Codice 602 n6 2015

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Istituto Musicale “Luigi Boccherini”

Rivista dell’Istituto Superiore di Studi Musicali “Luigi Boccherini” di Lucca n. 6 - anno 2015 - nuova serie

ISBN 978-88-8347-825-3

€ 14,00

sillabe

CODICE 602

n. 6 - anno 2015

CODICE 602

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CODICE 602 Rivista dell’Istituto Superiore di Studi Musicali “Luigi Boccherini” di Lucca n. 6 - anno 2015 - nuova serie

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Indice Editoriale 7 di Sara Matteucci

La pagina del direttore 11 di Fabrizio Papi

Contributi Spunti di analisi della forma per l’interpretazione delle Ballate di Chopin di Guido Salvetti

15

“Esercitarsi alla sinfonia”: Catalani verso la scena di Riccardo Pecci

25

“Modo polonico” e sensibilità neoclassica. Alexandre Tansman: ritratto con clausola sulla musica per chitarra di Matteo Giuggioli

43

I Concerti per pianoforte e orchestra di Ludwig van Beethoven di Aquiles Delle Vigne

61

Studi sulla Musica a Lucca Impresariato musicale e strategie di committenza nelle chiese lucchesi del Settecento di Fabrizio Guidotti

71

Benedetta la pazienza. L’elogio della vita certosina in otto quartine (semi)anonime manoscritte di Donato Sansone

99

Tesi di Laurea Il Concertino per Pianoforte di Leoš Janáček: una favola da camera di Serafino Carli

121



Editoriale

di Sara Matteucci

Il volume che avete in questo momento nelle vostre mani rappresenta la tangibile testimonianza di un serio e concreto impegno rivolto alla cultura e della volontà di condivisione del sapere musicale che da lungo tempo ormai caratterizza il nostro Istituto Musicale. Questa nuova serie annuale della Rivista «Codice 602» giunge così oggi al suo sesto numero con una diffusione notevolmente incrementata grazie al crescente interesse dimostrato da parte del mondo musicale e alla notevole cura della casa editrice Sillabe, che distribuisce la pubblicazione in tutta Italia. La stretta correlazione tra le tematiche qui affrontate e le attività artistico-culturali inserite nelle stagioni annuali dell’Istituto “Boccherini OPEN”, garantisce inoltre un inestimabile contatto con la realtà, troppo spesso sottovalutato, particolarmente nei contesti formativi. La scelta dei contributi si basa infatti nella quasi totalità dei casi su approfondimenti legati a proposte concertistiche e ai contenuti di seminari, incontri e masterclass svoltisi nei precedenti anni accademici. Il primo contributo è a opera di Guido Salvetti: Spunti di analisi della forma per l’interpretazione delle Ballate di Chopin. Il prof. Salvetti ha infatti tenuto nel mese di maggio 2014 una stimolante lezione-concerto presso l’Auditorium dell’Istituto “Boccherini”, dal titolo Forma e narrazione nelle ballate di Chopin tramite cui il noto musicologo ha guidato studenti, musicisti e appassionati nell’esplorazione di un grande capitolo del repertorio pianistico ottocentesco. “Esercitarsi alla sinfonia”: Catalani verso la scena è invece il saggio di Riccardo Pecci, che si addentra in un’interessante indagine sulla scrittura orchestrale di Alfredo Catalani, prendendo le mosse da due autografi conservati presso la biblioteca dell’Istituto “Boccherini”, la Sinfonia a piena orchestra in Fa maggiore e la Sinfonia romantica Il Mattino, Codice 602

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lavori nati negli anni della formazione del compositore lucchese. Il saggio affronta quindi due prospettive di analisi, quella legata al peso crescente assunto dalla scrittura per orchestra nella didattica e nella prassi compositiva dell’Italia postunitaria e quella relativa alla contaminazione Sinfonia/Opera che rappresenta uno dei peculiari motivi di interesse del tardo Ottocento musicale. Il terzo contributo è dedicato al compositore Alexandre Tansman, la cui arte è stata ampiamente celebrata nel Guitar Festival 2015 dell’Istituto “Boccherini”, con concerti e seminari in collaborazione con l’Associazione “Les amis d’Alexandre Tansman” di Parigi e con la partecipazione della figlia del musicista, Marianne. Per questa occasione Matteo Giuggioli ha scritto “Modo polonico” e sensibilità neoclassica. Alexandre Tansman: ritratto con clausola sulla musica per chitarra. Uno studio che offre spunti utili alla contestualizzazione della musica per chitarra di Tansman nell’ambito della sua vasta produzione musicale, illustrando l’esperienza del lavoro per e con Segovia come un momento strettamente correlato alla carriera del compositore, e quindi delineando un ritratto conciso, rispondente alle molteplici sfaccettature della creatività di un musicista poliedrico, rappresentante di un Novecento musicale ancora in larga parte da riscoprire. Altra significativa testimonianza è quella del maestro Aquiles Delle Vigne, già docente di un’acclamata masterclass di pianoforte presso il nostro Istituto, il quale è stato anche graditissimo protagonista di uno dei più recenti progetti discografici del “Boccherini”, solista al fianco dell’Orchestra dell’Istituto diretta da GianPaolo Mazzoli nei Concerti per pianoforte e orchestra di Ludwig van Beethoven. Questo è anche il titolo dello scritto, una breve lettura dei celebri concerti per pianoforte e orchestra di Beethoven da parte quindi di uno dei maggiori interpreti contemporanei del pianoforte. Come ormai sarà già noto tra i nostri lettori più affezionati, la rivista include sempre anche una sezione dedicata agli Studi sulla musica a Lucca, della quale andiamo particolarmente orgogliosi, potendo contribuire ogni anno ad arricchire il settore musicologico con studi e ricerche inedite. In questo numero possiamo leggere Impresariato musicale e strategie di committenza nelle chiese lucchesi del Settecento di Fabrizio Guidotti, il maggior studioso della musica a Lucca nel XVIII secolo. Secondo Guidotti Lucca può essere considerata un case study per quanto concerne le dinamiche di committenza e le metodiche organizzative relative alla produzione di musica di chiesa durante l’antico regime: “La musica sacra è frutto di un’attività di tipo impresariale, funzionale a un calendario musicale caratterizzato da un policentrismo che inte8


ressa tutta l’area cittadina e che, sfruttando il richiamo aggregativo e amplificativo della musica, contribuisce alla creazione di un’immagine unitaria e coesa della piccola repubblica”. Altra perla inedita è inoltre la dissertazione su Un travestimento spirituale di una frottola nella vita culturale della Certosa lucchese a cura di Donato Sansone. Nel Libro primo delle Laudi spirituali di Serafino Razzi (Venezia, 1563), conservato presso la Biblioteca Statale di Lucca, figura un testo manoscritto in corrispondenza del travestimento spirituale di una frottola, da utilizzarsi secondo la pratica del “cantasi come”. Le strofe sono molto probabilmente opera di un monaco del monastero di Farneta: si tratta dunque di un documento storico di valore per quanto riguarda la vita culturale legata alla Certosa lucchese. Questo sesto numero della rivista si chiude infine con il consueto spazio dedicato a una delle migliori tesi di laurea presentate da uno studente dell’Istituto “Boccherini”. Ospitiamo stavolta Il Concertino per Pianoforte di Leóš Janáček: radici biografiche di una favola da camera di Serafino Carli, una disamina minuziosa e organica attorno all’opera che esprime il culmine della ricerca sulla forma miniaturale da parte del celebre compositore ceco. Anche quest’anno «Codice 602» raccoglie quindi una proposta musicologica di grande spessore, grazie alla firma di noti specialisti ad argomenti che offrono particolari spunti di studio e approfondimento musicale. Per questo, il mio ringraziamento va al comitato scientifico formato da Giulio Battelli, Marco Mangani e Guido Salvetti, al Direttore uscente GianPaolo Mazzoli e ai colleghi della redazione Giulio Battelli e Fabrizio Papi (che salutiamo anche come nuovo Direttore dell’Istituto), i quali hanno contribuito in maniera decisiva alla realizzazione di questa rivista sempre con grande zelo, professionalità e competenza. Buona lettura.

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La pagina del direttore

Con il 1° novembre 2015 ho assunto la direzione dell’Istituto Superiore di Studi Musicali “Luigi Boccherini”. Ritengo questo incarico particolarmente prestigioso, e colgo questa occasione per ringraziare i colleghi che, numerosi, mi hanno dimostrato la loro fiducia e la loro stima sostenendomi e affidandomi questo compito. Per me, come molti sanno, si tratta di una sorta di “ripresa”, ma, come avviene in una forma sonata, dopo gli sviluppi la ripresa assume sempre un valore diverso da una semplice ripetizione di quanto udito nell’esposizione. In questo caso gli “sviluppi” sono stati i nove anni che hanno separato il mio primo da questo secondo mandato, anni pieni di trasformazioni importanti sia nella nostra istituzione che in tutto il settore dell’Alta formazione artistica e musicale. In questo senso, il mio ritorno – la mia “ripresa” – cambia decisamente di significato, poiché il contesto in cui mi trovo a operare oggi è profondamente mutato. Dirigere oggi un istituto come il nostro significa non solo assicurare ai corsi accademici un livello organizzativo e didattico di tipo universitario, senza dimenticare l’importanza dei corsi pre-accademici e propedeutici che li alimentano, ma anche assicurare ogni anno quella produzione artistica che la legge 508 pone fra le attività fondanti (alias mission) dei conservatori riformati. In questo senso, il collega GianPaolo Mazzoli, che ha diretto il Boccherini negli ultimi sei anni – e al quale va il nostro ringraziamento per come ha operato durante i suoi due mandati – ha interpretato perfettamente il senso della legge 508, operando una vera e propria rivoluzione nel modo di concepire la vita dell’istituto. Durante il suo mandato abbiamo assistito a un notevole incremento di studenti, a un aumento di insegnamenti, a una produzione artistica che quanto a quantità e a qualità non trova riscontro in nessun momento della storia passata del nostro istituto, e ha pochi paragoni in Italia. Non sarà facile, per me che Codice 602

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sono chiamato a proseguirne l’opera, mantenere questo stesso livello di attività. So però di poter contare sull’apporto dei colleghi con i quali condividerò le scelte negli organi di governo della nostra istituzione. Anche la ricerca rientra a pieno titolo fra le attività statutarie dei conservatori e la nostra rivista «Codice 602», tassello fondamentale e prezioso nel mosaico delle nostre numerose proposte, assolve pienamente a questa finalità. Giunti al sesto numero della nuova serie, credo che possiamo farne un bilancio più che positivo, per numero, varietà e qualità dei contributi scientifici, per cura editoriale e, non ultima, per la distribuzione sul territorio nazionale. Sono anche convinto che pubblicare in ogni numero un articolo tratto da una delle migliori tesi di laurea di triennio o di biennio costituisca un valore aggiunto, in quanto stimolo per gli studenti a impegnarsi sempre più e sempre meglio nel lavoro di ricerca, inteso sia come naturale complemento alla formazione musicale e strumentale, sia come attività autonoma di studio che si palesa alla coscienza dello studente come opportunità in più per la sue scelte future. Rimane un traguardo al quale stiamo lavorando, e che mi sta particolarmente a cuore: riuscire a far classificare dall’ANVUR (Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca) «Codice 602» fra le riviste scientifiche di classe A. Credo che il raggiungimento questo obiettivo, non facile ma possibile, aggiungerebbe ulteriore prestigio, oltre che alla rivista, al nostro Istituto. Nel dare inizio al mio mandato non voglio tacere delle difficoltà che il settore AFAM sta attraversando, derivanti in larga parte, se non totalmente, dal ritardo nel completamento dell’attuazione della legge 508. Non è questa la sede per una disamina dettagliata dei problemi che dovremo affrontare prossimamente. Sintetizzando possiamo però dire che siamo in una lunga (tanto da parere eterna) “fase di transizione”, con tutte le incertezze che questo comporta. Per tornare alla metafora musicale con cui ho iniziato queste righe, potremmo dire che ci troviamo in quel particolare momento della ripresa che i teorici definiscono “sviluppo secondario”, i cui esiti, nel nostro caso, sono ancora da realizzare. L’impegno mio, come di tutto l’Istituto Boccherini, sarà di imprimere a questo sviluppo una direzione verso obiettivi di crescita per tutte le nostre attività. Buon lavoro a tutti! M° Fabrizio Papi Direttore dell’Istituto Superiore di Studi Musicali “L. Boccherini”

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Contributi



Spunti di analisi della forma per l’interpretazione delle Ballate di

Chopin

di Guido Salvetti*

Le Ballate di Chopin fanno parte del bagaglio professionale di qualsiasi pianista degno di questo nome. Molto estesa ne è la discografia. Godono anche di una bibliografia discretamente sviluppata. Eppure la mia opinione è che ci siano ancora ampi spazi per approfondirne la singolare natura e valutarne l’importanza nel panorama compositivo della loro epoca. Invitato dall’Istituto Musicale Superiore di Lucca a tenere una lezione-conferenza per gli studenti-pianisti, sono stato quindi ben lieto di scegliere queste composizioni come argomento dell’incontro. Le esecuzioni sono state effettuate da una studentessa dell’Istituto, sufficientemente efficiente e flessibile per poter chiarire agli intervenuti (studenti, docenti, pubblico esterno) le problematiche all’interno delle quali si effettuano le scelte di chi si accinge a interpretare, non solo a eseguire, queste composizioni. Non intendo riferire nei dettagli i termini di quel lavoro, ma mi è gradito – e spero utile per i lettori – ricondurmi ai concetti da cui sono discese le particolari e occasionali osservazioni che hanno condotto e punteggiato quell’incontro. Dirò innanzi tutto che mi sono riferito a un testo-base, che credo sia il più importante contributo sull’argomento che sia mai apparso in italiano: si tratta di un libro, da me curato per la collana Repertori musicali della Società Italiana di Musicologia, il cui autore è Marino Pessina, * Guido Salvetti è musicologo e pianista. Come musicologo ha al suo attivo volumi e saggi su argomenti che spaziano dal Settecento italiano all’Ottocento operistico, al Novecento storico. Come pianista è attivo particolarmente nel repertorio da camera e liederistico e da più di un decennio collabora con il soprano Stelia Doz in numerose masterclass in Italia e in Europa, con concerti e incisioni. Dal 1984 al 1996 presso il Conservatorio di Milano ha diretto il corso di Musicologia da lui fondato, dove ha insegnato Storiografia musicale e Analisi della musica post-tonale. Di questo Conservatorio è stato direttore dal 1996 al 2004. Nel 2000 ha insegnato all’École Normale Supérieure di Parigi per il corso DEA Musique Histoire Société: il corso è stato dedicato alla musica italiana del primo Novecento. Dal 2006 al 2012 è stato presidente della Società Italiana di Musicologia (SIdM). Dal 1995 dirige la Collana “Musica nel Novecento italiano” e dal 2003 la Collana “Repertori musicali”. Codice 602

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Guido Salvetti

ugualmente versato nelle discipline storiche, in quelle analitiche e nella pratica esecutiva. Il libro Le Ballate di Frederik Chopin, edito nel 2007 dalla Libreria Italiana di Musica (LIM) di Lucca, nasce da un triplice angolo di osservazione, come tutti i volumi della collana. Una prima parte è dedicata al contesto storico (per quanto riguarda la biografia dell’autore, l’appartenenza a un genere, le condizioni della composizione, delle prime esecuzioni, della fortuna di critica e di pubblico). La seconda sezione è dedicata alle vicende editoriali, con conseguenti problematiche testuali e con plurimi approcci analitici alle strutture compositive. La terza e ultima discute numerose scelte interpretative, riferite a esemplari registrazioni di questi brani. Ho avuto occasione di illustrare il senso di questa pubblicazione stendendone la Nota introduttiva, che qui riporto. Le quattro Ballate si muovono sulle alte vette dell’ispirazione musicale romantica. Nulla vi appare di scontato e di ripetitivo. Ogni loro aspetto stimola discussione, critica, scelta. È cioè un campo di esperienza privo di certezze, ancora una volta sia per l’esecutore sia per l’ascoltatore. E questo è vero per come sono fatte, almeno quanto è vero per quello che sono. Era la distinzione che poneva Schoenberg quando parlava di musica ai suoi allievi un secolo fa. […] La via è quella di rintracciarne la ragione – e quindi l’essenza – nella situazione storica e biografica che ha visto nascere queste composizioni: nessun determinismo, certamente, nel rapporto ambiente-opera, o vita-opera, ma indagine sulle urgenze, le aspettative, le passioni di un piccolo-grande uomo (piccolo per l’assoluta assenza di tratti eroici e retorici; grande per la solitudine delle sue scelte), che si colloca in un determinato orizzonte di rapporti sociali, culturali ed estetici. Come dire che queste opere sono il frutto di un impegno creativo di alta immaginazione sonora; sono un genere a sé, come tutti quelli che chiamiamo capolavori; sono il punto di incontro instabile, e quindi pur sempre enigmatico, tra il desiderio di un astratto narrare con i suoni e quello di edificare, altrettanto stabilmente, con essi. Ma per cercare di cogliere, nella storia e nella documentazione biografica, il che cosa, non bisogna rinunciare affatto all’altra ricerca: quella sul come. È la descrizione di tutto quello che potremmo sentire o vedere noi stessi, se l’udito e la nostra concentrazione non fossero così deboli e imperfetti; se l’attenzione degli esecutori non fosse pur sempre troppo occupata a governare il movimento muscolare in rapporto alla tastiera. La tecnica da usare non è molto dissimile da quella di quegli autentici maghi della descrizione di grandi tele o di grandi affreschi che, poco per volta, ci fanno vedere come se fosse la prima volta quello che avevamo da tempo sotto i nostri occhi. Soltanto che, nel caso della quattro Ballate, troppi commentatori si sono accapigliati, nel secolo e mezzo che ci separa dal momento della loro creazione, per decidere – al posto nostro – quale sia il punto di vista più giusto per 16


Spunti di analisi della forma per l’interpretazione delle Ballate di Chopin

vedere nella giusta luce strutture così complesse e articolate. Ci vuole, io penso, un ragionare sereno sulle tesi, le ipotesi, le teorie di quanti finora hanno scritto, più o meno analiticamente, su queste opere. [Si tratta, alla fine, di portare lo studente] alla capacità di decidere quale sia l’approccio più convincente e appagante. La ricerca travalica quindi, inevitabilmente, dalla discussione sulle parole ‘interpretative’ di tanti commentatori, alla discussione sulle interpretazioni sonore di grandi pianisti. […] Il massimo risultato è affidato a chi (ascoltatore o esecutore che sia) sappia proiettare sulle possibili scelte – davvero varie se non divaricate – dei grandi esecutori quanto acquisito da tutte le informazioni reperibili sul contesto e il testo in un rapporto circolare di mutua significazione.

Nonostante siano passati alcuni anni, mi riconosco in quello che scrivevo allora, soprattutto per quanto riguarda il problematico rapporto, in queste Ballate, tra un approccio rivolto – diciamo così – all’essenza, e quell’altro approccio, che chiamerei analitico-descrittivo, di come è organizzata la costruzione sonora. Per quanto riguarda l’essenza, mi sembra che allo stato attuale del pensiero musicale si possa anche fare a meno di quelle stampelle che sono i cosiddetti ‘programmi’, espliciti o impliciti che essi siano. Non ha però nemmeno molto senso che ci si rifiuti a priori di considerare i suggerimenti che ci vengono dal riferimento – attestato da Schumann dopo l’incontro privato con Chopin a Dresda – alle Ballate del poeta polacco Adam Mickiewicz, patriota e combattente anche a fianco di Garibaldi. Purché si abbia chiara l’avvertenza della portata di questo riferimento! Si può certo accettare l’idea che la denominazione stessa di “Ballata”, fino ad allora di uso letterario e romantico-tedesco, comporti un clima espressivo di volta in volta sognante o acceso fino alla tragicità (così come massimamente chiarito nella Seconda Ballata), da cui scaturiscono anche quelle “cavalcate verso l’abisso” (Cortot) che costituiscono gli episodi conclusivi della Prima, della Seconda e della Quarta Ballata. Ci si può spingere fino a far tesoro del suggerimento schumanniano che l’inizio della Terza Ballata si configuri come un dialogo tra un cavaliere e un’ondina. Ma è difficile andare oltre sulla via di una puntuale corrispondenza tra musica e poesia. Il riferimento letterario, per quanto generico, dà invece piena ragione della temperatura emotiva che scardina le sequenze armoniche e gli assetti metrici; e che produce un tipo di forma musicale sostanzialmente nuovo. Ed è proprio nella metafora del racconto, che è la sostanza della Ballata narrativa, il punto centrale per comprendere la forma musicale di queste Ballate di Chopin. È pur vero che per l’interprete e l’ascoltatore può rivestire ancora una Codice 602

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Guido Salvetti

certa qual utilità una visione statica di queste forme, cioè la coscienza di come i singoli episodi abbiano una loro specifica fisionomia e come sulla somiglianza o l’opposizione tra loro si costruisca il pezzo nella sua interezza. La prima Ballata si lascia facilmente schematizzare con un AA’BB’B’’, a cui aggiungere appropriate indicazioni per l’introduzione e la coda, nonché per gli episodi di transizione. La seconda può essere letta come ABA’B’C. La terza ABCB’B”, anche se questo schema non dà ragione dei forti processi elaborativi che trasformano gli elementi che caratterizzano B. Con ancora maggiore approssimazione, anche la quarta può essere intesa, in modo estremamente semplicistico, come un intrecciarsi di due serie di variazioni, con episodi di transizione e coda conclusiva. In senso puramente descrittivo questa ‘lettura’ preclude, a mio parere, la comprensione della sostanza vera delle Ballate. È anche una lettura pericolosa, che ha portato persino qualche grande pianista a sorvolare sulle transizioni con tempi acceleratissimi e a rendere le code talmente veloci e frastornanti da perdere ogni nesso discorsivo con le pagine precedenti. Questo tipo di approccio risulta quindi inidoneo a comprendere le Ballate di Chopin e va sostituito con una visione della forma come racconto, in cui si valorizzino sia le funzioni tematiche, sia quelle che non lo sono. Solo in tal modo si può concepire una vera unità, in cui risultino decisive categorie come gradualità, discontinuità, reminiscenza, anticipazione. E ancor più l’individuazione dei modi della narrazione emotivamente partecipata: il richiamo dell’attenzione, la drammatizzazione dei momenti salienti, la gestualità, e simili. Questo tipo di approccio è particolarmente illuminante se applicato alle ultime due Ballate, che – ricordiamo – sono contigue cronologicamente, essendo stata composta, la terza, nel 1841 e, la quarta, nel 1842-’43. La Quarta Ballata è poi universalmente considerata come uno dei vertici di quella complessità compositiva che caratterizza l’ultima stagione del nostro autore: ampio uso del contrappunto, percorsi armonici tormentati, metrica ricca di asimmetrie e, appunto, costruzioni formali ardite e tormentate. Per quanto riguarda queste ultime Ballate rimando alla magistrale lettura che ne fa Marino Pessina (op. cit., pp. 107-138). Anziché sovrappormi a questo più che esauriente lavoro, scelgo una divagazione – che spero funzionale – riferendo di un mio lavoro condotto in sede seminariale e finora rimasto inedito. Riguarda l’ultimo Chopin: è la Polonaise-Fantaisie op. 61 in la bemolle maggiore, pubblicata nel 1846. Qui si rintraccia ancor più chiaramente la fondazione di una concezione dinamica della forma che si imporrà nel secondo Ottocento con Liszt (Sonata in si minore, Poemi sinfonici, ecc.), Smetana (Ma Vlast), Čajkovskij (Francesca da Rimini), Richard Strauss (Poemi sinfonici), e tanti altri. Va anche ricordato il contributo di Wagner, con il suo concetto di melodia infinita che, portata ad esiti estremi nel Tristano e Isotta, si qualifica con una chiarezza fin didascalica nel canto di Walter nei Maestri cantori come forma “aperta” del tipo AA’B. 18


Spunti di analisi della forma per l’interpretazione delle Ballate di Chopin

Riporto ora, con ritocchi e aggiunte, quel testo che, in forma di dispensa, si intitolava Proposte per un approccio analitico utile all’interpretazione e all’ascolto della Polonaise-fantaisie op. 61 in la bemolle maggiore di Fryderyk Chopin. Questo testo vuole contribuire ad arricchire le considerazioni sulle scelte formali dello Chopin delle Ballate e il concetto stesso di “forma dinamica”. Scrivevo, a mo’ di introduzione: La Polacca-Fantasia di Fryderyk Chopin appartiene all’ultima e celebrata produzione del compositore polacco. Si segnala per un alto livello di complessità e, contemporaneamente, per una chiara e avvincente discorsività. Si presta in modo eccellente per un esercizio di “analisi della forma”, cioè per una presa di coscienza di come è organizzata l’architettura nel tempo di un’opera appartenente alla civiltà musicale europea del XIX secolo. L’orizzonte all’interno del quale si colloca questo approccio alla forma musicale è quello di cogliere, in una composizione, quale sia lo schema a cui l’autore fa riferimento per poi variarlo o negarlo. Una simile impostazione può essere assimilata allo schema della linguistica strutturalista con i suoi concetti di langue (paradigmi) e parole (scelte individuali nell’uso di quei paradigmi). In questo caso l’individuazione del modello deve fare i conti con il dualismo già dichiarato nel titolo di Polacca-Fantasia.

Ecco l’approccio analitico di base: Lo schema della Polacca sarebbe: ABA / Trio / Ripresa (ABA). Questa struttura semplicissima è contaminata, come si può vedere nello schema n. 1, da elementi sonatistici (nello schema: “elaborazioni”) e dalla trasformazione della Ripresa in Ricapitolazione (poiché in questa sezione SCHEMA N. vengono 1 anche riprese parti del Trio). SCHEMA N. 1 battute n.

Articolazione

1 – 21

Introduzione

22 – 66

Polacca – 1a sezione

66 – 92

Polacca – 2a sezione

92 – 115

Elaborazione

116 – 147

Divagazione e Coda della Polacca

148 – 179

Trio - 1a sezione

180 – 213

Trio - 2a sezione

214 – 215

Ripresa Polacca

216 – 241

Ripresa Trio

242 – 253

Ripresa Polacca

254 – 288

Coda del Trio Codice 602

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Guido Salvetti

Anche a questo livello di osservazione, risalta con chiarezza un procedimento formale notevolmente squilibrato, in cui per due volte un ‘ordine’ espositivo (rispettivamente bb. 22-92 e bb. 148-213) si disperde in plurime e frammentate convulsioni (bb. 92-147 e bb. 214-288). Un percorso binario su un impianto ternario. Un percorso aperto: un A di 147 battute e un B di 140 che incorpora ben 34 battute di coda, un vero e proprio C. Si propone ora un approfondimento in cui vengono cifrati alcuni elementi costitutivi del pezzo. Con questa cifratura si voleva soprattutto individuare l’articolazione dell’opera e i modi con cui la forma diventa percorso ‘aperto’; o, ancor meglio, narrativo. Questi i suggerimenti di lettura del successivo Schema n. 2: - il disporsi degli elementi nel tempo fa riferimento alle singole battute, segnate con un trattino ognuna; - per quanto riguarda l’articolazione, è importante notare come tra momento e momento molto spesso prevale un’idea di continuità, nello schema indicata con il segno - le idee tematiche scandiscono, con le loro differenti caratteristiche, i diversi momenti: A, B, C per il primo episodio; D, E, F per il Trio. A, E ed F sono contornate, per evidenziarne una prevalenza quantitativa (maggiore ricorrenza, maggiore estensione), e qualitativa (maggiore individuabilità intervallare o ritmica); - già da questa prima cifratura risulta agevole individuare il singolare rapporto tra il primo episodio e il Trio, così come appare al ritorno del “tempo primo”. Non riappaiono più le idee B e C; in compenso in fase conclusiva ritorna l’idea E (che era del Trio). E si noti come in piena ripresa appaia un’idea (indicata come G) che non era mai apparsa prima; - un altro elemento di osservazione è l’andamento delle tonalità, indicato con iniziali maiuscole (Lab, Mi) per le tonalità maggiori, e con iniziali minuscole per quelle minori; - con il segno ‫ ﺻﺻﺻ‬vengono indicati gli episodi in cui le tonalità cambiano rapidamente; - armonicamente se ne ricava un quadro di una sorprendente instabilità e ricchezza. E questo sia per il singolarissimo percorso da La bemolle a Si maggiore; sia anche per il fatto che i cambiamenti di tonalità spesso non coincidono con l’articolazione degli episodi, definiti dallo scorrere delle diverse figure e dei diversi temi. Il caso più straordinario è il passaggio dal Trio alla ripresa. La riaffermazione della tonalità di La bemolle avviene notevolmente dopo il ritorno del movimento iniziale e delle figure del primo episodio; - si noti anche la funzione delle brevi idee-motto indicate con lettere minuscole: non veri e propri temi, perché privi di espansione. Quella indicata con la x contornata fa riferimento alla figura di arpeggio che domina nell’introduzione, e che poi si espande nei lunghi episodi di “divagazione”: si può pensare che sia questo il riferimento al termine “Fantasia” nel titolo della composizione. Altri passaggi rapidi sono indicati con le lettere minuscole m, n, o, p, q, r: - la z contornata fa riferimento al ritmo di Polacca, così come appare all’attacco di A e nel momento della ripresa. Si noti come sia una presenza limitatissima, e soprattutto priva di un vero seguito dopo la sua ben rilevata apparizione iniziale.

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Spunti di analisi della forma per l’interpretazione delle Ballate di Chopin

SCHEMA N. 2

SCHEMA N. 2 battute n.

articolazione secondo figure e secondo piani tonali

1 – 21

------------------la b

sol #

22 – 66

A 66 – 92

92 – 115

--------│

--------------------------

La b

La b

B--

--------

La b

‫ﺻﺻﺻ‬

SCHEMA N. 2

-----

battute n.

articolazione secondo figure e secondo piani tonali

1 – 21

La

------------------la b

116 – 147

A --------------------Mi b

‫ﺻﺻﺻ‬

A 66 – 92

SCHEMA N. 2 116 – 147

si

si

battute n. 1 – 21

180 – 213

Un poco più22lento – 66

D-E--------------------------Si

214 – 215

Si

sol #

Si

116 – 147

214 – 215

--│

fa

‫ﺻﺻﺻ‬

242 – 253 214 – 215

La b

A--G--r--La b

la b

la b

sol #

A

254 216 – 288 – 241

La b

--------‫ﺻﺻﺻ‬ │

--------------------------

La b C ------------ o -------------║

E--------------------------------║ La b

La b

254 – 288

La b

La

B, C, D, m, n, o, p, q, r B-- -----------116 – 147 A --------------------= più episodi con ‫ﺻﺻﺻ‬ Un poco lento ‫ﺻﺻﺻ‬ Mi b sib temi o motti D-E--------------------------SiA --------------------Si meno espansi ‫ﺻﺻﺻ‬ o rilevati La b

Si b

si

si

La b

La

Mi b

sib

La b

C ------------ o -------------║ 148 – p-------------179 F-------------Si bE si si Si

Si

C ------------ o -------------║ Si b

si

si

180 – 213

Lab, Si, Do ecc. = tonalità maggioriUn poco più lento

E b, si, do ecc.--la Si = tonalità Tempo primo [all’asterisco] 214 – 215 minori F--*q- --------------------------------------Un poco Dpiù lento

D-E--------------------------Si

Si

Si

F-------------‫ﺻﺻﺻ‬p--------------E

F-------------- p--------------E

Si = continuità Si a fine frase La b--│ La b --│ = cesura Si/Do a fine frase Tempo primo [all’asterisco] Tempo primo [all’asterisco] – 253 --*q- 242 ---------------EF--------------------------------║ = forte La b b*q- ---------------‫ﺻﺻﺻ‬ FLa--cesura a fine ‫ﺻﺻﺻ‬ fa frase La b A--G--r--fa

sol #

La b

Si

Si

sol #

216 – 241 A--G--r--Si/Do

242 – 253

--------│

sol #

--│ Tempo primo [all’asterisco] Si/Do 180 – 213

----------------

La

A,E,F,x,z [lettere contorA --------------------- Anate] -------------------------= episodi articolazione secondo figure eLasecondo piani tonali b ‫ﺻﺻﺻ‬ Mi b 66 – 92 sib con temi ------------------o motti espansi B-- -------o rilevati ----92 – 115

– 179 216 148 – 241

F--*q-

‫ﺻﺻﺻ‬

La b

sol #

Si/Do

254 – 288

180 – 213

Si

216 – 241

242 – 253

148 66 – 179 – 92 92 – 115

F-------------- p--------------E

battute n. -----------1 – 21

B--

22 – 66

C ------------ o -------------║ Si b

--------│ Legenda: La b ogni trattino corrisponde a articolazione secondo figure e secondo piani tona una battuta -------------------

--------------------------

La b

SCHEMA N. 2

sib

92 – 115

148 – 179

sol #

22 – 66

fa

La b

La b

La b 254 – 288

A--G--r---

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La b

E--------------------------------║

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La b

La b

La b

E--------------------------------║ La b

La b


Guido Salvetti

La lettura dell’“organizzazione nel tempo” dell’architettura di questa affascinante opera tarda di Chopin aumenta le capacità di comprensione e di piacere nell’esecuzione e nell’ascolto. Ma i due schemi che proponevo per la Polacca-Fantasia hanno comunque i limiti di essere, appunto, degli schemi di ripartizione, a cui, per loro natura, è in larga parte preclusa la presa di coscienza di quella organizzazione dinamica – nel tempo! – che si basa su procedimenti narratologici quali la creazione dell’attesa, l’avvio, la sorpresa, la peripezia, le digressioni, la catastrofe o la catarsi conclusive, e simili. È un modo di costruire il discorso musicale che si basa su procedimenti che si direbbero psicologici prima che musicali: l’ossessione (la ripetizione ossessiva), il senso di una minaccia incombente (gli squilli minacciosi di trombe e tromboni), i trasalimenti (i continui scarti di tonalità, le ellissi nei procedimenti cadenzali), l’ansia inappagata, il grido, e via dicendo. E tutto ciò deforma e porta al limite dell’irriconoscibilità i modelli formali ereditati da Mozart e da Beethoven. Questo approccio si rivela fecondo non solo per la ‘comprensione’ della Quarta Ballata, la cui complessità si impone in modo evidente. La Terza merita altrettanta considerazione: cioè merita di non essere appiattita da una lettura per episodi chiusi in se stessi, confinati ognuno nell’ambito di un sentimentalismo salottiero o di un arcadico ninna-nanna; gli episodi che sembrano di transizione e di coda conclusiva sono portatori di una tensione unitaria, quasi spasmodica. Procedendo a ritroso, è questo il risultato che occorre raggiungere anche nella Seconda, dando piena evidenza alle complessità armoniche crescenti che vengono a sovvertire, nei due successivi ritorni, il paradisiaco episodio iniziale; crescita di tensione e di gestualità che sfocia nella drammaticissima e convulsa coda conclusiva, costruita su elementi tematici irriducibili a tutto ciò che l’ha preceduta. Con una certa sorpresa, anche la Prima Ballata, appartenente a un momento così giovanile della produzione di Chopin, rivela inediti valori formali se la si esamina da un punta di vista dinamico. Qui posso soltanto accennare ad alcuni di questi aspetti della Ballata in sol minore: l’introduzione con tratti di recitativo (“once upon a time …”); i quattro ritorni, sempre più brevi (fino a diventare fulminanti motti conclusivi), della prima idea; l’intreccio con essi – in direzione contraria, cioè in espansione – della grande melodia che costituisce la seconda idea; la teatralità gesticolante di tutta la coda conclusiva, dove si scaricano le tensioni accumulate anche attraverso episodi che parrebbero “di transizione” e che invece sono parte costitutiva di un unico percorso drammatico. Anche solo limitandoci a queste osservazioni riguardanti l’opera di un ventenne, ci si rende conto di quanti e quali travisamenti attendono al varco l’interprete. Le insidie maggiori si annidano nella tentazione di frammentare ciò che è coeso; cioè di non dare sufficiente ragione della 22


Spunti di analisi della forma per l’interpretazione delle Ballate di Chopin

progressività nell’accumulo dell’energia fino all’esplosione conclusiva. Spero che queste e simili osservazioni sulle quattro Ballate siano riuscite e riescano davvero funzionali ad esecuzioni ‘pertinenti’: esecuzioni, cioè, che siano storicamente ed esteticamente informate. È davvero singolare che in anni dove questo tipo di approccio si è imposto nel repertorio barocco e classico, troppa musica dell’Ottocento rimanga in preda all’arbitrio autocompiaciuto e sostanzialmente anticulturale.

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“Esercitarsi alla sinfonia”: Catalani verso la scena

di Riccardo Pecci*

La musica sinfonica ottocentesca, ci è stato raccontato tante volte, cammina lungo un crinale sottile. Da una parte, il versante della musica assoluta, lo status estetico e l’impalcatura formale codificata della sinfonia classica. Dall’altra, l’idea dell’orchestra come spazio scenico immaginario, nel quale si allestiscono ‘quinte’ sonore e si fanno interagire i personaggi di un dramma più o meno dichiarato. Il risultato, decennio dopo decennio, è uno spettro vastissimo di soluzioni ad hoc, di lavori individuali (ouvertures, poemi sinfonici) “in dialogo con le norme della forma-sonata”, che ‘deformano’ creativamente tracciando sentieri sempre nuovi tra i due versanti1. Funzionando, soprattutto, come incubatrici di procedimenti (formule armoniche, tecniche di elaborazione motivica, tavolozze di colori orchestrali) che a un certo punto incontreranno un vero palcoscenico, quello del teatro musicale: nel quale, secondo la ben nota prospettiva wagneriana, tutti i generi della musica strumentale si sarebbero appunto giosamente annullati2. * Riccardo Pecci ha vinto nel 2006 il primo “Premio Rotary Giacomo Puccini Ricerca”, promosso dal Centro Studi Giacomo Puccini, con un progetto su Puccini e Catalani. Il principe reale, il pertichino e l’«eredità del Wagner» (Olschki, 2013). Dedito prevalentemente a studi di drammaturgia musicale (tra i quali Il bacio della Sfinge. D’Annunzio, Pizzetti e Fedra, con Vincenzo Borghetti, EDT, 1998, vincitore del quinto “Premio nazionale Gabriele d’Annunzio di saggistica”), ha tra l’altro curato l’edizione critica della musica di Puccini per voce e pianoforte (Carus, 2010) e scritto saggi di argomento pucciniano per la rivista «Studi pucciniani», il Comitato Nazionale Celebrazioni Pucciniane 2004-2008, e istituzioni liriche come il Teatro alla Scala e il Teatro La Fenice di Venezia. Dal 2014 è membro del comitato scientifico del Centro Studi Giacomo Puccini. 1 Cfr. la panoramica sulla Structural deformation in James H epokoski, Beethoven Reception: The Symphonic Tradition, in The Cambridge History of Nineteenth-Century Music, a cura di Jim Samson, Cambridge, Cambridge University Press, 2002, pp. 424-59: 447-54. 2 Un’eccellente introduzione all’intera questione resta Thomas S. Grey, Wagner, the Overture, and the Aesthetics of Musical Form, «19th-Century Music», xii/1, 1988, pp. 3-22. Codice 602

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Riccardo Pecci

Il ruolo dei musicisti italiani, all’interno di questa complessa narrazione, è sempre stato marginale: anzi, nullo, a dirla tutta. Troppo barilliano “paese del melodramma”, il nostro, per partecipare a questo viaggio europeo. Da qualche tempo, fortunatamente, sappiamo che le cose non stanno proprio così3. E diamo il giusto peso, ad esempio, al fatto che la carriera di Giacomo Puccini si dispieghi proprio secondo le tappe che abbiamo sommariamente elencato: brillanti esordi scolastici − tra Lucca e Milano – nel campo della musica per orchestra (Preludio a orchestra sc 1, Preludio sinfonico sc 32), che culminano nell’ambizioso Capriccio sinfonico sc 55, dove già si adombra uno spazio scenico affollato, variopinto, pieno di movimento e di autentici coups de théâtre4; infine, passaggio definitivo da un teatro evocato, fatto di sole note musicali, alla scena vera e propria, nella quale vengono travasate tutte le esperienze di compositore sinfonico, e a volte intere pagine − le famose “rifritture da lavori precedenti” che tanto infastidivano Fausto Torrefranca5. Di fatto, introiettando il celebre monito lanciato nel maggio 1865 da Arrigo Boito sulle pagine del «Giornale della Società del Quartetto», e condiviso da tutta la cerchia del Conservatorio ‘scapigliato’ di Alberto Mazzucato, Franco Faccio ed Emilio Praga: “esercitarsi alla sinfonia e al quartetto per poter affrontare il melodramma”6. Quelle di Puccini sono, più o meno, le stesse tappe attraversate − con qualche anno d’anticipo − da un altro allievo del Regio Conservatorio di Musica di Milano e, prima ancora, dell’Istituto Musicale “Pacini” (oggi “Boccherini”): Alfredo Catalani. Tra i pregevoli manoscritti custoditi nell’attuale Fondo Antico della Biblioteca dell’Istituto lucchese si trovano appunto due autografi in cui il giovanissimo Catalani si misura esplicitamente con l’idea di ‘sinfonico’7: una Sinfonia a piena orchestra in Fa maggiore (compiuta tra agosto e settembre 1872), risalente agli anni della formazione lucchese con Fortunato Magi, lo zio di Puccini, e la “sinfonia 3 È doveroso menzionare almeno due ampi lavori di sintesi: Marino Pessina, Il repertorio sinfonico italiano 1861-1884, «Quaderni del Corso di Musicologia del Conservatorio “G. Verdi” di Milano», 3, 1995, pp. 11-136; Antonio Rostagno, La musica italiana per orchestra nell’Ottocento, Firenze, Olschki, 2003. 4

Cfr. Riccardo Pecci, La Sinfonia è l’Opera: riflessioni su Puccini ‘l’attuale’, in Giacomo Puccini, I atto. La conquista di uno stile. Dai preludi sinfonici a Manon Lescaut, a cura del Comitato Nazionale Celebrazioni Pucciniane, Lucca, 2005, pp. 23-47.

5 Fausto Torrefranca, Giacomo Puccini e l’opera internazionale, Bocca, Torino, 1912, p. 43. Per una rivalutazione del termine ‘rifrittura’ mi permetto di rinviare a Riccardo Pecci, Piccole donne crescono. Note, sole e amori dai Canti di Puccini alla Bohème, «La Fenice prima dell’opera», 2011, 1, pp. 11-28: 11. 6 Citato e contestualizzato anche da Andrea Estero, Quale musica e in quale Conservatorio?, in Milano e il suo Conservatorio 1808-2002, a cura di Guido Salvetti, Milano, Skira, 2003, pp. 73-123: 95. 7 Colgo l’occasione per ringraziare Giulio Battelli per l’assistenza premurosa e tempestiva nella stesura di questo saggio, e per le riproduzioni dei manoscritti che ha messo a mia disposizione.

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“Esercitarsi alla sinfonia”: Catalani verso la scena

romantica” Il mattino (terminata nel gennaio 1874), prima parte di un dittico − completato da La notte − che nasce invece sotto la guida di Antonio Bazzini, tra le mura Conservatorio milanese8. La prima delle due prove è ‘sinfonia’ nell’accezione rossiniana del termine: una ouverture in movimento unico, articolato ma ininterrotto (introduzione lenta + Allegro in forma-sonata + coda)9. E tuttavia, nonostante gli elementi di continuità, la distanza culturale dall’archetipo primo-ottocentesco è ormai ben percepibile. La tradizione sinfonica radicata in Rossini presentava caratteristiche condivise − almeno in parte − dalla “solita forma” melodrammatica: massima evidenza degli snodi strutturali (si pensi alla dinamica forte che marcava abitualmente l’inizio della transizione al secondo tema); relativa sostituibilità dei temi coinvolti dalla costruzione musicale; sensibile calo dell’impegno compositivo a partire dalla fine dell’esposizione (a cominciare dall’assenza di una sezione di sviluppo; quanto alla ripresa, si configurava essenzialmente − con termini mutuati dalla videoscrittura musicale − come un ‘copia, incolla e trasponi’)10. Una fisionomia, questa, che dagli anni Cinquanta viene profondamente alterata dal nuovo caposaldo della scrittura orchestrale: il lavoro motivico. “Non v’ha pensiero, non modulazione, non ritmo, che non sieno generati da un ritmo, da una frase antecedente, che non ne sieno la logica conseguenza”, scriveva proprio Mazzucato delle ouvertures di Jacopo Foroni (1850-1853), testimoniando lo slittamento della nozione di ‘sinfonico’ ormai in corso anche al di qua delle Alpi11. Il lavoro motivico scavalca e offusca le giunture della sinfonia; rende non rimpiazzabile il materiale tematico; trasforma il ‘copia e incolla’ in ‘copia, incolla e riscrivi’. Da questo punto di vista, il debutto sinfonico di Catalani è indubbiamente esemplare12. L’Andante sostenuto introduttivo esordisce con un’idea 8 Per il catalogo dei manoscritti catalaniani conservati nella Biblioteca dell’Istituto cfr. Maria Menichini, Alfredo Catalani alla luce di documenti inediti, con il catalogo dei manoscritti dell’Istituto Musicale “Luigi Boccherini” di Lucca, Lucca, Maria Pacini Fazzi, 1993 (i due lavori in questione sono rispettivamente indicati con il numero di catalogo 2.e.6 e 2.e.3, e descritti alle pp. 93 e 89); un quadro aggiornato è in Sara Matteucci, La musica di Alfredo Catalani nella Biblioteca dell’Istituto Musicale “Luigi Boccherini” di Lucca, in “Dal sogno ingannatore, mi risvegliò il dolore”. Omaggio ad Alfredo Catalani (1854-1893), Quaderni di «Codice 602», 3, 2009, pp. 31-36. 9 Cfr. Rostagno, La musica italiana, cit., pp. 61 ss. Egli contesta l’appartenenza della sinfonia rossiniana al novero delle forme-sonata, che invece è stata riaffermata da James Hepokoski, Warren Darcy, Elements of Sonata Theory: Norms, Types, and Deformations in the Late-EighteenthCentury Sonata, Oxford, Oxford University Press, 2006, pp. 343 ss. (“type 1 sonata”). 10 Si veda Philip Gossett, The Overtures of Rossini, «19th-Century Music», iii/1, 1979, pp. 3-31.

11 Mi rifaccio anche qui a Rostagno, La musica italiana, cit., pp. 119 ss. (la citazione proviene da p. 134); sul “caso Foroni” e sulla sua ricezione postunitaria si veda anche Pessina, Il repertorio sinfonico italiano, cit., pp. 33 ss. 12 Lo si può seguire nell’incisione realizzata nel 1990 da Silvano Frontalini con la Warmia National Orchestra (Bongiovanni gb 2097-2). Codice 602

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vagamente clownesca, caricaturale – da sinfonia d’opera buffa – che ruota intorno alla dominante di Si@ maggiore ed è affidata nel levare a clarinetto e fagotto e nel battere ai pizzicati degli archi (ne vediamo l’inizio nell’Es. 1).

Es. 1: Alfredo Catalani, Sinfonia a piena orchestra: Andante sostenuto13

A b. 6 il motivo comincia subito a lavorare, con l’anacrusi trasferita nei bassi (Es. 2), anche se è costretto a cedere temporaneamente il passo a un’idea più lirica dei violini primi (Es. 3), echeggiata da soli dei legni: idea già inscritta nella settima di dominante della tonalità d’impianto della sinfonia (Fa), e che in sostanza farà da perno al resto dell’Andante.

Es. 2: Alfredo Catalani, Sinfonia a piena orchestra: Andante sostenuto

Es. 3: Alfredo Catalani, Sinfonia a piena orchestra: Andante sostenuto 13 Gli esempi musicali sono in suoni reali e in generale si limitano a selezionare le parti orchestrali più interessanti ai fini dell’argomentazione.

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“Esercitarsi alla sinfonia”: Catalani verso la scena

Un crescendo su discesa semitonale dei bassi, basato sull’Es. 3, innalza per qualche battuta la temperatura del discorso, sigillato dal perentorio ritorno in forte su sonorità di settima diminuita delle crome in battere dell’Es. 1 (Es. 4).

Es. 4: Alfredo Catalani, Sinfonia a piena orchestra: Andante sostenuto

La piccola ‘scena’ si sta animando: e non sarà inutile far notare che il drammatico gesto ‘d’arresto’ dell’Es. 4 entrerà a far parte del vocabolario di base del teatro di Catalani, Wally inclusa. L’Andante si chiude con un’accelerazione ritmica impressa all’Es. 1, che genera in maniera perfino troppo ostentata il motivo staccato del primo tema dell’Allegro (Es. 5). Ma non esaurisce qui la sua funzione: all’arrivo del secondo tema della sinfonia, consegnato (secondo tradizione rossiniana) al timbro e all’esecuzione ben sensibile dell’oboe (Es. 6)14, ci accorgiamo difatti che è prefigurato a sua volta dalla seconda idea dell’Andante (Es. 3)15, perfino nel rapporto di dominante-tonica che lo lega con il primo (Do-Fa nell’Allegro, Fa-Si@ nell’Andante).

Es. 5: Alfredo Catalani, Sinfonia a piena orchestra: Allegro 14 Cfr. Gossett, The Overtures, cit., pp. 7-8.

15 Già Zurletti aveva notato che “l’introduzione [...] è tutta giocata sull’anticipazione dei due temi che compariranno nell’Allegro”, Michelangelo Zurletti, Catalani, Torino, EDT, 1982, p. 82. Codice 602

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Es. 6: Alfredo Catalani, Sinfonia a piena orchestra: Allegro

Nel corso della sinfonia, avremo modo di apprezzare come l’Andante funzioni come “un calderone di motivi, una risorsa o ‘calamaio’ nel quale il compositore intinge la penna nella stesura del seguito del pezzo”16. Meglio ancora, come un vero e proprio ‘embrione’ dell’Allegro: non sarebbe una forzatura dire che Catalani vi istituisce un pattern motivico di riferimento, e poi imbastisce l’intera composizione intorno alle sue ricorrenze/amplificazioni/manipolazioni, nel senso della Sonata Theory di James Hepokoski e Warren Darcy17. Questa chiave di lettura ci soccorre soprattutto a partire dalla fine del secondo tema della sinfonia, dove il dialogo con la forma-sonata si fa caratteristicamente ambiguo – non da ultimo proprio per l’intensità e la capillarità del lavoro sul materiale dell’esposizione. Per l’orecchio, la sinfonia è un flusso ininterrotto di sezioni basate a vicenda sui due temi, dal carattere diffuso di sviluppo e con un’unica cesura enfatica, collocata alla metà esatta dei 12 minuti circa di durata: una dominante di Fa ribadita per 15 battute. Dominante che lancia la ripresa, portando a conclusione l’Allegro. Per l’occhio dell’analista educato alla Sonata Theory, il piccolo pattern ‘a due idee (ritmica e lirica)’ dell’introduzione genera innanzitutto la sequenza ‘primo tema – ponte – secondo tema’, e questa a sua volta un grande pattern di blocchi tematici (o moduli, zone ecc.) basati sui loro 16 Hepokoski, Darcy, Elements, cit., p. 303.

17 Per il concetto di ‘introduzione embrionale’ vedi ibid. Non è possibile né opportuno dare qui una bibliografia sulla Sonata Theory, peraltro ormai abbastanza nota. Rinvio pertanto almeno agli Elements già ripetutamente citati, e segnalo ai lettori un recente saggio pubblicato proprio sulla rivista che ospita queste pagine: Matteo Giuggioli, Discorso e racconto nella musica di Boccherini: una prospettiva analitica, «Codice 602», nuova serie, 3, dicembre 2012, pp. 33-53.

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materiali che – più o meno fluidi e instabili – saturano l’Allegro fino alla cesura intermedia. Da qui in avanti, la sinfonia ‘rimette in circolo’ i blocchi del grande pattern – riscrivendoli e in parte riorganizzandoli – in funzione della riaffermazione conclusiva della tonica. Interesse tecnico e valore estetico, s’intende, non sempre vanno a braccetto. “Stiracchiata”, definiva la sinfonia di Catalani il suo allievo Carlo Gatti, e davvero riesce difficile confutarlo18: lo sferragliare implacabile dell’Es. 1 – indeciso tra gli esordi buffoneschi e un tono via via sempre più serioso – produce alla lunga un effetto meccanico e ingessato. Forse, troppa preoccupazione di dimostrare i “regolari e completi studi di contrappunto sotto il valentissimo Maestro Fortunato Magi”: che gli verranno peraltro ampiamente risconosciuti dal pubblico e dalla stampa in occasione di un’acclamatissima esecuzione lucchese del settembre 1872, ancora nel clima del lusinghiero successo della Messa a 4 voci e orchestra, coronamento della brillante conclusione degli studi musicali19. Migliore fortuna Catalani ha con le zone liriche della forma, che fanno pensare a un’espansività quasi čajkovskijana (un’inclinazione precoce, all’inizio degli anni Settanta). Certamente l’elementare motivo di due battute da cui cava il Gesangsthema della sinfonia (il tema ben sensibile dell’Es. 5) e indirettamente tutto il materiale ‘cantabile’ doveva essere di suo gusto. Negli stessi anni lo pone infatti a fondamento di un Andantino per orchestra (Es. 7) che ne esplora altrettanto efficacemente le possibilità espressive ed evolutive, e che mostra eloquenti rapporti con la sinfonia20.

Es. 7: Alfredo Catalani, Andantino per orchestra 18 Carlo Gatti, Catalani. La vita e le opere, Milano, Garzanti, 1953, p. 20.

19 Cfr. Nicola Laganà, Alfredo Catalani e Lucca. Notizie del musicista e della sua famiglia, tratte dai documenti d’archivio e dai periodici lucchesi, in Alfredo Catalani. Nel centocinquantesimo anniversario della nascita (1854-2004), a cura di Beppino Lenzi, Aldo Berti e Nicola Laganà, Lucca, Francesconi, 2004, pp. 39-150: 66-68. 20 Di fatto, non sappiamo nulla della genesi di questo Andantino, non datato (e conservato a sua volta tra i manoscritti del “Boccherini”: cfr. il numero di catalogo 2.e.1 di Menichini, Alfredo Catalani, cit., p. 87). Impossibile dire se sia precedente (come sostiene Gatti, Catalani, cit., p. 14, che lo attribuisce all’anno 1871) o posteriore alla sinfonia (come ora non esclude Paolo Petronio, Alfredo Catalani, Varese, Zecchini, 2014, p. 439); e se dunque abbia ricevuto o piuttosto ceduto il suo materiale tematico. È comunque interessante la presenza di una variante (dislocata nella sezione centrale del pezzo) del crescendo dell’introduzione basato sull’Es. 3 e chiuso dal forte dell’Es. 4: sia perché dimostra quanto sia lunga la storia della predilezione catalaniana per questo gesto ‘teatrale’ a piena orchestra, sia perché conferma indirettamente la relazione tra l’Es. 3 e il secondo tema dell’Allegro della sinfonia. Codice 602

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In ogni caso, dobbiamo concedere che tra le pagine della Sinfonia a piena orchestra Catalani impara a padroneggiare, oltre al lavoro motivico in generale, un altro familiare caposaldo della concezione ottocentesca del ‘sinfonico’ – almeno dalla ricezione critico-musicale del Coriolan beethoveniano in poi: l’“ipostatizzazione dell’opposizione tematica come principio fondante della forma-sonata”, ossia “il dualismo tra due temi principali”, o più precisamente l’“opposizione fra temi che sembrano incarnare opposti ‘principii’ non solo musicali, ma soprattutto psicologici e morali”21. Di più: da E. T. A. Hoffmann in avanti, l’idea che il motore della scrittura sinfonica risieda in un siffatto conflitto tra motivi contrastanti ha rappresentato storicamente il punto d’incontro/saldatura tra forma-sonata e dramma. Ed è appunto a simili preoccupazioni ‘drammatiche’ che va ricondotta la tendenza ottocentesca alla “risoluzione differita [delayed resolution]”22, che il diciottenne Catalani adotta a sua volta nella sinfonia. In sostanza, si tratta di evitare che il ‘dramma di note’ giunga all’epilogo troppo in anticipo rispetto al sipario, lasciando gli spettatori a contemplare per interi minuti un ‘palcoscenico musicale’ desolantemente statico. Così, la ripresa della sinfonia inizia con un piccolo coup de théâtre, segnalato da una triade secca e ammiccante di archi, fagotti e ottoni: invece che nel Fa maggiore annunciato dalla sua dominante, il primo tema si installa nella tonalità della sopradominante della tonica minore (Re@ maggiore), piegandosi regolarmente alla tonica solo alla fine del ponte e all’inizio del secondo tema, per poi rimettersi tonalmente ‘in sviluppo’ fino alla coda, dove ha luogo la definitiva risoluzione. La padronanza del conflitto tematico e simili capacità ‘drammatiche’ saranno evidentemente di grande utilità quando Catalani metterà mano, appena tre anni più tardi, al Prologo sinfonico de La falce (1875), “egloga orientale” su libretto di Arrigo Boito. Prologo che è anzi la quintessenza del ‘sinfonico’ nel senso appena richiamato, in quanto vera e propria battaglia (La battaglia di Bedr): una “pugna” musicale tra l’“Inno di Maometto” e l’“Inno guerriero degli Idolatri”, prima l’uno “a fronte” dell’altro, e poi “confusi”, con il coup de théâtre dell’apparente sconfitta dell’inno maomettano ribaltata in vittoria sfolgorante23. Vittoria che, oltretutto, esce dalla cornice del prologo ed entra a pieno titolo nel dramma susseguente: verrà infatti ribadita – con logica sinfonica – nel Finale dell’egloga, attraverso la ripresa intensificata dell’inno nella Marcia e coro della carovana che chiude la partitura. 21 Fabrizio Della Seta, Beethoven: Sinfonia Eroica. Una guida, Roma, Carocci, 2004, pp. 70 e n, 75. 22 Grey, Wagner, the Overture, cit., p. 17.

23 Le citazioni provengono dal libretto della Falce, che leggiamo in apertura della riedizione Ricordi dello spartito per canto e pianoforte.

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Se la Sinfonia a piena orchestra non riesce a scrollarsi di dosso l’etichetta di lavoro di scuola, pure resta a testimonianza della solida formazione offerta dal “Boccherini” ai suoi allievi. Meno di due anni più tardi, a Milano, Catalani è ormai in grado di sfornare un lavoro maturo, con la “sinfonia romantica” Il mattino, e di proporzioni accresciute (15 minuti circa di musica). La stessa compagine orchestrale è rafforzata rispetto ai legni e agli ottoni ‘a due’ della sinfonia lucchese24: a Milano Catalani può aggiungere ai flauti l’ottavino, il clarinetto basso ai clarinetti, una seconda coppia di corni e un terzo trombone agli ottoni, e l’arpa. Con Il mattino, soprattutto, Catalani compie un ulteriore passo in direzione della scena: nel 1872 Boito aveva appunto lodato il genere della “sinfonia descrittiva” quale “seducentissima forma intermedia fra la musica dipendente e la musica indipendente, fra il melodramma e la sinfonia classica”, qualificandola come “l’opera musica romantica per eccellenza”25. Intendiamoci, né il titolo né l’aggettivo ‘romantica’ (che sembra memore di Boito) risultano assai chiarificatori. Col senno di poi, quest’ultimo ha anzi il sapore di un’autorete, visto che il ‘romanticismo’ è proprio uno di quei concetti ambigui che la critica userà, almeno a partire da Edmea, per inchiodare il teatro più o meno sognante e fantastico di Catalani alla malattia che lo avrebbe ucciso, la tubercolosi (“musica anemica di un maestro anemico”, come ricordava amareggiato già Depanis all’indomani della scomparsa del compositore)26. Nondimeno, entrambi i termini caricano innegabilmente la parola ‘sinfonia’ di una (sia pur timida) intenzione rappresentativa, orientando in tal senso il nostro ascolto: tradiscono insomma la ricerca di quella “teatralità immanente”27 che farà da apripista, per Catalani prima che per Puccini, verso le regioni della “musica dipendente” di Boito, il melodramma. Una teatralità sostenuta da un lavoro tematico ormai scaltrito: l’impaccio della Sinfonia a piena orchestra è scomparso, apprezziamo la facilità e la fluidità con le quali – per dirla con Mazzucato – i ritmi generano ritmi, le modulazioni altre modulazioni, i pensieri musicali altri pensieri. Già eloquente in tal senso è l’avvio dell’Andante introduttivo, riconducibile a quei procedimenti di creatio ex nihilo che godranno di tanta fortuna presso i compositori del secondo Ottocento: violoncelli e viole (sostenuti nei 24 Per la precisione, questo è l’organico della Sinfonia a piena orchestra: 2 flauti (il II anche ottavino), 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2 trombe, 2 corni, 2 tromboni, oficleide, timpani e archi. 25 Vedi Pessina, Il repertorio sinfonico italiano, cit., p. 20.

26 Giuseppe Depanis, Alfredo Catalani. Appunti − ricordi, Torino, L. Roux e C., 1893, p. 19. Ho tentato di analizzare questo ‘melodramma della consunzione’ attraverso la stampa lucchese nel capitolo primo del mio Puccini e Catalani. Il principe reale, il pertichino e l’«eredità del Wagner», Firenze, Olschki, 2013. 27 Pessina, Il repertorio sinfonico italiano, cit., p. 21. Codice 602

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Riccardo Pecci

punti di approdo dai bicordi di clarinetti e flauti) impilano una serie di quinte vuote Si-Fa#, circoscrivendo in pianissimo lo spazio del dramma a venire (Es. 8)28.

Es. 8: Alfredo Catalani, Il mattino: Andante

È uno spazio tonale ancora modalmente incerto: Si maggiore o minore? Solo nelle battute successive la musica decide per la terza maggiore (Re#), suonata dai violini primi con sordina all’interno di una triade di tonica movimentata dalle batterie in semicrome e dal Do# dei violini secondi (Es. 9). Su questo sommesso brulichio di fondo il clarinetto comincia a dipanare la sua melodia, poi equamente condivisa con un oboe. È un canto ‘aurorale’, che prende le sue mosse dall’Es. 8 e lo dilata nelle battute dell’Es. 9 a uno spazio ancora difettivo, pentatonico (Si-Do#-Re#-Fa#Sol#)29, che solo in seguito conquisterà un pieno Si maggiore. Lo stesso spazio pentatonico nel quale si muove l’accompagnamento, che sembra quasi imbeccato dal canto strumentale (a cominciare dal Sol# dell’Es. 9, che i violini intonano dopo averlo udito dal clarinetto).

28 Il mattino è stato recentemente incluso in un meritorio cd inciso da Francesco La Vecchia alla testa dell’Orchestra Sinfonica di Roma, consacrato alla produzione orchestrale di Catalani (Naxos 8.573072, © 2014). Purtroppo il confronto dell’esecuzione con l’autografo (unica fonte a noi nota: cfr. Zurletti, Catalani, cit., p. 235) evidenzia alcune problematiche discrepanze, compreso uno sfortunato incidente testuale (il salto di due pagine di partitura). Mancano ad esempio, subito in apertura, i due bicordi dei legni dell’Es. 8, probabilmente a causa dell’errata interpretazione di alcune cancellature di Catalani. Proprio a fronte di un crescente interesse per questo repertorio (ben testimoniato dalla discografia), un vero salto di qualità nella ricezione catalaniana sarebbe rappresentato innanzitutto da edizioni criticamente condotte. 29 Pentatonica è, nel Ring di Wagner, la musica delle creature della natura, dal canto delle figlie del Reno al motivo dell’uccello del bosco del Siegfried. Nel secolo di Wagner il pentatonismo è già considerato caratteristico dei Naturvölker, i ‘popoli primitivi’: cfr. Jean-Jacques Nattiez, Wagner androgino: saggio sull’interpretazione, Torino, Einaudi, 1997, pp. 64-65.

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“Esercitarsi alla sinfonia”: Catalani verso la scena

Es. 9: Alfredo Catalani, Il mattino: Andante

L’effetto, per le nostre orecchie, è quello di una sorta di Waldweben, un ‘mormorio della foresta’ alla Siegfried; a questa altezza cronologica, però, bisognerà ipotizzare altre influenze, a cominciare da Le désert (1844) di Félicien David, ode-symphonie in tre parti per voci soliste, coro e strophes déclamees (firmate da Auguste Colin) che lascerà un’impronta tangibile sulla Falce. Troviamo infatti diversi degli ingredienti chiave dell’Andante catalaniano proprio nella sezione intitolata Le lever du soleil, accolta con particolare entusiasmo a Milano già nel 1845 e immediatamente riconosciuta come una delle fonti del Prologo dell’Attila verdiano30. Lo spostamento da Fa#4 a Sol#4 nel disegno di accompagnamento dei violini alla fine dell’Es. 9 (che trasforma la triade sul I grado di Si maggiore in un accordo di terza e sesta) è il primo ad animare il fondale di questo Andante, e resterà il movimento decisivo per tutto il resto dell’introduzione: una dopo l’altra, le triadi scivoleranno l’una nell’altra grazie ad analoghi slittamenti delle voci, in un contesto rigorosamente diatonico e consonante. È una sintassi armonica tutt’altro che scontata, nell’Italia musicale dei primi anni Settanta, che Catalani sottoporrà oltretutto a trattamento tematico nel corso della sinfonia, e che governerà largamente

30 Tra i contributi più recenti sul Prologo dell’Attila vedi Helen M. Greenwald, Son et lumière: Verdi, Attila, and the Sunrise over the Lagoon, «Cambridge Opera Journal», 21, 3, 2010, pp. 267-77. Codice 602

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anche il percorso tonale della partitura31. L’Andante (bipartito) si chiude in diminuendo su una variante – modalmente ‘riempita’ – delle quinte vuote Si-Fa# di apertura, che nasce da una decelerazione delle batterie dei violini (Es. 10).

Es. 10: Alfredo Catalani, Il mattino: Andante

Rispetto alla Sinfonia a piena orchestra, l’Allegro milanese non è uno sviluppo lineare dell’embrione introduttivo: con il suo Andante stabilisce piuttosto una relazione complessa, tormentata e conflittuale – in una parola, drammatica. Le prime battute segnano appunto un puntuale rovesciamento delle misure conclusive dell’Andante: la placida oscillazione di tono dei violini secondi (Re#4-Do#4 nell’Es. 9) si rinserra in concitati semitoni in tremolo, mentre un arpeggio in crescendo dell’orchestra riscrive su più ottave lo spazio Si-Fa# come uno spazio minore. Pronto ad accogliere il primo tema, lanciato dai violini e dei flauti su tremolo degli altri archi acuti (Es. 11).

31 L’esame accurato di questo livello del Mattino – uno degli aspetti più avanzati della scrittura di Catalani – richiederebbe un’ampia discussione ed esemplificazione, che eccede i limiti di questo saggio. È però interessante notare che quelli introdotti nell’Andante sono spezzoni di processi armonici potenzialmente circolari: Catalani trae qui infatti un certo partito da quei “cicli dalla massima gradualità” (maximally smooth cycles) investigati nella musica di Liszt, Wagner ecc. da studiosi come Richard Cohn sulla scia di David Lewin, Generalized Musical Intervals and Transformations, New Haven, Yale University Press, 1987. Si veda la sintesi della cosiddetta neo-Riemannian theory offerta dai saggi pubblicati in «Journal of Music Theory», xlii/2, 1998. Ho tentato questo approccio a Puccini nel terzo capitolo della mia tesi di dottorato in Musicologia e scienze filologiche: “La donna del futuro”: Manon, Wally e l’«eredità del Wagner» alla fine della transizione dell’opera italiana postunitaria, Università degli studi di Pavia, Dipartimento di Scienze musicologiche e paleografico-filologiche, a.a. 2006-’07.

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“Esercitarsi alla sinfonia”: Catalani verso la scena

Es. 11: Alfredo Catalani, Il mattino: Allegro

Avviato non casualmente dall’intervallo dominante-tonica (Fa#4-Si4), il tema incorpora l’intero profilo Fa#4-Si4-Fa#5-Si5 dell’Es. 10 (e dunque l’intelaiatura dell’Es. 8), qui diviso tra i legni (flauti e clarinetti: Fa#2-Si2Fa#3|Fa#3-Si5) e ornato da un trillo in battere: e proprio la cooperazione strumentale evidenziata dall’Es. 11 rende la texture di Catalani particolarmente intrigante. L’aspetto più caratteristico è però che il primo tema non riesce a trattenersi a lungo nel Si minore d’impianto, spostandosi subito dopo l’Es. 11 (attraverso uno scivolamento armonico I6-III desunto dal linguaggio triadico dell’Andante) alla tonalità relativa, Re maggiore. Dopo aver riprodotto su piccola scala l’indecisione tra Si minore e Re maggiore in una sorta di piccolo ponte, la musica conferma quest’ultima con un’idea rasserenata (Es. 12), che marca l’inizio della terza sezione (C) della partitura32 ma suona al tempo stesso come gesto conclusivo. E di fatto ‘guarda indietro’, perché fonde e volge in modo maggiore principio e fine 32 Le lettere A-M corrono in matita sul margine superiore dell’autografo e sono ripassate (o raddoppiate sul margine inferiore) in matita rossa. Codice 602

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dell’Es. 11 (così come, a modo di cornice, lo stesso arpeggio su tremolo che aveva inaugurato l’Allegro).

Es. 12: Alfredo Catalani, Il mattino: Allegro

Ci ritroviamo ai confini del secondo gruppo tematico dell’Allegro, che – nel dialogo con le convenzioni sonatistiche – si insedia regolarmente nella tonalità della relativa maggiore della tonica d’impianto, affermata dall’Es. 12. Su pedale grave di fagotto e oboe, acuto dei violini primi, i clarinetti enunciano in decime un motivetto di ostentata semplicità, insaporito dall’inflessione del Si$ in Si@ nell’immediata ripetizione (Es. 13). La rarefazione della scrittura, il gioco (schubertiano?) maggiore-minore sono già tipici della maturità di Catalani, e fanno pensare ai paesaggi sonori di Wally (1892).

Es. 13: Alfredo Catalani, Il mattino: Allegro

Né va fraintesa la semplicità dell’idea: con tutte le ovvie cautele e i distinguo del caso, Il mattino partecipa a quella ricerca espressiva ottocentesca che produrrà, nel decennio successivo, l’esito altissimo e inconfondibile della scrittura mahleriana – il progetto di un Naturlaut, di un sinfonismo che cerca di imbrigliare il ‘suono di natura’ e lo screzia di melodie popolaresche da Volkslied e di movenze stilizzate di danza, nelle quali beninteso la freschezza e l’ingenuità della superficie sono quasi sempre ‘a doppio fondo’ (il Si$ subito contraddetto dal Si@!). Non a caso, sia pure in modo discreto, il lavoro motivico continua. Anacrusi, ritmo e profilo globale sembrano difatti voler

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“Esercitarsi alla sinfonia”: Catalani verso la scena

riallacciare i clarinetti dell’Es. 13 alle battute conclusive dell’Es. 12. E così fa il resto del gruppo tematico, intento a riformulare in modo sempre più estroverso l’Es. 13 e chiuso dal tutti orchestrale – quasi a togliere ogni equivoco – con la stessa cadenza con trillo dell’Es. 12. Qui ci soccorre la buona memoria di Gatti, che riconosce in una di queste formulazioni la matrice di una pagina dell’Edmea (1886)33, e precisamente l’epilogo della Scena del delirio del secondo atto, un Tempo di marcia corale che annuncia la partenza del gruppo di giullari capitanato da Fritz verso il “baronal castello” sulle rive dell’Elba, in festa per la nascita dell’erede (“Allegri, partiamo”). La marcia nega nel modo più plateale il ‘mattino’ al centro della sinfonia del 1874, giacché si svolge proprio mentre “il giorno già imbruna”. Dato curioso, ma irrilevante: ciò che conta, è che il riuso di questa musica da parte di Catalani nell’ambientazione feudale dell’Edmea (oltre a illuminare forse l’aggettivo ‘romantica’) ci conferma che con il secondo gruppo tematico dell’Allegro entra in scena l’elemento umano. Dalla musica della natura (Andante, primo tema) siamo passati alla musica degli uomini, dei loro canti e delle loro danze. La cadenza in Re maggiore si salda senza soluzione di continuità con lo sviluppo (sezione D), messo in moto dalla pulsazione nei corni sul ritmo dell’anacrusi dell’Es. 8, e dalla sua intelaiatura per quarte e quinte negli archi, che già evocano il primo tema (poi chiaramente richiamato, oltre che dai tremoli, dalla comparsa del trillo in battere dell’Es. 11). Di fatto, nello sviluppo le ‘lancette’ dell’orologio della forma torneranno a percorrere ciclicamente – e creativamente – l’essenziale di quanto abbiamo ascoltato fin qui. Con tutte le manipolazioni, omissioni e riorganizzazioni di uno sviluppo, s’intende, e in un contesto ovviamente molto mutato: a cominciare dallo slittamento della terza della triade (Fa# → Fa$), che ripropone in chiave cromatica la sintassi armonica dell’Andante (con risultati particolarmente incisivi nelle battute che seguono) e innesca la modulazione. Lo sviluppo non sfocia però in una ricapitolazione, bensì in una di quelle tipiche melodie spiegate dei violini in ottave sull’accompagnamento dell’arpa che sono mimesi di un canto (si pensi ai passaggi analoghi del Preludio sinfonico di Puccini). Saldamente ancorata a Re maggiore, la melodia incarna la piena ‘umanizzazione’ della musica del Mattino: nuova nella sostanza musicale, segnata languidamente da appoggiature tritonali e su settima diminuita, potrebbe fregiarsi dell’indicazione ben sensibile che marcava le effusioni liriche della sinfonia lucchese. La sua novità, beninteso, va comunque interpretata all’interno di quella filosofia del lavoro tematico sposata da Catalani con tanta convinzione: l’incipit della melodia è infatti rimuginato dagli archi lungo tutto il pedale di dominante di 18 battute che la prepara, mentre i legni espongono una 33 Gatti, Catalani, cit., p. 37. Codice 602

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variante dell’Es. 13 (sezione E). Siamo a metà della composizione e, come nella Sinfonia a piena orchestra, a questo punto incontriamo la cesura più forte della forma dell’Allegro, con il ritorno del primo tema nella sua configurazione originaria (qui sottolineato dall’indicazione I Tempo). Qui come allora, però, Catalani gioca con le nostre aspettative un gioco più complesso – diventato, dopo un paio di anni, ancora più complesso. Intanto, il tema ricompare non in Si, bensì in Re minore – tonalità in cui piombiamo attraverso quello stesso scivolamento Fa# → Fa$ che aveva annunciato le modulazioni dello sviluppo. Dopo il ponte ‘indeciso’ tra tonica e relativa (qui Re minore e Fa maggiore), l’orchestra si getta proprio in una versione intensificata, drammatizzata dello sviluppo (con l’innesto di uno struggente passaggio quasi schumanniano, imperniato su una variante inquieta dell’Es. 13). Per effetto di questa distorsione, il secondo gruppo tematico arriva molto più avanti di quanto ci attenderemmo, e per di più in Mi maggiore. Che però poi inclina alla sua dominante, Si maggiore: la tonalità ‘giusta’ per la ricapitolazione del secondo gruppo. Per superarla e assestarsi in Fa# maggiore, mentre tornano le batterie degli archi dell’introduzione (Es. 9), e l’incipit del ‘canto’ dei violini in ottave. Mosse di cui capiamo presto la funzione, quando il Fa# maggiore funziona da dominante e si scarica su una versione in fortissimo del canto, ora trasferito agli ottoni e avvolto dalle batterie degli archi, e tonalmente risolto nella tonica maggiore della sinfonia. Non resta spazio che per una coda: calando sempre, nelle prime intenzioni di Catalani, in un dissolvimento graduale della storia del materiale musicale che ci fa regredire suggestivamente verso quel ‘nulla’ che aveva originato l’Andante (risentiamo l’Es. 8 incedere solenne nei bassi, con un accenno alla parte di clarinetto dell’Es. 9). Bazzini approvò (lo capiamo dal “visto” che reca la sua firma, apposto in verticale lungo l’ultima pagina della sinfonia). Forse però fece delle obiezioni, perché dalla pagina successiva vediamo Catalani confezionare un finale alternativo, identico nella strategia di massima ma tutto giocato sui ‘muscoli’ dell’orchestra, con epilogo in fortissimo. Vistato a sua volta da Bazzini, non regge il confronto con il precedente. Dobbiamo insomma rispolverare la Sonata Theory, e riconoscere che anche qui la seconda parte dell’Allegro rilegge il pattern tematico della prima, rimpolpandolo ed elevando il livello di tensione della scrittura34. 34 Potrebbe sembrare una contraddizione: se la cesura divide la sinfonia in due metà (di 7 minuti abbondanti ciascuna), come può la seconda essere una rilettura rimpolpata (e cioè allungata) della prima? Non si dimentichi però che la prima metà include anche l’introduzione, di dimensioni decisamente superiori a quelle della sinfonia lucchese (quasi 3 minuti di musica): e dunque, la prima parte dell’Allegro copre meno della metà della sinfonia, e l’estensione che riceve dopo la cesura corrisponde grosso modo alla lunghezza dell’introduzione.

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“Esercitarsi alla sinfonia”: Catalani verso la scena

La prima parte dell’Allegro conduce dalla tonica Si minore al consolidamento della relativa Re maggiore, dal primo tema al canto dei violini in ottave sull’arpa; la seconda parte differisce la canonica risoluzione tonale di primo e secondo gruppo tematico e riparte da lontano, dalla parallela Re minore; identificando proprio nel canto dei violini il materiale ‘strutturalmente dissonante’ da risolvere (con enfasi) nella tonica maggiore, e avvolgendolo nei materiali dell’Andante introduttivo (Tav. 1)35. Andante Allegro Si magg. 1a parte: Si min. (1o tema) g [...] g Re magg. (canto dei violini) 2a parte: Re min. (1o tema) g [...] g Si magg. (canto dei violini + Andante) Tav. 1: piano tonale del Mattino

Potremmo speculare a lungo sui significati programmatici di questo piano tematico-tonale (fusione uomo-natura?). E sul rapporto che Il mattino intrattiene con La notte, la sinfonia gemella che risulta ad oggi non accessibile e che rappresenta un tassello dolorosamente mancante alla nostra conoscenza della produzione orchestrale di Catalani36. Quel che è certo è che il linguaggio ricco, flessibile e differenziato di questo ‘teatro di note’, la tavolozza orchestrale, le tecniche armoniche e motiviche del Mattino dovranno attendere diversi lustri, prima che sia consentito loro di esprimere tutte le potenzialità drammatiche. Dopo i promettenti esordi della Falce, rifugiatosi negli anni Ottanta tra le belle pagine del poema sinfonico Ero e Leandro (1884) e in poche altre, sarà infatti solo incontrando l’Alto Tirolo della Wally dell’avvoltoio di Wilhelmine von Hillern che il sinfonismo catalaniano salirà davvero sul palcoscenico. Per la prima, e anche l’ultima volta37.

35 L’idea che nella forma-sonata il materiale “esposto al di fuori dell’area di tonica” rappresenti una “dissonanza su grande scala” che va risolta è un familiare concetto delle teorie della forma-sonata note come sonata principle (cfr. Charles Rosen, Le forme sonata, Torino, EDT, 2011, pp. 243 ss.). La consueta flessibilità del concetto rispetto al ‘dove’ e al ‘come’ di questa risoluzione lo rende compatibile con idee quali quella della ‘risoluzione differita’, che abbiamo adoperato per entrambe le sinfonie: nozione che invece è stata sottoposta a severa critica dalla Sonata Theory (cfr. in particolare James Hepokoski, Beyond the Sonata Principle, «Journal of the American Musicological Society», lv/1, 2002, pp. 91154). 36 Secondo l’inverificabile ma incoraggiante giudizio di Gatti, “La notte si appaia nella struttura al Mattino; soltanto la fattura è più complessa e accurata” (Gatti, Catalani, cit., p. 37). Il manoscritto risulta di proprietà Castellini-Picconi, verosimilmente discendenti di Luisa Picconi, cugina di Catalani (cfr. Petronio, Alfredo Catalani, cit., p. 438). 37 Cfr. Jay Reed Nicolaisen, Italian opera in transition 1871-1893, Ann Arbor, Press, 1980 e Pecci, Puccini e Catalani, cit. Codice 602

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Research



“Modo polonico” e sensibilità neoclassica. Alexandre Tansman: ritratto con clausola sulla musica per chitarra

di Matteo Giuggioli*

Alexandre Tansman è un compositore oggi poco conosciuto, forse sconosciuto ai più. La sua figura e la sua produzione musicale meritano tuttavia di essere approfondite per diverse ragioni. La qualità delle sue composizioni sarebbe un motivo già più che sufficiente per intraprendere un percorso interpretativo su un corpus amplissimo, vario e complessivamente di alto valore artistico1. L’auspicio è che anche gli studi musicologici possano contribuire alla rivalorizzazione dell’opera di Tansman, favorendone, almeno in parte, il ritorno in repertorio. Non meno interessante della produzione musicale, in questo caso per i risvolti storiografici sia nell’ambito della storia della musica sia in quello più ampio della storia del XX secolo, è il vissuto di Tansman2, che fu un musicista apprezzato e riconosciuto in vita, ma che si trovò ad essere rapidamente dimenticato dopo la morte. Nei primi anni della sua carriera raggiunse la fama3, mentre nel secondo dopoguerra, * Matteo Giuggioli si è laureato in lettere moderne nell’Università di Pisa e ha conseguito il dottorato di ricerca in musicologia e scienze filologiche nell’Università di Pavia-Cremona con una tesi dedicata agli aspetti formali, stilistici e semantici dei Quintetti per archi di Luigi Boccherini. È stato borsista post-dottorato presso il Centre d’Études Supérieures de la Renaissance di Tours. Attualmente è assistente nell’Istituto di Musicologia dell’Università di Zurigo e collabora con il Centro Studi Boccherini di Lucca. Di recente pubblicazione è l’edizione critica a sua cura delle Sei sonate a quattro di Gioachino Rossini (Edizione critica delle opere di Gioachino Rossini, VI/4, Pesaro, 2014). 1 Gérald Hugon, Alexandre Tansman: catalogue de l’oeuvre, Paris, Max Eschig, 1995. Il catalogo tansmaniano curato da Hugon è consultabile anche online sul sito http://www.alexandretansman.com/ (ultimo accesso 13/10/2015). 2 Sul quale si vedano innanzitutto le memorie del compositore: Alexandre Tansman, Regards en arrière: itinéraire d’un musicien cosmopolite au XXe siècle, texte édité par Cédric SegondGenovesi avec la collaboration de Mireille Tansman-Zanuttini et Marianne Tansman Martinozzi, Paris, Aedam Musicae, 2013. 3 Testimonianza dell’alta considerazione di cui Tansman godette nella fase iniziale della sua carrirera è l’uscita, già nei primi anni Trenta, di una monografia dedicata alla sua attività musicale: Irving Schwerke, Alexandre Tansman, compositeur polonais, Paris, Max Eschig, 1931. Codice 602

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proprio quando la sua creatività fu più fertile, assistette al progressivo affievolirsi dell’attenzione nei propri confronti, fino all’oblio quasi completo dopo la sua scomparsa. Tra le cause di questo processo, oltre e forse in misura più incisiva che il mutamento degli orizzonti del gusto e di pensiero del pubblico nella seconda metà del Novecento, ci fu il rifiuto da parte di Tansman di aderire alle avanguardie musicali postbelliche, non riconoscendosi nei loro ideali, prima che per la difficoltà a recepire i loro linguaggi. Tansman riuscì comunque a tenersi in dialogo per tutta la vita con interpreti di primo piano, che gli assicurarono almeno la permanenza, seppure ridotta rispetto alla prima metà del secolo, sulla scena concertistica internazionale. Le istituzioni musicali continuarono inoltre a tributargli stima e onori, riconoscendo l’importanza storica del suo operato. Una creatività musicale inesauribile e solidissime basi artigianali nel mestiere di compositore non si disgiunsero in Tansman da un alto profilo intellettuale e da capacità spiccate nello stringere relazioni, permettendogli di essere un testimone consapevole e illuminato del proprio tempo. Assidua fu anche la sua attività di commentatore di cose musicali. La somma di questi aspetti rende Tansman e la sua lunga carriera punti d’osservazione utilissimi, fuori dal canone ma subito adiacenti ad esso, per considerare in una prospettiva originale gli accadimenti nel Novecento musicale europeo. Questioni aperte come l’identità sfaccettata del compositore, la sua formazione e le sue relazioni con i colleghi e con gli altri operatori del mondo musicale, la sua posizione e il suo ruolo nella vita musicale di Parigi tra le due guerre, le sue fonti d’ispirazione, i lineamenti e le conquiste del suo stile rimandano a contesti mobili in continuo fermento. Studiare Tansman significa farsi domande su alcuni aspetti salienti della storia della musica novecentesca. Ci troveremo a interrogare la complessità dell’ambiente musicale parigino cercando di capire che cosa fu (e se veramente ci fu) l’École de Paris. Avremo l’occasione di discutere il significato e la pertinenza stessa di categorie come “neoclassicismo” e spirito “nazionale” nella musica. Potremo infine entrare, attraverso l’occhio privilegiato e competente dell’amico e collega, nel laboratorio di grandi autori del Novecento, come Stravinskij. Nei paragrafi che seguono vorrei offrire un ritratto conciso di Tansman che tenga conto di questi aspetti, attingendo dove possibile alle dichiarazioni del compositore reperibili nelle sue numerose pubblicazioni e nelle sue interviste. C’è però almeno un ambito musicale in cui Tansman è entrato a fare parte del canone. Si tratta della musica per chitarra, che il compositore iniziò a scrivere sin dagli anni precedenti la Seconda guerra mondiale su sollecitazione di Andrés Segovia. I due rimasero in contatto fino quasi al termine delle loro lunghe vite e la loro collabora44


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zione fu estremamente fruttuosa. Questa esperienza, curiosamente, è spesso considerata “a parte” negli studi su Tansman. In conclusione dell’articolo volgerò brevemente lo sguardo sulla musica per chitarra di Tansman, inquadrandola nel contesto dell’ampia e diversificata produzione del compositore. Ritengo utile tale orientamento interpretativo sia per comprendere più a fondo le composizioni chitarristiche di Tansman sia per completare la conoscenza del suo universo espressivo, afferrandone la straordinaria multiformità.

La vita e le idee sull’arte Nella vita di Tansman ci sono tre cesure che i biografi concordano nel considerare significative più di altre4. La prima è il trasferimento del giovane compositore nel 1919 dalla Polonia a Parigi. Tansman, nato a Łódź l’11 giugno 1897, apparteneva a un’agiata famiglia ebreo-polacca dalle radicate abitudini musicali, che favorì da subito l’esprimersi del tuo talento. L’ambiente familiare lo sollecitò inoltre a coltivare i propri interessi culturali e gli permise di apprendere diverse lingue. La curiosità per varie forme della cultura e la poliglossia caratterizzeranno la personalità di Tansman maturo, facilitandolo enormemente nelle relazioni personali a livello internazionale. Da Łódź Tansman, adolescente, si trasferì a Varsavia, dove completò gli studi musicali e quelli di diritto e filosofia. La vittoria in simultanea dei tre premi principali alla prima edizione del concorso nazionale polacco di composizione (aveva partecipato con il suo nome e con due pseudonimi) lo incoraggiò a trasferirsi a Parigi. Il viaggio fu di sola andata: Tansman tornò in Polonia sia prima che dopo la Seconda guerra mondiale, ma la sua città di riferimento, da quel 1919, rimase Parigi. Nella capitale francese visse inizialmente in ristrettezze economiche facendo vari lavori d’occasione. Ben presto però fu introdotto negli ambienti musicali e iniziò a mantenersi con la sola professione musicale5. Il suo contatto più influente fu Maurice Ravel. Tansman ebbe modo di conoscerlo e di farsi apprezzare come compositore da lui poco dopo 4 Oltre alle già menzionate memorie, sulla biografia di Tansman si vedano i seguenti contributi musicologici: Janusz Cegiełła, Dziecko szcześcia, Aleksander Tansman i jego czasy, Warszawa, Państwowy Instytut Wydawniczy, 1986 (2 volumi); Gérald Hugon, Présentation du compositeur et de son œuvre, in Hommage au compositeur Alexandre Tansman (1897-1986), textes réunis par Pierre Guillot, Paris, Presse de l’Université de Paris-Sorbonne, 2000, pp. 15-27; Andrea Brill, Jüdische Identität im 20. Jahrhundert: Die Komponisten Darius Milhaud und Alexandre Tansman in biographischen Zeugnissen und ausgewählten Werken, Neuried, Ars et Unitas, 2003; Gérald Hugon, Alexandre Tansman: origines et trajectoire d’un accomplissement artistique, in Alexandre Tansman, Une voie lyrique dans un siècle bouleversé, textes réunis par Mireille Tansman-Zanuttini, Paris, L’Harmattan, pp. 7-50. 5 Su Tansman a Parigi si veda anche Danièle Pistone, Alexandre Tansman et le milieu parisien, in Hommage au compositeur Alexandre Tansman, cit., pp. 225-230. Codice 602

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essere arrivato a Parigi. Con Ravel, che rappresentò per lui un punto di riferimento umano e artistico, egli trovò subito una grande affinità. Ravel ricambiò l’amicizia del giovane talentuoso, guidandolo negli ambienti musicali della città e referenziandolo presso vari artisti in vista, tra i quali Vladimir Golschmann, animatore con la propria orchestra dei Concerts Golschmann, celebri per l’esecuzione di musica d’avanguardia. Con Golschmann Tansman avrebbe collaborato a più riprese fino agli anni Settanta. Tra le prime esecuzioni di brani di Tansman dirette da Golschmann merita di essere menzionata quella del 5 maggio 1924 a Bruxelles, in cui fu presentata la Danse de la sorcière, brano che ottenne un grandissimo successo. Come si capisce dal titolo descrittivo, ancora saldo nella Danse è il legame con il tardo Ottocento dei brani a programma e dei poemi sinfonici. Tansman attenuerà presto questo vincolo, preferendo rivolgersi alle forme musicali senza connotazioni descrittive secondo gli indirizzi più attuali della corrente neoclassica. Per l’attrazione verso la danza, l’impetuosità ritmica, l’uso ardito dell’armonia la Danse può essere accostata a opere dei più celebri compositori contemporanei provenienti da est, come i balletti russi di Stravinskij e ancora di più i pezzi “barbari” di Bartók. Questi tratti stilistici, che in quel momento storico e in quell’ambiente, la Parigi cuore dell’avanguardia musicale europea, non potevano non essere immediatamente ricondotti alla componente slava dell’identità di Tansman, affioreranno con una certa costanza in tutta la sua produzione a venire. I ritmi diverranno però meno focosi e le armonie più calibrate, assecondando la tendenza dell’ispirazione del compositore verso l’introspezione. Negli anni Venti e Trenta lo stile musicale di Tansman raggiunse la completa definizione. L’impianto è neoclassico, come mostrano alcuni tra i brani più riusciti, quali la Seconda Sinfonia e il Secondo Concerto per pianoforte e orchestra, che Tansman eseguì al pianoforte in prima esecuzione assoluta a Boston nella sua prima, fortunatissima, tournée americana del 1927-1928 sotto la direzione di Serge Koussvitzky, altra figura centrale per la diffusione della sua musica6. Quella neoclassica fu una corrente dai molti flussi e dai molteplici indirizzi stilistici. Ricondurla a un solo quadro ideale e normativo è impossibile. Sicuro è il suo evento inaugurale, che certamente si ripercosse in tempo reale anche sulla sensibilità del giovane Tansman: la prima esecuzione, il 18 ottobre 1923 a Parigi, dell’Ottetto per fiati di Stravinskij. Questo brano sbigottì la maggior parte degli spettatori per la svolta stilistica inattesa, 6 Sullo stile strumentale tansmaniano si veda Anna Granat, Les changements de style d’Alexandre Tansman dans sa musique instrumentale, in Hommage au compositeur Alexandre Tansman, cit., pp. 69-85.

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e in un primo momento per molti incomprensibile, dell’autore del Sacre du Printemps. Nell’ambito del neoclassicismo musicale primo novecentesco Tansman tracciò una via del tutto personale. Anche grazie alla propria attività pubblicistica per la Revue musicale egli conobbe personalmente i principali compositori dell’epoca, tra i quali i maggiori esponenti della corrente neoclassica, stringendo con molti di loro un legame di amicizia. Entrò in quegli anni in confidenza anche con Stravinskij, ma il loro rapporto si rafforzerà più avanti nel tempo. Tansman rifiutò da subito le tendenze più oggettiviste del neoclassicismo. Fortemente influenzato da Ravel egli credeva (e crederà sempre) nel potere evocativo della melodia e non si interessava al recupero della tradizione dei generi strumentali nel senso del puro gioco di forme e della citazione. Al centro della poetica di Tansman c’è la volontà creativa del compositore. Allo stesso tempo però Tansman è un sostenitore dell’autonomia della musica, non ritiene che la composizione musicale necessiti di riferimenti esterni alla costruzione sonora per acquisire significato. Questo vale anche per i suoi brani strumentali con titoli, come la Danse de la soricière e alcuni pezzi orchestrali della maturità, che hanno senso, al di là dei riferimenti descrittivi, innanzitutto in quanto forme musicali. In questo Tansman si discosta dalla concezione romantica della musica, con la quale però mantiene un legame nella centralità conferita all’io estetico dell’autore. La soggettività del compositore però non deve manifestarsi in modo incontrollato, ritenendo di potersi servire della musica come di una materia in sé inerte che assumerà significato solo facendosi strumento d’espressione di suggestioni personali o di altri contenuti esterni ad essa. Il compositore deve scegliere, trattare e combinare i materiali sonori, in questo agendo soggettivamente, conscio però del fatto che la musica che egli crea avrà senso autonomamente, grazie al proprio equilibrio strutturale e alla propria logica interna. Su questo punto si legga un passaggio dal libro di Tansman su Stravinskij: Il lato espressivo della musica, la sua azione sensibile, diveniva il pretesto per un individualismo sfrenato, esacerbato, confuso ormai con l’individualità creatrice naturale. L’espressione, o piuttosto l’esteriorizzazione di un ego tramite la musica, prendeva a poco a poco, nella reazione percettiva della nostra arte e nella sua genesi creatrice, il posto della facoltà di comporre la musica, cioè d’ordinare, seguendo delle leggi precise, una materia concreta verso uno scopo astratto. A forza di voler esprimere troppo, di cercare di manifestare il proprio individualismo in tutte le sue facce, questa arte rischiava di non potere più esprimere nulla nel proprio campo d’azione. Pretendendo di agire più in Codice 602

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virtù di una corrispondenza immaginosa tra l’effetto del suono e uno stato d’animo o uno stato di cose che per lo svolgimento organizzato dei suoi elementi propri, strettamente definiti e coordinati, ella abbandonava inconsciamente la tradizione di un’arte indipendente7.

Il neoclassicismo di Tansman si fonda su un’idea di continuità con la tradizione, una forza che viene prima della creatività individuale del compositore e che costituisce per quest’ultima uno stimolo e un sostegno imprescindibile: Non si sovverte e non si inventa mai nulla nell’arte, semmai si scoprono nuove potenzialità all’interno di una continuità immutabile quasi organica. La rottura con questa continuità, che è la tradizione, il desiderio di “rivoluzione” e la svalutazione di valori acquisiti tramite la ricerca volontaria di fare a tutti i costi “ciò che non è ancora stato fatto” non è un fenomeno estetico, ma psichico. Io ritengo che l’arte organizzata non sia in nessun modo l’arte eretta a sistema. La prima determina l’apporto dell’individuo umano, reso particolare da una vocazione latente, alla materia disponibile che esso trasforma in opera d’arte attraverso la sua sensibilità e la sua intelligenza. La seconda serve a rendere l’arte uniforme, accademica e, di conseguenza, sterile, poiché ogni accademismo, che sia di scuola o d’avanguardia, sfocia nel cliché, nella routine, ed elimina ogni embrione che possa essere ulteriormente fecondato. La sistematizzazione in senso esclusivo di un linguaggio musicale (che è ben altra cosa dall’unificazione stilistica che ci manca terribilmente al momento attuale) è, a mio avviso, un’attitudine sbagliata, considerata la varietà dei problemi speciali che si pongono, non solo a ciascun compositore ma a ciascuna opera dello stesso compositore. Non esiste una panacea che copra in anticipo tutte le ricerche; ogni mezzo d’espressione che viene scoperto non è che un mezzo nuovo che si aggiunge ai precedenti senza sopprimerli o

7 “Le coté expressif de la musique, son action sensible, devenaient prétexte à un individualisme débridé, exacerbé, confondu désormais avec l’individualité créatrice naturelle. L’expression, ou plutôt l’extériorisation d’un ego par le truchement de la musique, prenait peu à peu, dans la réaction perceptive de notre art et dans sa genèse créatrice la place de la faculté de composer de la musique, c’est-à-dire d’ordonner, suivant des lois précises, une matière concrète vers un but abstrait. À force de vouloir exprimer trop de choses, de chercher à manifester son individualisme sous toutes ses faces, cet art risquait de ne pouvoir plus rien exprimer dans son propre champ d’action. En prétendant agir plus en vertu d’une correspondance imaginative entre l’effet du son et un état d’âme ou un état de choses que par le déroulement organisé de ses éléments propres, strictement définis et coordonnés, elle abandonnait inconsciemment la tradition d’un art indépendant”, in Alexandre Tansman, Igor Stravinsky, Paris, Amiot-Dumont, 1948, estratti del libro in Id., Une voie lyrique dans un siècle bouleversé, cit., pp. 145-210. Cito da quest’ultimo volume, p. 155. La traduzione dal francese di questo come degli altri passaggi dagli scritti di Tansman citati di seguito è mia.

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sostituirli in quanto “superati”8.

Con l’occupazione tedesca della Francia, Tansman, che da tempo sapeva di rientrare tra gli artisti banditi dai nazisti per via delle origini ebraiche, dovette fuggire da Parigi. Con la moglie Colette Cras, sposata nel 1937 e con le figlie piccole Mireille e Marianne, nate negli anni seguenti il matrimonio, si rifugiò a Nizza in attesa di poter espatriare. La famiglia Tansman rimase in incognito a Nizza per circa un anno, vivendo un periodo molto duro per le difficilissime condizioni materiali e per lo stato di prostrazione esistenziale e psicologica. Tansman comunque non smise di comporre. Il dramma dei lunghi mesi trascorsi clandestinamente a Nizza si riflette nello stile aspro, caratterizzato dall’uso sistematico della dissonanza e dalla dispersione della linea melodica, del Quinto quartetto per archi, mentre esplicitamente connessa al momento storico è la Rapsodie polonaise pour orchestre et piano, scritta “en Hommage aux défenseurs de Varsovie”. Grazie all’appoggio di un gruppo di amici capeggiato dall’attore Charlie Chaplin – conosciuto qualche anno prima nel corso dei suoi viaggi per concerti in America – e di cui facevano parte tra gli altri Arturo Toscanini e Koussevitzky, Tansman, con la moglie e le figlie, poté lasciare la Francia per gli Stati Uniti nel 1941. Questa è la seconda cesura decisiva nella sua vita. Dopo un primo periodo trascorso nella parte orientale degli Stati Uniti i Tansman si fermarono a Los Angeles, entrando in contatto con i più eminenti rifugiati europei nell’ambito della musica e delle arti che là risiedevano, quali Arnold Schönberg, Darius Milhaud, Thomas Mann, Mario Castelnuovo-Tedesco. Tansman conosceva personalmente già molti di loro. Gli anni di Los Angeles furono l’occasione per consolidare questi rapporti. Soprattutto egli ritrovò Stra8 “On ne renverse ni n’invente jamais rien dans l’art, mais on découvre les potentialités nouvelles dans une continuité immuable quasi organique. La rupture avec cette continuité, qui est la tradition, le désir de ‘révolution’ avec la dévaluation des valeurs acquises par la recherche volontaire de faire à tout prix ‘ce qui n’a pas encore été fait’ n’est pas un phénomène esthétique, mais psychique. Je considère que l’art organisé n’est nullement l’art érigé en système: le premier forme l’apport de l’individu humain, particularisé par une vocation latente, à la matière disponible qu’il transforme en œuvre d’art par sa sensibilité et son intelligence; le second sert a rendre l’art uniforme, académique et, par conséquent, stérile, car tout académisme, qu’il soit d’école ou d’avant-garde, aboutit au cliché, à la routine et enlève tout germe de fécondation ultérieure. La systematisation exclusive d’un langage musical (qui est bien autre chose que l’unification stylistique dont nous manquons terriblement actuellement) est, à mon avis, un attitude fausse, étant donné la variété des problèmes spéciaux qui se posent, non seulement à chaque compositeur en particulier, mais à chauque œuvre du même compositeur. Il n’existe pas de panacée couvrant d’avance toutes les recherches; chaque moyen d’expression découvert n’est qu’un moyen nouveau qui s’ajoute aux antérieurs, sans les supprimer ou remplacer comme ‘étant dépassés’”, in Alexandre Tansman, Réflexions sur quelques aspects de la musique contemporaine, «L’Âge Nuveau», 92, mai 1955, pp. 55-60, in Id., Une voie lyrique dans un siècle bouleversé, cit., pp. 53-54. Codice 602

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vinskij e quella che era una conoscenza già abbastanza stretta, basata sulla reciproca stima, divenne una frequentazione pressoché quotidiana. Fa capire l’intimità di questo rapporto l’aneddoto che Tansman racconta sul giorno del D-day: lui e la moglie erano a cena dagli Stravinskij e stavano seguendo via radio le notizie dall’Europa. Ritornati a casa Tansman telefonò a Stravinskij per comunicargli l’esito vittorioso dello sbarco in Normandia. Stravinskij lo invitò a rivestirsi e a raggiungerlo di nuovo. Le famiglie si ritrovarono e festeggiarono a casa degli Stravinskij per tutta la notte9. Negli Stati Uniti Tansman continuò a comporre regolarmente. Scrisse brani pianistici, tre sinfonie, musica per film e brani concertanti tra i quali merita di essere ricordato qui almeno il Concertino per chitarra e orchestra, un piccolo capolavoro che sarà dimenticato per lungo tempo fino alla pubblicazione postuma nel 1991. La terza cesura della biografia di Tansman è costituita dal suo ritorno in Europa al termine della Seconda guerra mondiale. Il compositore tornò a stabilirsi a Parigi con la moglie e le figlie nel 1946. Nei quarant’anni che intercorsero tra il suo rientro in Francia e la sua scomparsa nel 1986 (il 15 novembre a Parigi) Tansman continuò la propria attività di compositore senza incorrere in momenti di flessione. In quei decenni raggiunse la maturità artistica. Accanto ai consueti generi strumentali si dedicò a lavori vocali di grande impegno. Affrontò la causa ebraica, anche su impulso di quanto vissuto personalmente negli anni appena trascorsi con la persecuzione, la clandestinità e la fuga, componendo l’oratorio Isaïe le Prophète (1950). Con questo oratorio commemorava gli ebrei sterminati sotto il nazismo e omaggiava lo stato d’Israele, creato da poco. Scrisse opere in musica: Le Serment (1953), composta nell’anno in cui morì sua moglie; Sabbatai Zevi (1958), ancora di argomento ebraico; L’usignolo di Boboli (1963). In ambito strumentale continuò a comporre pezzi pianistici e da camera, sinfonie e brani concertanti per vari strumenti solisti e per varie formazioni strumentali. Un vertice della produzione strumentale tansmaniana della maturità è costituito dal Concerto pour orchestre (1954), che come era accaduto alla Danse de la sorcière negli anni Venti, fu accolto con entusiasmo e circolò intensamente sulla scena concertistica internazionale. Pur nella molteplicità degli influssi, delle fonti d’ispirazione, dei generi praticati, degli organici trattati, lo stile musicale del Tansman maturo appare compatto intorno ad alcune costanti. Una delle più evidenti è il prevalere della melodia sulle altre componenti espressive. La melodia 9 Riprendo l’aneddoto da Alexandre Tansman, Diary of a 20th-Century Composer, compiled, translated and introduced by Jill Timmons and Sylvain Frémaux, «Polish music journal» 1/1, 1998 (http://www.usc.edu/dept/polish_music/PMJ/).

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tansmaniana, pur basandosi, secondo una concezione modernista, su pochi intervalli e avendo un profilo a volte molto frastagliato, ha di solito un carattere intensamente lirico. Il ritmo è incalzante come nei brani dei decenni precedenti, anche se non più “selvaggio” come in alcuni lavori giovanili. Tansman continua a servirsi regolarmente di procedimenti favoriti come l’ostinato. Sul piano armonico Tansman usa centri tonali di solito abbastanza chiari, muovendosi liberamente nello spazio sonoro per agglomerazioni sonore in alcuni casi molto estese e complesse, secondo una concezione allargata della tonalità. Spesso è in evidenza l’elemento folklorico, per lo più polacco, ma si tratta quasi sempre di “folklore immaginato” (cfr. il paragrafo successivo per una riflessione più approfondita). Tansman affina il proprio stile senza discostarsi sostanzialmente dal modo di scrivere musica che aveva messo a punto nel clima delle avanguardie dell’anteguerra. Delle nuove avanguardie fa intendere di non tollerare soprattutto il massimalismo ideologico, anche se dietro alle sue affermazioni si percepisce a momenti un’estraneità più profonda rispetto a quella professata dalle parole. Si legga questo passaggio sul principio dell’atonalità: Così, la scoperta della scrittura atonale o seriale è stata di un’importanza fondamentale per l’evoluzione del linguaggio musicale contemporaneo. Esito di un cromatismo spinto all’estremo, il suo contributo non ha niente che si opponga alla tradizione continua dei nostri mezzi d’espressione. Personalmente me ne sono servito molto nel mio lavoro da più di trent’anni, quando le necessità imposte dal problema sembravano adattarsi al suo impiego per un obiettivo definito. Ma pretendere che essa sia la sola scrittura valida, che essa debba escludere tutte le altre, che essa soltanto corrisponda alla sensibilità contemporanea è, a mio avviso, un’affermazione non solo gratuita ma, esteticamente parlando, assurda10.

Tansman non riesce a digerire l’ideale rivoluzionario delle nuove avanguardie, né sul piano linguistico né sul piano politico. Mai questo ideale era stato suo, neppure negli anni giovanili. Egli continua a riferirsi alla propria idea di una continuità forte e vivificante dell’artista con la tradizione, da intendere, quest’ultima, come una forza ineludibile della storia, capace di fornire sempre nuova linfa creativa a coloro che la sappiano interrogare 10 “Ainsi, la découverte de l’écriture atonale ou sérielle avait été d’une importance primordiale pour l’evolution du langage musical contemporain. Aboutissement d’un chromatisme poussé à l’extrême, son apport n’a rien qui s’oppose à la tradition continue de nos moyens d’expression. Je m’en suis personnellement beaucoup servi dans mon travail depuis plus de trente ans, quand la nécessité du problème semblait correspondre à son utilisation pour un objectif défini. Mais prétendre que cette écriture soit la seule valable, qu’elle doive exclure toute autre, qu’elle seule corresponde à la sensibilité contemporaine, est, à mon avis, une affirmation, non seulement gratuite, mais, esthétiquement parlant, absurde”, in Alexandre Tansman, Réflexions sur quelques aspects de la musique contemporaine, cit., p. 54. Codice 602

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con coscienza e rispetto. Sulla scorta di questo principio Tansman non abbandona mai la concezione della musica come mezzo di espressione. In essa, secondo Tansman, il linguaggio non è che la superficie di un processo creativo che parte in profondità, nell’anima e nella mente dell’artista. Concetti come “innovazione” e “modernità” hanno poco senso all’interno di questa visione: Prima di tutto la questione del linguaggio è lontana dall’essere la sola che provoca la reazione sensibile di fronte all’opera musicale; non si tratta che della cornice, il quadro resta da realizzare. Appartenere al proprio tempo, seguire il progresso, significa tenere conto delle acquisizioni valide di quel tempo, esprimersi in uno stile che gli corrisponde; ma lo stile non si compone unicamente di innovazioni – esse devono integrarsi organicamente in modo tale da arricchire e produrre fermento. Non bisognerebbe confondere il verbo con le parole. Così, malgrado un linguaggio quasi del tutto diatonico, una composizione, per esempio, di Mozart agirà sulla sensibilità contemporanea con più intensità di una composizione ultra dodecafonica, se quest’ultima non ha da offrire che il suo linguaggio e se il suo contenuto musicale o emozionale è nullo, poiché l’idea prevale sempre nella fattura espressiva dell’opera e alla lunga è il “cosa” a contare più del “come”. Quale che sia la scrittura che un compositore adotta per le sue opere, questa non deve mai divenire l’obiettivo principale, ma rimanere sul piano dei mezzi espressivi, piano che segue un’evoluzione organica in cui si integrano progressivamente tutte le innovazioni attuali o future11.

11 “Avant tout, la question du langage est loin d’être la seule qui provoque la réaction sensible vis-à-vis d’une œuvre musicale; ce n’est que le cadre, et il reste à réaliser le tableau. Être de son temps, suivre le progrès, consiste à tenir compte des acquisitions valables de ce temps, s’exprimer dans un style qui lui correspond; mais le style ne se compose pas uniquement des innovations – ces dernières doivent s’intégrer organiquement dans la façon de s’exprimer à titre d’enrichissement et de ferment. Il ne faudrait pas confondre le verbe avec les mots. Ainsi, malgré un langage presque entièrement diatonique, une œuvre, par exemple, de Mozart, agira sur la sensibilité contemporaine avec plus d’intensité qu’une œuvre ultra-dodécaphonique, si cette dernière n’a que son langage à offrir et si son contenu musical ou émotionnel reste nul, car l’idée prime toujours la façon de l’expression et, à la longue, c’est le “quoi” qui compte plus que le “comment”. Quelle que soit l’écriture qu’un compositeur adopte pour son œuvre, elle ne devrait jamais devenir l’objectif principal, mais rester sur le plan du moyen d’expression, ce dernier suivant une évolution organique où s’intègrent, progressivement, toutes les innovations actuelles ou à venir”, in Alexandre Tansman, Réflexions sur quelques aspects de la musique contemporaine, cit., p. 54.

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Nel quarantennio 1946-1986 Tansman non rallentò la sua attività su nessun fronte. Oltre a comporre musica a ritmo serrato continuò a scrivere, pubblicando tra l’altro nel 1948 il proprio libro su Stravinskij in cui raccoglieva impressioni maturate a contatto con il compositore russo soprattutto negli anni americani12 e viaggiò instancabilmente per tenere corsi di composizione, conferenze, fare da membro di giuria per concorsi musicali, ricevere onorificenze, seguire l’esecuzione dei propri lavori. Le sue idee certo gli costarono l’esclusione dai circuiti delle nuove avanguardie e dal canone della musica d’arte del secondo Novecento. L’oblio successivo alla morte gli sarebbe purtroppo costato l’esclusione anche dal canone del primo Novecento, epoca in cui Tansman fu invece al passo con i tempi e pienamente riconosciuto. Le istituzioni comunque non cessarono mai di rispettarlo e omaggiarlo. Nel 1977 fu eletto membro della classe di belle arti dell’Accademia reale del Belgio nel posto che era stato di Dmitrij Šostakovič (morto nel 1975). In Francia e in Polonia fu insignito di alti riconoscimenti e nella sua patria d’origine iniziò sullo scorcio degli anni Settanta una rinascita dell’interesse per la sua musica, testimoniata dall’organizzazione di alcuni festival a lui dedicati. Per parte sua Tansman, seppure da una posizione appartata, non fu disattento alle evoluzioni della storia contemporanea in particolare nel suo paese d’origine. Lo dimostra la sua ultima composizione, del 1982: Hommage à Lech Walesa, per chitarra.

L’École de Paris e la questione dell’identità nazionale polacca Un dato fisso della storiografia musicale novecentesca è l’assegnazione di Tansman all’École de Paris. Con questo nome, che iniziò a circolare in ambito musicale nei primi anni Trenta, si designa solitamente un gruppo di musicisti provenienti dagli Stati a est dell’Europa che negli anni Venti erano emigrati in cerca di fortuna o fuggiti dalle loro nazioni e si erano stabiliti a Parigi, eleggendo la Francia a loro seconda patria. Il nucleo storico dell’École de Paris comprenderebbe cinque musicisti: Tansman, il ceco Bohuslav Martinů, di qualche anno più vecchio degli altri e mentore del gruppo, l’ungherese Tibor Harsányi, il russo Aleksandr Čerepnin, il romeno Marcel Mihalovici. Studi recenti hanno riaperto la questione storiografica dell’École de Paris, mettendo in discussione la compattezza del gruppo e la legittimità stessa del nome13. La cosiddetta École de Paris comprese sì musicisti che nella seconda metà degli anni Venti avevano preso a frequentarsi assiduamente presso un punto di ritrovo abituale, il Cafè du Dôme a Montparnasse, ma 12 Tansman, Igor Stravinsky, cit.

13 Manfred Kelkel, L’École de Paris: une fiction?, in Hommage au compositeur Alexandre Tansman, cit., pp. 85-90 e soprattutto Federico Lazzaro, École(s) de Paris. Enquête sur les compositeurs étrangers à Paris dans l’entre-deux-guerres, Thèse de doctorat, Université de Montréal, 2014. Codice 602

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mutò formazione nel tempo e soprattutto non elaborò, seguendo i canoni di una vera “scuola” o movimento, manifesti o programmi di lavoro. I cinque membri della prima École de Paris erano amici accomunati da contingenze storiche e ideali estetici: la provenienza dall’est dell’Europa, l’essere giovani musicisti di talento in una città che, nell’epoca tra le due guerre mondiali, sembrava offrire le più allettanti prospettive per artisti capaci e animati dalla volontà di affermarsi in seno alle avanguardie, la condivisione per una tendenza espressiva nella musica che muovendosi nell’ambito del neoclassicismo lasciava spazio alla componente identitaria legata alla patria d’origine e connessa all’uso più o meno stilizzato e rielaborato del folklore, spesso un folklore non autentico, bensì “immaginato”. Gli esiti del lavoro di ciascun membro del gruppo furono però molto diversi tra loro e interpretarli solo nell’ottica unificante dell’École de Paris sarebbe riduttivo. Resta il fatto storico di giovani compositori della stessa generazione provenienti dall’estero che si ritrovano a Parigi e stringono una sincera amicizia trovando sostegno e promozione presso le stesse figure dell’ambiente musicale cittadino. La loro figura di riferimento fu soprattutto Albert Roussel. Egli rivestì evidentemente una certa importanza anche per Tansman, che gli dedicò la sua prima raccolta di Mazurke per pianoforte, composte tra il 1918 e il 1928. La volontà e il grado di consapevolezza di questi compositori di fare parte di un movimento vero e proprio sono da limitare. Sicuramente questo gruppo non ebbe le caratteristiche della “scuola”. L’espressione École de Paris, come il musicologo Federico Lazzaro ha brillantemente dimostrato, è da comprendere innanzitutto più in relazione alle evoluzioni della sfera del discorso sulla musica nella Parigi tra le due guerre che non in rapporto stretto con i fatti storici14. Nel panorama movimentato della vita musicale della capitale francese certe etichette erano necessarie per fare ordine e per consentire ai musicisti di essere riconosciuti e promossi. L’espressione École de Paris fu messa in circolo all’inizio degli anni Trenta dalla critica musicale, da una parte volendo rimarcare la presenza di un secondo gruppo di compositori attivo a Parigi accanto ai “Sei”, dall’altra per evocare il gruppo russo tardo ottocentesco dei “Cinque”, istituendo un ponte ideale tra questi ultimi e i giovani compositori di provenienza orientale dell’École. Il modo in cui lo stesso Tansman usa l’espressione nei suoi scritti ne fa capire la natura mobile, pertinente in primo luogo all’ambito del discorso sulla musica. Solo a partire dagli anni Sessanta Tansman usa, in ogni caso sporadicamente, l’etichetta École de Paris per indicare il gruppo di cui fece parte in gioventù. Questo evidentemente per darsi, in modo retroattivo, una collocazione subito chiara nella storia. Negli anni in cui la presunta École de Paris fu attiva Tansman usava 14 Lazzaro, École(s) de Paris, cit.

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invece l’espressione, sempre con parsimonia, per designare genericamente l’ambito stilistico del modernismo parigino contemporaneo15. Altro aspetto essenziale per l’indagine storiografica sulla figura e l’opera di Tansman è quello dell’identità polacca del compositore e di come essa si rifletta nella sua musica. Riferimenti alla Polonia iniziano ad apparire presto nella produzione strumentale di Tansman. Ho già menzionato la prima delle numerose raccolte di Mazurke pianistiche che il compositore scrisse lungo tutto l’arco della sua carriera, facendosi carico idealmente dell’eredità artistica di Chopin. Il 6 ottobre 1932 Toscanini diresse a New York, alla guida della New York Philharmonic Society Orchestra, le Quatre danses polonaises (del 1931), una delle composizioni cui Tansman si dichiarerà più affezionato, considerandola tra le più riuscite della propria produzione. Nel 1962 Tansman scrisse per Segovia la Suite in modo polonico per chitarra, nella quale compaiono movimenti ispirati a danze popolari polacche. Ci sono poi brani ispirati alla storia polacca, come la già citata Rapsodia per pianoforte e orchestra scritta “in omaggio ai difensori di Varsavia” e il tardo Hommage à Lech Walesa. Questa breve lista solo per fare alcuni esempi. Assieme al ricorso alle forme classiche, l’elemento polacco diviene presto il tratto distintivo della musica di Tansman. Anche questo aspetto deve però essere sottoposto a vaglio critico, per l’ambiguità con cui lo stesso Tansman vi si riferisce nelle proprie dichiarazioni e per la problematicità intrinseca del rapporto tra musica e spirito nazionale. Le cose sembrano essere pacifiche almeno quando Tansman usa forme musicali che sembra dedurre dal folklore polacco, quali la mazurka o le danze Polka, Kujawiak, Dumka e Oberek impiegate nelle Quatre danses polonaises e in altre composizioni. A più riprese però Tansman afferma che il suo è quasi sempre un “folklore immaginato”16, ispirato sì alle forme della tradizione popolare ma creato dal nuovo e in linea con l’estetica modernista sullo sfondo della quale egli definisce il proprio stile. Se si passa alla melodia, poche sono le linee di canto veramente polacche impiegate da Tansman. Egli preferirà di gran lunga anche su questo fronte orientarsi al “folklore immaginato”. Eppure Tansman parla di un’autenticità polacca. Ne parla in merito ad alcuni mezzi tecnici, come certi accordi politonali contenenti il tritono, dei quali egli si servirà ampiamente e ne parla soprattutto in termini di spirito, mettendo in rilievo qualità fondamentali dell’animo polacco, come lo struggimento intimo e nostalgico per la dolce patria continuamente vessata dalla storia e il vitalismo della sua cultura popolare. E se nelle danze, modellate seppure per via d’immaginazione sulle danze po15 Ivi, pp. 162-174.

16 Si vedano in proposito le dichiarazioni del compositore in Tansman, Diary of a 20th-Century Composer, cit. Codice 602

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polari polacche, è questo secondo lato dello spirito nazionale a emergere, Tansman sembra meditare a lungo sul primo nelle sue Mazurke e in molti suoi brani intimisti. La conduzione melodica in Tansman può essere letta nel suo complesso sotto questa luce. In quel melodismo ammaliante, introspettivo, commovente molti esecutori e critici, accompagnati anche dalle dichiarazioni del compositore troveranno le tracce dell’identità polacca di Tansman. Una riflessione analoga a quella che sull’École de Paris come fenomeno storico ci ha permesso di capire come sia stato in larga parte il discorso cronachistico e storiografico a generare il fatto storico, e non viceversa, ci consentirà di comprendere anche la questione dell’identità nazionale polacca di Tansman e della sua musica. I punti salienti della questione sono ancora quelli inerenti il dibattito sulle cosiddette “scuole nazionali” ottocentesche, su come e quanto la musica possa essere il veicolo di un determinato spirito nazionale. Le categorie di battute da Carl Dahlhaus nella sua illuminante analisi del fenomeno ottocentesco del nazionalismo in musica possono valere ancora per Tansman17. Dahlhaus distingue tra “essenza” e “funzione”, riconducendo il presunto carattere nazionale della musica alla seconda categoria. La funzionalizzazione della musica in senso nazionalista è frutto di un investimento semantico del fatto musicale connesso al predominare nel corso dell’Ottocento, in seno alla cultura borghese, dell’ideale nazionalista della patria su altri ideali sociali. Interpretare le scuole nazionali e l’idea stessa di una musica nazionale in termini essenzialisti è errato. Ci sono semmai musiche che nel contesto ideologico dei nazionalismi si caricano della funzione di esprimere identità nazionali, sia che facciano uso o meno del folklore musicale di un dato territorio o di un popolo. Il folklore è un’esperienza preesistente, autonoma, nella sua essenza, dallo spirito nazionale così come lo si intende nella cultura borghese ottocentesca. Anche il folklore musicale, per divenire il vettore di uno spirito nazionale, deve essere funzionalizzato in senso nazionalista. Ancora al tempo del Tansman giovane poco importava all’ascoltatore o al critico che nella musica ci fosse folklore autentico o immaginato. In clima di nazionalismo perdurante essi riconoscevano entrambi come espressione di uno spirito nazionale, cioè, diremmo noi, capaci di assolvere alla funzione di trasmissione della presunta identità nazionale. La musica di Tansman può avere un tasso più o meno elevato di folkloricità, non solo polacca. A volte troviamo ad esempio tracce di folklore spagnolo, dal quale il compositore si sentì sempre attratto. Nella linea folklorica tansmaniana si potrebbero inserire anche le composizioni con influssi dal jazz. La vena intimista di gran parte delle composizioni di Tansman 17 Carl Dahlhaus, Die Idee der Nationalismus in der Musik, in Carl Dahlhaus, Gesammelte Schriften, hrsg von. Hermann Danuser, Band 6, Laaber, 2003, pp. 474-489.

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“Modo polonico” e sensibilità neoclassica. Alexandre Tansman

esplicitamente o velatamente riconducibili allo spirito polacco fa capire come nella visione del compositore lo spirito nazionale abbia a che fare con la soggettività dell’artista e non con eventuali pretese nazionalistiche del “contenuto” delle sue opere. Lo spirito polacco, spunto critico prima ancora che punto fermo nell’identità di Tansman è una delle forze che spingono il compositore ad esprimersi attraverso la musica. Quest’ultima, anche quando presenta tratti folklorici, fra l’altro quasi sempre “immaginati”, resta nella concezione di Tansman un elaborato autonomo, valido esteticamente al di là di ogni possibile investimento semantico. Possiamo facilmente applicare a Tansman stesso quanto egli dice, in proposito, su Stravinskij, e sul presunto carattere russo di alcune suo opere: Ci occupiamo adesso dell’elemento “russo” nell’opera di Stravinskij, elemento di cui tanti ascoltatori lamentano l’abbandono. Ora, in realtà, questo preteso “elemento russo” è tutt’altra cosa di quello che ci si immagina abitualmente. Stravinskij non è meno russo oggi di quanto non fosse “occidentale” all’epoca in cui utilizzava i materiali popolari del suo paese. Non è in nessun modo l’impiego di un genere folklorico che situa il compositore in un dato paese, è la sua filiazione nella tradizione musicale, così come essa si è affermata in quel paese. Weber non era divenuto polacco scrivendo delle Polonaises, né Beethoven scozzese scrivendo delle Écossaises, né russo utilizzando i temi russi nei Quartetti dedicati a Razumovsky, né Debussy spagnolo scrivendo Iberia e tanti brani d’ispirazione iberica. Si confonde l’arte russa con il suo elemento esteriore più attraente, il suo lato pittoresco e asiatico come lo si è conosciuto tramite le opere dei Cinque. Si è voluto vedere in Petrushka, La sagra della primavera o Les Noces una specie di prolungamento di quell’elemento primitivo, spesso senza rendersi conto che da tutti i punti di vista queste opere si collocano all’opposto di una concezione strettamente etnica o folklorica18.

18 “Nous abordons ici l’élément ‘russe’ dans l’œuvre de Stravinsky, élément dont tant d’auditeurs regrettent l’abandon. Or, en réalité, ce prétendu ‘élément russe’ est tout autre chose que ce que l’on s’imagine habituellement. Stravinsky n’est pas moins russe aujourd’hui qu’il n’était ‘occidental’ à l’époque où il utilisait les matériaux populaires de son pays. Ce n’est en aucune manière l’emploi d’un genre folklorique qui situe le compositeur dans un pays donné, c’est sa filiation dans la tradition musicale, telle qu’elle s’était affimée dans ce pays. Weber n’était pas devenu polonais en écrivant des Polonaises, ni Beethoven écossais en écrivant des Écossaises, ni russe en utilisant les thèmes russes dans les Quatuors dédiés à Razoumovsky, ni Debussy espagnol en écrivant Iberia et tant de pièces d’inspiration ibérique. On confond l’art russe avec son élément extérieur le plus attrayant, son côté pittoresque et asiatique tel qu’il a été connu par les oeuvres des Cinq. On a voulu voir dans Petrouchka, Le Sacre du printemps ou Les Noces une sorte de prolongement de cet élément primitif, sans souvent se rendre compte qu’à tout point de vue ces oeuvres se placent à l’opposé de toute conception étroitement ethnique ou folklorique”, in Alexandre Tansman, Igor Stravinsky, cit., p. 174. Codice 602

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Matteo Giuggioli

La musica per chitarra Come si inserisce la musica per chitarra nel complesso della produzione musicale di Tansman? Concluderò l’articolo cercando di rispondere brevemente a questa domanda, senza alcuna pretesa di esaustività, data la forma concisa del presente lavoro. Il tema meriterebbe una ricerca approfondita, che mi auspico possa essere prima o poi intrapresa19. Tansman strinse amicizia con Segovia nei suoi primi anni francesi20. Lo dimostra la data del primo brano che egli scrisse per la chitarra, destinato al grande chitarrista andaluso, una Mazurka del 1925. Segovia la inserì prontamente nel proprio repertorio. L’amicizia tra i due sarebbe andata avanti nei decenni successivi, come prova l’intenso e continuo scambio epistolare che si conserva quasi per intero. Tra i due musicisti non mancarono però incomprensioni e attriti. Sul finire degli anni Settanta il loro rapporto si indebolì e infine si interruppe, forse per uno sgarbo o per un comportamento frainteso da parte di uno nei confronti dell’altro. Ad ogni modo la collaborazione fu molto produttiva sul versante artistico. Tansman, dopo la Mazurka e dopo il Concertino per chitarra e orchestra composto negli Stati Uniti nell’ultima fase del suo soggiorno americano, tornò a scrivere per chitarra a partire dagli anni Cinquanta ancora su sollecitazione di Segovia. Compose un cospicuo numero di brani, alcuni dei quali entrarono rapidamente nel canone della musica per chitarra. Tra questi occupano una posizione di riguardo, oltre alla Mazurka del 1925, i due su cui mi soffermerò, la Cavatina (con l’aggiunta della Danza Pomposa)21 e la Suite in modo polonico. I chitarristi sono tornati oggi a frequentare con sistematicità il catalogo chitarristico tansmaniano, che comprende una ventina di composizioni. Segovia era un committente esigente e dai gusti chiari. Consapevole delle difficoltà della scrittura per chitarra, soprattutto per i compositori non chitarristi, non esitò a rimandare composizioni al mittente, chiedendo modifiche drastiche all’autore o rifiutando il brano, e a intervenire egli stesso anche su elementi strutturali della composizione. Tra le opere di Tansman prediligeva quelle in cui il lirismo era più intenso e in cui esibito era il riferimento ai modelli della musica strumentale dei secoli passati. Un suo brano favorito furono le Variations sur un thème de Frescobaldi 19 Alla musica per chitarra di Tansman sono dedicate due monografie: Corazon Otero, Alexandre Tansman y su obra para guitarra, México, Ediciones Musicales Yolotl, 19931; Andrzej Wendland, Gitara w twórczości Aleksandra Tansmana, Łódź, Ars Longa Edition, 1996. 20 Sui rapporti tra Tansman e Segovia si veda Louis Jambou, Alexandre Tansman – compositeur – et Andrés Segovia – interprète – ou en-deça de l’œuvre musicale, in Hommage au compositeur Alexandre Tansman, cit., pp. 231-254. 21 Su questa composizione si veda: Frédéric Zigante, La “Cavatina” di Alexandre Tansman, I, «Il Fronimo», 24 (97), ottobre-dicembre 1996, pp. 43-51; II, «Il Fronimo», 25 (99), aprilegiugno 1997, pp. 20-27.

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“Modo polonico” e sensibilità neoclassica. Alexandre Tansman

(1934) per orchestra a corde. La Musique de cour per chitarra e piccola orchestra, che Tansman scrisse per Segovia nel 1960 non si discostava da quello spirito. Sulla stessa linea si colloca il terzo brano scritto da Tansman per la chitarra dopo la Mazurka e il Concertino, la Cavatina, che è anche il suo brano chitarristico più famoso. La Cavatina fu scritta tra il 1950 e il 1951. Presentata al concorso di composizione dell’Accademia musicale Chigiana di Siena nell’estate del 1951, vinse il primo premio. Nella musica per chitarra di Tansman a partire dalla Cavatina è stata ravvisata una scissione rispetto al resto della produzione del compositore, dovuta soprattutto all’adeguamento alle richieste di Segovia.22 Questa impressione è a mio avviso quantomeno da ridimensionare. Il titolo del brano già fa comprendere a quale versante della creatività di Tansman il brano appartenga. È il versante in cui il classicismo arcaizzante delle Variations sur un thème de Frescobaldi e di altri pezzi in stile antico si fonde con la ricerca espressiva nella sfera più personale dei sentimenti. Il titolo, svincolato dagli agganci al tipo vocale della cavatina, riflette proprio questi due elementi: il passato classico e il carattere delicato e intimo dell’ispirazione. La suddivisione in quattro movimenti – Preludio, Sarabande, Scherzino e Barcarole – così come la loro conformazione interna (sono tutte forme ternarie con ripresa della prima sezione) farebbero pensare a un ricerca sul tipo formale della suite. Certamente Tansman va in questa direzione, ma nella struttura quadripartita e nella contrapposizione tra aree tematiche e centri tonali evidente soprattutto nel Preludio si possono ravvisare analogie con la personale riflessione sulle logiche della forma sonata che egli conduce in altri generi strumentali, in particolare nelle sinfonie e nelle sonate pianistiche. Il bitematismo sonatistico del Preludio si presenta particolarmente tansmaniano nell’accostamento repentino di episodi senza transizioni basate sullo sviluppo, bensì sull’ostinato. I temi sono contrastanti (il primo impetuoso, il secondo lirico) ma ci sono degli elementi di fondo che garantiscono unità al tutto, in particolare l’impulso ritmico, nel quale si può cogliere un sfumatura del ritmo cullante della barcarola, che dominerà l’ultimo movimento, ma che è riscontrabile per accenni anche negli altri movimenti. Ciò non è fuori luogo, dal momento che Tansman afferma essere la Cavatina una meditazione musicale su atmosfere veneziane. La conduzione melodica di tutti i movimenti, con melodie più o meno liriche ma sempre basate su un numero ristretto di intervalli è poi tipicamente tansmaniana. Così come nell’attacco energico del Preludio, ex abrupto con accordi in successione sul pedale del basso, si coglie la versione chitarristica di un topos di Tansman, una versione del quale è contenuta già nell’inizio della Seconda Sinfonia. 22 Zigante, La “Cavatina” di Alexandre Tansman, I, cit., pp. 44-45. Codice 602

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Matteo Giuggioli

L’elemento popolare polacco e soprattutto il melodismo lirico d’ispirazione polacca, quest’ultimo particolarmente amato da Segovia, dominano la Suite in modo polonico. La stesura di questo brano fu dilatata nel tempo. Tansman ci lavorò tra il 1954 e il 1962, anno in cui Segovia eseguì la suite in pubblico per la prima volta. Una seconda versione del pezzo fu approntata dal compositore tra il 1963 e il 1964, ma la successione delle danze da considerarsi definitiva resta quella della versione 196223. La Suite comprende nove movimenti: Entrée, Gallarde, Kujawiak (Mazurka lente), Tempo di Polonaise, Kolysanka n° 1 (Berceuse d’orient), Rêverie, Alla polacca, Kolysanka n° 2, Oberek (Mazurka vive). Dalla scelta delle tipologie delle danze si capisce come ispirazione neoclassica e folklorica convivano e interagiscano tra loro nella suite. Le lettere testimoniano che Segovia intervenne a più riprese con suggerimenti e richieste sull’ordine e sul tipo dei movimenti, alla ricerca della successione più congeniale al suo gusto e più conveniente per l’esecuzione in concerto. Anche in questo caso appare difficile sostenere la lontananza del brano dal resto della produzione di Tansman. È sufficiente un raffronto anche superficiale con le Quatre danses polanaises per orchestra per constatare come almeno le due danze popolari dello stesso tipo, Kujawiak e Oberek, presenti nelle due composizioni siano molto affini. Il fatto che Segovia insista solo su alcuni elementi della gamma espressiva di Tansman e che intervenga personalmente per suggerire o imporre soluzioni di scrittura adatte alla chitarra non comporta il distacco, da parte del compositore, dalle proprie abitudini stilistiche. Tansman semmai sembra sfruttare la possibilità di comporre per chitarra per rivisitare in una prospettiva diversa il proprio universo espressivo.

23 Sulle fasi della lavorazione e sulle due versioni della Suite in modo polonico si veda Jambou, Alexandre Tansman – compositeur, cit., pp. 241-243.

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Concerti per pianoforte e orchestra di Ludwig van Beethoven

di Aquiles Delle Vigne*

Fu chiesto a Sviatoslav Richter quale fosse a suo parere il più bello tra i cinque concerti di Beethoven. Il grande pianista fornì una risposta piena di spirito e di saggezza al tempo stesso: Quello idealmente composto dal primo movimento del Quarto, dal secondo movimento del Primo e dal terzo movimento del Terzo.

Come è possibile, del resto, definire quale sia il “più bel concerto” o la “più bella sonata”? Beethoven scrisse musica per tutta la vita perseguendo di volta in volta la ricerca del massimo ideale estetico e conseguendo in ogni periodo risultati di assoluto splendore: la Seconda Sonata per pianoforte Op. 2, la Sonata Pastorale, l’Eroica, il Concerto per Violino, la Sonata Waldstein, la Grande Fuga, il Trio Arciduca, il Fidelio, le tre ultime sonate (il Brotarbeiten per potere terminare la Missa Solemne). Tutte opere con un proprio speciale grado di bellezza, ognuna in sé un capolavoro. I Concerti non fanno eccezione. Il Primo (che in realtà è il secondo) potrebbe essere considerato una “festa pianistica”; il Secondo è caratterizzato da “eleganza ed una notevole distinzione”; il Terzo è “la totale perfezione”, opera priva di sbavature e autentico inizio di un nuovo stile nei concerti per pianoforte ed orchestra; il Quarto rappresenta “il sogno * Aquiles Delle Vigne. “Only few pianists can go from a sparkling Mendelssohn to a thundering Liszt while passing an aristocratic, sophisticated and charming Ravel...” (Harold Schoenberg, New York Times). Allievo di Claudio Arrau, Eduardo del Pueyo e Georges Cziffra, ha all’attivo più di 25 concerti in Giappone, 10 in Australia, Stati Uniti d’America, Messico, Hong Kong, Corea e in tutto il Sud America. Stimato a livello mondiale anche come docente di alto livello, Aquiles Delle Vigne tiene Masterclass alla International Sommerakademie Universität Mozarteum di Salisburgo, è stato Professore Invitato presso il Royal Northern College of Music di Manchester e Professore Straordinario presso la National University di Taipei. La sua vasta discografia con EMI His Master’s Voice, BASF Harmonia Mundi, BMG-RCA Victor, Naxos, Pavane e EMS ha ricevuto grandi elogi e riconoscimenti. La sua performance dei Preludi di Olivier Messiaen per Papa Giovanni Paolo II in Vaticano è stata estremamente apprezzata dal compositore. Codice 602

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Aquiles Delle Vigne

di ogni pianista” ed il Quinto “lo splendore di un pianoforte imperatore”. Ognuno dei concerti è unico. A dispetto di queste considerazioni lo stesso Beethoven non considerava né il Primo né il Secondo Concerto opere degne di particolare nota. “Non sono fra le mie migliori composizioni” usava dire di questi brani, ambedue sottoposti ad una lunga gestazione e – di fatto – ultimati molto prima della loro pubblicazione. Beethoven valuterà con la stessa severità anche alcune sonate per pianoforte ed altre composizioni; un giudizio ben più duro del nostro che riflette il diverso punto di osservazione del compositore rispetto all’interprete-ascoltatore e che non necessariamente concorda con la fortuna interpretativa né con la musicologia. Nei Concerti di Beethoven niente è sottratto alla grandezza del pensiero, alla visione trascendente di una eterna bellezza, all’eccellenza della costruzione, alla perfezione dell’equilibrio fra le varie parti, elementi che determinano concretamente l’inizio di una nuova era della musica. “Ogni grande messaggio viene da Dio” sostiene Beethoven in un ideale ritorno a Bach. Il “classicismo” di Mozart e del “maestro” Haydn non sono più sufficienti per lui perché la morale di Kant fa ormai parte della storia del pensiero; non più un messaggio “puro ed ideale” ma, al contrario, tutto sarà “personale ed impegnato”. Impegnato moralmente, esteticamente, politicamente e – soprattutto – umanamente. Beethoven sembra dire: “il dramma, il centro, sono io”. L’artista è diventato “il problema principale” e, al pari di S. Agostino Beethoven potrebbe dire: “…la mia strada esiste perché soltanto io devo prenderla”. Strada che porta nella prima entrata del Terzo Concerto o dell’Imperatore ad opporsi maestosamente all’orchestra (più che suonare insieme), o che – è il caso del Quarto –, introduce un mondo di sogno nel tutti lasciando il discorso iniziale al pianoforte anziché all’orchestra. Nell’Imperatore molte sono le anticipazioni lisztiane e notevoli certi effetti pianistici del Primo come il problematico glissando in ottave, molte volte trasformato “addomesticandone” la difficoltà; il movimento centrale del Secondo rappresenta opposizioni visionarie all’interno del rapporto solo-orchestra. Beethoven fu senza dubbio diverso, non fosse che per essere se stesso e la sua musica è colma di nuova vita, nuova espressione, nuovo mondo; una visione ed una estetica che rappresentano per la Musica il passaggio dall’età d’oro a quella della dimensione universale. Il problema interpretativo principale dei Concerti consiste nel restituire un rinnovato punto di equilibrio tra il consolidato codice della musica da camera e gli albori dell’“epoca solistica”; problema di difficile soluzione pur risultando evidente che non si può leggere un Concerto di Beethoven come un Concerto di Chopin o Liszt. Siamo in un’epoca-chiave dell’interpretazione. Beethoven non ha i caratteri dell’artista-divo ma è al contempo chiaro che non fu insensibile al virtuosismo; la Waldstein e i Fi62


Concerti per pianoforte e orchestra di Ludwig van Beethoven

nali dell’Appassionata, de Les Adieux e dell’Imperatore lo provano. Il virtuosismo beethoveniano però non resta “sulla terra” come dispositivo fine a se stesso ma, al contrario, diviene motivo di elevazione verso la spiritualità. Ogni musicista ottocentesco dirà questa stessa cosa, ma noi sappiamo che è vero solo a metà; non si può dire che l’ultimo movimento del Primo Concerto di Liszt o il Finale del Secondo Concerto di Saint-Saëns o la Rapsodia su tema di Paganini di Rachmaninov, per non parlare di Tchaikovsky di Anton Rubinstein siano piene di “filosofia”. I cinque Concerti sono una sfida anche per il direttore d’orchestra che dirige allo stesso tempo una sinfonia, un solista ed è chiamato a mediare un’opposizione; questo sarà il modello che ispirerà Brahms nei suoi monumentali Concerti. Grande pianista della sua epoca, Beethoven si serve di tutta una “panoplia tecnica” con la quale apre il Vaso di Pandora. La differenza con un Concerto di Mozart, anche il K 491 o il K 466, è grande; non è naturalmente questione di qualità, ma di scelta del materiale musicale che in Beethoven sempre è personale. Questo avviene anche quando Beethoven si accosta ad opere di altri compositori; quanto è beethoveniana la cadenza da lui composta per il K 466 di Mozart e quanto sono diverse le tre Sonate op. 2 dalle opere di Haydn cui sono dedicate! Potremmo dire che Beethoven non appartiene ad uno stile fino a che non lo crea lui stesso. La separazione estetica tra i due primi Concerti e gli ultimi tre rappresenta, come nelle Sonate per pianoforte, il passaggio verso una dimensione più “umana, morale e filosofica”. Non possiamo parlare di opere dell’ultimo periodo per i Concerti, come si fa invece per le Sonate, in quanto i momenti di composizione non sono corrispondenti. Il Quinto è composto negli anni della sonata Les Adieux (molte le affinità tra le due opere: secondo tempo molto breve, tessitura del finale…) mentre il Primo è vicino alla Sonata op. 2, n. 3. Il Terzo presenta qualche riferimento alle variazioni sul tema dell’Eroica. La storia ci propone alcuni bizzarri interrogativi. Brahms scrive, a venti anni, tre monumentali sonate per il pianoforte; niente più sonate pianistiche dopo, ma molte opere cameristiche in questa forma. Perché Liszt non ha scritto che una sola sonata per pianoforte? O lo stesso Beethoven soltanto un Fidelio? Le vie del Signore sono infinite... forse la solitudine, il desiderio di essere più vicino a Dio, la malattia hanno influenzato le scelte di Beethoven; forse vedeva nella Nona Sinfonia o nella Messe il suo destino ultimo e la più sublime dimensione di musica d’insieme. In ogni caso questi Cinque Concerti rappresentano un “Everest” e una pietra miliare nella storia della musica, tanto che si può parlare a pieno titolo di un “prima” e un “dopo” dei Concerti . Il Primo Concerto Op. 15, dedicato alla Principessa Odescalchi (più conosciuta come Babette de Keglenvics) come la Grande Sonata per pianoforte Op. 7, Codice 602

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Aquiles Delle Vigne

fu pubblicato da Mollo a Vienna nel 1801 e rappresenta un’esaltazione pianistica totale nella richiesta di brillantezza. La bellezza del secondo tema è luminosa, quasi angelica. Beethoven compone due cadenze per il primo movimento, più una incompleta che è utilizzata oggi da molti pianisti per “combinare” le due precedenti. Il pianoforte è come un cristallo: le formule tecniche diventano saporite e il savoir faire è leggendario. Siamo già lontani da Mozart; il pianoforte assapora le proprie possibilità ed il pianista intravede il successo. Il secondo movimento – il più bello secondo Richter – è di una nobiltà sicura; la tonalità di La bemolle maggiore manifesta la serenità del secondo tema dell’Appassionata. Il cantabile ricorda un’aria in cui il pianoforte non è unico solista ma è affiancato da un clarinetto in una scrittura d’indimenticabile bellezza. I dialoghi, gli scambi, la tessitura, la cadenza tranquilla, la purezza dell’armonia regalano dei momenti sublimi. Il terzo movimento ritorna al clima festoso del primo con movimenti di danza, di salti e capriole. La tecnica delle doppie note, della “musica senza problemi”, dell’allegrezza, dello splendore sonoro éblouissant condurranno a un finale di concerto non convenzionale ma ad una scelta di perdita di brillantezza verso una calma che, malgrado la piccola ripresa della orchestra per finire, non potrà fare dimenticare questa tournure geniale. Il Secondo Concerto Op. 19 fu terminato definitivamente nel 1801, pubblicato da Hofmeister e dedicato a Charles Nickl de Nickelsberg. È un Beethoven più leggero pieno di charme e di grazia e non lascia intravedere la difficile gestazione compositiva. Come d’abitudine Beethoven non scrive subito la parte del pianoforte ma per lungo tempo improvvisa, riscrive, cambia e corregge costantemente. Il primo tempo alterna passaggi brillanti a quelli di tecnica difficile, in cui la comodità non sembra essere presente all’appuntamento. È interessante sapere che la cadenza in questo movimento fu scritta molto più tardi, con certi accenti della futura Hammerklavier; questa differenza d’epoca si avverte in un fugato che poco ha a che vedere con il resto del movimento e che ha il carattere di “altra cosa” rispetto ad una improvvisazione. Il secondo movimento è pieno di dialoghi recitanti. La parte centrale presenta un solo orchestrale che anticipa la parte centrale del secondo movimento del Terzo Concerto, benché la scrittura sia un po’ meno raffinata. La fine è come una grande improvvisazione meditativa. Si capisce facilmente che questo momento potrebbe essere una grande improvvisazione nello stile “parlante”. Il terzo movimento, Finale, come noi lo conosciamo non sembra essere la prima versione pensata per questo Concerto. Pare che Beethoven avesse previsto un Rondò in Si bemolle, trovato e pubblicato da Czerny dopo la morte del compositore. Al termine del movimento assistiamo ad un colpo di scena geniale: improvvisamente il pianoforte sparisce, con un effetto di charme e di sospensione musicale stupendo che conclude il concerto. 64


Concerti per pianoforte e orchestra di Ludwig van Beethoven

Nel Terzo Concerto Op. 37, non c’è una sola nota che non vada nella stessa direzione: drammatico, lirico, perfetto con una piccola coda al terzo movimento che sembra, nel suo virtuosismo grandioso, un trionfo sui sentimenti esposti prima. Beethoven riteneva questo Concerto una sua opera maggiore, importante. La sua pubblicazione accade a Vienna per il Comptoir des Arts et de l’Industrie in 1804 e fu dedicata al Principe Louis-Ferdinand di Prussia. A volte il pianoforte sembra un nemico dell’orchestra, soprattutto nei passaggi delle scale; in altri, dolcemente si adatta all’idea generale. La seconda idea è lirica, a momenti elegiaca e ha il tono di un inno. Una forza gigantesca si percepisce in tutto il movimento: la musica si apre definitivamente, come nell’Eroica, verso dimensioni ciclopiche. Nel momento culminante, la cadenza del primo tempo, si trovano già tutti gli elementi del periodo romantico caro a Mendelssohn, Chopin e Liszt. Il momento del Presto, in questa cadenza, mostra un Beethoven scatenato, impetuoso, visionario. La coda riporterà il clima alla dimensione precedente. Il clima del secondo movimento è quello della beatitudine, della preghiera e della pace con Dio. La parte centrale rappresenta una visione del Paradiso, con tanti soli strumentali che ne fanno una grande opera da camera. Il Finale, al contrario, è una danza fenomenale di un savoir faire pianistico incredibile, con un momento centrale piuttosto “pastorale”. Cadenze quasi lisztiane interrompono la danza per valorizzare un virtuosismo da mago della tastiera. Insieme al Finale dell’Imperatore, questo del Terzo appare come un momento di contatto con forze pianistiche di un altro pianeta per il periodo in cui fu composto. L’atmosfera del primo movimento del Quarto Concerto Op. 58 è di un disegno che sarebbe caro a Raffaello, padrone di una linea purissima, casta – quella che Artistotele chiamava ether – e che separa il “mondo reale dal mondo degli dei”. La sua pubblicazione è datata 1808. L’editore fu il Comptoir des Arts et de l’Industrie a Vienna e la dedica è all’Arciduca Rodolfo. A mio parere questo è un Beethoven vicino alla perfezione totale e al contatto con Dio stesso, tanto grande è il senso di equilibrio. Si tratta di uno dei primi movimenti più perfetti, più olimpici e radiosi tra i concerti piano-orchestra. C’è un clima di verginità che risiede in cielo. Il secondo tema, con il contributo dell’oboe e del flauto, incontra di nuovo la musica da camera. La cadenza è molto sviluppata e rappresenta un altro climax pieno d’idealità. La forza del secondo movimento è di una concentrazione impressionante ed è uno dei momenti più sublimi di tutta la musica. Implorazione, invocazione, lamento. Nessuno dei due protagonisti sembra reagire alla proposta dell’altro. Dopo questo secondo tempo sarà necessario un finale quasi senza pausa; un Finale meno profondo per equilibrare la potenza di queste quattro pagine. Piuttosto virtuosistico, il Finale rappresenta una sorta di decompressione emotiva dopo i due movimenti stellari precedenti. Codice 602

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Aquiles Delle Vigne

Il Quinto Concerto Op. 73 fu pubblicato da Breitkopf and Härtel nel 1811 ed è dedicato anche questo all’Arciduca Rodolfo. Grande favorito del pubblico, presenta un equilibrio perfetto senza la pur minima défaillance formale, virtuosistica o retorica ed apre strade sconosciute che Liszt, interprete ideale di questo Imperatore, percorrerà ancora. Si può parlare qui di splendore totale: tutto è maestoso, grande, imponente. Il primo movimento è una manifestazione di orgoglio, di panache, di trionfo. Niente dramma ma vittoria. È l’epoca dei grandi preparativi di guerra, occupazione di Vienna, bombardamenti... nessuna cosa distrae Beethoven dalla vittoria finale. La questione “virtuosismo” è di nuovo presente. La breve cadenza è scritta “al posto di una cadenza”, forse per indicare la volontà di integrare il solista all’interno di questa sinfonia. Il sognante secondo movimento sembra il riposo di un guerriero: difficilmente uno strumento può suonare con tale senso di serenità, che ispirerà Schumann per l’ultimo movimento della Fantasia Op. 17. Si ritrovano accenti di nobiltà, con modulazioni al terzo grado illuminanti. Poche volte, secondo me, Beethoven introduce un clima improntato ad una simile tranquillità. Il passaggio alla fine dal Si naturale al Si bemolle, utilizzato anche nella Hammerklavier, costituisce un momento sublime. Lo sviluppo virtuosistico del Finale, insieme al primo movimento, mostra senza equivoci la visione di Beethoven quanto all’evoluzione dello strumento pianoforte. Chi era in grado, che non fosse Liszt, di suonare questi passaggi senza problemi? Quale pianista dell’epoca poteva vantarsi di suonare la Hammerklavier? La visione beethoveniana è chiara: il vecchio pianoforte è arrivato alla sua fine. Viva il nuovo progetto di strumento! Si aprono nuove strade con possibilità espressive più grandiose, più seducenti, più sensuali alle esigenze del suono, che diventerà espressivo di per sé e non solo per il contenuto che porta con sé. Il suono diventerà un elemento principale. Non era questo il caso nelle trascrizioni di Bach dei Concerti di Vivaldi, passando dal violino alla tastiera. Al contrario, si può immaginare una trascrizione per oboe della Quarta Ballata di Chopin?! Chi potrebbe ottenere un effetto pianistico nell’inizio dell’Imperatore senza uno Steinway, un Fazioli o un Bösendorfer, o qualche altro pianoforte d’oggi? Sarebbe possibile produrre questa apoteosi con uno strumento che “non suona”? Eppure questa visione fu creata da un musicista sordo! L’unica persona che non abbia mai sentito le tre ultime Sonate, e tante altre opere, fu proprio Beethoven. Cosa direbbe, se potesse resuscitare e udire un’interpretazione della Nona di Toscanini, di Kleiber o di Karajan? Cosa direbbe dell’Op. 111 eseguita da Claudio Arrau o da Rudolf Serkin se gli fosse concesso di ascoltarla alla Scala? È importante per noi pianisti non dimenticare che il primo obbligo dell’interprete è morale. Rendere la musica con la più grande onestà, senza concessione alle masse né al business. Dimensione difficile perché 66


Concerti per pianoforte e orchestra di Ludwig van Beethoven

esige una lotta con se stessi, contro tutte le forme di egoismo e di comportamento da star. Dovremmo pensare che l’autore sta voltando le nostre pagine, accanto a noi e che ci vede come uno strumento di “liberazione del suo pensiero”, il tramite per unire lui – autore – al pubblico. Il messaggio di Beethoven è di avvicinare l’uomo a Dio, di incorporare la morale, il bene, la spiritualità nel mestiere del musicista. Non si tratta di fare un’esecuzione senza “seconda intenzione” ma si tratta, al dire di Bettina, di trovare la “chiave della rivelazione”. Per quello si troverà il pianista – tutti gli strumentisti – alla base, ma per alzarsi verso la spiritualità e, più in là, verso il Verbo che ha creato il Tutto. Poco importa questo carattere irascibile, il suo orgoglio consapevole, la sua maestosità di fronte alle cose effimere. Quello che conta è la sua grandezza spirituale ed il fatto che studiando la sua musica diventiamo migliori noi stessi. Si tratta di capire che Beethoven è stato indicato come il Giovanni Battista, discepolo di Cristo, per rendere gli umani più umani, per portare la ‘parola’ nel modo più giusto, per parlare la verità e non cadere nella mediocrità del piccolo essere-musicista che non pensa che a se stesso ed ai suoi piccoli-grandi successi. “La musica” – diceva Arturo Benedetti Michelangeli – “si deve meritare ogni giorno”. Purtroppo l’interprete d’oggi desidera essere una star. Non accetta facilmente il fatto di non suonare come Horowitz o come Argerich. Siamo in un periodo, come diceva Jorge Luis Borges, dove tutto è culto della propria personalità, sia per abitudine, sia per presunzione. L’umiltà dell’artista è qualcosa d’illusorio. Il culto del concorso, dello star system e dell’io condiziona la scelta dell’interpretazione, malgrado Bach, malgrado Beethoven o malgrado Mozart. Il fatto di suonare l’Op. 111 significa poco. “Io sono più importante di Beethoven perché senza di me lui non esiste”: questa egolatria, iniziata precisamente con Beethoven (ma senza l’idea dello star system o la moda come linguaggio) e continuata dai romantici, dirotta l’artista dallo scopo finale: il messaggio. L’opera d’arte. La verità. Perché, finalmente, la sola cosa che interessa a questo tipo d’artista è di poco valore. Senza rendersi conto che ciò che manca è precisamente la dignità. Sarebbe bellissimo, ma purtroppo utopico in ogni caso, che ognuno di noi, “operai sonori”, ritrovasse il piacere di servire la musica; tante volte detto, ma poche volte realizzato. Ritrovare ciò che Leonardo aveva come massima: nessuna opera è veramente finita ma, al contrario, si trova sempre in evoluzione, in riforma, in mutazione. Ma come fare questo se le strade attuali portano ai paragoni e a negare, in definitiva, la vera unicità dell’artista. Come si può paragonare un artista? L’essere unico non ha bisogno di paragoni proprio per potere rispettare la propria eccezione. Può darsi che un giorno arriveremo a questo, malgrado troppe cose indichino il contrario. Si ringrazia il Maestro Carlo Palese per la revisione del testo in italiano e in francese. Codice 602

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Studi sulla Musica a Lucca



Impresariato musicale e strategie di committenza nelle chiese lucchesi del Settecento

di Fabrizio Guidotti*

Studiando approfonditamente la produzione di musica di chiesa in area cattolica nel Sei e Settecento, sotto l’antico regime, si incontrano dinamiche di committenza e metodiche organizzative strettamente fuse al milieu socio-culturale e politico, di grande rilevanza per la storia musicale (si intende la storia ‘forte’, esterna e trasversale) ma al momento poco focalizzate. Ancora impossibile, su questo tema, è il confronto tra i diversi ambiti locali o regionali, visto che, a fronte delle finissime conoscenze acquisite sul versante stilistico e formale delle opere musicali (storia interna, inevitabilmente ‘debole’ quando lasciata a sé stessa), ancora poco numerose sono le ricerche dedicate alle strutture produttive entro cui inserire i risultati dell’attività creativa1. Così come insufficiente è l’attenzione prestata sinora alle prassi realizzative, in posizione di circolarità con le risorse tecniche ed economiche, con le metodiche organizzative e con le stesse scelte stilistiche; il caso lucchese dimostra per esempio quanto le opzioni compositive riflettano non tanto convinzioni preconcette e discriminanti, agenti a livello personale o istituzionale, quanto le situazioni pratiche in cui i maestri di cappella si trovavano ad agire. Il presente contributo aggancia, limitatamente all’oggetto, il nostro * Fabrizio Guidotti, lucchese, ha affiancato agli studi storici e musicologici gli studi e la pratica musicale (pianoforte, organo). Nel campo della ricerca, i suoi centri d’interesse sono costituiti dalle tradizioni storico-musicali lucchesi e dalla musica d’organo italiana sette-ottocentesca. Ha fatto parte del comitato scientifico della collana “Studi Musicali Toscani”. Tra le ultime pubblicazioni: Arte organistica versus arte organaria. Spinte pratiche e pulsioni ideali nell’Ottocento lucchese, in Contributi per la storia organaria e organistica in Italia, Venezia 2012; «Musiche annue ed avventizie» in una città d’antico regime. Lucca al tempo dei primi Puccini, Lucca, 2012; I capricci di Bernarduccio. Aneddoti, umori e costume nel diario musicale di Giacomo Puccini senior, Lucca, 2013. 1 Un esemplare lavoro collettivo è scaturito in tal senso dai seminari della Fondazione Levi a Venezia. Cfr. Produzione, circolazione e consumo. Consuetudine e quotidianità della polifonia sacra nelle chiese monastiche e parrocchiali dal tardo Medioevo alla fine degli Antichi Regimi, a cura di D. Bryant e E. Quaranta, Bologna, Il Mulino, 2006. Codice 602

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precedente lavoro generale sulla musica di chiesa nel Settecento lucchese a quello, di prossima pubblicazione, mirato sulle risorse musicali nei singoli luoghi di culto dal Rinascimento al periodo napoleonico2. Qualunque ricerca sulla musica di chiesa a Lucca può avvalersi di un arsenale documentario eccezionalmente ricco e vario. Il Libro delle Musiche Annue ed Avventizie, accuratissimo diario professionale redatto da Giacomo Puccini sr. e in parte dal figlio Antonio in qualità di maestri di cappella e organisti, basterebbe da solo a sviluppare un articolato lavoro di gruppo3. In aggiunta a tutte le altre fonti specializzate e non, di tipo diaristico, cronistico e memorialistico, amministrativo ed erudito, conservate principalmente nell’Archivio e nella Biblioteca di Stato, a permettere gli incroci sono adesso anche la serie Enti Religiosi Soppressi e le altre di emanazione ecclesiastica presenti nell’Archivio Storico Diocesano (Archivio Capitolare di S. Martino, archivi dell’Opera di S. Croce e del Decanato di S. Michele, fondi parrocchiali seppur solo parzialmente catalogati, atti delle Visite Pastorali), tutte sistematicamente consultate4. Nel carattere del presente contributo le fonti documentarie si impongono su quelle strettamente musicali, pentagrammate, di cui pure la città di Lucca è riccamente dotata; basti pensare al Fondo Puccini custodito nella Biblioteca dell’Istituto Superiore di Studi Musicali “L. Boccherini”. Precisiamo poi che la definizione ‘musica di chiesa’ e analoghe, intese in senso funzionale e operativo, sono state preferite a quella tradizionale ma fuorviante di ‘musica sacra’, gravida di significati metastorici di natura etica ed estetica. Per il Settecento lucchese, le copiose fonti documentarie rivelano una precisa relazione tra le modalità di produzione e le strategie di impiego della musica in chiesa. Tratto distintivo il policentrismo cittadino e la 2 Fabrizio Guidotti, «Musiche annue ed avventizie» in una città d’antico regime. Lucca al tempo dei primi Puccini, Accademia Lucchese di Scienze, Lettere a Arti, 2012; Id., Chiese e musica a Lucca dalle dotazioni rinascimentali alle soppressioni napoleoniche. Contributi documentari. 3 Libro delle Musiche Annue ed Avventizie fatte da me Giacomo Puccini M[aest]ro di Capp[ell]a della Seren[issim]a Republica di Lucca, ed Org[anist]a della Catedrale, ed Accademico Filarmonico di Bologna, 3 vol. siglati B, C, D (il libro A è perduto), in Archivio di Stato di Lucca, Deposito Istituto Pacini 1-3; da ora Puccini B/C/D. Nello spazio di ca. 600 carte b/v ordinatamente saturate, i registri pervenuti coprono gli anni 1748-1785, gli ultimi quattro a cura di Antonio Puccini. 4 Guidotti, Chiese e musica a Lucca, cit. Per fonti ‘specializzate’ si intendono qui quelle direttamente afferenti all’attività musicale; esempi un diario professionale (come quello dei Puccini), il libro di conti di un esecutore, i registri e le cronache teatrali, gli epistolari dei musicisti, i cataloghi antichi di opere musicali. Solitamente (e problematicamente) esse sono sovrastate dai documenti non direttamente afferenti, quali i diari personali, le cronache cittadine, la contabilità generale o settoriale delle pubbliche magistrature e degli enti religiosi, gli atti delle visite pastorali, gli atti capitolari, le compilazioni erudite (tra cui le ‘guide sacre’ e gli spogli archivistici settecenteschi); senza dimenticare il mare magnum delle raccolte notarili, contratti e testamenti.

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pluralità delle iniziative, anziché la concentrazione in poche sedi rappresentative; con un calendario di musiche liturgiche e paraliturgiche numericamente ridotto nelle singole chiese ma distribuito a tappeto nell’area urbana, e nel complesso più ricco e variato rispetto a quanto avveniva alla stessa epoca nelle città italiane (Venezia e Bologna, per esempio, con le sedi privilegiate di S. Marco e S. Petronio, o la vicina Pisa con la primaziale di S. Maria Assunta e la conventuale dei Cavalieri di S. Stefano). Primo dato oggettivo della realtà lucchese, di per sé non peculiare e anzi probabilmente estendibile a varie altre città (come si ripete, gli studi in tal senso non abbondano), ma collocabile a Lucca in un sistema organizzativo particolarmente coerente, è la totale assenza di cappelle vocali - strumentali stabilmente al servizio delle chiese; e più in generale la latitanza di cappelle fisse. Lucca può essere considerata un case study per il carattere strutturale che vi acquisì un metodo altrove semplicemente alternativo al modello predominante della cappella istituzionale: quello dell’aggregazione estemporanea delle formazioni a cura di maestri plurimandatari, all’interno di un sistema circoscritto e cittadino di produzione in cui la musica in chiesa è frutto di un’attività di tipo impresariale, svolta dai maestri stessi. In questa sorta di impresariato della musica di chiesa, l’attività manageriale su piccola scala si somma nella figura del maestro a tutte le sue tradizionali responsabilità produttive: dall’approntamento del repertorio alla realizzazione e conduzione tecnica in cantoria. Si dovrebbe quindi più propriamente parlare di un producing-manager. Giusto en passant, dovendosi qui trattare di ciò che sta a monte, vale la pena di sottolineare che le prassi realizzative e quelle propriamente esecutive conoscono a Lucca applicazioni specificamente dipendenti dal sistema produttivo; il contrario di quanto avviene con la cappella istituzionale, ove gli intenti artistici e realizzativi dettano la selezione e l’acquisizione delle risorse. Da qui, per esempio, le continue discrepanze a livello di organici tra partitura e formazioni di volta in volta assemblate; discrepanze utilmente studiabili confrontando le musiche del Fondo Puccini con i dettagliati resoconti del menzionato Libro delle Musiche. Egualmente dicasi per le modalità esecutive che la documentazione mette a fuoco, meglio di qualunque trattato, riguardo all’uso dei fiati (in particolare il rapporto tra oboe e flauto), all’uso della viola (in fase di difficoltosa emancipazione), alle modalità del canto a cappella (spesso storicamente equivocate), alla composizioni dei cori vocali (vedi i modi di impiego delle voci bianche), all’uso dell’organo (molto più incidente di quanto facciano credere le odierne consuetudini concertistiche), agli aspetti puramente quantitativi, ai ‘pesi’ orchestrali ecc. Tutto ciò si offre al nostro esame non solo in prospettiva storica ma anche ai fini di un corretto o quantomeno diverso (rispetto agli standard vigenti e per Codice 602

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lo più a-critici e a-storici) recupero concertistico. A maggior ragione, il repertorio predisposto per i servizi liturgici e paraliturgici, anch’esso ampiamente studiabile attraverso le fonti notate e quelle documentarie, presenta caratteristiche coerenti con il sistema produttivo.5 Una peculiarità da evidenziare è l’uso del doppio coro nei brani per le liturgie maggiori, nei mottetti di accoglienza solenne e nei Te Deum frequentemente eseguiti pro gratiarum actione; un uso che nel Settecento la ‘coscienza musicale’ dei lucchesi lega alle principali funzioni cittadine, a contrasto con l’ordinaria limitatezza di mezzi, e che localmente sarà alimentato anche nel secolo successivo e strenuamente difeso dagli attacchi (poi vincenti) dei ceciliani6. Dipendente dai metodi organizzativi è anche la completa emarginazione del repertorio strumentale, che pure in chiesa aveva un ruolo primario, nella produzione dei maestri lucchesi. L’approvvigionamento di “sinfonie” o “overture” era delegata agli orchestrali, e le relative esecuzioni guidate direttamente dal primo violino; si ignora per lo più la provenienza di tale repertorio. I concerti solistici, come di regola i mottetti a voce sola, generi usuali nelle sezioni del proprium missae e nella scansione vespertina (in posizione intersalmodica), erano poi frutto della creatività dei solisti stessi, che ne assumevano anche la conduzione tecnica. Il maestro si limitava a esercitare un minimo controllo qualitativo e a regolare le tempistiche. Di tutto questo materiale affluente in cantoria a opera degli esecutori non è rimasta traccia concreta. Per visualizzare la geografia della musica di chiesa nella Lucca del Settecento si deve ricorrere alla topografia dell’epoca e tenere presenti le forti differenze di fisionomia urbanistica, relative principalmente all’incidenza dei luoghi di culto, tra prima e dopo il periodo napoleonico7. Durante il Principato dei Baciocchi furono abbattuti od obliterati oltre 60 edifici di culto, non solo piccoli e medi oratori ma anche chiese regolari di forte presenza nel paesaggio cittadino (S. Piercigoli in piazza del Carmine, S. Giovannetto presso la porta dei Borghi, S. Chiara e S. Maria degli 5 Tra le manifestazioni devozionali a latere della liturgia codificata, nelle quali la musica assume un notevole spessore, si ricordano l’esercizio delle quarantore e le altre ‘veglie’ di fronte al Santissimo, le litanie mariane del sabato, le novene festive, le processioni comunitarie; cui vanno aggiunte le iniziative squisitamente musicali e stagionali, di natura ludico-didattica, costituite dagli oratori (su cui ampie prospettive sta aprendo la ricerca lucchese). 6 Luigi Landucci, Per le tradizioni musicali lucchesi. Cenni storici e commento del Motu-Proprio di Pio X, Lucca, Tip. Marchi, 1906; Riccardo Berutto, Gli organi rinascimentali della cattedrale, «Rivista di archeologia, storia, costume», XXVI, 1998, numero monografico (San Martino di Lucca. Gli arredi della cattedrale), pp. 125-160: 149-152. 7 Lucca. Iconografia della città, a cura di G. Bedini e G. Fanelli, Lucca, Centro Studi Ragghianti, 1998, 2 vol.; Cristiana Ricci, La rappresentazione cartografica del territorio e l’iconografia urbana della città di Lucca nelle stampe dal XV al XIX secolo, Lucca, C.I.S.C.U., 1998; Lucca 700/800 tra Repubblica e Principato, a cura di V. Gini Bartoli, Lucca, PubliEd, 2011, 2 vol. e repertorio cartografico.

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Angeli nella zona di S. Francesco, S. Domenico nell’area della vecchia manifattura tabacchi, S. Giustina nella via omonima, S. Maria dei Cappuccini presso l’attuale porta Elisa), nonché qualche insigne emergenza tra le chiese secolari (basilica di S. Pietro Maggiore nell’attuale piazza Napoleone, S. Jacopo alla Tomba presso l’attuale porta S. Jacopo). Il fitto tessuto dell’edilizia religiosa influiva fortemente sulla distribuzione dei servizi musicali, dato che la maggior parte delle chiese e alcune confraternite dotate di sede indipendente erano in qualche misura committenti di musica8. Risulta poi evidente la persistente incidenza delle istituzioni regolari nel panorama ecclesiastico cittadino, nonché sulle attività musicali: in ogni chiesa di ordine si eseguono periodicamente servizi; ogni ordine alimenta la committenza musicale, entro cui si computa solo una parte (benché la prevalente) delle istituzioni secolari. D’altra parte, i decenni centrali del diciottesimo secolo in Italia, “paradiso dei monaci” secondo l’espressione di Montesquieu, segnano l’apice della crescita numerica dei religiosi appartenenti agli ordini9. Nella Lucca settecentesca sono presenti tutti gli ordini mendicanti e due ordini monastici, Benedettini e Olivetani, con varie rappresentanze del secondo e anche del terzo ordine; inoltre i due tipi di canonici regolari, Lateranensi e Renani, e una congregazione clericale, i Chierici della Madre di Dio in S. Maria Cortelandini (con una particolare storia di incidenze della pietà individuale sulla musica). La distribuzione topografica di tali insediamenti, in particolare i mendicanti, risponde alle usuali strategie d’inurbazione tra medioevo ed età moderna; anche a Lucca essi sono collocati in prossimità della cerchia muraria, cingendo la zona abitativa e commerciale e spartendosi le zone d’influenza10. La prospettiva può essere rovesciata: è anche attraverso la diffusione e l’utilizzo della musica, in quanto segnale distintivo della festa liturgica o devozionale, che si può cogliere la persistente capacità di attrazione degli ordini religiosi sulla popolazione urbana. La priorità dei regolari nelle attività musicali riflette il primato di considerazione che ancora nel Settecento, nonostante la crescita della popolazione ecclesiastica secolare e soprattutto lo sforzo di ‘sacerdotalizzazione’ operato da molti vescovi sin dall’epoca post-tridentina, la società cittadina continuava ad accordare agli ordini, detentori di una larga quota della cura di anime nonché di 8 Si considerano in questo esame i soli servizi d’insieme, a prescindere dalla loro tipologia, e non la fitta rete dei servizi organistici. 9 Mario Rosa, Le istituzioni ecclesiastiche italiane tra Sei e Settecento, in Id., Religione e società nel Mezzogiorno tra Cinque e Seicento, Roma - Bari, Laterza, 1976, pp. 273-310: 284. 10 Roberto Rusconi, Gli ordini Mendicanti tra Rinascimento e Controriforma: eremi e riforme, conventi e città, missioni e campagne, in Città italiane del ’500 tra Riforma e Controriforma, Atti del Convegno (Lucca, 13-15 ottobre 1983), Lucca, Maria Pacini Fazzi, pp. 267-281. Codice 602

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una sorta di monopolio nella predicazione11. E riflette un’impostazione della vita religiosa cittadina che trova i suoi fulcri non più nelle parrocchie (peraltro controllate in buona misura dagli ordini) ma nei diversi centri di culto, devozione e predicazione; essi si irradiano a turno nello spazio urbano, articolato ma non molto esteso, producendo coesione nello svolgimento del calendario sacro locale. Ciò lascia supporre che gli elementi ornamentali della festa liturgica, la musica in primis, fossero funzionali a una fruizione e a una partecipazione dei fedeli ben più ampie di quanto procurasse la stretta zona d’influenza della chiesa celebrante. Il doppio primato dei regolari, pastorale e musicale, non riguarda naturalmente circa il primo punto gli ordini femminili, che sono tuttavia molto dinamici come committenti di servizi musicali. A fronte della multiforme organizzazione della vita religiosa, agisce in Lucca un numero alquanto esiguo di stabili organismi musicali: la Cappella di Palazzo, pubblicamente impiegata in varie ricorrenze liturgiche e l’unica dotata di un nucleo fisso di strumentisti; le cappelle seminarili di S. Martino (cattedrale), S. Michele e S. Giovanni, formate dai chierici cantori e al servizio delle rispettive chiese; la piccola cappella vocale di S. Maria Cortelandini, la sola in ambito ecclesiastico composta da musici stipendiati. L’esistenza di formazioni di origine confraternale, che sta emergendo dall’esame delle fonti amministrative (Compagnia di S. Antonio in S. Francesco, del Riscatto in S. Girolamo, del SS. Nome di Gesù “alla Rosa” nella propria sede), non turba il quadro generale; si tratta di una sorta di ‘obbligo di cappella’ assunto da alcuni musicisti a fronte dell’affiliazione gratuita, e limitato alla festa titolare del sodalizio12. Né fanno testo, sempre dal punto di vista organizzativo, le piccole formazioni monacali, che pure rendono il quadro più variegato; prima fra tutte quella delle canonichesse di S. Giovannetto. La scarsità di cappelle è da connettere al numero generalmente ristretto di servizi in musica figurata nelle singole chiese, compensato dalla diffusione dei medesimi servizi nella gran parte delle chiese cittadine, e al conseguente stabilizzarsi di meccanismi produttivi che surrogano l’impiego di formazioni stabili; fattori a loro volta influenzati da aspetti della mentalità locale, tendente a concentrare strategicamente in talune feste l’apparato esornativo13. L’assenza di gruppi professionistici al servizio delle chiese principali, quantomeno della cattedrale, differenzia Lucca dagli altri centri di ana11 Su queste tematiche: Roberto Rusconi, Gli ordini religiosi maschili dalla Controriforma alle soppressioni settecentesche. Cultura, predicazione, missioni, in Clero e società nell’Italia moderna, a cura di M. Rosa, Roma - Bari, Laterza, 1997, pp. 207-274; Claudio Donati, Vescovi e diocesi d’Italia dall’età post-tridentina alla caduta dell’antico regime, ibid., pp. 321-389. 12 Guidotti, Chiese e musica, cit.

13 Per uno studio approfondito delle cappelle stabili si rimanda a Guidotti, «Musiche annue», cit., pp. 123-180, da integrare con Id., Chiese e musica, cit.

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loga estensione (per non implicare i maggiori), come la confinante Pisa con le menzionate cappelle della primaziale e di S. Stefano, Siena, Pistoia, Brescia, Pavia, Perugia con le rispettive cappelle del duomo, Bergamo con la cappella di S. Maria Maggiore e via dicendo14. A Lucca godono di un servizio di routine, peraltro nella dimensione non spettacolare della cappella vocale, solo le chiese dotate di seminario e quella dei religiosi di S. Maria Cortelandini; per il resto, e sia detto soprattutto per le esecuzioni concertate, il calendario musicale è democraticamente ripartito tra le varie sedi liturgiche (quasi un riflesso, per le maggiori, delle leggi suntuarie a più riprese imposte dal senato lucchese), pur con un predominio proporzionale delle chiese regolari. Le forze musicali cittadine risultano compartecipi di questo quadro unitario in cui la dimensione urbana prevale sui particolarismi, in una fondamentale concordia d’intenti; prova ne sia il servizio concertato che ogni anno i musici lucchesi eseguono gratuitamente per i padri Cappuccini, nella festa del loro S. Serafino. È evidente la differenza pratica e psicologica di questa impostazione, agente sulla collettività, rispetto agli altri aggregati urbani; ove la presenza di cappelle stabili e strutturate in poche sedi insigni concentra in esse le circostanze in cui produrre musica liturgica, nonché le risorse cittadine atte a produrla. Ecco alcuni dati statistici per la Lucca settecentesca, ricavati dall’esame incrociato delle diverse fonti. Chiese secolari: oltre la metà, 26 su 40, richiedono in varia misura servizi musicali. Chiese regolari: pressoché il 100%, 20 su un totale di 21 (e nell’unico caso negativo, una sede femminile, mancava forse la chiesa esteriore). In totale: musica in 46 chiese su 61, ovvero ben oltre i due terzi degli edifici pubblici di culto; e a rimanere escluse sono per lo più le piccole rettorie di saltuaria ufficiatura (non si considera qui la costellazione delle sedi oratoriali, poco incidente in questo esame). La fitta distribuzione comporta, come premesso, una riduzione numerica delle prestazioni nelle singole sedi. A parte le tre chiese seminarili di S. Martino, S. Michele e S. Giovanni e la regolare di S. Maria, cui va aggiunta almeno la canonica femminile di S. Giovannetto per l’attività interna della cappella monacale, si registrano 14 Per limitarsi ai riferimenti toscani: Franco Baggiani, Musicisti in Pisa. I maestri di cappella nella Primaziale, «Bollettino Storico Pisano», LI, 1982, pp. 194-271; Carolyn Gianturco - Lucia Pierotti Boccaccio, Teofilo Macchetti and Sacred Music in Pisa, 16941713, in Musicologia Humana. Studies in Honor of Warren und Ursula Kirkendale, ed. by S. Gmeinwieser, D. Hiley and J. Riedlbauer, Firenze, Olschki, 1994, pp. 393-415; Stefano Barandoni - Paola Raffaelli, L’archivio musicale della chiesa conventuale dei Cavalieri di Santo Stefano di Pisa, Lucca, LIM, 1994; Carolyn Gianturco, Church Music in Tuscany 1680-1760: A First Survey, in Die italienische Kirchenmusik zur Zeit Händels, Atti del Convegno (Halle, 7-9 giugno 1999), «Händel-Jahrbuch», XLVI, 2000, pp. 63-84; Stefano Barandoni, Filippo Maria Gherardeschi (1738-1808). Musicista «abile e di genio» nel Granducato di Toscana, Pisa, ETS, 2001. Codice 602

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per il Settecento da 5 a 9 ricorrenze annuali con musica concertata o a cappella nelle principali sedi celebrative (S. Paolino, S. Frediano, S. Romano, S. Pietro Maggiore, S. Piercigoli, S. Francesco, S. Ponziano, S. Maria dei Servi, S. Maria Forisportam, S. Agostino); un’altra decina sono le chiese che richiedono non più di 3 o 4 servizi annuali (tra queste S. Alessandro, S. Cristoforo, S. Salvatore, le conventuali di S. Giustina e S. Nicolao); 24 quelle in cui sia comunque svolta una qualche attività periodica (16 di esse con una sola musica annuale, tipicamente per la festa titolare)15. Anche le funzioni avventizie con musica (riti sacramentali e attinenti, rendimenti di grazie, solennizzazioni di eventi locali o universali, celebrazioni sui generis come quelle della Compagnia del Riscatto) conoscono varietà di ambientazione e diffusione capillare: ne sono coinvolte tutte le sedi regolari e almeno un terzo delle secolari. Questa geografia dei servizi, essendo la presenza musicale una chiara estrinsecazione delle modalità della festa, indica che la collettività dei fedeli era implicitamente invitata a frequentare le diverse chiese e onorare l’universo cittadino delle reliquie e delle immagini, dei patroni e dei santi titolari, esprimendosi anche in tal modo quel senso di coesione interna su cui si fondava la secolare autonomia dello stato lucchese. La musica ne vede accentuato il proprio valore connotativo, il che non è senza riflessi sulla qualità intrinseca delle composizioni (o meglio sul modo stesso di concepirne i requisiti). Va sottolineato questo spiccato policentrismo della musica lucchese, che è insieme policentrismo delle pratiche di culto, delle emergenze architettoniche, della vita aggregativa; e che trova un primo sostanziale riscontro nei modi vigenti, e ormai radicati all’epoca in esame, di portare i musici in chiesa. La dimensione urbana delle attività musicali potrebbe essere il filo rosso di una ricerca disciplinare (adeguatamente ampliata) sulla Lucca di antico regime. Quali dunque i metodi organizzativi generalmente seguiti? Le chiese affidano la cura delle proprie musiche a uno dei maestri di cappella presenti sulla piazza, che rimangono liberi di procacciarsi lavoro anche presso altri committenti. Il maestro prescelto ha l’incarico non solo di comporre, selezionare e concertare i brani, ma anche di organizzare i servizi, dopo averne trattato i requisiti con la committenza sulla base di un assegnamento fisso o variabile, costituendo l’organico per “invito” ovvero ingaggiando di volta in volta cantori e strumentisti; e rendendosi anche 15 I dati valgono per l’intero secolo, senza tener conto della scansione cronologica delle nuove fondazioni festive; un notevole incremento di culti conosce, a dispetto (o a causa) della depressione economica, l’ultimo ventennio. Il grado di sincronia è comunque molto elevato. Una prima mappa dei luoghi di culto musicalmente attivi e un confronto con la totalità cittadina in Guidotti, «Musiche annue», cit., pp. 49-65, da aggiornare tramite Id., Chiese e musica, cit. I numeri non sono ancora definitivi ma ciò poco conta, a fronte di una ben chiara situazione di completa copertura dello spazio urbano.

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in tal senso responsabile delle esecuzioni. Egli funziona come detto da impresario per gli allestimenti musicali nelle chiese che gli affidano il “posto”. I servizi da organizzare sono quelli previsti dal calendario annuale di ogni sede e quelli richiesti all’occorrenza per funerali, vestizioni monacali ecc., e vengono singolarmente retribuiti. Una sorta di mandato ‘calendariale’ (“musiche annue”), integrato dalle commissioni occasionali (“musiche avventizie”). Nonostante l’assenza di organismi musicali stabili, era usuale qualificare maestro di cappella di una data chiesa colui che veniva regolarmente incaricato di curare le musiche16. Ciò non appare una mera forma considerando che, attraverso le scelte tendenzialmente ripetitive del maestro organizzatore, anche un certo numero di musici veniva a legarsi alle medesime chiese, costituendone la cappella ‘mobile’; in realtà questi nuclei rimanevano legati non tanto ai committenti quanto al maestro da essi incaricato. In qualche caso maestro e musici erano in rapporto non già con il rettorato della chiesa ma con la confraternita ivi installata, se per prestigio e mezzi essa si faceva carico delle maggiori celebrazioni della chiesa ospitante (oltre che delle sue proprie); per questo Giacomo Puccini sr. risulta dagli anni Trenta maestro della Compagnia del Riscatto in S. Girolamo. Le confraternite erette in chiese di rilievo, già organizzate musicalmente, avevano invece facoltà di appoggiarsi alle risorse esistenti (ed è questa la situazione standard, vedi il mandato della Compagnia del Soccorso in S. Frediano allo stesso Puccini) o di scegliere autonomamente un maestro cui affidare, tipicamente, la loro festa titolare. Esaminiamo più in dettaglio l’iter di allestimento delle musiche in chiesa. Il maestro di cappella organizzatore riceveva dal committente una somma o “borsa” teoricamente commisurata alla realizzazione di un certo tipo di servizio (che poteva così assumere caratteristiche ricorrenti), per il quale era poi il maestro stesso a stabilire gli ingaggi e i relativi compensi. I requisiti del servizio, ovviamente, erano a loro volta dipendenti dal grado d’importanza attribuito alla festa. Lo stanziamento poteva essere fisso per una determinata ricorrenza o per un certo tipo di funzione (non esiste una simmetria con la suddivisione tra musiche annue e avventizie), e in questo caso è definito nel diario Puccini “assegnamento”; oppure essere stabilito di volta in volta, solitamente conformandosi all’ordine di grandezza già applicato in precedenza, e in questo secondo caso il committente poteva riservarsi variazioni o sopportare qualche ritocco a consuntivo. “Andai a prendere i denari della Musica, della q[ua]le ogn’Anno 16 Puccini B, c. 151r, riferendo di una festa in S. Romano, qualifica il “Sig[no]re Pierotti [...] M[aest]ro di Cap[pell]a di d[ett]a Chiesa”; Puccini C, c. 63r, a proposito di S. Francesco, dichiara Pasquale Soffi “M[aest]ro di d[ett]a Chiesa, cioè de i P[a]dri”; Puccini D, c. 93v, parla di un nuovo servizio commissionato a Puccini stesso in S. Ponziano “per essere M[ae]stro di Cap[pel]la di d[ett]a Chiesa”; ecc. Codice 602

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si fa il Conto, per non esservi per questa un Asseg[namen]to limitato, ma bensì pagano a tenore delli Professori che vi sono”17. Puccini conferma qui di sfuggita quanto si può evincere con sicurezza dall’esame generale del diario. Evidente la preferenza per il più elastico metodo della spesa a consuntivo; nell’ottica del maestro, l’assegnamento porta carattere di stabilità e al contempo di limitatezza. In ogni caso, che la prestazione tecnica dovesse essere commisurata alla borsa sulla base di costi riconosciuti e documentabili, chiamando “tutti que’ Professori […] compatibili col emolumento che si dà”, è principio più volte ribadito, così come, implicitamente, la responsabilità ‘artistica’ del maestro organizzatore18. Ovviamente doveva esistere un punto d’incontro fra le richieste della committenza e l’offerta musicale filtrata dal maestro, il quale avrebbe cercato in tutti i casi di accontentare il richiedente, i musici impiegati e se stesso (“Maestro... restatoli...”), distribuendo appropriatamente la somma. La soddisfazione generale dipendeva dalla rispondenza della cifra, fissa o variabile, alle prestazioni richieste. I desiderata della committenza venivano occasionalmente aggiornati19; tuttavia la struttura del servizio era acquisita e si trattava essenzialmente, una volta concordatone il tipo (“concertato con strumenti”, “a cappella con sinfonie” ecc.), di stabilire presenza e qualità di eventuali esibizioni solistiche ed entità dell’organico. Il maestro era tenuto a esibire al committente la lista dei partecipanti con i compensi attribuiti, ovvero la “nota della spesa”, prima della funzione (vedi la “Lista data a’ PP[adri] di S. Ponz[ian]o”, la “Nota della Spesa della Musica” data “secondo il solito a S[uor]a Laura Matilde del Portico”, la “Nota mandata alla Sig[no]ra Chiara Compagni essendomi stata da Lei richiesta” ecc.)20. Ottenutane approvazione, o anche sulla base del silenzio-assenso, il maestro diramava gli “inviti” ai diversi esecutori. Tra gli accordi preliminari e la concreta riunione in cantoria non poteva mancare questa chiamata formale, attesa dai musici e vincolante per la loro effettiva presenza; consisteva in una notificazione scritta consegnata brevi manu o a mezzo terzi, o in una semplice comunicazione verbale. Tutta la descritta procedura veniva esperita in tempi molto rapidi, due o tre 17 Puccini D, c. 94v, festa titolare in S. Domenico, 1779. 18 La norma, basilare entro le metodiche organizzative vigenti, è enunciata in modo chiaro nel documento prodotto dal maestro di cappella dopo la capziosa contestazione di un committente (il convento di S. Agostino): Archivio di Stato di Lucca, Magistrato dei Segretari 132, Scritture, a. 1751. 19 “Nota che gl’Anni avvenire desidererebbero [...] che alla Messa venisse Filippino [Manfredi] a fare un Conc[ert]o, o una Suonata a Solo, […] e dare al d[ett]o Filippino per il Conc[ert]o, o Suon[at]a uno Scudo” (Puccini C, c. 3r, S. Micheletto); “se in avvenire si potranno mettere i Corni alle composiz[io]ni, si potranno prendere, desiderando ciò il P[a]dre Ab[a]te di Governo Compagni” (Puccini D, c. 4r, S. Ponziano). 20 Puccini B, cc. 12r, 87v, 46r, rispettivamente.

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giorni al massimo, talvolta quasi sincronicamente alla prestazione. Essa si concludeva con la distribuzione dei compensi, sempre a cura del maestro, direttamente sul luogo d’esecuzione. Meccanismi di controllo della conformità dei pagamenti alla nota preventiva probabilmente non esistevano, garantendo la provenienza stessa dei musici dal libero mercato la liceità di quanto operato dal maestro / impresario. Importanza strutturale riveste il ‘contatto’ della committenza, responsabile incaricato che di volta in volta agisce per la realizzazione del servizio musicale e di quant’altro debba dar corpo alla festa, sulla base di spesa prestabilita: è la figura del “festaiolo” o “festarolo”, talvolta assimilabile al caeremoniarius cui accennano le rubriche in qualità di coordinatore del rito, più spesso alla figura altrove istituzionalizzata del prefectus musicae, ma senza poter scorgere, a Lucca, traccia di investiture formali21. Si tratta infatti prevalentemente di un incarico a rotazione. Secolare o regolare, il festaiolo è colui che ‘ordina’ la musica a nome dell’istituzione committente, tiene il contatto diretto con i prestatori d’opera o loro rappresentante (nella fattispecie il maestro di cappella), consegna materialmente il compenso; in altre parole colui che organizza e supervisiona l’apparato della festa22. Nell’assemblaggio delle cappelle si nota una consolidata forma di mediazione tra mobilità e stabilità. Organico ed esecutori, infatti, sono tipicamente gli stessi della precedente medesima occasione, salvo i naturali ricambi; la loro variabilità va al di là del nucleo prescelto ed è direttamente proporzionale all’importanza della borsa. Ogni maestro lega a sé e alle diverse chiese assistite un gruppo preferenziale di esecutori, ovviamente con l’avallo della committenza; una sorta di cappella teorica cui davano vita di volta in volta, con le previste varianti d’organico, le musiche annue e avventizie. La limitatezza delle forze in campo comporta inoltre che più maestri si avvalgano degli stessi musici, con una notevole ripetitività di presenze in cantoria e con frequenti, problematiche necessità di spartizione. Le periodiche aggregazioni, prive di codificazioni e vincoli contrattuali, sono sorrette da legami personali e reciproci vantaggi professionali, con ciò che ne consegue sul piano dell’impegno morale, da parte del maestro invitatore come degli esecutori. Questo tipo di consuetudine aggregativa è caratteristica del mercato del lavoro musicale ed è reso possibile solo 21 Un utile confronto con le basiliche romane offre Arnaldo Morelli, Le cappelle musicali a Roma nel Seicento: questioni di organizzazione e di prassi esecutiva, in La cappella musicale nell’Italia della Controriforma, Atti del Convegno (Cento, 13-15 ottobre 1989) a cura di O. Mischiati e P. Russo, Firenze, Olschki, 1993, pp. 175-203: 185. La figura del caeremoniarius è delineata nel Caeremoniale Episcoporum Clementis VIII, Romae, ex Typographia Rev. Cam. Apost., 1600 (ed edizioni successive), lib. I, cap. V. 22 Puccini B, c. 8v: musica fatta “per ord[in]e del S[igno]re Can[onic]o Carrara Festai[ol]o” (S. Paolino, a. 1748). Codice 602

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dall’omogeneità della piazza e della committenza, in un milieu ristretto. La cappella palatina costituiva il principale serbatoio di reclutamento dei musici; non solo per i Puccini, che la presiedettero per gran parte del secolo, ma anche per gli altri maestri attivi sulla piazza. Tuttavia non è mai praticato l’impiego sic et simpliciter della cappella; anche in caso di formazioni ridotte al minimo necessario i musici di palazzo sono sempre mischiati a qualche professore non arruolato. Ciò significa che non è tanto l’istituzione a imporsi alla committenza cittadina quanto il maestro che, in base a criteri di selezione diversi a seconda delle sedi e delle circostanze, presceglie e aggrega i musici disponibili, pur su quella base preferenziale. Il punto d’interesse sovralocale è proprio questo primato dell’organizzazione impresariale, quando altrove le fusioni a scopo di servizi nelle varie sedi liturgiche appaiono sempre limitate a un rimpasto dei gruppi stabili (che a loro volta convogliano tutte le forze cittadine) e sotto l’egida dei rispettivi maestri; come avviene a Pisa con le due cappelle istituzionali23. L’impiego ragionato dei musici disponibili, appartenenti o meno che siano al complesso palatino, porta Giacomo Puccini sr. a individuare una trentina di esecutori abituali; essi vengono potenzialmente distribuiti nelle varie sedi in relazione ai servizi da svolgervi, così da costituire formazioni standard che il maestro potrà variare secondo contingenza e che assicureranno la continuità delle prestazioni. Tali formazioni non vengono esplicitamente codificate ma rimangono ben presenti, sulla base degli accordi verbali, tanto al maestro quanto ai musici e alla stessa committenza, impostata sui rapporti consuetudinari; il che trova occasionali ma probanti espressioni diaristiche (“i soliti Suonatori che servono la Chiesa”)24. L’entità numerica degli esecutori poteva essere messa in relazione sia all’importanza della festa, data l’associazione esistente nella percezione collettiva tra volume di suono e grado di solennità, sia alle caratteristiche dell’ambiente. Ma in assenza di speciali necessità foniche, di argomentate (e finanziate) richieste, e non essendo quasi mai cospicui gli assegnamenti, i maestri organizzatori non avevano alcun interesse ad ampliare l’organico e a eseguire in ripieno le singole parti; si poteva far musica concertata con dieci come con venti o trenta esecutori. In molti casi l’organico è quindi quello minimo necessario ad assicurare una dignitosa esecuzione del repertorio corrente; esso ha le sembianze e la resa di una formazione cameristica, su cui l’ascoltatore lucchese accetta di tarare il proprio orecchio. Per un confronto con la fonte diaristica principale si possono esamina23 Cfr. Barandoni, Filippo Maria Gherardeschi, cit.

24 Puccini B, c. 66r. Oppure: “sappiasi che non vi fu né Leopoldo, né Cataldo, né Baldotti, soliti servire la Chiesa” (Puccini C, c. 33r); “De Angelis […] invece del Pucci solito” (Puccini B, c. 75r); “Violino: Marraccini non solito” (ibid., c. 82v); ecc.

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re le carte del nobile Lorenzo Antonio Sardi, sponsor discreto di servizi musicali in S. Alessandro e S. Anna “fuori porta”. Le liste di esecutori redatte dal maestro incaricato e archiviate come documenti di contabilità dicono che i metodi seguiti dai colleghi di Puccini a lui più o meno coevi, nello specifico Giovanni Antonio Canuti e Giovanni Domenico Pierotti, erano analoghi quantomeno nella costituzione delle cappelle: mantenimento di un gruppo-base e dei relativi trattamenti, variazioni e integrazioni secondo contingenza. Anche l’ampio grado di coincidenza delle cappelle mobili ha la stessa origine: tutte si basano in prima istanza sui musici del palazzo25. Fin qui i metodi di reclutamento dei musici locali; ma è noto come anche i prelievi dall’esterno (ovvero da altri centri, per lo più limitrofi) costituissero dappertutto una risorsa più o meno frequentemente sfruttata. Gli arruolamenti di massa erano tipici, nell’Italia sei-settecentesca, delle feste patronali o comunque di quelle più sentite dalla collettività, e Lucca non fa eccezione; anzi, eccezionale è la proporzione con cui applica nella grande festa di S. Croce, la maggiore solennità della diocesi e stato di Lucca, 13-14 settembre, quel diffusissimo principio di realizzazione. La massima aspirazione della committenza ecclesiastica, di cui si faceva interprete il maestro organizzatore, era però la presenza in cantoria di qualche virtuoso di canto ‘forestiere’: efficacissimo fattore di ‘allettamento’ del pubblico dei fedeli (o dei fedeli-pubblico). Nello specifico, a ciò spingeva anche il fatto che nel ruolo di soprano fosse disponibile sulla piazza lucchese un solo vero virtuoso, il ricercatissimo Giovan Battista Andreoni, già stella dei teatri europei26. L’ingaggio di virtuosi itineranti derivava dalla consuetudine teatrale; e sono proprio le stagioni in corso di svolgimento nei teatri cittadini (a Lucca principalmente nel Pubblico Teatro, attuale Teatro del Giglio) a procurare alla committenza ecclesiastica la possibilità di qualche prelievo di solisti, cui il maestro affiderà immancabilmente il mottetto sostitutivo o intersalmodico. Il passaggio di cantanti dalla scena alla cantoria (e viceversa) è sin dall’inizio congeniale tanto al sistema operistico impresariale quanto al sistema produttivo della musica di chiesa; tanto più se anch’esso di stampo impresariale. Il risultato estetico era un avvicinamento delle esecuzioni liturgiche all’opera se25 Archivio di Stato di Lucca, Archivio Sardi 83, fascicolo 5, Conti di feste a varii Santi dall’anno 1738 al 1766. Esempio, p. 1117: “alli Musici di Lucca secondo la nota a parte sotto N.° 3 portatami dal Canuti L[ire] 187.2” (la contabilità era curata personalmente dal patrocinatore). 26 Gabriella Biagi Ravenni, «Molti in Lucca si applicavano alla professione della musica»: storie di formazione e di emigrazione nella patria di Luigi Boccherini, in Luigi Boccherini e la musica strumentale dei maestri italiani in Europa tra Sette e Ottocento, Atti del Convegno (Siena, 29-31 luglio 1993) a cura di F. Degrada e L. Finscher, «Chigiana», XLIII (N.S., n. 23), 1993, pp. 69-109: 90-93. Codice 602

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ria per quanto attiene all’espressione solistica, con un’estrinsecazione di affetti e di virtuosismo (e quindi di sublimità) sostanzialmente analoga, nonostante il carattere devoto dei testi e l’uso della lingua latina. La fusione, beninteso, era pilotata dall’inveterato costume del canto di chiesa, escludente le donne e favorevole al timbro dell’evirato. Il prelievo di cantanti dal teatro è certamente l’aspetto più interessante nell’esame dei metodi aggregativi e crea una singolare circolarità tra i due tipi di impresariato, quello teatrale e quello di chiesa: il primo porta i virtuosi in teatro, il secondo ne approfitta reingaggiandoli per prestazioni circoscritte esterne al teatro, e riconsegnandoli con una quota maggiorata di gradimento cittadino. Merita sottolineare questa tenace e singolare congiunzione di sacro e profano, che le fonti lucchesi illustrano con dovizia di particolari27. Circa l’effettiva entità delle somme stanziate, essa va valutata anzitutto in rapporto all’articolazione del servizio ossia, nel gergo di allora, al numero dei “cori” o “concerti” (entrambi i termini indicanti nello specifico la ripartizione delle esecuzioni nelle funzioni liturgiche su cui la festa è imperniata): messa o vespro soltanto, messa e vespro, messa e due vespri, eventuale liturgia delle ore; poi, e soprattutto, in rapporto alle prestazioni richieste. Risaltano qui le differenze strutturali e la complessa dinamicità di rapporti impresariali con la committenza, rispetto all’attività delle cappelle stabili in altre città. Di queste ultime, tipicamente, la fabbriceria o collegio determina l’organico attraverso le assunzioni e i relativi salari e normalizza le mansioni attraverso statuti, codificando un calendario di prestazioni i cui requisiti sono trattati col maestro in carica; il quale potrà poi godere di maggiore o minore libertà di iniziativa nei singoli servizi, così come nel plasmare, sempre dietro intese con l’ente amministrativo, l’organico della formazione affidatagli. In ogni caso è minimizzato il margine di estemporaneità e aleatorietà nell’allestimento dei servizi che invece contraddistingue le musiche lucchesi e le consimili, seppur si tenda da parte di committenti e maestri mandatari a stabilizzare i requisiti dei diversi servizi annuali, nonché degli avventizi. Il diario Puccini nasce appunto in funzione di questa regolarità e ripetitività. In questo tipo di assetto produttivo era normale che un maestro accreditato cumulasse un certo numero di incarichi all’interno del circuito urbano. Ed è solo in funzione dell’esiguità di impegni in ciascuna sede che i maestri potevano permettersi di essere plurimandatari; non, come sembrerebbe in talune sintesi storiche tradizionali, in virtù di chissà quali capacità ubiquitarie. A determinare tale situazione erano sia l’offerta degli stessi operatori musicali, avvezzi a un’attività e a mansioni alquanto frammentate, sia la loro limitatezza numerica a fronte di una domanda 27 Cfr. anche Archivio Sardi 83, cit.

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ramificata; un dato, quest’ultimo, per il quale si devono chiamare in causa i criteri di formazione e quelli, strutturalmente limitativi, di accesso alla qualifica di maestro compositore, a Lucca28. Il cumulo di mandati magisteriali, aggravato sovente da qualche incarico organistico, dipendeva poi da un preciso tratto di mentalità collettiva, condiviso dalle varie istituzioni cittadine benché sicura fonte di squilibri; si tendeva infatti ad assicurarsi formalmente i servigi dei professionisti migliori, per motivi di prestigio, a prescindere dalle reali possibilità di svolgimento degli incarichi. Simile consuetudine creava cronici disagi nell’espletazione dell’attività organistica, per la quale si doveva ricorrere a un ‘virtuosistico’ giuoco di reciproche sostituzioni. Meno problematica la conduzione delle rade attività magisteriali; per quanto una notevole criticità venga a crearsi nelle frequenti sovrapposizioni festive. Alla metà del secolo, Giacomo Puccini sr. (1712-1781) offre regolari prestazioni organizzative e realizzative contemporaneamente in 10 sedi, con netta preponderanza delle case regolari: S. Frediano, S. Paolino, S. Ponziano, S. Micheletto, S. Giovannetto, S. Caterina, S. Domenico, S. Luca, S. Girolamo (Compagnia del Riscatto), più S. Agostino fino al 1750 e S. Cristoforo (Compagnia di S. Francesco di Paola) dal ’51, essendo al contempo maestro della Cappella di Palazzo e organista nella cattedrale di S. Martino, nonché titolare nominale del posto di organista in S. Frediano e più tardi titolare effettivo del medesimo posto in S. Pietro Maggiore. Nemmeno il palazzo assorbiva gran tempo ai musicisti arruolati; però condizionava i ritmi quotidiani del loro lavoro, causa i rigidi cerimoniali di corte. Valutando il trend degli incarichi alla famiglia Puccini nei decenni successivi, si osserva una sostanziale stabilità: al momento della successione di Antonio (1747-1832) si sono aggiunte in tempi diversi S. Pietro Maggiore e Ss. Simone e Giuda, mentre viene perduta S. Paolino (“onde non gran male finalmente”, commenta Antonio)29. I rapporti fiduciari che venivano a crearsi tra committenti e maestri, di nuovo per motivi di mentalità ma anche e soprattutto per la mancanza di normazione dell’attività professionale magisteriale (molto meno contrattualizzata e garantita di quella organistica, legata a mansioni continuative e stringenti), è quella che procura ad Antonio Puccini la successione quasi totale nei posti detenuti dal padre, dopo un lungo periodo di assistenza. Analogo cumulo di mandati conoscono gli altri maestri operanti nel corso del diciottesimo secolo, limitatamente alle istituzioni religiose. 28 Guidotti, «Musiche annue», cit., pp. 67-82.

29 Puccini D, c. 129v. Sulla figura del primo Puccini ci sia permesso rimandare a un ulteriore nostro contributo: Fabrizio Guidotti, Un musicista di nome Giacomo Puccini compie trecento anni, «Codice 602», N.S., III, 2012, pp. 57-81. Codice 602

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Fino agli anni Sessanta, ampia fiducia dalla committenza cittadina riscuote Giovanni Domenico Pierotti (1687?-1766), uno dei tanti nomi lucchesi estranei ai repertori: S. Michele, S. Maria Cortelandini, S. Romano, S. Alessandro, S. Maria dei Servi, S. Giuseppe, S. Matteo, Ss. Simone e Giuda, S. Anna “fuori porta”, Oratorio del SS. Nome di Gesù alla Rosa; anche per lui una decina di incarichi, in testa quello della basilica seminarile30. Esatto coetaneo del primo Puccini è Giovanni Francesco Gambogi (1713?-1781), anch’egli maestro seminarile e tonsurato, come Pierotti: S. Michele, S. Maria dei Servi, S. Maria Forisportam, S. Girolamo (Compagnia del Riscatto), S. Leonardo. Altro maestro seminarile davvero iperattivo, di ottima rinomanza anche extra-cittadina, è Pasquale Soffi (1732?1810?): S. Giovanni, S. Maria Cortelandini, S. Francesco, S. Leonardo, S. Frediano, S. Maria dei Servi, S. Alessandro, S. Pietro Somaldi, S. Maria Forisportam, S. Piercigoli, S. Chiara. Le fonti non cedono dati altrettanto generosi sugli incarichi di due notevoli maestri della prima metà del secolo, di cui si comincia oggi a intravedere il valore artistico: Giuseppe Montuoli (1667-1739), predecessore di Puccini presso la cappella palatina e all’organo di S. Martino, e responsabile delle musiche quantomeno in S. Agostino, S. Alessandro, S. Ponziano, S. Giovannetto; e Giovanni Antonio Canuti (1680?-1739), maestro sostituto in palazzo e mandatario quantomeno in S. Alessandro, S. Maria Cortelandini, S. Giuseppe, Oratorio del SS. Nome di Gesù alla Rosa. Produttori di servizi nel Settecento sono anche altri maestri seminarili quali Frediano Matteo Lucchesi (1710?-1779): S. Michele; Domenico Francesco Vannucci (1718-1775): S. Martino, Compagnia del SS. Crocifisso nella chiesa omonima, S. Giustina; Pellegrino Tomeoni (1729?-post 1795): S. Michele; Domenico Quilici (1757-1831): S. Michele, S. Frediano, S. Giorgio; Frediano Lenzi (?-1803): S. Martino, S. Giustina. Posti di rilievo sono quelli occupati a loro tempo da Giovanni Lorenzo Gregori (1663-1745, il noto ma ancora poco studiato autore di concerti grossi): S. Maria Cortelandini; Angelo Antonio Mugnani (?- post 1777): S. Romano; Giuseppe Finucci (1755?-1784): S. Frediano. Da osservare che Soffi, Quilici e forse altri erano molto attivi anche in qualità di maestri al cembalo nei teatri, il che corroborava il loro prestigio cittadino. Gli ultimi sviluppi della ricerca hanno portato infine a identificare al30 Precisazioni: 1) i maestri delle tre cappelle seminarili erano automaticamente considerati e qualificati, con criteri di trattamento economico ancora da verificare, maestri delle chiese di appartenenza dell’istituto, come S. Michele nel caso di Pierotti; 2) la ripetizione delle sedi nei vari elenchi magisteriali presuppone naturalmente l’avvicendamento nel posto, v. Ss. Simone e Giuda ove Pierotti precede Puccini; 3) anche se le sedi oratoriali sono state escluse dalla precedente statistica della committenza religiosa, si è inteso qui segnalare almeno quella del Nome di Gesù per il risalto annesso alla presenza di una figura magisteriale.

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tri maestri incaricati nonché incarichi ulteriori di maestri già censiti, più o meno gravitanti attorno alle cappelle fisse: Sebastiano Lena (secc. XVIIXVIII): S. Agostino; Giovanni Antonio Papera (1660?-1747): S. Martino, S. Giuseppe; Giovanni Domenico Giuliani (1670?-1730?): S. Michele, S. Girolamo (Compagnia del Riscatto); Matteo Leone Papia Baccelli (16901766?): S. Giovanni, S. Cristoforo (Compagnia di S. Francesco di Paola); e soprattutto Antonio Micheli (1723- post 1805), titolare altresì di vari organi, cembalista della cappella palatina, organaro per tradizione familiare (un caso ‘spinto’ e longevo di eclettismo professionale): S. Agostino, S. Paolino, S. Cristoforo (Compagnia di S. Francesco di Paola)31. Nonostante il carattere di aleatorietà, il rapporto di lavoro può prolungarsi per molti lustri: il primo Puccini serve S. Frediano per oltre quarant’anni, S. Paolino e varie chiese regolari in modo forse altrettanto duraturo; Soffi è a S. Maria Cortelandini per oltre mezzo secolo. Va aggiunto che il maestro incaricato sceglie sempre, sicuramente dietro l’avallo del committente, un maestro supplente in caso di impedimenti di varia natura, scelta che ordinariamente prelude alla conferma nel posto32; come verificato per Antonio Puccini nei confronti di Giacomo. Consuetudini organizzative come quelle lucchesi esulano dai tradizionali meccanismi di gestione e controllo delle cappelle musicali, non essendo i gruppi operanti nei luoghi di culto, con le eccezioni segnalate, direttamente dipendenti da un potere ecclesiastico o da un potere civile (i due poli intorno ai quali, l’uno escludendo più spesso l’altro, gravitano tipicamente le cappelle di fondazione cinque-secentesca). Soggetti principalmente alle richieste del mercato cittadino, dati i non molti vincoli posti dall’eventuale appartenenza alle istituzioni stabili, i maestri lucchesi svolgono il descritto ruolo di tipo manageriale, muovendosi entro una struttura produttiva in bilico tra conservazione e innovazione. La differenza da rimarcare, rispetto ai maestri di molti altri centri più e meno rilevanti, sta nel fatto che i lucchesi non conducono, da compositori, parallela attività teatrale, il che ne determina un radicamento nell’ambiente di origine e la conseguente staticità professionale. Quanto a coloro che le fonti lucchesi definiscono “musici”, in senso lato, ovvero gli esecutori vocali e strumentali, essi si offrivano sul mercato cittadino come forza-lavoro a disposizione dei maestri; per loro lo svol31 Dati bio-bibliografici sui maestri lucchesi citati in Luigi Nerici, Storia della musica in Lucca, Lucca, Tip. Giusti, 1879; Guidotti, «Musiche annue», cit., app. III, pp. 737-747; Guidotti, Chiese e musica, cit. Un solo studio monografico, famiglia Puccini a parte: Jonathan Brandani, ‘Con pieno gusto, et maturità’. Profilo biografico e artistico del musicista lucchese Giuseppe Montuoli (1667-1739), Lucca, Nuove Tendenze Edizioni, 2011. 32 Settembre 1766, Dolori di Maria Vergine: “a i Servi fece Mus[ic]a il Gambogi, per il Pierotti essendo de i Mesi che è come Infermo ed essendo egli sostituto per d[ett]e Musiche, fece egli la Musica” (Puccini C, c. 50v). Codice 602

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gimento della professione era assai più incerto. D’altra parte l’esistenza stessa di un libero mercato della musica (e dei musicisti) esprime il generale allentamento del sistema corporativo; la Compagnia di S. Cecilia, cui aderivano tradizionalmente tutti i praticanti del mestiere, non svolgeva a Lucca alcuna funzione di controllo professionale e disciplinare, né era incaricata, almeno fino all’Ottocento, di abilitare nei diversi ruoli e certificare le capacità individuali degli affiliati. Ancora più importanza, in questo modo, veniva ad assumere il rapporto fiduciario dei committenti con i maestri e la loro azione di tipo impresariale. Le conseguenze dello svincolamento corporativo sulla qualità dei ‘prodotti’, a cominciare dai requisiti stilistici delle composizioni per la chiesa (si ricordi la secolare, latente questione della liceità del linguaggio musicale nella liturgia), costituiscono un altro interessante punto d’esame, che non è possibile affrontare in questa sede33. Solo di passaggio si osserverà che, a differenza del servizio organistico, tradizionalmente gestito dalle fabbricerie e regolamentato anche contrattualmente, i pochi servizi musicali d’insieme venivano a Lucca acquistati singolarmente dal collegio o rettorato (nella spicciola terminologia diaristica: la “sagrestia”), attingendo alla massa comune, al patrimonio beneficiario e alle elargizioni di diversa specie, o procurando risorse ad hoc. Il sistema produttivo qui sinteticamente illustrato è coerente con le strategie di impiego della musica, vista come principale elemento amplificativo della festa ed elemento cardine dell’apparato (lo si dà qui come assiomatico, sebbene ciò presupponga una riflessione sulle potenzialità rappresentative e simboliche della musica, nonché sulle capacità percettive del pubblico di chiesa)34. Le scelte festive, inevitabilmente individualistiche, si ricompongono in un quadro dai connotati fortemente unitari e coerenti, avallati dalle presenze musicali, come se le volontà collegiali (chiese, sodalizi) e individuali (testatori, donatori) fossero pilotate da un progetto comune, naturalmente sotto l’egida dell’autorità vescovile. Da considerare che il termine ‘festa’ è applicato nelle fonti erudite, segnatamente le ‘guide sacre’ circolanti nel Settecento come dei precoci Baedeker, nella più ampia accezione celebrativa, identificando sia le feste de praecepto sia le feste ‘di devozione’, o ad libitum. Nella delimitazione di ambiti circoscritti come la singola chiesa e parrocchia, o la confraternita 33 Un primo approccio in Guidotti, «Musiche annue», cit., pp. 115-121. Come esempi di persistente incidenza dell’assetto corporativo si vedano Giancarlo Rostirolla, Maestri di cappella, organisti, cantanti e strumentisti attivi in Roma nella metà del Settecento, «Note d’Archivio per la Storia Musicale», N.S., II, 1984, pp. 195-269; Marta Columbro - Eloisa Intini, Congregazioni e corporazioni di musici a Napoli tra Sei e Settecento, «Rivista Italiana di Musicologia», XXXIII, 1998, pp. 41-76. 34 Guidotti, «Musiche annue», cit., pp. 239-262 e altrove, passim, e in modo riassuntivo pp. 711-715.

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(“festa in…”, “festa alla Compagnia…”, “festa all’Oratorio…”), le guide sacre fotografano in effetti la struttura del culto locale, anche se le celebrazioni possedevano una forza di coinvolgimento ben più ampia35. Che della festa liturgica la musica sia un segnale altamente distintivo è una realtà di senso estetico, sociale e antropologico, forte di una secolare tradizione (vissuta in termini di prassi attuative diversificate e mutevoli), che sovrasta le storie locali. Per l’ambiente lucchese, le fonti di varia natura descrivono una piena identificazione della festa col suo apparato sonoro, più o meno ricco che sia, una volta che se ne siano dati i presupposti pratici (committenza e organizzazione, ripetitività dell’evento). Della priorità della musica entro l’apparato celebrativo si hanno concrete prove documentali tanto nella contabilità degli enti religiosi quanto nei report diaristici e in tutta un’ampia documentazione collaterale36. Anche la grande attenzione e partecipazione comunitaria alle feste liturgiche, cui contribuiscono largamente le procedure rappresentative del potere civile, è una realtà che emerge a evidenza per i secoli passati. La pietà sei-settecentesca poteva invero trovare interpretazioni diverse nei diversi strati sociali; anche nel mondo cattolico il notabilato e la borghesia cittadina, in relazione al proprio grado di istruzione, potevano accostarsi alle pratiche religiose in modo più consapevole e tendenzialmente interiorizzante. Ma ciò che accomunava ogni ceto era quel modello di comportamento sociale basato sull’espressione collettiva del sentimento religioso. La partecipazione dei fedeli ai vari culti marcati dalla festa, inoltre, non era limitata al distretto parrocchiale o alla zona d’influenza di un insediamento regolare; la presenza di un più vasto pubblico cittadino era universalmente ricercata in ogni festa, e tanto più nelle maggiori, per i benefici economici che un largo afflusso di fedeli (sicuramente incentivato dalla presenza musicale) procurava attraverso l’istituto dell’oblazione37. Un inciso utile a chiarire la dinamica implicita committenza - attrattiva - partecipazione. Il Concilio di Trento aveva assecondato nei suoi decreti 35 Principale riferimento: Giovanni Domenico Mansi, Diario Sacro antico, e moderno delle Chiese di Lucca composto già da un Religioso della Congregazione della Madre di Dio, riveduto, ed accresciuto dal Padre Gio. Domenico Mansi della medesima Congregazione, Lucca, Salani e Giuntini, 1753. 36 Guidotti, «Musiche annue», cit., pp. 376-405; Id., Chiese e musica, cit. Sull’inserimento della musica nell’ideologia e nell’estetica della festa barocca rimane fondamentale Gino Stefani, Musica barocca. Poetica e ideologia, Milano, Bompiani, 19872. 37 La presenza di un pubblico numeroso è essa stessa parte integrante della festa, costituisce un punto fermo di questa ‘civiltà dell’immagine’ sei-settecentesca: Maurizio Fagiolo dell’Arco, La festa barocca a Roma: sperimentalismo, politica, meraviglia, in Musik in Rom im 17. und 18. Jahrhundert: Kirche und Fest - Musica a Roma nel Sei e Settecento: chiesa e festa, Atti del Convegno (Roma, 27-29 ottobre 1999) hrsg. von M. Engelhardt und C. Flamm, Laaber, Laaber - Verlag, 2004 («Analecta Musicologica», 33), pp. 1-40. Sui fondamenti antropologici della festa cfr. Maria Margherita Satta, Le feste. Teorie e interpretazioni, Roma, Carocci, 2007. Codice 602

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quello che era ormai un comportamento radicato nei fedeli, la libertà di “satisfacere praecepto Ecclesiae de Missa audienda […] in ecclesiis Fratrum ordinum mendicantium” e, in progresso di tempo, in tutte quelle appartenenti agli ordini e più genericamente ancora in ogni chiesa del territorio urbano. Nel limitato raggio del circuito murato, tale libertà costituiva un ulteriore elemento di unità e giustificava ogni attenzione agli ornamenti del culto, musica in primis. Ogni festa poteva potenzialmente configurarsi come festa cittadina, e di ciò ogni comunità e ogni parrocchia poteva beneficiare a turno. Non è ancora chiaro se e quanto la libertà di frequentazione rompesse nella pratica continuativa la disciplina e l’unità parrocchiali38. Verifichiamo dapprima l’effettiva presenza della musica figurata entro le celebrazioni stabilite dal calendario locale, in senso puramente quantitativo (aspetto da non trascurare, anche per non alimentare il luogo comune di un’utilizzazione ‘continua’ e indiscriminata della musica nel culto dei secoli passati); quindi i criteri di destinazione in rapporto alla tipologia festiva. Si computano anzitutto le ricorrenze di vario genere, oggetto di celebrazioni liturgiche o devozionali di qualche rilievo (tali, quantomeno, da giustificare la compilazione di una dettagliatissima guida sacra), costituenti nell’insieme il calendario lucchese: esse ammontano a circa 350. Celebrazioni più o meno importanti e coinvolgenti, in gran parte limitate a una o poche sedi ma con un’equa distribuzione e dislocazione delle emergenze, esse testimoniano la vitalità delle pratiche di culto, a sua volta dipendente da un fortissimo sensus fidei. A fronte del numero di feste annue si situa un totale di circa 225 servizi musicali, equamente distribuiti tra esecuzioni con presenza strumentale (concertate, ‘piene’ o con ‘sinfonie’ sostitutive e/o interludianti) ed esecuzioni a cappella (con i soli strumenti di sostegno: organo e basseria). Riducendo all’unità i servizi multipli ovvero le musiche eseguite in più sedi per una stessa ricorrenza (esempi SS. Annunziata, Dolori M.V., notturni della Settimana Santa e dei tre giorni pasquali, S. Antonio da Padova, Corpus Domini, Assunzione, Immacolata Concezione), i circa 190 che ne risultano coprono tutti assieme oltre la metà 38 Sull’allentamento del rapporto tra fedeli e parrocchia d’appartenenza, molto stretto sino al basso medioevo, e sull’influenza svolta dagli ordini mendicanti nel decentramento della missa dominicalis, cfr. Mario Righetti, Manuale di storia liturgica, 4 vol., Milano, Ancora, 1959-1969, vol. II, pp. 27-28; sulla questione storica della difesa della liturgia parrocchiale, più in generale, Righetti, Manuale, cit., vol. III, pp. 141-143. La sfumatura dei confini parrocchiali continuerà a distinguere ancora per molto tempo (in pratica sino alle Instructiones conciliari del 1965) l’ambiente cittadino da quello del contado. A quel processo di allentamento gli apparati e la musica contribuirono probabilmente in modo determinante, come lo studio del caso lucchese sembra suggerire.

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delle feste39. Valutando sia l’importanza delle chiese meno implicate (per difetto di fonti), sia l’importanza liturgica e locale delle feste scoperte, sia infine quanto si sa, per tracce, dell’attività dei diversi maestri di cappella, è inoltre possibile congetturare un ampliamento del dieci per cento del quadro musicale. Nonostante la notevole frequenza dei servizi (il quadro è completato dalle musiche avventizie), non si tratta di quel continuum musicale spesso adombrato come connotato della musica di chiesa settecentesca, e che del resto un testimone diretto e informato come Charles Burney può osservare nella sola Venezia40. D’altro lato, ove si torni a considerare il numero assoluto dei servizi, la routine domenicale delle chiese seminarili e di S. Maria Cortelandini nonché le esecuzioni extra-calendario, anch’esse nel complesso assai incidenti, risulta evidente che la pratica religiosa rappresentava il fulcro della produzione musicale lucchese. Circa le strategie di impiego della musica, il punto di verifica è il seguente: quali ricorrenze si sceglieva di decorare con musica figurata, rendendole in tal modo più aggreganti? In quale rapporto l’utilizzo della musica con la conformazione eortologica del calendario lucchese? Occorre a tal fine esaminare il calendario festivo prima della riforma con cui, nel 1784, lo stato di Lucca si allineava agli altri nello sfrondare abbondantemente il precetto festivo, curia consenziente41. L’elenco delle feste di precetto costituisce il punto di partenza per comprendere gli impieghi della musica. Tali feste erano naturalmente ispirate dai canoni universali del culto cattolico, integrati però, allora, dai principali culti peculiari della diocesi lucchese (Madonna dei Miracoli, S. Paolino, S. Croce, S. Frediano). In che misura la presenza musicale, indice dell’importanza attribuita 39 Bisogna però valutare il trasferimento di data della celebrazione in alcune sedi (v. la festa di S. Antonio): esso determinava di fatto altrettante duplicazioni della festa. L’elenco delle ricorrenze con servizi musicali in due o più sedi ha interesse statistico ma non esprime assolutamente una posizione gerarchica delle feste stesse; vi predominano al contrario i culti universali che nelle strategie lucchesi, nonostante l’indubbio risalto di alcuni di questi servizi, vengono subordinati ai culti locali (vedi infra). Il numero stesso dei casi, proporzionalmente esiguo, conferma che il principio superiore (e congruente con i metodi organizzativi) era quello della distribuzione, non della concentrazione. Calendario liturgico-musicale in Guidotti, «Musiche annue», cit., pp. 181-216 e appendici, pp. 719-747, da integrare tramite Id., Chiese e musica, cit. 40 Charles Burney, The Present State of Music in France and Italy, London, Becket - Robson, 1771; ediz. italiana, Viaggio musicale in Italia, a cura di E. Fubini, Torino, EDT, 1979, capp. XIII-XIV. Un ruolo primario nella statistica della musica lagunare hanno naturalmente i conservatori, ma la quantità di esecuzioni pubbliche nella Serenissima sovrasta in effetti, oltre che Roma, la stessa Napoli. 41 Sulla cosiddetta ‘riforma delle feste’ a Lucca (popolarmente: “feste levate”) si veda, mantenendo la prospettiva musicologica, Guidotti, «Musiche annue», cit., pp. 240, 246248, da cui si ricavano anche le fonti archivistiche per l’elenco delle feste di precetto prima e dopo la riforma. Codice 602

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alla festa e dunque degli orientamenti della sensibilità religiosa collettiva, avalla nella città settecentesca le scelte ufficiali di culto universale e diocesano? Prima del 1784 le feste lucchesi di precetto, detratte le coincidenze di feste titolari parrocchiali con le ricorrenze del santorale, assommano a 4542. Intanto è evidente come questo numero, seppure tale da giustificare una riforma in senso riduttivo, appaia risibile al cospetto delle 350 feste elencate nel calendario generale; il precetto festivo veniva come a punteggiare periodicamente un ben più assiduo percorso devozionale, entro il quale sono identificabili 72 celebrazioni peculiarmente lucchesi (comprese le quattro di precetto). Si noti poi come il numero delle ricorrenze con servizio musicale sia molto più ingente, oltre il quadruplo, di quello delle feste di precetto. Ma soprattutto si coglie un sensibile scarto tra queste ultime e quelle rivestite musicalmente: la coincidenza riguarda 21 ricorrenze, meno della metà; di queste, 2 sono unicamente relative al titolo della chiesa (S. Agostino, S. Martino) e 4 sono quelle di culto cittadino, con i santi del pantheon patronale e la miracolosa immagine della Madonna di S. Pier Maggiore. Sono poi privilegiate le feste mariane primarie (Annunciazione, Assunzione, Natività, Concezione), per la fortissima tradizione di culto locale, e il Corpus Domini per la proiezione nello spazio urbano delle aggregazioni parrocchiali di culto. Le altre ricorrenze con musica: S. Giuseppe, i due giorni dopo la Pasqua con i notturni concertati, S. Pietro, S. Anna, S. Lorenzo, S. Michele, Ss. Simone e Giuda, S. Andrea, S. Tommaso, S. Giovanni. La disattesa corrispondenza trova, a Lucca, motivazioni che possono essere condensate in uno schema simmetrico: a) le feste importanti non sono solo quelle di precetto e universali; b) le feste di precetto e universali non sono necessariamente le più importanti. Il tutto crea uno sfasamento gerarchico. Come risulta dal calendario, la maggior parte delle feste con musica non riguarda il culto universale, bensì i culti locali: i santi patronali e lucchesi, i santi titolari delle chiese (considerati peraltro meritevoli del precetto festivo, seppure parziale), i santi dei diversi ordini, le miracolose immagini e le reliquie, o le feste di calendario a esse rapportabili (esempio il Patrocinio della Vergine associato al culto della Madonna dei Miracoli di S. Pietro Maggiore), i santi titolari delle compagnie, alcuni 42 La detrazione implica le tre chiese dedicate a Pietro apostolo (S. Pier Maggiore, S. Pietro Somaldi, S. Piercigoli, nella seconda e terza delle quali agisce la tipica contaminazione del titolo col nome del fondatore), per due di quelle di titolo mariano (S. Maria Forisportam e S. Maria Cortelandini), per S. Paolino e S. Frediano (qui in relazione al santorale lucchese), per S. Michele, S. Giovanni, S. Jacopo, S. Matteo e S. Tommaso. Nel computo generale si è considerato come un’unica festa ognuno dei prolungamenti di due giorni dopo la domenica di Pasqua e quella di Pentecoste (che anche il documento normativo accoppia e considera separatamente dal giorno principale di celebrazione, in quanto festa di precetto settimanale).

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speciali culti mariani: tutto insomma all’insegna del particolare e senza quel parallelismo che potrebbe attendersi con le festività di precetto43. Un caso emblematico: alla festa universale di Ognissanti si antepone e in un certo senso si contrappone quella parallela e localistica delle Reliquie cittadine, onorate dalla collettività civica formalmente riunita in cattedrale; il primo di novembre ci si accontenta di semplici esecuzioni seminarili, ma nella festa di aprile, con il patrocinio dello stato, Cappella di Palazzo e forze aggregate realizzano la più importante musica annuale a due cori, dopo quella di S. Croce. Tali tendenze localistiche nell’estrinsecazione della festa religiosa si spiegano, prima ancora che con le strategie di promozione dei singoli istituti di culto, con le tradizioni di autonomia politica della piccola repubblica, che influenzano le tradizioni celebrative e finiscono per interagire con esse (su tutte ancora la S. Croce), plasmando in modo sui generis la sensibilità collettiva. È vero che in una città come Lucca, priva di strutturate cappelle stabili e di luoghi privilegiati per la musica, la stessa universalità della festa entrava in collisione con le possibilità e con i metodi di produzione dei servizi; il sistema vigente concorre anche meccanicamente, per la necessità di ogni istituto di differenziare dagli altri e rendere individuabili e fruibili i pochi interventi musicali (forzato sarebbe appellarsi a un principio di natura puramente ideologica e capace di imporsi super partes), a determinare il policentrismo delle musiche e il loro utilizzo in funzione del santorale e delle devozioni speciali. Ma ciò non spiega ancora la rinuncia pressoché totale ai musici nelle ricorrenze del Natale, dell’Epifania, della domenica pasquale, dell’Ascensione, per limitarsi al proprium de tempore. Non che in queste occasioni si trascurasse del tutto la musica figurata; a parte le poche cappelle vocali, si ha per esempio qualche notizia di esecuzioni autoctone nelle chiese degli ordini femminili (S. Giovannetto). Le risorse economiche e i meccanismi organizzativi erano tuttavia riservati ad altri momenti; nelle feste universali prevale l’alternanza organistica e non si può non rimarcare come per la ricorrenza maggiore della chiesa cattolica, la domenica di Pasqua (dies magnus, dies felicissimus), non si spendesse a Lucca una musica d’insieme. Si deve certamente chiamare in causa anche una sensibilità devozionale particolarmente sviluppata in passato, da parte dei fedeli e della chiesa stessa, verso i culti locali, dai quali scaturiva maggior ritorno di considerazione per le sedi celebranti che non tramite le celebrazioni universali; 43 Conferma la particolarità di molti culti del tempo la loro odierna cancellazione dal Calendario romano generale (se non dal Martirologio romano), causa la mancanza di fondamenti storici o la scarsa rilevanza; culti che possono tuttavia rimanere come memorie facoltative nei calendari specifici delle varie diocesi. Tra le feste appartenenti a questa categoria e solennizzate con musica nel Settecento sono S. Barbara, S. Caterina d’Alessandria, S. Ubaldo. Codice 602

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con compresenza quindi di componenti in certo qual modo utilitaristiche. Del resto, la priorità del ciclo temporale è stata ristabilita soltanto dalla costituzione sulla liturgia Sacrosanctum Concilium del Vaticano II, mentre nei secoli precedenti la venerazione dei santi, universali e locali, aveva sopraffatto la celebrazione dei misteri della salvezza nelle feste del Signore. Ritieniamo però di poter insistere sul fondamentale accordo di questa spinta particolaristica a livello devozionale con lo spirito autonomistico della città e stato; accordo mai esplicitato, a quanto consta, tra potere civile e potere religioso (e di difficile attuazione, del resto, per la natura a sua volta particolaristica quantomeno degli istituti regolari), ma profondamente interiorizzato dalla collettività in lunghi secoli di autogoverno, durante i quali si era vieppiù rafforzato il legame degli oggetti e dei luoghi di culto con l’idea della città libera. Se l’apparato festivo, la musica cioè e tutto quanto concorreva all’amplificazione sensoriale della celebrazione liturgica, era uno dei connotati della ‘visibilità’ della chiesa, non v’è dubbio che questa visibilità fosse ricercata dalle singole emanazioni della chiesa lucchese a esaltazione delle tradizioni locali, come in un progetto di autoidentificazione civica e religiosa perseguito in simbiosi col potere politico44. Il tutto, beninteso, sotto il segno dei poteri costituiti e in un connaturato regime di coercizione delle coscienze45. Il principio di ‘investire’ sulle pratiche di culto e specialmente sul culto dei santi per corroborare le tradizioni civili, grazie anche alla possibilità di aggiornamento di questo raggruppamento festale, è già stato osservato in ambito musicologico; ancora una volta emblematico, e non per niente in stretta comunanza istituzionale con Lucca, è il caso di Venezia con la basilica marciana46. A Lucca, tuttavia, non già la concentrazione dei valori 44 Il concetto di ‘visibilità’ (l’insieme dei “vincula […] esterna et visibilia” dati come necessari dall’interno stesso dell’istituzione), associato ad altri requisiti di conoscibilità della chiesa cattolica quali il carattere gerarchico della società cristiana e il primato del pontefice, è espresso efficacemente in Claudio Donati, La Chiesa di Roma tra antico regime e riforme settecentesche (1675-1760), in La Chiesa e il potere politico dal medioevo all’età contemporanea, Torino, Einaudi, 1986 (‘Storia d’Italia’, Annali, IX), pp. 721-766: 755-756. 45 Sul disciplinamento religioso di marca controriformistica e il modo in cui esso viene ad assumere in Italia il senso di un disciplinamento sociale cfr. Adriano Prosperi, Riforma cattolica, controriforma, disciplinamento sociale, in Storia dell’Italia religiosa. 2. L’età moderna, a cura di G. de Rosa e T. Gregory, Roma - Bari, Laterza, 1994, pp. 3-48 46 David Bryant, Liturgia e musica liturgica nella fenomenologia del «Mito di Venezia», in Mitologie. Convivenze di musica e mitologia, a cura di G. Morelli, Venezia, La Biennale, 1979, pp. 205-214 (206 in particolare); Giulio Cattin, Musica e liturgia a San Marco. Testi e melodie per la Liturgia delle ore dal XII al XVII secolo. Dal graduale tropato del Duecento ai graduali cinquecenteschi, 4 vol., Venezia, Fondazione Levi, 1990-92, in particolare vol. III, p. 13; Maurizio Padoan, Ritualità e tensione innovativa nella musica sacra in area padana nel primo Barocco, in Tullio Cima, Domenico Massenzio e la musica del loro tempo, Atti del Convegno (Ronciglione, 30 ottobre - 1 novembre 1997) a cura di F. Carboni, V. de Luca e A. Ziino, Roma, IBIMUS, 2003, pp. 269-320: 290-292.

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simbolici in un luogo di culto del tutto speciale e tantomeno la presenza di un modello liturgico autonomo (come appunto in S. Marco), bensì una visione d’insieme generalmente priva di paludamenti, con le molteplici e variamente dislocate manifestazioni di pietas cittadina, caratterizza il programma celebrativo. Inoltre l’azione associativa, la convergenza tra festa - apparato - musica e valori cittadini, nel segno della stabilità, tende non tanto a innescare la memoria storica additando gli eventi insigni e fondativi attraverso formulari o cerimoniali (come a Venezia la traslazione di S. Marco, la battaglia di Lepanto ecc.) quanto ad affermare continuativamente la ricchezza dei presidi spirituali47. Rimane poi veramente peculiare dell’ambiente in esame la congiunzione tra ricorrenze particolari di varia estrazione e risalto degli apparati. Nella stessa Venezia, simbolo dell’autonomia repubblicana, la richiesta di musica è finalizzata principalmente alle feste universali48. Le due dominanti gestiscono in modo diverso la propria immagine; d’altronde la vita interna di Venezia è sin troppo articolata e quello del leone alato è uno stato territoriale. Solo Lucca, nella sua compattezza anacronistica di cittàstato, nel suo perenne bisogno di garanzie di sopravvivenza, trova questo incontro tra particolarismi e unità, questa coesione interna attraverso l’affermazione dell’universo devozionale cittadino, che rinsalda il senso di appartenenza comunitaria e di conseguenza la legittimità dell’indipendenza; e la musica rende conto puntualmente di questo sentire collettivo. Si aggiunga che simili implicazioni tra feste liturgiche e affermazione dell’identità cittadina (persino statuale, almeno per Lucca) non sembrano interessare in modo altrettanto evidente le altre città del centro-nord, come dimostrano per esempio gli studi comparativi sull’area padana (Bologna con S. Petronio, Bergamo con S. Maria Maggiore)49. Non sono i centri inglobati in un sistema politico che ha altrove i suoi cardini, ma appunto le repubbliche cittadine o assimilabili, costantemente impegnate nell’elaborazione ideologica, oltre che giuridica, della propria esistenza e autonomia, a sfruttare maggiormente a questo scopo le circostanze ag47 Per Venezia: Bryant, Liturgia e musica, cit.; Ian Fenlon, Music, Ceremony and Self-Identity in Renaissance Venice, in La cappella musicale di San Marco nell’età moderna, Atti del Convegno (Venezia, 5-7 settembre 1994) a cura di F. Passadore e F. Rossi, Venezia, Fondazione Levi, 1998, pp. 7-21. Agli ‘abbinamenti’ tra Proprium Sanctorum e memoria storica occorre aggiungere quello tra festa dell’Ascensione e cerimonia dello Sposalizio del Mare. 48 David Bryant - Elena Quaranta, Per una nuova storiografia della musica sacra da chiesa in epoca pre-napoleonica, in Produzione, circolazione e consumo, cit., pp. 7-16: 7-8. 49 Padoan, Ritualità e tensione, cit., che ha appunto per oggetto l’esame comparato delle applicazioni musicali nei calendari liturgici della basilica marciana, di quella felsinea e della bergamasca, assunte come modelli nella vasta area geografica considerata; cfr. nello specifico pp. 290-293. Anche tale studio si basa sulla convinzione, data quasi come postulato della ricerca, che l’importanza della festa e del connesso culto nel calendario liturgico sia denotata dalla presenza e dallo spessore del servizio musicale. Codice 602

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gregative. Tanto più ciò doveva valere per il piccolo dominio lucchese, la cui storia è un unicum nell’evoluzione della carta politica italiana50. Particolarismo nell’unità: la mappa dei servizi musicali nella Lucca settecentesca mostra un quadro esteso e policentrico delle iniziative e coincide con quella degli insediamenti regolari, delle principali chiese secolari e di alcuni edifici confraternali; punteggia con essi tutto il tessuto urbano senza lasciare significativamente scoperta alcuna zona. Ogni punto è in realtà un centro di irraggiamento che coinvolge l’area cittadina, nella celebrazione dei culti e nella fruizione della musica che vi si annette, ben al di là dei singoli distretti. La topografia della musica di chiesa ridisegna quindi lo spazio urbano con un grado di coincidenza che, pur non disponendo di analoghe verifiche per altre situazioni cittadine, non può che risultare un tratto distintivo della realtà locale. La varietà di culti porta molteplicità di manifestazioni rituali e, anche sulla spinta psicologica degli apparati festivi, coscienza di ricchezza spirituale. Lucca è importante luogo di culto, tappa di pellegrinaggio, che richiama di per sé grazie alla presenza del Volto Santo, delle molte reliquie più o meno insigni e delle icone taumaturgiche. Tutto ciò reca un notevole grado di sacralità e la sacralità giustifica l’esercizio di un’autonoma potestas (politica, territoriale). La stessa istituzione, all’interno della struttura di governo civile, di un apposito Offizio sopra le Reliquie (quello sopra la Religione non esprime che le ‘normali’ tendenze giurisdizionalistiche), manifesta la consapevolezza di potere (e dovere) esercitare uno ius circa sacra, certamente in accordo con l’autorità vescovile, e dunque una garanzia di mantenimento del tesoro spirituale. Oltre a rinsaldare all’interno il senso di appartenenza comunitaria e con ciò la capacità di quest’ultima di porsi con coesione e unità nei confronti dell’esterno, il processo di autoidentificazione della comunità nelle sue tradizioni religiose rafforza anche l’immagine che dall’esterno si coltiva della compagine cittadina. Il governo avalla questo processo ponendosi come mediatore del rapporto col divino a fianco della chiesa e in sinergia con essa, e stabilendo con ciò l’indissolubile (e probatorio) legame tra i due poteri. L’impiego della musica, elemento aggregativo e amplificativo, trova in questo assetto ideologico il senso più profondo e pregnante. Dunque: composizione dei particolarismi celebrativi in un quadro di forte identità che avvalora l’autonomia politica del piccolo stato. L’esame di questi dati può contribuire a far capire come si orientasse o meglio come si estrinsecasse localmente lo spirito religioso del tempo, al livello 50 Per i fondamenti giuridici dello stato lucchese cfr. Simonetta Adorni Braccesi - Guja Simonetti, Lucca, repubblica e città imperiale da Carlo IV di Boemia a Carlo V, in Politica e cultura nelle repubbliche italiane dal Medioevo all’Età moderna, Atti del Convegno (Siena, 1977) a cura di S. Adorni Braccesi e M. Ascheri, Roma, Istituto Storico Italiano per l’Età moderna e contemporanea, 2001, pp. 267-308.

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delle opzioni cultuali delle gerarchie e degli attori ecclesiastici e in parallelo della sensibilità del fedele (feste universali / feste locali e quali emergenti tra queste ultime, significati locali delle feste universali), al di là degli schemi ecclesiastici ufficiali. Il ruolo della musica appare infatti fortemente integrato al sistema di credenze e di pratica religiosa; la sua presenza, mai casuale, scontata e anonima ma al contrario organizzata, perseguita e connotante, rispecchia a suo modo le coordinate di quel sistema e le attuazioni di quella pratica. La storia della musica tende in questo modo a illuminare anche valori e aspetti di storia della mentalità. Non si conosce che in modesta percentuale l’origine dei singoli servizi, ossia attraverso quali volontà e argomentazioni deliberatorie essi siano stati fissati e si siano così densamente stratificati; né si può supporre di poter acquisire informazioni sistematiche e omogenee sui metodi di finanziamento della musica, tanto più in difetto di studi sullo stato patrimoniale delle istituzioni religiose locali. Ma è da ritenere che l’anno liturgico-musicale, qual è ricostruibile per il diciottesimo secolo, rappresenti una situazione di equilibrio tipicamente lucchese tra istanze celebrative, disponibilità economiche e risorse tecniche. Entro tale situazione, l’aspetto che appare più significativo è la spiccatissima ratio urbana delle attività musicali, l’esistenza di una struttura produttiva che abbraccia tutta la città e che testimonia, relativamente agli intenti celebrativi, una coesione interna e una volontà comune e plurisecolare di autoidentificazione, funzionale all’immagine di Lucca come libero stato. È questo, forse, il carattere maggiormente peculiare del Settecento musicale lucchese: la rinuncia ai pochi emblemi che altrove concentrano le risorse cittadine, e la spontanea preferenza per una distribuzione capillare delle prestazioni. Perfettamente coerente ne risulta quello che si è inteso identificare come un vero e proprio ‘sistema’ di produzione dei servizi di chiesa (e non solo), basato su un libero mercato cittadino della musica e su un’attività di tipo impresariale da parte dei maestri di cappella, anziché sull’esistenza di cappelle stabili e monomandatarie. Tale sistema, dotato di una sua precisa base economica, culturale e persino etica, assorbe e coordina tutte le risorse che via via si rendano disponibili, conferendo unità all’intero quadro settecentesco.

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Benedetta la pazienza L’elogio della vita certosina in otto quartine (semi)anonime manoscritte

di Donato Sansone*

Excusatio non petita… Chi dalla lettura di queste pagine si attende il resoconto di un’indagine storica e musicologica con acquisizioni certe e determinate non troverà, se non in parte, ciò che spera. Invito però i miei ventiquattro lettori (parva non licet componere magnis…) a condividere il racconto dell’incontro fortuito, raro e prezioso, con la storia di un’anima che ha intrapreso il suo percorso salvifico attraverso l’itinerario forse più arduo tra quelli che la spiritualità cristiana occidentale ha proposto al credente. La scelta certosina è infatti quella di un rigore spirituale e materiale sublime ed assoluto, il cui linguaggio più proprio e denotativo è il silenzio (“Praecipue studium et propositum nostrum est silentio et solitudini cellae vacare”1). Il testo che mi appresto a presentarvi disegna l’ascesi vertiginosa dei discepoli di S. Bruno con le pennellate floride e policromatiche di un pittore quasi naif: ne esce un ritratto della vita certosina al quale la sintassi, il lessico ed il metro danno un sapore di ingenua spontaneità, pur sotto l’egida di un non celato impegno formale.

* Donato Sansone è titolare della cattedra di Biblioteconomia e bibliografia musicale presso il Conservatorio “A. Vivaldi” di Alessandria. Diplomato in Flauto dolce, studioso di diversi repertori musicali e strumenti tradizionali, all’attività di ricerca musicologica e bibliografica, con articoli, saggi e relazioni, affianca quella di concertista nell’ambito della musica medievale, rinascimentale e barocca. Ha al suo attivo alcune centinaia di concerti in Italia, Europa, Australia, Medio Oriente e Stati Uniti. 1 Statuta ordinis cartusiensis, IV, 1. Codice 602

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Donato Sansone

Benedetto sia quel giorno… Consultando il Laudario del frate fiorentino Serafino Razzi2, un esemplare del quale è custodito presso la Biblioteca Governativa di Lucca, al verso di carta 92 (il volume è numerato per carte) mi sono saltate agli occhi otto quartine di ottonari, con schema ABBA, su due colonne scritte a penna. È l’unica “glossa” manoscritta in tutto il volume, oltre ad una nota di proprietà sul frontespizio. Benedetto sia quel giorno che mi feci Certosino Perché certo col Divino Io Bruner farò ritorno. Benedetto quel Cappuccio che mi messi in su le spalle per celarmi dal rio Calle che di mondo mi curuccio. Benedetta la patienza Benedetto scaporale [sic] che mi scampa da ogni male Dalla ria e gran sentenza. Benedette le pianelle che mortifican gli piedi credi pure credi credi che mi paiono due stelle.

Benedetto il mio digiuno Benedetta disciplina Benedetta coroncina Benedetto sia s. Bruno. La Certosa abbraccia tutti deh venite giovanetti che sarete ancor perfetti e ne vedrete gli frutti. O Certosa, o Paradiso quando fia che in te riposi da tormenti si noiosi, che ne resta il cor conquiso. Ogniun facci penitenza Baci ancora il suo nemico che cosi dall’oste antico (?) anderà in sofferenza.

Il testo esprime la gioia della conversione alla vita certosina, elencandone, anche con l’ausilio dell’anafora che dona ai versi la sonorità di una litania e la cadenza di una danza mistica, aspetti di quotidianità accanto a tratti di natura spirituale ed esplicite esortazioni di stampo proselitistico. Il tutto reso particolarmente vivo e coinvolgente dall’uso di una lingua anch’essa di registro quotidiano, non priva di forzature ed asperità sintattiche, e dall’esposizione in prima persona, che dà quasi “l’intonazione” al testo poetico, e che ritorna in ben sei delle otto strofe. Ma è la prima soprattutto a suscitare compassione e coinvolgimento, laddove l’astratta sicumera impersonale tipica del predicante dispensatore di inoppugnabili ed intangibili verità metafisiche in forma di precetti è soppiantata dal calore e dalla forza della testimonianza di una persona vera e reale, con un “io” e con un nome che la cala nel vissuto. Se l’aspetto a prima vista si mostra semplice e spontaneo, una lettura più attenta palesa una certa volontà formale: il testo appare infatti sapientemente architettato in sezioni ben caratterizzate. 2 Serafino Razzi, Libro primo delle Laudi spirituali da diversi eccell. e divoti autori, antichi e moderni composte... Con la propria musica e modo di cantare ciascuna laude…, In Venetia, Francesco Rampazzetto ad instantia degli heredi di Bernardo Giunti, 1563.

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Benedetta la pazienza. L’elogio della vita certosina in otto quartine (semi)anonime manoscritte

Le prime cinque strofe, cadenzate dall’uso di un’anafora quasi in crescendo rossiniano che ha il culmine nella quinta strofa, dove tutti e quattro i versi sono ritmati da tale figura, hanno un’intonazione leggermente più narrativa, con una diegesi articolata su una completa linea temporale: il passato (“mi feci”, “mi messi”), il presente (“mi scampa”, “mortifican” etc.) ed il futuro (“farò”). La prima strofa ancora una volta colpisce, compendiando nei due distici l’intero alfa-omega della scelta spirituale, grazie alla quale l’atto storico di un giorno che fu assume il valore di presupposto asseverativo di un giorno che sarà, in una chiara prospettiva escatologica: essa viene ad assumere quindi il ruolo di un prologo, anzi, un argumentum plautino, quasi a voler connotare la vivezza drammatica della successiva narrazione. Segue l’elencazione degli oggetti d’uso, tutti legati al vestiario (l’abito fa il monaco, si direbbe). La lista percorre una precisa direzione dall’alto verso il basso: la testa (il cappuccio), il tronco (lo scapolare3, la pazienza), i piedi (le pianelle). Ognuno di questi rimanda ad una più alta e simbolica funzione ascetica di protezione apotropaica dal mondo e dai suoi mali dannanti o di strumento di gioiosa mortificazione. Esemplare in tal senso l’evocazione della pazienza, che è al contempo oggetto concreto, cioè il cordone o la correggia che cinge la vita, e virtù astratta, ma non meno concreta nella prospettiva della quotidianità certosina (a tal punto da diventare vulgata associazione proverbiale4): e non appare casuale la scelta di una grafia fonetica promiscua di arcaico e moderno (“patienza”), quasi a voler sottolineare attraverso un più esplicito e diretto rimando all’etimo del lemma il significato simbolico della cintura che rinvia alla sofferenza penitenziale. 3 L’uso del termine “scaporale”, al di là della forma popolare caratterizzata dalla metatesi l/r, pone qualche interrogativo: nella tradizione certosina infatti l’indumento, comune ad altri abiti monastici, viene sempre chiamato “cuculla” (cocolla). Probabilmente Brunero ha voluto usare la forma più conosciuta per indicare quel preciso capo, (in ambito benedettino ad es. la cocolla indica la veste completa, usata nelle solennità) forse in relazione al suo significato simbolico che rimanda alla forma della croce e alla professione solenne indissolubile, avendo la cocolla certosina due bandelle laterali: “cucullam vittis colligatam, crucisque instar formatam gestant, ut vel ipsius indumenti qualitate moneantur se vinculo Dominicoq[ue] iugo colligatos esse, quod a seipsis excutere liberum non habent” (Pierre Cousturier, De vita Cartusiana libri duo auctore Petro Sutore… Coloniæ Agrippinæ, sumptibus Bernardi Gualtheri, 1609, p. 96). Insomma, la necessità di denotare inequivocabilmente l’oggetto per evocarne la carica simbolica avrebbe prevalso sulla precisione terminologica. Sulla storia dell’abbigliamento negli ordini religiosi vedi La sostanza dell’effimero: gli abiti degli ordini religiosi in Occidente: Museo nazionale di Castel Sant’Angelo, 18 gennaio-31 marzo 2000: catalogo, a cura di Giancarlo Rocca, Roma, Ed. Paoline, 2000. 4 “È questa, in profondità, l’unica vera occupazione del monaco [certosino], è l’ozio attivo di cui parla san Bruno… lo sforzo laborioso di conservare quieto il cuore perché sia totalmente disponibile per Dio… È questa attesa quieta e immobile del cuore ‘la pazienza certosina’” (I Certosini di Farneta, Farneta - Lucca, Certosa dello Spirito santo, s.d., pp. 6-7). Codice 602

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La quinta strofa sommarizza e condensa, anche tramite una sintassi prettamente nominale, le precedenti quattro: l’anafora strofica diventa anafora stichica (4 strofe = 4 versi), l’ambito semantico ripropone concisamente i campi delle precedenti, dal nome astratto (digiuno, disciplina) al concreto spirituale (coroncina) al personale (Bruno). E ritorna l’uso del termine dalla duplice natura: “disciplina” è infatti una norma di vita consacrata (legato peraltro alla “patienza”)5 ma anche uno strumento di penitenza.

Quadro sinottico delle corrispondenze fra le strofe 1-4 e 5

Al termine del crescendo di quello che in termini lirici cortesi potremmo chiamare un vero e proprio plazer spirituale, si colloca, in posizione culminante e quindi dominante, il nome del fondatore, di colui che questa “gioia divina”6 dello spirito ha reso attingibile. L’incalzare lento ma progressivamente più fitto dell’anafora, con l’accelerazione finale, conferisce alla giaculatoria quasi il senso di uno “jubelo del core” di gusto jacoponico, se pur sussurrato, in ossequio alla “disciplina” del contegno monastico di un ordine che coltiva il silenzio come valore prioritario, e non “esmesuratamente” allelujato come negli orgasmi mistici del laudista tudertino. Nel nome di San Bruno si consuma il godimento spirituale, e l’estasi chiede una forma di cesura sospensiva per lasciarsi assaporare nella sua pienezza. E difatti la ripresa, fino alla conclusione della poesia, non presenta 5 “[Oboedientia], clavis ac signaculum totius spiritualis disciplinae, quae numquam est sine multa humilitate et egregia patientia” (Statuta ordinis cartusiensis, XI, 9). 6 “Fu l’esperienza di Bruno: ‘Quanta utilità e gioia divina apportino la solitudine e il silenzio del deserto a coloro che li amano, lo sanno solo quelli che ne hanno fatto l’esperienza […]’ (A Rodolfo, n. 6)” (I Certosini di Farneta, cit., p. 20).

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più traccia dell’ostinato fonetico-ritmico del “Benedetto”, come se, dopo aver condotto l’anima alla contemplazione di quel Bruno primo motore del paradiso certosino, e del paradiso certosino stesso, evocato nella strofa seguente, la taumaturgica dimetria trocaica di quella parola avesse esaurito la sua funzione. L’abbandono non è improvviso e brusco: pare infatti riverberarsi nella strofa di ripresa non più in posizione iniziale, ma a far da eco in rima (-etti/utti), quasi colpi di coda inerziali del vortice estatico dell’anima alla ricerca di una ricomposizione. Che ritrova infatti nella strofa seguente: la quiete (e)statica del Paradiso, di cui la certosa si rivela essere il correlativo terreno soggettivo ed oggettivo (l’io si è già fatto un po’ da parte, ed il soggetto si allarga ad una dimensione universale - “tutti”, “ogniun”) garantisce il giusto “riposo” del “cor conquiso”. Il tutto soffuso nelle rime ‘dolci’ ed anch’esse ridotte al minimo movimento fonetico (iso/osi). La strofa finale appare un po’ giustapposta, quasi dovuta, per non dire forzata. Dal racconto autodiegetico il tono assume un carattere prescrittivo e si fa più impersonale, quasi freddo, se non fosse per l’immagine del diavolo (l”oste antico”) che si rode sconfitto nella battaglia spirituale vinta attraverso l’esercizio della penitenza e dell’umiltà. Immagine che rievoca l’iconografia popolare dei tabernacoli di strada e che ricongiunge questa stanza finale al registro espressivo vivo e vissuto delle precedenti. Il messaggio morale, altrimenti banale e scontato, ne risulta corroborato, reso tangibile attraverso il racconto dell’esperienza concreta di chi ha gioiosamente intrapreso e percorso quel particolare itinerarium in Deum che non è solo mentis, ma anche corporis.

Testo e contesto Pur in presenza un’esplicita indicazione di paternità (“Io, Bruner”, certosino), l’attribuzione della composizione ad un autore e ad un momento storico è piuttosto ardua. Non ci sono elementi interni al testo che facciano riferimento a tempi o a luoghi. Il solo, debolissimo, elemento che potrebbe ricondurre ad un ambientazione lucchese è il riferimento alle “pianelle”, che echeggiano la suggestione di uno dei miracoli più popolari attribuiti al Volto Santo7. Il laudario nel quale si trova il testo reca in frontespizio una nota manoscritta ed un timbro di proprietà della Biblioteca della Chiesa di Santa Maria Corteorlandini, dal 1580 sede dell’attuale Ordine dei Chierici 7 Sul tema del miracolo del giullare in relazione al Volto Santo cfr. Stefano Martinelli, La leggenda del Volto Santo di Lucca. Nascita e diffusione di un’iconografia politico-devozionale nell’arte europea tra Medioevo ed età moderna, Tesi di laurea in Storia delle arti visive e dello spettacolo, Università degli studi di Pisa, a.a. 2010-’11 e Valeria Bertolucci Pizzorusso, La Vergine e il volto: il miracolo del giullare (secolo XIII), Lucca, Pacini Fazzi, 2009. Codice 602

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Regolari della Madre di Dio fondato dal lucchese (di formazione, ma nativo di Diecimo) San Giovanni Leonardi8. La presenza del volume nella biblioteca dei chierici risale certamente a prima del 17059. Non è improbabile che il volume abbia consumato tutta la sua vita precedente a quella data comunque in ambiente lucchese. Diverse opere dell’autore furono edite a Lucca10; la Biblioteca Governativa conserva tre manoscritti (due sono biografie di Savonarola), uno dei quali autografo11; è inoltre attestata la presenza di Razzi a Lucca in almeno due occasioni (1572 e 1597)12. Al di là delle evidenze documentarie, un ulteriore elemento da tenere in considerazione è legato al contenuto del laudario, su cui più avanti tornerò con maggior dettaglio. Si tratta infatti di una silloge di laudi spirituali, ossia di quel genere che in area toscana, e fiorentina in particolare, ricevette un contributo ideale e concreto da Girolamo Savonarola, alcuni testi del quale sono contenuti nella raccolta13; del resto Razzi fu, come si è visto, suo biografo. La presenza fisica a Lucca di fra’ Girolamo (gennaio-febbraio 1492) e la continuità della sua eredità spirituale nella comunità cittadina dopo la 8 Rispettivamente “Biblioth. S. Maria Curtis Orland.” e “BIBLIOT. S. M. CORT. ORL. MP ΘY”. Ringrazio la Direttrice Monica Maria Angeli per la cortesia e la disponibilità. 9 Compare infatti, insieme ad altre tre opere di Razzi, nella Biblioteca volgare overo indice degli scrittori volgari che sono nella libreria de PP. di S. Maria Corteorlandini raccolti dal P. Giulio Antonio Giannetti anno MDCCV (Lucca, Biblioteca Statale, MS 1764, c. 139v). Allo stato attuale della ricerca non è possibile ricostruire la storia biblioteconomica del volume, né se e quando sia appartenuto ad una biblioteca certosina; ma in tal caso, secondo i Certosini di Farneta, ci sarebbe il relativo ex libris. 10 La vita della reuerenda serua di Dio, la madre suor Caterina de Ricci, monaca del venerabile monastero di S. Vincenzio di Prato…, In Lucca, per Vincentio Busdraghi, 1594; La storia di Raugia. Scritta nuouamente in tre libri…, In Lucca, per Vincentio Busdraghi, 1595; Istoria de gli huomini illustri, cosi nelle prelature, come nelle dottrine, del sacro ordine de gli Predicatori, In Lucca, per Vincentio Busdraghi, 1596; Della corona angelica libro primo…, Lucae, apud Vincentium Busdrag, 1599. E ancora, da repertori bibliografici, La Vita della Beata Caterina da Genova in Lucca il 1594 (Giulio Negri, Istoria degli scrittori fiorentini, in Ferrara, per Bernardino Pomatelli, 1722, p. 498). 11 L’autografo (MS 2619) è il testo sulla base del quale il Busdraghi pubblicò l’Istoria de gli huomini illustri. Gli altri due sono la Vita di fra Ieronimo Savonarola dell’ordine de’ predicatori libbri [sic] tre… (MS 2415), impreziosita da un bellissimo ritratto policromo a matita del predicatore ferrarese, e le Narrazioni della vita e morte del servo di Dio Ieronimo Savonarola […] anno 1590… (MS 2580). I tre manoscritti coincidono con quelli indicati come patrimonio del Convento di San Romano di Lucca nel 1742 (Federigo Vincenzo Di Poggio, Notizie [sic] della libreria de padri domenicani di San Romano di Lucca, in Lucca, presso Filippo Maria Benedini, 1742, pp. 193-195). 12 Serafino Razzi, Diario di viaggio di un ricercatore (1572), «Memorie Domenicane», n.s., 2/1971, pp. 38, 202-209. 13 Cfr. Savonarolan laude, motets, and anthems, edited by Patrick Macey, Madison, A-R Editions, 1999; Mario Ruffini, Savonarola e la musica: dalla lauda al novecento, in La figura de Jerónimo Savonarola y su influencia en España y Europa, al cuidado de D. Weinstein et al., Firenze, Edizioni del Galluzzo per la Fondazione Ezio Franceschini, 2004, pp. 93-130.

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sua morte, alimentata specialmente dalla comunità del convento domenicano di S. Romano, presso il quale dimorò Razzi durante le sue visite, sono ampiamente documentati14: “questi religiosi […] mantenendo vivo anche a Lucca l’insegnamento savonaroliano, del quale si sentivano […] gli autentici continuatori, danno origine proprio in S. Romano a quell’attivo movimento”15 che, “convogliando il desiderio di riforma che circolava nel savonarolismo lucchese, finì per sfociare nella Riforma cattolica”16, anche per il tramite di nuove confraternite e compagnie animate, più o meno direttamente, dal soffio dello spirito del convento domenicano. Tra queste proprio quella Compagnia dei preti riformati, poi Ordine dei Chierici Regolari della Madre di Dio, presso la cui Biblioteca registriamo la presenza del laudario razziano: il suo fondatore Giovanni Leonardi si era affidato in gioventù “alla guida spirituale e alla formazione teologica dei padri domenicani del convento di San Romano a Lucca”17. Ammissibile dunque la possibilità che l’esemplare del laudario abbia una storia lucchese più ampia di quella documentabile, con tutte le cautele di un’hypothesis facilior la vicenda spirituale di Brunero potrebbe essersi dipanata nella vicina Certosa di Farneta. Quanto all’identificazione dell’autore, l’uso di cambiare nome dopo la professione religiosa, attestato fin dall’alto medioevo18, è ampiamente generalizzato presso tutti gli ordini, soprattutto dopo il Concilio tridentino19. In ambito certosino è pratica a tutt’oggi sistematicamente osservata, come esercizio di umiltà anche in connessione col

14 Una ricca documentazione, con esaustiva bibliografia, è offerta dai contributi compendiati in La «cronaca» del convento domenicano di S. Romano di Lucca, a cura di A. Verde O.P., Domenico Corsi, «Memorie Domenicane», n.s., 21/1990. 15 La «cronaca», cit., p. XLIX.

16 Renzo Ristori, Le origini della riforma a Lucca, «Rinascimento», III/2 (1952), p. 281.

17 Piersandro Vanzan S. I., San Giovanni Leonardi, catecheta e riformatore, «La civiltà cattolica», 3787 (5/4/2008), p. 35. Nella prima biografia seicentesca del santo lucchese si può cogliere ancor meglio la filiazione spirituale della congregazione leonardiana dalla catechesi del convento di S. Romano attraverso la mediazione della compagnia ‘satellite’ dei Colombini: “si pose sotto l’obbedienza, e direttione del P. Frà Francesco Bernardini dell’Ordine de’ Predicatori […]. Haveva questi all’hora con altri Religiosi del suo Convento di S. Romano di Lucca istituito una Congregatione d’huomini spirituali, la quale […] si chiamava dal volgo la Compagnia de’ Colombini” (Lodovico Marracci, Vita del Venerabile Padre Giovanni Leonardi lucchese, in Roma, presso il Varese, 1673, pp. 9-10). 18 Christof Rolker, “Man ruft dich mit einem neuen Namen ... Monastische Namenspraktiken im Mittelalter” in Konkurrierende Zugehörigkeit(en): Praktiken der Namengebung im europäischen Vergleich, Konstanz, UVK-Verlagsges, 2011, pp. 195-214. 19 Valentino Macca, Nome di religione in Dizionario degli Istituti di Perfezione, [Milano], Ed. Paoline, 1980, vol. VI, coll. 321-324. Codice 602

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voto di obbedienza20. Di fronte poi ad un nome decisamente coniato su quello del fondatore dell’ordine l’ipotesi che si tratti di un nome di religione è particolarmente cogente. Risulta dunque quasi impossibile individuare storicamente l’autore. Con tutto ciò ho voluto comunque verificare se nella documentazione della certosa lucchese vi fosse traccia di un monaco di quel nome, ma la ricerca non ha avuto riscontro21. Circa l’epoca in cui viene vergata l’ode, le uniche evidenze cronologiche sicure sono di natura post quem: scritta certamente dopo il 1563, anno di edizione del laudario; concepita certamente non prima del 1514, anno di canonizzazione di Bruno, che nel testo è citato in forma canonizzata. La grafia sembra piuttosto sei-settecentesca che cinqueseicentesca.

Cantasi?... Lo scrigno che custodisce questa piccola perla poetica e spirituale è, come detto, una raccolta di laudi spirituali curata dal predicatore domenicano Serafino Razzi. Sulla natura e la storia di questo genere lette-

20 Una norma del 1924 prevede che sia il Priore ad imporre il nuovo nome al candidato (Gabriel Flechard), Commentaire du Statut cartusien de 1924, dit Commentaire de Farneta. La Grande Chartreuse, 1954, vol. II, p. 280). I Certosini esercitano la pratica dell’umiltà anche attraverso l’anonimato, che ne caratterizza il carisma: lo sottolinea già Pietro il Venerabile osservando i costumi dell’ordine appena fondato da Bruno (“ipsi humilitatis virtute… quanto possunt nisu, occultant”, De miraculis, XXIX). La vita certosina si apre con l’abiura del nome secolare e si conclude nel cimitero interno della Certosa, nella terra nuda, all’ombra di una croce senza nome, né di battesimo né di religione. (Cfr. Pietro Boglioni, Miracolo e miracoli nell’agiografia certosina delle origini in San Bruno di Colonia: un eremita tra Oriente e Occidente, a cura di Pietro de Leo, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2004, p. 151). Ogni pubblicazione, saggio, articolo è firmato “un [monaco] certosino”. Approfitto non casualmente di questo spazio marginale della nota a piè di pagina per ringraziare della collaborazione offertami i monaci della Certosa di Farneta, che mi hanno invitato con gentile risolutezza a non segnalare, anche solo per un credit, nessuno di loro in particolare. 21 Riporto quanto mi scrive un monaco certosino: “L’archivio della certosa di Lucca è andato quasi del tutto perduto con le soppressioni napoleoniche e non abbiamo quindi nessun elenco dei monaci della nostra certosa. I testi… da cui potremmo ricavare alcune notizie… non oltrepassano il XVI secolo e spesso si fermano prima. Altri documenti manoscritti per i secoli XVII-XIX sono in fase iniziale di trascrizione…”. Le difficoltà sono ribadite anche nel più documentato studio sulla popolazione monastica della certosa lucchese, relativo ai secoli XIV-XVI: “durante la concitata fase politica che… porta alla soppressione degli ordini religiosi, e fra questi anche del convento dei certosini in Farneta, si è praticamente persa ogni traccia della quasi totalità dell’archivio storico e dell’antica biblioteca dei monaci del convento di Santo Spirito” (Graziano Concioni, Priori, rettori, monaci e conversi nel Monastero Certosino del S. Spirito in Farneta (secc. XIV-XVI), Lucca, Pacini Fazzi, 1994, p. 7). Ringrazio Graziano Concioni per la collaborazione nella ricerca onomastica.

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rario-musicale rimando all’ampia canonica letteratura ben conosciuta22. La silloge razziana esce lo stesso anno in cui si chiude il Concilio di Trento: la coincidenza non è casuale, poiché la lauda spirituale è utilizzata proprio come strumento privilegiato della battaglia controriformista contro l’eresia protestante. Razzi raccoglie e rivitalizza l’esperienza pluridecennale della pratica nota come ‘travestimento spirituale’, consistente nel parafrasare il testo profano di una composizione musicale con un testo di contenuto devoto, sacro, spirituale, spesso ricalcando le rime dell’originale e riprendendone intere parole o sintagmi. Lo scopo è quello di diffondere in modo più capillare e vasto precetti o nozioni di fede, devote, religiose, morali, veicolate, più efficacemente che col semplice sermone (e il predicatore Razzi ben conosce la materia), da musiche appartenenti a generi conosciuti a tutti i livelli sociali, quali il canto carnascialesco e la frottola: un “predicar Cristo mascherato in gergo” 23, dove il gergo non è solo lettera, ma anche musica più immediata e comprensibile, anzi, riconoscibile24. Il laudario di Razzi vuole sopperire all’eventuale caduta in oblio di alcune di queste musiche, che nella fase più antica della storia della lauda spirituale erano semplicemente indicate a margine del testo con la nota dicitura ‘cantasi come’25: l’opera infatti contiene testi e le relative intonazioni26, caratterizzate da impianto polifonico semplice, prevalentemente omoritmico, da due a quattro voci. Nella semipagina inferiore di c. 92v, sotto il testo della “Laude di Au22 Mi associo a quanto scrive Giancarlo Rostirolla: “Per una storia complessiva della lauda e relativa bibliografia si rinvia alle voci curate […] per il DEUMM […] e in The New Grove “Laudi e canti natalizi in una inedita fonte fiorentina del primo Settecento”, in Giancarlo Rostirolla et al., La lauda spirituale tra Cinque e Seicento: poesie e canti devozionali nell’Italia della Controriforma, Roma, IBIMUS, 2001, p. 554.). Invito peraltro alla lettura delle pagine iniziali dello stesso saggio per una sintetica ed efficace esposizione della storia del genere. 23 L’espressione è di Bernardino Ochino (Cesare Cantù, Eretici d’Italia: discorsi storici, II, Torino, Unione tipografico-editrice, 1867, p. 46). 24 Ad esempio l’impiego della lauda per “l’insegnamento del catechismo” è raccomandato dal gesuita Giacomo de Ledesma nella sua Dottrina Christiana (Giancarlo Rostirolla, Laudi e canti religiosi per l’esercizio spirituale della dottrina cristiana al tempo di Roberto Bellarmino, in Giancarlo Rostirolla et al., La lauda spirituale, cit., p. 291). 25 “Ma […] hauendo io […] molti anni desiderato d’ hauere una scelta di laudi, non come quelle che insino a hora sono andate attorno senza musica, ma in miglior forma ordinate; non mi era anco uenuto fatto d’ hauerla, quando intesi pochi mesi sono, che il Rev. Padre Fra Serafino Razzi da Marradi dell’ordine de’ uostri frati Predicatori […] n’ havea […] raccolto un libro delle più belle antiche, e moderne, & aggiunto loro il modo di cantarle, lasciando quella scioccha maniera di dire: Cantasi come la tale, e come la quale” (Filippo Giunti, Alla molto rev. madre Suor Caterina de’ Ricci in Serafino Razzi, Libro primo delle Laudi spirituali, cit.) 26 In realtà spesso alla stessa musica sono associati più testi (ma è situazione ben diversa dal ‘cantasi come’): in tal caso sotto l’ultimo rigo musicale si trovano indicazioni come “Tutti i seguenti terze[t]ti si cantano come di sopra” o “Tutte le seguenti canzoni si cantano come è notato qui sopra” o “Tutte le seguenti si cantano nella medesima aria”. Codice 602

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thore Incerto” Che faralla, che diralla, Brunero ha scritto le sue otto quartine. La musica, a due voci, perfettamente omoritmica (vedi Appendice) si trova sul recto e ad essa è associato quel solo testo. Si tratta di una frottola costituita da 4 strofe ed una ripresa, dallo schema rimico abbastanza semplice (XYy AYBYCCY - tutte piane tranne Y che è tronca), ma con struttura metrica piuttosto articolata: i metri usati sono tre (ottonario, quinario e decasillabo), con diverso andamento ritmico (tetico trocaico negli ottonari, anacrusico nei decasillabi); alcuni versi sono caratterizzati dalla rima al mezzo, identica alla finale, che contribuisce a conferire loro la natura di doppio emistichio27. Il primo ottonario della ripresa risulta un doppio quaternario non solo per la metrica, la rima e l’anafora interna, ma anche per l’identica intonazione musicale. Che faralla, che diralla Quando l’alma al fuoco andrà, Ne uscir potrà? La miseranda, da ogni banda, Cinta dal fuoco la piangerà, Il fuoco ardente, tutto cocente, La nott’e il giorno l’abruscierà All’hor mest’e con dolore, D’ogni suo commesso errore Forse in van si pentirà. Che faralla, che diralla… Prima di vita fussi partita, Troppo haveria felicità Poi che la sorte, li dette morte Troppo si trova in calamità, Cosi l’alma peccatrice, Di chi vive ogn’hor felice Nel fuoco purgherà. Che faralla, che diralla…

Ma peggio è bene, che di tal pene Mai in eterno non uscirà E però quando, verrà pensando L’ardente doglia la crucierà, Crescerà il fuoco importuno Dunque facci bene ogn’uno Mentre giova il ben che fà. Che faralla, che diralla… O peccatore con gran dolore Piangi la tua iniquità Con mente pia chiama Maria, Qual per sua grazia ti esaudirà, Sempre stando ginochione, Contemplando la passione Di Giesù, che in croce stà Che faralla, che diralla…

Di primo acchito verrebbe da pensare che Brunero abbia manoscritto un testo alternativo a quello stampato sulla pagina, da intonare, appunto, secondo l’uso altrove indicato nel laudario, “nella medesima aria”; ma appare subito chiaro che non può essere così. Come infatti il testo di Brunero è molto lontano dal testo della lauda stampata sul piano del contenuto (colorato di spiritualità luminosa il primo, a tinte fosche e ‘gotiche’ il secondo), lo è anche e soprattutto su quello metrico-formale: Che faralla ha la ripresa, le strofe sono di sette versi e polimetriche; inoltre presenta anche rime tronche, che se non creano alcuna differenza metrica, presuppongono un diverso trattamento musicale, laddove la terminazione piana richiede due note invece di una. 27 (x4)X8 Y8 y5 (a5)A10 Y10 (b5)B10 Y10 C8 C8 Y8

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È vero che la lauda post-medievale non ha più la connotazione della forma, ma solo quella del genere, accogliendo una certa varietà di forme musicali e poetiche, anche prive di ritornello28; ma la quasi totalità delle laudi spirituali dalle più antiche alle più tarde adottano pur sempre schemi con ripresa, anche in funzione del loro uso comunicativo teso a creare interazioni attive con un auditorio il più ampio possibile e quindi veicolare più efficacemente e diffusamente la catechesi di cui sono latrici. La forma adottata da Brunero è piuttosto quella dell’inno, come del resto ci si aspetta da un certosino, per il quale la dimensione liturgica è totalizzante29, ed è solo ed esclusivamente in gregoriano30. Viene anzi da chiedersi, in effetti, cosa ci facesse un certosino con un libro di laudi spirituali. Sappiamo che “al di fuori di momenti spirituali ed educativi le devote musiche laudistiche circolavano […] anche come repertorio di svago tra i religiosi, assai di frequente dediti alla prassi musicale per diletto”31. Lo stesso laudario di Razzi adempie anche a tale funzione, con un’ulteriore azione moralizzatrice, tesa ad indurre “sacerdoti, suore etc. ad abbandonare i repertori profani, su testo spesso amoroso, a favore dell’esecuzione di laudi e di canzonette, rese spirituali grazie a ‘travestimenti’ e contrafactio”32: Nei tempi, che fanno loro honeste recreationi […] io per me resto meravigliato, che molti, i quali hanno in governo Monasteri, e persone dedicate al culto divino, e tolte del tutto al mondo […] comportino, che […] si cantino tutte le più lascive sorti di Musiche; e bene spesso canzoni, che sarebbono meno, che honeste anco in una brigata di persone secolari, e interamente del mondo33.

L’ordine certosino non prevede che rari momenti di vita cenobitica, 28 Ad esempio nel laudario di Razzi troviamo “laudi di struttura letteraria e melica varia, con riprese o senza, capitoli negli usuali tristici, salmi latini o volgarizzati, bordoni e sequenze latine o tradotte, antifone (in versificazione volgare) e litanie, strofe di canzone petrarchesca, […] preghiere per novizi, responsori […] e lamentazioni” (Giuseppe Vecchi, Premessa a Serafino Razzi, Libro primo delle laudi spirituali, rist. anast., Bologna, Forni, 1969, pp. [2-3]. 29 “Tota vita nostra quasi una efficitur liturgia” (Statuta ordinis cartusiensis, XXI, 15).

30 “Liturgia conventualis semper cantatur. Patrimonii autem Ordinis antiqua et stabilis pars est cantus gregorianus noster” (Statuta ordinis cartusiensis, XXI, 10). 31 Giancarlo Rostirolla, Laudi e canti natalizi, cit., p. 521.

32 Ibid. Testimonianza colorita e vivace dell’abuso di ricreazioni musicali all’interno di monasteri, in questo caso di ordini femminili nella Genova nel XVII sec., dove “si cantarono canzoni, che non sembravano molto adatte alle caste orecchie delle vergini monache”, di relative denunce all’autorità ecclesiastica e provvedimenti restrittivi ce la offre, con dovizia di documentazione, lo storico camaiorese Michele Rosi (Le monache nella vita genovese dal secolo XV al XVII, «Atti della Società Ligure di Storia Patria», vol. XXVII (1895)). 33 Filippo Giunti, Alla molto rev. madre, cit. Codice 602

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interamente dedicati alla liturgia o all’ascolto in silenzio di letture sacre. Il solo momento ricreativo è ancora oggi lo spatiamentum, una passeggiata rurale di antichissima tradizione, che i monaci praticano settimanalmente in forma breve, in forma più lunga annualmente34. Ma quandanche l’esercizio di una ricreazione musicale fosse possibile passeggiando a piedi in campagna, collina o montagna, un più effettivo impedimento è costituito dal fatto che l’unica forma di musica ammessa in certosa è il canto liturgico: banditi gli strumenti musicali, organo compreso, bandita anche la polifonia35. Va infine ricordato che se la lauda spirituale, oltre che quella di intrattenimento devoto per i religiosi, ha la funzione principale di strumento per la diffusione dell’ortodossia e della morale cattolica, l’ordine certosino non coltiva il carisma dell’apostolato. Una nuova luce su “un atteggiamento meno intransigente nei confronti della polifonia […] in alcune fondazioni certosine, soprattutto in epoca tarda”36, proviene da un codice di Regole di canto fermo, e cantilene diverse per uso de’ monaci certosini (Bologna, Civico Museo Bibliografico Musicale, ms. E.52). Il manoscritto, databile fra la fine del XVII e l’inizio del XVIII sec., contiene al suo interno un’inaspettata sorpresa: Il gruppo di canti più significativo, e decisamente singolare in ambito certosino, è costituito dalle venti laude e canzonette devote in volgare, adespote e anepigrafe. Dato il taglio manualistico del ms. E.52 e la sua funzione didattica, si tratta di canti che probabilmente erano destinati all’educazione musicale dei novizi, quelli che nella parte teorica sono definiti “principianti”, anche perché riguardano pratiche devozionali che le Consuetudines Carthusiae non prevedevano affatto per i monaci professi37.

In quest’ottica l’utilizzo del repertorio laudistico sarebbe dunque non 34 È lo stesso fondatore a suggerirlo, poiché l’animo affaticato dal rigore della vita certosina “agri pulchritudine relevatur ac respirat”. Lo spatiamentum e le sue modalità sono minuziosamente descritte negli Statuta ordinis cartusiensis, XXII, da cui è tratto il passo citato. 35 Il Capitolo generale del 1326 così precetta: “Ordinamus ut nullum instrumentum musicum aut sonorum cuiuscumque generis etiam monochordium in nostro Ordine de caetero habeatur, et nulla persona Ordinis nostri habeatur” (Charles Le Couteulx, Annales ordinis cartusiensis ab anno 1084 ad annum 1429, V, Monstrolii, Typis Cartusiae S. Mariae de Pratis, 1887-1891, p. 202). Circa la polifonia: “Nec immisceant se discantus, cum illa scientia sit peregrina ab Ordine et aliena, inexemplaris et curiosa. Instrumenta musica librosque discantus seu cantus figurati interdicimus universis” (Ordinarium cartusiense, Salzburg, Institut für Anglistik und Amerikanistik Universität Salzburg, 1999, I, XVII, 1). 36 Cristina Bernardi, Testimonianze liturgico-musicali delle certose venete: antifonari dei secoli XVXVII, Tesi di dottorato in Storia e Critica dei Beni artistici, musicali e dello spettacolo, Università degli studi di Padova, a.a. 2013-’14, p. 22. 37 Antonio Lovato, Teoria e prassi del canto certosino. Il manoscritto E.52 del Civico Museo Bibliografico Musicale di Bologna, in Sine musica nulla disciplina...: studi in onore di Giulio Cattin, a cura di F. Bernabei e A. Lovato, Padova, Il Poligrafo, 2006, p. 246.

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solo ammesso, ma anzi accolto e promosso ad una funzione formativa nel percorso del postulante e del novizio, almeno a Bologna o, comunque, nella provincia Tusciae dei certosini38.

… come? Adottando nuovamente il protocollo del cattivo ricercatore, e cioè quello dell’ipotesi più semplice, anche in virtù del rilevato impegno poetico di Brunero mirato, più che al rispetto, alla costruzione di una forma, condotta attraverso l’uso di architetture retoriche, potremmo concludere che si tratti di un testo puramente letterario, un’odicella spirituale annotata in uno spazio bianco casuale (nella circostanza un libro di laudi) per una sorta di anacronistico rigurgito di horror vacui. Se invece vogliamo tentare la strada dell’ipotesi che Brunero abbia voluto scrivere a tutti gli effetti una lauda quali quelle che “si usano cantare”, come si legge nel titolo del volume che la ospita, non mancano elementi che incoraggiano un pur cauto ottimismo. L’incipit sembra coniato su quello di una lauda spirituale musicata da Animuccia e pubblicata nello stesso anno del laudario di Razzi, Benedetto sia lo giorno39; anche la struttura metrica è simile: inizia infatti con due quartine di ottonari, ma diverso è lo schema delle rime (ABAB); le seconde due quartine poi sono costituite da due distici ottonari e due settenari ciascuna, con differente trattamento musicale. Resta comunque la suggestione dell’eco di un ipotetico incontro, libresco o d’ascolto, tra la lauda di Animuccia ed il nostro certosino. Volendo restringere il campo e limitarsi all’ipotesi che il solo repertorio conosciuto da Brunero sia quello contenuto nel laudario di Razzi, vi sono comunque ancora spunti che alimentano la tesi che il testo sia di natura affine a quella al suo contenitore. Se, come si è visto, la struttura del manoscritto non è sostituibile a quella della contestuale Che faralla, che diralla, il laudario annovera alla carta 41v una lauda che ha la stessa forma metrica e lo stesso schema rimico: si tratta della “Lauda antichissima d’Auttore [sic] incerto” O Maria diana stella. In comune, oltre alla struttura in quartine di ottonari a rima ABBA, hanno anche l’anafora strofica (“O Maria”) che qui ritorna dalla prima all’ultima stanza. La lauda è seguita da altre due, assai più lunghe (12 e 21 strofe), con identica struttura poetica, da cantarsi sulla stessa musica (a 4 voci, c. 40v-41r): una di Niccolò Fabbroni, “per la notte di Natale” (Deh uscite fuor dal letto), ed una di Serafino Razzi (Io ti lasso o stolto mondo), molto più suggestiva in quanto scritta “per una fanciulla che va alla 38 Ivi, p. 243.

39 Giovanni Animuccia, Il primo libro delle laudi […] composte per consolatione et a requisitione di molte persone, spirituali, et devote,tanto religiosi quanto secolari, Roma, Valerio Dorico, 1563. Codice 602

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Religione”, cioè che si fa monaca. Esattamente come Brunero40. Volendo infine ridurre ulteriormente l’angolazione dell’indagine al solo contesto della pagina su cui è vergata la poesia manoscritta, la musica le che farebbe da supporto, inutilizzabile nella sua interezza, si presta comunque ad un utilizzo parziale, e cioè per quelle sezioni destinate ad accompagnare i sistemi ottonari. Brunero avrebbe insomma scelto come modello poetico Che faralla, che diralla o per l’efficace intonazione ritmica ottonaria della ripresa, sulla quale esemplare tutta la sua lauda, o, perché no, semplicemente perché gli piaceva la musica, che forse conosceva anche solo a orecchio, magari parzialmente, adattandola al testo ed invitando a fare altrettanto. L’adattamento comporta l’utilizzo della prima e della terza sezione musicale a supporto del primo e del secondo distico, ed il ricorso all’iterazione caudale del verso o di una parte di esso per consentire la corrispondenza fra il testo e la melodia; procedimento non raro nella pratica musicale, e che troviamo, ad esempio, proprio nella lauda di apertura della raccolta (Lodate fanciulletti in suono, & canto, c. 1r)41. Mette conto a questo punto un accenno alla scrittura musicale di Che faralla, che diralla nella stampa razziana. Un’autorevole trascrizione di Francesco Luisi si trova in appendice all’edizione dell’XI libro di frottole stampate da Petrucci nel 151442. La lauda è infatti il ‘travestimento spirituale’ di una frottola attribuibile a Michele Pesenti o a Bartolomeo Tromboncino e che godette di particolare notorietà e fortuna editoriale sia come brano vocale che come danza strumentale43. La rivisitazione nel laudario non è solo la parafrasi spirituale del testo, ma interviene decisamente anche sulla musica: la polifonia passa da quattro a due voci, con l’adozione di un tenor “completamente riadattato” e spicca soprattutto la “diversa impostazione ritmica (in tempus imperfectum anziché perfectum)”44. Il risultato è, apparentemente, una versione nella quale il 40 Vedi in appendice la realizzazione secondo la prassi del “cantasi come”. Sulla stessa tematica è un’altra lauda di Razzi (Vo gir a l’hermo p[er] farmi Romito, c. 112v), una delle poche con indicazione di tempo ternaria. 41 Incipit del canto:

42 Ottaviano Petrucci, Frottole, Libro undecimo, Fossombrone 1514, edizione critica di Francesco Luisi, edizione dei testi poetici a cura di Giovanni Zanovello, Padova, CLEUP, 1997, p. 282. 43 Ottaviano Petrucci, Frottole, Libro undecimo, cit., p. 43-44; una più ampia trattazione in Francesco Luisi, La musica vocale nel Rinascimento: Studi sulla musica vocale profana in Italia nei secoli XV e XVI: del cantar a libro ... o sulla viola, Torino, ERI, 1977, pp. 282-289. 44 Ottaviano Petrucci, Frottole, Libro undecimo, cit., p. 83.

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ritmo, la melodia e la prosodia testuale della sezione più significativa, la ripresa, sono fra loro in rapporto assolutamente privo di senso:

Che questo esito sia stato determinato dalla ricerca di una “compostezza processionale del ritmo”45 o da una scarsa competenza musicale di chi ha curato le trascrizioni per l’edizione di Razzi e che ritroviamo in altre laudi che presentano problematiche musicali non dissimili46, il fatto è che in questi termini la lauda è pressoché ineseguibile, a fronte della frottola originale perfettamente coerente. Volendo proporre un’ipotesi di realizzazione secondo prassi del ‘cantasi come’ di Benedetto sia quel giorno sulla base di un utilizzo parziale della musica di Che faralla, che diralla, ho dunque proceduto ad una rilettura del ritmo mantenendo i valori mensurali, ma privilegiando il fraseggio e l’andamento prosodico posto dal testo razziano: il risultato della ricostruzione è in appendice47.

Coincidentia oppositorum? Una più intrigante coincidenza correlazionerebbe ancor più direttamente Benedetto sia quel giorno con Che faralla, che diralla. È questa l’ipotesi, che non a caso formulo per ultima, che giustificherebbe la scelta di Brunero di scrivere la storia della sua scelta di vita spirituale proprio in questo punto. Ma non si tratta di una relazione col travestimento spirituale, la cui lontananza sia contenutistica che strutturale è stata sottolineata, ma proprio con la frottola antica, qui naturalmente assente, ma, ipoteticamente, ancora nota allo scrivente proprio in virtù della segnalata e sottolineata popolarità. La frottola infatti narra anch’essa di una monacazione, ma una monacazione profanamente minacciata e poi attuata da un pretendente come 45 Claudio Gallico, Un canzoniere musicale italiano del cinquecento (Bologna. Conservatorio di musica «G.B. Martini» Ms. Q. 21), Firenze, Olschki, 1961, p. 24. La ricerca di un incessus processionale sarebbe legata non solo ad una pratica devozionale, ma anche all’originale natura della lauda spirituale, in special modo fiorentina, spesso travestimento di canti carnascialeschi, che richiamavano le sfilate di carri allegorici. 46 Supposizione, questa, che ha trovato l’autorevole suffragio di Francesco Luisi nel corso di un’informale conversazione. 47 Ringrazio Marco Berrini per i consigli e la preziosa collaborazione nell’operazione di rilettura. Codice 602

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ripicca e rimedio alla delusione a fronte del rifiuto dell’amata, non senza la malcelata speranza che alla stessa sorte vada incontro la crudele e sdegnosa nemica d’amore: Che faralla, che diralla, / quando la saperà / che mi sia fra’? O quante fiate / Di farmi frate / In sua presentia gli l’ho giurà: / ma lei mi ridea / e nol credea / che mi dovesse mai farmi frà. / Anzi ognhor si lamentava / Con dir che la bertigiava, / e pur mi son fatto frà! […] Quando ho ben visto / che far acquisto / di lei non posso, son fatto frà; / e fraticello / discalciarello, / chè cossi avea deliberà, / dove in una picciol cella / faccio vita poverella, / observando castità […] La poverella / senza favella / la notte e ‘l giorno se ne starà, / e scapigliata / tutta affannata, / el strano caso lei piangerà: / forsi poi che ‘l suo pensiero / in un qualche monasterio / a la fin la condurrà.

Si tratterebbe, per così dire, di un meta-travestimento, mirato a restituire un senso profondo, reale, autentico e morale ad una condizione perversa e profanata, distorta in funzione comica (come in quell’illustre antecedente e capostipite del topos che è il dialogo di Cielo d’Alcamo): operazione che si può cogliere solo se si sappia fare il confronto fra il testo moralizzato e quello profano, conosciuto solo al di fuori del contesto libresco. Al di là dell’effettiva consistenza di questa ipotesi, che retrodaterebbe la composizione del testo di Brunero in funzione della persistenza della circolazione o del ricordo della frottola petrucciana, difficilmente pensabile oltre i confini del XVII secolo, il complesso delle informazioni e delle supposizioni suggeriscono un tentativo di ricostruzione del quadro storico e del contesto. Sappiamo che il laudario si trovava presso la Biblioteca di S. Maria in Corteorlandini nel 1705; che la Biblioteca Governativa che attualmente custodisce il volume si trova proprio nei locali di quell’antico convento dal 1877; e che da tale data “la originaria ‘Libreria’ dell’Ordine dei Chierici regolari di circa 13.000 volumi è raccolta nello splendido Salone secentesco detto di Santa Maria nera, situato all’ultimo piano dell’edificio”48. Difficilmente in questo lasso di tempo il volume potrebbe aver avuto una fase della propria vita bibliotecaria al di fuori, specialmente in una biblioteca certosina, vista anche l’assenza di un’indicazione di proprietà. Non è del tutto infondata l’ipotesi che il laudario potesse trovarsi presso la Biblioteca dei Chierici già in precedenza, anche in questo caso, con argomentazione contraria, in virtù della storia e della specificità dell’ordine fondato da San Giovanni Leonardi. Le otto quartine manoscritte sarebbero dunque opera di un innomi48 Informazioni tratte da: http://www.librari.beniculturali.it.

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nato (poi Brunero), vicino o interno alla Compagnia e poi all’ordine dei Chierici regolari, a conclusione di un percorso interiore fatto prima di una generica ricerca assoluta e totalizzante di Dio, poi di un concreto tirocino attraverso il postulandato e il noviziato presso l’ordine che più di tutti assicura e favorisce tale ricerca. Forse formato nel suo apprendistato anche tramite l’esercizio del genere spirituale della lauda, propedeutico al canto liturgico monodico, come i confratelli della certosa bolognese, giunto alla soglia della professione solenne Brunero avrebbe voluto lasciare l’eredità della sua testimonianza con un ultimo canto proprio di quel genere così mondanamente vicino alla spiritualità dei Chierici regolari, prima di immergersi nella certosina dimensione del “grande silenzio”.

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Fig. 1: Serafino Razzi, Che faralla, che diralla (Libro primo delle Laudi spirituali, c. 92r)

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Fig. 2: Benedetto sia quel giorno [‘cantasi come’ O Maria diana stella] Codice 602

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Benedetto sia quel giorno

Cantus

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Fig. 3: Benedetto sia quel giorno [‘cantasi come’ Che faralla, che diralla]

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Tesi di laurea



Il Concertino per Pianoforte di Leoš Janáček: una favola da camera

di Serafino Carli

Radici biografiche A fine ’700 in Boemia è già attivo il movimento di Rinascita Nazionale con la volontà di portare alla luce i valori della storia e della cultura locale. A metà ’800, lo stato d’insofferenza nei confronti della dominazione asburgica determina la formazione di circoli patriottici legati ai nascenti moti indipendentisti, in un clima di agitazione e rivolte popolari. Leoš Janáček nasce il 3 Luglio 1854 a Hukvaldy, un piccolo villaggio a nord-est della Moravia. Nel 1865 il padre lo affida a Pavel Křížkovský1 (1820-85), un compositore ecclesiastico i cui insegnamenti sottolineano il ruolo determinante in ciascun individuo delle radici culturali, intese come […] una ricchezza interiore, che ognuno aveva facoltà di rielaborare secondo la propria ed unica espressione individuale [Beckerman, 1994:3].

Parallelamente agli studi musicali presso il convento degli Agostiniani di Brno, Janáček frequenta l’Istituto Tecnico Tedesco. La capitale morava era infatti una città bilingue con il cèco rilegato a dialetto ed il tedesco lingua ufficiale. Štědroň [1976:284] considera il processo di emancipazione della lingua cèca come il più importante fattore di unità durante i moti per l’indipendenza mentre Wiskemann [1938:110,217] sottolinea la profondità della spaccatura sociale tra tedeschi e cèchi: classe dominante e lavoratori; Helfert [1939:67] precisa: Janáček portava nella sua coscienza già da Hukvaldy una vaga idea nazionale […] dalla consapevolezza dell’oppressione che allora vedeva quando paragonava la dura vita della sua famiglia con quella agiata degli impiegati tedeschi. 1 Pulcini [1993:46] nota che Křížkovský è un autore di fondamentale importanza per la musica cèca, insieme a Matouš Klácel (1808-82) e František Sušil (1804-68); essi utilizzarono il canto popolare come materiale compositivo principalmente per la musica polifonica vocale. Codice 602

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Concatenazione degli accordi, melodie parlate e teoria del ritmo Nel 1874 entra nella classe di František Skuherský2 (1830-1892) presso la Scuola per Organisti di Praga. Il suo esame di ammissione riassume la sua stessa tecnica musicale, tendente a superare polemicamente la tradizione con la stessa logica con cui la tradizione si alimenta [Pulcini 1993:50]. Il signore professore Blazek: - Come si risolve un accordo di settima di dominante? - Silenzio. Il Signor professore Blazek: - La settima scende un gradino, la terza sale, la quinta va in su, la fondamentale viene giù. - Nella mia mente è passato (Es. 1):

Es. 1

E la settima non è scesa, la quinta non è salita e la fondamentale non è venuta giù. Da quel momento ho iniziato a riflettere sui misteri del concatenamento accordale [Vesely, 1924:68].

Pulcini [1993:37] nota come Janáček stesse maturando una teoria musicale scritta negli spazi tonali lasciati liberi da una tradizione distratta

cercando conferma alle sue idee di libero arbitrio armonico negli studi filosofici3 di Herbart4 esposti da Josef Durdik (1837-1920), primo trattatista5 cèco appartenente alla corrente herbartiana. Herbart individua nella contraddizione l’elemento che rende incomprensibile la realtà: un oggetto dovrebbe essere un’unità, tuttavia incappiamo in un’entità molteplice non appena tentiamo di descriverlo. La ricerca della non-contraddizione 2 Fermamente convinto della insufficienza del sistema diatonico, teorizza l’utilizzo dei dodici semitoni come base di un nuovo sistema armonico. Nei suoi trattati sostiene che ogni intervallo e ogni accordo possono trovarsi su qualsiasi grado di qualsiasi scala, e che è possibile modulare immediatamente da una tonalità all’altra. 3 È attratto dallo studio di Helmoltz sulla percezione delle dissonanze: studiando proprio le osservazioni acustiche di quest’ultimo potrà formulare le sue teorie circa una libertà accordale in cui sensibili e cadenze vengono soppresse. 4 Johann Herbart (1776-1841) fu un importante filosofo tedesco. I suoi scritti spaziano dalla filosofia, all’estetica, dalla psicologia alla pedagogia. Studiò a Jena con Fichte assumendo, ad appena trentatré anni, la prestigiosa cattedra di filosofia a Königsberg, la stessa che aveva ottenuto Kant. 5

Il primo teorico tedesco che si impegna a divulgare l’estetica di Herbart è Robert Zimmermann (1824-1898). Zimmermann si prefissa di dimostrare come solo l’interrelazione tra le parti, e non una sola parte, possa costituire un insieme piacevole. A questo proposito Beckermann [1994:18] pone un esempio: «un punto nello spazio, o anche due, non possono costituire un vera impressione. Tuttavia l’esistenza di almeno due punti, mette in luce come l’impressione di piacevolezza sia connessa all’ipotetica relazione tra questi.»

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Il Concertino per Pianoforte di Leoš Janáček: una favola da camera

mira a risolvere gli oggetti nei loro più piccoli attributi: oggettivi, fissi ed immutabili. Durdik ne deduce che, postulando la bellezza dell’oggetto come necessariamente composta, sia la tipologia di relazione tra i costituenti a definire il grado di piacevolezza estetica: L’arte ha il compito di creare sistemi costituiti da semplici relazioni, intrecciate ed integrate, a comporre la totalità, o principio della composizione; occhio e orecchio sono deputati a comprendere l’armoniosità di suoni e colori, ma è il pensiero ad occuparsi dell’articolarsi delle forme» [Durdik, 1874:25].

Beckermann [1994:21] riporta che nella copia dell’Estetica Generale di Durdik posseduta da Janáček è annotato “…parte della parte, parte del tutto. Corretto!” accanto a questa riflessione: l’obiettivo dell’estetica è comprendere la condizione di piacere in quanto forma, i cui componenti hanno definite relazioni l’uno con l’altro, una parte con l’altra parte, e la parte con il tutto» [Durdik, 1874:21].

L’idea di un sistema costruito su unità singole intrecciate ed integrate diviene decisiva nella pratica compositiva di Janáček. Il disgregamento di elementi eterogenei, assieme all’influenza delle teorie di Skuherský, saranno le basi della teoria della connessione accordale esposta nel trattato Sulla composizione degli accordi ed il loro concatenamento6 (Praga, 1897), dove il movimento accordale è classificato secondo la sensazione determinata dalla dissonanza percepita7 nel passaggio tra due accordi, definita relazione antecedente8. Per esemplificare questo concetto9 Janáček conia tre termini: spletna (il caos risultante la sovrapposizione degli elementi), pacit (la dissolvenza del primo elemento) e pocit (la risoluzione del processo).

6 Tale trattato conosce tre stesure. La prima Sulla composizione degli accordi ed il loro concatenamento (1897) mira a chiarire ed illustrare le novità in campo armonico, mentre nella seconda, Teoria completa dell’armonia (1911), confluiscono anche le idee relative alla melodia ed il ritmo. La terza edizione, con il medesimo titolo, Teoria completa dell’armonia (1920), non comporta differenze contenutistiche bensì strutturali, in quanto sarebbe dovuto divenire un manuale didattico ad uso dei conservatori. 7 Il concetto di percezione della dissonanza lo si deve però al trattato Sulla percezioni dei suoni come fondamento della teoria musicale di Helmoltz. Janáček si concentrò su questo testo intorno al 1878, cercando di sistematizzare e generalizzare le intuizioni del fisiologo tedesco riguardo la relazione tra gli stimoli e le sensazioni percepite.

8 Janáček giustifica anche la relazione antecedente riferendo i dati di Helmoltz, secondo il quale continuiamo a percepire per una frazione di secondo la frequenza del primo suono durante l’esecuzione del secondo, a causa della vibrazione indotta per simpatia ad alcune parti del labirinto. 9 Il concetto di relazione antecedente è discusso nel terzo capitolo del trattato di Beckermann [1994:30]. Codice 602

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Beckermann [1994:65] esemplifica così le categorie di connessioni10:

Es. 2: Conciliazione (movimento ad un intervallo maggiormente consonante)

Es. 3: Disturbo (movimento ad un intervallo maggiormente dissonante)

Es. 4: Amplificazione (assenza di movimento)

Es. 5: Cambio (movimento in cui il livello di consonanza non cambia)

Sul finire degli anni Ottanta, sostenuto dall’idea di valorizzare le radici della musica popolare, Janáček intraprende l’arrangiamento dei canti moravi; si stabilizza su uno stile basato sulla citazione diretta, vicino alla forma già impiegata da Křížkovský. Realizza inoltre numerose raccolte di canti11 con il folclorista12 František Bartoš (1837-1906). Janáček annota frammenti melodici particolarmente espressivi già in queste raccolte [Helfert 1928: 24–25]; lo studio del repertorio popolare lo convince della centralità del linguaggio parlato tanto da scrivere nella prefazione alla Nuova raccolta di canti moravi (1901): La prova che i canti popolari hanno origine dalle parole risiede nel carattere peculiare del loro ritmo. Non vi è alcuna possibilità di dividerli in battute. Il ritmo dei canti popolari può essere ordinato solo sulla 10 Beckermann [1994] traduce dal cèco con: conciliation, disturbance, amplification, change. È interessante notare come Kulka [1990:53] traduca i medesimi termini: conciliation, excitement, intensification, substitution. 11 Già nel 1889 viene pubblicato il suo studio Sull’aspetto musicale dei canti popolari moravi nell’introduzione all’edizione di Bartoš della Nuova raccolta di canti popolari moravi. Ancora nel 1890 pubblica la raccolta Un mazzo di canti popolari moravi, che gli permette di partecipare alla Mostra Nazionale di Praga nel 1891. Nel 1898 esce la raccolta La poesia di Hukvaldy nei canti e nel 1899, assieme a Bartoš, darà alle stampe la prima parte della Nuova raccolta di canti popolari moravi. 12 Janáček dissente dalla visione di quest’ultimo riguardo la vita contadina: tutto troppo bello e senza alcun conflitto [Vasek 1930:210]. L’occhio realistico di Janáček vede nel canto innanzitutto la vitalità creativa del popolo, afflitto però da miseria e sofferenza.

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Il Concertino per Pianoforte di Leoš Janáček: una favola da camera

parola. Sarebbe impossibile comporre una melodia e aggiungervi un testo. […] il ritmo inconsueto rende ciò assolutamente irrealizzabile. Ogni tempo dei nostri canti è logico e convincente […] se si toglie una sola nota alla melodia, essa cessa di avere senso divenendo incompleta. […] non esiste una nota che non sia melodicamente indispensabile. Allorché combinati con il movimento, essi divengono danza.

La ricchezza musicale di questo materiale lo spinge a credere di poter scoprire nel linguaggio una sorta di diagramma emotivo [Pulcini, 1993:88] e addirittura di riuscire a pubblicare un dizionario ragionato delle formule melodiche della parlata cèca. Janáček considerava le melodie parlate come la massima concentrazione, tensione e contrazione del mondo espressivo, emozionale e sentimentale umano; scrive [Cernohorska, 1957:29-31]: Queste melodie sono così profondamente collegate, così fortemente incollate alle loro motivazioni e alle loro cause, che se tu le sollevi e le scopri, la tua anima si metterà a fremere all’unisono, come in una corrente d’aria, esalando la stessa gioia o lo stesso dolore. Esse costituiscono una parola d’ordine che ti permette di entrare nel fondo di un’altra anima. […] esse si introducono con violenza nel tuo spirito, perché sono le urla dell’anima. […] L’essenziale in un’opera è creare una melodia parlata dietro la quale appaia, come per miracolo, un essere umano colto in un momento reale della sua vita.

Creare dunque, non trascrivere, una arcata melodica dietro la quale esista un frammento del reale. La ricerca folclorica induce anche una profonda riflessione sulla concezione di ritmo. Beckermann [1994:49] sottolinea come talvolta il ritmo divenga tema, all’interno di un sistema in cui la tradizionale organizzazione ritmica è rielaborata in una disposizione a strati (Es. 6) tratta da Beckermann [1994:22]. La teoria ritmica di Janáček, denominata dal compositore scasovani, si basa sulla progressiva scomposizione delle durate al fine di giungere all’unità minima di tempo, scasovka.

Es. 6

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Sta profilandosi lo stile personale di Janáček, “caratterizzato dall’appropriazione di intervalli espressivi e primordiali impulsi ritmici” [Kundera 1981], concentrato sul motivo ed elaborato in forme monotematiche; le ripetizioni sono organizzate dal cambiamento di colore e timbro, in un perpetuo e dinamico rondò aforistico. A riguardo Pulcini [1993:35] scrive: La sua musica, pur così complessa e multiforme, non è mai sfiorata da tentazioni astrattistiche, ma riprende umilmente l’insuperata volontà di fotografare frammenti del mondo e moti di umana interiorità, renderli temi riconoscibili, per giustapporli e replicarli in forma di linguaggio.

Beckermann [1994:71] conclude: Con il suo sistema di semplici relazioni, intraprese per mezzo della anche più insignificante connessione accordale, il panorama teorico di Janáček conserva la sua atomistica, herbartiana cornice: dove non solo è necessaria la visione del sistema completo a creare il prodotto estetico secernente bellezza, ma in cui ogni parte si mantiene animata da una propria insostituibile, unica qualità.

In una lettera al critico Jan Mikota (18 aprile 1926) lo stesso Janáček ribadirà: Ho sostenuto la libertà degli accordi ben prima di Debussy e non ho certo bisogno dell’impressionismo francese» [Štědroň 1976:186].

Riflessioni su natura e vecchiaia Nel 1902 Janáček pubblica On the overgrown Path13, una raccolta di composizioni per pianoforte in cui sono racchiusi ricordi di immagini ed eventi; la scrittura è limpida e delicata, assolutamente inedita nell’uso dell’armonia, nel fraseggio e nella metrica irregolare. Primo tentativo di miniaturizzare la forma, i brevi motivi sono arricchiti da elementi derivati dallo studio sulle melodie parlate e dei suoni della natura. Nel 1910 concepisce la Fiaba per pianoforte e violoncello, ispirata al poema epico di Vasily Zhukovsky: La Fiaba dello Zar Berendej. L’elaborazione finale verrà stampata solo nel 1923 con una introduzione: C’era una volta uno zar di nome Berendej. Aveva una lunga barba, che gli arrivava alle ginocchia. Sebbene fosse sposato da tre anni e vivesse con la moglie in perfetta armonia, Dio non aveva ancora dato loro figli. Ciò lo affliggeva terribilmente. Una mattina egli disse addio alla sua consorte, e iniziò un viaggio lungo otto mesi. 13 La traduzione suggerita da Pulcini [1993] è Sul sentiero erboso; considerando tuttavia il titolo in cèco, Po zarostlém chodníčku, emerge che l’accezione di erboso è limitante in quanto, più precisamente, dovrebbe intendersi invaso dalla vegetazione oppure ricoperto da rovi, che rende un altro tipo di immagine: un sentiero che non viene percorso da molto tempo.

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Lo stile è sintetico, a tratti pantomimico; Janáček approfondisce le potenzialità della scrittura cameristica, dove attese, esitazioni e vuoti sonori, improvvise aperture verso apici drammatici o festosi sono sostenuti da un’armonia fluttuante. Nel 1912 presenta una seconda raccolta con il titolo Nella nebbia. I brani non portano titoli esplicativi ed il linguaggio musicale, nuovo rispetto alle opere pianistiche precedenti, è contraddistinto da bruschi cambiamenti di tempo, spezzature armoniche e frammenti melodici a costituire forme libere e rapsodiche. Pulcini [1993:152] sottolinea come la nebbia non sia un’occasione per proporre atmosfere musicali, ma un simbolo del dramma di non conoscere la lontananza dalle proprie mete. La rappresentazione di Jenůfa14 alla Hofoper di Vienna (16 febbraio 1918) segna l’inizio del successo internazionale di Janáček che, incoraggiato dai consensi all’estero e dal trionfo in patria, negli ultimi cinque anni della sua vita porta a termine le più famose pagine strumentali e le sue ultime grandi opere. Sull’onda delle celebrazioni gli è assegnata una laurea honoris causa in Filosofia all’Università Masaryk di Brno; nel ringraziare le autorità confessa che non avrebbe mai immaginato di giungere ad un tale onore: «neppure in un sogno!» [Vasek 1930:152]. Nel 1920 si appassiona ad un romanzo dello scrittore anarcoide Rudolf Tesnóhlídek intitolato La volpe astuta15 tanto da decidere di comporci un’opera. In data 11 marzo 1923 scrive a Max Brod: [...] la mia volpe, sebbene rubi, sgozzi... è capace anche di sentimenti nobili. [...] si innamora veramente.

Janáček tratteggia una fiaba filosofica sulla vita e sulla morte, la natura e la vecchiaia, dove la cornice del bosco, con i suoi piccoli rumori e i suoi ovattati echi lontani, è il teatro delle vicende di una volpe, abitualmente identificata nella malvagia scaltrezza16 e stavolta simbolo di selvaggia libertà per un anziano e rassegnato guardaboschi. La tematica del ricordo che offusca ed indebolisce il presente è preponderante e legata intimamente al tema della natura: dove passato e presente si alternano senza generare conflitto. 14 Il musicista moravo vi lavorò nel decennio 1894-1903. La lunga genesi è giustificata dall’incubazione di un linguaggio nuovo e originale, ricercato tra continui dubbi e ripensamenti. Lo stile musicale di Jenůfa è il risultato dei lunghi studi dedicati alla inflessione della parlata cèca. 15 La versione originale era costituita da una serie di disegni di Stanislav Lolek che Rudolf Tesnóhlídek aveva corredato con il testo. Il racconto era comico e malizioso, non privo di venature erotiche e ricco di argute espressioni dialettali morave. 16 La tradizione slava ha spesso narrato di subdole volpi fameliche. Una delle Antiche fiabe russe raccolte da Aleksandr Afanasjev s’intitola La volpe confessore e racconta di una volpe che, per far scendere un gallo da un albero e mangiarselo, lo convince a confessarsi per non morire in peccato a causa del suo concubinaggio con numerose galline. Codice 602

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La natura lo incanta: [...] annotava i versi degli animali, i mormorii dei boschi, dei ruscelli, dei temporali. Il suo amore per la natura era spontaneo e diretto, una sorta di credo filosofico naturalistico [Pulcini 1993:89].

Una favola da camera: il Concertino per pianoforte e orchestra da Camera In una lettera a Kamila Stosslova datata 23 aprile 1925, Janáček annuncia di aver scritto un concerto per pianoforte e orchestra intitolato Jaro17 (presentato come Concertino alla prima esecuzione a Brno il 16 febbraio 1926), descrivendone brevemente i quattro movimenti: I) Un giorno di primavera un riccio trova bloccata l’entrata della sua tana. Quanto era morbido il suo giaciglio! Non poteva entrare! Non riuscendo a calmarsi insisteva sul suo motivo indispettito. II) Uno scoiattolo brontolava rinchiuso in una gabbia come il clarinetto, ricordandosi la vita felice tra le cime degli alberi. III) Gli occhi spalancati del gufo, della civetta e della restante critica popolazione notturna fissavano nelle pagine del pianoforte. IV) Come nelle fiabe, sembra si litighi per un soldino. E il pianoforte? Qualcuno deve far ordine.

Pulcini [1993:226] sostiene che la pagina rappresenti un’appendice strumentale al mondo fiabesco della volpe astuta, mentre Vogel [1981:245] approfondisce la scelta di evitare la forma classica del concerto per pianoforte, sottolineando come il Concertino rappresenti l’estrema miniaturizzazione della forma del concerto. Maus [Beckermann 1988:107-114] infine valorizza il legame che certamente unisce Janáček e il tema della natura, asserendo tuttavia che la breve lettera non deve essere intesa come un’indicazione programmatica. Maus sostiene la necessità di instaurare un’analogia tra il comportamento degli animali e quello degli strumenti; ad esempio si può comprendere la parte drammatica del corno, intesa come ruolo all’interno di una narrazione, solo in relazione alla descrizione della condotta del riccio. Questa ipotesi si avvalora considerando il significato dei motivi e della loro particolare correlazione nel Concertino, non mere descrizioni di azioni, bensì accurate narrazioni sonore con un preciso intento drammatico. L’unità motivica per Janáček è espressione psicologica, dove la concisione rappresenta il parametro di esattezza e di verità del sentimento ritratto. La partitura si presenta come un mosaico di tasselli musicali, derivati da uno o due elementi ripetuti e variati; il classico procedimento dello sviluppo è sostituito da un incessante, sottile mutare, ordinato da un’inesorabilità ritmica, flusso di rigide scansioni, e colorato da un ponderato utilizzo della dissonanza, intesa come potente mezzo di espressione [Pulcini 1993:129]. Rudolph 17 Primavera.

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Réti [1958:94] sostiene che gran parte della musica sia il frutto di un processo compositivo a evoluzione lineare. Secondo questo procedimento, un compositore non parte da uno schema teorico, bensì da un motivo, a cui consente di espandersi in trasformazioni continue. Questa continua espansione va a determinare l’intera intelaiatura del brano, lo scheletro dell’architettura complessiva. La ricerca sull’utilizzo del motivo nel Concertino esemplifica l’idea di variazione tematica nella visione di Janáček; composto ciascun movimento su di una diversa unità motivica18 integrata in un motivo19 più ampio, è interamente sviluppato tramite il processo della variazione. Il motivo si presenta di norma in maniera tipica e incisiva all’inizio di un brano. I fattori costitutivi di un motivo sono intervalli e ritmi combinati tra loro in modo da produrre una forma o un andamento ben distinto, che di solito implica un’armonia particolare. [...] Ogni figurazione di un pezzo contiene elementi del motivo di base [...] Che un motivo sia semplice o complesso, formato da pochi o da molti elementi, l’impressione finale del pezzo non è determinata dalla sua forma originaria: tutto dipende dal modo di trattarlo e svilupparlo. Un motivo si ripresenta continuamente nel corso del brano: viene ripetuto. La sola ripetizione dà luogo però alla monotonia, questa può essere eliminata per mezzo della variazione. [Schoenberg 1967:8]

I Movimento L’unità motivica è intonata dal corno alla terza battuta, tale elemento è costituito da un intervallo discendente seguito da un intervallo ascendente di ampiezza maggiore; questi parametri rimarranno immutati in tutto il brano. Il motivo (batt. 1 e 2 in Es. 7) è caratterizzato invece dall’intervallo di seconda aumentata.

Es. 7 18 Réti le nomina prime cells (cellule primarie), Schoenberg le definirebbe preposizioni, ma in questo caso il termine probabilmente più adatto deriva dal testo di Beckermann [1994], dove nomina real motif un frammento tratto da una più ampia speech melody, il quale non necessariamente rappresenta l’esatta trascrizione di intervalli, ma più ampiamente enfatizza l’elemento drammatico. Janáček trascrive le speech melody da cui deriva i real motifs inseriti spesso alla base strutturale della composizione. Scelgo qui il termine unità motivica, e non la traduzione letterale motivo reale, con l’intento di valorizzare il concetto herbartiano di risolvere ogni insieme composto in una somma di elementi indivisibili, unità semplici. 19 Struttura all’interno del quale è contenuta l’unità motivica. Codice 602

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Importante sottolineare l’utilizzo dell’intervallo di seconda, elemento di omogeneità nei primi tre movimenti che qui compare ascendente, ripresentandosi discendente nel motivo del II e nell’unità motivica del III movimento (Es. 8).

Es. 8

Altro elemento di similitudine è rappresentato dalla direzionalità del motivo che compare nel I movimento al Poco più mosso, e si ripresenta nel motivo del II e nell’unità motivica del III movimento (Es. 9).

Es. 9

Nel IV movimento20 il radicale mutamento di significato è sostenuto dal motivo, in netta opposizione all’incipit del I movimento (Es. 10).

Es. 10

L’utilizzo delle varianti motiviche è una costante nelle composizioni di Janáček. (Es. 11)

Es. 11

Dalla Estetica di Durdik il compositore deriva il concetto di integrazione motivica, dove la costruzione complessa è definita dall’intreccio di unità semplici. In questi esempi (Es. 12) l’integrazione motivica avviene per mezzo della forma di imitazione ravvicinata. L’integrazione può anche verificarsi tra due motivi; in questo caso (Es. 13) l’integrazione è ritmica ed include due costruzioni melodiche e metriche diverse. 20 Qui compaiono due distinte unità motiviche. Il motivo presentato nell’esempio è composto dalla somma di esse.

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Es. 12

Es. 13

L’uso di un’unità motivica non è limitato al singolo utilizzo nel brano; in quanto espressione psicologica, essa può ricorrere in diversi contesti. Tale motivo (Es. 14) compare nel momento in cui la volpe Bystrouska, ancora giovane, chiede alla madre cosa fosse una rana. Sebbene la situazione appaia distesa, proprio questa rana sveglierà, poco dopo, il guardiacaccia, che catturerà Bystrouska, decretando la fine di giovinezza e libertà.

Es. 14: La volpe Astuta, Atto I, quadro 1 / Concertino, I movimento, Poco meno mosso

Ecco ricomparire il motivo, ampliati gli intervalli, sovrapporsi ad un onomatopeico saltellare (la rana che si allontana). Fino al momento in cui, svegliatosi, non sarà il guardiacaccia ad intonarlo, Maledetta, catturandola. Ogni volta che la Volpe, durante l’intera opera, rammenterà qualcosa della sua giovinezza ricomparirà anche questo motivo. La Sinfonietta (1925) è dedicata alle Forze Armate Cecoslovacche (Es. 15). La dedica recita: “All’uomo libero, alla bellezza e alla gioia, al coraggio e alla determinazione, alla battaglia per la vittoria”.

Es. 15: Sinfonietta, I movimento, Allegro (Fanfara) /Concertino, I movimento, Più mosso Codice 602

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Verosimilmente è dunque possibile procedere, seguendo l’intuizione di Maus, al parallelo psicologico suggerito da Janáček nella breve descrizione del Concertino. La particolare caratterizzazione drammatica è data infatti dall’impari dualismo tra pianoforte e corno, evinta già dall’introduzione. Il timbro secco e la maggiore agilità permesse dal pianoforte sono sfruttate da Janáček come elemento contrapposto al profondo e nobile suono del corno che, come suggerisce Maus, appare tormentato, similmente al riccio, dalle avversità, riuscendo solamente a ribadire il suo motivo senza sviluppare un elemento melodico autosufficiente. La pacificazione, intesa come conclusione, si profila quindi possibile solo al momento in cui, nella coda, il motivo del pianoforte va allontanandosi, perdendo le marcate peculiarità timbriche dell’introduzione, e avvicinando le due dimensioni sonore.

II Movimento L’unità motivica è composta da una serie di tre note discendenti (Es. 16), esposta chiaramente dal clarinetto solamente alla venticinquesima battuta che tuttavia ricorre spesso in varianti (Es. 17).

Ess. 16, 17

Il motivo (Es. 18) mostra una certa similitudine con il primo (Es. 19)21 dei Quindici canti popolari moravi arrangiati da Janáček e pubblicati nel 1921, ciascuno dei quali è dedicato ad una persona differente; questo riporta intestato il nome di František Sušil.

Es. 18 Es. 19 21 «Quell’orologio di Vivany».

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La prima variante (Es. 20) è caratterizzata dalle due terzine poste a formare un ritmo a specchio, tipica struttura ritmica che Janáček attinge dal repertorio folclorico.

Es. 20

In questo movimento Janáček introduce l’arpeggio di sei note (Es. 21), che ricomparirà nel III e nel IV movimento, dove assumerà il ruolo di primo motivo.

Es. 21

La similitudine di questo motivo con il canto popolare rimarca l’importanza della materia folcloristica nello stile di Janáček, che da un lato è naturale proiezione del linguaggio parlato e dall’altro costituisce un paesaggio sonoro caratteristico [Pulcini 1993:25]. Il tema del ricordo di un felice passato, d’altronde lo stesso del I Movimento, qui è visto da un’altra angolazione: lo scoiattolo si dimena, rumoreggiando come il primo motivo del pianoforte, e grida, trillando come il clarinetto, ma ormai è catturato e vinto. Il ricordo non spinge ad un tentativo battagliero, come nel I Movimento, ma è solamente mezzo di evasione dalla gabbia del reale.

III Movimento Dopo i primi due movimenti in cui l’impiego strumentale era ridotto alla forma di duo con pianoforte e corno, e pianoforte e clarinetto, il III e il IV si distinguono per l’impiego dei sette strumentisti. Il mutato contesto sonoro offre certamente altre potenzialità. Portando a esempio le battute 29-32 (Es. 22), appartenenti al Poco meno mosso, è possibile notare come, pur mantenendo la medesima figurazione ritmica (figure cerchiate), l’unità motivica (Es. 23) venga frantumata (10) dall’arpeggio, che prende a momenti il sopravvento (11). La rielaborazione dell’unità (13) avviene finalmente in un contesto armonico però differente, con il clarinetto che sancisce l’importanza dell’arpeggio (12). L’elemento terminale del motivo variato (14) manifesta la volontà di riappropriarsi della caratterizzazione ritmica iniziale.

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Es. 22

Es. 23

Oltre agli intervalli seconda minore-eccedente-maggiore, dall’unità motivica emerge un ulteriore elemento, valorizzato dagli accenti ritmici: l’intervallo di terza discendente. Esso assume una forte valenza espressiva nella poetica di Janáček in quanto legato al richiamo del gufo che, nell’esperienza vissuta dell’autore, è effettivamente annuncio della morte della figlia (Es. 24).

Es. 24

Nel III movimento il ricordo è trasfigurato in una dimensione onirica, in bilico tra l’incubo (Con moto) ed il sogno (Poco meno mosso) trova sfogo in una cadenza impetuosa e passionale (Es. 25).

Es. 25

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La triplice nota ribattuta in Janáček è simbolo di morte. Nella cadenza è in opposizione (Es. 26) al precedente slancio drammatico, come a voler riportare l’attenzione sul dramma reale.

Es. 26

IV Movimento Dopo la narrazione della sconfitta (I Movimento), della prigionia (II Movimento) e del presagio di morte (III Movimento), il IV Movimento si carica di un nuovo forte significato: il risveglio. Il primo motivo (Es. 27), costruito sulla scala pentafonica, decreta l’incertezza tonale, a cui è immediatamente contrapposto l’energico tono del secondo (Es. 28).

Es. 27 Es. 28

L’integrazione orizzontale (Es. 29) delle due rispettive unità motiviche (15) (16) porta ad una spensierata risoluzione (17), mentre l’integrazione verticale (Es. 30) assume un carattere più rapsodico.

Es. 29 Codice 602

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Es. 30

Le due idee motiviche tornano a susseguirsi variate nella cadenza (Es. 31).

31 Es.

Da notare come il motivo risultante dall’integrazione, in due contesti differenti, accolga anche una diversa stratificazione (Es. 32).

Es. 32

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Conclusioni

Janáček muore la mattina del 12 agosto 1928 a causa di una broncopolmonite destra. L’ultima pagina musicale scritta rappresenta un vero e proprio testamento musicale; il titolo è Ricordo (Es. 33).

Es. 33

Si tratta di un’intensa composizione per pianoforte i cui due motivi ricordano il canto (Es. 34) di Káťa Kabanová (1921) Perché gli uomini non possono volare? 22

Es. 34

Quasi mimando l’attività di Káťa sulla scena, i violini con sordina ricamano insistentemente nella tessitura un veloce arabesco che allude al cinguettio di quegli uccelli in volo che occupano i pensieri della pensosa protagonista: concise miniature che si trasferiscono successivamente al grave, come a zavorrare il discorso musicale, trasparente metafora dell’impossi22 Atto I, Scena II. Codice 602

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bilità di spiccare il volo. Káťa qui esprime il proprio desiderio di evasione da una vita monotona, dove ogni cosa è cambiata in peggio; ricorda con rimpianto il passato, quando anche le cose più semplici la riempivano di felicità. Il tema del ricordo, potente mezzo di evasione dal reale, è conduttore e preponderante nell’ultimo periodo di Janáček. Ecco allora chiarirsi anche il tema della natura, ambientazione, oggetto ed addirittura soggetto in gran parte delle composizioni di Janáček: ente forte, indipendente e libero dalle viziose convenzioni sociali, con la facoltà di far emergere il ricordo23. Conseguentemente gli animali in Janáček svolgono un ruolo fondamentale; essi hanno il dono di comprendere e di far parte dell’essenza stessa della natura; esprimono la fiera selvatichezza24, tratto proprio della gioventù�25, elemento fermo ed irremovibile del passato. La forma narrativa janacekiana ha dunque necessità di un linguaggio musicale privo di estetismi accademici, il cui unico fine sia “l’espressione della nuda verità del sentimento” [Kundera, 1981]. Esso si trasmette esclusivamente grazie all’impiego dell’unità motivica, tramite la sua esattezza psicologica, organizzata in strutture dove tale unità è integrata e connessa, fedelmente ai principi herbartiani, pietra angolare della teoria compositiva di Janáček. Le vissute ingiustizie sociali sono trasfigurate in una dimensione fantastica, in cui non esistono vinti o vincitori bensì una serena pacificazione, possibile grazie alla capacità generatrice e rigeneratrice della natura. Da una lettera indirizzata a Max Brod, in data 11 marzo 1923: La primavera nel bosco – ma anche la vecchiaia. Come in un sogno appare al guardaboschi la foresta, [...] lui cerca la sua volpe. Non c’è più. Ma eccone un’altra, piccola, tale e quale arriva barcollando fino a lui. Così il bene ed il male ruotano nella vita: nuovamente. Fine.

Non a caso il Concertino, nell’intenzione dell’autore, avrebbe dovuto intitolarsi Primavera: stagione simbolica, in cui il vecchio lascia il posto al nuovo, in un ciclo virtuoso di cui solo la natura è maestra. L’approfondimento di queste tematiche giustifica l’intima forma cameristica, scelta compositiva tesa a sottolineare il carattere riservato e miniaturale del brano: accurata narrazione di una favola da camera cesellata in quattro episodi legati al ricordo. 23 Nel III atto della Volpe astuta il guardaboschi si commuove contemplando il bosco, rapito dai ricordi. 24 Questa espressione è usata da Max Brod in una lettera a Janáček del 13 giugno 1925. 25 Gioventù è anche il titolo di una Suite per insieme di fiati composta nel 1924. Il motivo principale deriva da un canto popolare:

«Gioventù, dorata gioventù (Mládi, zlaté Mládi)».

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Serafino Carli è attualmente iscritto al corso di diploma accademico di II livello in Pianoforte all’Istituto Musicale “L. Boccherini” di Lucca sotto la guida del M° Riccardo Peruzzi. Con lo stesso Maestro ha ottenuto la laurea di I livello in Pianoforte con il massimo dei voti nel 2014; ha inoltre frequentato il corso di perfezionamento tenuto dal M° Aquiles delle Vigne e ha partecipato alle masterclasses di O. Marshev, B. Lupo, V. Balzani e W. Świtała. Nel 2015 è stato ammesso all’Accademia di alto perfezionamento per maestri collaboratori organizzata dalla Fondazione Festival Pucciniano. Svolge attività concertistica sia come solista che in formazioni cameristiche; come maestro collaboratore ha partecipato alla realizzazione de Il Trittico al 61° Festival Puccini. Insegna pianoforte presso la sede di Pontedera (PI) dell’Accademia Musicale Toscana. Codice 602

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finito di stampare nel novembre 2015 per conto di s i l l a b e


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