel 1921 (un anno dopo l’originale) e una trascrizione per orchestra, eseguita per la prima volta nel 1939. Questa versione per orchestra rientra in una vera e propria suite, intitolata Homenajes, che si articola in quattro omaggi, dedicati a due grandi musicisti spagnoli come Enrique Arbós e Felipe Pedrell, e a Claude Debussy e Paul Dukas (quest’ultimo precedentemente scritto per pianoforte). Bisogna osservare inoltre che in entrambe le trascrizioni sono sostanzialmente trasferite le armonie tipiche dell’accordatura della chitarra: nella versione orchestrale in particolare vi sono diversi impasti timbrici che tendono ad evocare le sonorità esotiche e “lontane” dello strumento. Non è un caso che il sottotitolo di questa trascrizione sia Elegía de la Guitarra. Fu durante il suo soggiorno parigino che de Falla ebbe occasione di far propri i preziosi mezzi espressivi dell’impressionismo, al fine di creare un linguaggio nuovo, d’ispirazione nazionale, che come osserva Massimo Mila “oggi interpreta nel modo più profondo ed originale l’anima spagnola”. In particolare de Falla cominciò a nutrire una profonda ammirazione per la musica spagnola dello “straniero” Debussy che, nonostante la sua conoscenza solo indiretta della Spagna, ha dimostrato di saperla evocare al meglio. Il maestro spagnolo ha scritto che la musica di Debussy non è fatta alla spagnola, ma in spagnolo, o meglio in andaluso […] alludiamo all’uso frequente di modi, cadenze, concatenamenti di accordi, ritmi e giri melodici che rivelano l’evidente parentela con la nostra musica naturale.
Debussy, nell’intento di creare una nuova estetica, aveva rivolto il suo interesse alla musica extraeuropea, oltre che alla “musica naturale” dell’Andalusia, subendo così il fascino pittoresco della chitarra, al punto di evocarla in diverse sue opere, come abbiamo visto nel capitolo precedente. La differenza è che de Falla nell’Homenaje si esprime con una chitarra reale, non virtuale, proprio perché la chitarra è lo strumento più tipico del linguaggio andaluso: ecco perché de Falla vuole rendere omaggio alla memoria di Debussy con un brano scritto per chitarra. A livello storico, l’Homenaje venne pubblicato nel 1920 nella sola edizione della «Revue musicale», per poi essere succeduto nel 1926 da una seconda edizione, riveduta e diteggiata da Miguel Llobet. Le due versioni concordano quasi completamente, con differenze assolutamente non sostanziali apportate dal chitarrista spagnolo. È importante dire che il brano venne presentato durante il festival del cante jondo organizzato da de Falla e Lorca nel 1922: tra l’altro nella giuria del concorso era presente Andrés Segovia, che tenne una serie di quattro concerti, in cui presentò 118
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per la prima volta l’Homenaje. Per la sua particolarità e raffinatezza di linguaggio venne accolto tiepidamente dal pubblico e dalla critica granadina, più rivolti verso la musica popolare: ciò scontentò molto de Falla e fu uno dei motivi che spinse il maestro spagnolo a non organizzare altre edizioni di questo festival. L’Homenaje rappresenta un vero e proprio trenos, un lamento funebre che trova la sua origine nella trenodia dell’antica poesia greca; in questo brano il mesto discorso musicale si snoda senza uno sviluppo, che viene continuamente interrotto dalla frequente apparizione dello stesso tema, una cellula ritmico-melodica costituita da due sole note, il Fa e il Mi.
Es. 9: Manuel de Falla, Homenaje pour le tombeau de Claude Debussy, inizio
Questa figurazione è basata su un disegno melodico molto semplice, ossia l’alternanza di due suoni nell’ambito di un semitono: ciò rispetta in pieno le caratteristiche melodiche del cante jondo, dove raramente si supera l’ambito di una sesta e dove l’uso ossessionante di una o più note riesce a portare il brano a un grande livello di tensione; mentre il ritmo di habanera, il ritmo spagnolo per eccellenza, conferisce a questa cellula un carattere pieno di pathos e di enfasi. Oltre alla cellula tematica, un altro pilastro del brano è l’accordo discendente arpeggiato, che dal forte va al piano: è un elemento che riesce a rendere al meglio la sonorità della chitarra andalusa, e che Debussy aveva inserito in diverse sue composizioni, come nella Puerta del Vino. Il continuo riapparire di questo piccolo tema nell’arco del brano è capace di creare un’atmosfera statica e misteriosa, che diviene una vera e propria evocazione quando nella conclusione appare il tema della Soirée dans Grenade di Debussy.
Es. 10: Claude Debussy, Soirée dans Grenade, citazione finale del tema della soirée
A questo proposito, è interessante effettuare un confronto tra la versione originale e le successive trasposizioni per pianoforte e per orchestra: ovviamente negli ultimi due casi de Falla, disponendo di mezzi sonori Codice 602
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ben più ricchi, ha potuto sviluppare al massimo le idee che nella versione chitarristica sono solo accennate. L’arrangiamento pianistico presenta molte similitudini con la parte originale, in quanto mantiene le stesse altezze dei suoni, e soprattutto si nota quanto l’autore abbia cercato di rendere le sonorità più secche e quasi nervose. Oltre a prescrivere quasi sempre lo staccato (molto più che nella prima edizione per chitarra), de Falla raccomanda che la petite pédale (ossia il pedale, situato a sinistra, che attenua l’intensità dei suoni) venga utilizzato sempre, anche quando vi è l’indicazione del forte. È evidente quindi che l’intento del compositore spagnolo fosse quello di ottenere sonorità molto contenute, che si avvicinassero il più possibile a quelle della chitarra. Per quanto riguarda invece la versione orchestrale, è importante sottolineare una diversità nel ritmo iniziale: invece di cominciare con una battuta incompleta, come avviene nella versione originale e nell’arrangiamento pianistico, la trascrizione orchestrale inizia con una battuta completa, senza però mutare il disegno tematico. Infatti al posto dell’indicazione metrica 2/4, che caratterizza le prime due versioni, qui vi è l’indicazione 4/8, che si addice molto al carattere e all’andamento del brano. Inoltre è da notare la ricchezza e l’ampiezza dei segni dinamici, che variano dal pianissimo allo sforzatissimo: questa varietà dinamica è tipica delle partiture impressionistiche, caratterizzate da una grande molteplicità di impasti timbrici. Infine, anche nella trasposizione orchestrale è molto frequente l’uso dei suoni staccati, sia quelli espressamente indicati, sia quelli realizzati di fatto dai pizzicati degli archi e dalla presenza continua dell’arpa. In conclusione, si può affermare che in questo breve ma intensissimo omaggio appaiono alternandosi le due anime di Manuel de Falla e di Claude Debussy: il ritmo andaluso, reso dai potenti staccati nei bassi, e le armonie e i timbri raffinati, tipici del linguaggio impressionistico francese, si fondono in una perfetta armonia. Tutte queste caratteristiche fanno di questo brano, seppur breve, uno dei pilastri del repertorio chitarristico, dove l’anima più profonda e moderna della chitarra viene colta nella sua essenzialità.
L’omaggio di Joaquín Rodrigo a Manuel de Falla L’importanza dell’Homenaje pour le tombeau de Debussy, e della figura di de Falla, è così determinante nella rinascita della chitarra che un altro grande compositore e pianista spagnolo, Joaquín Rodrigo (1901-1999) gli renderà omaggio, con una composizione intitolata Invocación y danza, destinata a diventare un caposaldo del repertorio chitarristico del Novecento. Joaquín Rodrigo studiò con Francisco Antich a Valencia, per poi trasferirsi a Parigi, dove divenne allievo del grande maestro francese Paul Dukas. A Parigi Rodrigo divenne un compositore molto prolifico: scrisse
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infatti ben undici concerti, musica per orchestra e per coro, più di sessanta canzoni, composizioni per pianoforte solo, musica sacra, ma anche musica per il cinema e per il teatro. Eppure nel mondo è divenuto celebre soprattutto per un’opera, il Concierto de Aranjuez, e in particolare il commovente e intenso Adagio, scritto dopo la dolorosa perdita del suo primo figlio, morto subito dopo il parto. La semplicità, la chiarezza e l’ordine sono caratteristiche essenziali della musica di Rodrigo, sia delle sue melodie, sia delle forme da lui utilizzate; queste caratteristiche e la potenza della sua musica l’hanno reso uno dei più grandi creatori di melodie del XX secolo, e certamente uno dei più grandi compositori spagnoli contemporanei. La sua musica suggerisce una Spagna ideale, piena di bellezza: una Spagna eterna, la stessa descritta da Miguel de Cervantes, San Juan de la Cruz, Francisco Goya, Diego Velázquez, Antonio Machado, Federico García Lorca. Questa è la vera Spagna per Rodrigo, e forse è stata proprio la sua cecità (causata dalla difterite, che lo colpì all’età di tre anni) a renderla così reale, riuscendo a trasmetterla con così tanta profondità e intensità. Con Invocación y danza Rodrigo volle rendere un esplicito omaggio al grande maestro spagnolo Manuel de Falla, come dimostra lo stesso sottotitolo del brano (Homenaje a Manuel de Falla). Come un cerchio che si chiude, viene a crearsi in questo modo una vera e propria “catena” di omaggi, dove si succedono citazioni e riferimenti più o meno nascosti. Dimostrazione di questo è una dichiarazione dello stesso Rodrigo, che fa capire il motivo per cui abbia voluto scrivere un omaggio a de Falla: Circola per la musica spagnola, diluita nelle sue vene e comunicandole il suo strano palpitare, la rara influenza di uno strano strumento fantasmagorico, gigantesco e multiforme è uno strumento che ha ali di arpa, coda di pianoforte e anima di chitarra. Quest’anima si cristallizza per la prima volta nell’Homenaje a Debussy del nostro grande maestro Manuel de Falla.
La volontà di omaggiare il grande maestro spagnolo risulta evidente per la presenza di alcune citazioni: innanzitutto il frammento tematico dell’Homenaje, caratterizzato dal semitono fa-mi-fa, come riportato nell’esempio sottostante:
Es. 11: Joaquín Rodrigo, Homenaje a Manuel de Falla
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Mentre un altro riferimento è situato alla fine del brano, nel Poco meno, dove è chiarissima la citazione della Pantomima de El amor brujo:
Es. 12: Pantomima (da El amor brujo, passaggio conclusivo)
Es. 13: Poco meno (da Invocación y danza)
La composizione è risultata vincitrice, nel 1961, del concorso “Coupe International de Guitare” dell’RTF (Radio-Télévision Française) e a questo proposito Victoria Rodrigo testimonia che quando il marito venne invitato a partecipare alla manifestazione, egli recuperò un brano scritto pochi mesi prima per il chitarrista spagnolo Regino Sainz de la Maza, fino a quel momento mai eseguito, probabilmente per delle difficoltà di scrittura che ne rendevano impossibile l’esecuzione. Successivamente il brano venne dedicato al chitarrista Alirio Díaz, l’interprete della prima assoluta nel 1962, in occasione del Maggio Musicale di Bordeaux. Esistono tre diverse edizioni di Invocación y danza, in ordine revisionate da Graciano Tarragó (1962), Alirio Díaz (1973), e infine Pepe Romero (1993). La prima edizione rispettava il testo originale alla lettera, ma in molti punti 122
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era al limite dell’eseguibilità e venne sostituita dieci anni dopo da una revisione strumentale che lo stesso editore commissionò ad Alirio Díaz. Nelle ultime due edizioni, in particolare, si nota la diversità di intenti dei trascrittori: la versione di Díaz è stata indubbiamente per molti anni la più eseguita, e presenta numerose semplificazioni rispetto al testo originale, al fine di renderne più efficace l’esecuzione. Mentre l’intenzione di Pepe Romero è stata quella di pubblicare un’edizione “definitiva”, che si avvicini il più possibile allo spirito del manoscritto originale, e risponde al desiderio dell’autore di far conoscere il brano così come fu concepito, ma in una veste strumentale interamente eseguibile. È importante dire che in Invocación y danza però è lontana l’atmosfera gioviale e allegra del primo e del terzo movimento del Concierto de Aranjuez: il brano è pervaso da una profonda inquietudine, specialmente la prima parte, l’Invocación, dove si crea un’atmosfera mistica, piena d’intensità e turbamento. È lo spirito del duende a manifestarsi, lo spirito che rappresenta il dolore e la sofferenza, considerato la musa principale dell’arte spagnola. Federico García Lorca, nella sua conferenza Gioco e teoria del duende4, presentata nel 1933 a Buenos Aires, analizza in modo molto dettagliato l’entità del duende e cerca di spiegare il significato di questa parola intraducibile in nessun’altra lingua. La parola duende anticamente indicava il proprietario di una casa (dueño de una casa > duen de casa > duende) e precisamente una sorta di “folletto” che infesta una dimora, sotto le sembianze di un bambino o di un anziano, oppure può indicare, in senso traslato, un “incanto misterioso e ineffabile”. Lorca lo definisce come lo spirito nascosto della dolente Spagna, in particolare dell’Andalusia: è un potere misterioso “che tutti sentono e nessun filosofo spiega”, profondamente legato alla terra e alla natura umana, ma che non tutti gli artisti riescono a cogliere e a trasmettere. Tutte le arti sono capaci di evocare il duende, ma naturalmente è nella musica, nella danza e nella poesia declamata che trova i terreni più fertili, ed è nel cante jondo andaluso che trova la sua massima espressione, incarnando l’essenza tragica dell’Andalusia, fatta di amore e di morte. Lo spirito del duende caratterizza a pieno questo brano di Rodrigo: è un brano cupo, misterioso, un’invocazione a un’entità superiore, divina (resa dagli armonici iniziali), affiancata da una danza tipicamente andalusa, il Polo, in tempo di 3/8 e di andamento moderato. In questa composizione sono presenti appieno le inquietudini e i demoni che affollavano la mente del compositore spagnolo: egli infatti soffrì spesso di depressioni e di momenti bui, a causa dei dolori e delle sofferenze patite nel corso della sua vita, e con l’avanzare dell’età (e della cecità) Rodrigo mostrò la tendenza a chiudersi in un mondo sempre più 4 Federico García Lorca, Juego y teoría del duende, Adelphi Edizioni spa, Milano, 2007 Codice 602
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interiore, pieno di contemplazione e meditazione. Lo stesso brano, tanto pieno di rabbia e di dolore, verso la conclusione si distende, come la quiete dopo la tempesta, come se lo spirito del duende fosse stato finalmente sconfitto e la pace interiore conquistata.
Conclusioni La motivazione principale che mi ha spinto verso questo saggio è innanzitutto dimostrare come la rinascita della chitarra sia avvenuta tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento non casualmente, ma a causa del cambiamento estetico che interessò la musica europea di quel periodo: innanzitutto la ricerca e l’attenzione per i timbri e i colori, che compositori come Claude Debussy e Maurice Ravel, ad esempio, riuscirono a portare ai massimi livelli; e in secondo luogo, ma non certo per minor importanza, la nascita delle cosiddette scuole nazionali e l’interesse per la musica popolare. In questo senso il contributo di Béla Bartók e Manuel de Falla fu fondamentale: il primo si avvicinò al folclore musicale ungherese, ricavandone insegnamenti che saranno decisivi nella formazione del suo stile. Il secondo, Manuel de Falla, dopo aver appreso la lezione dell’Impressionismo francese si interessò alla più autentica tradizione musicale spagnola, il cui strumento più rappresentativo è senz’alcun dubbio la chitarra. Inoltre, come già detto in precedenza, non è da trascurare il fatto che in quel periodo storico l’interesse per la musica spagnola era molto in voga in Europa: esempi illustri sono la Carmen di George Bizet, il Boléro di Maurice Ravel, il Capriccio spagnolo di Nikolaj Rimskij-Korsakov, Ibéria e La soirée dans Grenade di Claude Debussy, solo per citarne alcuni. Questi due fattori sono stati a mio avviso determinanti per la riscoperta della chitarra e del suo potenziale espressivo, e Debussy e de Falla furono i primi compositori (peraltro non chitarristi) a scoprirlo. In questo modo gettarono le basi per l’effettiva rinascita dello strumento a sei corde, avvenuta con Andrés Segovia (1893-1987), il primo che riuscì a portare la chitarra nelle sale da concerto più importanti del mondo, facendola uscire dalla condizione di strumento popolare. Per mezzo della sua popolarità Segovia ottenne infatti che molti compositori a lui coevi scrivessero molti pezzi originali, di cui fu dedicatario: dopo una tournée in America nel 1928, divenne ben presto famoso come “il chitarrista”, e musicisti come Heitor Villa-Lobos, Mario Castelnuovo-Tedesco, Joaquín Rodrigo, Manuel Maria Ponce, Joaquín Turina, Manuel de Falla e Alexandre Tansman iniziarono a scrivere per lui (e per la chitarra). In conclusione, il mio intento è stato quello di analizzare la rinascita della chitarra avvenuta nel primo Novecento, prendendo in considerazione il punto di vista di compositori esterni al mondo chitarristico, ed effettuando una riflessione sull’idea che questi potevano avere della chitarra
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(e sul fascino che ha esercitato su di essi). Questo diverso punto di vista, probabilmente meno conosciuto e meno approfondito dai musicologi, vuole soffermarsi sull’inizio del XX secolo, quando Andrés Segovia non aveva ancora raggiunto la fama internazionale (la sua prima tournée all’estero risale al 1920) e la chitarra era ancora intrappolata nella condizione di strumento popolare e folcloristico. Ho voluto dimostrare quindi che la rinascita della chitarra non si deve esclusivamente a personalità interne al mondo chitarristico, come per molto tempo si è ritenuto: il contributo dato da due figure illustri del panorama musicale europeo come Debussy e de Falla ha rivestito, senza alcun dubbio, un’importanza fondamentale nel processo di emancipazione della chitarra moderna.
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finito di stampare nel novembre 2014 per conto di s illab e