Istituto Musicale “Luigi Boccherini”
Rivista dell’Istituto Superiore di Studi Musicali “Luigi Boccherini” di Lucca n. 7 - anno 2016 - nuova serie
ISBN 978-88-8347-907-6
¤ 20,00
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CODICE 602
n. 7 - anno 2016
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CODICE 602
«Codice 602»
Nuova serie Il titolo della Rivista è un omaggio ad una delle più antiche tradizioni musicali lucchesi. Risale, infatti, all’XI secolo il prezioso Antifonario noto come Codice 602, custodito nella Biblioteca Capitolare Feliniana di Lucca. Rivista annuale dell’Istituto Superiore di Studi Musicali “L. Boccherini” di Lucca N. 7 - Novembre 2016 Autorizzazione del Tribunale di Lucca n. 867, del 20.10.2007 Direttore responsabile: Sara Matteucci Responsabile editoriale: Fabrizio Papi Comitato di redazione: Giulio Battelli, Sara Matteucci, Fabrizio Papi Comitato scientifico: Giulio Battelli, Marco Mangani, Guido Salvetti In questo numero hanno collaborato: Giovanni Acciai, Stefano Campagnolo, Antonio Caroccia, Gianmarco Caselli, Cristina Concetti, Aldo Dotto, Massimo Lombardi, Marco Mangani, Marcello Nardis. Realizzazione editoriale: Sillabe s.r.l. Scali d’Azeglio 22/24 57123 Livorno www.sillabe.it Direttore dell’Istituto Superiore di Studi Musicali “L. Boccherini”: Fabrizio Papi Presidente: Paolo Cattani Istituto Superiore di Studi Musicali “L. Boccherini” Piazza del Suffragio, 6 55100 - Lucca Tel. 0584 464104 www.boccherini.it La Rivista «Codice 602» Nuova serie è realizzata grazie al contributo di: Fondazione Banca del Monte di Lucca ISBN 978-88-8347-907-6
CODICE 602 Rivista dell’Istituto Superiore di Studi Musicali “Luigi Boccherini” di Lucca n. 7 - anno 2016 - nuova serie
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Indice Editoriale 7 di Sara Matteucci
La pagina del direttore 11 di Fabrizio Papi
Contributi Soggettività interpretative e dinamiche relazionali nella Winterreise di Schubert di Marcello Nardis
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La musica per chitarra di Manuel M. Ponce nel contesto della sua opera di Stefano Campagnolo
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La musica di Boccherini nelle séances di Pierre Baillot (1814-1840) di Marco Mangani
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Il segno di Gaetano Giani Luporini di Gianmarco Caselli
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“Oggi, ogni terra è un esilio”: gli anni napoletani di Ennio Porrino di Antonio Caroccia
87
Karol Szymanowski, compositore cosmopolita di Aldo Dotto
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L’importanza del canto corale nella formazione globale dell’individuo di Giovanni Acciai
123
Studi sulla Musica a Lucca Storie di canzonette del ms 774 di Lucca di Massimo Lombardi
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Tesi di Laurea Il respiro del mondo: numeri e principi matematici nella composizione 187 Sofia Gubaidulina e la Sonata per pianoforte (1965) di Cristina Concetti
Editoriale
di Sara Matteucci
La peculiarità di «Codice 602» è da sempre la diretta connessione con la produzione artistica annuale e gli eventi promossi dall’Istituto Superiore di Studi Musicali “Luigi Boccherini”, caratteristica che ha garantito l’attenzione da parte dei lettori oltre il puro interesse musicologico. Ciò ha anche permesso alla Rivista di fare più agevolmente i suoi primi passi, cercando nel frattempo di acquisire una maggiore notorietà grazie anche alla diffusione su tutto il territorio nazionale. A partire da questo settimo numero, come segno di ulteriore apertura per una pubblicazione che ci auguriamo possa entrare a far parte delle riviste di categoria A, saranno ospitati anche contributi inediti non direttamente connessi con la stagione artistica dell’Istituto: studi e indagini di valore che alimentano ulteriormente l’orgoglio e la spinta per proseguire il nostro contributo alla ricerca e all’approfondimento musicologico. Marcello Nardis è l’autore del primo saggio di questa edizione, Soggettività interpretative e dinamiche relazionali nella Winterreise di Schubert, che prende le mosse dal seminario del 22 marzo dedicato proprio a quei Lieder, uno dei primi appuntamenti della stagione 2016 con l’intervento dello stesso Marcello Nardis, nella veste di tenore, accompagnato al pianoforte da Simone Soldati. L’esperienza del viaggio è il cardine delle approfondite riflessioni presenti in questa analisi del celebre ciclo di 24 Lieder di Schubert, riferimento e compendio emozionale di tutto un genere musicale, composto nell’anno precedente alla morte del compositore. Prendendo spunto dalle intense giornate del “Boccherini Guitar Festival”, incentrate quest’anno sulla figura di Manuel Maria Ponce, l’articolo La musica per chitarra di Manuel M. Ponce nel contesto della sua opera di Stefano Campagnolo offre invece una illuminante panoramica della produzione musicale del compositore messicano, soffermandosi particolarmente su quella degli anni parigini dal 1923 al 1932. In questo periodo Codice 602
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Ponce si concentra particolarmente sulla composizione per chitarra, grazie anche al determinante incontro con Andrés Segovia, scrivendo così quelli che sarebbero presto divenuti veri capisaldi della letteratura chitarristica. La felice collaborazione del nostro Istituto con il Centro studi “Luigi Boccherini” di Lucca, che si è fatta sempre più consistente anno dopo anno, ha portato anche in questa stagione alla realizzazione di una “due giorni” in omaggio al grande compositore lucchese cui le due istituzioni sono intitolate. Concerti, presentazioni editoriali e interventi musicologici hanno caratterizzato questa edizione, con interventi di Gabriella Biagi Ravenni e Marco Mangani. E proprio di Mangani è quindi il terzo contributo di questo volume, dal titolo La musica di Boccherini nelle séances di Pierre Baillot (1814-1840), in cui si disserta ampiamente sulla proposta della musica boccheriniana nei concerti pubblici da camera che il celebre violinista francese tenne a Parigi per oltre cinque lustri nella prima metà dell’Ottocento. Il 28 maggio del 2016 non ha rappresentato quest’anno soltanto l’anniversario boccheriniano, ma anche un’altra importante ricorrenza per il mondo musicale lucchese: gli ottant’anni del maestro Gaetano Giani Luporini. Prolifico compositore di musica da camera, sinfonica, corale e operistica, nonché attivo in campo pittorico e poetico, Luporini è stato direttore del Conservatorio lucchese dal 1986 al 2003. Per questa ricorrenza la nostra Rivista ha desiderato rendere omaggio al maestro con un articolo a firma di Gianmarco Caselli, dedicato principalmente al sistema notazionale della musica di Luporini, analizzando quindi la tipologia di scrittura utilizzata e le sue implicazioni, con particolare riferimento alla produzione per pianoforte. L’intervento è arricchito da una breve intervista al compositore. Con “Oggi, ogni terra è un esilio”: gli anni napoletani di Ennio Porrino il musicologo campano Antonio Caroccia ci offre uno sguardo su un momento della vita del musicista, in un periodo di “esilio” forzato a causa dei suoi trascorsi politici, in cui egli fu oltre che compositore, didatta e critico musicale. Grazie all’analisi di una serie di documenti d’archivio inediti, siamo in grado dunque di conoscere il suo pensiero e l’impegno nella difesa dei valori artistici. Il giovane pianista Aldo Dotto, ex allievo dell’Istituto “Boccherini”, presenta qui un articolo dedicato a Karol Szymanowski, che illustra i tratti salienti della sua musica, evidenziandone la grande varietà di sfaccettature. La modernità del pensiero di Szymanowski aprì i confini della Polonia alle innovazioni culturali degli altri paesi permettendo a quella nazione di portare avanti una tradizione musicale che all’inizio del secolo scorso aveva rischiato di rimanere nelle retrovie rispetto agli altri stati europei. 8
La sezione dei contributi si conclude con l’intervento di una delle voci italiane più autorevoli del mondo della coralità, il maestro Giovanni Acciai, il quale ha tenuto quest’anno nel nostro Istituto un seminario dedicato ai repertori corali degli ultimi cinque secoli. Con L’importanza del canto corale nella formazione globale dell’individuo Acciai in questa occasione fa un vero e proprio elogio della pratica del canto corale, quale disciplina regina nella formazione del musicista e in quella globale dell’individuo, ma allo stesso tempo non si esime da una dura analisi critica dell’attuale situazione italiana. Per gli “Studi sulla Musica a Lucca” ci pregiamo quest’anno di pubblicare una ricerca inedita sul Manoscritto Lucchese 774 a cura di Massimo Lombardi (Storie di Canzonette del Ms 774 di Lucca). Il Manoscritto 774, vale a dire l’Intavolatura di leuto da sonare e cantare, è una preziosa e complessa testimonianza musicale italiana, risalente al periodo tardo rinascimentale, conservata presso la Biblioteca Statale di Lucca. Prodotto autoctono della città, realizzato negli anni a cavallo tra i secoli XVI e XVII, il codice è descrittivo della pratica strumentale e vocale in ambienti non propriamente di etichetta. L’obiettivo della ricerca è stato quello di dare un titolo, una forma, un nome ed un cognome a queste composizioni, fino ad oggi ritenute prive di paternità. Infine, la Tesi di Laurea scelta quest’anno tra le migliori presentate dagli studenti dell’Istituto è quella della pianista Cristina Concetti: Il respiro del mondo: numeri e principi matematici nella composizione – Sofia Gubaidulina e la Sonata per pianoforte (1965). Da sempre la musica e la matematica sono state poste in stretta relazione fra di loro. In quest’ottica, Sofia Gubaidulina – figura che spicca per gli aspetti innovativi della sua arte nel panorama musicale contemporaneo – si colloca come un’abile e originale compositrice che si avvale di numeri e proporzioni matematiche per dare vita e respiro alle sue opere. Ciò è particolarmente evidente nelle opere della maturità, ma se ne possono osservare i primi germogli nella Sonata per pianoforte, un’opera giovanile di grande intensità e vitalità. Come sempre desidero esprimere un sentito ringraziamento a tutti coloro che collaborano attivamente alla realizzazione di questa Rivista, rendendo ogni volta possibile il raggiungimento di un nuovo traguardo. Buona lettura.
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La pagina del direttore
Nel terminare il mio intervento sul numero scorso di «Codice 602» accennavo brevemente al momento di difficoltà che il settore AFAM sta(va) attraversando, definendolo come una fase di transizione del sistema. A un anno da quelle affermazioni, voglio ritornare sull’argomento, perché proprio in questi giorni (metà ottobre, mentre sto scrivendo queste note) la VII Commissione del Senato affronterà la discussione del disegno di legge Martini, che riunifica i precedenti disegni di legge nn. 322, 934, 972, 1616, Disposizioni in materia di statizzazione degli Istituti musicali pareggiati e delle Accademie di belle arti legalmente riconosciute di Bergamo, Genova, Perugia, Ravenna e Verona, nonché delega al Governo per il riordino della normativa in materia di Alta formazione artistica, musicale e coreutica (AFAM). Il testo, sul quale c’è una larga e trasversale convergenza di forze politiche, è suddiviso in quattro articoli, il primo dei quali dedicato alla statizzazione degli Istituti Superiori di Studi Musicali non statali (ex Istituti Musicali Pareggiati). Gli altri tre articoli sono dedicati: a) al riordino del sistema, per il quale si dettano i principi in base ai quali il governo dovrà emanare i decreti applicativi necessari; b) alla trasformazione delle graduatorie ex lege 128/2013 in graduatorie ad esaurimento utili per l’immissione in ruolo di docenti da anni nel limbo del precariato; c) alla copertura finanziaria della legge nel suo insieme. Per i diciotto istituti non statali (fra i quali anche l’I.S.S.M. “Luigi Boccherini”), particolare importanza riveste il primo articolo del disegno di legge. Infatti con il passaggio allo Stato finalmente si dà stabilità a istituzioni che da sempre hanno operato sul territorio alla stregua dei conservatori statali, avvalendosi però unicamente del sostegno economico degli enti locali. Questi ultimi da anni lamentano l’insostenibilità di un onere che è andato crescendo negli anni, anche a causa dei maggiori impegni di spesa che la legge 508 ha comportato. Purtroppo in questi ultimi due anni abbiamo dovuto assistere impotenti alla chiusura dell’I.S.S.M. “Pergolesi” di Ancona, alla diaspora dei docenti di ruolo del “Braga” di Teramo, statizzato ma fortemente ridimensionato e privo di docenti stabili, e, in questi giorni, alla paralisi delle attività didattiche e amministrative del “Paisiello” di Taranto, a causa della legge che ha abolito le province. Per questo il passaggio allo Stato degli ex IMP, ormai improcrastinabile, non può che essere visto con grande favore e con grande speranza. Il Codice 602
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comma 1 del primo articolo prevede che la statizzazione avvenga entro 12 mesi dall’emanazione della legge. Non resta che augurarci una sua rapida approvazione. Scopo del legislatore è però anche il riordino del sistema. Anzi, è cosa ormai nota che il reperimento dei fondi necessari all’applicazione dell’articolo 1 è stato possibile solo a condizione che la legge prevedesse quanto contenuto nell’art. 2. Di questa volontà del governo abbiamo avuto una prima conferma durante l’incontro dal titolo Il sistema AFAM: prospettive di sviluppo, organizzato dal nostro Istituto e tenutosi nel nostro Auditorium il 25 giugno scorso. Erano presenti, tra gli altri, il presidente della VII Commissione del Senato, senatore Andrea Marcucci, il senatore Claudio Martini, relatore del disegno di legge e forte sostenitore del passaggio allo Stato degli ex IMP, e il ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Stefania Giannini. Il riordino ipotizzato prevede la nascita di politecnici delle arti, su basi regionali, in cui gli attuali conservatori, statali e non, e le accademie delle belle arti dovrebbero confluire, ognuno mantenendo una propria identità ma delegando almeno parte dei loro attuali poteri ad un unico consiglio di amministrazione, presieduto da un direttore/ presidente e coadiuvato da un super direttore amministrativo. Com’è facile capire, ci si trova di fronte ad una vera rivoluzione del sistema AFAM. Dopo anni di immobilismo e di incompleta applicazione della legge 508, non è esagerato dire che saremmo di fronte ad una svolta epocale. Non è questa la sede per una disamina nel dettaglio del contenuto dell’art. 2. Dato però lo stato di urgenza in cui versano molti dei conservatori non statali ci si deve augurare che una materia così complessa non richieda tempi di approvazione tali da ostacolare di fatto quel rapido passaggio allo Stato degli ex Istituti Musicali Pareggiati che tutti auspichiamo da anni. Vorrei però chiudere questa pagina con una nota decisamente più positiva, riferita alla produzione artistica dell’Istituto. All’interno della stagione Open Gold (settembre 2016) abbiamo dato vita, in collaborazione con il Centro Studi “Luigi Boccherini”, e con il plauso dell’amministrazione locale, alla prima edizione del Festival Boccherini, dedicato alla valorizzazione del musicista lucchese. Quest’anno il festival ha assunto la forma di un filo conduttore attraverso i programmi dei vari concerti di Open Gold, ognuno dei quali comprendeva uno o più brani dell’autore lucchese, nell’intento di fare una prima ricognizione sui vari generi affrontati dal compositore (sinfonico, cameristico, vocale – con esclusione della sola produzione sacra). Il successo ottenuto ci spinge a proseguire nei prossimi anni, in ognuno dei quali cercheremo invece di focalizzarci su un genere in particolare, certi di poter contribuire ad una conoscenza migliore della musica di questo autore lucchese che non cessa di stupirci. M° Fabrizio Papi Direttore dell’Istituto Superiore di Studi Musicali “L. Boccherini” 12
Contributi
Soggettività interpretative e dinamiche relazionali nella Winterreise di Schubert
di Marcello Nardis*
„So zieh ich meine Straße Dahin mit trägem Fuß, Durch helles, frohes Leben, Einsam und ohne Gruß“. Così io vado per la mia strada con passo grave, attraverso la vita chiara e lieta, solo e senza saluto. Einsamkeit
Nella letteratura liederistica la Winterreise rappresenta il ciclo di Lieder per antonomasia, il ‘vero’ riferimento e il compendio emozionale di tutto un genere musicale. È il viaggio dei viaggi, cinèsi psicotica, trionfo della individualità dolente – ciborio dell’io – e costituisce, nella produzione schubertiana, quello che è definibile come il perfezionamento, lo
* Marcello Nardis è tenore e pianista. Insieme con i diplomi di pianoforte, canto, musica vocale da camera conseguiti nei Conservatori di Napoli, Roma e Firenze, si è laureato cum laude in Lettere classiche, Archeologia Cristiana e Pedagogia Musicale presso le Università degli Studi di Roma, La Sapienza e di Bologna, Alma Mater e si è perfezionato alla SDA Bocconi e all’Accademia del Teatro alla Scala in Economia e management dello spettacolo. è noto in Italia per la sua frequentazione con il repertorio liederistico, sia da cantante che da pianista e per la sua versatilità con il Teatro musicale moderno e contemporaneo. Protagonista di numerose prime esecuzioni assolute, si è esibito sui principali palcoscenici nazionali ed esteri: dal Teatro alla Scala all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, dalla Fenice di Venezia al San Carlo di Napoli, dal Liceu di Barcellona alla Stadhalle di Bayreuth, dal New National Theatre di Tokyo alla Carnegie Hall di New York. Ha inciso i Lieder di Liszt con Michele Campanella e la Winterreise con Norman Shetler e Paul Badura-Skoda. Svolge regolarmente nei conservatori di musica masterclasses di Liedgestaltung rivolte sia ai cantanti che ai pianisti. Codice 602
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Marcello Nardis
sviluppo ossessivo, disforico, della precedente Schöne Müllerin1. Attraverso 24 Lieder, che sono 24 bozzetti, 24 ‘episodi’, viene proiettata una suggestiva pellicola in bianco e nero (e tale declinazione cromatica va ben al di là del riferimento cinematografico), che alterna all’oscurità (alla Dunkelheit), all’ombra cinerea delle figure bidimensionali che appaiono in silouhette, albèdi informi, sequenze di luminosità algida, abbacinante, come solo la neve può riflettere. Un’acromatopsia ossessiva2 che è scelta registica deliberata, modernissima, contestuale al momento creativo musicale, più ancora che a quello poetico e che sembra anticipare il cinema espressionista tedesco di Lubitsch, Wegener, Murnau, ovvero lambire, addirittura, in un ideale ricongiungimento diacronico, i frutti post-esistenzialisti della cinematografia di Fritz Lang. Il ‘film’ della Winterreise non segue un vero e proprio ‘narrato’ spaziotemporale: le poesie di Müller sono state da Schubert manomesse, di tanto in tanto, nella versificazione e nell’ordine di successione3; attraverso un’opera di selezione, di scelta, che potesse, forse, meglio corrispondere ad un ideale e personalissimo percorso interiore in cui auto-riflettersi4. Questa vaga rapsodicità del prodotto finale è ‘identitaria’ e, pur trascendendo la fondatezza rassicurante di un plot narrativo, non tradisce il patto finzionale, non percuote la sospensione della incredulità, non trattiene dal seguire uno svolgimento, un itinerario psicografico a suo modo 1 Il ciclo fu composto nel 1827 (la prima parte – i primi 12 Lieder, fino a Einsemkeit – in febbraio; in ottobre la restante parte costituita da altri 12 Lieder) su poesie di Müller, già il poeta della Schöne Müllerin (1823), e pubblicato – solo la prima serie – il 14 gennaio 1828; Schubert muore il 19 novembre mentre corregge le bozze della seconda serie che esce, infatti, postuma il 31 dicembre dello stesso anno. Giova sottolineare che al periodo della Winterreise appartiene forse la fase compositiva schubertiana più intensa e che tutta l’opera di quei mesi sembra convergere in questo ‘inaudito centro’ che è il Ciclo stesso. Basti solo pensare alla Nona e Decima Sinfonia, al Quartetto in sol maggiore, alla tre Sonate per pianoforte (in do minore, la maggiore, in si bemolle maggiore), alla Fantasia in fa minore per pianoforte a quattro mani; agli Improvvisi, ai Dodici Waltzer, ai Sei momenti musicali, ai due Trii per pianoforte, al leggendario Quintetto per archi e ai numerosi Lieder, molti dei quali raccolti nel postumo Schwanengesang. 2 Il buio della mattina gelida, il nero della civetta, del carbonaio, il bagliore innaturalmente chiaro, sbiancato, del fuoco fatuo, del parelio di Nebensonnen: nella Winterreise gli unici accenni espliciti al colore sono relegati nella dimensione del ricordo, della memoria e solo così, richiamati e descritti; vale a dire mai percepiti nel contingente. „Ich träumte von bunten Blumen, […] Ich träumte von grünen Wiesen“ (Sognavo di fiori colorati, […] sognavo di prati verdi), cfr. Frühlingstraum. 3 Andreas Dorschel, Wilhelm Müllers Die Winterreise und die Erlösungsversprechen der Romantik, «The German Quarterly», LXVI/4 (1993), pp. 467-476. 4
L’ordine dell’edizione in libro stabilito da Müller era il seguente: Gute Nacht; Die Wetterfahne; Gefrorne Tränen; Erstarrung; Der Lindenbaum; Die Post; Wasserflut; Auf dem Flusse; Rückblick; Der greise Kopf; Die Krähe; Letzte Hoffnung; Im Dorfe; Der stürmische Morgen; Täuschung; Der Wegweiser; Das Wirthshaus; [Das] Irrlicht; Rast; Die Nebensonnen; Frühlingstraum; Einsamkeit; Mut!; Der Leiermann. Cfr. L’introduzione ai Lieder di Max Friedlaender, Franz Schubert. Sammlung der Lieder für eine Singstimme mit Pianofortebegleitung, 1928.
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Soggettività interpretative e dinamiche relazionali nella Winterreise di Schubert
compiuto. Che, certo, implica l’intervento poietico del performatore/ ascoltatore/esegeta, chiamato ad integrare interpretativamente le incoerenze del racconto volutamente non sistematico e a tratti friabile, a saldare, col piombo di una personale logica, le commessure dei molti nondetti, in una trama in cui, certamente, i ‘vuoti’ prevalgono di molto sui ‘pieni’. In questo senso, a voler seguire una prospettiva contenutistica, la Winterreise è un ciclo diversamente-ciclo o, se non altro, è ‘meno’ ciclo della Schöne Müllerin ed è ‘più’ ciclo dello Schwanengesang, collocandosi come grado medio nella apofonia dei tre capolavori schubertiani. In altre parole, nel teatro immaginario della Winterreise, più che altrove, lo spettatore giuoca un ruolo fondamentale di ‘co-creazione’ per dirla con Bekker, si nihil aliud costituendo la ‘camera acustica’, la superficie risuonante su cui rimbalza, amplificandosi, l’emotività, l’introversione e l’autoreferenzialità del protagonista narrante. Una comprensione per impressione (o compressione), per accumulo, in una cornice in cui l’irrazionale e il grottesco convivono nella fabula e si integrano vicendevolmente e dove l’omissione deliberata è da considerarsi contenuto stesso della creazione artistica. La Winterreise è una siepe fitta, irta di rovi, oscura inflorescenza in cui, nondimeno, è possibile identificare per anadiplosi, molteplici germogli di una stessa tassonomia e spunti eziologici di una congruenza sbalorditiva. Vale a dire che vi sono ‘tiranti’, traiettorie proteiformi invisibili ad un primo approccio, prescindenti dal testo, che definiscono una struttura interna miniata, calligrafica, una ‘impalcatura’ non estemporanea, non soverchiata e mai tradita dalla genialità dell’atto creativo immediato e fulmineo. Sono rintracciabili le sinopie di una ‘architettura’ – anche formale – assolutamente raffinata dal compositore, destrutturabile, in cui è possibile riconoscere le tracce del laboratorio schubertiano; nella scelta accorta di specifiche impostazioni tonali (o l’alternanza tra di esse), modali, di legami di ‘parentela’ strutturale (addirittura agogica) tra i brani, di frammenti ritmici sbalzati e ricorrenti al punto di diventare essi stessi soggetti motivici, tematici, fonosimbolici. Il viaggio della Winterreise descrive e definisce una ou-topia, una mancanza di luogo; una latòmia spirituale in cui la direzione ‘imprigionata’ si involve e non procede. Vano perciò il tentativo di tracciare una topografia del ciclo che suggerisce, da par suo, solo una traiettoria, utile ad unire in successione la casa, la fontana e il tiglio, il fiume, il paese, la casa del carbonaio, il villaggio, il segnale stradale, il cimitero, entro i confini di uno spazio geografico solo sentimentale, il cui orientamento, la cui unica bussola attinge non altrove che alla mente stessa del viaggiatore, mai (?) disgiunta dal corpo. Un corpo che perpetua il giro del mulino: quel movimento, quel girovagare che prima era fonte di gioia, “Das Wandern ist des Müllers Lust,
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Marcello Nardis
das Wandern!”5, ora diventa un inesorabile gorgo che risucchia verso la morte – eine Strasse muss ich gehen, / die noch keiner ging zurück –6 i cui flutti si rincorrono attraverso le 24 stazioni di una personalissima Via Crucis, ove la morte non costituisce redenzione. Nella Winterreise, infatti è negato ogni conforto, nessun cullamento al gremio del trapasso7; la speranza è ‘ultima’ (leztze), caduca come la foglia – “Ach, und fällt das Blatt zu Boden, fällt mit ihm die Hoffnung ab” – e svolge una funzione talmente residuale da essere trascurabile. Perché ingannevole, aguzza come vetri rotti, urna di accordi spezzati8, essa si permea di rassegnazione, si bagna di lagrime – […] wein’ auf meiner Hoffnung Grab – e lascia il posto al vuoto dell’abbandono, vuoto angoscioso ed incognito, senza scampo alcuno. La struttura di questo viaggio scompone e disarticola la circolarità kantiana di partenza/ percorso/ arrivo ed è lontanissima dalle suggestioni archetipiche del viaggio eroico, anche se dall’eros – e dai disturbi descritti legati alla percezione di esso – questo viaggio trae ragione d’essere. Implicito, infatti, allo svolgersi del nostro itinerario non è alcun nòstos e, soprattutto, sottesa è la conquista di nessun klèos, di nessuna gloria da assicurarsi o da riscattare. Il Wanderer9 non è Osiride, non Dionìso, non Eracle. Non Odisseo, Giasone o Teseo. Gilgamesh, forse. Più probabilmente Orfeo10, non solo perché canta quello che vive, nel disperato tentativo di riportare in vita un amore, ma perché non dissimilmente dal figlio della Musa, crea il suo proprio, personalissimo orizzonte, mettendo in opera quella che non esiterei a definire la sua personale ‘cosmogonia’11. E come Orfeo, figura emidivina, ‘muore’ nella sua Driade12.
5 È questo l’incipit della Schöne Müllerin: il girovagare è la gioia del mugnaio, il girovagare!. 6 Cfr. Der Wegweiser. 7 Cfr. con l’ultimo Lied della Schöne Müllerin, Des Baches Wiegenlied, in cui il mugnaietto si abbandona alla struggente ninna nanna del ruscello: „Gute Ruh, gute Ruh! / Tu die Augen zu! / Wandrer, du müder, du bist zu Haus. / Die Treu’ ist hier, sollst liegen bei mir, / Bis das Meer will trinken die Bächlein aus. […]“ (Buon riposo, buon riposo! / Chiudi gli occhi! / O stanco viandante eccoti a casa. / Qui sta la fedeltà, / riposa accanto a me, / finché il mare non inghiottirà i ruscelli […]). 8 La parte pianistica e quella vocale ‘realizzano’ acusticamente questa immagine sin dalle prime battute. 9 Schubert ha già una certa familiarità con la figura del Wanderer e le tematiche ad essa sottese cfr. il Lied Der Wanderer e la Wanderer-phantasie, per pianoforte solo, del 1822. 10 Chiunque in Italia si sia interessato, anche solo di sfuggita, alla Winterreise, non può non essere riconoscente al saggio di Carlo Lo Presti, Franz Schubert. Il viandante e gli inferi, Torino, 1995. 11 Cfr. Martin Heidegger, Segnavia, a cura di F. Volpi, Milano, 1987. 12 Così Rilke nel XIII/2 Sonetto a Orfeo: „Sei immer tot in Eurydike -, singender steige, / […] / Sei – und wisse zugleich des Nicht-Seins Bedingung, / den unendlichen Grund deiner innigen Schwingung, / daß du sie völlig vollziehst dieses einzige Mal.“ (II, xiii); cfr. Rainer Maria Rilke, I sonetti a Orfeo, a cura di F. Rella, Milano, 1991.
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Atteso che il percorso del Wanderer13 sia percorso di ‘superamento’, sufficiente a se stesso, qui più che in altre occasioni il termine viaggio sembra rivendicare la diretta discendenza etimologica da viaticum, così come ampiamente confermato dalla sua occorrenza in ambito tomistico, a traduzione, a calco semantico di quello che in greco viene espresso dal sostantivo odoiporìa14. Il viaggio, cioè, è occasione di ‘approvvigionamento del sé’, attraverso la coscienza, pronta a compiere il passaggio da uno stato in un altro15. È sempre il medesimo viaggio dell’io nel buio illume dell’anima: del pellegrino, del naufrago rapito nel folle volo dantesco tra i flutti dell’esistenza, ove la meta si annulla nella ricerca dell’illimitato, dell’edènico, dell’informe, dell’in-finito, del non risolto. Che sia poi, nel nostro caso, il mugnaio, il Wanderer o il Geselle del posteriore ciclo mahleriano16, poco importa: il protagonista è un avventuriero dello spirito, perennemente nella condizione di fugitivus errans – tanto cara a Nietzsche – vuoi nell’accezione del ‘camminatore’ rousseauiano17, vuoi in quella del perdigiorno di Eichedorff18, o, addirittura, in quella del Malte rilkiano19, ma sempre e comunque ispirato dal misticismo universalistico di chi fa della Wanderung il fine e non il mezzo20. Alla consapevolezza che il viaggio di per sé sia un’esperienza che mette alla prova e perfeziona il carattere del viaggiatore, risponde – in punta di filologia – la considerazione che 13 Ancora, per la figura del Wanderer mi viene alla mente lo Shelley dei Versi scritti sui colli Euganei a proposito della definizione di viaggiatore “[perché] pallido e sfinito possa così ancora continuare il viaggio/giorno e notte, notte e giorno, / alla deriva sul suo triste cammino, / con la tenebra compatta e nera[…]”; protagonista di un viaggio che, in fondo, riconcilia con la morte inevitabile (la manzoniana provvida sventura di Ermengarda) o che porta esso stesso alla morte – ‘[l]’abisso orrido, immenso / ov’ei precipitando il tutto oblia’ del Canto notturno di un pastore errante [!] dell’Asia di Leopardi. 14 Cfr. Hedericus, “Convivium, quod itineris comitibus praebetur” in Lex. Graeco-Latinum manuale, 1852. 15 Ed è per questo che il viaggio nella storia, non dissimilmente dall’esilio, è sempre stato visto contestualmente come punizione e cura, castigo e purificazione, fino ad essere ‘istituzionalizzato’ nella dimensione del pellegrinaggio. Cfr. Georg Roppen e Richard Sonmer Strangers and Pilgrims. An Essay on the metaphor of the Journey, in «Norwegian Studies in English», 11 Oslo, 1964. 16 Cfr. Gustav Mahler, Lieder eines fahrenden Gesellen, Vienna, 1897. 17 «Me voici donc seul sur la terre, n’ayant plus de frère, de prochain, d’ami, de société que moi-même», è questo l’incipit de Les Rêveries du promeneur solitaire, cfr. Jean-Jacques Rousseau, Les Rêveries du promeneur solitaire, Collection complète des œuvres de J. J. Rousseau, tome 10, 1876 p. 369. 18 Cfr. Joseph von Eichendorff, Aus dem Leben eines Taugenichts,1826 e Giulio Schiavoni, Eichendorff e l’“idillio” lacerato, in J.F. von Eichendorff, Vita di un perdigiorno, Milano, 1999. 19 Cfr. Rainer Maria Rilke, Die Aufzeichnungen des Malte Laurids Brigge, a cura di G. Zampa, Bari, 1966. 20 Lo stesso medesimo concetto di ‘viaggio’ è espresso da Platone quando si richiama i meandri della pluralità attraverso cui procede ed ‘avanza’ la frantumazione dell’io; cfr. Platone, Epistola VII in Id., Tutte le opere, a cura di E.V. Maltese, Roma, 2009, p. 2878. Codice 602
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l’aggettivo tedesco bewandert (esperto, pratico, versato) contiene in sé la stessa radice semantica di Wanderer (letteralmente il camminatore, il girovago): donde colui che ha viaggiato molto, è automaticamente esperienziato, (più) saggio. Gli studi antropologici ci insegnano che è essenza della partenza il tendere fino a spezzarli i legami identitari del soggetto rispetto allo stato iniziale, rispetto alla non-mobilità del prima, rispetto al contesto familiare o sociale, al punto di venire affermati (e celebrati) nelle liturgie dell’addio. Il Wanderer conferma perfettamente questo approccio, sin dall’esatto principio del ciclo; in Gute Nacht egli irrompe sulla scena già straniero: estraneo al contesto era prima, estraneo al contesto torna ora, nuovamente: Fremd bin ich eingezogen, fremd zieh‘ ich wieder aus.
Lo stato solitario e senza dimora di questo viaggiatore è il prodotto della rottura di patti che non potranno più essere riannodati. La perdita della casa (e con essa la donna amata) costituisce la sensazione di invisibilità crescente (quasi spettrale) che incombe, del resto, su qualsiasi errabondo. È la morte sociale. Con la partenza il Wanderer viene distaccato da quei riconoscimenti senza i quali non esiste un’individuazione identitaria. Ed egli è del tutto privo della consapevolezza della solitudine come presupposto inalienabile. L’Einsamkeit è condizione di dolore, di subiezione, non già di lectio voluntatis. La stessa segretezza del viaggio che inizia di notte è più prossima alla clandestinità che all’astuzia, più vicina al rocambolesco che all’epico21. È una partenza in punta di piedi, Sollst meinen Tritt nicht horen, già pavida, senza disturbare. Lo spazio psichico è sbarrato: il movimento è l’unica soluzione all’empasse, il cammino suo unico nepente. È un fare solispistico, quello del Wanderer che lascia segni autistici del suo passaggio „[…] sollst meinen Tritt nicht hören / sacht, sacht die Türe zu! / Schreib‘ im Vorübergehen / ans Tor dir: Gute Nacht“, ([…] camminerò in punta di piedi, piano piano chiuderò la porta! / Passando ti scriverò sulla porta: buona notte), cigliato dai grumi effimeri di una consapevolezza solo contingente, „Welch ein törisches Verlangen/ Treibt mich im die Wüstenei’n?“ (Quale assurdo desiderio mi spinge verso luoghi inesplorati?) e soprattutto „Eine Straße muss Ich gehen, / Die noch keiner ging zurück“ (una strada devo percorrere, dalla quale nessuno ancora ha fatto ritorno). La strada verso la morte. Del resto, chi ha perduto le difese 21 Questa ‘uscita notturna’ del Wanderer non ha nulla a che vedere, per esempio, con la partenza cavalleresca, avventurosa di Yvain (anche egli poi, successivamente nel corso del romanzo, respinto dalla sua sposa, proprio a causa del protrarsi del viaggio) che pure si allontana col favore delle tenebre, per guadagnare cammino. Cfr. Chrétien de Troyes, Yvain, le Chevalier au Lion, in Rafael Burton, Yvain, the Knight of the Lion, Yale University Press, 1987.
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contro il dolore trasforma l’autodistruzione in un piacere, in una vittoria, in un’apoteosi gioiosa e indiàta, “in uno stato d’animo trionfante”22. Come scrive Giuseppina La Face Bianconi nel suo fondamentale studio sulla Schöne Müllerin23: […] Alla Lebenswelt melanconica si collega il senso di “nientificazione” che comporta anche la trasformazione delle categorie spazio-temporali: il tempo si ripiega, non ha più direzionalità, il passato diventa imminente, impedisce di vivere il presente e di proiettarsi verso il futuro; le cose perdono profondità, un senso di soffocamento e costrizione invade la psiche, il contesto sociale si metamorfizza in una morsa che attanaglia24.
Per il protagonista della Winterreise il desiderio della fine e la nostalgia di un tempo passato, onusto di proiezioni depressive, sono le uniche due direttrici superstiti: l’ascissa e l’ordinata di una parabola discendente che volge al precipizio, tendente a infinito. In uno stato d’animo diffalcato e sovraeccitato, l’alchimia combinatoria della Wahnstimmung (disposizione d’animo al delirio, appunto) e del Weltuntergangserlebnis (esperienza di fine del mondo) fa percepire la morte come unico traguardo25. Il Wanderer sta alla Winterreise come l’io sta al Wanderer; e in questo magnifico polittico dell’ego, in questo Ich-Drama 26, egli è protagonista autodiegetico di uno svolgimento monodirezionale di cui è lui stesso motore. Il Wanderer è simultaneamente agente e agìto27. A questa ipertrofica presenza (anche pronominale, deittica, monologica) manifesta del soggetto, risulta da contraltare la presenza femminile (la fanciulla), perennemente evocata, ossessivamente interlocutoria, ma che, al contrario, non è mai manifesta. Storicamente, letterariamente, poeticamente la presenza della donna garantisce al viaggio (o al racconto di esso) una dimensione sessualizzante, in cui, come due fuochi di una ellisse, la femmina rappresenta l’orientamento centripeto, mentre il maschio quello centrifugo. La femmina, a differenza del maschio mobile, incarna la stanzialità, protegge attraverso 22 Cfr. F. De Masi, Strategie psichiche verso l’autoannientamento. Note sul comportamento autodistruttivo, «Rivista di Psicoanalisi», XLII, 1996, p. 553. 23 Cfr. Giuseppina La Face Bianconi, La casa del mugnaio. Ascolto e interpretazione della Schöne Müllerin, Firenze, 2003. 24 Cfr. Giuseppina La Face, ibidem, p. 50. 25 Cfr. Bruno Callieri, Quando vince l’ombra. Problemi di psicopatologia clinica, Roma, 1982. 26 Per l’analisi della Winterreise nella prospettiva di ‘monodramma’ di matrice goethiana, cfr. Susan Youens, Retracing a Winter’s journey. Schubert’s “Winterreise”, Cornell University Press, 1991. 27 La suggestione della figura monodrammatica eserciterà un influsso fondamentale su Janáček e Berg – passando per la Schöne Magelone di Brahms – e ancora sullo Schönberg dei Fünfzen Gedichten, op. 15 e sull’Hindemith della Junge Magd. Codice 602
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la sedentarietà il luogo verso cui il maschio farà ritorno, abita le mura, ed introduce gli estranei ai rapporti di parentela. La staticità della donna è un innesco, ovvero un acceleratore di integrazione. In questa prospettiva, nella Schöne Müllerin, alla fanciulla è affidato un ruolo protagonistico che non si esaurisce col mentovare, lei, il ciclo stesso: la bella molinara adempie, infatti, in pieno alla ‘femminilità’. È funzione socializzante e nativizzante dell’estraneo, in rapporto al suo contesto di appartenenza. È, infatti, proprio per il suo tramite che il mugnaio viene accolto nella casa del padrone, entra a far parte di un gruppo di famiglia, in cui da forestiero è promosso ospite. L’esempio tra Nausicaa e Odisseo mi sembra il precedente paradigmatico più illustre per perfezionare questa suggestione. Nel caso della Winterreise, al contrario, sin da subito la fanciulla ha abiurato alla sua funzione inclusiva. È ella stessa elemento-causa dell’allontanamento, la base, il fondamento scatenante lo strappo. „Das Mädchen – dass – sprach von Liebe“ innesca il superamento di se stessa e della sua originaria attitudine ‘normalizzante’ e ne perfeziona addirittura il suo esatto contrario. Non è più la vestale della domus verso cui convergere ogni attenzione, al ritorno dal lavoro dei campi, non più l’ingenua figlia del padrone dalla quale poter ricevere, sia pure condivisa con altri, una frettolosa buonanotte – „Zu der stillen kühlen Feierstunde“ –28. È diventata una reiche Braut a cui nemmeno più la stessa buonanotte è possibile dare, al punto di doversi limitare a scriverla sulla porta, – im Vorübergehen, – passando. Nella Winterreise – tra congedi, saluti, appostamenti, ritorni mancati, rivendicazioni, allucinazioni miracolistiche – manca quello che Leed definisce l’erotismo dell’arrivo29. Se è vero che la partenza, come conseguenza di una non identificata hybris iniziale30, di una in-corrispondenza agli orizzonti di attesa, spezza i legacci tra il peccatore e il luogo dove il peccato, dove la colpa sia stata commessa o esclude le occasioni di reiterarla, viene da chiedersi cosa abbia commesso il Wanderer, di quale mai misfatto si è macchiato? Possiamo noi parlare di una sua responsabilità vera e propria, riconoscere il suo delitto? A differenza della Schöne Müllerin, poco si comprende circa la dinamica dell’abbandono: lei ha lasciato lui, lui ha lasciato lei? Di sicuro c’è nuovamente qualcuno frapposto tra i due che stavolta però non ha i contorni nitidi e riconoscibili del cacciatore, lo Jäger cui titolare un intero Lied, ma quelli evanescenti di un più generico ed indistinto ‘Jedermann’. 28 Cfr. Am Feierabend, ibidem. 29 Eric J. Leed, La mente del viaggiatore. Dall’odissea al turismo globale, Bologna, 1991. 30 Da Caino, avviato sul cammino errabondo per la sua azione fratricida, a Odìsseo condannato da Polifemo.
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In questa dinamica è intervenuta solo la spinta disgiuntiva dei genitori che sembravano già sul punto di perfezionare l’unione – „[…] die Mutter gar von Eh’,“ – oppure qualcosa d’altro? Dove è l’errore, dove il fallo? Sono i genitori carnefici, o semplicemente vittime benpensanti, soverchiate dal miraggio più grande di loro di una eutimìa borghese – „Ihr Kind ist eine reiche Braut“ – ?31 Sono loro, la madre e il padre della ricca sposa, la gente nova, esponenti futuri di quella società che eleggerà il raggiungimento dell’equilibrio Biedermeier a vessillo universale dell’Austria felix32, in cui […] Es schlafen die Menschen in ihren Betten, träumen sich manches, was sie nicht haben, tun sich im Guten und Argen erlaben; Und morgen früh ist alles zerflossen.
ad aver voluto questa interruzione del patto già sancito fra i due giovani? Oppure: il matrimonio è stata una occasione sfumata per senso di inadeguatezza, per senso del limite dello stesso sposo predestinato? Viceversa, è stato un appuntamento fuggito, rigettato dal Wanderer, perché percepito quale simbolo per eccellenza della stanzialità, insopportabile, ancor più consapevolmente una volta accertato che la fanciulla, promessa-sposa-venduta, è tutt’altro che una treues Frauenbild? Comunque stiano le cose, l’alchimia oppressoria e proiettiva che ne deriva e che insiste su tutta sulla camminata spiritica del Wanderer non è altro che la risultante di una violenza, una violenza inapparente, obliqua, probabilmente immateriale ma pur sempre distruttiva e dolorosa. È quella che Hannah Arendt chiamerebbe la banalità del male33, a fondamento dell’ordinarietà dell’abuso, spesso nascosto, non individuabile e il più delle volte non riconosciuto34. Certamente è la violenza stessa dell’estraneità, che pesa – a prescindere – sul Wanderer come una colpa e costituisce il presupposto per l’esercizio conseguente di una violenza sociale (gerarchica) legittimata. Il senso di non-appartenenza si esprime anche nella violenza denigratoria (i cani che 31 Mann raccoglie più di altri l’eredità letteraria (e filosofica) di questa prospettiva: penso alla stanzialità ‘sociale’ dei Buddenbruck, alla Montagna magica (Hans Castorp è a suo modo un Wanderer) e al Doktor Faustus (anche Adrian Leverkuhn è un errante). Cfr. Hans Bürgin, Das Werk Thomas Manns. Eine Bibliographie. unter Mitarbeit von Walter A. Reichert und Erich Neumann, Frankfurt am Mein, 1959. 32 Per le implicazioni storico sociologiche del passaggio dal periodo Bidermeier alla piena Bella Époque (e della successiva reazione nazionalsocialista) cfr. Stefan Zweig, Die Welt von Gestern. Erinnerungen eines Europäers, Stoccolma, 1941. 33 Cfr. Hannah Arendt, Eichmann in Jerusalem: a report on the Banality of Evil, 1963 in trad. italiana a cura di P. Bernardini, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, 2012; Zygmunt Bauman, Le sorgenti del male, 2013 e, più recentemente, Il secolo degli spettatori. Il dilemma globale della sofferenza umana, 2015. 34 Desumo questa suggestione dal recente saggio della francesista Giusi Alessandra Falco, La violenza inapparente, Quodlibet Studio, 2016. Codice 602
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abbaiano sempre al diverso, contro di lui – già in Gute Nacht – e poi ancora contro il suo ideale Doppelgänger, nell’explicit del Leierman) e la condanna all’isolamento dal gruppo che pur egli sembra intelligere come ingiusto: Habe ja doch nichts begangen, / dass ich Menschen sollte scheu’n; Non ho davvero commesso nulla perché io debba evitare l’uomo;
È la violenza della natura, quasi totalmente ostile, raggelata nel sembiante e nel sentimento, che incrudelisce contro di lui. È la violenza della frustrazione, del risveglio che sostituisce all’illusione fatua (Irrlicht, Täuschung: Ach! Wer wie ich so elend ist, / gibt gern sich hin der bunten List); la spietatezza del reale, die Grausamkeit der Realität. La violenza della solitudine35; la violenza della psicosi che agisce come un tarlo. È la violenza della consapevolezza: Und ich wand’re sonder Massen / ohne Ruh’ und suche Ruh’. Ed io mi dirigo altrove / senza pace e cerco pace.
[…]
Eine Strasse muss ich gehen, / die noch keiner ging zurück. devo prendere la strada da cui mai nessuno ha fatto ritorno.
È la violenza implicita alla memoria: il ricordo di un tempo perduto genera strazio e non accettazione del presente. Ed è addirittura la violenza della metafora, che attraverso la proiezione di immagini e parole crea accostamenti e similitudini atte a distruggere – perché stretti in una morsa inesorabilmente mortifera – l’io narrante e l’io narrato. È la violenza della morte36, come fatto volontario, inesorabile, necessario. Jeder Strom wird’s Meer gewinnen, / jedes Leiden auch sein Grab. Ogni corso d‘acqua finirà nel mare, ogni dolore finirà nella tomba
È la violenza, au contraire, della vita che, nonostante tutto, tenta di prevalere comunque sull’annientamento. Bin matt zum Niedersinken, bin tödlich schwer verletzt. O unbarmherz’ge Schenke, doch weisest du mich ab? Nun weiter denn, nur weiter, mein treuer Wanderstab!
35 Cfr. il Lied Einsamkeit su testo di Mayrhofer e soprattutto i Gesänge des Harfners aus „Wilhelm Meister“ D. 478 – 480. che si aprono col monito „Wer sich der Einsamkeit ergibt, / Ach! Der ist bald allein“. 36 Noto che il tema della morte, diversamente da quanto si potrebbe pensare, non costituisce una presenza, almeno sul piano del richiamo terminologico, così vistosa nella produzione schubertiana. Le uniche occorrenze, infatti, che ho potuto riscontrare sono costituite da: il Totengräberlied D. 38 di Ludwig Christoph H. Hölty (per due tenori e basso), Der Tod und das Mädchen D. 531, su testo di Mathias Claudius, il Totengesang der Frauen und Mädchen D. 836; la Todesmusik D. 758; i Lieder Totengräbers Heimwehe D 842 su testo di Nikolaus Craigher de Jachelutta e Totengräbers Wiese D. 869 su testo di Franz von Schlechta.
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Sono spossato, non mi reggo più, sono mortalmente ferito. Crudele taverna, mi vuoi proprio scacciare? Avanti dunque, avanti, o mio fedele bastone.
La disperazione è qualcosa di difficile su cui ragionare e certo qualcosa da nascondere nella Vienna della post-Restaurazione. Per i depressi non esisteva alcun rimedio (gli psicofarmaci in senso stretto non erano ancora una categoria della farmacopea riconosciuta) e previsto alcun protocollo sanitario di intervento o di recupero. C’erano numerosi manicomi, però, e assai più numerosi casi, alla settimana, di suicidio37. Gli stati depressivi e ipomaniaci di Schubert, così ampiamente descritti dalla cerchia degli amici e conoscenti, quasi perfettamente coincidono con quelli del mugnaio, prima e del Wanderer, ora. Quasi si sovrappongono. Anche in Franz la fase distimica – difficoltà di prendere decisioni, i problemi di concentrazione, i disturbi di memoria, il senso di colpa immanente, l’ipercriticità, la tendenza alla scarsa stima di sé; il pessimismo, l’indulgere in pensieri auto-lesionisti, la perfusa apatia, la disperazione, l’impotenza, l’irritabilità, l’irascibilità, la demotivazione, il ritiro dalla vita sociale38, l’affaticamento o insonnia – convive con quella euforica – eccesso di ottimismo, la sovrastima – talvolta politically incorrect – di se stesso, la scarsa capacità di giudizio, la accelerazione della parola, i comportamenti aggressivi e ostili, lo scarso interesse verso gli altri, l’agitazione, l’iperattività fisica, il senso ‘odissiaco’ dell’impellenza39. Così come l’esperienza depressiva del Wanderer si proietta sulla meningite di Adrian40, allo stesso modo la follia di Nietzsche è imparentata con il superomismo inverso dello Schubert luetico, precipitato nel vuoto della disumanità e nella contezza di essere dannato41. Schubert è vittima almeno di due amori non corrisposti o evitati: quello per Therese Grob, che gli preferisce un altro pretendente (l’impersonificazione 37 A proposito dei manicomi viennesi, cito per tutti il complesso dello Steinhof, quella che effettivamente fu considerata per lungo tempo la più grande e moderna struttura ospedaliera psichiatrica d’Europa. Cfr. L. Topp, Otto Wagner and the Steinhof Psychiatric Hospital: architecture as misunderstanding, «ArtBull», 87/1, 2005. Ed è quantomeno suggestivo considerare che proprio Vienna, successivamente, in piena Secessione, sarebbe divenuta, con Freud e Jung (e, in parte, Karl Jasper) la città-culla della psicoanalisi. Cfr. Aldo Carotenuto, Breve storia della psicoanalisi, Roma, 2012. 38 Del completo isolamento di Schubert c’è addirittura traccia in uno dei Konversationshefte, i quaderni di conversazione di Beethoven; “tutti stimano Schubert, ma dicono che si tenga nascosto […]”, scrive il nipote Karl allo zio nell’agosto del 1823. Cfr. Luigi Magnani, Beethoven nei suoi quaderni di conversazione, Torino, 1975. 39 Cfr. Otto E. Deutsch, Schubert. Die Dokumente seines Lebens, Kassel, 1964. 40 Cfr. Thomas Mann, Romanzo di un romanzo e altre opere autobiografiche, Milano, 1971, pp. 128 e segg. 41 Cfr. Enzo Restagno, Schubert. L’amico e il poeta nelle testimonianze dei suoi contemporanei, Torino, 1999. Codice 602
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dello Jäger nel mondo reale) e quello per la Contessina Caroline Esterhazy, sua allieva di strumento cui egli dedica la Fantasia in fa minore – quella a quattro mani –, la quale nemmeno si accorge di essere amata42. Egli conosce la sofferenza depressiva per antica consuetudine, anche familiare, ben prima della malattia mortale di cui, forse, detta sofferenza è addirittura causa implicita. Se Schubert, infatti, avesse avuto una vita relazionale ‘regolare’, non avrebbe forse avuto il bisogno, la necessità di indulgere al postribolo. È depresso per un irrisolto rapporto con il padre, sin dall’epoca degli studi giovanili; per la scomparsa di Beethoven (che lo precede di un solo anno nella morte); per la nostalgia mai risolta nei confronti di Mayrhofer, il poeta – suo riferimento spirituale e letterario prima di Schober – con cui egli aveva convissuto e che morirà suicida, gettandosi dalla finestra del suo ufficio nel 183643. Non è difficile per il compositore dare suono alle sue proprie immagini, sfogare ed amplificare nel canto del Wanderer le sue stesse insoddisfazioni. L’isoritmia percussiva, incalzante di Gute Nacht è un pendolo che scocca i minuti che passano; i graffianti sbuffi delle scale ascendenti della Wetterfahne sono un riprendere fiato rabbioso, vorace, dopo il respiro trattenuto per non fare rumore; una iperventilazione dopo l’apnea. Il canto di Erstarrung, poi, canto incontrollato, che si dispera caracollando sul tappeto orchestrale del pianoforte, risponde ad una urgenza eiaculatoria, spermatica – erotismo on the rocks – intrattenibile ma inutile – ‘vergebens’ – nella sua infecondità. Non resta che guardarsi indietro, nell’incedere ritmicamente squadernato di Rückblick, e ricordare quanto fu diversa l’accoglienza quando Die runden Lindenbäume blühten, die klaren Rinnen rauschten hell, und ach, zwei Mädchenaugen glühten! Fiorivano i tigli chiomati, mormoravano i limpidi corsi d’acqua, e, ahimé, due occhi di fanciulla rilucevano!
È la voce di Franz questa, che in Die greise Kopf innalza arcate che sembrano elastiche, che attingono agli inferi della tessitura e si distendono inverosimilmente in altezza, prima di riaccartocciarsi su se stesse, ormai esauste. Le quinte vuote sono rintocchi di campane a morto, sottolineano 42 Trovo poco pertinente – se non addirittura dannoso – seguire le pretestuose suggestioni filo-omosessualiste che vorrebbero Schubert un pederasta a caccia di prede per soddisfare inique voracità. Per chi fosse interessato ai famosi ‘pavoni’ e amenità affini, rimando a Maynard Solomon, Franz Schubert and the Peacocks of Benvenuto Cellini, «19th Century Music», 1989, 12, n. 3. 43 Per l’approfondimento della figura di Mayrhofer ed il suo rapporto con Schubert e per numerosi altri spunti, condivisi e ripresi in questa trattazione, rimando al fondamentale testo di riferimento di Giuseppina La Face Bianconi, op. cit.
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la solitudine inesorabile della Einsamkeit e anticipano l’epicedio finale del Leiermann. Anche il sogno – le numerose prolessi di un canto squisito – si eleva nel porcellanato riverbero della tonalità maggiore che in tutto Schubert è mai rassicurante. Sempre contraddittoria e ipocrita. Esattamente come la danza, come quel valzerino horror di Täuschung che sostiene e acuisce la vertigine incantatoria dell’ubriacatura dei sensi, schiaffeggiati dal freddo. Il Wanderer reagisce, o tenta di farlo, ma anche il coraggio sembra compresso, asfittico: orbo dell’originario segno esclamativo, risulta spuntato, fesso44. La vitalità è solo apparente, ci ammonisce Schubert, ed il fenomismo blasfemo non fa che evidenziare, anche musicalmente, l’illusorietà della spavalderia posticcia: Will kein Gott auf Erden sein, sind wir selber Götter! Se non c’è nessun Dio sulla terra, noi stessi siamo dei!
E si prosegue, in questa Totentanz ininterrotta, con la processione delle varie epifanie, una teoria di simulacri didascalici a sostegno di un reale di risulta: l’ingannevole Lindenbaum, femmineo nel genere come nell’esercizio di una seduttività ambivalente, oceanina45; a metà tra una sirena omerica46 e la ovidiana personificazione della fedeltà coniugale47. Con la Krähe creatura bizzarra, wunderlisches Tier, già perfettamente uccello hitchcockiano, spaventevole nella gotica reminiscenza di un’emarginazione emarginante48 che sancisce l’uscita dai confini dell’abitato. Ecco il cimitero, la cerniera tra il mondo visibile e quello invisibile49. Il Wanderer 44 Nell’originale di Müller il titolo del brano a cui mi riferisco è scritto col punto esclamativo: Mut!; nella versione di Schubert, senza: Mut. Analogamente per quanto avviene col titolo dell’intero ciclo: Die Winterreise in Müller, Winterreise in Schubert. Non possono essere solo dettagli tipografici. 45 Già in Apollonio Rodio, Filira, dopo la violenza di Crono è trasformata in tiglio e dispensa al figlio Chirone, il centauro, le arti mediche. Gli estratti di tiglio, tutt’oggi, sono utilizzati in fitoterapia come calmante e induttore del sonno. 46 Perché il viandante si arrenda ‘finalmente’ al tiglio e ceda al sonno della morte, bisogna aspettare, cinquantasei anni dopo la Winterreise, il Gesell mahleriano dei Lieder eines fahrenden Gesellen. 47 Cfr. Ovidio, Metamorfosi (mi riferisco all’episodio di Filemone e Bauci, rispettivamente identificati con la quercia, lui e col tiglio, lei). 48 Sulla rappresentatività del corvo (colore, verso) quale simbolo di separazione dal mondo dei vivi e di contingenza con il regno dei morti e su tutte le implicazioni letterarie che ne derivano cfr. Ottavio Bosco, Simbolo animale: significato del Corvo tra mitologia ed esoterismo, 2013. 49 Mi viene in mente il suggestivo Auerbachs Keller, celeberrimo locale storico nel centro di Lipsia, dove tuttora il mito goethiano è una delle principali ragioni di interesse. La storia vuole che Goethe, frequentatore della cantina/locanda, traesse ispirazione dalla leggenda che vuole ambientato qui, nel 1515, l’incontro tra Faust e Mefistofele. Codice 602
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lo scambia per Wirtshaus, ma in questa locanda non si mesce il vino novello che Schubert è solito bere a Grinzing fino a stordirsene, e tutte le camere/tombe sono già occupate. Le ghirlande, da insegna, sono solo corone funebri, rinsecchiti simulacri di una vita rispettata. L’ultima apparizione è quella del Leiermann. L’ipotiposi della creatura in lontananza, wunderliches50, consente al Wanderer per la prima volta di parlare dei suoi stessi canti, quelli cui ha dato voce fino a questo momento, che, con una inaspettata, spiazzante quanto efficacissima mise en abyme, vengono resi iper-reali, iper-concreti. Iper-udibili. Wunderlicher Alter […] Willst zu meinen Liedern deine Leier dreh‘n? Misterioso vecchio […] Accompagneresti i miei canti con la tua ghironda?
Gli ultimi giorni di Schubert hanno la stessa accelerazione straniante, traslucida. Trascorrono le immagini nella sua mente, sul letto di morte, in casa del fratello Ferdinand, in un appartamento piccolissimo, di uno stabile tutte scale di Kettenbrücken Gaße, oggi pienamente integrato nella città, a poche fermate di metropolitana da Karlsplatz, ma che allora era alla estrema periferia di Vienna. Franz dorme in una piccola stanza con una finestra; un andito dai volumi ristretti, col pavimento di larice scuro, che costituisce anche il passaggio, il disimpegno per raggiungere, dall’uscio, l’unica sala di rappresentanza dell’intero appartamento. A richiamare al visitatore dei giorni nostri l’originario arredamento, è stato posizionato un fortepiano Graf e nessuna altra mobilia. Immaginiamo per un momento la famiglia di Ferdinand: i bambini che schiamazzano, la quotidianità della gestione domestica, dei servizi, delle adempienze. In tutto questo, Franz lavora all’opera Der Graf von Gleichen, corregge le bozze della seconda serie della Winterreise e legge avidamente Cooper, L’ultimo dei Mohicani. Incessantemente. Senza pace, cercando pace. In attesa di quel buio – Im Dunkel wird mir wohler sein – che è ancora in grado di invocare di suo pugno nella lettera a Schober il 14 novembre51: lo troverà solo novantasei ore dopo, al suono della ghironda, alle tre del pomeriggio di una giornata piovosa.
50 La definizione della Krähe, wunderliches Tier, bizzarra creatura, si ‘umanizza’ in quella del Leiermann, wunderliches Alter, bizzarro vecchio; l’aggettivo qualificativo è sempre il medesimo. 51 Cfr. Erich Valentin, Franz Schubert. Briefe: Tagebuchnotizen, Gedichten, Vienna, 1997.
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La musica per chitarra di Manuel M. Ponce nel contesto della sua opera
di Stefano Campagnolo*
È noto come Andrés Segovia (1893-1987) – considerato con giuste ragioni colui che ha maggiormente contribuito a restituire alla chitarra classica1 un ruolo nell’ambito della musica d’arte nel secolo scorso –, abbia fondato la propria carriera e fortuna in specie su una intuizione: costruire un repertorio originale per il suo strumento con una assidua opera di committenza e sollecitazione presso i compositori contemporanei2. Nel rapporto, spesso difficile, che Segovia intrattenne con i compositori che ha incontrato nella propria lunga carriera, possiamo distinguere quelli che furono da lui richiesti di comporre per lo stru* Stefano Campagnolo, dottore di ricerca in Filologia musicale, è direttore della Biblioteca statale di Cremona. Al suo attivo ha numerose pubblicazioni in ambito nazionale e internazionale sulla musica profana del Cinquecento e del Trecento italiano. È membro del Comitato scientifico del Centro studi dell’Ars nova italiana di Certaldo. 1 La definizione di ‘chitarra classica’ non deve essere intesa, come spesso accade, come significativa relativamente al repertorio eseguito, e quindi in contrapposizione con altre tipologie organologiche sviluppate per la musica popolare, ma come la definizione più appropriata a indicare lo strumento che raggiunge la propria definizione formale nel periodo ‘classico’ della storia musicale, ovvero fra la fine del ’700 e gli inizi del secolo successivo, in contrapposizione allo strumento barocco che lo precede. Il termine è in uso almeno dagli anni venti del ’900 in ambito anglosassone. 2 Per l’affermazione della chitarra classica nel XX secolo, molti altri sono i fattori elencabili, taluni determinati da tendenze storiche in atto, come il nuovo gusto dei compositori per formazioni cameristiche con commistioni timbriche inedite e in generale il rinnovato interesse per la musica da camera e per sonorità particolari anche se ‘piccole’, l’attenzione per la musica e le forme popolari così come la riscoperta della musica antica e barocca e quindi del repertorio liutistico, lo spagnolismo alla moda, la fortuna dell’oggetto-chitarra nelle arti figurative; altri si devono specificatamente a Segovia, come una straordinaria capacità manageriale nel promuovere la propria attività e la propria persona, l’orgogliosa scelta di non proporsi presso i circoli di dilettanti e amatori dello strumento presso i quali era da mezzo secolo e più confinata la chitarra e viceversa la sfida di calcare i palcoscenici più importanti, il rifiuto per musiche volgari quali ballabili e pot-pourri, la comprensione dell’importanza delle incisioni discografiche. Per una bibliografia aggiornata su Segovia si può fare riferimento al piacevole Angelo Gilardino, Andrés Segovia: l’uomo, l’artista, Milano, Curci, 2012. Codice 602
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mento, da coloro i quali si offrirono spontaneamente di farlo, colpiti dalle qualità del maestro spagnolo. Fra i secondi annoveriamo ad esempio il polacco Alexander Tansman e probabilmente molti dei nomi emersi allo spoglio degli Archivi Segovia di Linares, cioè la biblioteca musicale del chitarrista, e mai ricompresi nei programmi segoviani3. Fra quelli invece sollecitati direttamente da Segovia, fra i primissimi, troviamo i nomi di Federico Moreno Torroba, Mario Castelnuovo-Tedesco, Joaquín Turina e quello del musicista più coinvolto nell’azione di Segovia, e indubbiamente il preferito dal chitarrista andaluso: il messicano Manuel Maria Ponce (1882-1948). Fra Segovia e Ponce, fra esecutore e compositore, si sviluppò un rapporto di collaborazione così stretto da non trovare molte analogie nella storia musicale. A testimoniarlo, sono sopravvissute le lettere che Segovia ha inviato a Ponce4, e la consistenza di questo carteggio ha consentito di approfondire lo studio sul loro sodalizio, amicale prima ancora che artistico. In questa relazione la figura di Ponce è apparsa ai più prona ai desiderata del maestro spagnolo, incline a soddisfare in modo acritico le esigenze poste a Segovia dalla frenetica vita concertistica che conduceva e dal suo disegno estetico, uscendone stilisticamente appannata e al più bollata con le non qualificanti stimmate dell’eclettismo5. È stato davvero così? Mancano le lettere di risposta di Ponce a Segovia, perdute, che avrebbero illuminato al proposito e ci avrebbero forse restituito un’immagine meno distorta da quella emergente nella corrispondenza a senso unico che conosciamo, ma un approfondimento sull’opera di Ponce, sulla sua formazione e il suo tempo può consentire di tracciare un quadro più equilibrato in cui incorniciare la sua produzione chitarristica. Quando Segovia incontrò Ponce nel 1923, in occasione delle sue prime tournée nel Sudamerica, il musicista messicano era un ormai affermato
3 Su questo punto cfr. Gilardino, Andrés Segovia, cit. passim. Gilardino è peraltro l’editore delle musiche tratte dall’Archivio Segovia, per l’editore Bèrben. 4 The Segovia-Ponce Letters, ed. by Miguel Alcazar, trad. by Peter Segal, Columbus, Editions Orphée, 1989. Sul rapporto Segovia-Ponce si veda poi la storica monografia, pur se a carattere agiografico, Corazòn Otero, Manuel M. Ponce y la guitarra, Mexico, Fonapas, 1981 (cit. dall’ed. ing. Manuel M. Ponce and the Guitar, transl. by J. D. Roberts, Westport (Conn.), The Bold Strummer, 1994); si segnala inoltre una delle numerose tesi universitarie su Ponce che ruota attorno al carteggio e alle tematiche qui toccate: Peter E. Segal, The Role of Andrés Segovia in Re-Shaping the Repertoire of the Classical Guitar, DMA thesis, Temple University, 1994. 5 Ad esempio cfr. Mark Dale, “Mi querido Manuel”. La influencia de Andrés Segovia en la música para guitarra de Manuel M. Ponce, «Heterofonía: revista de investigación musical», 118-119, 1998 (Ejemplar dedicado a Manuel M. Ponce, a 50 años de su muerte), pp. 86-105.
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compositore quarantunenne6. Alle spalle aveva molte delle composizioni ancor oggi fra le più note e favorite, pianistiche e non solo, quali la deliziosa Gavota (1901), il pezzo per mano sinistra sola Malgré tout (1903)7, parte delle numerose mazurke, lo Scherzino mexicano (1909), il Concerto Romantico per piano e orchestra (1911), il celebre Intermezzo n. 1 (1912), la già famosa Estrellita compresa nell’album delle Canciones mexicanas (1914), la Balada Mexicana (1915), la prima versione di una delle sue opere più ambiziose, Chapultepec, poema sinfonico (1921), le Estampas nocturnas del 1923 e molte altre. Nato in una famiglia della piccola borghesia, Ponce si era formato dapprima in Messico quale fanciullo prodigio – aveva iniziato a studiare in casa, con la sorella, e a comporre a soli nove anni – studiando con Vicente Mañas, pianista spagnolo, e armonia con un italiano, Eduardo Gabrielli: uno spagnolo e un italiano, fra i molti residenti nel continente, a rappresentare le due direttrici lungo le quali si muoveva la musica messicana. Infatti, per quanto gli spagnoli abbiano segnato un dominio culturale su tutta la regione, la musica in Messico parlava largamente italiano, già col melodramma del secolo XVIII, italiano nella sostanza, ma uniformato alla zarzuela spagnola: vigeva cioè la prassi della trasformazione delle opere italiane, traducendo i testi 6 Per le notizie relative a Ponce si faccia riferimento a Ricardo Miranda, Manuel M. Ponce, Ensayo sobre su vida y su obra, Mexico City, Consejo Nacional para la Cultura y las Artes, 1998; fondamentale per gli studi su Ponce: Jorge Barrón Corvera, Manuel María Ponce: A Bio-bibliography, Westport (Conn.), Praeger, 2004, con il catalogo ragionato delle opere. È in corso un imponente piano editoriale per la pubblicazione delle opere inedite o non più ristampate a cura della Escuela Naciònal de Musica UNAM (cfr. Paolo Antonio Mello Grand Picco, Proyecto Editorial Manuel M. Ponce, Escuela Nacional de Música, UNAM, «Revista Digital Universitaria», 7/2, 2006). Tutte le opera per chitarra sono state edite e commentate col sostegno dei manoscritti superstiti: Manuel M. Ponce, Obra completa para guitarra. De acuerdo a los manuscriptos originales, a cura di M. Alcazar, Conaculta, Étoiles, 2000 (edizione bilingue: spagnolo ed inglese). Nel corso del lavoro saranno citate alcune delle molte tesi universitarie (per lo più americane) sull’opera di Ponce, chitarristica e non solo. 7 Ponce l’ha composto in onore dello scultore connazionale e compaesano Jesus F. Contreras (Ponce nacque a Fresnillo, perché i suoi genitori, compromessi con il regime di Massimiliano d’Asburgo, temendo per l’avvento di Porfirio Diaz, si erano lì temporaneamente spostati, ma tornarono quasi subito ad Aguascalientes, patria di Contreras e vera città di Ponce), che aveva presentato con grande successo all’esposizione internazionale di Parigi del 1900 una scultura dalla stessa intitolazione: Malgré tout (A pesar de todo, in spagnolo). Contreras aveva perso il braccio destro per un tumore maligno che lo portò rapidamente alla morte (1902), ma si era diffusa presto una leggenda che dura tuttora intorno alla sua mutilazione che voleva che fosse stata dovuta a un incidente di lavoro (una fusione) e che l’opera presentata fosse stata scolpita con la sola mano sinistra. Il pezzo è considerato in ritmo di habanera, ma la figurazione puntata che lo contraddistingue è tipica, oltre che della danza cubana, anche del folklore messicano. Si veda l’introduzione all’edizione moderna: Manuel M. Ponce, Malgré tout (A pesar de todo), Danza para la mano izquierda sola, a cura di J. Herrera, Ciudad de Mexico, Universidad Nacional Autònoma de México – Escuela Nacional de Mùsica, 2005, (edizione speciale a cura di Clema Ponce), pp. 3-7. Ponce scrisse poi altre composizioni per la sola mano sinistra, come un Prélude et Fugue nel 1931. Codice 602
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delle opere buffe ed eliminando i recitativi, rappresentandole con organici estremamente ridotti e una qualità molto bassa, anche per i cantanti. Tutto ciò almeno fino all’arrivo in Messico nel 1827 del famoso tenore spagnolo Manuel Garcia, che impose il ripristino dell’italiano e dei recitativi, elevando la qualità e rappresentando insomma, al più alto livello, opere italiane con cantanti professionisti, modificando così per sempre il gusto locale. Da allora si rappresentarono solo opere in italiano: da Bellini e Donizetti fino a Verdi e Puccini, producendo fenomeni emulativi fra i pochi compositori indigeni. Diventò prassi completare la propria formazione in Europa, come nel caso di Melesio Morales, che ebbe la fortuna di veder rappresentata a Firenze la sua Cunegonda (1866), e dopo tre anni di studi in Italia, fece ritorno in patria celebrato come un eroe nazionale, organizzando nel Conservatorio di Città del Messico un proprio corso di composizione esplicitamente ispirato ai “princìpi napoletani”, scrivendo altre opere, che non replicarono mai il successo di Cunegonda, tutte in italiano. A fine secolo, si sentiva però ormai l’esigenza di fondare un melodramma nazionale e cominciarono i primi esperimenti di libretti in spagnolo ispirati alla storia antica e su questa strada si incamminarono i compositori della generazione che precede immediatamente quella di Ponce, come Gustavo Campa e soprattutto Ricardo Castro8. Non è sorprendente quindi che Ponce abbia sentito l’esigenza di completare la propria formazione in Europa, con il primo viaggio compiuto nel 1904, e non sorprende che, su consiglio e raccomandazione di Gabrielli, si sia recato anzitutto in Italia per incontrare a Bologna Marco Enrico Bossi. L’incontro con Bossi non fu fortunato, ma è a suo modo significativo se corrisponde al vero quanto si narra: dopo averlo sentito suonare alcune sue composizioni, Bossi, oberato da troppi impegni, l’avrebbe rifiutato come allievo, ma col dirgli che, pur componendo delle bellissime melodie, il suo stile era quello del 18309. Gli consigliò quindi il Liceo Rossini di Bologna, dove Ponce studiò pianoforte con Luigi Torchi10 e composizione con Cesare Dall’Olio11. Morto quest’ultimo nel 1906, Ponce decise di spostarsi a
8 Ancora valido José Lopez-Calo, L’America latina, in Storia dell’Opera, Torino, Utet, v. II, t. II, L’opera in Europa e nelle Americhe, 1977, pp. 448-471. 9 Il racconto è verosimile (cfr. Miranda, Manuel M. Ponce, cit., p. 20), anche se sorprende che un tal giudizio – sostanzialmente corretto, soprattutto se le composizioni su cui puntò Ponce furono alcune delle mazurche, schiettamente chopiniane –, venga da Bossi, non propriamente un modernista. 10 Vale a dire uno dei massimi artefici, con Oscar Chilesotti, della riscoperta della musica antica in Italia, l’autore de L’Arte musicale in Italia. Pubblicazione nazionale delle più importanti opere musicali italiane dal secolo XIV al XVIII, tratte da codici, antichi manoscritti ed edizioni primitive, scelte, trascritte in notazione moderna, messe in partitura, armonizzate ed annotate da Luigi Torchi, Milano, G. Ricordi, 1897-1908, 7 vv. 11 Apprezzato didatta e trattatista, autore di un trattato d’armonia (Corso teorico-pratico di armonia, Torino, Giudici & Strada, s.d.) e molti altri scritti teorici.
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Berlino, prendendo lezioni di pianoforte inizialmente con Edwin Fischer12, per passare poi sotto Martin Krause, uno degli allievi di Liszt (si ricordi che Liszt è morto nel 1886, restando molto attivo fino alla fine dei suoi giorni), dando prova della propria maestria in più occasioni13. Non potendo più sostenersi economicamente in Europa, giunse il momento del ritorno a casa, nel 1907, e, come dono per la partenza, significativamente, i compagni di studi gli regalarono il primo volume dedicato alle Americhe di una raccolta di canti popolari di tutto il mondo, curata da Albert Friedenthal14. Gli anni che seguirono furono di grande attività per Ponce, sia come compositore, sia, al Conservatorio Nazionale dal 1908, come didatta, sia come operatore culturale, pur dovendosi confrontare con la Rivoluzione messicana (1910). Da ricordarsi come qualificanti le celebrazioni del 1910 per Chopin (non a caso è l’anno dell’inizio della composizione del Concerto Romantico per pianoforte e orchestra) e nel 1912 organizzò il primo concerto con musiche del solo Debussy, fino a quel momento completamente sconosciuto in Messico. Cominciò a essere una figura autorevole della vita musicale. Tra i suoi allievi il piccolo Carlos Chávez. Forse quale frutto della sollecitazione venuta dall’antologia di Friedenthal, aveva cominciato a interessarsi alla canción messicana, realizzando armonizzazioni e adattamenti da canzoni popolari, o almeno ritenute tali, e componendone di nuove. Nel 1913 aveva tenuto una conferenza alla Biblioteca di Città del Messico sulla canción, tappa fondamentale di un suo incessante esercizio da musicologo e pubblicista e vero e proprio manifesto estetico15, e l’anno successivo apparve l’album delle Canciones mexicanas16. 12 Alcune biografie riportano di uno sconosciuto Edwin Fisocher, frutto di una errata trascrizione del nome del celeberrimo pianista svizzero, il quale, anche se più giovane di Ponce (era nato nel 1886) era didatta nel conservatorio di Berlino, dove era entrato a soli dieci anni, e dove presumibilmente preparava i migliori allievi da inviare a Krause (cfr. Miranda, Manuel M. Ponce, cit., p. 21). 13 L’aneddoto più conosciuto vuole che, ascoltato il maestro fare lezione sulle suite di Haendel (allora assai poco conosciute) il giorno seguente se ne sia tornato in classe con il Preludio e fuga su un tema della suite in mi minore di Haendel. 14 Albert Friedenthal, Stimmen der Völker in Liedern, Tänzen und Charakterstücken, Berlin, Schlesingersche Buch- und Musikhandlung, s.d., I: Abteilung. Die Volksmusik der Kreolen Amerikas. La prima sezione di questa raccolta, provvista di una introduzione trilingue su struttura dei canti e prassi esecutiva, è dedicata proprio al Messico con alcune celeberrime melodie come il Jarabe tapatìo, La Paloma (non propriamente un canto popolare, che si deve, come è specificato, al compositore spagnolo Sebastian de Yradier), la Arulladora. 15 Numerosissimi gli scritti di Ponce apparsi su giornali e riviste già dagli anni giovanili (nel 1903 collaborava con The Observer come critico musicale). Una raccolta di scritti, che comprende anche la relazione sulla canción, si può leggere, estesa, nel numero monografico della rivista Cultura a lui dedicato (Manuel M. Ponce, Escritos y Composiciones Musicales, prologo de Ruben Campos, «Cultura», IV/4, 1917). 16 Quella del 1914 non era comunque la prima raccolta di Ponce: ne aveva pubblicata una già nel 1912 per l’editore Wagner y Levien e un arrangiamento di Marchita el alma arricchiva il testo sulla canción nella prima pubblicazione (cfr. Miranda, Manuel M. Ponce, cit., p. 30). Codice 602
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Fra il 1915 e il 1917 fu a Cuba a causa degli eventi rivoluzionari (Ponce aveva commesso l’errore di appoggiare l’ascesa di Huerta e un gruppo di anti-huertisti lo prese di mira bersagliandolo con critiche pretestuose), in esilio volontario, approfittandone per studiare la musica popolare cubana, da sempre contigua al folklore messicano. Il tentativo di dare concerti negli USA fu frustrato dall’attacco di Pancho Villa alla città di Columbus, trovando così un ambiente e recensioni sfavorevolissimi. Dopo un breve ritorno nel 1916, rientrò definitivamente in Messico nel 1917, sposando Clementina (Clema) Maurel. L’anno successivo fu nominato direttore dell’Orchestra Sinfonica del Messico, riuscendo a organizzare concerti con Pablo Casals ed Arthur Rubenstein, e intensificando nello stesso tempo la produzione teorica e le collaborazioni giornalistiche. Quando, nel 1923, recensì per El Universal il concerto di Segovia giunto nel suo paese per la prima volta17, – sollecitando così la curiosità del chitarrista (che sicuramente conosceva Ponce già per fama: la recensione potrebbe essere stata semplicemente una buona scusa per avvicinarlo) e che ottenne a richiesta la prima pagina chitarristica di Ponce –18, non era però un momento felice. Come illustra convincentemente Leonora Saavedra 19, Ponce aveva ottenuto una grande notorietà, non solo a livello locale, con le sue Canciones, indicando una via ai musicisti del suo paese e diventando uno dei padri fondatori della cultura e dell’identità nazionale. Tuttavia, la strada indicata da Ponce – che peccava essa stessa di una profonda ingenuità di fondo20, ma che era comunque nutrita da grande scienza musicale e raffi17 Il 6 maggio. Cfr. Otero, Manuel M. Ponce, cit., pp. 18-19, per un estratto della recensione e, in italiano, Gilardino, Andrés Segovia, cit., p. 87. 18 Una versione per chitarra de La Valentina, una canción, e una pagina che diverrà il terzo movimento della Sonata I (Mexicana, la prima sonata novecentesca per la chitarra), che cita il Jarabe tapatìo. 19 Leonora Saavedra, Manuel M. Ponce’s Chapultepec and the Conflicted Representations of a Contested Space, «Musical Quarterly», 92/3-4, 2009. Il bellissimo articolo deriva dalla più ampia tesi dottorale: Id., Of selves and Others: Historiography, Ideology, and Politics of Modern Mexican Music, PhD. Diss., University of Pittsburgh, 2001. 20 Saavedra sintetizza così la concezione della canción in Ponce sotto l’aspetto puramente musicale: “Musically speaking, what Ponce valued in the canción was exclusively its melodic aspect, dismissing the simplicity of its tonic–dominant harmonies as having no potential for development into an art music. He recognized and valued the importance of improvisation and oral transmission in the preservation of the canción in its rural habitat through regional, wandering, ‘rhapsodizing’ singers, i.e., cancioneros. But he valued complex art music as a superior evolutionary stage in the development of music and saw the duty of the composer as nothing less than «to ennoble the music of his country, giving it artistic form, clothing it in the drapes of polyphony, and lovingly conserving the popular musics that are the expression of the national soul». Ponce thus positioned himself as a composer, however marginal, within a clearly defined social hierarchy that, despite his genuine empathy for the pueblo and disapproval of the upper classes’ cultural habits, he had no intention to subvert” (Saavedra, Manuel M. Ponce, cit., pp. 283-284). Una concezione elitaria dunque, che coglieva la pura linea melodica tralasciando ogni altro aspetto della canción.
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natezza –, fu abbracciata da una moltitudine di interpreti in maniera assai superficiale. Oltre a ciò, il decennio rivoluzionario 1910-1920 fu segnato da una modificazione del gusto della musica popolare, con l’emergere di nuove forme di spettacolo che portavano con sé nuove musiche e danze, tanto da provocare esplicite lamentele di Ponce – che scrisse un articolo dedicato a ‘His Majesty, the Fox’, per contrastare l’inarrestabile avanzata del fox-trot – che vedeva la sua canción mortificata nella estrema popolarità raggiunta e niente affatto nobilitata ad esprimere la sua intima essenza. Ponce si trovava insomma nella scomoda posizione di essere considerato uno dei padri della musica messicana, ma nessuno seguiva le sue impronte. In epoca post-rivoluzionaria, la cultura musicale era oggetto di una consapevole politica edificatoria. Al centro di questa costruzione c’era il nuovo ministro della cultura (1921-1924), José Vasconcelos, che pensava di poter consolidare: the Mexican people – including the indigenous communities – into a unified, literate, Spanish-speaking nation, with a modern, secular, standardized education based on Western civilization at large, and Hispanic culture in particular21.
All’interno di questo disegno, la musica aveva un ruolo fondamentale: così come nell’era porfiriana (il lungo governo di Porfirio Dìaz) il salotto borghese si era nutrito del pianoforte di Chopin, del valzer viennese (si pensi al successo internazionale di Sobre las olas, di Juventino Rosas), dell’opera italiana e della Salon music, nel nuovo Messico uscito dalla Rivoluzione ci si orientava decisamente verso la Spagna e verso una diffusione capillare di una cultura musicale basata su enormi cori e orchestre tipiche: Vasconcelo “replaced the traditional school repertoire of songs and dances with a repertoire drawn from Hispanic folklore”, organizzando festival di massa22. In questa nuova politica lo spazio per le canciones di Ponce (almeno di quanto poteva sopravviverne in arrangiamenti a due sole voci) si ridusse rapidamente. Conseguentemente, malgrado la prima rappresentazione di Chapultepec in un festival ufficiale, “Ponce’s compositions ceased being programmed at Vasconcelos’s festivals, and he received no commissions for the composition of new works” e nel 1922 la musica di Ponce ricevette apertamente attacchi da personaggi vicini al governo23. Il momento dell’incontro Ponce-Segovia rappresentò quindi per il messicano una occasione di fuga, concretizzatasi nel maggio 1925, anche grazie all’aiuto di Segovia e a un contributo del Governo per il biglietto della nave. L’approdo a Parigi e l’iscrizione alla classe di composizione 21 Saavedra, Manuel M. Ponce, cit., pp. 289-290. 22 Ibid., pp. 289-293. 23 Ibid., p. 293. Codice 602
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di Paul Dukas, visti sotto questa prospettiva, non sembrano rispondere a una sentita esigenza di formazione e aggiornamento, piuttosto appaiono come una valida giustificazione per il soggiorno europeo e una maniera per entrare a pieno titolo nel mondo musicale parigino. Non credo che Ponce avesse molto da imparare dal pur venerato maestro Dukas. Più stimolante può essere stata la parallela frequentazione di Nadia Boulanger. Le foto che ritraggono Ponce con una vistosa chioma precocemente bianca nella classe di Dukas sono più che esplicative della incongruità della sua presenza da allievo in una classe pur prestigiosa, con altri importanti colleghi come Joaquín Rodrigo, o José Rolón (che era anche più anziano di lui, essendo nato nel 1876). Ponce restò a Parigi fino al 1932. In questi anni il suo stile ebbe indubbiamente una evoluzione, arricchendosi di alcuni tratti della musica europea più avanzata, pure se parcamente e fuggendo la sperimentazione più estrema. In questi anni è anche concentrata la quasi totalità della produzione per chitarra, con la sola rilevante eccezione del concerto con orchestra. Non fu certamente Segovia a rivelare la chitarra a Ponce. Anzitutto bisogna considerare la fortuna e la diffusione dello strumento nella musica popolare e nel folklore di tutto il Sudamerica (ma specialmente del Messico)24, anche nelle sue diversificate declinazioni di fantasiosi cordofoni derivati per lo più dalla vihuela de mano importata dagli spagnoli, in varietà locali (jarana o guitarra de golpe, requinto, cuatro, guitarron, bajo sexto) e regionali (cavaquinho, charango, etc.), e la presenza della chitarra nei diversi complessi strumentali (di cui il mariachi è il più celebre) dove copre il ruolo di fondamento: presenza eloquente che del resto portò, prima di Ponce stesso, il suo allievo Carlos Chávez a scrivere per lo strumento25. Le canciones di Ponce venivano poi continuamente arrangiate in ensemble che comprendevano la chitarra, come l’Orquesta Típica de Mexico di Miguel Lerdo de Tejada26. Inoltre, nel periodo cubano Ponce ebbe modo di ascoltare e recensire il cantante popolare e chitarrista Antonio 24 “The guitar is by all odds the most important instrument which the Creoles use in accompanying their songs”, Friedenthal, Stimmen, cit., p. XI. 25 Chávez scrisse i Tre pezzi nel 1923 (su suggestione anch’egli della tournée segoviana?), ma furono diffusi solo nel 1962. Anche il brasiliano Heitor Villa-Lobos cominciò a comporre agli inizi del ’900 autonomamente. 26 Cfr. Saavedra, Manuel M. Ponce’s, cit., p. 285. Si può ascoltare un arrangiamento de Si alguna vez, del 1913 e Oye la voz, del 1914, incise dal Trio Gonzales nel 1919 per voci e chitarra nel National Jukebox della Library of Congress. Sono disponibili all’ascolto a questi URL: http://www.loc.gov/jukebox/recordings/detail/id/7136; http://www.loc. gov/jukebox/recordings/detail/id/7137. L’accompagnamento della chitarra, pur senza essere particolarmente elaborato, è pur sempre ‘educato’ ed eseguito, a giudicare dal suono, con una chitarra classica con corde di budello e non metalliche.
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Gumersindo Garay y García detto Sindo Garay27, e non si può escludere che possa aver ascoltato anche qualche altro più dotato chitarrista28. Se la chitarra suonata da Segovia non fu una rivelazione in assoluto quale strumento solistico, lo fu invece certamente la Sonatina di Federico Moreno Torroba, che rappresentava il pezzo più importante dei programmi da concerto di Segovia all’epoca, la composizione originale più elaborata che Ponce avesse sentito alla chitarra e di sicuro la cosa più vicina al proprio linguaggio musicale. Non a caso su di essa si incentrò la lusinghiera recensione che Ponce dedicò al concerto e credo fu la Sonatina di Torroba, forse più dell’arte di Segovia, a predisporlo all’idea di comporre per la chitarra. Di fatto, pur continuando per tutta la vita, la composizione chitarristica è concentrata in una parte relativamente ristretta della carriera, fra il 1923 e il 1932, e specialmente negli otto anni parigini. Nell’arco di dieci anni Ponce ha arrangiato per chitarra sola cinque canciones mexicanas, composto cinque sonate, due temi con variazioni, due suite, 24 preludi, vari pezzi sparsi, più una sonata per chitarra e cembalo e riscritto una sonata di Paganini29. La gran maggioranza di queste composizioni mostra il linguaggio moderatamente modernista di Ponce, caratteristico della sua produzione matura: opere che denotano un forte impegno compositivo, che risentono dell’evoluzione dello stile di Ponce mantenendo però una grande uniformità linguistica sostenuta da una vena romantica che fu sempre percepibile, con incursioni nella modalità e politonalità e l’esasperazione di un cromatismo connaturato a tutta la sua musica, pur sempre senza abbandonare una solida impalcatura tonale e una accentuata cantabilità (forse il tratto più tipico, anche nelle composizioni contrappuntistiche). Sono da ricomprendersi in tale categoria le sonate I (Mexicana, del 1923, anche se più tradizionale nella scrittura), probabilmente la II (1926, in la minore, perduta), la III (1927), il Tema variato e finale (1926), i Preludi (1926-30) le Variazioni e fuga sulla Follia di Spagna (1929), la maggior parte dei pezzi sparsi e la composizione più evoluta linguisticamente: la Sonata per chitarra e cembalo (1926), che, probabilmente non per caso, Segovia non interpretò mai30. Ancora a tal gruppo, ma con un occhio al folklore spagnolo, sono assimilabili la Sonatina meridional (1930) e l’Omaggio a Tarrega (1932). Appartengono invece al genere pastiche – oltre al rifacimento della 27 Cfr. Arnoldo García Santos, The Influence of Folk Music in Guitar Compositions by Manuel Ponce, DMA Thesys, Arizona State University, 2014, pp. 10-11. 28 Come lo spagnolo Antonio Jiménez Manjón (Jaèn 1867- Buenos Aires 1919), naturalizzato argentino. 29 Per tutte le notizie, le fonti e i documenti relativi alle composizioni chitarristiche si faccia riferimento all’edizione integrale di Miguel Alcazar, cit. 30 Ne fa solo cenno in una lettera del 21 agosto del 1926, pianificando una esecuzione in dicembre a Bruxelles, ma che non mi risulta sia mai avvenuta (The Segovia-Ponce Letters, cit., pp. 7-8). Codice 602
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Gran Sonata di Paganini, cui però bisogna assegnare un posto a sé stante, essendo una vera e propria riscrittura arricchita e non una composizione originale, e alcuni pezzi sparsi – le sonate IV (Clàsica, 1927-28) e V (Romantica, 1928), ma soprattutto le due suite in stile barocco: la Suite in la minore (1929) e la Suite in re maggiore (1931), la prima attribuita a Sylvius Leopold Weiss e la seconda ad Alessandro Scarlatti31. L’insistenza sulla forma-sonata si deve sicuramente a Segovia che riteneva, non a torto, che un repertorio degno dei grandi palcoscenici dovesse nutrirsi della forma musicale principe, e a quel tempo tranne le sonate di Fernando Sor e l’op. 15 di Mauro Giuliani poco o nulla si conosceva del repertorio del secolo precedente. Tale richiesta si sposava bene con la sicura competenza di Ponce e la sua capacità di maneggiare con grande padronanza le forme classiche. L’attenzione dei critici si è appuntata sulle composizioni pastiche di Ponce, quelle che più di tutte danno un’impronta eterogenea alla sua produzione e al suo stile. Come vanno inquadrate nella sua opera, nel momento peraltro in cui l’autore si apriva ad alcune delle istanze avanzate della musica europea, ponendo a propri modelli ideali compositori come Stravinsky?32 Sembra accertato che le sonate IV e V siano nate su espressa richiesta di Segovia, desideroso di avere una sonata nello stile di Haydn e una nello stile di Schubert, ma se la Sonata Clàsica e la Romantica, pur con qualche piccola ambiguità33, viaggiarono sotto il nome del suo autore, non è chiaro a chi si debba l’idea di attribuire a Weiss la Suite in la minore, di gran lunga una delle composizioni più fortunate di questo periodo, tra le più eseguite da Segovia che la registrò su disco nel 1930, insieme a parte della Sonata III e delle Variazioni e fuga sulla Follia di Spagna. Weiss poteva essere noto a Segovia tramite le biografie bachiane, che ne magnificavano le doti di sommo liutista, ma le competenze musicologiche di Ponce mi fanno pensare che potesse aver conosciuto qualche sua 31 Come avvenuto per Estrellita, registrata quale opera di Ponce solo dopo la sua morte (ma la cosa vale soprattutto per i diritti d’autore, mentre l’opera gli era notoriamente attribuita), anche le due Suite hanno atteso a lungo perché ne venisse riconosciuta la paternità (solo nel 1973 per la prima e nel 1967 per la seconda). La vicenda è ben riassunta da Kevin Manderville, Manuel Ponce and the Suite in A Minor: Its Historical Signifiance and an Examination of Existing Editions, DMA thesys, Florida State University, 2006. Dovrebbe essere esistito anche un Homenaje a Bach composto da un Preludio, Fuga e Capriccio, cui ha fatto cenno Ponce in una intervista del 1933, perduto (cfr. Barrón Corvera, Manuel María Ponce, cit., p. 50). In alcuni suoi concerti Segovia suonò un non identificato Capriccio come parte della Suite in la minore. 32 Miranda, Manuel M. Ponce, cit., p. 63, cita uno scritto di Ponce in cui Stravinsky è posto ‘sopra tutti’, come ‘un genio’. 33 Segovia in qualche concerto mescolò pezzi di sonate di Sor alla Clàsica di Ponce (cfr. Gilardino, Andrés Segovia, cit., p. 125).
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La musica per chitarra di Manuel M. Ponce nel contesto della sua opera
composizione pubblicata in riviste tedesche34. Anche alcuni tratti della Suite sono vicini e compatibili con lo stile di Weiss, come gli accordi spezzati nella seconda parte del Preludio e certe movenze della Sarabanda, non bachiani, come non lo è sicuramente la giga finale ‘tarantellata’35. Anche la Suite in re inopinatamente attribuita ad Alessandro Scarlatti (e questa fu un’idea segoviana), secondo Alcazar, mostra sostanzialmente gli stessi tratti stilistici e sarebbe “more within the Weiss style than the Weiss Suite”36. In realtà questa suite sembra modellata molto più sull’esempio di alcune suite di Haendel, che, come abbiamo visto37, Ponce conosceva già dagli anni di studio in Germania. Queste non sono propriamente opere neoclassiche: quando Ponce scrive ispirandosi al barocco – lo fa, tra le altre opere, sia in epoca giovanile con il bellissimo Preludio e fuga su un tema della suite in mi minore di Haendel per pianoforte, sia nella maturità con la Petite suite en lo estilo antiguo del 1933 per archi – ha un diverso atteggiamento e la sua scrittura non è mai mascherata, rimanendo sempre assai riconoscibile e ‘moderna’, come lo sono, ad esempio, il Pulcinella o il Concerto per violino di Stravinsky, anche se in modo meno ardito. Tuttavia, le due suite barocche, di cui la prima largamente superiore per riuscita alla seconda, avrebbero
34 Sospetto che la pubblicazione sia Hans Neeman, Die Lautenhandschriften von Silvius Leopold Weiß in der Bibliothek Dr. Werner Wolffheim, «Zeitschrift für Musikwissenschaft», X, 1927-28, pp. 396-414, una rivista musicologica molto diffusa che contiene la trascrizione in chiave di sol di una intera suite. Un pezzo di Weiss era stato già edito da Oscar Chilesotti nel 1915 nella sua Biblioteca di Rarità musicali (ben nota a Segovia perché vi trasse i celeberrimi Sei pezzi rinascimentali) e una prima biografia di Weiss era uscita già a inizio secolo, ma senza esempi musicali (Hans Volkmann, Sylvius Leopold Weiss, der letzte grosse lautenist. Biographische Skizze, «Die Musik», 1906-1907, pp. 273-289). La prima pubblicazione di musiche di Weiss, da cui probabilmente Segovia trasse il Tombeau sur la mort de M. Comte de Logy, uscì soltanto nel 1939: Esaias Reusner - Silvius Leopold Weiss, Lautenmusik des 17.-18. Jahrhunderts. Ausgewählte Werke, hrsg. von Hans Neeman, Braunschweig, Litolff, 1939. 35 In origine Ponce aveva scritto una diversa Giga, meno virtuosistica e forse meno così stilisticamente lontana sia da Weiss, sia da Bach e dal barocco in generale. Segovia gli richiese un diverso pezzo dando anche una serie di indicazioni tecniche su come realizzarlo, come aveva per costume (cfr. Ponce, Obra completa, cit., p. 107). All’atto dell’esecuzione bisogna tenere bene a mente che non si tratta ovviamente di vera musica barocca: per cui non bisogna aggiungere abbellimenti e variazioni, né staccare tempi improponibili. La corretta interpretazione ‘filologica’ o storicamente informata è quella di Segovia: romantica, ricca di vibrati e rubati. 36 Ponce, Obra completa, cit., p. 223. La citazione prosegue così: “It seems as if Ponce would have consulted some of the existing publications – after all Segovia had offered to send him some lute music – and he would have assimilated the style of Weiss. The preambule employs the French overture form – used by Weiss in some of his sonatas – and was possibly used for the first time in the guitar by Ponce. The courante also has certain air of the German lute player’s music, as well as the sarabande and the gigue with the austerity of many of the Weiss gigues”. 37 Cfr. nota 13. Codice 602
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Stefano Campagnolo
comunque figurato splendidamente nel catalogo di Ponce38, confrontabili per ispirazione con le tre suite delle Antiche arie e danze di Respighi che arrivano, con la terza, fino al 1931, in piena coincidenza di tempi39. Come si può vedere, tutte le opere neoclassiche sono comprese in un arco di tempo molto ristretto, fra la fine del 1927 e il 1931. Nello stesso periodo nascono i Quattro pezzi (1929) per pianoforte, la Danse des anciens mexicains (1930) per piccola orchestra, e per la musica da camera il Quartetto d’archi (1929) e i tre Preludi per violoncello e pianoforte (1930). In questi stessi anni si colloca un breve ritorno in Messico nel 1929, in cui Ponce comprese come la situazione fosse cambiata rispetto alla sua partenza, riuscendo a far rappresentare nuovamente Chapultepec, ma in un contesto modernista. Soprattutto compare, nel 1928, un articolo del connazionale e amico José Rolón in cui si tratta dei nuovi princìpi estetici che ispirano il lavoro di Ponce, dal fin troppo esplicito titolo: No existe el Manuel M. Ponce de las canciones mexicanas40. Nell’articolo, Rolon elogia l’evoluzione subita dallo stile di Ponce, sobriamente modernista e ormai non più interessato ad usare la canción come base per la sua musica, per essersi convinto come la canción fosse il genere ‘meno interessante e caratteristico’ del folklore messicano perché la sua ‘essenza musicale, con poche eccezioni’ era evidentemente italiana41; la sua intrinseca semplicità inoltre dava occasione a chiunque di accostarvisi, anche a chi non fosse musicalmente formato, e il successo di cui il genere godeva non poteva che allontanarlo dalla musica d’arte. Al primo posto per Ponce, secondo Rolón, non c’era più la musica popolare, ma la tecnica di composizione della musica occidentale: 38 Fino a che punto fosse accattivante la Suite in la minore lo dimostra la circostanza che Arturo Benedetti Michelangeli si industriò a ricavarne lo spartito dal disco segoviano, eseguendola al pianoforte in concerto almeno dieci volte fra il 1943 e il 1950 (lo certifica Gilardino, Andrés Segovia, cit., p. 130). 39 La prima è del 1917, la seconda del 1923. La terza suite ha dato notorietà alla Passacaglia di Ludovico Roncalli, originariamente per chitarra barocca ed edita anch’essa da Chilesotti, che verrà poi trascritta anche da Segovia. 40 Cito qui da Saavedra, Manuel M. Ponce, cit., pp. 303-304. L’articolo originale, cui non ho avuto accesso, (José Rolón, No existe el Manuel M. Ponce de las canciones mexicanas, «Revista de revistas», 4 novembre 1928), si può trovare in Ricardo Miranda, El sonido de lo propio: José Rolón (1876–1945), v. I, Mexico City, Centro Nacional de Investigacion, Documentacion e Informacion Musical, 1993, pp. 77-81. 41 Come si era accennato in premessa, l’influsso del melodramma italiano fu profondissimo e le canciones ne risentono del tutto, sia nella periodizzazione, sia nell’articolazione della melodia, tanto le popolari, quanto quelle d’autore. Si ponga mente alla stessa celeberrima Estrellita: la canzone, secondo la leggenda scritta sul treno per Aguascalientes nel 1912, se è vero che “owes much to its model, Schumann’s Träumerei” (Claes af Geijerstam, Popular Music in Mexico, Albuquerque, University of New Mexico Press, 1976, p. 87), è anche vero che trova la sua caratterizzazione – oltre che nello spiccato virtuosismo richiesto all’interprete per le note sovracute prese di balzo –, per il particolare colorito armonico ricco di settime maggiori e la condotta melodica, entrambe francamente pucciniane.
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La musica per chitarra di Manuel M. Ponce nel contesto della sua opera
Ponce was now interested in “a school of composition preferably with a folk character, if the composer wishes, but grounded in complete mastery of the sound matter… which is the only means to obtain the necessary strength for the music to overcome national borders and occupy a dignified position within the concert of the world, because without technique… nothing solid or permanent can be achieved”42.
Posto l’accento dunque sulla tecnica compositiva, si registra a questo punto l’ulteriore evoluzione della ricerca di Ponce intorno al folklore messicano, poiché cominciò ad interessarsi alla musica precolombiana, interesse culminato nella rielaborazione della Danse des anciens mexicains che andrà a costituire l’ultimo movimento della versione finale di Chapultepec (1934), e nel successivo lavoro orchestrale Ferial (1940), che rappresentano, con il Concierto del Sur per chitarra e orchestra (1940) e il Concerto per violino e orchestra (1943), l’ultima fase della produzione del Maestro. Rileva ai nostri fini osservare come il periodo in cui Ponce produsse la maggior parte dei suoi lavori alla maniera di è stato segnato, secondo quanto afferma Rolón, da una profonda ricerca tecnico-stilistica, nel tentativo di possedere la ‘completa padronanza della materia sonora’. Quale occasione migliore quindi di misurarsi in una mimesi stilistica integrale – ora barocca, ora classica, ora romantica –, di quella offerta dall’amico committente affamato di composizioni di largo respiro, vieppiù con la possibilità di far girare per il mondo il nome del compositore, oltre ai vantaggi della pubblicazione presso la prestigiosa casa editrice Schott di Mainz43 e la possibilità di ricavare i proventi dei diritti d’autore? Segovia alla fin fine consentì a Ponce di fare quella che era una sua inconfessabile vocazione, come gli aveva detto Marco Enrico Bossi, quella di ‘scrivere musica del passato’. La lettura integrale del carteggio Segovia-Ponce mostra effettivamente il chitarrista subissare insistentemente di richieste l’amico compositore, spesso dettando tempi strettissimi e ancor più spesso prescrivendo tagli, aggiunte, sostituzioni o suggerendo stilemi e moduli tecnici, confronti stilistici e modelli di riferimento, in qualche caso attribuzioni più o meno attendibili. Bisognerebbe però far di conto relativamente a quante di queste richieste siano state accolte. Altrettanto spesso infatti le opere che sono nate dalla collaborazione sono risultate infine lontane dai desiderata di Segovia, come nel caso di una delle 42 Saavedra, Manuel M. Ponce, cit., p. 304 (fra virgolette la citazione da Rolón). 43 Segovia non pagò mai nessun compositore cui richiese di scrivere, ma offriva la possibilità della pubblicazione. In varie occasioni Ponce aiutò finanziariamente l’amico, ma con delle regalie. Pubblicò costantemente le composizioni di Ponce, con alcune vistose eccezioni, come la Suite in la minore. Codice 602
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preferite: le Variazioni e Fuga sulla Follia di Spagna per Segovia dovevano essere attribuite a Mauro Giuliani e scritte “en un estilo que linde entre el clasicismo italiano del XVIII y los albores del romanticismo aleman”44. Molte richieste caddero completamente nel vuoto come, ad esempio, “unas sonatinas a la Domenico Scarlatti”, o “unas variaciones sobre el Vito, un Vito guitarrizado”45, e molte altre sarebbero elencabili. In definitiva si ha l’impressione che Ponce non abbia mai cessato di perseguire un proprio disegno, che non abbia mai tradito il proprio stile e la propria estetica – del resto esplicitata attraverso una lunga serie di scritti –, opponendo al prorompente amico spagnolo una resistenza che oggi appare a noi passiva e silenziosa (non possedendone la verbalizzazione), ma che per certo non poté che essere garbata e gentile come la sua persona. Si ha l’impressione insomma che le composizioni chitarristiche si inseriscano appieno in un momento centrale nella vita del maestro messicano, fatto di incessante ricerca e crescita intellettuale, perfettamente funzionali anzi a tale sviluppo, difficile campo di prova in economia di mezzi (la scarna scrittura per la chitarra) utile a distillare il pensiero musicale. Tale ricerca si è riflessa infine nell’ultimo capolavoro: il lungamente meditato concerto solistico per chitarra e orchestra (Concierto del Sur), frutto maturo ed equilibrato delle personalità del compositore e dell’esecutore-committente46.
44 Segovia-Ponce Letters, cit., p. 46. 45 Ibid., p. 146 (lettera senza data, ma collocata fra maggio e dicembre 1933). 46 Alcuni critici notarono un eccessivo ricorso ad atmosfere e temi spagnoleggianti per il Concierto del Sur, ma, ripercorsa brevemente l’evoluzione della carriera di Ponce e della cultura musicale del suo paese, tale scelta non appare in contrasto né con la personale inclinazione, né con quella nazionale, per quanto i compositori più giovani come Carlos Chávez e Silvestre Revueltas percorressero altre strade. A parer mio anzi c’è una perfetta compenetrazione anche con l’ultimo Ponce, interessato alla musica precolombiana (di fatto un feticcio, non essendo allora testimoniato pressoché nulla dell’antica cultura musicale), quantomeno per ispirazione: il secondo movimento sonda paesaggi difficilmente riconducibili alla Spagna, con rara intensità evocativa.
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La musica di nelle séances di Pierre
Boccherini Baillot (1814-1840)
di Marco Mangani*
Vi furono un tempo e un luogo nei quali Boccherini fu inserito a pieno titolo nel canone dei grandi. Quel luogo fu Parigi. Quel tempo furono gli anni della crisi di Napoleone, quindi della Restaurazione borbonica, e infine della Monarchia di Luglio. Fuori da quel luogo, Boccherini nel canone non entrò mai; dopo quel tempo, ne uscì anche a Parigi, per entrare negli ambiti degli studi eruditi, del collezionismo e della nostalgia reazionaria. La fiducia incrollabile nella capacità della musica da camera di Boccherini di reggere il confronto con quella di Haydn, di Mozart e del primo Beethoven (vedremo che la precisazione è necessaria) reca un nome: quello di Pierre Marie François de Sales Baillot1. I rapporti di Baillot con Boccherini erano stati molto stretti, anche se non sappiamo fino a che punto diretti. Con Pierre Rode e molti altri, Baillot aveva fatto parte della cerchia dei sodali di Giovanni Battista Viotti che condividevano con il maestro piemontese la passione per la musica boccheriniana. Ad attestare questa passione vi sono innanzitutto, nel caso di Baillot, le numerose esemplificazioni tratte dalle opere del lucchese e inserite nei lavori didattici destinati agli allievi del Conservatorio di
* Marco Mangani insegna Fondamenti della comunicazione musicale presso l’Università di Ferrara. È vicepresidente del Centro Studi Luigi Boccherini di Lucca, presso il quale dirige la rivista elettronica «Boccherini Online», e fa parte del comitato scientifico di «Philomusica», rivista elettronica del Dipartimento di Musicologia e Beni Culturali dell’Università di Pavia. Ha scritto saggi sulla polifonia del Rinascimento, sulla musica strumentale italiana dei secoli XVIII e XIX e sul jazz; è autore di una monografia su Luigi Boccherini (Palermo 2005). 1 Lo studio fondamentale sul grande violinista è ancor oggi quello di Brigitte FrançoisSappey, Pierre Marie François de Sales Baillot (1771–1842) par lui-même: étude de sociologie musicale, «Recherches sur la musique française classique», (xviii) 1978, pp. 126-211. Codice 602
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Marco Mangani
Parigi2. Ma Baillot non si era limitato a ciò: si deve a lui, in particolare, il più autentico dei cataloghi boccheriniani completi (non considerando, cioè, i cataloghi autografi parziali esemplati per le trattative con Pleyel), scoperto un decennio fa dal violinista Keith Pascoe e noto fino ad allora solo nella versione pubblicata da Louis Picquot3. Il più importante contributo alla ricezione postuma di Boccherini, tuttavia, Baillot lo diede eseguendo ininterrottamente la sua musica nei concerti pubblici da camera che organizzò e tenne a Parigi dal 1814 al 1840. In queste séances il violinista Baillot si esibì con una formazione appositamente da lui creata, che comprendeva (a parte le sostituzioni, le aggiunte e le alternanze) il genero Eugène Sauzay al violino, Chrétien Urhan e Simon Mialle alle viole, Louis Pierre Norblin e Olive-Charlier Vaslin ai violoncelli. In totale furono 156 concerti, distribuiti in “annate” (in realtà, tendenzialmente, trimestri) di dimensioni variabili da un minimo di due a un massimo di dodici concerti, con un concerto isolato e non datato tra la ventunesima e la ventiduesima annata (dunque collocabile presumibilmente nel gennaio del 1835)4. Sorge allora spontaneo chiedersi quale Boccherini fosse quello proposto da Baillot. Per quanto infatti sia assai probabile, per non dire certo, che dietro la realizzazione di quei veri e propri opera omnia ante litteram che furono le integrali a stampa dei quintetti e dei trii boccheriniani realizzate da Janet & Cotelle ci fosse lui stesso, è evidente che come artista pubblico Baillot ebbe l’onere della scelta: si trattò, come risulterà con tutta evidenza dalla disamina che proporrò in questa sede, di trovare un 2 Segnatamente: Pierre Baillot, Jean-Henri Levasseur, Charles-Simon Catel, Charles-Nicolas Baudiot, Méthode de violoncelle et de basse d’accompagnement… adoptée pour servir à l’étude dans cet établissement, Paris, À l’Imprimerie du Conservatoire Impérial de Musique, [1804]; Pierre Baillot, L’Art du violon. Nouvelle méthode dédiée à ses élèves, Paris, de l’Imprimerie du Conservatoire de Musique, [1834]. Per l’elenco completo degli esempi, si veda il sito di Elisabeth Le Guin: http://epub.library.ucla.edu/leguin/boccherini/contents.htm (7 ottobre 2016). 3 Keith Pascoe, La reaparición del catálogo de Baillot. Un eslabón perdido en la transmisión temprana de los catálogos de la música de L. Boccherini, in Luigi Boccherini - Estudio sobre fuentes, recepción e historiografía, a cura di M. Mangani, E. Le Guin y J. Tortella, prologo di J.A. Boccherini, Madrid, Biblioteca Regional de Madrid Joaquín Leguina, 2006, pp. 77-90. Il catalogo di Baillot è conservato presso la Bibliothèque Nationale de France, VMA MS1074. Un esame filologico del catalogo è in Marco Mangani, Federica Rovelli, Boccherini’s Thematic Catalogues. A Reappraisal, in Understanding Boccherini’s Manuscripts, a cura di R. Rasch, Newcastle upon Tyne, Cambridge Scholars Publishing, 2014, pp. 109-128. Per la versione pubblicata, cfr. Louis Picquot, Boccherini [1851]. Notes et documents nouveaux par Georges de Saint-Foix, Paris, Legouix, 1930, pp. 107-181. 4 In realtà i concerti sarebbero dovuti essere 157, ma, come vedremo, a causa del colera si dovette cancellare il concerto già programmato per il 7 aprile 1832, al quale avrebbe dovuto prender parte Felix Mendelssohn. La numerazione progressiva di Baillot (qui riproposta nelle tabelle dell’appendice) giunge a 154, perché due concerti (quello non datato e una séance particulière del 7 maggio 1836) non sono numerati.
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La musica di Boccherini nelle séances di Pierre Baillot (1814-1840)
punto d’incontro tra i propri gusti (e quelli, possiamo supporre, degli altri strumentisti) da un lato, e quelli manifestati di volta in volta dall’uditorio dall’altro. Se oggi è possibile ricostruire interamente il Boccherini ‘di’ Baillot, il merito va al Centre de Musique Romantique Française “Palazzetto Bru Zane” di Venezia, che ha reso disponibili online i preziosi resoconti autografi delle séances5. Se già i documenti di sintesi (e in particolare il compte des oeuvres jouées à partir des numéros d’opus) forniscono una prima, chiara panoramica della situazione, l’esame del Programme dettagliato, contenente anche tutti gli incipit dei brani eseguiti, oltre a una serie di altre preziose informazioni, offre una fotografia nitidissima di quello che a Parigi dovette essere il vero e proprio centro della musica da camera, nonché delle scelte artistiche che vi vennero effettuate; e dunque, indirettamente, dei gusti e del clima culturale che lo animarono. Iniziando dalla sintesi generale (tav. n. 1), e tralasciando gli autori Tavola n. 1 COMPOSITORE BRANI (suddivisi per genere)
Boccherini - 46 quintetti - 1 Andante di trio - 6 quartetti
Haydn - 34 quartetti - 2 sonate per pianoforte e violino
Mozart - 9 quartetti - 2 quartetti con pianoforte - 8 quintetti - 1 Andante varié dalla 4a sonata, mis en quatuor par Cherubini
TOTALE
53
36
20
Beethoven - 9 quartetti - 4 quintetti - 2 serenate - 1 romanza - 4 sonate per pianoforte e violino o piano solo - 1 trio con pianoforte - 1 tema di Händel con variazioni - 1 concerto in mib per pianoforte - Tre trii per vl, vla, vc - 1 sinfonia pastorale trascritta per sestetto 27
Tav. n. 1 Boccherini, Haydn, Mozart e Beethoven nelle séances
presenti in maniera meno consistente rispetto ai ‘quattro grandi’ (così a buon diritto possono esser definiti, nel contesto delle séances, Haydn, Mozart, Beethoven e Boccherini), possiamo immediatamente constatare la massiccia presenza del compositore lucchese; così come, al tempo stesso, una chiarissima predilezione per i suoi quintetti, laddove il quartetto è considerato appannaggio, in primo luogo, di Haydn. Nel leggere la tavola, si tenga presente che nel documento di sintesi Baillot non considera il fatto che, in alcuni casi, di un brano era stato eseguito un singolo movimento (come eccezionalmente annota a proposito dell’Andant[ino] del 5 Programme de toutes mes séances de quatuors et quintettes depuis l’origine (12 décembre 1814). A questo vanno aggiunti: il documento di sintesi, nel quale già Baillot aveva effettuato un conteggio di tutte le composizioni effettivamente eseguite, suddiviso in un relève general, una récapitulation des programmes, un récapitulatif des œuvres jouées (relativo ai soli Haydn, Mozart e Beethoven) e un esauriente compte des oeuvres jouées à partir des numéros d’opus. Le riproduzioni dei due documenti sono raggiungibili dal seguente indirizzo: http://www. bruzanemediabase.com/ita/Fondi-d-archivio/Fondo-Baillot (7 ottobre 2016). Da qui si giunge anche alle ricevute dei pagamenti legati alle séances e a un elenco di lettere. Codice 602
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Marco Mangani
Trio G 98; tornerò in seguito su questo aspetto); e che in questa sede ciò che viene contato non sono le occorrenze dei singoli brani, ma il numero complessivo di brani differenti per ciascun compositore. La disposizione sinottica della tavola, infine, è una scelta mia, fatta per agevolare il confronto tra i ‘quattro grandi’. Già in base a questa prima panoramica è possibile avanzare alcune considerazioni significative. In primo luogo, Boccherini è sì l’autore del quale si propone il maggior numero di brani differenti, ma già in questo contesto egli viene identificato essenzialmente come il maestro del quintetto: i quintetti costituiscono infatti ben l’87% del totale dei brani boccheriniani eseguiti (ciò, ricordo, a prescindere dal fatto che in alcuni casi si tratti di movimenti staccati). Haydn, al contrario, si identifica tout court con il genere del quartetto, mentre Mozart, e soprattutto Beethoven, coprono uno spettro di generi più ampio. Sarebbe certo interessante analizzare in dettaglio le scelte di Baillot relative a tutti e quattro i compositori (e a tutti quelli affrontati nelle séances), ma non è questa la sede per farlo (anche se qualcosa sarà necessario dire, più avanti, a proposito di Beethoven): mi soffermerò invece sulle scelte relative alla musica di Boccherini, che rivelano una serie di aspetti interessanti. Intanto, si deve dire che, su tutto l’arco delle séances, sono pochissimi i concerti nei quali la musica di Boccherini è del tutto assente, e tutti concentrati nell’ultimo decennio di attività (tav. n. 2); otto concerti in tutto, che costituiscono appena il 5% del totale: Se a una prima lettura la componente cronologica di questo dato parrebbe indicare un certo logoramento del consenso riscosso dalla musica di Boccherini nell’ambito delle séances, tale impressione si rivela subito fallace, poiché le assenze sono comunque sporadiche, e Boccherini resta una presenza forte fino all’ultimo concerto della serie; senza contare che metà delle assenze si concentra nell’annata ventitreesima (marzo – magTavola n. 2 gio 1836), incentrata su eventi speciali. Ma non basta. Sono infatti tutto DATA
ANNATA
08.03.31
XVII
31.01.32
XVIII
07.02.35
XXII
19.03.36 (apertura dell’annata) XXIII 26.03.36 19.04.36 07.05.36 18.02.37
XXIV
Tav. n. 2 Concerti senza musiche di Boccherini
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La musica di Boccherini nelle séances di Pierre Baillot (1814-1840)
sommato abbastanza pochi anche i concerti nei quali Boccherini non è il compositore d’apertura. Ciò avviene per la prima volta il 19 dicembre 1814 (secondo concerto della prima annata) e in tutto si contano altre diciannove volte, l’ultima essendo il 10 febbraio 1838 (primo concerto della venticinquesima annata). Fin qui, l’importanza e il ruolo specifico della musica di Boccherini nel contesto delle séances. Ma grazie alla meticolosità di Baillot è possibile tracciare un quadro assai più preciso della situazione, analizzando quali furono i brani che, per la frequenza della loro riproposizione, costituirono di fatto il canone boccheriniano della Parigi di quegli anni: nel Programme de toutes mes séances, infatti, oltre alla data di ogni concerto se ne annotano anche il luogo e il programma completo. Nell’indicare i brani eseguiti, Baillot fa sempre riferimento alla numerazione delle edizioni allora correnti, che vengono precisate da delle annotazioni, presumibilmente aggiunte in un secondo momento, nella scheda del primo concerto (12 dicembre 1814). Poiché nel caso di Boccherini il riferimento è fin da subito all’edizione Janet & Cotelle, che sarebbe stata realizzata tra il 1818 e il 18246, è probabile che il Programme autografo pervenutoci sia un documento interamente redatto a posteriori, forse riordinando gli appunti presi di volta in volta in occasione dei concerti. Grazie alla tabella sinottica del catalogo Gérard e al fatto che Baillot riporta gli incipit di tutti i brani eseguiti7, è possibile dunque pervenire all’elenco completo, concerto per concerto, dei brani di Boccherini eseguiti nelle séances, identificando ciascun brano mediante il numero di G e la numerazione del catalogo boccheriniano autentico8. A partire da questo elenco, riportato nell’appendice del presente saggio, è possibile inoltre stabilire una vera e propria gerarchia dei brani boccheriniani eseguiti da Baillot. Occorre però una premessa. Come si può vedere dalle “note ai brani” delle tabelle in appendice, oltre alle composizioni integrali Baillot amava proporre nei suoi 6 Più esattamente, tra il 1818 e il 1822 venero realizzati i quintetti, mentre i trii furono pubblicati nel 1824. Cfr. Yves Gérard, Thematic, Bibliographical and Critical Catalogue of the Works of Luigi Boccherini, London-New York-Toronto, Oxford University Press, 1969, pp. 78-79 e 289-291. 7 Per la precisione, ciò è vero fino al 1834, poiché a partire dal 13 dicembre di quell’anno il Programme si affida esclusivamente alle locandine a stampa: le ricche annotazioni autografe, tuttavia, aiutano nella ricostruzione completa anche di quest’ultima parte delle séances. 8 Con ‘autentico’ intendo riconducibile con certezza alla volontà di Boccherini: l’espressione si riferisce in particolare al catalogo Baillot (cfr. nota 3), la cui numerazione è tuttavia la stessa adottata da Alfredo Boccherini y Calonje, Luis Boccherini. Apuntes biográficos y catálogo de las obras de este célebre maestro, Madrid, A. Rodero, 1879; anche se, come credo di aver dimostrato nel citato Mangani-Rovelli, Boccherini’s Thematic Catalogues, i due cataloghi derivarono da due diversi antigrafi. Codice 602
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concerti anche singoli movimenti estrapolati dal loro contesto (e ciò non vale solo per Boccherini). Almeno in un caso, è possibile ipotizzare che questa prassi fosse stata dettata da una risposta tiepida del pubblico: del primo quintetto di Boccherini (op. 10 n. 1, G 265) viene infatti proposto una prima volta il solo finale (16 gennaio 1815), quindi Baillot ne azzarda l’esecuzione integrale (16 dicembre 1817), per tornare poi al solo finale, molto più avanti e in tre occasioni soltanto. Altri movimenti vengono proposti fin dall’inizio soltanto al di fuori del loro contesto originale: è il caso, per esempio, dell’Andantino (quasi sempre definito Andante) che costituisce il movimento centrale del Trio op. 14 n. 4, G 98, l’unica pagina boccheriniana per trio proposta nelle séances. Ma il lettore curioso e attento che abbia dato una scorsa all’appendice avrà forse già colto la sorpresa più ghiotta. Secondo quanto era dato di sapere finora, la moda persistente del ‘Minuetto di Boccherini’ sarebbe esplosa negli anni Settanta dell’Ottocento: a documentarne l’origine, ancora una volta, l’inestimabile lavoro di Yves Gérard9. Ebbene, grazie all’esame del Programme di Baillot è ora possibile affermare che tale moda si era radicata nel tessuto parigino assai precocemente: con le sue nove esecuzioni, uniformemente distribuite dalla prima alla ventisettesima annata10, il Minuetto del Quintetto op. 11 n. 5, G 275 è il movimento singolo boccheriniano più eseguito nel contesto delle séances, e si colloca in fascia alta anche considerando la proposta boccheriniana di Baillot nel suo complesso. Si aggiunga che mai Baillot ritenne di proporre quel quintetto per intero, e sarà chiaro il radicamento, nell’immaginario parigino, di quello che nella seconda metà del secolo sarebbe divenuto un vero e proprio hit. Vale la pena, a questo punto, di esaminare la classifica dei brani boccheriniani proposti nelle séances. Accanto all’identificazione di ciascun brano e alla quantificazione delle sue riproposizioni, la tavola n. 3 riporta anche l’elenco delle annate interessate, che aiuta a comprendere quanto longevo fu il consenso che quel brano ricevette. Per comodità, ho diviso la tabella in tre sezioni: a) fascia alta (da 15 a 9 esecuzioni), b) fascia media (da 8 a 5 esecuzioni), c) fascia bassa (da 4 esecuzioni a una). Possiamo sbrigare abbastanza rapidamente la questione dei quintetti a due viole. Nessuno di essi è collocato in fascia alta, e si tratta, in tutti e quattro i casi (G 383, 387, 388 e 390) di adattamenti da altrettanti quintetti con pianoforte: stando alle annotazioni autografe, Baillot potrebbe aver posseduto il manoscritto boccheriniano di cui parla
9 Gérard, Catalogue, pp. 306-307. 10 Per il momento non sono riuscito a identificare l’Allegro e Finale connu sous le nom de la Clochette tra i quali fu inserita l’ultima esecuzione del Minuetto, il 14 marzo 1840.
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La musica di Boccherini nelle séances di Pierre Baillot (1814-1840)
Tavola n. 3
Tavola n. 3
a) Fascia alta
a) Fascia alta BRANO ESECUZIONI
B29/6, RANO ESECUZIONI G 318 15 29/6, G 318 15 25/5, G 299 14 25/5, G 299 14 39/3, G 339 12 39/3, G 339 12 46/4, G 362 10 46/4, G 362 10 Quartetto52/3, 52/3, Quartetto 9 9 234 GG234 11/5,GG275 275 11/5, 9 9 25/1,GG295 295 25/1, 9 9
ANNATE
NOTE
ANNATE OTE I, II (2 volte), III, IV (3 volte), V, VII, VIII, XI, XIII, XV, XVII,NXXI I, II (2 volte), III, IV (3 volte), V, VII, VIII, XI, XIII, XV, XVII, XXI II, III, IV, V, VI, VII, VIII, XI, XIII, XV, XVIII, XIX, XXIV, XXVII II, III, IV, V, VI, VII, VIII, XI, XIII, XV, XVIII, XIX, XXIV, XXVII I, II, III (2 volte), IV, VI, VIII, XIII, XVI, XVIII, XX, XXI I, II, III (2 volte), IV, VI, VIII, XIII, XVI, XVIII, XX, XXI I, II, IV, V, VII, XI, XIV, XVII, XX, XXV in V solo finale I, II, IV, V, VII, XI, XIV, XVII, XX, XXV in V solo finale II, IV, V, XIV, IX, XIV, XVIII, XXIV, II, IV, V, IX, XVIII, XXIV, XXIV,XXIV, XXVIIXXVII
II, IV, Concerto non datato, I, II,I, IV, VI, VI, VII, VII, XIX,XIX, Concerto non datato, XXVI,XXVI, XXVII XXVII II, III, V, VII, I, II,I, III, IV, IV, V, VII, VIII,VIII, XIV, XIV, XXI XXI
solo il ‘celebre’ solo il ‘celebre’ Minuetto Minuetto
b)b) Fascia Fasciamedia media
BBRANO ESECUZIONI NOTE NOTE RANO ESECUZIONIANNATE ANNATE Quartetto 206 8 8 III, III, IV, V, XI, XV Quartetto32/6, 32/6,G G 206 IV,VI, V,VII, VI, VIII, VII, VIII, XI, XV 18/1, 8 8 I, IV, XXI XXI Quintetto ‘di Nina’‘di Nina’ 18/1,GG283 283 I, V, IV,IX, V, XII, IX, XV, XII, XVII, XV, XVII, Quintetto 28/2, G 308 8 I, III, IV, X, XIV, Concerto non datato, XXV, XXVI 28/2, G 308 8 I, III, IV, X, XIV, Concerto non datato, XXV, XXVI 25/6, G 300 7 I, III, V, VI, VII, XV, XVI 25/6, G 300 7 I, III, V, VI, VII, XV, XVI 42/4, G 351 7 I, II, III, VI, VII, XIV, XXI 42/4, G 351 7 I, II, III, VI, VII, XIV, XXI 46/2, G 360 7 II, III, IV, V, VI, VII, XII 46/2,14/4, G 360 III, IV, VI,XI, VII, XII Trio G 98 6 7 V (2II,volte), VI,V, VII, XIV solo Andantino Trio G 14/4, V (2X,volte), VI, VII, XI, XIV solo 28/4, 310 G 98 6 6 II, VII, XV, XXI, XXVII in XXVII soloAndantino Rondo 28/4,GG358 310 II,IX, VII, X, XV, XXVII in XXVII solo Rondo 45/4, 6 6 I, III, XIV, XXI,XXI, XXVII 45/4, G 358 Quartetto 58/4, G 245 5 6 IV, I, V,III, VI,IX, IX, XIV, XV XXI, XXVII Quartetto IV, V, VI, IX, XV 10/1, G 26558/4, G 245 5 5 I, III, XXI, Concerto non datato, XXVI solo Presto, eccetto in III 10/5, 5 5 I (2 I,volte), IV, V, VI 10/1,GG269 265 III, XXI, Concerto non datato, XXVI solo Presto, eccetto in III 29/1, 5 5 I, II,I III, IX, XIIIIV, V, VI in I solo finale 10/5,GG313 269 (2 volte), 49/1, 5 5 I, II,I,III, 29/1,GG365 313 II, VI, III, XIII IX, XIII in I solo finale 49/5, 5 5 I, III, VII,VI, XIII 49/1,GG369 365 I, IV, II, III, XIII
49/5, G 369
c) Fascia bassa
5
(segue)
I, III, IV, VII, XIII
BRANO 13/2, G 278 41/1, G 346 G 387
ESECUZIONI 4 4 4
G 388 20/4, G 292 28/1, G 307 40/3, G 342 G 383
4 3 3 3 3
ANNATE I, III, VI, IX I, II, XI, XIX XIII, XIV, XXII, XXVI IV, XII, XIV, XXII I, II, III I, II, XV IV, VI, XV II, III, XIV
10/3, G 267 10/4, G 268 11/3, G 273 40/2, G 341
2 2 2 2
I, VI I, IX I, III IV, XV
42/1, G 348 46/3, G 361 51/1, G 376 Quartetto 8/1, G 165 Quartetto 9/2, G 172 Quartetto 41/1, G 214 10/6, G 270 18/4, G 286 18/5, G 287 18/6, G 288 20/1, G 289 30/6, G 324 39/2, G 338 46/6, G 364 49/3, G 367 49/4, G 368 50/5, G 374 G 390
2 2 2 1 1 1
IV, XVII III, V I, IV II VIII II
1 1 1 1 1 1 1 1 1 1 1 1
VI I I XIV I I III XVIII XXII XIII XV XII
(segue) NOTE in I e IX solo Presto a 2 vle., trascr. di 57/2, G 414 per pf. a 2 vle., trascrizione di 57/1, G 413 per pf. in I solo Minuetto in XV fa da cornice a 40/2, G 341 (del Fandango) A 2 vle., trascr. di 56/5, G 411 per pf.; in XIV solo Andantino pausato con variazioni in VI solo Minuetto Quintettino del Fandango, in XV inserito tra i mov. di 40/3, G342
solo Allegretto con moto
«La musica notturna delle strade di Madrid»
solo Minuetto «a modo di sighidiglia spagnola» a 2 vle., trascrizione di 57/6, G 418 per pf.
Tav. n. 3 Boccherini nelle séances: ordinamento decrescente per numero di esecuzioni Codice 602
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Marco Mangani
Picquot11. Per il resto, in fascia alta troviamo un unico quartetto, il terzo dell’op. 5212. Non è solo il numero complessivo delle esecuzioni, tuttavia, a darci la misura del successo di un brano, bensì la continuità delle sue riproposizioni: il quartetto op. 52 n. 3, proposto nove volte dalla seconda all’ultima annata, sembra dunque aver retto molto bene il collaudo dell’uditorio di Baillot. Al contrario, i due quartetti in fascia media (op. 32 n. 6 e op. 58 n. 4) esauriscono il loro consenso a metà percorso e vengono definitivamente abbandonati dopo l’annata quindicesima. In fascia bassa, è evidente che i due quartetti proposti (tra i quali l’op. 41 n. 1, contenente le citazioni dallo Stabat Mater) furono considerati nulla più che un esperimento, così come l’Allegretto con moto del quartetto op. 9 n. 2. Nel complesso, in ogni caso, si conferma pienamente quanto già rilevato a partire dal documento di sintesi: per Baillot e per il suo pubblico, Boccherini era stato essenzialmente il maestro del quintetto a due violoncelli. Se si osserva la fascia alta, si vede che tutti i quintetti in essa contenuti sopravvivono oltre la ventesima annata, e alcuni giungono fino all’ultima. Già in fascia media, troviamo invece alcuni quintetti il cui consenso pare essersi arrestato più o meno precocemente; mentre altri, per la resistenza dimostrata, possono senz’altro essere accomunati ai quintetti di fascia alta. Riunendo dunque questi ultimi con i quintetti ‘longevi’ di fascia media, otteniamo il seguente elenco, che possiamo considerare rappresentativo di ciò che nella Parigi di quegli anni fu considerato come uno stabile repertorio boccheriniano: op. 29 n. 6, G 318 op. 25 n. 5, G 299 op. 39 n. 3, G 339 op. 46 n. 4, G 362 Minuetto dell’op. 11 n. 5, G 275 op. 25 n. 1, G 295 op. 18 n. 1, G 283 op. 28 n. 2, G 308 op. 42 n. 4, G 351 op. 28 n. 4, G 310 op. 45 n. 4, G 358 11 Gérard, Catalogue, p. 431. Tutti i quintetti a due viole di Boccherini, anche quelli fin qui considerati originali e dedicati a Luciano Bonaparte, sono in realtà verosimilmente degli adattamenti: cfr. Loukia Drosopoulou, Luigi Boccherini’s String Quintets with Two Violas Opp. 60 and 62 (G 391-402): A Re-Examination of Their Origin, «Boccherini Studies», 3, 2011, pp. 169-196. 12 Sui quartetti op. 52, in particolare per quanto riguarda gli aspetti formali e il piano delle tonalità, si veda Marco Mangani, Una passeggiata attraverso le relazioni armoniche di terza: lo ‘stile classico’ e il caso Boccherini, in Musica come pensiero e come azione. Studi in onore di Guido Salvetti, a cura di M. Vaccarini, M. G. Sità, A. Estero, Lucca, LIM, 2014, pp. 211-245, in part. 226-242.
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La musica di Boccherini nelle séances di Pierre Baillot (1814-1840)
A questo elenco si potrebbe forse aggiungere il Presto conclusivo dell’op. 10 n. 1, ancora riproposto nell’annata ventiseiesima. Resta allora da vedere quali aspetti dello stile boccheriniano furono privilegiati dalle scelte di Baillot. Un primo elemento interessante riguarda i brani ‘di carattere’, che furono considerati con tutta evidenza di scarso interesse; in particolare, il palese insuccesso del quintettino op. 30 n. 6, azzardato nella prima annata (decima séance, 27 febbraio 1815) e mai più riproposto, dimostra se non altro la lungimiranza al riguardo dello stesso Boccherini, il quale infatti, con parole rimaste celebri, aveva sconsigliato a Pleyel di pubblicare il brano: Ne l’opera 30, quintettini, troverete che uno ha per titolo La musica notturna delle strade di Madrid. Questo pezzo è totalmente inutile, ed anche ridicolo fuori di Spagna, poiché non possono gli uditori giammai comprenderne il significato, né gli esecutori sonarlo come deve essere suonato […]13.
Altrettanto poco fortunate, nell’ambito delle séances, sono le opere “piccole”14, presenti in misura davvero minima. Significativo, a questo proposito, il caso del Quintettino del Fandango: nella seconda delle due sole occasioni in cui fu eseguito, questo quintettino (op. 40 n. 2, G 341) fu combinato con un altro (op. 40 n. 3, G 342), dando vita a un ciclo di movimenti da opera “grande”: i. Prestissimo (G 342) ii. Grave e Fandango (G 341) iii. Minuetto, allegro (G 341) iv. Rondeau, all. moderato (G 342) Del tutto marginale infine, nelle scelte di Baillot, risulta quello che oggi consideriamo forse come il tratto stilistico più affascinante di Boccherini, certo il più originale, ossia la grande varietà di soluzioni ‘cicliche’15. I brani di questa natura sono sostanzialmente assenti dalla programmazione di Baillot, e soprattutto mancano dall’elenco dei brani ‘forti’ che ho proposto poco sopra; con una sola eccezione, ossia il Quintetto op. 28 n. 2, G 308 (fascia media), il cui finale è costituito notoriamente da una ripresa
13 Boccherini a Pleyel, 10 luglio 1797, in Luigi Boccherini, Epistolario, studio preliminare di R. Coli, edizione e note di M. Mangani, Madrid, Sant Cugat, Asociación Luigi Boccherini, Editorial Arpegio, 2011, p. 164. 14 Per la ben nota distinzione di Boccherini tra opere piccole e opere grandi si veda, tra l’altro, Boccherini, Epistolario, cit., p. 160 (Boccherini a Andreoli, 22 settembre 1780). 15 Per uno sguardo complessivo su questo aspetto, si veda Marco Mangani, Tipologia delle forme cicliche nella musica di Boccherini, «Codice 602», nuova serie, 1 (2010), pp. 58-72. Codice 602
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Marco Mangani
parziale del primo movimento16. Per il resto, in fascia alta troviamo solo un caso di ripresa ciclica, sicuramente tollerabile nel contesto dello stile classico proposto da Baillot, ossia il Quintetto in Re maggiore op. 25 n. 5, G 299, dove un frammento del secondo movimento (Largo assai) è riproposto (Grave) come introduzione al Rondeau conclusivo (l’introduzione lenta al finale, se non altro, era un tratto del prediletto Quintetto in Sol minore di Mozart). Se consideriamo congiuntamente la frequenza delle esecuzioni e la longevità, spetta in definitiva proprio a questo quintetto, ancor più che all’op. 29 n. 6 (brano che detiene il primato in termini puramente quantitativi), la patente di brano emblematico del Boccherini di Baillot. Vediamo allora, per sommi capi, quali sono i tratti caratteristici del Quintetto op. 25 n. 5. Si tratta, in primo luogo, di un’opera “grande” che nella disposizione dei movimenti e nella loro articolazione formale rispetta sostanzialmente quelli che, già nella percezione dell’epoca, dovettero esser considerati gli equilibri classici17: pare insomma che per aver diritto di cittadinanza a fianco dei tre viennesi, Boccherini dovesse trovarsi prima di tutto in linea con loro sul piano della costruzione (il che spiega, per inciso, anche la predilezione per il terzo tra i quintetti dell’op. 39, a danno soprattutto del primo, sicuramente improponibile in un contesto ‘classico’)18. D’altro canto, tuttavia, il quintetto op. 25 n. 5 è un concentrato dei tratti stilistici più soggioganti dello stile boccheriniano, a cominciare proprio dalle sonorità tragiche che aprono il Largo assai. Questo movimento, peraltro, contiene uno degli esempi più significativi dell’audacia boccheriniana nel collegamento delle triadi (Es. 1). Un altro aspetto del quintetto G 299 che non avrà mancato di affascinare Baillot, i suoi musicisti e il suo pubblico è la magia dell’ordito sonoro, evidente soprattutto nel sublime Trio del Minuetto, caratterizzato da un’invenzione melodica particolarmente accattivante, che si apre con una ‘falsa partenza’ del primo violino per affidare poi il tema al registro acuto della viola, in quello che potrebbe esser definito come un contrappunto ornamentale (Es. 2). 16 Secondo Gérard, Catalogue, p. 346, questo potrebbe essere il quintetto che aveva causato la defenestrazione di Boccherini da parte del futuro Carlo IV, secondo un aneddoto narrato dal violinista Alexandre-Jean Boucher. L’intensità del Larghetto in La minore che costituisce il suo terzo movimento potrebbe esser stata, a mio avviso, la ragione principale del gradimento accordato a questo quintetto da Baillot e dal suo pubblico. 17 Il primo movimento si presenta in quella che può definirsi, a seconda del modello teorico adottato, come una forma-sonata bipartita con ripresa del primo tema a mo’ di coda, oppure come una forma-sonata con ripresa retrograda. 18 Sulle particolarità strutturali del quintetto op. 39 n. 1, cfr. Marco Mangani, “El sainete interrumpido”: il metalinguaggio di Boccherini e l’estetica dell’Illuminismo, in Centros de poder italianos en la monarquía hispánica (siglos XV-XVIII), 3 voll., a cura di J. Martínez Millán, M. Rivero Rodríguez, Madrid, Polifemo, 2010, vol. III, pp. 2219-2240.
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La musica di Boccherini nelle séances di Pierre Baillot (1814-1840)
Es. 1: Boccherini, Quintetto G 299, ii.-Largo assai, batt. 17-20
Riassumendo, ciò di cui Baillot si dimostrò convinto, nella sua proposta boccheriniana, è che il lucchese potesse essere accolto a pieno titolo nel novero dei classici, rivelandosi al tempo stesso capace di gestire come loro l’aspetto della solidità costruttiva (per noi, oggi, non così centrale nella valutazione critica di Boccherini, ma di primaria importanza per quei tempi) e di infondervi un’ispirazione d’indiscutibile originalità. La scommessa, col pubblico parigino, fu vinta. L’ostinazione nel proporre musiche di Boccherini non fu, infatti, solo un capriccio di Baillot: è evidente che tale ostinazione resse perfettamente il collaudo dell’uditorio. Ce ne dà conferma, involontariamente, un ascoltatore occasionale particolarmente malevolo nei confronti di Boccherini. In genere, a proposito dell’opinione seccamente negativa di Louis Spohr nei confronti della musica di Boccherini si cita esclusivamente l’aneddoto riferito da Fétis (“non merita neanche il nome di musica”). Si dimentica però che Spohr ebbe l’occasione di esprimersi in modo più articolato per iscritto, confermando, beninteso, il proprio inappellabile Codice 602
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Marco Mangani
Es. 2: Boccherini, Quintetto G 299, iii.-Minuetto e Trio, inizio del Trio
giudizio, ma motivandolo e commentandolo19. Traduco direttamente quanto ebbe a scrivere (il corsivo enfatico è mio)20: [Baillot] esegue spesso e volentieri i quintetti di Boccherini. Conosco una dozzina di questi quintetti, ed ero ansioso di ascoltarli suonati da lui, per vedere se fosse riuscito a farmene dimenticare l’inconsistenza grazie alla sua maniera di eseguirli. Ma rispetto a tutte quelle che avevo ascoltato in precedenza, l’interpretazione da lui proposta non riuscì, per quanto felice fosse, a farmi sembrare meno sgradevoli la frequente puerilità delle melodie e la secchezza dell’armonia, quasi sempre solo triadica. È difficile capire come un artista della 19 Tutta la questione è opportunamente ricostruita e documentata da Babette Kaiserkern, Luigi Boccherini. Leben und Werk. Musica amorosa, Wiesbaden, Weimarer Verlagsgesellschaft, 2014, pp. 241-242. 20 Il testo della lettera, riportato anche da Kaiserkern, fu pubblicato sulla più importante rivista musicale tedesca: Briefe aus Paris von Ludwig Spohr. Viertes Brief. Paris, den 30sten Januar 1821, «Allgemeine musikalische Zeitung», XXIII, 12 (21 marzo 1821), colonne 189-195: 192-193.
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La musica di Boccherini nelle séances di Pierre Baillot (1814-1840)
preparazione di Baillot, al quale è nota la stima che nutriamo per lavori di questo genere, possa sforzarsi di riproporre continuamente questi quintetti (che hanno dei meriti solo in considerazione dell’epoca e delle circostanze in cui furono scritti)! Ma il fatto che qui li si ascolti tanto volentieri quanto una qualunque cosa di Mozart dimostra ancora una volta che i parigini non sanno distinguere il buono dal cattivo, e che nella loro educazione artistica sono rimasti indietro di almeno cinquant’anni […].
Che il giudizio di Spohr non possa esser condiviso da chi sta scrivendo un saggio sulla musica di Boccherini è cosa ovvia; ma non è la cosa più importante. La cosa più importante, nel nostro contesto, è che Spohr ci dà un’inattesa conferma del fatto che il pubblico parigino gradiva pienamente la musica di Boccherini. Il fallimento dell’operazione di Baillot (perché in definitiva è di questo che si tratta), che fu di portata europea, si verificò malgrado il consenso garantitole dall’ambiente a cui il violinista direttamente si rivolgeva. Con tutto ciò, è opportuno precisare che né Spohr nel 1821, né Mendelssohn oltre dieci anni dopo (nel dicembre 1831) ascoltarono il Boccherini di Baillot in una delle séance: per entrambi si era trattato invece di serate private a casa di Baillot (dove peraltro si tenevano spesso anche i concerti pubblici). Su questo, Spohr è molto esplicito: Baillot gab mir auf mein Bitten eine Soirée bei sich […] Er gab uns an jenem Abend ein Quintett von Boccherini, ein Quartett von Haydn, und drei Compositionen von sich, ein Concert, ein Air varié und ein Rondo zu hören. Baillot mi ha offerto, su mia richiesta, una serata presso di lui […] Quella sera ci fece ascoltare un quintetto di Boccherini, un quartetto di Haydn e tre composizioni sue: un concerto, un air varié e un rondò21�.
In effetti, nel gennaio del 1821 (ricordiamo che la lettera di Spohr reca la data del 30 di quel mese) non si era tenuta alcuna séance. Non è facile, pertanto, ipotizzare quale sia il quintetto che tanto efficacemente aveva rafforzato la cattiva opinione di Spohr sulla musica di Boccherini: un possibile candidato è il Quintetto op. 49 n. 1, G 365, che sarebbe stato eseguito di lì a poco, il 10 febbraio 1821, in occasione della prima séance dell’annata, assieme a un quartetto di Haydn (op. 9 n. 2) e a un air varié; ma non possiamo certo dare per scontato che Baillot, nelle serate private, si limitasse a ‘provare’ i brani di imminente esecuzione. Al contrario, le serate tra amici, a differenza delle séances, farebbero piuttosto pensare a delle domestiche jam sessions, dalle quali non erano esclusi il gareggiamento tra esecutori e l’incitamento del pubblico. Proprio Mendelssohn, nella lettera alla sorella Rebecka che contiene la famosa definizione di 21 Briefe aus Paris, colonne 190 e 192. Codice 602
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Marco Mangani
Boccherini come amabile parruccone, ci offre un’immagine molto vivida della serata privata alla quale fu invitato il 23 dicembre 1831. Fornisco direttamente la traduzione del passo22. […] Adesso è già il 24, e ieri da Baillot è stata una bella serata. Quest’uomo suona splendidamente; aveva messo insieme una compagnia molto musicale di dame attente e uomini entusiasti, e raramente in una soirée mi sono divertito tanto e sono stato tanto onorato: perché ascoltare il mio quartetto in Mib a B. P23. eseguito a Parigi da Baillot mi ha davvero dato un piacere immenso; lo ha affrontato con ardore e con gioia. L’inizio era affidato a un quintetto di Boccherini: una parrucca, sì, ma con sotto un vecchio signore veramente amabile. Poi tutti hanno chiesto una sonata di Bach: abbiamo scelto quella in La maggiore. Si risvegliavano in me suoni antichissimi, al ricordo di come Baillot la suonava con Mme. Bigot24; ci siamo incitati a vicenda; la faccenda si è animata, e ha divertito così tanto noi due e tutti gli altri, che abbiamo subito aggiunto la sonata in Mi maggiore, e successivamente abbiamo voluto eseguire le altre quattro25. Poi è toccato a me suonare da solo; ho pensato che mi sarebbe potuta riuscire bene anche un’improvvisazione, che a dire il vero mi è riuscita proprio molto bene. Per la prima volta tutti si erano ora fatti seri; così ho potuto prendere tre temi tratti dalle precedenti sonate ed elaborarli a piacimento; la cosa è piaciuta a tutti fino all’inverosimile: alla fine hanno gridato e applaudito come pazzi. Quindi è tornato Baillot e ha messo il mio quartetto sul leggio; i suoi modi erano così inusitatamente amichevoli che me ne sono rallegrato doppiamente, soprattutto dato che al primo impatto, e non solo, mi era sembrato piuttosto freddo, e un po’ abbattuto per la perdita dei suoi incarichi.
Come sappiamo, Mendelssohn non poté prender parte attivamente a una séance, nonostante questa fosse stata espressamente prevista da Baillot. La serata doveva aver luogo il 7 aprile 1832, nella Salle St. Jean dell’Hôtel 22 Il testo originale si legge ora in edizione critica: Felix Mendelssohn, Sämtliche Briefe, vol. 2, a cura di A. Morgenstern u. U. Wald, Kassel etc., Bärenreiter, 2009, pp. 437-441: 440. Sono grato ad Artemio Focher e Pietro Zappalà per il controllo e i suggerimenti relativi alla traduzione. A Pietro Zappalà devo anche un ringraziamento per aver messo a mia disposizione la sua preziosa competenza nell’ambito degli studi mendelssohniani. 23 Betty Pistor, dedicataria segreta del Quartetto op. 12, ma forse ispiratrice anche del Quartetto op. 13, composto in realtà prima dell’altro, che sarebbe stato eseguito da Baillot nella séance del 14 febbraio 1832. Su Betty Pistor cfr. Larry Todd, Mendelssohn. A Life in Music, Oxford, Oxford University Press, 2003, p. 176. 24 Sul precedente soggiorno parigino di Mendelssohn (1816-17), in occasione del quale il giovanissimo musicista aveva conosciuto sia Baillot sia la pianista Marie Bigot, ricevendo lezioni da quest’ultima, cfr. Todd, Mendelssohn, cit., pp. 35-36. Nel 1820 Baillot aveva tenuto alcune delle séances presso Madame Bigot. 25 È pertanto evidente che in questo momento a esibirsi sono Baillot al violino e Mendelssohn al pianoforte.
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de Ville, e Mendelssohn vi si sarebbe dovuto esibire in veste di pianista, sia insieme a Baillot nell’esecuzione della Sonata in Do minore di Beethoven sia come solista nel concerto in Re minore di Mozart. Ma l’epidemia di colera che colpì Parigi a partire dal mese di marzo impedì che quella séance si tenesse, e nell’aprile del ’32 troviamo Mendelssohn già a Londra. Quanto a Boccherini, la sua musica avrebbe dovuto aprire anche quella séance: era previsto un non meglio specificato quintetto in Sol minore, che su basi puramente statistiche possiamo forse identificare con l’op. 29 n. 6. Anche in questo caso, più difficile è immaginare quale potesse essere il quintetto boccheriniano ascoltato il 23 dicembre da Mendelssohn a casa di Baillot; ma, tutto sommato, l’ipotesi non è così urgente. Qualunque brano possano aver ascoltato, a distanza di oltre un decennio l’uno dall’altro, Spohr e Mendelssohn, l’abisso stilistico che li separava da Boccherini era incolmabile. In fondo, nella lettera pubblicata sulla «Allgemeine musikalische Zeitung» Spohr era stato intellettualmente onesto: se rispetto al passato rappresentato da Mozart (e, con qualche riserva in più, da Haydn) egli poteva avvertire una continuità, rispetto al passato rappresentato da Boccherini non poteva esservene alcuna. Si pensi all’osservazione sull’armonia: considerando la cosa dal suo punto di vista, come dar torto a Spohr? L’esempio n. 1 ci mostra, è vero, un passo senz’altro audace, ma si tratta di un’audacia che non ha alcuna rilevanza per un tedesco della prima metà dell’Ottocento: intanto, perché si basa essenzialmente su delle triadi (non è questo, in fondo, ciò che lamenta Spohr?) e non contribuisce in alcun modo all’emancipazione delle dissonanze. Ma, a ben guardare, c’è dell’altro. C’è il fatto che quella concatenazione non porta da nessuna parte, non produce alcuna modulazione e non svolge alcuna funzione in rapporto alla forma: la frase inizia in Re minore, e in Re minore finisce. È puro colore. Perché nella musica strumentale si tornino ad apprezzare simili concatenazioni ‘coloristiche’ basate sulle triadi (in realtà nient’affatto estranee a una certa estetica settecentesca), dovranno passare molti anni: nel frattempo esse si rifugiano altrove, ad esempio nell’opera italiana. Come poté, allora, la musica di Boccherini resistere all’usura del tempo di fronte al pubblico di Baillot? C’è un dato emblematico, nella programmazione delle séances di Baillot, che riguarda Beethoven: quando il suo ‘terzo stile’ giunge a Parigi, è evidentissimo che il pubblico lo rifiuta. Tutto sommato, che il 25 marzo 1828, a distanza di un anno dalla morte di Beethoven, Baillot avesse deciso di proporre il suo dernier Adagio (il Lento assai dell’op. 135) è abbastanza logico, e il pubblico avrà preso la commemorazione per ciò che era. Ma proporre, trascorso un altro anno, nientemeno che l’op. 131 fu senza dubbio un tentativo audace; e fallimentare, a giudicare dal fatto che dopo quel concerto (24 marzo 1829) il Beethoven di Baillot tornerà Codice 602
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Marco Mangani
a essere, sostanzialmente, quello dell’op. 18, con incursioni nei quartetti successivi fino all’op. 95, ma mai più oltre. Non resta, a questo punto, che richiamare la celebre affermazione di Picquot sulla musica di Boccherini in rapporto agli ultimi quartetti di Beethoven, che ci appare ora come il manifesto ideologico postumo dell’uditorio di Baillot26: […] Fintanto che questo genio immortale [Beethoven] ha seguito le tracce di Mozart, fintanto che egli le ha oltrepassate nella misura consentita dalla poetica musicale, fintanto che il suo volo pindarico non ha valicato i limiti dell’arte che per mostrare fino a che punto essi possano esser differiti, egli si è imposto all’ammirazione, ha imposto la sua sovrana potenza. Ma quando […] ha rigettato le forme troppo simmetriche, troppo convenzionali per i suoi gusti, per lanciarsi a corpo morto nella fantasia libera da tutte le regole, da tutte le costrizioni, qual è stato il risultato? Paragonate i suoi bei quartetti con gli ultimi sei, figli di quel sistema di affrancamento illimitato, e rispondete!
Il commento a piè di pagina di Georges de Saint-Foix è lapidario: “la postérité a répondu”. Si riferiva, ovviamente, ai quartetti di Beethoven. Ma nei confronti di Boccherini la risposta dei posteri è ancora aperta.
26 Ripropongo qui la traduzione del passo pubblicata in Marco Mangani, Luigi Boccherini, Palermo, L’Epos, 2005, p. 132.
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Appendice Annata prima N. progressivo e data
Annotazioni
1) 12.12.14
G
N° cat. autentico
Note sui brani
339 39/3 318 29/6
2) 19.12.14
Non aperta con Boccherini
295 25/1 376 51/1 313 29/1
3) 26.12.14
Non aperta con Boccherini. Prima esecuzione del Quartetto n° 1 di Cherubini
278 13/2
solo Presto
269 10/5 275 11/5
4) 02.01.15
solo finale
273 11/3
solo Minuetto
346 41/1 268 10/4 292 20/4
5) 09.01.15 6) 16.01.15
Non aperta con Boccherini
solo Minuetto
351 42/4 287 18/5 308 28/2 265 10/1
7) 23.01.15
solo finale
369 49/5 365 49/1
8) 30.01.15
269 10/5 283 18/1
9) 20.02.15
307 28/1 300 25/6
10) 27.02.15
358 45/4 324 30/6
11) 06.03.15
286 18/4 362 46/4
12) 13.03.15
289 20/1 267 10/3
Codice 602
59
Quintetto et Variations MMSS de Boccherini sur l’air de la retraite de Madrid.
Marco Mangani
Annata seconda N. progressivo e data
Annotazioni
13) 18.11.16
G
N° cat. Autentico
Note sui brani
339 39/3 318 29/6
14) 25.11.16
310 28/4
15) 02.12.16
Non aperta con Boccherini
362 46/4
16) 09.12.16
Non aperta con Boccherini
313 29/1
17) 27.01.17
365 49/1 234 Quartetto 52/3
18) 03.02.17
295 25/1
19) 10.02.17
299 25/5
Prima comparsa di un quartetto di Boccherini
214 Quartetto 41/1 20) 24.02.17
Non aperta con Boccherini
21) 03.03.17
383 56/5 trascr. a 2 vle. 307 28/1 275 11/5 351 42/4
22) 10.03.17
346 41/1 292 20/4
23) 17.03.17
165 Quartetto 8/1 360 46/2
24) 24.03.17
Quintetto de Boccherini (manuscrit = 2 altos).
Non aperta con Boccherini
318 29/6
60
Solo Minuetto, inserito senza n° progress. all’inizio della seconda parte
La musica di Boccherini nelle sĂŠances di Pierre Baillot (1814-1840)
Annata terza Data
Annotazioni
25) 25.11.17
G
N° cat. autentico Note sui brani
361 46/3 339 39/3
26) 02.12.17
369 49/5 313 29/1
27) 09.12.17
358 45/4 308 28/2
28) 16.12.17
338 39/2 265 10/1
29) 27.01.18
273 11/3 351 42/4
30) 10.02.18
292 20/4 299 25/5
31) 17.02.18 32) 24.02.18
Non aperta con Boccherini
300 25/6 206 Quartetto 32/6 360 46/2
33) 07.04.18
365 49/1 318 29/6
34) 14.04.18
278 13/2 383 56/5 trascr. a 2 vle.
35) 21.04.18
295 25/1
36) 28.04.18
339 39/3
Codice 602
61
Quintetto de Boccherini (manuscrits).
Marco Mangani
Annata quarta Data
Annotazioni
G
37) 01.12.18
N° cat. autentico
Note sui brani
269 10/5 339 39/3
38) 08.12.18
376 51/1 388 57/1 trascr. a 2 vle.
39) 15.12.18
Quintetto de Boccherini (manuscrits, à 2 quintes).
206 Quartetto 32/6 318 29/6
40) 22.12.18
Non aperta con Boccherini
275 11/5
Solo Minuetto, subito seguito da…
318 29/6
41) 26.01.19
299 25/5 342 40/3
42) 02.02.19
283 18/1
43) 09.09.19
234 Quartetto 52/3 360 46/2
44) 16.02.19
369 49/5 362 46/4
45) 02.03.19
308 28/2 245 Quartetto 58/4
46) 09.03.19
295 25/1 341 40/2
47) 16.03.19
348 42/1
48) 23.03.19
318 29/6
62
Quintetto de Boccherini avec le fandango
La musica di Boccherini nelle séances di Pierre Baillot (1814-1840)
Annata Quinta Data
Annotazioni
G
N° cat. autentico
49) 11.01.20
361 46/3
50) 18.01.20
299 25/5 98
Note sui brani
solo l’Andantino, Andante corretto successivamente a matita
Trio 14/4
206 Quartetto 32/6 51) 25.01.20
234 Quartetto 52/3
52) 01.02.20 53) 07.03.20 54) 15.03.20
318 29/6
segue subito il brano successivo
362 46/4
solo finale, indicato come Presto
269 10/5 Non aperta con Boccherini
360 46/2 283 18/1 98
solo l’Andantino, segnato come Andante, segue subito il brano successivo
Trio 14/4
245 Quartetto 58/4 55) 21.03.20
300 25/6
56) 28.03.20
295 25/1
Codice 602
63
Marco Mangani
Annata Sesta Data
Annotazioni
57) 10.02.21
G
N° cat. autentico
Note sui brani
365 49/1 245 Quartetto 58/4
58) 17.02.21
339 39/3 98
59) 24.02.21
60) 03.03.21
Trio 14/4
solo l’Andantino, segnato come Andante
278 13/2
segue subito il brano succ.
267 10/3
Solo Minuetto
342 40/3
inédit, poi canc. a matita e sostituito con 84e.
206 Quartetto 32/6
61) 17.03.21
269 10/5
62) 24.03.21 Non aperta con Boccherini
270 10/6
63) 31.03.21
300 25/6 275 11/5
Solo Minuetto, attacca subito il brano successivo
360 46/2 64) 07.04.21
299 25/5 351 42/4
Annata Settima Data
Annotazioni
65) 26.01.22
G
N° cat. autentico
Note sui brani
369 49/5 98
Trio 14/4
66) 02.02.22
295 25/1
67) 09.02.22
318 29/6
solo l’Andantino, segnato come Andante
206 Quartetto 32/6 68) 16.02.22
360 46/2
69) 02.03.22 Non aperta con Boccherini
362 46/4
70) 09.03.22
299 25/5 275 11/5 300 25/6
71) 16.03.22 Non aperta con Boccherini
310 28/4
72) 23.03.22
351 42/4
64
Solo Minuetto, attacca subito il brano successivo
La musica di Boccherini nelle séances di Pierre Baillot (1814-1840)
Annata Ottava Data
G
N° cat. autentico Note sui brani
73) 01.03.23 339 39/3 74) 08.03.23 299 25/5 172 Quartetto 9/2
Solo Allegretto con moto
75) 15.03.23 318 29/6 206 Quartetto 32/6 76) 22.03.23 295 25/1 Annata Nona Data
G
N° cat. autentico Note sui brani
77) 24.04.24 283 18/1 278 13/2
solo Presto
78) 01.05.24 358 45/4 245 Quartetto 58/4 79) 08.05.24 313 29/1 234 Quartetto 52/3 80) 15.05.24 268 10/4 Annata Decima Data
G
N° cat. autentico
81) 07.05.25 308 28/2 82) 14.05.25 310 28/4 Annata Undicesima Data
Annotazioni
83) 26.11.25
G
Note sui brani
299 25/5 98
84) 03.12.25
N° cat. autentico
solo l’Andantino, segnato come Andante
Trio 14/4
318 29/6 206 Quartetto 32/6
85) 10.12.25 Non aperta con Boccherini
362 46/4
86) 17.12.25
346 41/1
Codice 602
65
Marco Mangani
Annata Dodicesima Data
Annotazioni
G
N° cat. autentico
Note sui brani
87) 25.02.26
283 18/1
88) 04.03.26
388 57/1 trascr. a 2 vle.
89) 11.03.26
360 46/2
90) 18.03.26 Non aperta con Boccherini
390 57/6 trascr. a 2 vle.
à deux alto[s] (mss.).
Quintetto de Boccherini à 2. altos, avec la marche sur l’aire de la retraite.
Annata Tredicesima Data
G
N° cat. autentico
Note sui brani
91) 01.02.27 365 49/1 92) 08.02.27 369 49/5 93) 15.02.27 368 49/4
(1e. fois)
94) 22.02.27 387 57/2 trascr. a 2 vle.
Quintetto de Boccherini à 2 altos 1e. fois scritto due volte, la seconda canc. e corretto in 2.e (se non rif. al brano sotto)
95) 08.03.27 339 39/3 96) 15.03.27 313 29/1 97) 22.03.27 299 25/5 98) 29.03.27 318 29/6
Annata Quattordicesima Data
Annotazioni
G
N° cat. autentico
Note sui brani
99) 22.01.28
358 45/4
100)
29.01.28
388 57/1 trascr. a 2 vle.
101)
05.02.28
387 A due viole 1.er des manuscrits à 2. Altos [ut supra]
102)
12.02.28
295 25/1
103)
04.03.28
308 28/2 383 56/5 trascr. a 2 vle.
104)
11.03.28
1.er du manuscrit à 2. altos.
Solo Tema e variazioni [però indic. come Andante pausato!!!! Interessante] Thème varié par Boccherini (de ses quintettes p.r 2. altos)
351 42/4 98
Trio 14/4
105)
18.03.28
288 18/6
106)
25.03.28 dernier Adagio composé par Beethoven [poi a matita] : du 17e. quatuor [è il Lento assai dell’op. 135]
362 46/4
66
234 Quartetto 52/3
solo l’Andantino, segnato come Andante; segue subito un trio di Beethoven
5e. fois
La musica di Boccherini nelle séances di Pierre Baillot (1814-1840)
Annata Quindicesima Data
Annotazioni
G
N° cat. autentico
Note sui brani
107)
27.01.29
283 18/1
108)
03.02.29
300 25/6
109)
10.02.29 Non aperta con Boccherini
374 50/5
Solo Minuetto: Intermède. Menuet de Boccherini dans le genre des seguidillas
341 40/2
Esecuzione combinata: Quintette de Boccherini où se trouve le fandango / précédé et terminé par, e segue l’incipit di G 342
342 40/3 110)
17.02.29 Viene riproposto il Quartetto n° 1 di Cherubini
318 29/6
111)
17.03.29
299 25/5 245 Quartetto 58/4
112)
24.03.29 Non aperta con Boccherini. E’ la séance con l’op. 131 di Beethoven.
206 Quartetto 32/6
113)
31.03.29 Prima esecuzione del Quartetto n° 2 di Cherubini (l’incipit è ancora in Re maggiore!)
307 28/1
114)
07.04.29
310 28/4
Annata Sedicesima Data
Annotazioni
G
N° cat. autentico
115)
20.04.30
339 39/3
116)
27.04.30 Non aperta con Boccherini 300 25/6
Annata Diciassettesima Data
Annotazioni
G
N° cat. autentico
117)
22.02.31
348 42/1
118)
01.03.31
318 29/6
119)
08.03.31 Paganini présent depuis la fin du Quintette de Mozart. Prima séance senza musica di Boccherini
–
120)
15.03.31
362 46/4
121)
07.05.31 Anche programma a stampa : Séance extraordinaire / de Quatuors et Quintettes, / à l’Hotel-de-ville, salle Saint-Jean […]
283 18/1
Codice 602
67
–
Marco Mangani
Annata Diciottesima Data 122)
Annotazioni 24.01.32
G
N° cat. autentico
364
46/6
234
Quartetto 52/3
123)
31.01.32 Senza musica di Boccherini
–
–
124)
07.02.32
299
25/5
125)
14.02.32 2e. quatuor de M. Felix Mendelssohn (è il quartetto op. 13)
339
39/3
07.04.32
Sèance extraordinaire con Mendelssohn esecutore, solo programmata : n’a eu lieu à cause du choléra. Non numerata.
[318] Quintetto en sol mineur non meglio specificato
Annata Diciannovesima Data
G
N° cat. autentico Note sui brani
126)
15.12.32 346 41/1
127)
22.12.32 299 25/5 275 11/5
Solo Minuetto
Annata Ventesima Data
Annotazioni
G
N° cat. autentico
128)
29.01.33 Séance extraordinaire de musique instrumentale, donnée à la Salle St. Jean . Esecuzione con orchestra del Concerto n° 29 di Viotti.
339 39/3
129)
26.03.33 Stesso titolo e stessi esecutori, Concerto n° 24 di Viotti. Non aperta con Boccherini
362 46/4
Annata Ventunesima Data 130)
Annotazioni
G
28.01.34
N° cat. autentico
295 25/1 265 10/1
131)
04.02.34
283 18/1
132)
18.02.34
310 28/4
133)
25.02.34
351 42/4
134)
13.12.34 Da qui, solo locandine a stampa con aggiunte posteriori a mano che specificano i brani.
339 39/3
135)
20.12.34
358 45/4
136)
27.12.34
318 29/6
Concerto non datato G
Note sui brani
N° cat. autentico Note sui brani
308 28/2 275 11/5
Solo Minuetto
265 10/1
Solo finale
68
Solo finale
En ut, 1er. des livraisons
La musica di Boccherini nelle séances di Pierre Baillot (1814-1840)
Annata Ventiduesima Data
G
N° cat. autentico Note sui brani Quintette de Boccherini [e a mano:] la 2ème. du dernier manuscrit, en Sib.
137)
31.01.35 387 57/2 trascr. a 2 vle.
138)
07.02.35 –
14.02.35 388 57/1 trascr. a 2 vle.
en la. à 2 quintes_
140)
21.02.35 367 49/3
Deuxième et dernière, etc. stessi esecutori.
–
Annata Ventitreesima: dalla 141) alla 143): 19, 26 marzo, 19 aprile; inoltre, la séance particulière, non numerata, del 7 maggio 1836. Tutta l’annata senza musiche di Boccherini. Annata Ventiquattresima Data
Annotazioni
G
N° cat. autentico
144)
11.02.37
234 Quartetto 52/3
145)
18.02.37 Senza musica di Boccherini
–
146)
23.12.37
299 25/5
147)
30.12.37
234 Quartetto 52/3
Note sui brani En Sol n° 37 (essendo il primo pubblicato da Pleyel, è in effetti il 37° apparso a stampa in Francia)
–
AnnataVenticinquesima Data
Annotazioni
G
N° cat. autentico
148)
10.02.38 Non aperta con Boccherini
362 46/4
149)
17.02.38
308 28/2
Note sui brani
Indicato come Quatuor, ma l’incipit aggiunto a mano è inequivocabile
Annata Ventiseiesima Data
G
N° cat. autentico
Note sui brani
150)
09.03.39 387 57/2, trascr. a 2vle. Le 2me en Sib pour 2. altos
151)
16.03.39 308 28/2 275 11/5
Solo Minuetto
265 10/1
Solo finale
Codice 602
69
Marco Mangani
Annata Ventisettesima Data 152)
Annotazioni 14.03.40
G
N° cat. autentico
358
45/4
310
28/4
21.03.40
154)
04.04.40
Alla fine, annunciata una sèance per l’11 aprile, ma non ce n’è traccia
275
11/5
234
52/3 Quartetto
299
25/5
70
Solo rondo. Allegro et Finale (connu sous le nom de la Clochette). A mano: Entre ces deux morceaux, le Minuetto du 11e.
Brano da identificare
153)
Note
Solo Minuetto, inserito tra i due “Clochette”.
Il segno di Gaetano Giani Luporini
di Gianmarco Caselli*
In questo contributo ci occuperemo principalmente del sistema notazionale della musica di Gaetano Giani Luporini, cioè del tipo di scrittura utilizzato dal compositore e delle sue implicazioni, facendo un riferimento particolare alla sua musica per pianoforte. Gli interventi di Giani Luporini sono ricavati da un’intervista che gli è stata fatta dall’autore del seguente contributo nella sua casa nel mese di settembre 2016. Il lavoro che Gaetano Giani Luporini reputa tale da essere considerato il primo da inserire nel proprio catalogo è Musica per due pianoforti del 1959: l’avventura come compositore inizia quindi con il pianoforte, anzi, con due; inoltre è il caso di tenere conto che uno dei due pianisti che eseguiranno Musica è Giancarlo Cardini. Cardini e Giani Luporini diventeranno molto amici; anche il pianista diventerà una star del panorama musicale contemporaneo collaborando con i maggiori compositori di fama internazionale.
* Gianmarco Caselli, conseguita la laurea in Storia della Musica alla Facoltà di Lettere dell’Università di Pisa con una tesi su Gaetano Giani Luporini, e il Diploma di specializzazione al Biennio a indirizzo tecnologico dell’Istituto Superiore di Studi Musicali “L. Boccherini”, negli ultimi anni si è affermato come compositore: le sue musiche si sono imposte in concorsi internazionali e sono state eseguite in Festival e contesti di prestigio in Italia e all’estero. È stato inoltre collaboratore del Centro Studi Giacomo Puccini, ha collaborato al progetto L’Epistolario di Giacomo Puccini, finalizzato alla pubblicazione cartacea e digitale delle lettere di Puccini, ed è stato assunto dall’Edizione Nazionale delle Opere di Giacomo Puccini per la trascrizione, annotazione, marcatura digitale delle lettere di Puccini. Ha pubblicato il libro Suono, segno, gesto nella musica per pianoforte di Gaetano Giani Luporini (Accademia Lucchese Scienze, Lettere e Arti, ETS) e La Musica a Lucca - per i 50 anni dell’Associazione Musicale Lucchese (Pacini Fazzi Editore). Ideatore e direttore artistico della rassegna ‘Lucca Underground Festival’, come giornalista collabora con Amadeus on line e Words in Freedom. È professore di italiano e storia all’Istituto Superiore “S. Pertini” di Lucca. Codice 602
71
Gianmarco Caselli
Sia in Musica, scritta per un saggio di composizione, sia in Quattro pezzi brevi per pianoforte del 1961, Giani Luporini utilizza la serialità ma in modo libero; nel terzo lavoro per pianoforte, Due brevi meditazioni (19621963) se ne è già distaccato. Il nuovo lavoro pianistico arriverà a dieci anni di distanza dal primo, nel 1969, e nel frattempo sono nati altri lavori come Misteri corali per coro e voce recitante (1968). Così come il pianoforte nel 1959 apre la carriera di Giani Luporini, così, dieci anni dopo, ne chiude la prima fase costituendone una sorta di summa. Questa prima fase è quella in cui Giani Luporini, come altri artisti, sperimentando vecchie e nuove regole, le mette allo stesso tempo in discussione cercando di trovare una dimensione espressiva personale. Si parla di un momento storico molto stimolante anche dal punto di vista creativo: è il periodo dei Beatles, delle rivolte studentesche del ’68 e della Beat Generation che mette in discussione l’intera struttura culturale ma anche sociale conosciuta fino a quel momento. Si cerca, in qualche modo, di costruire un mondo nuovo, diverso da quello che ha portato alle due guerre mondiali. I movimenti artistici sono una componente imprescindibile di questa voglia di cambiamento e la musica in particolare ne diventa la portavoce più significativa. Il concerto di Woodstock, forse l’apice di tutto ciò, si svolge nel 1969. Nella musica classica contemporanea John Cage è già un punto di riferimento importantissimo, ma ci sono anche altri autori come Ligeti, Penderecki, e, in Italia, fra gli altri, Luigi Nono, Sylvano Bussotti, Bruno Maderna e Luciano Berio. Gli ultimi due, nel 1955, fondano lo Studio di Fonologia Musicale Rai di Milano dando un importante contributo alle ricerche di musica elettronica. Tutti questi autori, insieme a molti altri, destrutturano le forme musicali tradizionali e sperimentano nuove sonorità dando vita a nuovi linguaggi espressivi. Giani Luporini non può non aver risentito di questo fermento, tuttavia non è influenzato da determinati compositori: “Io ero tutto preso dalle mie cose, ero piuttosto rappreso nelle mie intenzioni. Ero influenzato più dall’atmosfera generale di quel periodo”. La voglia di creare qualcosa di nuovo, di sfuggire agli accademismi, si denota anche in questa sua prima fase quando, pur utilizzando la serialità, lo fa sempre con molta libertà, distaccandosene quando vuole: la sua ricerca è soprattutto espressiva, non rigida e speculativa. Per certi versi questa forza espressiva si può inquadrare in un’ottica tipica del romanticismo che viene fuori anche nell’atto creativo che per Giani Luporini è qualcosa di liberatorio e rivolto esclusivamente a ciò che si agita dentro di sé: “Ero contento di essermi spogliato da questo logorio, da queste passioni, intuizioni che avevo. Ero un po’ egoista, fra virgolette”. 72
Il segno di Gaetano Giani Luporini
Con Atti sonori si chiude la prima fase di Giani Luporini. Si tratta di una composizione certamente non facile da eseguire e si cimenterà nell’impresa ancora una volta Giancarlo Cardini. Per comprendere questo lavoro, importantissimo sia per la carriera di Giani Luporini sia per approfondire la notazione di cui fa uso, si deve partire proprio dal titolo che ne racchiude una componente fondamentale: il pianista durante l’esecuzione non sarà seduto davanti alla tastiera come accade nei brani tradizionali, bensì compirà una serie di atti particolari che cattureranno l’attenzione degli spettatori. C’è qualcosa, però, che il pubblico invece non vede: la notazione, la scrittura con la quale Giani Luporini deve dire all’esecutore cosa fare. Per indicare certi atti devono essere scritti dei simboli appositi, dal momento che la musica non li contempla. Premesso che durante la stesura di Atti sonori Giani Luporini e Cardini sono in stretto contatto, lo spartito deve offrire la possibilità di essere letto e interpretato anche da altri pianisti che potrebbero non avere la possibilità di comunicare con il compositore. Giani Luporini non è ovviamente l’unico che in questi anni ricorre a una scrittura personalizzata e, come altri, per ovviare al problema di interpretazione dei simboli utilizzati, ricorre alla stesura di una legenda (fig. 1) nella quale si spiega come essi debbano essere eseguiti. Una volta vista la legenda, possiamo osservare (fig. 2) una pagina di Atti sonori. In pagine come questa si possono già notare molte diverse peculiarità della notazione della composizione. Le note a inizio pagina con le linee che suggeriscono l’andamento delle altezze sono la prosecuzione di un disegno cominciato in quella precedente. Successivamente la scrittura si dispiega non più sui due classici pentagrammi bensì su tre o quattro. Questa caratteristica, che tornerà anche in successivi lavori di Giani Luporini, da un lato richiede certamente un’attenzione maggiore da parte del pianista, dall’altra suggerisce sia la spazializzazione sonora sia i movimenti che egli deve attuare durante l’esecuzione. Un altro caso, in Atti sonori, che ancor più chiaramente richiama visivamente la gestualità delle braccia e delle mani, possiamo osservarlo nel prossimo esempio (fig. 3). In entrambi gli esempi appena visti, poi, la scrittura evoca anche un’esecuzione forte e incisiva delle singole note che, così come si stagliano nello spazio grafico, allo stesso mondo devono risuonare nella sala da concerto. Anche nella pagina 8 di Atti sonori (fig. 4) la notazione suggerisce graficamente la forza, la potenza, la violenza che il pianista deve esercitare sullo strumento eseguendo i cluster. I fuochi d’artificio sia graficamente, sia a livello di spettacolo, sono riservati alle ultime pagine di cui qui (fig. 5) riportiamo un estratto riguardante l’esecuzione sulla cordiera del pianoforte. Codice 602
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Fig. 1
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Fig. 2 Codice 602
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Fig. 3
Il pubblico di Atti sonori quindi assiste a una sorta di performance durante la quale, ad esempio, il pianista si alza, picchia sul mobile, lo apre per percuotere le corde; la componente gestuale, che come abbiamo visto viene suggerita anche dalla notazione, risulta assolutamente fondamentale, è parte integrante della composizione; un ascolto di una registrazione offrirebbe pertanto una comprensione solo parziale di questo lavoro. Il brano in conclusione è non solo da ascoltare ma anche da vedere, caratteristica riconducibile agli happenings di Allan Kaprow o di Cage e Robert Rauschemberg e a spettacoli come quelli del gruppo Fluxus nei quali l’azione da vedere era talvolta più importante della musica stessa. Una domanda che può subito venire in mente, è quanto questo tipo di notazione possa facilitare e quanto invece complicare la vita dell’esecutore. Certamente già la difficoltà tecnica di certi passaggi, unitamente a quella interpretativa, fa sì che esecuzioni da parte di pianisti diversi possano risultare molto differenti. L’ultimo esempio che abbiamo visto è uno dei tipici passaggi in cui non è possibile che due esecutori eseguano le stesse sonorità: l’esecuzione è sulle corde e, nel caso delle linee diagonali con i pallini neri, il pianista deve suonare le corde centrali con il dito, mentre nel reticolo sottostante con triangoli neri deve percuotere le corde più basse con il palmo. Si tratta di informazioni precise ma allo stesso tempo molto indicative e che saranno eseguite diversamente da pianista a pianista. La notazione di Giani Luporini apre quindi la discussione su un altro argomento, quello dell’alea. Cage è forse l’autore più conosciuto per quel che riguarda l’alea, cioè l’introduzione della casualità sia nei processi compositivi sia in quelli esecutivi. Tuttavia la notazione di Giani Luporini non lascia mai carta bianca all’esecutore, pertanto si può parlare di alea controllata, cioè di una casualità che non è mai totale.
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Fig. 4 Codice 602
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Fig. 5
Va ribadito comunque che, nonostante i riferimenti a questi grandi autori, Giani Luporini non ne segue nessuno in particolare, neppure Cage: Di Cage e gli altri ammiravo quello che facevano: avevano portato nella musica delle novità. Ma questa ammirazione è durata poco perché poi mi sono accorto che per me i loro lavori non erano grandi cose; allora ho cambiato via e ho seguito un percorso personale.
In altre opere, soprattutto in quelle della seconda fase, oltre allo sperimentalismo emergono la ricerca timbrica e le sonorità che potremmo definire più dense e che anche in questo caso si riflettono in partiture graficamente molto piene e articolate. Se ne può vedere un esempio (fig. 6) nel Concerto per pianoforte e orchestra (1977). Si vedano anche una pagina di La Trappola per 30 voci maschili del 1979 (fig. 7) e di Dialoghi del Verbo (1971) (fig. 8) In altre opere di Giani Luporini la notazione mette in rilievo, visivamente, l’attenzione al silenzio e all’essenzializzazione sonora. Questa è una caratteristica che si può trovare soprattutto nei lavori della sua terza fase, quella che inizia negli anni ’80. Le cose si sono blandamente sciolte, non sentivo più quella forza che avevo in Dialoghi del Verbo. Ero come un po’ svuotato da certi sperimentalismi. Cercavo la pulizia.
Anche in questo caso è utile tenere conto dei cambiamenti in atto nella società occidentale: sono gli anni in cui i computer cominciano a entrare nella vita delle persone e nella musica, nel pop è il trionfo delle tastiere, dei ritmi e dei suoni elettronici e campionati. Sono sonorità, queste, che in un modo o nell’altro si riflettono anche nella musica classica contemporanea e nelle altre arti: ci si volge verso un’arte che, quando non è elettronica, in qualche modo guarda ad essa; nel campo che 78
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Fig. 6 Codice 602
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Fig. 7
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Fig. 8 Codice 602
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Fig. 9
Fig. 10
Fig. 11
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stiamo trattando noi potremmo, per certi versi, parlare di pulizia sonora, di musica in cerca di strutture più chiare, spesso semplici e ripetitive, e di sonorità meno dense, più rarefatte. Per capire come la notazione di Giani Luporini in questa fase rifletta tali caratteristiche si possono osservare alcune pagine di Sette esorcismi per pianoforte (1981). Lo spartito spesso è uno spazio su cui si stagliano, quasi in modo glaciale, i righi neri dei pentagrammi e poche note. In Sette esorcismi Giani Luporini riesce, con il tratto grafico, a suggerire il senso dell’opera come si trattasse di un dipinto. Già in un primo estratto dalla prima pagina (fig. 9) si può osservare come siano le linee le vere protagoniste, non le note. Le linee sono quelle orizzontali dei pentagrammi e quelle che partono dalle note stesse più alcune verticali. Graficamente il senso complessivo che se ne ricava è quello di una grande rarefazione che porta il silenzio a essere il protagonista della composizione, come se essa fosse una grande distesa ghiacciata incrinata solo da pochi suoni. La rarefazione grafica è accentuata spesso anche dalla disposizione su più pentagrammi che abbiamo già osservato in Atti sonori: il caso più importante di questa tipologia in Sette esorcismi è nel terzo esorcismo (fig. 10) con un disegno che, fra l’altro, suggerisce all’esecutore l’andamento crescente. Un’altra considerazione da fare è che le linee prolungate orizzontali rimandano immediatamente, guarda caso, alla tape music, cioè alla musica elettronica riprodotta su nastro magnetico dopo avere effettuato, con lo stesso, una serie di montaggi in studio di registrazioni ambientali effettuate precedentemente o sintetizzate. Un altro suggerimento del silenzio come vero protagonista si osserva chiaramente nel quinto esorcismo (fig. 11). In questo caso le caselle vuote, caselle di silenzio, sono graficamente addirittura più importanti delle note, come se queste ultime fossero l’eccezione. Sempre in questo esempio possiamo osservare inoltre una simpatica annotazione testuale: Giani Luporini fa spesso uso, nelle sue composizioni, di indicazioni di questo tipo per evocare qualcosa che la notazione tradizionale non è in grado di fare. Parlando del silenzio il pensiero va ancora una volta a Cage per il quale esso semplicemente non esiste. Con il compositore americano si arriva alla massima valorizzazione di questo concetto grazie al suo lavoro 4' 33" durante il quale l’esecutore (o gli esecutori) non suona lo strumento per 4 minuti e 33 secondi e il pubblico ascolta tutti i rumori nella sala da concerto ai quali, probabilmente, non avrebbe prestato attenzione in situazioni normali. In altri lavori di Giani Luporini la notazione diventa importantissima, se non fondamentale, per comprendere un’altra componente degli stessi: quella mistico-spirituale che, come vedremo, è da sempre presente nella vita del compositore. Codice 602
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Prendiamo come esempio Fogli d’album (1984) per pianoforte: è una composizione suddivisa in vari brani, ma in quello centrale possiamo visualizzare (fig. 12) il disegno, che si ripete più volte, di una sorta di calice il quale può essere inteso sia come un sacro Graal, oggetto sacro simbolo della Ricerca, sia come l’organo di riproduzione femminile (le note della mano destra) che viene sempre più a fondo penetrato da quello maschile (note della mano sinistra).
Fig. 12
Anche nell’ultimo e più recente lavoro per pianoforte, Nove Mantram (2000), la notazione aiuta alla comprensione del percorso spirituale cui ci conduce: al centro pagina del brano centrale dei nove brani risalta isolata graficamente una nota che, una volta fatti opportuni studi su tutto il resto della composizione, ne dà una spiegazione. Se si utilizza il termine “spiegazione”, tuttavia, significa che c’è qualcosa da capire. Ciò che ci troviamo di fronte non è un gioco da settimana enigmistica, non è un rebus e non è un artificio compositivo. Ciò che si deve capire è qualcosa di mistico, è forse il senso della vita stessa e che affonda le radici nelle convinzioni antroposofiche del compositore. Del resto i Nove Mantram sono dedicati proprio a Roberto Lupi, maestro non solo musicale di Giani Luporini: fu lui, infatti a introdurlo all’Antroposofia di Rudolf Steiner, e nella prefazione di Nove Mantram l’autore spiega come questa composizione abbia effettivamente un’accezione di tipo spirituale. L’Antroposofia ha avuto un ruolo centrale nella vita di Giani Luporini e nella concezione spirituale della stessa: Io sono nato mistico. Da piccolo, a sei anni, portavo il libro della messa: era così grande che un giorno mi cadde. Mia madre mi faceva leggere libri di ragazzi che morivano e andavano in paradiso, io li leggevo e piangevo. Intorno a dieci anni volevo addirittura farmi prete. Poi Roberto Lupi mi ha introdotto all’Antroposofia; tutta la mia vita è ancora in questa direzione: l’ho sempre seguita e continuo a leggerne i libri. Mi ha dato tante speranze e tante cose belle.
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A questo punto si può concludere che il pianista, in composizioni come Fogli d’album e soprattutto Nove Mantram, non è un mero esecutore, bensì una specie di sacerdote che, se ha ben approfondito l’opera musicale di Giani Luporini, è arrivato a scoprire delle verità nascoste ed ora, tramite l’esecuzione, è chiamato a trasmetterle al pubblico. Dopo l’esecuzione, pianista e pubblico, se hanno recepito il messaggio, saranno depositari di una verità ad altri nascosta. Negli ultimi anni Giani Luporini comincia a sentire il bisogno di concludere un’avventura, e lo stile musicale acquista altre sonorità: “I miei ultimi lavori sono acquietanti”. C’è un’attenzione anche alla musica del passato, del ’700 in particolare. Sono di questa fase Suite nello stile antico per orchestra d’archi del 1994, e due Quartetti che sono dei veri e propri falsi storici: uno come omaggio a Jospeh Haydn e uno come omaggio a Luigi Boccherini, compositore cui Giani Luporini si è sempre sentito molto legato. La notazione, ancora una volta, diventa protagonista: Giani Luporini scrisse infatti il Quintetto in mi bemolle maggiore per due violini, viola e due violoncelli del 1993 su carta antica con grafia e stile simili a quelli di Boccherini. Spacciandola, per scherzo, come un’opera del suo illustre predecessore lucchese ritrovata per caso in un armadio, trasse in inganno più di un critico che credeva di trovarsi veramente di fronte a un lavoro perduto del ’700, e successivamente svelò lo scherzo. Alla luce di tutte queste considerazioni ne va fatta un’ultima importantissima: molte delle pagine della musica di Giani Luporini potrebbero tranquillamente essere prese e appese in casa come fossero quadri. Sono da suonare, è vero, ma come suggeriscono all’esecutore delle sensazioni, così le suggeriscono a chiunque le osservi, appunto come fa un dipinto. C’è una fortissima componente pittorica che emerge, ma questo non è e non può assolutamente essere un caso. Giani Luporini infatti, prima di dedicarsi alla composizione, dipingeva, anche in questo ambito con un suo personalissimo stile, e per un po’ porterà avanti entrambe le arti indeciso se scegliere di portare avanti l’una o l’altra: Molta della mia vita è stata dedicata alla pittura, forse più alla pittura che alla musica. Roberto Lupi mi chiese di decidere quale delle due discipline seguire. Un giorno mi disse che forse ero più vivace con la pittura. Piano piano si accorse che invece c’era più entusiasmo con la musica. Però questa è venuta relativamente più tardi rispetto all’altra.
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Fig. 13 - Giani Luporini fotografato da Caselli con la partitura del Concerto per pianoforte e orchestra
Concludiamo con alcune domande rivolte a Giani Luporini. Gianmarco Caselli – Perché a un certo punto hai sentito il bisogno di abbandonare la musica? Gaetano Giani Luporini – La scelta di lasciare la musica sta anche nel cambiamento della società che sta sprofondando nell’inferno, non c’è più la vivezza che c’era un tempo e anche a me hanno distrutto un mondo piano piano. Ho pensato di non avere più un pubblico a cui rivolgermi. GC – Il ruolo dell’immagine per te è stato importantissimo, si vede anche nelle tue partiture. Oggi siamo bombardati probabilmente fin troppo da una miriade di messaggi mediati dalle immagini. GL – C’è un martellamento di immagini che ci fanno diventare cretini. È anche questo che mi ha creato un po’ di malumore, un po’ di malessere. Così, dopo, mi sono dato alla scrittura componendo più di duemila poesie. GC – Parli spesso di un mondo che è cambiato rispetto ai tempi in cui hai iniziato la tua carriera. Anche i compositori oggi sono cambiati, spesso c’è affarismo, dilettantismo e non ricerca spirituale nell’atto creativo. GL – A quei tempi, in occasione dei concerti, c’erano sempre critici musicali. Ora questo manca. E anche nelle musiche dei compositori di oggi, spesso non c’è più nulla, se ne infischiano di certe cose: manca il “dentro” che viene “fuori”. Tutto lo strato di nulla che c’è oggi mi ha tirato un po’ giù. Da quei tempi a ora c’è stato un tonfo. 86
“Oggi, ogni terra è un esilio”: gli anni napoletani di Ennio Porrino
di Antonio Caroccia*
Ennio Porrino durante il soggiorno napoletano ebbe modo di mettere a frutto buona parte delle esperienze precedenti, sia come compositore che come didatta, e di acquisirne di nuove; in modo particolare per quel che concerne la gestione della biblioteca del Conservatorio “San Pietro a Majella”. Presumibilmente Napoli e il suo territorio non dovevano essere tanto sconosciuti al Nostro che, attraverso i racconti di suo padre Clemente (originario di Arienzo in provincia di Caserta), egli dovette imparare a conoscere fin dall’infanzia e ben presto anche attraverso i primi innocenti giochi infantili, dopo il trasferimento della famiglia a Caserta1. Ma è soltanto in età matura che egli avrà modo di conoscere meglio questo territorio; in modo particolare durante gli anni del suo ‘esilio’ napoletano (1946-1949). Come è noto l’attività didattica del compositore sardo ha inizio nel 1936, quando egli viene nominato docente di Armonia principale e Contrappunto nel Conservatorio di Roma. Ruolo che verrà, poi, confermato
* Antonio Caroccia, dopo il diploma in Clarinetto, si è laureato in Musicologia all’Università di Pavia, ove ha conseguito, anche, il Master in operatore di biblioteca con specializzazione musicale. È dottore di ricerca in Musicologia, titolo conseguito presso l’Università degli Studi di “Tor Vergata” di Roma sotto la supervisione di Agostino Ziino. È stato professore a contratto alle Università di L’Aquila e Perugia. Attualmente è docente di Storia della musica al Conservatorio di musica “Domenico Cimarosa” di Avellino e all’Università degli Studi di Firenze. Ha partecipato a Convegni nazionali e internazionali e ha pubblicato libri, saggi musicologici e didattici su diversi argomenti. Tra i suoi tanti volumi, il recente Quando la musica cambia la vita. Conoscere e interagire con ‘El Sistema Abreu’ (Aracne editrice, 2014) è stato presentato nel giugno del 2016 al Senato della Repubblica. È stato Presidente del Collegio dei Sindaci e attualmente è membro del direttivo e responsabile del settore convegni della Società Italiana di Musicologia. Da sempre dedito alla divulgazione, ha scritto per i programmi di sala di diversi teatri ed enti musicali. Suoi articoli sono apparsi sulle riviste «Classic Voice opera» e «Classic Voice». 1 Cfr. Mario Rinaldi, Ennio Porrino, Cagliari, Editrice Sarda Fossataro, 1965, p. 11 e Myriam Quaquero, Ennio Porrino, Cagliari, Carlo Delfino Editore, 2010, p. 53. Codice 602
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Antonio Caroccia
per chiara fama nel 1939, con la nomina, tra l’altro, a socio accademico di Santa Cecilia2. Lo stesso vincerà poi a Palermo il primo ottobre del 1943 il concorso (bandito proprio nel ’39), per la cattedra di Contrappunto, Fuga e Composizione. Nel frattempo, cessando in pari data dal posto di titolare di Armonia e Contrappunto a Roma egli sarà trasferito nello stesso periodo a Napoli, anche se non prenderà mai servizio, sia per le note vicende belliche sia per l’occupazione alleata della cittadina partenopea. Nel contempo, egli verrà nominato dal Ministro dell’Educazione Nazionale Carlo Alberto Biggini al “Marcello” di Venezia nel febbraio del 19443. Tutto ciò porterà ‘inevitabilmente’ l’artista ad aderire, anche, alla Repubblica Sociale Italiana4. Il periodo veneziano diventa così il terzo essenziale punto di svolta della vita di Porrino: una testimonianza significativa e certamente drammatica di come un musicista valente, toccato molto presto dal successo, ma del tutto impreparato dal punto di vista politico, abbia voluto essere coerente fino all’ultimo con gli ideali maturati negli anni giovanili e si sia integrato alle sollecitazioni del potere con una percezione della situazione istituzionale, e più in particolare della catastrofe bellica, fortemente mistificata dalla propaganda del regime5. In questo “esilio” forzato egli ebbe la forza, tra l’altro, di esprimere la solitudine e i tristi sentimenti nei Canti dell’esilio composti in parte, proprio, nell’isolamento veneziano del 19456. Nel frattempo, il Paese ritroverà la sua libertà, seppure a caro prezzo, e lo stesso artista dovrà pagare dazio dapprima con l’isolamento e poi con la conseguente epurazione, per la sua coerenza politica e per i suoi ideali. Tutto ciò procurerà l’annullamento, con effetto retroattivo, della sua nomina del 1939 voluta allora da Bottai, attraverso l’emanazione di un Decreto Ministeriale dell’8 giugno 19457. Nel contempo, Porrino rientrerà a Roma dal “forzato esilio”, trascorrendo, per lo più, il suo tempo in famiglia alla ricerca, anche, di una riabilitazione, che di certo non deve essere stata facile. Egli fu obbligato, 2 M. Quaquero, Ennio Porrino, cit., p. 180. 3 Ringrazio Myriam Quaquero per queste notizie, anche se di questa prima nomina napoletana sia nel fascicolo personale conservato a Cagliari sia in quello napoletano non si fa alcun cenno. Su questo episodio vedi, anche, M. Quaquero, Ennio Porrino, cit., pp. 192-193. 4 A Venezia, Porrino troverà un clima ostile dovuto, per lo più, alle condizioni politiche del momento e all’“ostracismo” di Malipiero, allora direttore del Conservatorio. 5 M. Quaquero, Ennio Porrino, cit., p. 211. 6 I Canti dell’esilio, ciclo di quindici liriche per soprano o tenore e piccola orchestra, Milano, Carisch, 1945. Per ulteriori dettagli e per l’analisi di questa composizione si rinvia a M. Quaquero, Ennio Porrino, cit., pp. 212-218. 7 Archivio del Conservatorio di musica “Giovanni Pierluigi da Palestrina” di Cagliari, fascicolo personale “Porrino Ennio”. Cfr. M. Quaquero, Ennio Porrino, cit., p. 256, nota 24.
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peraltro, ad attendere l’amnistia voluta dall’allora Ministro di Grazia e Giustizia Palmiro Togliatti, nel giugno del 1946, prima di essere reintegrato al suo posto di lavoro8. A quasi un anno dal suo ritorno romano, il 18 maggio del 1946, l’allora Ministro della Pubblica Istruzione Enrico Molè, del primo governo De Gasperi, prende atto del decesso nel campo di Mauthausen di Ugo Sesini9, allora bibliotecario del Conservatorio di Napoli e, in attesa di provvedere con pubblico concorso a nominare il nuovo titolare, ne affida la supplenza a Ennio Porrino, precisando che il compositore dovrà occuparsi soltanto dell’ordinario funzionamento della biblioteca10: In relazione alla lettera suindicata, si comunica che si prende atto che la Croce Rossa Internazionale ha dato notizia al Sindaco di Milano del decesso del Prof. Ugo Sesini, avvenuto nel campo di Mathausen il 27/2/1945, ed in attesa di poter provvedere, con pubblico concorso, a dare una definitiva sistemazione a codesta importante biblioteca, è stato destinato a prestar servizio presso codesto Conservatorio, come supplente per il posto di Bibliotecario, il M° Ennio Porrino, nei cui riguardi l’Alto Commissariato per l’Epurazione ha dichiarato non esservi luogo ad alcuna sanzione. Il M° Porrino curerà soltanto l’ordinario funzionamento della Biblioteca, poiché il riordino di essa e la compilazione di nuovi registri di ingresso e di inventario topografico potranno essere compiti solo del Bibliotecario titolare allorché sarà a suo tempo nominato11.
La lettera di incarico giungerà soltanto il 26 giugno12, in cui, peraltro, si ribadisce che la supplenza è temporanea in attesa della pubblicazione delle nuove piante organiche dei conservatori di musica. Porrino, arriverà a Napoli per assumere servizio soltanto il primo luglio, come dimostra la minuta del direttore Franco Michele Napolitano inviata al Ministro della Pubblica Istruzione in risposta alla ministeriale del 15 giugno n. 2184: In riferimento lettera sopra menzionata s’informa che il maestro Ennio Porrino stamane s’è presentato in questo Istituto per assumere servizio, ed è stato immediatamente immesso in Biblioteca. Si prega 8 Il provvedimento fu approvato dal Governo italiano e promulgato con il DPR del 22 giugno 1946, n. 4. 9 Su questo argomento vedi Antonio Caroccia, La biblioteca di San Pietro a Majella tra le due guerre, in Mario Pilati e la musica del Novecento a Napoli tra le due guerre, a cura di Renato Di Benedetto, Atti del Convegno nel centenario della nascita (Napoli, 5-6 dicembre 2003), Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2007, pp. 75-111: 86-92. 10 M. Quaquero, Ennio Porrino, cit., p. 221. 11 Archivio Storico del Conservatorio “San Pietro a Majella” di Napoli [d’ora in poi I-ACN], fascicolo personale di “Porrino Ennio”, 152/9/B cassetta n. 8, Ministeriale del 18 maggio 1946, n. 1053. 12 Appendice, documento n. 1. Codice 602
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codesto Superiore Dicastero di volere comunicare il numero delle ore settimanali assegnate al predetto13.
L’11 luglio il Ministero si appresterà a dare pronta risposta al quesito posto dall’allora direttore: Il M° Porrino presterà servizio come incaricato, per le ore corrispondenti alla materia di cui era titolare e cioè per 12 ore settimanali.
Data la precarietà dell’incarico, l’artista sardo in una lettera del 25 luglio dirà al Ministero di non aver ancor ricevuto la consegna del materiale di biblioteca e pertanto sino a quando ciò non avverrà, attraverso l’opportuno riscontro inventariale, egli non assumerà alcuna responsabilità di sorta14. È forse questo il momento più difficile dell’attività artistica, che il Nostro si troverà ad affrontare, poiché di fronte a una crisi d’identità politica e dei sistemi sociali, nel frattempo alquanto mutati, egli sarà pronto ad accettare, a mio avviso, con una buona dose di ottimismo la nuova destinazione napoletana, che lo vedeva questa volta non più in veste di didatta ma come bibliotecario di una delle più importanti biblioteche musicali e forse questo nuovo ruolo giocò un aspetto per nulla secondario, anche, per le scelte future in campo artistico; un chiaro esempio ne è la Sonata drammatica15. Nello stesso tempo, però, questo è per l’artista sardo un periodo decisamente affascinante e per nulla scontato. Tutti noi ci aspetteremo una fase piuttosto tranquilla e limitata a un’“ordinaria amministrazione”, ma ancora una volta Porrino ci sorprende di fronte a precise scelte, anche di tipo organizzativo e “biblioteconomico” che egli compie nella gestione e direzione della storica istituzione napoletana. Alla scomparsa di Sesini, la biblioteca era stata temporaneamente affidata alle cure di alcuni professori comandati dal Provveditorato agli Studi di Napoli e riuscì a funzionare anche durante la permanenza delle truppe alleate, poiché servi da “serbatoio” agli innumerevoli concerti sinfonici e da camera tenuti a Napoli per l’esercito di occupazione16. 13 I-ACN, fascicolo personale di “Porrino Ennio”, 152/9/B cassetta n. 8, minuta di Franco Michele Napolitano del 1 luglio 1946, n. 1112. 14 Appendice, documento n. 2. 15 Sonata drammatica, per voce recitante e pianoforte, testo di Nella Bonora, Napoli, 1947 (inedita). Prima esecuzione, Napoli, Sala Scarlatti, 4 dicembre 1947; voce recitante Nella Bonora, pianoforte Franco Mannino. Del brano esistono diverse versioni: per pianoforte solo, Napoli 1947 (Milano, Suvini Zerboni, 1949); per due pianoforti, Napoli 1947, inedita; per pianoforte e orchestra, Napoli 1947 (Milano, Suvini Zerboni, 1949. Prima esecuzione: Roma, Auditorium della RAI, 8 gennaio 1949, direttore: Stanislaw Skubikowski). Cfr. M. Quaquero, Ennio Porrino, cit., p. 330. 16 Cfr. Mauro Amato-Tiziana Grande, La biblioteca del Conservatorio nel secondo Novecento, in «Meridione Sud e Nord nel Mondo», V, n. 2, aprile-giugno 2005, numero speciale monografico: Percorsi della musica a Napoli nel Novecento, a cura di Gianluca D’Agostino, pp. 83-100: 84.
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“Oggi, ogni terra è un esilio”: gli anni napoletani di Ennio Porrino
Nell’autunno del 1946, Porrino tarderà a riprendere il servizio napoletano, dopo la pausa estiva trascorsa a Roma in compagnia dei suoi genitori, per lievi indisposizioni. Immediatamente, non tarderà a tranquillizzare i vertici del conservatorio napoletano, rassicurando di aver dato ai suoi collaboratori il programma di lavoro per la biblioteca. L’assenza si protrae per circa un mese e il Presidente del Conservatorio in una lettera del 2 ottobre è costretto a sollecitare il rientro del compositore, per garantire il regolare funzionamento della biblioteca durante gli esami. In realtà le ragioni di questa assenza furono altre, come dimostra la lettera del primo ottobre inviata al Direttore dell’Istituto: Illustre e caro Maestro, contavo di essere per la fine di settembre a Napoli, ma con mio vivo rincrescimento debbo rivolgermi alla Sua benevolenza per ottenere una proroga, possibilmente sino all’inizio delle lezioni al Conservatorio. La ragione di questa mia richiesta è semplice: la mia situazione finanziaria è tutt’altro che rosea: Mio padre, dal febbraio, è a riposo per limiti di età ed io debbo pensare, oltre che a me stesso, anche alla famiglia (siamo in quattro!). Ora dovendo stabilirmi definitivamente a Napoli ed essendo lo stipendio del Conservatorio insufficiente anche al mio stesso sostentamento, mi occorrerebbe, prima di partire, definire alcuni miei affari in sospeso. […] Le sarò grato anche se vorrà cortesemente pregare, a nome mio, il Sig. Lupo di farmi avere gli assegni del settembre u.s17.
Nel frattempo, il 10 ottobre del 1946 il DM che annullava la nomina senza concorso viene a sua volta cancellato e quindi Porrino vede riconosciuti gli anni di servizio prestati dal 1939 in poi. Nonostante le pressioni dei vertici del Conservatorio napoletano, egli riuscirà a ritardare, nuovamente, il suo rientro tramite certificati medici, ma soprattutto grazie ad una ministeriale dell’11 ottobre che gli garantirà di trattenersi a Roma fino alla ripresa delle lezioni. Nel dicembre del 1946 il ‘bibliotecario’ Porrino inviò al Ministero una richiesta di risarcimento per danni di guerra, in cui venivano dichiarati distrutti 54 volumi a stampa e 105 danneggiati specificando che la maggior parte delle opere danneggiate si ebbero per l’uso continuo fattone dalle Autorità alleate nei numerosi concerti tenuti, anche all’aperto, per le truppe d’occupazione18
quantificando, tra l’altro, in un totale di 878.400 lire i danni subiti, oltre che al patrimonio, anche ai locali, alle scaffalature e agli arredi19. 17 I-ACN, fascicolo personale di “Porrino Ennio”, 152/9/B cassetta n. 8, lettera del 1° ottobre 1946. 18 I-ACN, fascicolo “Biblioteca” anni 1942-1947. 19 Cfr. M. Amato-T. Grande, La biblioteca, cit., p. 84. Codice 602
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Consapevole della delicatezza dell’incarico assegnatogli, il musicista sardo rivelò ottime capacità organizzative e, riprendendo la rigorosa impostazione del lavoro ereditata da Sesini, assegnò compiti precisi a ciascuno dei professori comandati alla biblioteca20.
In una lettera a Federico Mompellio (bibliotecario del Conservatorio di Milano)21, Porrino scriverà di essere coadiuvato da un distributore e da un inserviente per la pulizia, oltre che da sei professori incaricati, aventi ciascuno specifiche attribuzioni: il M° Oreste Barone (vicedirettore, addetto allo studio dei manoscritti e ai nuovi acquisti), la sig.ra Quarta (registro d’ingresso e registro topografico), la sig.na Mormone (compilazione schede del nuovo schedario), la sig.ra Imparato (riordino vecchio schedario e collaborazione al nuovo, uffici Protocollo e segreteria della biblioteca), il M° Paduano (schedario per materia, collaborazione al nuovo schedario e collaborazione alla distribuzione), il M° Ceccherini (ordinamento di tutto quanto giacente nel deposito, aggiornamento schedoni e schede di giornali e riviste, collaborazione alla distribuzione)22. Dall’ordine di servizio che egli aveva fatto al M° Barone, in particolare, si apprende la sua intenzione di far preparare una pubblicazione sui manoscritti autografi della biblioteca, ritenendola utile e interessante non solo per il nostro Conservatorio, ma per tutti gli studiosi, in genere, che desiderino rendersi conto personalmente del valore degli autografi in nostro possesso23.
Quasi a voler proseguire un’antica tradizione della biblioteca, che nel corso dell’Ottocento si era arricchita di numerosissimi autografi per le pressanti richieste di Florimo ai maggiori musicisti del tempo, anche Porrino elaborò il testo di una lettera circolare che, a firma del Presidente del Conservatorio, fu inviata ai più noti compositori italiani viventi: Illustre Maestro, nel procedere al riordino della Biblioteca e allo scopo di incrementare il patrimonio artistico, desidereremmo accrescere, per numero e per importanza, la nostra preziosa collezione di autografi che si onora dei nomi dei maggiori artisti italiani di ogni scuola. Le saremmo perciò grati, Illustre Maestro, se Lei ci volesse far l’onore di donarci l’autografo di qualche Sua composizione. Nella speranza che Lei Accolga benevolmente questa nostra richiesta, La ringraziamo anticipatamente e Le porgiamo i più distinti saluti24.
La lettera fu spedita, tra molti altri, anche a Ghedini, Casella, Mulè, 20 Ibid., p. 85. 21 Appendice, documento n. 4. 22 Appendice, documento n. 5. 23 Appendice, documento n. 6. 24 I-ACN, fascicolo “Biblioteca” anni 1942-1947.
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Pizzetti, Cilea, De Sabata, Alfano, Jachino, Dallapiccola, Petrassi, WolfFerrari25, Malipiero, Pick-Mangiagalli, Toni, ma la maggior parte dei destinatari non si mostrò particolarmente generosa, e furono necessarie diverse trattative, anche del Direttore del Conservatorio Franco Michele Napolitano, per ottenere poche pagine autografe. L’iniziativa suscitò indirettamente il confluire verso la biblioteca di nuove donazioni ad opera, per lo più, di compositori napoletani o legati alla scuola napoletana26. Nel 1946 giunsero, anche, i doni di Francesco Paolo Neglia27 e Guido Pannain28, ma molte altre furono le donazioni giunte negli anni di poco successivi29. Altre lettere furono inviate da Porrino ai principali editori italiani e, “nell’intento di dare agli autori napoletani un segno di precedenza e di stima”, anche alla sede napoletana del Sindacato Nazionale dei Musicisti, sezione Compositori, al fine di ottenere elenchi e cataloghi di pubblicazioni recenti e a testimonianza del suo intento di ampliare il settore di musica italiana contemporanea della biblioteca30.
Nel frattempo, l’artista sardo cercherà di rendere funzionale e funzionante la biblioteca, anche, con l’acquisto di nuovi schedari in metallo31. Il 19 giugno del 1947 il Ministro Guido Gonella del V governo De Gasperi, comunica al Presidente del Conservatorio che dal 1 ottobre del 1943 Porrino sarà, finalmente, titolare della cattedra di Contrappunto, Fuga e Composizione, in seguito al citato concorso palermitano del 1939, ma espletato nel 1943, e in applicazione anche del Regio Decreto del 2 agosto del 1943, n. 703, con il quale furono abrogate tutte le limitazioni disposte per i celibi32. Pertanto, a decorrere dal successivo anno scolastico, ossia dal primo ottobre, egli lascerà l’incarico di bibliotecario, per ricoprire, finalmente, la cattedra di alta composizione nel conservatorio napoletano. In questo modo si concluse la fulminea e brillante esperienza di bibliotecario. Sicuramente una pagina poco nota nella biografia del 25 “Solo l’anno scorso riuscii a riallacciare i rapporti col Maestro e ad ottenere la promessa di un suo autografo in dono per la Biblioteca del nostro Conservatorio Musicale San Pietro a Majella”, in Ennio Porrino, Ricordo di Wolf Ferrari, «Corriere di Napoli», martedì 27 gennaio 1948, p. 3. 26 Vedi M. Amato-T. Grande, La biblioteca, cit., pp. 85-86. 27 Appendice, documento n. 7. 28 Appendice, documento n. 8. 29 Su questo argomento si rinvia a Tiziana Grande, Acquisizioni novecentesche della Biblioteca del Conservatorio S. Pietro a Majella: le donazioni, in Musica e musicisti a Napoli nel primo Novecento, a cura di Pier Paolo De Martino e Daniela Tortora, Atti del Convegno internazionale di studi (Napoli, 21-23 maggio 2009), Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, pp. 483-503. 30 M. Amato-T. Grande, La biblioteca, cit., p. 86. 31 Appendice, documento n. 9. 32 Appendice, documento n. 3.
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musicista cagliaritano, ma non scevra di tratti d’intelligenza e di lungimiranza per la gloriosa istituzione napoletana. Subentrò alla guida della biblioteca Anna Mondolfi, che in un discorso commemorativo, per il decennale della morte di Franco Michele Napolitano, ricordava l’esperienza di Porrino in questi termini: Ignoro se il mio diretto predecessore, Ennio Porrino, avesse collaborato nell’opera della scelta: ma le liste che io vidi mi rivelarono un orientamento improntato ad un sottile aggiornatissimo intellettualismo storicistico che ancora oggi mi appare estraneo alla personalità di Porrino, compositore militante, forzatamente lanciato su una direttrice di marcia condizionata dal proprio mondo creativo. Là dove, invece, quelle scelte somigliavano molto al temperamento del Maestro, che ho sempre visto come uno studioso, come un meditativo33.
Questi anni napoletani, come abbiamo visto, furono tutto sommato felici, intensi e densi di lavoro, ma anche sotto il profilo artistico non lo furono da meno. Una sicurezza e una tranquillità d’animo dovettero sicuramente suggerirgli la Sonata drammatica del 194734, ideata come atto unico su testo di Nella Bonora, per voce recitante e pianoforte, che Porrino nell’aprile del 1948 volle in segno di stima e su richiesta della Mondolfi donare alla biblioteca napoletana: In seguito a gentile e lusinghiera richiesta della Prof. Anna Mondolfi, Direttrice della Biblioteca del nostro Conservatorio di Musica, mi è grato inviarLe la bozza autografa della mia Sonata drammatica in re minore op. 35 con allegati altri fogli di appunti e la “cadenza” relativi a detto mio lavoro, oltre a una copia del programma della prima esecuzione assoluta che avvenne, come Lei certamente ricorderà, nella Sala del Conservatorio per la “Scarlatti” il 4 dicembre 1947. Nel fare questo modesto dono alla Biblioteca, mi è caro ricordare che questa mia Sonata è il primo lavoro da me composto in Napoli, proprio quando avevo l’incarico della Direzione della Biblioteca35.
È questo, anche, il periodo dell’intensa corrispondenza epistolare con lo scrittore Papini che in una lettera del 21 febbraio del 1948 gli scriverà: Sono dolentissimo di sapere che lei non può lavorare quanto vorrebbe; è una vergogna italiana obbligare gli artisti a fare gli impiegati, gl’insegnanti, i giornalisti! Ho parlato i lei con Lualdi che molto la stima36.
33 I-ACN, fascicolo personale di “Mondolfi Anna in Bossarelli”. 34 Per la genesi e l’analisi di questa composizione si rinvia a M. Quaquero, Ennio Porrino, cit., pp. 224-225. 35 Napoli, Biblioteca del Conservatorio “San Pietro a Majella”, Rari 4.5.26/3. 36 Epistolario Porrino, lettera di Giovanni Papini a Ennio Porrino del 21 febbraio 1948.
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Quasi sicuramente, il distacco romano e gli anni napoletani furono resi molto più “dolci”, anche, dalla presenza di Adriano Lualdi che condivideva con Porrino non soltanto una fede politica, ma anche scelte e modelli artistici. Dalla primavera e fino all’autunno del 1949, Porrino resterà a Roma per seri motivi di salute legati alla neurite che lo affliggeva al braccio destro e al riacutizzarsi della vecchia colecisti. Il 19 giugno del 1950, il compositore ricorda a Napolitano l’esonero degli esami estivi per il protrarsi dei lavori della commissione giudicatrice del concorso nazionale, per titoli a posti di ruolo speciale transitorio per la classe XII, della quale ne fa parte37. La nomina era giunta a Porrino nel novembre dell’anno precedente. Esonero che viene ribadito, anche, dalla ministeriale del 10 ottobre: Com’è noto alla S.V. il maestro Ennio Porrino, ordinario presso codesto Conservatorio è stato chiamato a far parte della Commissione di concorso a posti di ruolo Speciale transitorio per l’insegnamento della Musica e canto negli Istituti Magistrali e nelle Scuole di avviamento Professionale. […] Poiché è urgente espletare i concorsi Ruolo Speciale Transitorio questo Ministero è venuto nella determinazione di concedere, a decorrere dal 16 ottobre corrente mese, al maestro Porrino, la dispensa dagli obblighi scolastici per tutto il tempo necessario alla conclusione dei lavori della Commissione, lavori che si presume non potranno, in ogni caso, protrarsi oltre il prossimo mese di dicembre38.
I lavori della commissione, per quel che è dato sapere dai documenti, continuarono sicuramente fino al maggio del 1951. Il 5 giugno, finalmente, Porrino, seppur provvisoriamente, otterrà l’agognata assegnazione provvisoria a Roma, con decorrenza dal primo maggio, anche se realmente, poi, prenderà servizio il primo luglio. Tutto ciò viene confermato da alcune lettere che attestano il pagamento degli emolumenti da parte del Conservatorio napoletano fino al 30 giugno. Con riferimento alla domanda di trasferimento dal Conservatorio di Musica di Napoli a quello di Roma, inviata a suo tempo dalla S.V., si comunica che, data la momentanea indisponibilità di una cattedra di composizione presso il Conservatorio di musica di Roma, con provvedimento in corso, la S.V. è stata destinata, a decorrere dal 1° maggio 1951, a prestar servizio provvisoriamente presso il Conservatorio cennato, per assumere l’insegnamento di armonia e contrappunto39.
Nel frattempo, Porrino scriverà più volte al direttore di segreteria 37 I-ACN, fascicolo personale di “Porrino Ennio”, 152/9/B cassetta n. 8, lettera di Ennio Porrino a Franco Michele Napolitano del 19 giugno 1950. 38 I-ACN, fascicolo personale di “Porrino Ennio”, 152/9/B cassetta n. 8, ministeriale al Presidente del Conservatorio del 10 ottobre 1950, n. prot. 30444. 39 Ibid., ministeriale del 5 giugno 1951, n. prot. 3189. Codice 602
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Antonio Colucci per reclamare le retribuzioni dovute dal conservatorio napoletano e nelle lettere apprendiamo, anche, del buon esito dei suoi Orazi dapprima a Salisburgo e poi a Cagliari40. Nel novembre Porrino riceverà la comunicazione dal Ministero per la conferma al conservatorio napoletano, per l’anno scolastico 1951-52, ma sarà ancora per tutto il periodo utilizzato a Roma, come anche per gli anni seguenti: 1952-53 e 1953-54, come dimostra, tra l’altro, la ministeriale del 13 ottobre del 1953: Si comunica alla S.V. che, con provvedimento in corso, il Prof. Porrino Ennio, titolare della cattedra di Contrappunto, Fuga e Composizione nel Conservatorio di musica di Napoli, è confermato nell’assegnazione provvisoria presso codesto Istituto, per l’anno 1953-5441.
Il 14 gennaio del 1954 lo stesso dicastero si appresta a rettificare quanto espresso nella nota precedente, comunicando al direttore del Conservatorio di Napoli e per conoscenza a quello di Roma, il trasferimento definitivo nella città capitolina per la cattedra corrispondente: A rettifica di quanto comunicato con nota n° 7084 del 13 ottobre 1953, si porta a conoscenza della S.V. che, con provvedimento in corso e a decorrere dal 1/10/1953, il M° Ennio Porrino, titolare della cattedra di Contrappunto, fuga e composizione presso codesto Conservatorio, è trasferito nella cattedra corrispondente presso il Conservatorio di musica di Roma42.
Precedentemente, Porrino aveva chiesto ai direttori dei Conservatori di Roma e Napoli alcune informazioni di carattere statistico inerenti le piante organiche della sua materia e il numero di allievi per un studio su questi istituti. È lecito supporre che l’indagine fosse condotta ai fini del suo trasferimento. Durante gli anni napoletani, Porrino svolgerà anche l’attività di critico musicale al «Corriere di Napoli» e questa sarà l’unico punto di contatto con la città partenopea, anche dopo il suo trasferimento romano, perlomeno fino al 195243. Questo incarico, del resto gli offrirà la possibilità di mantenere i contatti con l’attività musicale napoletana in una città che di per sé, seppur in un periodo post bellico, offriva pur sempre alti momenti artistici espressi dal suo conservatorio, dai suoi teatri e dalle sue sale da concerto. Nelle pagine di questo giornale, oltre a recensire gli spettacoli 40 Su quest’opera vedi M. Quaquero, Ennio Porrino, cit., pp. 157-179. 41 I-ACN, fascicolo personale di “Porrino Ennio”, 152/9/B cassetta n. 8, ministeriale del 13 ottobre 1953, n. prot. 7084. 42 Ibid., ministeriale del 14 gennaio 1954, n. prot. 93. 43 Per l’elenco degli articoli di Ennio Porrino vedi Felix Karlinger-Giuanne Masala, Omaggio a Ennio Porrino, a cura di Giuanne Masala, Stuttgart, Giuanne Masala Verlag, 2009, (Sardìnnia, 7), pp. 132-138: 133-137.
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di turno, di tanto in tanto veniva offerta all’artista sardo la possibilità di impreziosire con la sua penna le pagine del quotidiano napoletano, con alcuni contributi atti a descrivere la vita musicale del tempo e della contemporaneità. In questi contributi, Porrino non disdegna di lanciarsi in “filippiche’ e “j’accuse”, che ci permettono di scoprire un volto nuovo di un’artista seriamente impegnato nella difesa degli alti valori artistici, a volte, con un atteggiamento che potremmo definire, senza dubbio, di ‘aspra’ e ‘tenacia’ critica nei confronti di un mondo musicale a cui il compositore non appartiene più. Come dimostra l’articolo del 9 dicembre del 1948 dedicato alla coscienza nazionale dal titolo accattivante: Un grande interrogativo: il “vaevictis” anche nella musica per gli italiani?44; oppure quello del 15 febbraio del 1949: Problemi musicali: dove si trova la terza forza45, ove Porrino ribadisce la centralità e l’importanza della tradizione e dell’artista italiana di fronte alle “nuove musiche”, che egli prende di mira nella Musica atonale dodecafonica del 29 giugno 194946. In questo articolo, l’artista sardo con una grande lucidità, e da buon conservatore, afferma che la dodecafonia: Ha ben limitate possibilità di espressione e di sviluppo, per cui non costituisce una rivoluzione, né una ‘strada’ certa e definitiva verso il futuro.
e per tirare l’acqua al suo mulino fonda la sua opinione su una recente contributo di Luigi Colacicchi. Del resto né più e né meno di quello che aveva fatto Lualdi, qualche anno prima, nel suo Viaggio musicale in Europa47, il quale descrive così la seconda scuola di Vienna: Arte brutale e cinicamente perversa contro cui occorre far quadrato con l’innato senso e l’istinto e l’educazione del bello in arte48.
In realtà, la posizione di Porrino appare, forse, meno amara di quella lualdiana e forse, per certi aspetti, più pungente in cui la visione sulla musica d’avanguardia non può prescindere da quel modo di intendere l’arte se non scevra da “sentimentalismi”. A dire il vero, la denuncia porriniana, oltre a condannare i vari tentativi “stilistici”, coglieva un aspetto della crisi assai più grave e profonda, che era alla base di tutti gli errori dell’epoca: la mancanza dell’arte in musica e se vogliamo, la crisi di un linguaggio, che si rivela “sterile” sperimentalismo in “cerebrali e calcolati giochi” con 44 Appendice, n. 11. 45 Appendice, n. 12. 46 Appendice, n. 14. 47 Adriano Lualdi, Viaggio musicale in Europa, Milano, Altes, 1929. 48 Ibid., p. 27. Su questo argomento cfr., anche, Antonio Trudu, Per una collocazione critica dell’opera di Ennio Porrino, Sassari, Gallizzi, 1977, in «Annali della Facoltà di Magistero dell’Università di Cagliari», N.S., I, 1976, pp. 127-150: 130-131. Codice 602
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forme prive di contenuto. Ad esempio alla prima degli Orazi, alla Scala di Milano nel 1941, egli afferma: Per la gioia di donare nella freschezza delle impressioni giovanili, nella fede assoluta nell’arte e nei valori morali della vita, soprattutto dal desiderio di costruire musica e di cantare
e concludendo: Se tutto ciò avrà toccato le corde del vostro cuore io mi riterrò felice di avervi condotto per un’ora, con me, fuori dalle ansie quotidiane, verso le zone della fantasia e del sogno49.
Una delle preoccupazioni dell’artista sardo è sempre stata quella di valorizzare gli artisti nazionali e, in particolare contemporanei, questo dato emerge con forza in ogni suo contributo e ci aiuta a capire meglio certi atteggiamenti del compositore, sia del prima che del dopo. Di fatti egli non disdegna, a volte, di “forzare la penna” e scagliarsi contro un sistema che, a suo modo di vedere, nega la possibilità ai giovani artisti di esprimersi liberamente all’interno delle Istituzioni nazionali50. A leggere questi suoi scritti, alla luce delle attuali condizioni dei nostri Enti Lirici, siamo tentati di gridare: “Ma quanto è attuale, ‘reazionario’ e contemporaneo il pensiero porriniano”. Del resto, egli stesso aveva profetizzato: Quando saranno passati altri cinquant’anni di questo infelice, sconvolto e sconvolgente secolo (noi, ahimè, saremo ben lontani da questa valle di lacrime!) questa nostra affermazione sarà di dominio pubblico!51
Il dogma, così espresso non lascia dubbi o equivoci e ci spinge a rivalutare e a “riabilitare” un nuovo Porrino, che durante l’“esilio” napoletano seppe trovare la forza e la speranza di spingersi oltre il suo orizzonte e i suoi ideali artistici e politici.
49 M. Rinaldi, Ennio Porrino, cit., p. 25. 50 Appendice, nn. 15 e 16. 51 Ennio Porrino, Compositori contemporanei, «Corriere di Napoli», mercoledì-giovedì, 1-2 febbraio 1950, p. 3. Cfr. Appendice, n. 16.
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Appendice52 1.53 Ministero della Pubblica Istruzione / Direzione Generale / Delle Antichità e Belle Arti Roma, 26 giugno 1946 Al M° Ennio Porrino Via Girolamo da Carpi n. 1 Roma e per conoscenza: Al Presi / dente del Conservatorio di Musica di Napoli Prot. N. 2460 / Div. IV Oggetto: Conferimento d’incarico. In relazione alla decisione assolutonia [sic] nei riguardi della S.V. dell’Alto Commissariato per le Sanzioni contro il Fascismo, questo Ministero, tenuta presente la disposizione di cui all’art. 3 del D.L.L. 15/2/1945, n. 133 e constatata la possibilità di utilizzare l’opera della S.V., Le conferisce l’incarico della supplenza relativa al posto di Bibliotecario presso il Conservatorio di musica di Napoli. Ai sensi del citato art. 3, la S.V. conserverà tale incarico fino alla pubblicazione delle nuove piante organiche dei Conservatori di musica. Il Ministro f. Marrazzo 2.54 R. Conservatorio di Musica / «S. Pietro a Majella» / Napoli Napoli, lì 25 luglio 1946 Al Ministero Pubblica Istruzione-Direzione Gene/rale Belle Rti [recte: Arti] Roma Prot. N. 1133 In realzione [sic] alla Vostra nota del 25 1946 (Pro. n. 2460 Div IV) il 1 luglio corr. ho preso servizio presso la Biblioteca Musicale del R. Conservatorio S. Pietro a Majella. Data la precarietà dell’incarico conferitomi della supplenza relativa al posto di Bibliotecario, non si è ancora provveduto alla 52 Nella trascrizione ci si è attenuti a criteri rigorosamente conservativi per quanto riguarda l’uso delle maiuscole, degli apostrofi e dei segni d’interpunzione; si sono conservati anche i refusi dovuti ad errori di battitura nei documenti, che sono tutti dattiloscritti; l’accentuazione è stata invece uniformata (sia qui, sia nei i documenti citati nel testo) alle convenzioni moderne. 53 I-ACN, fascicolo personale di “Porrino Ennio”, 152/9/B cassetta n. 8. 54 Ibid. Codice 602
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consegna del materiale di Biblioteca e pertanto, sino alla constatazione inventariale, non assumo responsabilità di sorta e faccio salvo ogni mio diritto. Il Bibliotecario F. Ennio Porrino 3.55 Ministero della Pubblica Istruzione / Direzione Generale / Delle Antichità e Belle Arti
Prot. N. 3606 / Div. IV Oggetto: Prof. Ennio Porrino.
Roma, 19 giugno 1947 Al Presidente del / Conservatorio di Musica Napoli
Si comunica alla S.V. che, in conformità delle risultanze dei concorsi a due posti di insegnante di contrappunto fuga e composizione in codesto Conservatorio di Musica e in quello di Palermo banditi nel 1939 ed espletati nel 1943, e in applicazione del R.D.L. 2/8/1943, n. 703 col quale furono abrogate tutte le limitazioni già disposte nei riguardi dei celibi, il Prof. Ennio Porrino è stato nominato titolare della predetta materia nei Conservatori di Musica, a decorrere dal 1° ottobre 1943, ed assegnato a codesto Istituto. A decorrere dal prossimo anno scolastico il Prof. Porrino lascerà pertanto l’incarico di bibliotecario ed inizierà il suo insegnamento. Il Ministro f. Assandinelli 4.56 Biblioteca / del / Conservatorio di Musica / Milano
Milano, 6 nov. ’46. Alla Biblioteca del / Conservatorio di S. Pietro a Majella, / Napoli, prego avere la cortesia di voler rispondere alle mie seguenti domande: 1) Quanto personale è addetto alla Vostra biblioteca? 2) Quale ne è la consistenza bibliografica, espressa in cifre sia pure approssimative? Vi sarò grato se mi darete queste informazioni, per me utili, dovendo preparare un piano di ricostruzione della biblioteca da me diretta, che come 55 Ibid. 56 I-ACN, fascicolo “Biblioteca” anni 1942-1947.
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sapete, è stata tanto duramente provata nel periodo bellico. Mi sarebbe pure grato sapere quali notizie si hanno intorno al dott. Sesini. Ringrazio e ossequio il bibliotecario Federico Mompellio 5.57 Biblioteca del Conservatorio di / S. Pietro a Majella Napoli 16 novembre 1946 Prot. 298 Signor M° Federico Mompelli Direttore della Biblioteca del Conser / vatorio di Musica di Milano. In riscontro alla Sua lettera in data 6/11/46 Le forniamo i dati che ci richiede. La consistenza di questa Biblioteca di Napoli è certamente superiore ai duecentomila volumi. Non possiamo essere precisi al riguardo essendo in atto lavori di riordino. Il personale addetto è il seguente: M° Ennio Porrino incaricato dalla Direzione, un distributore ed un inserviente per la pulizia. Vi sono inoltre sei professori comandati che hanno le attribuzioni seguenti: M° Oreste Barone, Vice Direttore, addetto ad uno studio sugli autografi e manoscritti e che si occupa di compilare e poi aggiornare un elenco di opere utili da acquistarsi. Sig.ra Quarta. Registro d’ingresso e registro topografico. Sig.ra Mormone. Compilazione schede del nuovo schedario. Sig.ra Imparato. Riordino vecchio schedario e collaborazione al nuovo Ufficio Protocollo e Segreteria della Biblioteca. M° Paduano. Schedario per Materia. Collaborazione al nuovo schedario collaborazione alla distribuzione. M° Ceccherini. Ordinamento di tutto quanto era giacente nel deposito. Aggiornamento schedoni e schede di giornali e riviste. Collaborazione alla distribuzione. Per quanto riguarda il povero prof. Ugo Sesini, con dolore dobbiamo comunicarle che pare sia deceduto nel campo tedesco di Mathausen (sic) dove si trovava per ragioni politiche. Ben augurando per la rinascita della Biblioteca di codesto Conservatorio Le inviamo i nostri saluti. Il Bibliotecario (Ennio Porrino)
57 I-ACN, fascicolo “Biblioteca” anni 1942-1947. Codice 602
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6.58 Per il M° Oreste Barone / Vice-Bibliotecario “S. Pietro a Majella” Prot. 299
[Napoli], 16/11/946
In questo periodo di assestamento della nostra Biblioteca e nell’opportunità di affidare a ciascun funzionario precisi compiti, anche in relazione ai nostri recenti colloqui, ritengo utile darle una traccia del lavoro che desidererei Ella completasse, anche in rela relazione alle sue particolari attitudini ed alla Sua esperienza. A parte compiti minori di cui Le ho già parlato e che costituituiscono la Sua collaborazione al disbrigo delle pratiche riguardantila la normale attività della Biblioteca, desidero ch’ella si impegni a fondo in uno studio studio circa i manoscritti autografi, di cui la biblioteca è ricca. Tale lavoro, che va svolto con i criteri di una vera e propria pubblicazione, dovrà essere diviso in settori ben chiari, in modo che l’opera completa possa riuscire utile ed interessante, non solo per il nostro Conservatorio, ma per tutti gli studiosi, in genere, che desiderino rendersi conto personalmente del valore degli autografi in nostro possesso, con l’ausilio di una guida, quale dovrà anche essere il lavoro in parola. Si dovrebbe perciò, a mio giudizio, suddividere il tutto nei seguenti capitoli: 1) Elenco autografi di proprietà della Biblioteca S. Pietro a Majella; 2) Accertamento delle autenticità di ciascun autografo, che abbia un particolare valore. 3) Descrizione di ciascun autografo; 4) Illustrazione storica di ciascun autografo e relativa analisi estetica, con ri riferimenti all’epoca di composizione, alla prima esecuzione Ecc; 5) Segnalazione degli autografi più significativi e citazione di quelle opere che si ritengono più importanti per eventuali riesumazioni pubbliche. Con l’augurio di buon lavoro. Il Bibliotecario (Ennio Porrino)
58 Ibid.
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7.59 R. Conservatorio di Musica / «S. Pietro a Majella» / Napoli Prot. N. 266 Napoli, 17.7.1946 Al Sig. Rag. Giuseppe Neglia Direttore Cotonificio Ligure Rossiglione Abbiamo ricevuto le numerose composizioni di Suo padre, di cui Ella, molto gentilmente, ha voluto fare omaggio a questa Biblioteca. Nell’accusarle ricevuta La ringraziamo sentitamente. Cogliamo l’occasione per informarla che questa Biblioteca ha subito durante la guerra, danni di cui si va lentamente rifacendo. Date le scarse possibilità del bilancio, fidiamo anche sull’aiuto che spontaneamente ci offrono privati cittadini e mecenati. Oseremo sperare anche in un Suo contributo, dato l’amore ed il culto ch’Ella dimostra di avere per l’Arte musicale. Con distinti saluti Ennio Porrino 8.60 R. Conservatorio di Musica / «S. Pietro a Majella» / Napoli Prot. N. 267 Napoli, 17.7.1946 Al Sig. M° Guido Pannain Via Cuomo 15 Napoli La ringraziamo degli Autografi delle Sue composizioni: a) Beatrice Cenci. Opera in tre atti, C e P. b) Fontane d’oltremare. I° schizzo a lapis. c) “ “ . Partitura d’orchestra. d) Trio per Violino, Cello e Pianoforte. Partit. ch’Ella tanto gentilmente ha voluto donare a questa Biblioteca, dono che viene ad arricchire di un nuovo prezioso elemento la collezione di autografi dei compositori napoletani presso il nostro Conservatorio. Al fine di poter svolgere la pratica presso il nostro Ministero, Le saremmo grati s’Ella volesse farci avere una lettera dalla quale risulti ufficialmente la donazione da Lei fatta. Augurandoci che questa Biblioteca possa per l’avvenire accogliere anche gli autografi delle Sue ulteriori composizioni La salutiamo distintamente. Il Bibliotecario Ennio Porrino 59 Ibid. 60 Ibid. Codice 602
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9.61 Prot. 304 Spett.le Ditta Genova Via Firenze 13 Roma Questa Biblioteca Musicale ha intenzione di impiantare un nuovo schedario per il quale occorrerebbero N. 144 cassetti in metallo delle seguenti dimensioni interne Altezza netta: mm. 208 Altezza corpo: “ ”. 138 Larghezza: mm. 124 Profondità: mm. 480 Vi saremmo grati se ci voleste far avere con la massima sollecitudine un preventivo esatto della spesa. Distinti saluti. Il Bibliotecario (Ennio Porrino) Biblioteca del R. Conservatorio / Ni [sic] Musica S. Pietro a Majella Napoli 7/12/1946 10.62 Appello agli intellettuali. Chi ha ucciso lo spirito? Milano: febbraio 1941. Neve, freddo e una di quelle nebbie che ti entrano nelle ossa con l’umido e nell’anima con la tristezza. Anche le nebbie della guerra e dei tracolli incombevano, ancor più tristi di quelle che portavano il cielo sulle facciate dei palazzi e sull’asfalto delle strade. Al Teatro «La Scala» si rappresentavano i miei «Orazi», nati sotto il sole abbacinate di Capri quando la guerra sembrava un’assurda ipotesi. Fra i tanti commenti del pubblico, uno me ne fu riferito che particolarmente mi colpì: «Potrebbero questi Capi delle varie Potenze che han scatenato la guerra, fare come gli Orazi e i Curiazi: combattersi tra loro». Tanto saggia e salutare sarebbe una soluzione del genere, dinanzi allo spettro pauroso di un nuovo, forse imminente, e totale e terrificante conflitto armato che Adriano Lualdi, in un succoso interessantissimo e attuale volume in questi giorni edito («Oggi non domani»; Editrice «Il Giornale d’Italia, Roma, Via dell’Umiltà 23, L. 120), scrive: «E se non riescono proprio a mettersi d’accordo, rinnovino una bella, civilissima Storia della vecchia 61 Ibid. 62 Ennio Porrino, Appello agli intellettuali. Chi ha ucciso lo spirito?, «Corriere di Napoli», venerdì 13 febbraio 1948, p. 3.
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Italia. Si chiudano tutti, quanti sono – cento? mille? tremila? Non credo siano in numero maggiore in tutto il mondo, i veri sovvertitori della vita mondiale – in un’Arena: armati quanto e come vogliono; e diano sfogo, là alle loro risse sanguinose. «Oggi non domani» è una «lettera aperta» che Adriano Lualdi indirizza, da artista ad artisti di altri Paesi, ai Maestri Dimitri Schostakowitch russo sovietico, Jacov Gotovac jugoslavo, Dimitri Mitropulos greco residente in America, Jean Durand svizzero, e agli «artisti svegli». È un appello e un grido di allarme, affinché gli intellettuali, di tutte le Nazioni d’Occidente e di Oriente, del Sud e del Nord si sveglino dal torpore e dall’indifferenza cui sembrano soggiacere, per unire la loro a questa voce e denunciare all’opinione pubblica il pericolo gravissimo, e non certo lontano che i Capi politici delle varie Nazioni dopo aver squassato l’intero mondo con una guerra delittuosa condotta sotto le bugiarde e tradite bandiere che si chiamavano libertà, autodecisione, diritti dei popoli, possano scatenare un nuovo cataclisma bellico (e belluino) sotto una nuova ma altrettanto bugiarda e traditrice insegna: quella della democrazia! Romain Rolland, già trent’anni fa nel suo libro «Aus dessus de la mêlée» denunciò pericoli che oggi sono ancora attuali e che vengono chiaramente e con brillante stile letterario illustrati dal Lualdi, il quale dopo aver detto «a ciascuno il suo» (vuoi a destra che a sinistra, ad Occidente che ad Oriente) e aver con convincente efficacia dimostrato gli errori politici dei «Grandi» di tutti i Continenti dall’altro dopoguerra ad oggi, fa un esame approfondito e documentato delle cause che hanno condotto noi superstiti di tutti i Regni e di tutte le Repubbliche alla sfiducia più completa e nella maggioranza, all’abulia più perniciosa. Tra l’altro vi sono una diecina di pagine nelle quali si criticano in brevi periodi affermazioni fatti, contradizioni che hanno inoculato dopo esser passati per il vaglio del nostro cervello e della nostra coscienza il veleno della sfiducia e forse dello scetticismo nella nostra anima. E ciascun periodo si conclude, come in una litania con un breve ma veritiero ritornello: «E questo uccide lo spirito». Perché è proprio triste e terribile e purtroppo «vero», che a uccidere lo Spirito son stati «proprio coloro che bandendo la grande Crociata contro i due grandi colpevoli, avevano promesso all’intero mondo se avesse saputo liberarsene, la Redenzione, la Giustizia, la Verità, la Liberazione dalla Paura e dalla Fame, dalla Violenza e dall’Intrigo, dalla Tirannia e dal Male dall’Ipocrisia e dall’Imperio della Materia. E il trionfo dello Spirito, e la rivendicazione della dignità umana». «Quale Credo civile Potrà un cittadino far proprio dopo quello che ha veduto, senza dover temere di essere un giorno condannato al rogo, come eretico?». Giusto quindi Maestro Lualdi, il Suo appello sacrosanto, e mi auguro che tutti gli intellettuali e gli studenti d’Italia e dell’Estero lo leggano, e, come me, lo sottoscrivano. Un solo brano della Sua lettera non posso sottoscrivere Maestro, sebbene Lei lo abbia steso in tono ironico e per amor del paradosso, ed è questo: «E Codice 602
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siccome alcuni di noi hanno capito benissimo lo accaduto, i nostri grandi ideali nazionali, gli Assoluti, gli Idoli, li abbiamo tutti mandati in soffitta e non ci pensiamo più. Così facendo da gente pratica come stiamo dimostrando non è escluso che fra cinque o dieci anni (vettovaglie arrivando d’Occidente) si stia benone». Proprio «tutti» i nostri Ideali nazionali li abbiamo mandati in soffitta? Non lo voglio pensare e non lo credo! Ci lascino in pace e non ci portino ad altre avventure nefaste gli uomini responsabili: questo sì, ma ci lascino anche liberi di avere e d’esprimere i nostri Ideali nazionali, che son sempre «grandi» anche se necessariamente «modesti». Ennio Porrino 11.63 Un grave interrogativo. Il “vae victis” anche nella musica per gli italiani? Tempo fa apparve, su un quotidiano romano, un ampio ed esauriente articolo di Ildebrando Pizzetti, dal titolo «Musicisti in castigo», L’attualità di detto articolo, anziché scemare, aumentava purtroppo di giorno in giorno dato che, contro l’imperversare in Italia d’una esterofilia spesso non giustificata e l’insistente e voluta ignoranza dei paesi stranieri verso la musica italiana, nulla si è fatto e nulla, per ora, sembra si voglia fare. Il problema non è nuovo e ne abbiamo fatto oggetto di appassionata battaglia, sin da lontani tempi. Oggi però, e precisamente dai dì della sconfitta la situazione è precipitata, e talmente, da doversi considerare il bilancio artistico internazionale totalmente passivo per l’Italia. In breve: non solo l’Italia è divenuta la terra ambita dei compositori e interpreti stranieri (e ciò, nei dovuti limiti potrebbe anche inorgoglirci…) che vengon qui a mietere allori e milioni e talvolta a procurarsi titoli per… poi affermarsi nel proprio paese d’origine (avviene anche questo!…): non solo noi apriamo le braccia e accogliamo questi stranieri con una generosità da miliardari americani e con un ossequio spesso eccessivo in rapporto a quella che dovrebbe essere la nostra dignità d’uomini e di artisti e a quello che è il vero valore dei musicisti che ospitiamo, ma quale compenso a questo nostro atteggiamento generoso e universale, gli organizzatori, i direttori e concertisti, i critici e musicologi stranieri fingono di ignorare la musica italiana contemporanea e anche antica, cui evidentemente hanno decretato l’ostracismo più rigoroso. Il Maestro Pizzetti, nel suo bellissimo articolo documentava in modo inoppugnabile questo ostracismo, che non si limita alla nostra produzione contemporanea (in ogni modo anche sotto questo aspetto inaccettabile e ingiustificato), ma si estende (admiramini et obstupescite!…) ai nostri grandi polifonisti dal Quattrocento al Seicento, ai nostri grandi strumentisti del Sei e del Settecento e ai nostri maggiori operisti del Sette e dell’Ottocento, compreso Puccini e tutta la scuola verista!… Ecco dunque chi sono oggi i «musicisti in castigo»: gli italiani! quelli di oggi (criminali di guerra, naturalmente!) 63 Ennio Porrino, Un grave interrogativo. Il “vae victis” anche nella musica per gli italiani?, «Corriere di Napoli», giovedì 9 dicembre 1948, p. 3.
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e quelli di ieri e anche quelli del Quattro-Seicento (compreso l’immenso Palestrina che siede in cielo alla destra di Bach) sui quali non si sa con quale abilità cassidica i varii «grandi» siano riusciti ad estendere le sanzioni penali spettanti ai responsabili del «grande eccidio»!.. I compositori italiani dunque (contemporanei e antichi, viventi e morti) vivono per volontà dei vincitori, in campo di concentramento, come già gli ebrei a Darhau o a Mathausen: gli italiani, beninteso, perché per i tedeschi per esempio invece la faccenda e ben diversa tanto che su oltre 300 esecuzioni di opere sinfoniche date in Inghilterra durante la stagione 1944-45, 180 furono tedesche sino a Strauss incluso; seguirono circa 80 esecuzioni francesi con una ventina ecc, ma di italiani neppure una!.. A questo punto del discorso, dimostrato che all’Estero non si è teneri verso di noi e che l’Italia è giunta a quello che noi temevano, e pubblicamente denunciammo sin dal 1937-38 come pericolo imminente e cioè ad aver perso la supremazia nel campo internazionale della musica, giunti a questo punto vien fatto di chiederci: poiché siamo in campo di concentramento senza possibilità di evasione, che fanno gli italiani per gli italiani? Triste domanda alla quale deve seguire per esser sinceri e crudi, una triste risposta, umiliante: «nulla, anzi peggio che nulla»! I compositori si combatton fra di loro in sterili lotte di tendenze per l’affermazione monopolistica di una minoranza: i teatri e le Società concertistiche a malincuore si interessano dei musicisti contemporanei che continuano a vivere fuori del «tempio»: i direttori d’orchestra seguono il medesimo andazzo e la critica musicale e i musicologi degnano la produzione nazionale d’un fuggevole sguardo, non alzano un sol dito per far cessare questo triste stato di cose e son sempre pronti, con i turiboli, dinanzi agli idoli d’oltre alpe e di oltre mare. Naturalmente ci sono le lodevoli eccezioni, gli uomini animati di ottime intenzioni che qualcosa fanno per il bene collettivo e verso questi deve andare la più viva gratitudine degli artisti italiani, ma son casi sporadici che si perdono nel mare della sovrana indifferenza. Manca un piano organico e soprattutto una coscienza nazionale nei singoli: interpreti, critici e organizzatori. Non si chiede l’affermarsi una mentalità stupidamente e strettamente nazionalista che faccia del mondo una palla divisa in piccoli quadratini. Tutt’altro! Si vuole un mondo vasto ed aperto, ove le correnti spirituali circolino in piena libertà ma ove almeno per ciò che concerne l’arte, non vi siano né vinti né vincitori, ove se rinunzia v’ha da essere sia equamente sopportata da tutti, ma ove, se qualcosa c’è da donare e ricevere, sia da tutti donata e ricevuta. Noi siamo convinti che dagli artisti stranieri molte cose piacevoli e interessanti possiamo ascoltare, ma desideriamo che all’estero la nostra musica sia conosciuta affinché gli stranieri possano profondamente e con serietà e buona volontà valutarci e, forse in avvenire, amarci!! Ma se alla nostra mano da tempo tesa generosamente si continua a rispondere col pugno chiuso, sia ad occidente, sia a oriente, cosa avverrà del progresso civile e Codice 602
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spirituale e della fraternità dei popoli? Ogni Nazione può apportare il suo contributo e non è giusto chiudere la porta (anche se educatamente e diplomaticamente sul muro degli artisti italiani, i quali hanno ancor oggi, una tal ricchezza di intelligenza, di fantasia, di tradizione culturale e di arditezza innovatrice da costituire (e lo affermiamo senza tema di smentita) una miniera europea di energie che sarebbe delittuoso voler ignorare o, peggio tener represse. Tutti dobbiamo però compiere uno sforzo per mutare l’attuale insostenibile situazione. Prima di tutto noi italiani compositori, giornalisti, direttori d’orchestra, concertisti, cantanti, sovrintendenti, impresari, società di concerto, Direzione Generale dello Spettacolo e Sindacati; poi gli stranieri: artisti, editori, organizzatori. Una esortazione va anche rivolta ai nostri Editori e alle nostre Autorità diplomatiche in Italia e all’Estero. Un atto di buona volontà di comprensione e di tenacia sino ad infrangere i reticoli di questo bel campo di concentramento che è oggi l’Italia! Ennio Porrino 12.64 Problemi musicali. Dove si trova la «terza forza»? È un interrogativo che rivolgiamo a Guido Pannain a proposito del suo articolo «Parole e musica» apparso sul «Tempo» di Roma. Il Pannain si scaglia, giustamente, contro quei musicisti contemporanei che fanno procedere l’esecuzione delle loro musiche da illustrazioni apologetiche curate e da essi stessi sottoscritte o dai loro compiacenti vessilliferi. Dice il Pannain: «Almeno quando si annunzia una musica veramente nuova se ne parlasse con modestia, come di un tentativo, di un proposito, di un’aspirazione. Niente. L’opera d’arte la danno per bella e fatta prima di fartela sentire. Gli autori si mettono al centro dell’universo. Non conoscono esitazioni, lotte, difficoltà. Sanno quello che vogliono e sono sicuri di quello che fanno. Se si tentasse una crestomazia delle dichiarazioni dei musicisti sulle loro opere o degli anticipati commenti dei loro coribanti, sarebbe una cosa divertente». Ripetiamo: giustissime osservazioni che pienamente sottoscriviamo. Solo avremmo desiderato che il Pannain avesse fatto rilevare, per amore della verità e della chiarezza, che tale sistema è usato solo dagli autori, e dai loro relativi coribanti, di «una sola e ben individuata tendenza», di quella cioè che egli definisce «progressista o, come una volta si diceva, d’avanguardia», alla quale appartengono musicisti e musicologi altezzosi e intolleranti, dominati dalla libidine di un loro monopolio fazioso e assoluto. Ma dove più ci ha lasciati sorpresi e dubbiosi, il Pannain, è nella 64 Ennio Porrino, Problemi musicali. Dove si trova la «terza forza»?, «Corriere di Napoli», martedì 15 febbraio 1949, p. 3.
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catalogazione che fa dei musicisti contemporanei. Egli li suddivide, così alla spiccia, in due specie (pensare che in biologia esistono almeno le sottospecie!..). L’una è quella dei «progressisti – avanguardisti» di cui si è detto; l’altra è quella del «musicista – son parole del Pannain – della tradizione, che se la fa con gli ideali del passato, l’ispirato, che non vuol saperne di modernità, di teorie e problemi estetici, di rivolgimenti tecnici. È tutto cuore, zucchero e sentimento. A sentirlo pare che egli sia l’usignolo di S. Agostino: «L’usignolo che canta con ritmo e soavità, conosce esso le regole dell’arte musicale? Così lui». Esistono sì, queste due specie, è vero, ma è proprio tutto qui. Solo i «progressisti» e i «retrogradi»? Non esiste forse «una terza forza»? Una categoria cioè, di musicisti che onestamente, secondo le proprie possibilità con tenacia e abnegazione, forse ingrati agli uni e agli altri, tentano questa grande «mediazione» tra il passato e l’avvenire? Non esiste forse già un linguaggio musicale che, avendo accolto in sé gli elementi più «musicali» della tecnica moderna ed ardita, tenta assurgere a una forma di espressione contemporanea ove tradizione ed evoluzione trovino un punto di contatto e di equilibrio? Si vuol proprio gridare al fallimento senza aver prima fatto un coscienzioso ed approfondito esame? E di grazia, Maestro Pannain, dove vogliamo collocare (tanto per citare due soli nomi, quelli di un morto e di un vivo) il compianto Giovanni Salviucci e Lodovico Rocca? Forse fra i «progressistiavanguardisti»? Non mi sembra: si farebbe un torto a Salviucci, a Rocca e al «gruppo» dei musicisti estremisti. Ma neppure potremmo collocarli nella specie dell’«uccello» per intenderci, cioè, in quella dell’usignolo di S. Agostino cui allude il Pannain. E allora come si definisce questa importante questione? Semplicemente: iniziando un lavoro di revisione. E dovranno farlo proprio quei critici musicali, come il Pannain, i quali, per il loro valore, la loro autorità e la loro profonda competenza, possono cominciare ad indicare sulla scorta delle composizioni e delle affermazioni dei singoli, quali fra i musicisti italiani, son quelli che possono costituire il primo nucleo della «terza forza». Quelli cioè che, per dirla con Lualdi, non appartengono alla «Accademia del mezzo lutto» e neppure per dirla col Pannain all’«Accademia dell’usignolo». Si vedrà allora che tra le due «Accademie» che son poi due «arcadie», v’è qualcosa di vivo, di «contemporaneo», di proteso verso l’avvenire, senza viete «nostalgie» e senza vuoti funambolismi puramente tecnici e cerebrali. Questa opera che suggeriamo, se intrapresa, riuscirà utilissima e darà forse risultati insperati. Sminuirà l’albagia degli «accademici del mezzo lutto» e la beota pollachiuria degli «accademici dell’usignolo» e forse – attenzione! – «scoprirà» gli autori che potranno finalmente riuscire ad interessare il pubblico di oggi che non è troppo modernista, ma che non si accontenta neppure del canto dei falsi usignoli. All’eccessiva propaganda reclamistica di un gruppo ha corrisposto sino ad oggi in gran parte dei casi un sovrano disinteresse della stampa per tutti gli altri musicisti estranei al «gruppo», e Codice 602
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ciò ha contribuito non poco al crearsi dell’attuale squilibrio e al verificarsi degli inconvenienti giustamente lamentati dallo stesso Pannain. Al lavoro, dunque, ma con fede e con impegno, così come si fece per il passato verso compositori stranieri che allora vennero presentati quali astri di prima grandezza e oggi invece hanno un posto modesto nel firmamento musicale! Occorre valorizzare in Italia e all’Estero (ma cominciamo intanto in casa nostra) la «terza forza musicale»!… Ennio Porrino 13.65 Orchestra e direttori d’orchestra L’orchestra e il coro costituiscono, per un compositore e per un interprete, i due mezzi di espressione, i due strumenti più completi e più ricchi, per tramite dei quali è possibile realizzare i sogni artistici più varii e più ambiziosi. Il complesso degli strumenti e delle voci costituisce con i suoi timbri, con le sue combinazioni coloristiche e polifoniche, con la gamma infinita delle sue sonorità, una tavolozza cui l’artista creatore e l’interprete possono attingere a piene mani, senza limiti. Anzi si può affermare che coro e orchestra sono strumenti che più rendono e più donano quanto più ricca è la fantasia e più imperiose sono le esigenze di chi a loro si rivolge. D’altra parte, poiché la ricchezza è difficile ad amministrare e va saputa utilizzare con equilibrio e buon gusto se non si vuol perdere la gioia del dolore e sminuirne il valore con lo uso eccessivo e smodato, è logico che anche strumentisti così doviziosi, come l’orchestra e il coro, vanno saputi trattare con parsimonia ed intelligenza. Perciò che riguarda l’orchestra accade spesso di sentir dire che non si può insegnare ad orchestrare o a dirigere l’orchestra, che tali attività sono istintive e che un artista si forma da sé, per diretta esperienza. Affermazioni false quanto superficiali! Certamente v’è, nell’orchestrare o nel dirigere, quel quid di personale ed istintivo che è alla base di ogni attività artistica; non si potrà certo formare artificialmente un «orecchio orchestrale» né creare un «braccio da direttore» per chi non è stato beneficiato dalla natura di questi fondamentali e indispensabili doni, così come non si potrà far divenire «musicale» chi non sia nato tale, ma è altrettanto vero che sia l’arte dell’orchestratore che quella del dirigere hanno una loro parte «scientifica» e «razionale» così esatta e logica da essere pari, per coerenza, al ragionamento algebrico e a quello filosofico. Vi sono anche in arte verità fondamentali così assolute come il «due più due fa quattro» o come i termini di un sillogismo. Queste verità sono le fondamenta, i muri maestri sui quali possono poggiare i pinnacoli della fantasia, le estrose volute di una architettura che si voglia innalzare, libera, verso il cielo. 65 Ennio Porrino, Orchestra e direttori d’orchestra, «Corriere di Napoli», sabato 18 giugno 1949, p. 3.
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Mentre intorno all’orchestrazione vi è un notevole complesso di opere teoriche che giungono sino a quelle, più in uso, di Berlioz, Rimsky-Korsakof e Strauss, per ciò che riguarda la direzione d’orchestra invece ben poco è stato fatto nel campo didattico-teorico. È vero che quest’ultima disciplina, come tutte quelle che si proiettano nel campo interpretativo-esecutivo, ha più necessità di esperienze pratiche che teoriche, ma è anche vero che una conoscenza formale e culturale può efficacemente preparare ed assistere chi si agginga agli studi della composizione e direzione d’orchestra. Adriano Lualdi, notata da tempo la gravità di tale lacuna, coraggiosamente e pazientemente si mise all’opera e pubblicò nel 1940 un preziosissimo libro di cui la prima edizione andò ben presto esaurita. In seguito a tale fortunatissimo esito, e perché altri nuovi importanti elementi si erano aggiunti, l’Editore decise, tempo fa, la pubblicazione di una seconda edizione (Adriano Lualdi – L’arte di dirigere l’orchestra – Editore Hoepli – Milano). In questa seconda edizione vi sono capitoli interamente nuovi quali: «Commento agli evangeli dei santi padri della musica e dei frati minori», «La orchestra da camera», «Berlioz-Liszt-Wagner», «Lettera sulla direzione di Liszt», «Conseils aux Jeunes musiciens» di Schumann e «Della Direzione di Wood». Altri capitoli sono notevolmente accresciuti, sì che ci troviamo dinanzi ad un’opera aggiornatissima e assolutamente nuova ed unica nel suo genere, nella letteratura interazionale, essendo in essa raccolti tutti i più importanti scritti sulla direzione d’orchestra e costituendo una prima trattazione organica di questa complessa e delicata materia. La seconda parte del libro è un’antologia (scritti di Berlioz, Liszt, Gui, Saminski, Gounod, Serafin, Schumann, Weingartner, Wood e Wagner) mentre la prima, originale del Lualdi, ha un suo valore sia per la somma delle esperienze personali direttoriali dell’Autore che per le risultanze teoriche che egli trae da tutto ciò che sull’argomento è stato precedentemente scritto. Dopo una saporosa nota autobiografica e due capitoli illustrativi sul contenuto e lo scopo del libro, il Lualdi stabilisce un parallelo (terribilmente vero!) fra la Germania 1859 e l’Italia 1939 (e potremmo aggiungere, usando i temi per aggravamento, Italia 1949!), che serve a staffilare a dovere certi «gruppi» e certe «conventicole»! Attraverso altri capitoli di sommo interesse, si giunge al «Canto» (melos) orchestrale alla «dinamica» alla «bacchetta» e all’«interpretazione ed espressione». Ma non è possibile, in un breve articolo, dare un’idea sia pure approssimativa delle ricchezze e dell’interesse contenuti nel volume né vogliamo togliere al lettore il gusto della scoperta e della sorpresa. Diremo solo che il libro su l’Arte di dirigere l’orchestra, per la materia trattata, per il modo come è stata ordinata e soprattutto per la chiarezza e lo stile letterario brillante, arguto e spontaneo (il Lualdi è veramente uno dei migliori scrittori italiani di cose musicali!), è volume da riuscire utile agli studenti e ai cultori della composizione e della direzione d’orchestra e dilettevole e appassionante per chiunque ami la musica o se ne diletti o Codice 602
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abbia consuetudine a volger la mente ai problemi dell’intelligenza e dello spirito. Ennio Porrino 14.66 Musica atonale dodecafonica Di questa musica atonale dodecafonica si fa, da alcuni anni a questa parte, un gran parlare in Italia, soprattutto da parte degli interessati, ossia di coloro che scrivono musica del genere e vorrebbero trionfare dell’ostilità e dell’«incomprensione» del pubblico e di tutti i musicisti e cultori di musica che condividono il loro punto di vista estetico e formale. Non abbiamo lo spazio sufficiente (né d’altra parte questa sarebbe la sede adatta) per illustrare ai nostri lettori, curiosi, le teorie della musica atonale dodecafonica e per dimostrare ad essi come tale «sistema» (codificato e proposto dal viennese Arnold Schonberg [recte: Schoenberg], ed in esperimento ormai da lunghi anni), secondo la nostra modesta opinione, ha ben limitate possibilità di espressione e di sviluppo, per cui non costituisce una rivoluzione, né una «strada» certa e definitiva verso il futuro. Ma non possiamo astenerci dal riportare le parole che, sull’argomento dettava tempo fa (e con maggiore autorità della nostra) per il settimanale «L’Elefante» Luigi Colacicchi, parlando di due autori «modernisti» le cui musiche erano state in quel eseguite all’Argentina di Roma. Tali parole sono serene e obiettive e molto chiaramente espresse. Analizzano e determinano il problema ricorrendo anche a felici paralleli e, pur senza recare offesa a nessuno e scendere a forme polemiche astiose, richiamano gli uomini alla realtà dei fatti e al rispetto delle opinioni e delle «libertà» degli altri. Riportiamo quindi la prosa del Colacicchi, consentendo e sottoscrivendo: «Un’acqua torbida e incolore, questa benedetta musica scardinata dal sistema tonale tradizionale, tutta sospinta da un’unica corrente armonica e appena increspata alla superficie da un lieve vento melodico. Una musica, che soltanto la ritmica, la dinamica e lo strumentale rendono; per ora, approssimativamente identificabile; perché l’orecchio, abituato a ben altri rapporti tonali (i dodecafonici dicono: viziato), non è ancora capace di percepirne con esattezza la logica concatenazione melodico-armonica, ossia, in sostanza, l’eloquio. All’orecchio dell’ascoltatore comune, che è quanto dire del novanta per cento degli ascoltatori, questa musica fa l’effetto di un discorso in una incomprensibile lingua straniera, di cui l’oratore riesca qua e la far cogliere un qualche significato, alzando o abbassando la voce, marcando più o meno una frase. Un bello affare, insomma, l’atonalismo e molto più ancora la dodecafonia, con le sue «serie»: una grande ombra (temporanea, definitiva?) gettata sulla storia di circa un millennio di musica. Ma non c’è che fare. Ormai ci siamo dentro fino al collo, ed 66 Ennio Porrino, Musica atonale dodecafonica, «Corriere di Napoli», mercoledì 29 giugno 1949, p. 3.
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uscirne non sarà facile, nonostante la resistenza tutt’altro che clandestina dei melomani meno timorosi di passare per misoneisti. Allo ingrosso dal «Tristano» in poi (ché a questo capolavoro si fanno risalire nientemeno le origini dei guai presenti), la musica poteva prendere un indirizzo tutt’affatto diverso, a Dio piacendo. Ha preso invece questo dirizzone dodecafonico, ignoto alla maggior parte dei «destinatari», ma ben conosciuto al «mittente» Schoenberg e soprattutto all’infaticabile «portalettere» Leibowitz; e come respingere l’inquietante messaggio? Poteva essere, la dodecafonia – e potrebbe essere – un ottimo partito compositivo, offerto all’artista creatore, che «non ne può più» del venerando gioco tonale. Ma una cosa è un partito, altra cosa è il partito, ossia il partito unico totalitario e obbligatorio. Utile e necessario il grigio, nel gioco dei colori, quanto il rosso e il giallo. Ma il solo grigio è un po’ poco, per soddisfare ed esaurire tutte le esigenze dell’espressione pittorica. Quale effetto farebbe un pezzo di musica scritto in una sola tonalità, con una sola armonia, senza modulazioni, senza risoluzioni, senza cioè la varia[n]te alternativa fondata sulla dialettica dell’associazione dei suoni, dell’attrazione e repulsione dei diversi «gradi» delle diverse scale (e non soltanto delle scale tonali, maggiori o minori, del sistema temperato, ma ben anche di quelle modali antiche), che regola e articola i rapporti del discorso musicale? Farebbe poco meno l’effetto che fa alla maggioranza degli ascoltatori la musica dodecafonica, con il suo aspetto uniforme ed ermetico». Efficace e concettose queste parole del Colacicchi! Particolarmente chiare (per chi voglia intenderne in significato e conosca i meandri segreti della nostra vita musicale) allorché accennano, sul piano estetico ma evidentemente anche su quello pratico, al fatto che una cosa è un partito e ben altra il partito! Il che vuol dire, per la parte estetica, che il linguaggio musicale moderno non può limitare il suo campo solo alla dodecafonia (come pretenderebbero certi nostri teorizzatori) e, per la parte pratica, che le porte delle sale da concerto, dei teatri e della propaganda pubblicitaria vanno aperte a tutte le tendenze musicali senza esclusioni, senza monopoli e senza voler imporre «il partito unico, totalitario e obbligatorio»! Noi leggemmo con vivo compiacimento la prosa sopra riportata perché già una diecina di anni fa dicemmo cose simili, anche se non col garbo e l’abilità del Colacicchi. È maggiore è stata la gioia di un simile incontro, in quanto che allora (1937-38 ecc.) il Colacicchi dirigeva dalle nostre opinioni e ci fu avverso. Ma noi abbiamo sempre creduto con fede nel valore chiarificatore del tempo e nella forza incoercibile della verità, che è sempre una. Abbiamo anche sempre creduto che due galantuomini prima o poi finiscono per incontrarsi e darsi ragione, anche se inconsciamente e per vie indirette, il che può indurli a stringersi la mano e nel caso… dell’«Elefante» ad alzar la proboscide in segno di saluto!… Ennio Porrino
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15.67 Gli Enti Lirici. Gravi problemi musicali Lo Stato Italiano elargisce annualmente forti somme per sovvenzionare gli Enti Autonomi che dirigono e amministrano i più importanti Teatri Lirici del nostro Paese. Dette somme, che potrebbero essere impiegate in mille altre opere ugualmente utili alla Nazione, vengono invece devolute per le attività musicali al preciso scopo di favorire l’Arte, gli artisti, la cultura del popolo. Tali le ragioni etiche le quali unite a quelle miranti all’impiego delle «masse» (orchestre, cori, operai ecc.), giustificano queste spese dello Stato. Quindi non sovvenzione di una attività puramente edonistica, ma impiego di somme per precisi fini culturali e sociali. Così come oggi funzionano, i nostri Enti Lirici assolvono il compito loro assegnato? Crediamo di poter rispondere in senso nettamente negativo; e sappiamo che sono in maggioranza della nostra opinione i musicisti italiani e quanti più o meno direttamente si interessano alla vita musicale. Esaminiamo brevemente il problema nei suoi principali aspetti. Le masse (cori e orchestra) sono tuttora in una situazione di incertezza e ben lontane da quella «stabilizzazione» che era doveroso dar loro in tanti anni di spese ingenti, causate soprattutto da elefantiasi burocratica e da cattiva amministrazione. Dato che lo Stato interviene per il lato economico a favore degli Enti, occorrerebbe studiare un piano finanziario che facesse dei singoli orchestrali e coristi dei veri e propri impiegati con stipendi e pensioni e orari di prove fissi e da rispettarsi rigorosamente. Quanto ai cantanti, il complesso degli Enti dovrebbe essere quello di creare compagnie di giovani, da educare e coltivare, le quali potrebbero costituire il «lievito» inestinguibile del «bel canto italiano» e il forte nucleo centrale (ed economicamente vantaggioso) di ogni stagione lirica. Fino ad oggi invece gli Enti non solo non hanno creato e valorizzato giovani artisti, ma hanno addirittura «bruciato» in pochi anni cantanti sui quali era lecito riporre le più rosee speranze. Prova ne sia che ben pochi dei nostri artisti lirici (primato dei trascorsi tempi!) vanno all’Estero, mentre i nostri cartelloni si riempiono sempre più di nomi stranieri. Per i Direttori d’orchestra, le cose vanno forse un po’ meglio, sebbene anche per essi, si noti una disparità di trattamento a tutto sfavore degli italiani, i quali, quasi sempre, non vengono trattati dalle Sovrintendenze con quella generosità e quelle deferenze che si usano verso gli artisti di altri paesi. Ma dove il problema diviene particolarmente grave, e a volte particolarmente preoccupante, è nel settore della produzione. Lo Stato, come dicevamo sopra, sovvenziona gli Enti Lirici per incoraggiare gli artisti e incrementare la cultura, ma le Sovrintendenze dimostrano di non tenere in alcun conto questo principio che dovrebbe essere assoluto, né lo Stato, 67 Ennio Porrino, Gli Enti Lirici. Gravi problemi musicali, «Corriere di Napoli», giovedì-venerdì, 5-6 gennaio 1950, p. 3.
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attraverso i suoi Uffici competenti, sa o vuole farsi rispettare. È come dire che lo Stato, e per esso la Magistratura, restassero passivi dinanzi alla violazione delle leggi da parte di Enti Pubblici!.. Noi vogliamo deliberatamente astenerci dal citare fatti e nomi, ma possiamo affermare, senza timore di smentite, che oggi in Italia il compositore (come figura libera e indipendente, non asservita a consorterie, schivo dal ricorrere a sollecitazioni o pressioni) è in stato di netta inferiorità. Circola per le Sovrintendenze una aria di dittatura quale non si era mai conosciuta; i Comitati degli Enti, le Commissioni di Lettura per le opere nuove non hanno autorità e i loro pareri tecnici non vengono tenuti in alcun conto; il compositore vivente (quello libero e schivo dal sollecitare protezioni e favori) è perennemente in anticamera ad attendere lo sguardo benevolo dei Numi, mentre dovrebbe essere parte integrante ed operante della vita musicale e teatrale della Nazione. Anni per avere la «prima esecuzione; anni (nella migliore delle ipotesi) per una «ripresa» in altri teatri; anni per ritornare, con altra novità, nello stesso teatro! Intanto il pubblico si chiede giustamente che cosa ne sia avvenuto del talento musicale operistico italiano! Non una opera né un autore si possono affermare senza la frequenza di presentazione al pubblico, e i Teatri Lirici, invece di essere «vivai», sono divenute «tombe» nelle quali il repertorio antico muore per esaurimento, le esumazioni culturali si dimostrano scavi archeologici sempre più inutili, che nulla hanno a che vedere con l’arte-vita, la produzione contemporanea è soffocata sul nascere e il pubblico viene spesso allontanato dalla forzosa imposizione di determinate tendenze musicali a lui ingrate. Non ci sembra di chiedere troppo se manifestiamo il desiderio di veder riorganizzare gli Enti Lirici Autonomi su nuove basi che siano rispondenti alle esigenze dell’Arte. Nel frattempo sarebbe bello che tra gli Enti e gli Autori italiani si stabilissero rapporti di maggiore affiatamento e di reciproca comprensione con vantaggio sicuro ed immediato per le due parti in carica e per l’Arte contemporanea italiana. Ennio Porrino 16.68 Compositori contemporanei Il nostro articolo (Gli enti lirici – Gravi problemi musicali), apparso su questo stesso giornale nel numero del 5-6 gennaio, ci ha procurato grandi ed anche autorevoli consensi, per cui ci sentiamo incoraggiati a proseguire nell’esame di taluni problemi importanti per attualità e delicatezza di argomento. Nel precedente articolo dimostravamo (e nessuno sino ad oggi ci ha potuto in alcun modo smentire) come, in linea di massima, gli Enti Autonomi non assolvevano affatto a quei compiti culturali ed 68 Ennio Porrino, Compositori contemporanei, «Corriere di Napoli», mercoledì-giovedì, 1-2 febbraio 1950, p. 3. Codice 602
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anche nazionali (certamente, anche nazionali, dato che i danari dello Stato sono danari italiani!) per i quali il Governo elargisce contributi e paga stipendi! Le masse teatrali (orchestra, cori, ecc.) sono tuttora in una situazione di incertezza; cantati italiani in crisi (maggiore il numero dei vecchi e dei morti – in senso artistico – che quello dei nati!); i direttori d’orchestra italiani anch’essi in crisi e infine arcicrisi per i compositori nostrani!… Un quadro tutt’altro che lieto, addirittura da bancarotta; esagerato e pessimistico, direbbe infine il solito ottimista facilone abituato a cantare il ritornello: «tutto va ben, madama la Marchesa»! E allora parliamo proprio di questi autori contemporanei italiani! Intanto ci permettiamo di affermare (e non per la prima volta e il tempo sempre più ci da [sic] ragione) che la produzione musicale italiana contemporanea (indipendentemente dai nomi, dalle età, dalle scuole e tendenze) è di alta qualità e supera decisamente quella straniera. Quando saranno passati altri cinquant’anni di questo infelice, sconvolto e sconvolgente secolo (noi, ahimé, saremo ben lontani da questa valle di lacrime!) questa nostra affermazione sarà di dominio pubblico! Ma naturalmente vi può essere chi la pensa diversamente, anzi in senso addirittura contrario, per esempio: i Sovrindenti, i Consulenti Artistici, i Comitati ecc. Potranno queste persone, cui è affidata l’alta e grave responsabilità del presente e del futuro dell’arte musicale italiana, dire o pensare che compositori viventi italiani siano ben povera cosa per numero e per qualità, che le loro opere non interessino o facciano addirittura fiasco e che quindi è inutile eseguirle e tato meno ripeterle più di due o tre sere di seguito o riprenderle in stagioni successive. Non ci sarebbe difficile dimostrare il contrario, ma sarebbe fatica vana (come voler far vedere la luna a un cieco) e ci costringerebbe a citar nomi e fatti; e noi invece, lo abbiamo già detto, vogliamo parlare in senso generico, per il bene di tutti e per il male di nessuno, al di fuori e al di sopra degli uomini e delle cose. E allora faremo come si fa con i bambini: racconteremo delle favole, meravigliose, incredibili, di un paese che non è il nostro, di un’era che non è la nostra! C’era una volta… «Il 17 novembre l’opera va in scena con discreto successo. Si ripere [sic] per quattordici sere; è discussa dai giornali, nei circoli musicali, fra il pubblico. Per qualche settimana Verdi è un uomo di moda. Merelli gli offre subito un contratto per tre opere, a quattromila lire l’una, ecc., ecc. È la sicurezza materiale dell’avvenire. Può essere la glora». Ci si obietterà: era Verdi!… Già, un Verdi di venticinque anni, che aveva riportato solo un discreto successo, per cui lo stesso biografo dice: «può essere la gloria». Non è quindi ancora la gloria; potrà venire; e intanto il Merelli, che non era Sovrintendente, ma Impresario (e che uomo e che fiuto! senza compromessi e Comitati e Consulenti e sovvenzioni ministeriali!), ordina a Verdi, in virtù del discreto successo, tre opere e gliele paga!..
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Ci si obbietterà ancora: era Verdi! Bene, leggiamo insieme a pagina 62 del libro che sto citando (Giuseppe Verdi di A. Oberdorfer – Editore Mondadori): «le due riprese del Nabucco di agosto e di novembre danno un totale di cinquantasette rappresentazioni, cifra enorme anche per chi ricordi che alla più sciagurata delle opere difficilmente ne toccano, alla Scala, meno di dieci o dodici». Quindi non si parla più di Verdi, ma della «più sciagurata delle opere» (e quindi di un autore mediocre o peggio, oggi completamente sconosciuto) alla quale però toccavano non meno di dieci o dodici rappresentazioni. E allora noi chiediamo ai compositori italiani, al Sindamato [sic] Musicisti, ai Sovrindendenti e a tutte le altre più o meno competenti ed ufficiali autorità che sono al di sopra o a latere delle nostre Istituzioni Musicali, se mai in Italia sia accaduto, in questi ultimi trenta o quarant’anni, che un autore, dopo un discreto successo, abbia avuto l’ordinazione, largamente retribuita (sino ad avere la «sicurezza materiale dell’avvenire»), di comporre tre opere «da rappresentarsi (pagina 21 del citato libro) o alla Scala o al Teatro di Vienna del quale (il Merelli) ha pure l’impresa». Chiediamo ancora se, per lo meno, è accaduto che un autore contemporaneo, avendo scritto un’opera «la più sciagurata» (proprio per non voler concedere ai compositori viventi neppure un titolo di onore e di dignità artistica!..), abbia avuto di quest’opera dieci o dodici rappresentazioni! Quanto si è detto sin qui ci sembra abbastanza eloquente, tanto da non essere necessario proseguire sull’argomento. Ma poi, è proprio vero che queste cose non si sanno? che si potrebbe ovviare a tanti inconvenienti? E allora perché non si provvede e non si cominciano a stabilire almeno, come già abbiamo detto nel precedente articolo, rapporti di maggiore affiatamento e reciproca comprensione tra autori ed Enti Autonomi ed in genere Istituzioni Musicali? E perché non si cominciano a mantenere, non diciamo le promesse verbali date sulla parola d’onore, ma almeno quelle scritte? E perché nei rapporti sociali non si comincia per lo meno ad essere educati? Poiché a questo siamo giunti: ad aver dimenticato persino le elementari regole dell’educazione! Eppure l’educazione è la migliore base per comprendersi, rispettarsi e giovarsi reciprocamente… Ennio Porrino
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Karol Szymanowski, compositore cosmopolita
di Aldo Dotto*
È sicuramente esteso l’elenco dei compositori troppo poco presenti nelle sale da concerto italiane, sia per una sorta di pigrizia da parte degli interpreti e del pubblico, diffidenti nei confronti dei repertori meno battuti, sia per un mancato approfondimento nei testi musicologici. Fra i nomi di questi ‘artisti dimenticati’ spicca particolarmente quello del compositore polacco Karol Szymanowski, le cui musiche rivelano, a tutti coloro che hanno avuto la fortuna di ascoltarle ed approfondirle, una personalità di assoluto rilievo nel panorama artistico del Novecento. Di questo raro talento si accorse anche l’allora giovane pianista Artur Rubinstein, quando nel 1906 ricevette per caso lo spartito dei Preludi op. 1. Molti anni dopo il pianista ricordò dettagliatamente quel momento nel libro delle sue memorie giovanili intitolato My young years (1973): Ero convinto che mi sarei trovato davanti lo scarabocchio naïf di un qualche studente. È difficile descrivere lo stupore dopo aver suonato qualche battuta di un preludio. Questa musica era opera di un Maestro! Con fervore lessi tutto il manoscritto e l’entusiasmo e l’eccitamento cresceva con la consapevolezza di star scoprendo un grande compositore polacco! Il suo stile doveva molto a Chopin e la forma aveva un qualcosa di Scriabin, ma c’era già lo stampo di una prorompente ed originale personalità nel trattamento della linea melodica e nelle audaci ed originali modulazioni. * Aldo Dotto ha ottenuto il Diploma accademico di II livello di pianoforte presso l’Istituto Superiore di Studi Musicali “L. Boccherini” di Lucca e la laurea magistrale presso l’Accademia ‘Szymanowski’ di Katowice in Polonia. La sua intensa attività concertistica lo ha portato ad esibirsi in Italia e all’estero presso sale come la Wiener Saal di Salisburgo, la Sala Koncertowa di Katowice, la Chopin Hall a Siviglia, il Teatro San Carlo a Lisbona, Sinfonia Varsovia a Varsavia, Museo Orsanmichele a Firenze sia come solista che con orchestra. Attivo nell’ambito della divulgazione musicale, ha pubblicato un libro intitolato Le Maschere di Karol Szymanowski (Pisa, 2014). www.aldodotto.it Codice 602
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Fu proprio Rubinstein che negli anni seguenti, legato a Szymanowski da un profondo sentimento di stima ed amicizia, ne eseguì numerose composizioni, fra cui la Seconda Sonata op. 21 e la Sinfonia Concertante op. 60, rendendole celebri presso il pubblico con le sue interpretazioni memorabili. Oggi, a quasi ottant’anni dalla sua morte, Szymanowski è considerato il maggiore compositore polacco dopo Chopin e gli viene attribuito il merito di aver dato un degno seguito alla tradizione musicale della Polonia, che aveva rischiato di rimanere schiacciata dalla forte pressione della dominazione russa degli zar nel diciannovesimo secolo. Ma la grandezza indiscutibile della sua personalità artistica non può essere relegata esclusivamente alla storia della musica in Polonia, sebbene sia innegabile che per la sua nazione Szymanowski abbia aggiunto un tassello fondamentale senza il quale probabilmente oggi non potremmo annoverare fra i compositori polacchi successivi personaggi come Lutosławski, Gòrecki e Penderecki. Se oggi la Polonia può vantare un’intensa produzione di nuove musiche, che vengono eseguite in numerosi festival fra cui il prestigioso ‘Warsaw Autumn’ (Warszawska Jesien´), uno dei più importanti festival di musica contemporanea al mondo, è sicuramente anche merito di Szymanowski che all’inizio del Novecento lottò strenuamente affinché il suo Paese uscisse da una mentalità provinciale, aprendosi alle nuove correnti artistiche che si stavano affermando sicure nel resto d’Europa. “Che sia nazionale ma non provinciale”, scrisse il compositore nel 1920 sulla rivista «Nowy Przegląd Literatury i Sztuki», elencando gli obiettivi che la Polonia doveva raggiungere in ambito culturale per rimettersi al passo con gli altri Stati europei. La grande modernità del pensiero di Szymanowski è stata l’aver capito che il progresso poteva avvenire solo uscendo dall’isolamento ed aprendo i confini alle innovazioni culturali degli altri Paesi. Nel corso della vita di Szymanowski, la sua musica ha subito profondi cambiamenti, assorbendo stimoli ed ispirazioni derivati dai numerosi viaggi e dal contatto con i più grandi musicisti ed artisti dell’epoca. Fondamentali furono ad esempio i soggiorni a Parigi dove Szymanowski entrò subito nella ristretta élite dei salotti frequentati da compositori come Stravinsky, Ravel, Bartók e Poulenc o i viaggi di piacere in Sicilia, dove rimase affascinato dall’armoniosa mescolanza di culture millenarie o in Tunisia dove poté ascoltare estasiato l’ipnotico salmo del Muezzin che dal minareto richiamava i fedeli alla preghiera. Tutte queste suggestioni e ispirazioni entrarono prepotentemente nella musica di Szymanowski ed i riferimenti
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a queste culture mediterranee sono evidenti in brani come i Miti op. 30 per violino e pianoforte, dove trovano una incarnazione musicale alcune scene tratte dalla mitologia greca, oppure nelle Metope op. 29 per pianoforte, ispirate a brani dall’Odissea o nella Terza Sinfonia op. 27 dove la musica, con l’ausilio di un testo cantato tratto da una poesia del famoso poeta persiano Gialal al-Din Rumi, descrive il fascino e la meraviglia della notte in Oriente. Anche lo stile compositivo mutò enormemente e, dalla scrittura tardo-romantica giovanile che contraddistingue i Preludi, le prime due sonate per pianoforte e le prime due sinfonie, si passò negli anni della maturità, che coincisero con il periodo della Prima Guerra mondiale, ad una scrittura di stampo più impressionista seppur con incursioni stravinskiane. Sarebbe tuttavia un errore cercare di associare la musica di Szymanowski a quella di altri grandi compositori suoi contemporanei. Questo atteggiamento mentale nel quale caddero, anche per ragioni di ordine politico, i critici dell’epoca, non permette di cogliere pienamente il valore originale ed innovativo della musica di Szymanowski. Nel Primo concerto per violino ed orchestra op. 35, ad esempio, Szymanowski elaborò una struttura innovativa, creando un’alternativa alla classica tripartizione in tre movimenti o alla dialettica della cosiddetta forma-sonata. Questo Concerto è, infatti, costituito da un unico movimento ma, nonostante al suo interno siano presenti numerosi temi e stati d’animo differenti, esso non perde la sua unitarietà e l’ascoltatore ne riesce a cogliere il carattere fin dal primo ascolto. Nei brani pianistici come le Metope op. 29, le Masques op. 34 o la Terza Sonata op. 36, la scrittura polifonica rievoca i colori dell’orchestra con uno stile che non può essere paragonato a quello di nessun altro compositore. Un’originalità raggiunta in anni di ricerca che Szymanowski sembra voler sottolineare anche nella scelta dei titoli delle sue composizioni, quando associa i tre brani del trittico delle Masques op. 34 rispettivamente a Sherazade, Tristano e Don Giovanni, guardandosi bene però dal fare anche la minima citazione dei capolavori di Rimski-Korsakov, Wagner e Strauss. Come non citare inoltre, passando in rassegna le principali composizioni di Szymanowski, la sua opera lirica Il Re Ruggero: un capolavoro per la cui analisi non basterebbe un libro intero. Anche nei brani minori come i tre capricci di Paganini per violino e pianoforte, Szymanowski non manca di stupire l’ascoltatore, sfoggiando in maniera evidente la sua assoluta maestria nell’arte dell’armonizzazione di un canto dato ed offrendo una liricità nell’accompagnamento del pianoforte Codice 602
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che conferisce ai brani del celebre violinista genovese una luce tutta nuova ed affascinante. Negli anni conclusivi della sua vita Szymanowski venne investito da una nuova ondata di polonesità, seppur il carattere polacco non abbia mai abbandonato del tutto la sua musica. Fra i brani di quest’ultimo periodo creativo figurano la Sinfonia Concertante op. 60, dove compaiono i riferimenti ai celebri ritmi di danza polacchi, ed i cicli di Mazurche per pianoforte op. 50 e op. 62. Nelle Mazurche op. 50 volle omaggiare il genio di Chopin, senza tuttavia venire meno al proprio estro creativo. Per raggiungere il suo scopo Szymanowski attinse al vasto repertorio delle musiche popolari diffuse nella regione montuosa delle montagne Tatra, carpendo e stilizzando i colori modali di quelle melodie, per poi piegarle ai ritmi ternari tipici delle mazurche, danze tradizionali delle campagne polacche. Come scrive Didier Van Moere nel suo libro Karol Szymanowski (2008): […] il colpo di genio di Szymanowski consiste nell’aver operato questo incrocio liberatore, grazie al quale poté allo stesso tempo raccogliere e liquidare l’eredità di Chopin.
Anche solo scorrendo alcune delle composizioni sopra citate sarà possibile notare una grande ricchezza di stili e di tecniche compositive, specchio imperscrutabile dell’evoluzione e dello sviluppo interiore del compositore come essere umano e come musicista. Il grande fascino della musica di Szymanowski risiede proprio in questa grande varietà di sfaccettature, che come in un mosaico, ricostruiscono gran parte della tradizione culturale della prima metà del Novecento. Un ideale, quello di Szymanowski, che andava oltre le guerre e le tensioni politiche fra gli Stati, compiendo un processo unificatore fra le varie culture, nel nome della Musica e dell’Arte. Questo rende Karol Szymanowski non solo un grande compositore polacco, ma soprattutto un compositore cosmopolita.
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L’importanza del canto corale nella formazione globale dell’individuo
di Giovanni Acciai*
È fuor di dubbio che, mai come nel momento attuale, la musica occupi in Italia un ruolo periferico, per non dire ininfluente, nel quadro pedagogico dedicato alla formazione dell’individuo. Il nostro Paese ha infatti una pessima vita musicale. Con questa affermazione non intendo riferirmi alle roboanti stagioni d’opera e concertistiche dei maggiori teatri nostrani ma a una normalissima pratica musicale (corale o strumentale che sia), svolta da soggetti adeguatamente alfabetizzati nel corso dei normali cicli scolastici. Realtà, manifestamente indipendenti ma di enorme importanza sociale e culturale come la coralità amatoriale, sono lasciate in ombra, notate, se va bene, di sfuggita, relegate a un infimo livello di considerazione. La musica, affidata ad una attività limitata, è per di più malamente distribuita, territorialmente e socialmente, è praticata ancor meno e, di fatto, non viene insegnata nella scuola, o tanto poco e disorganicamente da non lasciare seria traccia nella formazione della persona. In Italia, l’aspirazione a una società civile nella quale la musica occupi un posto importante appartiene al regno dell’utopia. * Giovanni Acciai, nato nel 1946, ha conseguito i diplomi di Musica corale e direzione di coro, di Organo e composizione organistica e la Laurea in Musicologia all’Università degli studi di Pavia. Si è perfezionato in direzione di coro con R. Goitre, M. Couraud e I. Parkai. Direttore del “Coro da camera della RAI” di Roma (1989-1994), del Coro sinfonico della RAI di Torino (1994-1995), è attualmente direttore artistico e musicale dei gruppi vocali e strumentali “I Solisti del madrigale” e “Nova ars cantandi”. Il repertorio corale eseguito è vastissimo e spazia dalla polifonia medievale e rinascimentale alle grandi opere vocali-strumentali. Ha inciso dischi per la Antes-Concerto, la Nuova Era, la Sarx, la Stradivarius e la Tactus. Docente nei Conservatori “Verdi” di Milano e “Martini” di Bologna, è direttore artistico dei Concorsi internazionali di canto corale di Riva del Garda, di Grado e di Quartiano. È stato direttore della rivista «La Cartellina» e fondatore e direttore della rivista «L’Offerta musicale». Ricopre l’incarico di presidente e membro di giuria dei più importanti concorsi nazionali e internazionali di canto e composizione corale. Nel 2004 è stato nominato rappresentante ufficiale per l’Italia dell’“International Choir Olympic Council”. Codice 602
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Giovanni Acciai
Sembra quasi che nella società attuale stia prevalendo l’idea scellerata che la musica non sia necessaria all’uomo. Mai come in questi ultimi tempi essa è stata vilipesa e umiliata, considerata come qualche cosa di inutile per la crescita morale e civile dell’individuo. Se consideriamo il problema dal punto di vista esclusivamente pratico e finanziario dell’ex ministro Tremonti, secondo il quale con la cultura (e, dunque, a maggior ragione, con la musica) non ci si riempie la pancia, giungiamo alla conclusione che la musica non serve a nulla, essendo un costoso e frivolo perditempo. Come la poesia non serve a nulla, come guardare il sole che si perde dietro l’orizzonte e così come tante altre azioni o gesti che compiamo ogni giorno e che ci donano emozioni. Ma tutti noi sappiamo che non è così. Anche se l’amore per il bello, la passione per l’arte, il delirio per quel “dolce rumore della bellezza”, come ebbe a dire una volta Vincent van Gogh, non hanno apparentemente alcuna utilità, senza di esse la nostra esistenza sarebbe povera, vuota, senza senso. La bellezza nasce da ciò che non è mai stato pronunciato prima; dall’ineffabilità del “non detto”; dal mai percepito; da una improvvisa scintilla di armonia che ci colpisce e ci fa comprendere quale dono meraviglioso siano i nostri sensi. La musica sta tutta in questa scintilla di luce, in questa vertigine di ebbrezza, in qualsiasi sensazione che ci viene alla mente mentre la facciamo o la ascoltiamo. La musica non serve a nulla, così pensano i poveri di spirito. Essa innalza invece cattedrali di bellezza là dove c’è aridità e miseria delle coscienze. Nell’arte non ci sono verità assolute. La musica pone di continuo domande alle quali non sempre siamo capaci di rispondere. È come il cielo che muta di colore e d’intensità in maniera incessante. Così come non possiamo racchiudere una porzione del cielo in un barattolo per meglio osservarlo, ogni volta che lo desideriamo, così non siamo capaci di dare una risposta ai segreti dell’arte. Forse proprio perché la musica, la più misteriosa e inafferrabile fra tutte le arti, non serve a niente, essa ci appassiona, ci infiamma, ci rapisce, ci sublima. Quando una voce si fonde con altre voci in un coro, nasce qualche cosa di nuovo; non è più quella voce a esistere; è la voce di un corpo nuovo che vive una sua vita autonoma, che ha un suo colore, una sua forza e, soprattutto, una sua espressione. Chi canta in un coro si rende conto di ciò. Si rende conto di essere parte indispensabile di un nuovo organismo e sa di contribuire alla vita di esso con la sua voce, con la sua volontà, con la sua disciplina, con il suo pensiero, con il suo sentimento. 124
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La forza dell’abitudine, irriducibile nemica della verità, per il suo potere e prepotere di far ritenere normali, accettabili, o almeno sopportabili situazioni che normali o accettabili non lo sono per niente, che anzi gridano vendetta, gioca in proposito tiri mancini facendo credere che questa disastrosa situazione così disastrosa non sia. Se la musica si insegna poco e male da non lasciare seria traccia nella formazione della persona, gli Italiani sanno tuttavia supplire con la loro genialità innata, con il loro estro, con la loro riconosciuta vivacità d’istinto, con le innate attitudini, con le grandi tradizioni che sono state loro tramandate. Ma non è affatto così. Non si supplisce alla mancanza di formazione organica nemmeno con le più straordinarie qualità naturali e la più ricca delle civiltà musicali. Il problema ha le dimensioni di un autentico vuoto culturale, di proporzioni gigantesche ed è in continua, irreversibile espansione. Esso non sopporta giustificazioni o stentate ammissioni parziali, investendo, come vedremo, situazioni oggettive generalizzate e precisi orientamenti di fondo. Se è vero che la sopravvivenza di una società consiste nell’assicurare la trasmissione delle conoscenze e dei valori che essa ritiene essenziali per la conservazione della propria identità, oggi nel nostro Paese ci troviamo di fronte, almeno per quanto concerne la cultura musicale, a un atteggiamento di sfiducia a voler considerare la musica, e quella corale in particolare, non soltanto un’arte ma un formidabile strumento pedagogico e formativo. La pratica corale rappresenta nella società civile una forza enorme. Purtroppo, sovente, essa viene impartita in malo modo e con difficoltà, a incominciare da istituzioni artistiche come i Conservatori che talvolta non perdono occasione per penalizzarla, riducendo le misere ore concesse alle esercitazioni corali a mera attività di rappresentanza. Lo sviluppo dell’attività musicale e, soprattutto, della pratica corale non può non riguardare soltanto l’Italia ma l’Europa intera. La vita culturale di una nazione, che comprende la vita corale, contribuisce a sviluppare la partecipazione e la cooperazione nelle relazioni sociali, culturali e politiche. Questo è un problema importante per l’avvenire della democrazia. Ma è altrettanto importante mantenere assai stretti i legami fra educazione e cultura in quanto essi si alimentano e si arricchiscono reciprocamente. Risvegliando nei bambini e nei giovani l’amore per la musica e ogni altra forma d’arte espressiva si crea un potente antidoto alla perniciosa cultura del consumismo e dell’omologazione del gusto. È communis opinio che una delle cause che stanno a monte dell’attuale situazione di malessere della nostra società non sia da imputare a fattori esterni ma vada piuttosto ricercata nella perdita di quei valori culturali che, fino a un paio di secoli fa, aveva consentito la conservazione di ciò che caratterizzava il profilo della nostra società, di quei valori culturali ai quali essa era fortemente arroccata. Codice 602
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Oggi – è doloroso ammetterlo (perché di tristissima attualità) – le forze di governo e di partito fanno il bello e il cattivo tempo in materia di politica culturale; quando fanno qualche cosa, esse tendono a individuare nell’educazione uno strumento per dominare più che per accrescere le potenzialità insite in ciascuno di noi. Perché “politica culturale” dovrebbe voler dire semplicemente trasformare la cultura in un fatto che appartenga alla vita di tutti i cittadini e non solo a una parte privilegiata di essi; dovrebbe voler dire rendere la musica non più evento fuori del comune, non avvenimento eccezionale come sovente amano titolare i giornali sempre alla ricerca di sensazioni forti, ma un fatto consueto, quotidiano; un’abitudine, dunque. Meno musica d’élite, più attenzione alla realtà della coralità, ma non a parole e con promesse vacue. Con fatti concreti, facilmente verificabili. A incominciare da un serio e congruo apporto finanziario. Nella società italiana la crisi della musica e dell’educazione è sotto gli occhi di tutti. Essa ha assunto ormai valenze altissime e testimonia la difficoltà, se non l’incapacità delle ultime generazioni di trasmettere un bagaglio ricevuto dal passato. Basta volgersi indietro, leggere la storia, per vedere come la presenza della musica nel contesto delle discipline considerate formative dell’individuo abbia svolto un ruolo determinante, come essa sia sempre stata ritenuta elemento troppo essenziale della struttura sociale perché se ne potesse fare a meno. Chi ha a cuore oggi la musica nel nostro Paese? I ministeri competenti? Il parlamento? Il governo? Le forze politiche? Suvvia, siamo seri. Senza pretender di rivoluzionare un sistema di pensiero molto condiviso dalla classe politica, cerchiamo di dare una risposta a questa domanda: perché il termine cultura impaurisce? Perché, quando non è direttamente abbinato a “turismo”, a “spettacolo”, a “sport”, la parola cultura diventa una parola ostica? Forse perché richiama fatica e studio, applicazione e metodo, civiltà e lentezza. Tutti vocaboli progressivamente messi al bando dall’odierna società che non ha tempo da perdere e vuole realizzare in fretta: un destino che strategie ossessivamente affermative, d’immagine e da record a ogni costo del mondo sportivo, indicano benissimo. Per questo da noi cultura rima sovente e bene con seccatura: poco redditizia a livello di ritorno d’immagine. Vuoi mettere le manifestazioni sportive rispetto a quei quattro gatti che ancora si ostinano a cantare in coro, che amano difendere i loro valori culturali, le loro tradizioni, la loro memoria, la loro stessa ragione d’essere. Nulla più. Non a caso, tempo fa un autorevole esponente di “Europa cantat” ha avuto occasione di affermare che “è giunto il momento di fare una rivoluzione pacifica. Da qualche tempo si è insinuata in coloro che non praticano il canto corale (e sono la maggioranza) la convinzione che esso sia 126
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un’attività riservata a una classe ristretta, fatta di iniziati. Ciò spiegherebbe il perché, a causa di questa idea sbagliata, le attività corali in Europa e in ogni altra parte del mondo, siano economicamente poco sostenute dalle istituzioni e figurino al fondo della lista delle priorità. Al contrario, le attività sportive godono di un’attenzione di gran lunga maggiore. Può essere per lo spettacolo che esse offrono o per gli ideali che inculcano nei giovani che le praticano, come il lavoro in équipe, la salute fisica, la volontà di riuscire?”. Nonostante sia ormai stato dimostrato con argomentazioni scientifiche alla mano, come l’esperienza corale non rappresenti soltanto un importante elemento di aggregazione ma anche e soprattutto un fatto culturale che ha peso nell’esistenza e nella formazione dell’individuo, sembra che alla nostra classe dirigente questa realtà non susciti alcun interesse, non sia meritevole di alcuna attenzione. Mai come oggi, invece, il verbo “educare” è stato un termine a parole così sacro e nei fatti un’utopia tanto irraggiungibile. Ciò che soprattutto preoccupa in questi ultimi tempi è il progressivo distacco tra cultura media e interesse alla musica nella maggioranza delle persone che seguono senza un particolare impegno le vicende quotidiane della vita nazionale. Nessuno, certo, è disposto a negare l’importanza dell’educazione musicale, salvo poi sentirsi pienamente autorizzato a non interessarsene. È un fenomeno inarrestabile, quando vi concorrano – come sta avvenendo nella nostra società – la desuetudine per mancanza di una forza stimolante (ecco la funzione primaria della scuola!) e quindi l’indifferenza, che finirà magari per divenire intima insofferenza. Sul piano dei riconoscimenti ufficiali, la forma sarà pur sempre rispettata. E, senza intenderne la grandezza e l’incommensurabilità, i grandi creatori della musica continueranno a suscitare rispetto, compresi Palestrina, Monteverdi e Bach. Ma, al riparo dell’ufficialità, quali saranno i veri rapporti di identificazione? Tentare oggi di educare alla musica un ragazzino di quindici anni, già refrattario a ogni tipo di espressione musicale che non sia quella che gli viene dai modelli circostanti, è una pia illusione. Eppure, nonostante in questi ultimi anni vi sia stata nel nostro Paese una vivace ripresa d’interesse e di partecipazione per l’esperienza corale e gente d’ogni età, d’ogni classe sociale la viva intensamente ed emotivamente, non solo come importante elemento di aggregazione, ma anche come fatto culturale che ha peso nell’esistenza e nella formazione dell’individuo, sembra che alla nostra classe dirigente questa realtà non susciti alcun interesse, non sia meritevole di alcuna attenzione. D’altra parte i politici italiani non hanno mai avuto buoni rapporti con la musica. Figurarsi con quella corale! Codice 602
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Questo ci sembra un punto fermo nella storia italiana passata e recente. Non dobbiamo stupirci di ciò. Per una classe politica come la nostra che non è abituata a vedere al di là del proprio tornaconto, che non si rimprovera mai alcunché, che non si assume mai alcuna responsabilità, che importanza può aver mai il canto corale? Possiamo credere che qualche politico abbia mai letto il saggio Validità del Canto corale di Roberto Goitre, il fondatore de «La Cartellina», nonché musicista, direttore di coro, didatta fra i più raffinati che il nostro Paese abbia mai avuto, e con lui convenga che “non è forse il coro il migliore specchio della società nella quale viviamo? Nella quale tutti dovrebbero tendere a dare il meglio di loro stessi per il bene comune mentre la mancanza di un singolo individuo può essere delitto contro l’intera comunità entro la quale egli vive?”. Possiamo credere che le ore e ore di trasmissioni radiofoniche e televisive dedicate alla musica di consumo siano soltanto il frutto di ferree leggi di mercato o, al contrario, scaturiscano da una strategia più perversa volta a mantenere la società italiana al più infimo livello di cultura? Noi non crediamo affatto che i giovani di vent’anni che oggi vanno in delirio negli stadi di fronte al loro idolo canzonettaro, quando ne avranno cinquanta cambieranno genere musicale e perderanno la testa per le messe di De Victoria o andranno in delirio per i mottetti di Brahms. Vero è che anche la Chiesa, un tempo mater et magistra in fatto di arte e di cultura (non solo per quanto attiene alla musica) e oggi tomba del buon gusto, non fa nulla, proprio nulla per riscattare il suo glorioso passato. Al contrario, lascia che sia la musica d’uso che si ascolta ovunque, ad accompagnare i sacri riti, mentre i cori che intonano i capolavori del canto piano o della polifonia sono tenuti alla larga come lebbrosi e gli organi storici sono costretti a tacere soffocati dallo strumentario delle balere. Ma davvero la società italiana si merita tutto questo? Eppure la musica (e quella corale in particolare) deve svolgere un ruolo fondamentale nella formazione della persona, partecipando quotidianamente al suo processo di sviluppo individuale e sociale all’interno della scuola. Sin dall’infanzia, la musica deve poter far parte di quel progetto formativo generale il contenitore naturale e istituzionale del quale è la “scuola”. In tale progetto, la pratica corale deve svolgere un ruolo principale, non foss’altro perché nell’ambito della didattica musicale, essa è la disciplina più altamente formativa della psiche e dell’intelletto dell’individuo. Mai come oggi, il verbo “educare” è stato un termine a parole così sacro e nei fatti un’utopia tanto irraggiungibile. Il canto corale è una forma di espressione universale, senza età che permette di gettare ponti fra differenti culture, fra diverse generazioni ed eterogenei gruppi sociali. Far musica insieme induce un senso di comunità, valorizza le capacità 128
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percettive e favorisce la mutua comprensione. In una parola: rende la società più comunicativa e aiuta a incontrarsi senza pregiudizi e con più tolleranza. I paesi d’Europa nei quali l’insegnamento scolastico della musica non è rimasto soltanto una sterile dichiarazione di intenti ma si è trasformato in qualche cosa di vivo e di palpitante nelle coscienze degli individui; nei quali ci sono più cori e complessi di musica d’insieme che discoteche, sono quelli socialmente e civilmente più evoluti. “La musica – ricordava Kodály – non è un privilegio per pochi ma un bene per tutti”. La musica deve appartenere a tutti e tutti devono essere messi nelle condizioni di beneficiarne, non casualmente ma attraverso un rigoroso itinerario scolastico. Lo sanno questo i nostri rappresentanti politici, alle prese con sondaggi e indici di gradimento, anziché con il senso dell’impegno nel nome della res publica ovvero del bene comune? È sicuramente vero che chi canta in coro conquista la capacità di comprendere la bellezza dell’universo; manifesta la sua gioia; esce dall’isolamento nel quale lo tiene la società moderna; comunica con gli altri esseri viventi; possiede la facoltà di agire e di operare verso la diuturna aspirazione alla perfezione. Dall’armonia della voce nasce l’armonia dello spirito. Non a caso l’armonia degli astri coincide con l’armonia dei suoni musicali. E l’armonia musicale, specie se espressa col canto, abitua all’ordine e al rigore; sviluppa l’armonia di tutte le manifestazioni umane, nello spirito come nell’intelletto; insegna a essere modesti ovvero consapevoli delle proprie risorse e umili, ovvero delle difficoltà che vi sono per raggiungere la meta. Cantare serve a donare un sembiante di eternità a pensieri e a parole che altrimenti non avrebbero senso. Le emozioni più forti dell’animo umano, la felicità, l’amore, la sofferenza, il dolore sono come personificate dalla voce, la quale libera un messaggio che risuona e suscita sensazioni sempre diverse e mutevoli in colui che ascolta. Già nel sesto secolo prima dell’era cristiana, Pitagora poneva la musica al primo posto nell’educazione dell’uomo e la considerava una medicina dell’anima. Platone, la avvicinava alla filosofia fino al punto di identificarla con essa. Agli albori del Medioevo, Boezio riteneva turpe l’uomo che non possedeva la conoscenza della musica e delle lettere, mentre Isidoro di Siviglia, nelle sue Etymologiae sive Origines, affermava che senza musica nessuna disciplina poteva considerarsi perfetta: senza musica non esiste nulla. Guido d’Arezzo non esitava ad affibbiare il poco encomiastico appellativo di “bestia” a coloro i quali praticavano la musica senza conoscerne l’intima essenza mentre san Tomaso d’Aquino considerava vergognoso non saper cantare e lo valutava tanto grave quanto non saper leggere. Codice 602
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In piena epoca rinascimentale, Shakespeare poneva sulla bocca di Lorenzo, all’inizio del quinto atto del Mercante di Venezia, parole profetiche sulle virtù della musica: “L’uomo che non ha alcuna musica dentro di sé, che non si sente commuovere dall’armonia di dolci suoni, è nato per il tradimento, per gli inganni, per le rapine. I moti del suo animo sono spenti come la notte, i suoi appetiti tenebrosi come l’Erebo. Non fidarti di lui. Ascolta la musica”. Nietzsche sosteneva che “una vita senza musica non è una vita”. Potremmo continuare così all’infinito e troveremmo sempre nei pensieri dei filosofi, dei poeti, dei letterati, degli uomini di cultura, degli educatori, del passato come del presente, espressioni analoghe a quelle appena riportate. Dalla scuola materna si deve cominciare, altro che storie! Con metodo, intelligenza, sensibilità. Nel bambino la sensibilità si risveglia dalle sensazioni che egli riceve. Più tardi le riceve, meno sviluppate risulteranno le sue capacità musicali. L’educazione al suono e alla musica deve essere attiva, vivificante per influenzare lo sviluppo delle capacità dell’individuo. Educare alla musica e con la musica. Autorevoli studi di psicologia hanno dimostrato come le attitudini mentali del bambino siano le più idonee per un apprendimento precoce della musica. Fin da quando vive nel grembo materno, egli assorbe tutto ciò che il mondo circostante gli trasmette e ne fa tesoro, una volta nato, nel momento della rielaborazione e della verifica cognitiva di ciò che ha appreso. Orecchio e voce sono due elementi legati indissolubilmente fra loro. Coltivando la voce si migliora anche la qualità uditiva dell’orecchio. Per questa ragione la pratica corale è un fattore importantissimo nel processo educativo del bambino. Essa deve diventare prassi comune dell’iter didattico non un qualche cosa di episodico o, peggio ancora, di eccezionale. “Le prime abitudini”, sosteneva Rousseau, “sono le più forti”. Come può esservi familiarità con la musica se non la si pratica fin dalla più tenera età? L’educazione musicale, come ogni altra disciplina, è un processo naturale che si svolge e progredisce in virtù di esperienze dirette effettuate in ambito scolastico. Nel nostro paese si pretende invece che a dodici-tredici anni, con il vuoto musicale pressoché assoluto alle spalle, un ragazzo prenda in mano un violino e diventi un novello Paganini. Chi lo potrà fare in maniera consapevole? Soltanto chi avrà ricevuto un’adeguata educazione musicale in seno alla famiglia, frequentando la scuola materna, partecipando a un coro di voci bianche o facendo pratica strumentale di gruppo. Non siamo di certo noi i primi ad affermare l’enorme importanza che riveste una precoce educazione musicale per la formazione globale della persona e a ricordarne qui gli indiscutibili benefici. E, si badi bene, non si tratta dei benefici di una semplice “informazione”, la quale è mera conoscenza ed elencazione di dati esteriori; neppure di semplice “pratica 130
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musicale”, importante senza dubbio, ma tale che, se non incastonata entro un progetto didattico mirato e non armonizzata con un sapere generale, potrebbe rimanere avulsa da un contesto di cultura e di indagine interiore e non andar oltre lo stadio di pura tecnica; neppure si pone l’accento sulla “istruzione”, intesa come un prosieguo logico e ordinato di conoscenze, il rischio delle quali può essere quello di chiudersi in una sfera intellettualistica. L’educazione riguarda l’uomo, la sua completa formazione; vuole da lui stesso cavar fuori – secondo, anche, il significato etimologico del verbo “educare” che deriva dal latino e-ducere – quanto di meglio egli possiede, in modo che la sua autentica personalità si riveli e abbia coscienza di se stessa, si sviluppi armoniosamente e fiorisca secondo le capacità e le inclinazioni che le sono proprie. In tale caso si può parlare solo di “benefici” apportati da un’educazione musicale che risulta valore autentico. Allora, solo allora l’educazione annovererà anche le informazioni, le pratiche, le istruzioni sopra ricordate, fondendole unitariamente e superiormente. Per questi motivi l’educazione musicale riesce a portare il discepolo all’interno stesso della musica e a portare la musica nel cuore della personalità del discepolo. L’allievo diventa così non solo uditore o ripetitore o esecutore, ma musicus, in quanto scienza e pratica si fondono allora in lui in una superiore conoscenza e in una mirabile sintesi. Riteniamo che prima sorprenda e poi generi fastidio quanto riportato nella Relazione del Corpo ispettivo sull’andamento generale dell’attività scolastica e dei relativi servizi per l’anno 1980-1981, là dove si legge che “nell’imminenza della riforma dei programmi d’insegnamento elementare, non si perda d’occhio l’importanza di una vera educazione musicale precoce. Dal momento nel quale i bambini arrivano a scuola, si dovrebbe cominciare a nutrire di esperienza musicale il loro spirito, per sviluppare il senso del ritmo e la percezione dell’altezza dei suoni, esattamente come in loro si sviluppa il colpo d’occhio e il senso della misura e delle distanze: capacità che certamente non sono innate”. Parole profetiche, queste degli ispettori ministeriali, rimaste peraltro drammaticamente inascoltate se, a sei lustri di distanza dalla stesura di quella relazione, siamo ancora costretti a denunciare una situazione a dir poco disastrosa dell’insegnamento della musica in Italia, nella scuola primaria e non solo in quella. Infatti, non ci risulta che, a tutt’oggi, sia stato predisposto alcun documento ministeriale in materia di riforma dell’insegnamento della musica della scuola primaria e secondaria che preveda che d’ora in poi, a tutti i bambini e a tutte le bambine della scuola elementare sia garantita, col contributo di personale qualificato ed esperto nel settore, un’educazione musicale centrata sulla pratica corale e strumentale, oltre che sulla conoscenza degli elementi di base del linguaggio musicale; che sia assicurata loro la possibilità di iniziare lo studio di uno strumento musicale fin dal Codice 602
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ciclo primario; che sia consolidato l’indirizzo musicale nella scuola secondaria di primo grado, assicurando l’attivazione di un numero adeguato di corsi in ogni provincia, sulla base delle richieste avanzate dai varî istituti; che sia rafforzata la presenza della musica nel curriculum generale delle scuole secondarie di secondo grado; che sia resa operativa l’istituzione dei licei musicali con l’assunzione di personale specificamente preparato e predisponendo, con opportuni finanziamenti, sedi adeguate e attrezzature idonee; che siano promosse e sostenute tutte le iniziative necessarie per creare un circolo virtuoso tra strutture formative e istituzioni di produzione e di diffusione della cultura e della pratica musicale. E pensare che soltanto privilegiando questo percorso l’Italia potrebbe davvero ambire a diventare un paese come tanti altri in Europa nel quale la musica la si insegna sul serio. Altrimenti, perdurando l’attuale situazione, l’Italia continuerà ad essere un paese di sordi e di analfabeti musicali. Vogliamo fare qualche esempio? In un’inchiesta pubblicata tempo fa dalla casa editrice Il Mulino di Bologna, su un campione di 60.000 soggetti, nella fascia d’età compresa fra i quindici e i ventiquattro anni, il 23% non ascolta mai, sponte sua, alcun tipo di musica. Mai! Il 26%, molto raramente, cioè per caso, di rimbalzo, mai per scelta. Per la metà dei giovani italiani, la musica – tutti i generi di musica – resta un universo alieno, muto. Se dal consumo passiamo alla pratica, la situazione è ancora peggiore. Soltanto il 9% della popolazione sa suonare bene o male uno strumento: una percentuale questa, rappresentata per grandissima parte dai ragazzini di età compresa fra gli undici e i quindici anni che testimonia quanto importante se non decisivo sia l’insegnamento dell’educazione musicale impartita in età precoce, sui banchi di scuola e non lasciata al libito dell’iniziativa personale così come la riforma dei cicli scolastici prevederebbe. Che l’Italia sia un paese nel quale la musica, quella seria per intenderci, occupa un posto del tutto insignificante nella società civile, lo aveva compreso assai bene anni fa il grande direttore d’orchestra Sergiu Celibidache. All’imprudente domanda di un giornalista che gli chiedeva che cosa pensasse della situazione musicale italiana, visto che lui in Italia aveva soggiornato a lungo, diretto moltissimo e anche tenuto memorabili corsi di perfezionamento, la risposta del Maestro fu una di quelle che non lasciano scampo: “Che straordinario e strano paese è il vostro”, disse allo sprovveduto cronista. “Una volta ci si veniva per apprendere la musica. Si trattava di un viaggio obbligato per ogni musicista che volesse apprendere i segreti dell’arte dei suoni. Ed era un’avventura meravigliosa: basta leggere le lettere di Mozart o di Mendelssohn, per rendersene conto. Ma, oggi, di questo passato, non è rimasto più nulla. L’Italia fa scuola nel mondo della moda e va benissimo in questo senso per chi voglia comperare vestiti, camicie, scarpe e calze, ma per la musica è meglio 132
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lasciar perdere. In questo versante si può soltanto perdere tempo”. Esagerava il Maestro rumeno rilasciando questo implacabile giudizio sulla situazione musicale italiana oppure non faceva altro che rilevare, sia pure con espressioni colorite, un dato di fatto e per giunta incontrovertibile? Chi se la sente qui di affermare che la musica gode in Italia di quella considerazione, di quell’importanza, di quel peso nella vita sociale del cittadino che meriterebbe? Mai come nel momento attuale la musica occupa in Italia un ruolo periferico, per non dire ininfluente, nel quadro pedagogico dedicato alla formazione dell’individuo. Ormai in Italia sta estinguendosi ogni residua traccia di cultura musicale. Ma se in ogni parte d’Europa, lo strumento “coro” è davvero considerato un formidabile veicolo di azione e promozione sociale, civile e culturale, nel nostro Paese esso gode di scarsa considerazione. Lo si avverte soprattutto nei programmi della scuola dell’obbligo, dove alla pratica del canto corale è concesso uno spazio angusto, per non dire del tutto marginale. L’inutile didassi del solfeggio parlato, la provata vacuità delle nozioni di teoria musicale, le stereotipate formulette di storia della musica hanno tutto lo spazio per imporsi e trionfare in un contesto del genere. D’altra parte è inutile illuderci: finché questa situazione rimarrà egemone nella didattica scolastica nazionale, la musica corale avrà poco da sperare per il riconoscimento del suo valore educativo. È amaro doverlo constatare, ma in Italia non esiste ancora un progetto educativo che abbia nella diffusione del sapere musicale e nel conseguimento di un’esperienza sociale attiva della musica il suo punto di forza. Eppure già agli inizi del nostro secolo Alberto Savinio, nella sua Scatola sonora (Milano, Ricordi, 1955), affermava che “la musica è elemento essenziale dell’educazione” e che “non può esservi civiltà senza musica. La musica insegna a vivere, nel senso più profondo e metafisico della parola. E quella sola civiltà sarebbe perfetta ove tutto quanto, uomini e cose, si movesse a suon di musica”. Non mi stancherò mai di dirlo: la riscoperta del gusto di fare musica d’insieme a livello amatoriale, come attestano le migliaia di formazioni corali presenti sul territorio italiano, è senza dubbio la dimostrazione lampante dello sviluppo proprio di quell’area socializzabile del sapere musicale inerente alla prima e più immediata sfera pratica del fatto sonoro: la sua proiezione vocale. Ma questo momento propizio rischia di andar sciupato, di essere dissipato in fretta. E ciò non tanto a causa del divario fra progetti e realizzazioni né per la difficoltà di conciliare la qualità con la quantità, quanto, piuttosto, per la spaventosa carenza che si riscontra a livello di educazione musicale di base; per la macroscopica assenza di progetti istituzionali organici e omogenei che contemplino un percorso educativo senza Codice 602
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soluzione di continuità dalla scuola materna ed elementare fino all’università. Troppo stridente è, infatti, la separazione tra crescita della domanda musicale di massa e l’appropriazione collettiva del linguaggio musicale. Che si tratti di questioni strutturali, nessuno – penso – può avere nulla da ridire. Che quelle del nostro Paese non siano sufficienti (a livello scolastico, e non solo di quello) a rispondere alla richiesta che viene dalla base non è soltanto ovvio, è più che naturale. In un’Italia nella quale, fino a pochi anni fa, l’organizzazione degli studi musicali a livello di scuola elementare e media era equiparabile a quello dei paesi del sud-est asiatico più arretrati (Afghanistan, Cambogia, Ceylon, Thailandia, Repubblica Dominicana, Vietnam), come avrebbero potuto andare altrimenti le cose? Non c’è molto da stupirsi di ciò: scontiamo purtroppo le conseguenze di un livello culturale bassissimo nel quale la musica ha finora stentato a trovar collocazione adeguata all’importanza che riveste nel processo di formazione globale dell’individuo. È un fatto incontestabile che, nonostante i numerosi progetti di riforma messi a punto in questi anni per la scuola, senza peraltro approdare ancora a seri e pratici risultati concreti (salvo, naturalmente, le lodevolissime quanto rare eccezioni!) e la stesura di nuovi programmi per la scuola elementare e media fra i più avanzati d’Europa ma anche fra i meno applicati d’Europa, il problema dell’alfabetizzazione musicale nel nostro Paese sia pur sempre un argomento drammaticamente aperto. Se pensiamo a quanto è cambiata la nostra società negli ultimi decenni, possiamo farci un’idea abbastanza chiara dell’arretratezza culturale nella quale ancor oggi versa l’Italia in campo musicale. Forse, mai come oggi, la musica – “regina delle arti” per eccellenza – è stata tanto lontana e inavvicinabile, come divinità aristotelica, fascinosa, onnipossente e insensibile al coro delle sue creature. Perché la musica sia musica, non basta che si vada a concerto, si ascoltino radio, televisione o dischi. È necessario che chi vive in maniera attiva un’esperienza musicale, instauri un rapporto di competenza e affinità linguistica con quanto gli viene proposto; sia in grado – cioè – di comprenderne appieno le valenze significative a livello di linguaggio musicale. Che significato può avere far musica, se il “fare” vuol dire soltanto usufruire o, peggio ancora, subire? In siffatta situazione, la pratica corale può e deve svolgere un ruolo principale, non foss’altro perché essa è la disciplina più altamente formativa della psiche e dell’intelletto umano. Imperniata com’è sulla partecipazione totale della mente, la pratica corale sviluppa l’attenzione, la concentrazione e la riflessione mentale, le facoltà logiche e percettive, la memoria e l’orecchio, l’intuizione, la prontezza di riflessi. Se è vero, com’è vero, che l’attività corale è alla base dell’educazione sociale e civile dell’individuo perché nel nostro Paese questa prassi è ancora così trascurata? Perché i risultati conseguiti dai Paesi europei 134
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maggiormente evoluti in questo campo (dalla Svezia all’Olanda; dalla Germania all’Ungheria; dai Paesi baltici alla Russia) non vengono nemmeno presi in considerazione nonostante essi ci mostrino, con vivida crudezza, quanto questi traguardi non solo siano disponibili ma facilmente realizzabili, a prescindere dall’età e dal grado di preparazione musicale di base di chi intende usufruirne. L’incredibile carenza educativa in questo settore ha finito per accreditare l’iter di studio dei Conservatori di musica come l’unica possibilità di accesso al conseguimento di una competenza musicale. In tal modo ha creato un’accentuata frattura tra la crescita della domanda musicale di massa (della quale il canto corale è l’espressione più emblematica) e i troppi stretti confini di un’organizzazione specialistica di quella competenza, e di un processo educativo necessariamente rivolto alla formazione di specifiche figure professionali. Una simile forbice rappresenta solo in parte una necessità implicita allo sviluppo dell’attuale organizzazione delle conoscenze musicali a livello professionale; per altri versi rappresenta una distorsione di tale sviluppo sulla quale è possibile quanto urgente intervenire con opportuni correttivi. Chi pensasse oggi di potersi accostare alla musica e alla pratica corale frequentando il Conservatorio rimarrebbe probabilmente deluso perché questa scuola non sempre privilegia sufficientemente l’approccio alla musica per mezzo del canto corale. Nonostante che il Conservatorio sia dotato di programmi e norme che impongono agli allievi che frequentano i corsi strumentali di seguire anche le lezioni di pratica corale, di fatto non tutti vi partecipano, ritenendo questa attività una perdita di tempo se non addirittura musicalmente inutile. Eppure il conseguimento di una competenza musicale non è cosa necessariamente specialistica né un traguardo irraggiungibile nell’ambito della pratica corale; viceversa costituisce esattamente quell’area socializzabile del sapere musicale (alla quale già s’è fatto riferimento) che non è in alcun modo surrogabile con l’inutile didassi del solfeggio parlato o, peggio ancora, dell’apprendimento per imitazione. Nonostante queste riflessioni, non tutte positive, non si può certo dire che la coralità amatoriale italiana non goda attualmente di buona salute. Sono, infatti, ormai numerosi i cori nostrani in grado di competere alla pari con le più prestigiose formazioni corali europee, sia per qualità vocale sia per scelta di repertorio. Il fatto che questo risveglio si manifesti in una situazione italiana fino ad oggi caratterizzata da un’egemonia strumentista quasi totale e dove non esistono radici di una tradizione corale ininterrotta, mantenuta viva nel tempo, dal Rinascimento ad oggi; questo risveglio – si diceva – assume un significato ancor più particolare e importante. Nel suo continuo farsi di tecnica, di arte, di pensiero, di esperienze Codice 602
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vissute, la musica corale fonda il proprio diritto di rientrare a pieno titolo in quella comunità del sapere che nei secoli passati l’avevano vista protagonista indiscussa e autorevole. E se bussa alla porta e chiede con insistenza di essere riammessa nel consesso della cultura, non lo fa soltanto perché è ansiosa di imporre le sue leggi, ma perché ha dei doveri da assolvere. La musica corale vuole essere integrata per recare alla cultura il suo contributo. Non chiede soltanto, vuole donare.
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Studi sulla Musica a Lucca
Storie di canzonette del ms 774 di Lucca
di Massimo Lombardi*
Introduzione Il manoscritto 774, vale a dire l’Intavolatura di leuto da sonare e cantare 1, è una preziosa, suggestiva ed articolata testimonianza musicale italiana, risalente al periodo tardo rinascimentale e conservata presso la Biblioteca Statale di Lucca. Composto da 49 fogli, è sostanzialmente diviso in due parti: una prima contiene esclusivamente danze intavolate per liuto ed una seconda è dedicata alla musica vocale che, scritta su esagramma o in notazione mensurale, propone anche i testi poetici. Seppure simile a molti altri codici coevi, il lucchese merita un’attenzione specifica; pur non rappresentando un’opera mastodontica, una semplificazione sarebbe irrispettosa del valore che ci restituisce. Prodotto autoctono della città, realizzato negli anni a cavallo tra i secc. XVI e XVII, è autodescrittivo del suo utilizzo in ambienti popolari, non di etichetta. Il codice, che istintivamente annota in sé materiali all’epoca in auge, è un trait d’union tra le comuni pratiche musicali e le necessità sociali a cui erano destinate. È una fotografia a tuttotondo rappresentativa di quell’impasto culturale che non può che mostrarsi come un’impronta autentica della nostra storia. Imbattersi in questo manoscritto significa poter fruire di una narrazione vera, che s’innerva nella realtà quotidiana e nelle consuetudini sociali. * Massimo Lombardi è laureato musicologia, presso l’Università degli Studi di Milano, con pieni voti assoluti e lode; in chitarra classica, presso il Conservatorio “Guido Cantelli” di Novara, con il massimo dei voti; in musicoterapia ha ottenuto il titolo di Tecnico del modello Benenzon, presso il Centro Musicoterapia Benenzon Italia di Torino, con il massimo dei voti. Dedicatosi anche all’esecuzione su strumenti storici, svolge attività concertistica ed ha al suo attivo numerose produzioni discografiche per Tactus, Stradivarius, Opus 111, etc. Si occupa di ricerca musicologica. È docente di chitarra classica presso la Scuola di musica Dedalo di Novara. 1 Lucca, Biblioteca Statale (ex Governativa) I-Lg, ms 774, RISM B/VII, pp. 195-196. Codice 602
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In quelle pagine è descritto il mondo visto e vissuto da sotto la pelle di un’umanità che incornicia la sua produzione culturale. Tale autenticità lega insieme l’atto artistico alla causa che lo ha generato e mostra tutto il complesso e intricato fermento sotterraneo che spinge l’uomo a creare oggetti rappresentativi di sé e della sua realtà. Artefatto culturale 2 che riunisce forme compositive fondamentali del processo evolutivo, con la sua spontanea fruibilità il volumetto divenne un’autentica sintesi della sua epoca, giacché fu esso stesso parte attiva della pratica musicale che lo generò. Insomma, pare semplice intravedere un emblema della proprietà transitiva esistente tra uomo, musica e società, dove ogni elemento si manifesta facendo però trasparire gli altri. Questo piccolo codicetto non è quindi una clamorosa opera in cui un compositore ha espresso il suo genio al “mondo”; diversamente, è il prodotto di un “mondo” che, attraverso l’uomo, ha manifestato se stesso.
Protocollo di lavoro Nella sua conformazione complessa ed articolata, molte sono le peculiarità che pongono affascinanti interrogativi e spunti per indagare. Questo lavoro3 si è concentrato su uno dei molti: le undici musiche dedicate al canto, alcune delle quali sicuramente da accompagnare con il liuto; il volume complessivo di questo materiale equivale a circa un quarto dell’intero contenuto del codice. Ovvie sono le domande: di che si tratta? Chi le ha composte? Qual è la loro genesi? Hanno una storia editoriale che le rende raggiungibili e confrontabili? Il ms 774 risulta molto consultato e per nulla sconosciuto alla ricerca; numerosi sono stati gli studiosi interessati al suo contenuto. I loro contributi, preziosissimi per cominciare ad organizzare un piano di lavoro su solide basi, sono sinteticamente descrittivi del complessivo contenuto4. Un interesse più specifico sembra essere stato dedicato alla parte letteraria,
2 Paolo Inghilleri, Eleonora Riva, Ilaria Cutica, Manuela Lavelli, Federica de Cordova, Psicologia culturale, a cura di Paolo Inghilleri, Milano, Raffaello Cortina, pp. 92-96/92: “[…] il termine artefatto è stato ampliamente utilizzato in psicologia culturale: con esso si definisce ogni ente non presente in natura ma costruito o prodotto dall’uomo”. 3 Prosieguo degli studi fatti per redigere la Tesi di Laurea: Intavolatura di leuto da sonare e cantare, Indagine sul codice 774 della Biblioteca Statale di Lucca, di Massimo Lombardi, relatore: Chiar.mo Prof. Davide Daolmi, correlatore: Chiar.mo Prof. Cesare Fertonani, Università degli Studi di Milano, Facoltà di Lettere e Filosofia, Corso di Laurea Magistrale in Musicologia e Beni Musicali, a.a. 2013-2014. 4 Raffaello Baralli, B.S.L. ms 3326, Biblioteca Statale di Lucca, voce: ms 774, Intavolatura di leuto per sonare e cantare, cc. 11r-13v; Franco Rossi, Manoscritti di opere italiane per liuto, in «Il Fronimo», X/38, Milano, Suvini Zerboni, gennaio 1982, pp. 45-52/48.
140
Storie di canzonette del ms 774 di Lucca
che risulta maggiormente presente e dettagliata nelle opere divulgative5; non risultano però analisi musicali-comparative più specificamente volte a tentare di dare – oltre al titolo – un nome, un cognome e possibilmente una datazione alle composizioni. Giovanni Sforza (1846-1922), in un articolo del 1886, oltre ad elencare le “poesie musicali”, ne trascrive i testi ed attribuisce la paternità delle canzonette, ritenute prive di storia editoriale, ad un anonimo lucchese6. Insomma, è parso giustificato l’avvio di un nuovo approfondimento. Il primo passo è stato quello di tentare di individuare relazioni esistenti tra le liriche del codice con omonime composizioni di autori coevi o precedenti, ricostruendone le storie editoriali. Si sono poi trascritte e confrontate le musiche (intavolatura e/o notazione) e le liriche del ms 774 con l’equivalente contenuto delle testimonianze disponibili. Le comparazioni hanno dimostrato l’uguaglianza dei contenuti e le paternità delle canzonette/villanelle sono state svelate; esse7 risultano presenti in pubblicazioni che vantano importanti storie editoriali, riconducibili a prestigiosi musicisti ed editori vissuti a cavallo dei secc. XVI e XVII. Prima di descrivere lo studio effettuato su ogni singola composizione, è utile avere una visione sinottica delle informazioni raccolte e disponibili, cioè dei titoli delle composizioni indagate, dei testimoni che le includono e della loro fortuna editoriale. Tali sostanze sono organizzate in tabelle che, se integrate, forniscono complessive informazioni rilevanti. Per facilitarne la lettura e rendere più agevole e comprensibile il protocollo di lavoro e le modalità di analisi impiegate, è bene illustrare la strategia utilizzata. Nella tab. A sono elencati i titoli delle composizioni vocali contenute nel lucchese8 alle quali sono assegnati, per brevità di richiamo, dei numeri tra parentesi. 5 Giovanni Sforza, Poesie musicali del sec. XVII, in Il giornale storico della letteratura italiana, vol. VIII, a cura di Arturo Fraf, Francesco Novati, Rodolfo Reiner, Torino, editore Ermanno Loescher, 1886; pp. 312-318; Maria Bianca Galanti, Le villanelle alla napolitana, Biblioteca dell’Archivium Romanicum fondata da Giulio Bertoni, vol. 39, Firenze, Leo S. Olschki, 1956, pp. 15, 204. 6 Giovanni Sforza, ibidem, pp. 312: “Il cod. della biblioteca pubblica di Lucca, contrassegnato col numero d’ordine 774, contiene alcune poesie musicali, che, per quanto credo, non hanno mai veduto la luce, e che senza dubbio sono di penna lucchese, e affatto originali, essendovene d’alcune il primo sbozzo, co’ pentimenti e le cancellature ed i rifacimenti dell’autore; il cui carattere non m’è punto novo, sebbene non sappia, qui su’ due piedi, ritrovare di chi sia, in tanta e così numerosa schiera di poeti, che anche Lucca ebbe nel Cinquecento”. 7 Unica eccezione è la canzonetta Sian [fiumi e] fonti (c. 44r), della quale non è stato possibile risalire ad un testimone confrontabile. 8 Di ogni composizione è precisata anche la carta di riferimento. Codice 602
141
Massimo Lombardi
tab.
A) Legenda delle canzonette del ms 774
(1)
Occhi dell’alma mia vivaci e soli
c. 32r, c. 47r
(2)
Ancora che tu m’odii
c. 41v
(3)
Quando mirai sa bella faccia d’oro
c. 42r, c. 44v
(4)
Donna mi fuggi
c. 42v
(5)
Tutta gentile e bella
c. 43r, c.4 5r
(6)
M’ha punto amor
c. 43v
(7)
Sian [fiumi e] fonti
c. 44r
(8)
Porgemi cara Filli
c. 46r
(9)
Mentre amor dentro al mio petto
c. 47v
(10)
Non ved’hoggi il mio sole
c. 48r
(11)
Per mostrar d’esser bella
c. 49r
Nella tab. B sono rubricati tutti i testimoni coinvolti nella presente disanima. Essi, stilati in ordine progressivo, sono catalogati citando i codici numerici di riferimento presenti nei volumi del Nuovo Vogel, Bibliografia della musica italiana vocale profana pubblicata dal 1500 al 1700.9 10 tab.
B) Legenda dei testimoni catalogati sul Nuovo Vogel (N.V.)
n. N.V. anno 34 53 bis10 54 55 56
Autore, titolo
Gregor Aichinger, Sacrae Cantiones quator (sic) quinque, sex, octo, et decem vocum, Venetijs apud Angelum Gardanum; Felice Anerio, Canti due Canzonette, a una sola voce, Libro unico, (?)1522 Venezia, presso Giacomo Vincenti; Felice Anerio, Canzonette, a quattro voci, Libro Primo, Venezia, 1586 presso Giacomo Vincenti e Ricciardo Amandino, compagni; Felice Anerio, Canzonette, a quattro voci, Libro Primo, Milano, 1590 presso Francesco e gli eredi di Simon Tini; Felice Anerio, Canzonette, a quattro voci, Libro Primo, Venezia, 1592 presso Giacomo Vincenti; 1590
9 Emil Vogel, Alfred Einstein, Francoise Lesure, Claudio Sartori, Bibliografia della musica italiana vocale profana pubblicata dal 1500 al 1700: Il nuovo Vogel, Pomezia, Staderini, 1977. 10 Emil Vogel, Alfred Einstein, Francoise Lesure, Claudio Sartori, ibidem, pp. 36-37: “Trattasi evidentemente di una edizione erronea. La data di stampa (1522) è insostenibile. Forse potrebbe essere un errore per 1592 (M.D.XXII invece di M.D.XCII). Infatti il contenuto è identico al n. 56 (Venetia, G. Vincenti, 1592). E a piede di p. 7 si legge: Canzonette di Felice Anerio. Lib. 1 a 4. […]”. Il riferimento n. 56 riconduce ad una ristampa della prima edizione (n. 54) «Canzonette a quattro voci di Felice Anerio romano, discepolo del signor Gio. Maria Nanino, nuovamente composte, et date in luce. Libro Primo. In Venetia, presso Giacomo Vincenti, e Ricciardo Amadino compagni. 1586». L’edizione del 1607, utilizzata in questo lavoro, ha il medesimo indice delle precedenti pubblicazioni (nn. 54, 55, 56 e 57 N.V.) – disponibile presso il Museo internazionale e Biblioteca della musica di Bologna.
142
Storie di canzonette del ms 774 di Lucca
11
57
1597
58
1607
59
1610
283
1587
296
1578
31711
1595
325
1575
378
1601
403
1584
404
1591
406
1590
411
1587
517
1592
713
1586
714
1596
715
1604
815
1620
871
1588
959
1585
960
1591
961
1573
Felice Anerio, Canzonette, a quattro voci, Libro Primo, Venezia, presso Giacomo Vincenti; Felice Anerio, Canzonette, a quattro voci, Venezia, presso Giacomo Vincenti; Felice Anerio, Canzonette, a quattro voci, Anversa presso Pietro Phalesio al re David; Giovanni Bassano, Canzonette, a quattro voci, Venezia, presso Giacomo Vincenzi; Bellasio Paolo, Il Primo Libro de Madrigali, a cinque voci, Venezia, presso l’erede di Girolamo Scotto; Giulio Belli, Canzonette di, Libro Primo, a quattro voci, Venezia, presso Angelo Gardano; Benedetto Serafico di Nardò, Il Primo Libro delli Madrigali, a cinque voci, Venezia, presso Giuseppe Guglielmo; Valerio Bona, Madrigali et Canzoni, a cinque voci, Libro Primo, Venezia, presso Angelo Gardano; Cesare Borgo, Canzonette, Libro Primo, a tre voci, Venezia, presso Giacomo Vincenzi, e Ricciardo Amadino, compagni; Cesare Borgo, Canzonette, Libro Primo, a tre voci, Milano, per Michel Tini; Arcangelo Borsaro, Il Secondo Libro delle Canzonette, a tre, e a quattro voci, Venezia, presso Riccardo Amadino; Arcangelo Borsaro, Il Primo Libro delle Villanelle, Venezia, presso Riccardo Amadino; Giovanni Cavaccio, Canzonette, a tre voci, Venezia, presso Ricciardo Amandino; Rinaldo Del Mel, Il Secondo Libro delli Madrigaletti, a tre voci, Venezia, presso Angelo Gardano; Rinaldo Del Mel, Madrigaletti, a tre voci, Libro Secondo, Venezia, presso Angelo Gardano; Rinaldo Del Mel, Madrigaletti, a tre voci, Libro Secondo, Venezia, presso Angelo Gardano; Richard Dering, Canzonette, a quattro voci, con il basso continuo, Anversa presso Petro Phalesio al re David; Giovanni Andrea Dragoni, Il Primo Libro delle Villanelle, a cinque voci, Venezia, presso l’erede di Girolamo Scotto; Giovanni Ferretti, Il quinto libro delle canzoni alla napoletana, a cinque voci, Venezia, presso l’erede di Girolamo Scotto; Giovanni Ferretti, Il quinto libro delle canzoni alla napoletana, a cinque voci, Venezia, Presso l’erede di Girolamo Scotto; Giovanni Ferretti, Libro delle Canzoni alla napoletana, a sei voci, In Vinegia, presso Girolamo Scotto;
11 Si tratta di una ristampa dell’edizione del 1584, (RISM: B-1773); questo volume (RISM B-1775) è privo di lettera dedicatoria e con l’aggiunta di due canzonette (Ancora che tu m’odij anima mia e Ohimè crudel amore). I volumi (collocazione R. 306, R.304) sono entrambi disponibili presso il Museo internazionale e Biblioteca della musica di Bologna. Codice 602
143
Massimo Lombardi
962
1576
963
1581
1052
1594
1192
1609
1241
1588-1
1242
1588-2
1243
1591
1244
1594
1245
1600-1
1246
1600-2
1247
1624
1308
1590
1339
1612
1546
1582
1789
1604
1845
1581
2064
1596
2137
1588<
2213
1598
2214
1599
2215
1615
2221
1582
2222
1582
2291
1588
Giovanni Ferretti, Libro delle Canzoni alla napoletana, a sei voci, Venezia, presso l’erede di Girolamo Scotto; Giovanni Ferretti, Primo Libro delle Canzoni alla napoletana, a sei voci, Venezia, presso l’erede di Girolamo Scotto; Giovanni Battista Galeno, Il Primo Libro de Madrigali, a cinque voci, Anversa, Presso Pietro Phalesio et Giovanni Bellero; Giovanni Ghizzolo, Canzonette et Arie, a tre voci, Libro Primo, Venezia, presso Alessandro Raverij; Ruggiero Govanelli, Il Primo Libro delle Villanelle et Arie alla napoletana, a tre voci, Venezia, presso Giacomo Vincenti; Ruggiero Giovanelli, Il Primo Libro delle Villanelle et Arie alla napoletana, a tre voci, Roma, presso Alessandro Gardano; Ruggiero Giovanelli, Il Primo Libro delle Villanelle et Arie alla napoletana,, a tre voci, Venezia, presso Giacomo Vincenti; Ruggiero Giovanelli, Il Primo Libro delle Villanelle et Arie alla napoletana, a tre voci, Venezia, presso Giacomo Vincenti; Ruggiero Giovanelli, Il Primo Libro delle Villanelle et Arie alla napoletana, a tre voci, Venezia, presso Angelo Gardano; Ruggiero Giovanelli, Il Primo Libro delle Villanelle et Arie alla napoletana, a tre voci, In Venezia, presso Giacomo Vincenti; Ruggiero Giovanelli, Il Primo Libro delle Villanelle et Arie alla napoletana, a tre voci, Venezia, presso Bartholomeo Magni; Hans Leo Hassler, Canzonette, a quattro voci, Norimbergae, imprimebantur in officina typographica Catharinae Gerlachiae; Antonio Il Verso, Il Primo Libro delle Villanelle, a tre voci, In Venetia, presso Giacomo Vincenti; Giovanni De Macque, Secondo Libro de Madrigaletti et Napolitane, a sei voci, Venezia, presso Angelo Gardano; Lorenzo Medici, Il Secondo Libro delle Canzoni, a tre voci, Venezia, presso Giacomo Vincenti; Domenico Micheli, Il Quinto Libro de Madrigali, a cinque voci con uno Dialogo a dieci, Venezia, presso Angelo Gardano; Alessandro Orologio, Canzonette, a tre voci intavolate per suonar di liuto, Venezia, presso Giacomo Vincenti; Giuliano Paratico, Canzonette, a tre voci, Brescia, presso Pie; Maria Marchetti; Peter Philips, Madrigali, a otto voci, Anversa, Presso Pietro Phalesio; Peter Philips, Madrigali, a otto voci, Anversa, Presso Pietro Phalesio; Peter Philips, Madrigali, a otto voci, Anversa, Presso Pietro Phalesio; Giovanni Piccioni, Il Terzo Libro delle Canzoni, a cinque voci, Venezia, presso l’erede di Girolamo Scotto; Giovanni Piccioni, Il Quarto Libro delle Canzoni, a cinque voci, Venezia, presso l’erede di Hieronymo Scotto; Paolo Quagliati, Canzzonette (sic), a tre voci per sonare et cantare, Libro Primo, Roma, presso Alessandro Gardano;
144
Storie di canzonette del ms 774 di Lucca
2318
1599
2736
1622
2746
1594
2796
1580
2797
1581
2798
1585
2799
1586
2800
1591
2801
1610
2802
1613
2809
1585
2810
1586
2811
1593
2812
1600
2906
1591
2961
1589
Bartolomeo Ratti, Ardori amorosi Madrigali e Canzonette a tre voci, Venezia, presso Ricciardo Amandino; Pietro Paolo Torre, Il Primo Libro delle Canzonette Madrigali et Arie, a una et due voci, Venezia, presso Alessandro Vincenti; Flaminio Tresti, Il Primo Libro delle Canzonette, a tre voci, Venezia, presso Angelo Gardano; Orazio Vecchi, Canzonette, Libro Primo, a quattro voci, Venezia, presso Angelo Gardano; Orazio Vecchi, Canzonette, Libro Primo, a quattro voci, Venezia, presso Angelo Gardano; Orazio Vecchi, Canzonette, Libro Primo, a quattro voci, Venezia, presso Angelo Gardano; Orazio Vecchi, Canzonette di, Libro I, a quattro voci, Milano, presso Francesco, e gli eredi di Simon Tini; Orazio Vecchi, Canzonette, Libro Primo, a quattro voci, Venezia, presso Angelo Gardano; Orazio Vecchi, Die erste Class der vierstimmigen Canzonetten, Nürnberg, bey und in Verlegung Paul Kauffmanns; Orazio Vecchi, Canzonette, Libro Primo, a quattro voci, Venezia, presso Bartholomei Magni; Orazio Vecchi, Canzonette, Libro Terzo, a quattro voci, Venezia, presso Angelo Gardano; Orazio Vecchi, Canzonette, Libro III, a quattro voci, Milano, presso Francesco e gli eredi di Simon Tini; Orazio Vecchi, Canzonette, Libro Terzo, a quattro voci, Venezia, presso Angelo Gardano; Orazio Vecchi, Canzonette, Libro Terzo, a quattro voci, Venezia, presso Angelo Gardano; Gabriele Villani, Il Secondo Libro delle Toscanelle, a quattro voci, Venezia, presso Angelo Gardano; Jacob (De) Wert, Il Primo Libro delle Canzonette villanelle, a cinque voci, Venezia, presso Angelo Gardano.
La tab. C/1, mostra una completa e complessiva sinossi che esplicita, in ordine cronologico, la diffusione temporale-editoriale delle canzonette del ms 774 in relazione alla loro presenza in uno o più testimoni (distinti tra capostipiti e discendenti, edizioni uniche, testimoni unici, testimoni condivisi). Per rendere più agevole la consultazione, è utile disporre di una legenda esplicativa della classificazione utilizzata e di una guida alla lettura. Legenda della tab. C/1 oggetto
annotazioni
rappresentazione in tabella
es.
composizione ms 774
in riferimento alla tab. 1.
numerazione posta tra parentesi
(1)
anno pubblicazione
in ordine cronologico
numeri nella colonna sinistra
1581
Codice 602
145
Massimo Lombardi
capostipite e discendenti
edizione che ha avuto ristampe
matricola del Nuovo Vogel con l’aggiunta di un numero tra parentesi quadra che, posto a pedice, fa coincidere tutta la discendenza
edizione unica
edizione che non ha avuto ristampe
matricola del Nuovo Vogel con l’aggiunta della sigla eu
260eu
testimone unico
edizione che contiene in esclusiva matricola del Nuovo Vogel una determinata con l’aggiunta della sigla tu composizione
960tu
testimone condiviso
edizione che contiene più musiche qui analizzate
510tc
matricola del Nuovo Vogel con l’aggiunta della sigla tc
100[1]
Guida alla lettura della tab. C/1: codici di rif. Nuovo Vogel
richiamo al titolo della composizione (tab. 1)
testimone unico
tab.
C/1) Sinossi dei testimoni citati e numerati nel Nuovo Vogel anno composizioni (1) (2) (3) (4) (5) (6) (7) (8) (9) (10) 1522? 960tu 1573 260 eu 100[1] 1575 510tc 510tc 510tc 1576 101[1] 1578 1580 402 capostipite e discendente/i
anno di pubblicazione
tab.
anno
composizioni (1)
(2)
(3)
(4)
(5)
(7)
(8)
(9)
(10)
961[2] 325eu 962[2]
1578 1580
(6)
53bis[1]
1575 1576
edizione unica
C/1) Sinossi dei testimoni citati ed immatricolati nel Nuovo Vogel
1522 (?) 1573
testimone condiviso
(11)
296eu 2796[3]
146
(11)
Storie di canzonette del ms 774 di Lucca
1581
2797[3]
1581
963[2]
1582
2221eu
1546eu
1582
2222eu
1584
403[4]
1585
1845eu
959[5]tc
2798[3]
1586
959[5]tc
2809[6] 713[7]
2799[3]
2810[6]
54[1]
1587
411eu
1587
283eu/tc
1588 <
2137eu
1588
871eu/tc
2291eu
871eu/tc
1588-1
1241[8]tc
1241[8]tc
1241[8]tc
1241[8]tc
1241[8]tc 1241[8]tc
1588-2
1242[8]tc
1242[8]tc
1242[8]tc
1242[8]tc
1242[8]tc 1242[8]tc
1589
2961eu/ tc
1590
34eu
55[1]
1590
406eu
1308eu
1591
2906eu/ tc
1591
1243[8]tc
1591
960[5]tc
283eu/tc
2961eu/ tc
1243[8]tc 2800[3]
2961eu/ tc
2906eu/ tc
404[4]
1243[8]tc
1243[8]tc
1243[8]tc 1243[8]tc
960[5]tc
1592
517eu
1593
56[1] 2811[6]
1594 1594
871eu/tc
2746eu 1244[8]tc
1595
1244[8]tc
1244[8]tc
1052eu 1244[8]tc
1244[8]tc 1244[8]tc
317eu/tu
1596
2064eu
714[7]
1597
57[1]
1598
2213[9]
1599
2214[9]
2318eu
1600
2812[6]
1600-1
1245[8]tc
1245[8]tc
1245[8]tc
1245[8]tc
1245[8]tc 1245[8]tc
1600-2
1246[8]tc
1246[8]tc
1246[8]tc
1246[8]tc
1246[8]tc 1246[8]tc
1601
378eu Codice 602
147
Massimo Lombardi
1604
1789eu
715[7]
1605 1607
58[1]
1609
1192eu/tu
1610
59[1]
2801[3]
1612
1339eu
1613
2802[3]
1615
2215[9]
1620
815eu
1622
2736eu
1624
1247[8]tc
1247[8]tc
1247[8]tc
1247[8]tc
1247[8]tc 1247[8]tc
La tab. C/1 deve però essere integrata con altre informazioni (tre ulteriori documenti) che, puntualizzati nella successiva tab. C/2, contribuiscono ad ampliare parzialmente la panoramica finora disegnata: 1213 tab.
C/2) integrazione dei testimoni
∙ (2) Ancora che tu m’odii ∙ (5) Tutta gentile e bella - Simone Verovio: Ghirlanda di fioretti musicali composta da diversi ecc.ti musici a tre voci con l’intavolatura del cimbalo et liuto, raccolte e stampate in Roma da Simone Verovio, 1589. ∙ (2) Ancora che tu m’odii - Giacomo Vincenti12: Canzonette per cantar et sonar di liuto a tre voci: libro secondo, composte da diversi auttori, Venetia: G. Vincenti, 1591. ∙ (10) Non ved’hoggi il mio sole ∙ (3) Quando mirai sa bella faccia d’oro ∙ Gio. Antonio Terzi13: Il secondo libro de intavolatura di liuto, […] nella quale si contengono Fantasie, Mottetti, Canzoni, Madrigali, Pass’e mezi et Balli di varie et diverse sorti, Venetia: G. Vincenti, 1599.
Ritenendo plausibile che l’autore del codicetto abbia potuto usufruire di alcune delle pubblicazioni a stampa all’epoca più diffuse, sono state isolate alcune opere ragionevolmente pertinenti. Ciò aiuta anche a dare una collocazione temporale alla compilazione del ms 774. Il metodo di selezione operato per restringere il campo, altrimenti troppo ampio ed ingarbugliato, ha tenuto conto dei seguenti parametri: - uguaglianza – corrispondenza dei contenuti musicali e poetici; - unicità del testimone – punto di riferimento per la datazione temporale; 12 Segnalo che la musica del testimone non rivela corrispondenze tali da poterlo ritenere apparentato con il ms 774. 13 Vedi nota prec.
148
Storie di canzonette del ms 774 di Lucca
- ristampe – indicatore della fortuna dell’opera; - condivisione del testimone – probabile sorgente di più materiali musicali presenti nel ms 774; - notazione – presenza di intavolature per liuto, possibili matrici per la copiatura. È senz’altro difficile, se non impossibile, stabilire con esattezza il preciso arco temporale di compilazione del lucchese; si può comunque presumere che possa avere avuto la sua genesi intorno agli anni ottanta del Cinquecento per proseguire la sua vita fino almeno alla prima decade del secolo successivo. È quest’ultimo il tempo a cui risalgono il volume di Gio. Ghizzolo da Brescia (1609)14 ed il codice Barbera (prima metà del sec. XVII)15, unici documenti in cui si è riscontrata la presenza della canzonetta intitolata Mentre amor dentro al mio petto. La tab. D è una sinossi conclusiva che, dopo il vaglio descritto, mette tra loro in relazione le canzonette del ms 774 con i testimoni. Il risultato è un compendio di pubblicazioni ipotizzabili come sorgenti. tab.
D) Sinossi integrata e riassuntiva dei componimenti del ms 774 e dei testimoni
∙ (1) Occhi dell’alma mia vivaci e soli ∙ (4) Donna mi fuggi ∙ (6) M’ha punto amor testimone ampiamente condiviso ∙ (8) Porgemi cara Filli ∙ (10) Non ved’hoggi il mio sole ∙ (11) Per mostrar d’esser bella - Ruggiero Giovanelli: Il primo libro delle villanelle et arie alla napoletana a tre voci di Ruggiero Govanelli, in Venezia: Giacomo Vincenti, 1588, 1591, 1594, 1600, 1624 (tab. B: 1241). ∙ (2) Ancora che tu m’odii testimone condiviso con intavolatura di liuto ∙ (5) Tutta gentile e bella - Simone Verovio: Ghirlanda di fioretti musicali composta da diversi ecc.ti musici a tre voci con l’intavolatura del cimbalo et liuto, raccolte e stampate in Roma da Simone Verovio, 1589. ∙ (3) Quando mirai sa bella faccia d’oro testimone condiviso coerente per datazione ∙ (8) Porgemi cara Filli - Orazio Vecchi: Canto Canzonette di Orazio Vecchi da Modena libro primo a quattro voci, in Venezia: Angelo Gardano, 1580, 1581, 1585, 1586, 1591, 1610, 1613 (tab. B: 2796).
14 Gio. Ghizzolo da Brescia, Canzonette et Arie a tre voci di Gio. Ghizzolo da Brescia novamente composte, et date in luce. Libro Primo. Al molto illustre sig. Gio. Jacomo Arconato del Consiglio Generale della città di Milano. In Venetia, appresso Alessandro Raverij. 1609; n. 1192 del Nuovo Vogel. 15 Anonimo (prima metà del sec. XVII), Arte, musica manoscritta, presso la Biblioteca del Conservatorio di musica Luigi Cherubini di Firenze, IT-FI0035, codice Barbera, Segnatura: 85. Arm.o A, CF. 83 c. 17v, DAM.1965. Codice 602
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testimone non accreditato ∙ (9) Mentre amor dento al mio petto - (?) Anonimo: codice Barbera, Arie, musica manoscritta, Biblioteca del Conservatorio di musica ‘Luigi Cherubini’ – Firenze assenza di testimoni
∙ (7) Sian [fiumi e] fonti
Al di là delle impossibili certezze, si rivela che nove delle undici composizioni vocali16 sono riconducibili a un totale di tre possibili testimoni pubblicati in anni coerenti per vicinanza. È evidente che la successione dei brani, così come organizzata nel lucchese, raffigura un avvicendarsi di composizioni selezionate senza un criterio logico, ma apparentemente acquisite alla bisogna. Ecco che prende forma la supposizione che vede il compilatore del ms 774 come qualcuno che, oltre ad annotare abbozzi spontanei, ha potuto disporre anche di celebri pubblicazioni da cui ha attinto il necessario. Spostandosi appena verso una lettura psicologica e/o antropologica, se si pone la lente indagante sulla valutazione complessiva dei comportamenti (quindi sugli appetiti musicali; sulle esigenze di appagamento dei bisogni artistici e comunicativi; sulle consuetudini, i costumi, le modalità di relazione, le ricorrenze e chissà quali altre contingenze), insieme alla possibilità di disporre di musica stampata, è facile individuare due semplici e convincenti criteri adoperati per la stesura del ms 774: la moda e la popolarità. Il codice lucchese, seppure in forma manoscritta e casalinga, rispecchia pienamente le caratteristiche di molte delle raccolte a stampa edite da prestigiosi editori coevi. Inoltre, è facile scorgere un punto di contatto con la nostra epoca; tali antologie riassumevano in sé i requisiti che ritroviamo nei nostri moderni canzonieri: di fatto una Hit Parade. Come spesso mi capita dire: tutto è sempre molto meno antico di quanto possa apparire.
Notazione e intavolatura Le indicazioni metriche dell’intavolatura sono poco precise e spesso incoerenti. Tale scrittura fu quasi certamente concepita in forma di appunto fugace, destinato ad aiutare la reminiscenza di qualcosa di già conosciuto. Con una lettura a prima vista, per così dire, convenzionale, nulla sembra essere immediatamente comprensibile ed eseguibile; però, nell’economia complessiva della composizione – se conosciuta e magari cantata a memoria – tutto si colloca correttamente e prendono chiara forma armonie, melodie, cadenze e passaggi. Sembra proprio che la notazione, più che poggiare su aspetti 16 Devono escludersi: (7) Sian [fiumi e] fonti, c. 44r – priva di testimone di riferimento e non è stata identificata; (9) Mentre amor dentro al mio petto, c. 47v – è stata identificata seppure priva di un plausibile testimone di riferimento.
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rigorosamente grammaticali della suddivisione del tempo, fosse funzionale ad una rievocazione musicale di melodie celebri, delle quali era sufficiente tenere sommariamente sottocchio gli aspetti complessivi. Del resto, già con il repertorio frottolistico del sec. XVI, la prassi del suonare a memoria ad opera di musicisti professionisti era ben consolidata17 e quanto accade nel ms 774 non deve sembrare qualcosa di particolarmente bizzarro poiché, in realtà, in altri codici contemporanei, di frequente è presente un’identica situazione18. Vale la pena fare solo una piccola digressione per sottolineare che l’idea della suddivisione ritmica di allora era molto diversa da quella moderna. Le stesse canzonette polifoniche – scritte in parti staccate per le varie voci – non indicavano le stanghette di misura che oggi sono ritenute indispensabili per mantenere l’orientamento tra battere e levare. Tutto ciò chiarisce come la percezione degli accenti – certamente tutt’altro che priva di relazioni matematiche – fosse comunque ancora riconducibile alla differenza tra longa e brevis. Il tempo non veniva concepito e riprodotto in funzione di una quantità di materiale musicale coincidente con l’esigenza di riempire quel contenitore che oggi chiamiamo battuta. Per gli antichi il pulsare musicale era misurato silenziosamente con colpetti di indice e pollice; essi evidentemente avevano molta familiarità con la sincope […] che viene usata per creare effetti emotivi19.
Significativo è il commento di Alfred Einstein (1880-1952) ad un madrigale di Pietro Taglia di Milano (sec. XVI): Armonicamente e metricamente, questa composizione sembra in uno stato di sfrenato disordine, tuttavia l’ordine c’è ugualmente; anche sotto l’aspetto ritmico; Taglia inclina costantemente ad alternare riposo e moto, però alla fine ha sempre cura di spianare questa fluttuazione20.
L’intavolatura aderisce a questa immagine di apparente confusione che invece si risolve nel tutto. 17 The new Oxford History of Music, vol. 4, tomo 1, a cura di Gerald Abraham, Milano, Feltrinelli, 1980, pp. 37-67/39. 18 Ne sono solo un parziale esempio composizioni scritte nelle intavolature di liuto: Manoscritto Italiano Classe IV, no. 17, di anonimo, disponibile presso la Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia; Rari Manoscritti b. 14, di anonimo, disponibile presso la Biblioteca Musicale Statale del Conservatorio di Musica “G. Rossini” di Pesaro; Intavolatura di liuto provenienza italiana [del] 1610, di anonimo, disponibile presso la Biblioteca del liceo musicale di Pesaro; Libro di leuto di Gioseppe Antonio Doni, conservato presso l’archivio di Stato di Perugia. 19 The new Oxford History of Music, cit., Milano, Feltrinelli, 1980, pp. 37-67/55. 20 The new Oxford History of Music, Ibidem, “Italian Madrigal, I, pp. 426-428; Bernhard Meier ha ristampato due madrigali di Taglia in Das Chorwerk, LXXXVIIII, Vonfelbüttel, 1962”. Codice 602
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Nelle trascrizioni si è fatta un’attenta e calibrata valutazione dei rapporti esistenti tra le linee melodiche dei testimoni, la coerenza con il contenuto del manoscritto lucchese e le indicazioni ritmiche di quest’ultimo.
Le comparazioni È ora il momento di occuparsi delle liriche e delle musiche, quindi della loro comprovata identificazione e dell’eseguibilità. Le comparazioni si succedono seguendo l’originale. Ogni sistema propone le seguenti informazioni: - autore del testimone di riferimento con l’indicazione dell’anno di pubblicazione; - trascrizione del testimone; - trascrizione con revisione dell’intavolatura21; - intavolatura22. Nelle note alla trascrizione sono palesate le battute originali risultate incongruenti nel confronto. Infine sono affiancati i testi letterari del codice lucchese e dei testimoni. Per quanto concerne la tipologia dello strumento immaginato23 per la realizzazione musicale, riferendosi alla prassi del periodo storico attinente, è previsto l’utilizzo di un liuto rinascimentale in sol24. Tale scelta è da ritenersi legittima, oltre che per motivi storici, organologici e di prassi, anche perché il confronto tra le notazioni dei testimoni e la scrittura intavolata evidenzia una corrispondenza di profili melodici, armonici e di intonazione. Eventuali variazioni o discordanze, tali da giustificare l’utilizzo di uno strumento diverso, sono dichiarate, come caso distinto, nella descrizione del brano specifico.
21 Nella revisione sono state adottate le seguenti caratteristiche tipografiche: omissioni – note piccole; modifiche – note piccole tra parentesi. 22 Revisione dell’originale. 23 Bruno Tonazzi, Liuto, vihuela, chitarra e strumenti similari nelle loro intavolature. Con cenni sulle loro letterature, Ancona, Berben, terza edizione 1980, pp. 9-77. 24 Giuseppe Radole, Liuto, chitarra e vihuela, Milano, Suvini Zerboni, edizione seconda, 1986, pp. 17-64/20.
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(1) Occhi dellâ&#x20AC;&#x2122;alma mia vivaci e soli â&#x20AC;&#x201C; villanella alla napolitana
Note alla trascrizione. Nel lucchese le bb. 12 e 13 sono omesse e sostituite da un funzionale rit. (b. 12:I a b. 13:IV). Codice 602
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ms 774, cc. 32r, 47r) Occhi, dell’alma mia vivaci e soli, deh, s’io ardo per voi dentro e di fuora lasciate ch’io vi baci, anzi ch’io mora.
1588, Ruggiero Giovanelli, ed. 1600, 1624) 25 Occhi, dell’alma mia vivaci e soli, deh, s’io ardo per voi dentro e di fuora lasciate ch’io vi baci, anzi ch’io mora.
Occhi divini d’Amor fiammelle ardenti, deh s’un luogo servir merta mercede, mirate se ne degna la mia fede.
Occhi vivi d’Amor fiammelle ardenti, deh s’un lungo servir merta mercede, mirate se ne è degna la mia fede.
Occhi s’è dolce il ben che si desia, dall’amato tesor quando si more, de spargetene un poco entr’al mio core.
Occhi s’è dolce il ben che si desia, dall’amato tesor quando si more, deh spargetene un poco entr’al mio core.
Occhi se per pietà non per mio merto, Occhi se per pietà non per mio merto, non impetro da voi qualche conforto, non impetro da voi qualche conforto, voi, voi dolci occhi, voi mi havete morto. voi, voi dolci occhi, voi m’havete morto.
Nel ms 774 c’è un’altra testimonianza di questa villanella: a c. 47r si legge un’intera melodia (comprensiva del testo della prima strofa) tale e quale a quella di Ruggiero Giovanelli26. L’intera storia editoriale della villanella consta di diciotto pubblicazioni (1582-1624). (2) Ancora che tu m’odii anima mia – canzonetta
25 Ruggiero Giovanelli, Il primo libro delle villanelle et arie alla napoletana a tre voci, ed. anastatica, Bologna, Forni, 1980. L’edizione del 1600 e del 1624 sono discendenti del capostipite dato alle stampe nel 1588. 26 Ruggiero Giovanelli, ibidem, parte del basso, p. 12.
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Note alla trascrizione
Significativo è il confronto tra l’intavolatura27 del lucchese e della Ghirlanda di fioretti musicali28 pubblicata a Roma, nel 1589, da Simone Verovio. Le scritture appaiono identiche e le poche ineguaglianze rilevabili nel ms
27 Le intavolature a confronto (ms 774 Vs Verovio) sono trascritte come nell’originale e, nelle aree tratteggiate, si palesano poche differenze che non modificano l’uguaglianza dei testi. 28 Simone Verovio, Ghirlanda di fioretti musicali, composta da diversi eccellenti musici a 3 voci, con l’intavolatura del cimbalo et del liuto. Raccolte e stampata da Simone Verovio. In Roma 1589. Con licentia di superiori; disponibile presso il Museo internazionale e Biblioteca della musica di Bologna, collocazione R. 256, su www.bibliotecamusica.it, consultato il 27 luglio 2016. Codice 602
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774 sono, in sostanza, delle varianti per aggiunzione29 o sottrazione30. Tre sono gli errori31 imputabili a possibili sviste nella scrittura (o più probabilmente nella copiatura).32
ms 774, cc. 41v, 42r) Ancora che tu m’odii, anima mia, converrà che tuo sia e che ti segua ogn’hor dolce ben mio, ch’a seguirti mi spinge il mio desio.
1589, Paolo Quagliati/Simone Verovio) Ancora che tu m’odii, anima mia, converrà che tuo sia e che ti segua ogn’or dolce ben mio, ch’a seguirti mi sping’l mio desio.
Ancora che mi sprezzi in ogni loco goderò del mio foco, e de gli strali che nel petto sento cagion ch’io provi ogn’hor dolce tormento.
Ancora che mi disprezzi in ogni loco goderò del mio foco, e de gli strali che nel petto sento cagion ch’io provi ogn’hor dolce tormento.
Ancora che tu non curi il mio languire spererò di gioire, e di smorzar un giorno il grande ardore, che mi consuma e incenerisce il core.
Ancora che tu non curi il mio languire sperarò di gioire, e di smorzar un giorno il grand’ardore, che mi consuma e incenerisce il core.
Et ancora che il mio gioir non venga mai Griderò in mezzo a’ guai: sempre sarà di te, anima mia questo mio cor, quantunque in pena sia32.
Et ancora che il mio gioir non venga mai Griderò in mezzo a’ guai: sempre sarà di te, anima mia questo mio cor, quantunque in pena sia.
Occorre sottolineare che, in aggiunta al volume stampato dal Verovio
29 b.7:IV; b.10:I (variazione). 30 b.3:IV; b.8:I/IV; b.20:II/III. 31 b.2:I; b.11:IV; b.18:IV2. 32 L’ultima strofa è alla c. 42r del manoscritto 774.
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nel 1589 (incisione su lastra di rame)33, esiste un altro documento intavolato per liuto e dato alle stampe nel 1591 da Giacomo Vincenti34. Ciò nonostante, risultando più affine nel contenuto e condividendo due componimenti vocali presenti nel ms 774, il primo è parso più attendibile. L’intera storia editoriale della canzonetta consta di tre pubblicazioni (1589-1595). (3) Quando mirai sa bella faccia (Rendimi)35 – canzonetta
33 Verovio Simone, in La nuova enciclopedia della musica Garzanti, diretto da Silvio Riolfo, Cernusco sul Naviglio, 1994, p. 749: “[…] editore, incisore e compositore olandese, vissuto a Roma nel 1575, fu il primo incisore di musica su lastra di rame. Pubblicò antologie nelle quali figurano, oltre alle sue composizioni, musiche di Merulo, Luzzaschi ed altri”. 34 Canzonette per cantar et sonar di liuto a tre voci. Composte da diversi auttori e nuovamente date in luce. Libro secondo. In Venetia. Appresso Giacomo Vincenti. 1591; presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, coll. Mus. 20.2. 35 Incipit rilevato nel ms 774, c. 42r. Codice 602
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Note alla trascrizione. Nell’intavolatura, le bb. 5-8 e bb. 17-24 sono sostituite dai segni di ritornello alle bb. 4 e 16.
1580, Orazio Vecchi) Quando mirai sa bella faccia d’oro, con s’occhi ladri mi rubasti il core, dammi lo cor o ladra del mio core.
ms 774, c. 42r) [testo mancante] Rendimi il core o ladra del mio core, rendilo presto ohime che tu sai bene, che non si po’ salvar chi l’altrui tiene.
Rendilo presto ohime se no ch’io moro, ch’io non posso soffrir tanto dolore, dammi lo cor o ladra del mio core.
Rendilo presto ohime se no ch’io moro, ch’io non posso soffrir tanto dolore, dammi lo cor o ladra del mio core.
Date si causa l’aspro mio martoro, che sei ribella nel regno d’amore, dammi lo cor o ladra del mio core.
Date si causa l’aspro mio martoro, che sei ribella nel regno d’amore, dammi lo cor o ladra del mio core.
Rendimi il core o ladra del mio core, rendilo presto ohime che tu sai bene, che non si po’ salvar chi l’altrui tiene.
Il confronto con il testimone36 non dà adito a dubbi sulla sovrapposizione dei versi poetici. Il manoscritto mostra però la mancanza della 36 Orazio Vecchi, Canzonette di Oratio Vecchi da Modona, libro primo a quattro voci, nuovamente ristampate. In Venetia appresso Angelo Gardano 1580; disponibile presso il Museo internazionale e Biblioteca della musica di Bologna, Collocazione U.263, su www.bibliotecamusica. it, consultato il 27 ottobre 2014.
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prima terzina ed una singolare inversione dell’ordine delle altre. Infatti, la successione risulta essere la seguente: I (assente), IV, II, III. La canzonetta del lucchese mostra la sua ragione di essere così com’è? È possibile che l’omissione sia dovuta al fatto che la terzina fu talmente ben conosciuta da far apparire superfluo indicarla? Potrebbe trattarsi di una svista? A queste domande una risposta certa non sarebbe prudente, tuttavia ciò che si può fare è prendere atto di quello che il documento ci restituisce nella sua oggettività, ponendolo in relazione con il contesto storico-editoriale. Non c’è dubbio che la canzonetta fu comunemente conosciuta con il titolo Quando mirai sa bella faccia, ma è anche vero che nel codice è indicata con il titolo Rendimi37, cioè con l’incipit dell’ultima terzina della versione del Vecchi. È emerso però che, come accade nell’elaborazione di Giovanni Piccioni (ca 1549-d. 7/6/1619)38, il brano fosse anche denominato Rendimi il cor, o ladra39. Quest’ultima composizione, della quale è andata perduta la parte del basso40, possiede il testo uguale alla terzina conclusiva del Vecchi41, ma è organizzata su cinque voci42 e la trattazione delle parti si discosta dall’intavolatura indagata. Quindi, pur escludendosi un nesso con il ms 774, la sua esistenza dimostra che la lirica fu senz’altro nota con entrambi i titoli. Ancora, a c. 44v è presente un’ulteriore attestazione della canzonetta. Forse scritta da una mano differente (probabilmente successiva), c’è la partitura priva del testo, che titola Quando mirai sa bella faccia d’oro con s’. La scrittura musicale è curiosa; le quattro melodie corrispondono alla versione del Vecchi, ma, perché funzionino, è necessario aggiungere alcuni mutamenti di chiave. Non sfugge altresì che, nelle porzioni indicate43, sia l’alto che il basso ricalcano la parte del tenore.
37 Ms 774, c. 42r. 38 Marco Gemmani, Paolo Righini, Giovanni Piccioni da Rimini, un musicista da scoprire, Rimini, Ass. Mus. In Terra Viventium, 1995, pp. 5-15. 39 Di Giovan Piccioni il Quarto libro delle Canzoni a cinque voci da lui novamente composte. In Vinegia appresso l’herede di Hieronymo Scotto. 1582, Emil Vogel, Alfred Einstein, Francoise Lesure, Claudio Sartori, ibidem, rif. n. 2222, p. 1357; su www.bibliotecamusica.it, consultato il 27 ottobre 2014. 40 Marco Gemmani, Paolo Righini, ibidem, p. 43. 41 Orazio Vecchi, ibidem; testo dell’ultima terzina “Rendimi il cor o ladra del mio core, rendilo presto aime che tu sai bene, che non si po salvar chi l’altrui tiene”; su www.bibliotecamusica.it, consultato il 7 luglio 2016. 42 C, A, T, B, v-Q. 43 Alto: b. 5-b. 8; basso: b. 11:III-fine. Codice 602
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Detto ciò, ritornando alla parte intavolata, la comparazione evidenzia che le composizioni del lucchese44 sono pensate nella stessa tessitura tonale che però non collima con l’uso di un liuto in sol. Pur nell’aleatorietà del rapporto che allora vi era tra notazione e altezza reale dei suoni, è verosimile che i cantanti si intonassero all’impronta sulla parte strumentale. In alternativa, seppure meno probabile, è ammissibile che sia stato il liutista ad adeguarsi; infatti, la dissomiglianza risulta appianata con l’utilizzo di un liuto basso accordato in re (re’, la, mi, do, SOL, RE). La famiglia dei liuti prevedeva una gamma piuttosto ampia di strumenti che variavano per dimensioni, lunghezza della corda vibrante, accordatura e timbro45. Tale risorsa permetteva di poter accompagnare una composizione senza compromettere l’estensione delle voci. L’intera storia editoriale della canzonetta consta di dodici pubblicazioni (1573-1613). (4) Donna mi fuggi ogn’hora – villanella alla napoletana
44 c. 42r, c. 44v. 45 Bruno Tonazzi, Liuto, vihuela, chitarra e strumenti similari nelle loro intavolature. Con cenni sulle loro letterature, Ancona, Berben, terza edizione 1980, pp. 9-13; Gian Luca Lastraioli, Manuale di sopravvivenza del liutista aspirante o principiante, su, www.societadelliuto.it, consultato il 15 novembre 2014; Renato Meucci, Strumentaio, il costruttore di strumenti musicali nella tradizione occidentale, Venezia, Marsilio, 2010, pp. 83-86.
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Note alla trascrizione46
ms 774, cc. 42v, 45r, 45v) Donna mi fuggi ogn’hora, credendo col fuggire di farmi ogn’hor morire. Me ne rido, fuggi, fuggi, che fuggendo non mi struggi.
1588, Ruggiero Giovanelli, ed. 1600, 1624)46 Donna mi fuggi ogn’hora, credendo col fuggire di farmi ogn’hor morire. Me ne rido, fuggi, fuggi, fuggi che fuggendo non mi struggi.
Vezzosa, ogn’hor mi schivi, pensando co’l schivarmi di vita al fin privarmi. Me ne rido, schiva, schiva, che di vita ciò non priva.
Vezzosa, ogn’hor me schivi, pensando co’l schivarmi di vita al fin privarmi. Me ne rido, schiva, schiva, che di vita ciò non priva.
Con altri ridi e burli, e lo fai, perche il mio core si mora di dolore. Me ne rido, ridi, ridi, che ridendo non m’uccidi.
Con altri ridi e burli, e lo fai, perche il mio core si mora di dolore. Me ne rido, ridi, ridi, che ridendo non m’uccidi.
Ciò tu fai, perche io mora, credendo ahi dura sorte, gioir della mia morte. Me ne rido, speme, speme Mi mantien fra tante pene.
Ciò tu fai, perche pur mora, credendo ahi dura sorte, gioir della mia morte. Me ne rido, speme, speme Mi mantien fra tante pene.
46 Ruggiero Giovanelli, ibidem. Codice 602
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Della villanella, il ms 774 riproduce due testi identici indicati a c. 42v (in calce all’esagramma), c. 45r (sotto la melodia) e c. 45v.47 La notazione liutistica possiede un’indicazione metrica molto sommaria, difficilmente comprensibile. Infatti, la sua traduzione non sarebbe stata possibile in assenza di un testimone48 confrontabile. Questo dettaglio, tutt’altro che insignificante, ancora una volta suggerisce l’idea che il volumetto sia stato utilizzato per abbozzarvi dettagli musicali di massima, certamente riguardanti brani ben conosciuti, la cui esecuzione era probabilmente destinata a chi era in grado di decifrarli, cioè il compilatore stesso. L’aspetto musicale sembra essere più attento alla riproduzione delle melodie del basso e dell’alto. Non escludendo affatto che l’accompagnamento strumentale possa avere sostenuto tutte le parti reali, l’ipotesi di un’esecuzione a monodia accompagnata appare tutt’altro che inattendibile. L’intera storia editoriale della villanella consta di tredici pubblicazioni (1585-1624). (5) Tutta gentile e bella – canzonetta
47 Una parte melodica integra ed intera della villanella è presente alla c. 45r del codice. Si tratta della melodia assegnata alla voce di basso con, in calce, la prima strofa del testo. Il confronto metrico tra testo e notazione, paragonati con quelli del testimone, risulta identico. Nella c. 45v sono scritte, in blocchi, le strofe seconda, terza e quarta. 48 Ruggiero Giovanelli, ibidem.
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Note alla trascrizione
Similmente alla già tratteggiata canzonetta (2) Ancora che tu m’odii anima mia49, anche in questo caso risulta interessante il confronto delle intavolature50. Di nuovo vi sono varianti per aggiunzione, sottrazione51 ed un errore52.
Oltre a quella del Verovio l’unica altra intavolatura di liuto riconducibile alla canzonetta53 è quella di Alessandro Orologio (ca. 1555-1633)54. Tale documento non può in ogni caso essere ritenuto pertinente perché, 49 (2) Ancora che tu m’odii anima mia e (5) Tutta gentile e bella sono presenti nella pubblicazione del Verovio (1589), in cui è prevista anche l’intavolatura di liuto. 50 Nelle aree tratteggiate sono rilevabili le differenze che non negano affatto l’uguaglianza dei testi. 51 b. 1:I; b. 2:III; b. 4:II, b. 9:IV; b. 11:II2 (variazione). 52 b. 15:I. 53 L’opera di Pietro della Torre non viene qui presa in considerazione perché quasi certamente successiva al codice e comunque destinata al chitarrone: Il primo libro delle canzonette Madrigali et Arie a una et due voci per cantar nel Clavicordo e nel Chitarrone, Venezia (1622). 54 Alessandro Orologio, Canzonette a tre voci […] intavolate per sonar di liuto, Venezia (1596), disponibile presso la Biblioteca Benincasa di Ancona. Codice 602
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al di là del titolo appena differente (Tutta vezzosa e bella), la realizzazione liutistica è decisamente disuguale da quella del lucchese. ms 774, c. 43r) Tutta gentile e bella a tesser ghirlandette Clori sen stava un giorno in un bel prato di fioretti adorno.
1589, Gio. Maria Nanino/Simone Verovio) Tutta gentile e bella a tesser ghirlandette Clori sen stava un giorno in un bel prato di fioretti adorno.
Di lei prendea diletto l’aura soave intorno mentre vario lavoro tesea involgendo le sue chiome d’oro.
L’aura soave intorno di lei prendea diletto mentre vario lavoro tesea involgendo le sue chiome d’oro.
Gli amorosetti augelli dentro l’ombrose frondi cantando dolcemente potean far lieta ogni affannata mente.
Gli amorosetti augelli dentro l’ombrosa fronde cantando dolcemente potean far lieta ogni affannata mente.
Io solo (ahi caso strano) nel rimirar quel viso ch’al mondo dà conforto restai di forze privo e quasi morto.
Io solo (ahi caso strano) nel rimirar quel viso ch’al mondo dà conforto restai di forze privo e quasi morto.
Una piccola e curiosa inversione di versi emerge alla seconda quartina. Lo scrivere espone chiunque alla possibilità di inesattezze e tale eventualità aumenta notevolmente nella copiatura. Tra le numerose ragioni e concause che determinano l’errore, un certo rilievo assumono i cambiamenti di lezione dovuti al contesto, ovvero errori di perseveranza o anticipazione della dizione interiore55 e, come nel nostro caso, per trasposizione di lettere, di parole, di righe o di versi. Ecco che “L’aura soave intorno / di lei prendea diletto” diviene “Di lei prendea diletto / l’aura soave intorno”. L’intera storia editoriale della canzonetta consta di otto pubblicazioni (1589-1622).
55 Alfonso D’Agostino, Copista, correttore e fenomenologia della copia, Novembre 2005, su www. armida.unimi.it, consultato il 20 novembre 2014, p. 18, “Gli errori di perseveranza (l’amanuense riscrive una lezione già scritta, per forza d’inerzia al posto della lezione corretta) o di anticipazione della dizione interiore (il copista anticipa una lezione che sta più in là nella pericope)”.
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Storie di canzonette del ms 774 di Lucca
(6) Mâ&#x20AC;&#x2122;ha punto amor â&#x20AC;&#x201C; villanella alla napoletana
Note alla trascrizione
Codice 602
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ms 774, pag. 43v) M’ha punto amor con velenoso sguardo, e va gridando per mar’e per terra, allarm’allarm’allarme, guerra, guerra.
1588, Ruggiero Giovanelli, ed. 1600, 1624)56 M’ha punto amor con velenoso dardo, e va gridando per mar’e per terra, allarm’allarm’ allarme, guerra, guerra.
Et io che’l cor ferito ogn’hor mi sento, e consumato d’una ardente face: piangendo grido pace, pace, pace.
Et io che’l cor ferito ogn’hor mi sento, e consumato d’una ardente face: piangendo grido pace, pace, pace.
Così nulla mi giova che’l crudele mi ha preso e vinto, e per maggior sua gloria gridando dice, vittoria, vittoria.
Ma nell’assalto il lusinghier rinforza, fiamme, lacci, e martiri ardito, e forte esclama sangue sangue, morte morte.
Ma nell’assalto il lusinghier rinforza, fiamme, lacci, e martiri ardito, e forte esclama sangue sangue, morte morte.
Ond’io, che mi ritrovo nell’impresa, solo senza soccorso, e senza aita: mercede invoco vita, vita, vita.
Ond’io, che mi ritrovo nell’impresa, solo senza soccorso, e senza aita: mercede invoco vita, vita, vita.
Così nulla mi giova che’l crudele Mi ha preso e vinto, e per maggior sua gloria Gridando dice, vittoria, vittoria.
Curiosa è la successione delle terzine scritte nel codice. Nella stesura lucchese la I è scritta sotto l’intavolatura e, con una distribuzione organizzata in senso orario, seguono incolonnate la II, la V e la III; la IV è isolata e collocata alla sinistra delle altre. 56 terzina I terzina II terzina IV
terzina V terzina III
Come interpretare una simile disposizione? Una possibile spiegazione guarda alle figure retoriche presenti nel testo. La lettura dei versi conclusivi di ogni terzina del Giovanelli rivela delle antitesi: guerra Vs pace (I/II) e morte Vs vita (III/IV). L’ultima (V) finisce con vittoria, che non trova opposto. È ipotizzabile che, modificando l’avvicendamento atteso nel testimone, quest’ultima sia stata volutamente posta tra i due gruppi. Tale nuova organizzazione del testo, differente nella simmetria, è tutt’altro che inefficace e complessivamente non indebolisce né la struttura poetica, né il significato. Anche le azioni dei soggetti coinvolti – Amor e Io – appaiono limpide, tra loro connesse e ben narrate. I
II
V
III
IV
Amor
Io
Amor
Amor
Io
va gridando
grido
mi ha preso e vinto; gridando dice
esclama
invoco
guerra
pace
vittoria
morte
vita
56 Ruggiero Giovanelli, ibidem.
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Storie di canzonette del ms 774 di Lucca
Per quanto riguarda il contenuto musicale, al di là delle questioni relative alla tonalità, è chiara una completa aderenza al testimone. Tuttavia vale la pena fare due osservazioni: in primo luogo l’intavolatura fa presumere che l’esecuzione lucchese della villanella omettesse la parte dell’alto ed avvenisse di buon grado in modo meno complesso, cioè a voce sola. L’esagramma, che diversamente dal testimone non mostra alcun segno di pausa iniziale57, fa cominciare la villanella direttamente con la melodia del canto58, tralasciando quindi la prima metà della “misura”. Tale ipotesi esecutiva non rende scorretto il fluire metrico e, pur allontanandosi un po’ dal testimone, può darsi che si avvicini di più alla realtà di quel consumo musicale. Seppure l’esempio che segue59 preveda l’utilizzo di un liuto in mi60, vero è che (senza spostarsi affatto dalla prassi coeva) l’intonazione della prima nota del canto spesso era fornita da una determinata posizione del liuto. Così, volendo considerare uno strumento in sol, la musica sarebbe risultata trasposta di una terza ascendente e la nota più acuta avrebbe raggiunto un sol; altezza già rilevata in altre due canzonette del ms 77461.
In secondo luogo è bene sottolineare che la scrittura liutistica non assomiglia ad una riduzione delle parti vocali (prassi in auge all’epoca)62, ma volge lo sguardo al basso continuo. Quest’ultima pratica, che nella più 57 Canto, b. 1:I-II. 58 Canto, b. 1:III-IV. 59 Ipotesi esecutiva per liuto e canto. 60 Ciò ha permesso di confrontare i testi musicali. 61 (1) Occhi dell’alma mia vivaci e soli, b. 4:IV, b. 14:III; (3) Quando mirai sa bella faccia d’oro, b. 2:III-IV, b. 6:III-IV, b. 13:III, b. 14:I, b. 21:III, b. 22:1. 62 Come, per esempio, accade nelle Canzonette a tre voci di Alessandro Orologio, ibidem. Codice 602
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matura epoca barocca verrà di fatto definita “il fondamento su cui posa l’armonia della musica”63, nel momento storico a cui appartiene il manoscritto si trovava in una fase transitoria. Il contesto era del resto molto curioso, intrigante, pieno di sperimentazione. Agli occhi di colui che, oggi, osservi globalmente la situazione della vita musicale in Italia nei primi due decenni del Seicento saltano alcune novità, alcune “invenzioni” destinate (come egli sa dalla conoscenza di quel che avvenne poi nel resto di quel secolo) ad un futuro fecondo: la tecnica compositiva del basso continuo; il canto a voce sola con accompagnamento musicale; l’opera in musica64.
Con la sua scrittura ancora ibrida, il ms 774 ci fornisce utili informazioni in merito al gusto ed alla tecnica. Certamente non può considerarsi un riferimento estetico-musicale assoluto, ciò nondimeno è un indizio che sarebbe sbagliato non considerare autorevole. L’intera storia editoriale della villanella consta di quindici pubblicazioni (1586-1624). (7) Sian [fiumi e] fonti65
Note alla trascrizione. Le annotazioni si riferiscono alle incongruenze presenti tra le scritture dello stesso ms 774.
63 Pellegrino Toemoni, Regole pratiche per accompagnare il basso continuo, Firenze 1745, anastatica, Bologna, Forni, 2000, pp. 12-15/7. 64 Lorenzo Bianconi, Storia della musica, il Seicento, vol. 5, Torino, EDT, 1991, pp. 3-9/3. 65 Il titolo si riferisce all’indicazione scritta in calce alla notazione del primo rigo musicale; l’incipit del testo è invece “Sian fiumi e fonti”.
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ms 774, c. 44r)66 Sian fiumi e fonti hormai pianto amaro questi occhi lassi e mongibello il core s’è ver che la mia donna ha molto caro i miei sospir le lacrime e il dolore.
In van piango e sospir’e mi lamento in van cerco rimedio al mio gran male [tutti] i miei pregi se li porta il vento o dolor che non hai dolor eguale.
Non temo ai lasso il mio destin avaro del nascer mio del empio ingrato amore fanno che lei non crede i miei desiri acciò ch’io sempre in van pianga e sospiri.
Sperai dar pace o trefra al mio tormento ma la speranza fu caduca e frale e la nemica mia se ben mi vede morir per lei il mio morir non crede.
La notazione, scritta in chiave di basso, rappresenta un Ballo del Gran Duca (altrimenti detto Ballo di Fiorenza)67. Tale circostanza, inequivocabilmente centrata sulla danza, evoca subito la prassi del basso continuo e l’intavolatura in calce alla pagina ne conferma l’idea; infatti, il primo dei due esagrammi intavolati (seppure con alcuni errori) corrisponde ad una realizzazione accordale dei due sistemi iniziali della composizione. Un secondo rigo intavolato, pressoché totalmente errato, è stato cancellato probabilmente dal compositore stesso. Per quanto riguarda la lirica, essa si presenta scritta a cornice della musica. La prima quartina, cioè quella che dà titolo alla composizione, ha come incipit iniziale “Sian Fiumi e fonti”. Ciò trova conferma nella citazione “Sian fonti”, posta sotto le prime note all’inizio della musica. 66
Di questa composizione non si hanno informazioni e non è stato finora possibile rintracciare testimoni confrontabili che ne raccontino la storia editoriale. (8) Porgemi cara Filli – villanella alla napoletana
66 I termini posti tra parentesi quadra si riferiscono a parole delle quali non v’è certezza nella trascrizione. 67 Lorenzo Bianconi, ibidem, p. 99-112/107; José Sasportes, Storia della danza italiana dalle origini ai giorni nostri, Torino, EDT, 2011, p. 43. Codice 602
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Note alla trascrizione68
ms 774, cc. 46r, 46v) Porgemi cara Filli l’amate e belle rose c’hai ne le labra ascose perché baciandol(e)’io porga ait’al cor mio.
1588, R. Giovanelli)68 Porgimi cara Filli l’amate e belle rose c’hai ne le labra ascose perché baciandole io porga aita al cor mio.
1586, Orazio Vecchi) Porgimi cara Filli l’amat’e belle rose c’hai ne le labra ascose perché baciandol’io porga ait’al cor mio.
Porgimi caro Aminta, Quei fior, che con tant’arte Su le labra ti parte Amor, ch’anch’ io coi baci tempri l’ardenti faci:
Porgimi caro Aminta, quei fior, che con tant’arte su le labra ti parte amor, ch’anch’ io coi baci tempri l’ardenti faci:
Porgimi caro Aminta, Quei fior, che con tant’arte Su le labra ti parte Amor, ch’anco io coi baci Scemi l’ardenti faci:
Così l’un l’altro insieme porgon le rose, e’fiori, e co i baci gli ardori hor scemando, hor crescendo vivoin’ogn’hor morendo.
Così l’un l’altro insieme porgon le rose, e’fiori, e co i baci gli ardori hor scemando, hor crescendo vivoin’ogn’hor morendo.
Talche l’un l’altro insieme porgon le rose, e i fiori, e coi baci gli ardori hor scemando, hor crescendo vivoino ogn’hor morendo.
68 Ruggiero Giovanelli, ibidem.
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Nello studio di questa villanella sono emersi due autorevoli testimoni vicini per datazione: (1588)69 di Ruggiero Giovanelli e (1586)70 di Orazio Vecchi. Nel codice lucchese c’è solo la melodia della voce di basso, che è l’unico elemento comparativo disponibile. Esso è comunque sufficiente per un sicuro confronto: nella stesura delle parti vocali del Vecchi, i materiali musicali sono trattati in maniera totalmente differente dal codice lucchese che, invece, è identico al Giovanelli.
Anche le liriche hanno avuto un peso comparativo importante. Su questo fronte è palese la totale uguaglianza tra il ms 774 ed il Giovanelli; ciò non avviene con la versione del Vecchi71. Particolarmente indicativi sono i termini: tempri Vs scemi72; così Vs talche73. L’intera storia editoriale della villanella consta di undici pubblicazioni (1585-1624). (9) Mentre amor dentro al mio petto – canzonetta
69 Ruggiero Giovanelli, ibidem. 70 Orazio Vecchi, Canzonette di Oratio Vecchi da Modona. Libro III a quattro voci, nuovamente rivisto e ristampato, in Milano, 1586, presso Biblioteca internazionale e Biblioteca musicale di Bologna, collocazione U.273, su www.bibliotecamusica.it, consultato il 30 luglio 2016. 71 Le differenze riscontrate sono indicate in corsivo nella lirica della versione di Orazio Vecchi. 72 Ms 774, R.G. Vs O.V. – seconda sestina, quinto verso. 73 Ms 774, R.G. Vs O.V. – terza sestina, primo verso. Codice 602
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Il codice lucchese omette la lirica di questa canzonetta e pertanto non è possibile un puntuale confronto con i testimoni. Nell’indagine sono però risultate interessanti due omonime composizioni rispettivamente contenute a p. 34 del manoscritto Barbera74 di Firenze ed a p. 21 delle Canzonette et Arie a tre voci di Giovanni Ghizzolo da Brescia75. I testi poetici, pur considerando la lacuna di due sestine nel Ghizzolo, sono sostanzialmente uguali.
74 Arie, musica manoscritta, seconda metà del sec. XVII, disponibile presso la Biblioteca del Conservatorio di musica Luigi Cherubini di Firenze, IT-FI0035; codice Barbera, Segnatura: 85. Arm.o A; CF.83 c. 17v; DAM.1965; su www.internetculturale.it, consultato il 30 novembre 2014. 75 Giovanni Ghizzolo: Canzonette et Arie a tre voci di Gio. Ghizzolo da Brescia novamente composte, et date in luce. Libro Primo. Al molto illustre sig. Gio. Jacomo Arconato del Consiglio Generale della città di Milano. In Venetia, appressi Alessandro Raverij. 1609, presso il Museo internazionale e Biblioteca della musica di Bologna, collocazione Z.217, conservate le sole parti del Canto secondo e Basso, su www.bibliotecamusica.it; consultato il 27 dicembre 2014.
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sec. XVII, Ms Barbera) Mentre Amor dentro al mio petto fu dolcezza fu diletto cantai ridente soavemente tra l’erbe e fiori i dolci ardori.
1609, Giovanni Ghizzolo) Mentre Amor dentr’al mio petto fu dolcezza fu diletto cantai ridente soavemente Fra l’herb’e i fiori i dolci ardori.
Rise il bosco il fonte il prato del mio dolce lieto stato per selve e piagge colte e selvagge sonar s’udia la gioia mia.
Rise il bosco il fonte il prato del mio dolce lieto stato per selve e piagge colte e selvaggie sonar s’udia la gioia mia.
Voi ch’udite i ai contenti con dolcezza i lieti accenti aure volanti a mesti pianti fermate il volo udite il duolo.
[testo mancante]
Udite’ aure udit’insieme queste mie parole estreme e i sospir miei portate a lei ch’al mio dolore di pietra ha il core.
Benché esse diano risposte in merito al contenuto ed all’identità della composizione, è bene precisare che i testimoni utilizzati hanno avuto, in questo caso, solo la funzione di termini di paragone utili per verificare l’aderenza della composizione intavolata nel ms 774 con un modello codificato. Ritengo infatti si debba escludere una qualche discendenza o derivazione diretta. È, infatti, plausibile che la canzonetta in tema sia stata ben conosciuta e di largo consumo nell’epoca indagata, pertanto diffusamente eseguita in maniera anche informale e, alla bisogna, adattata alle necessità esecutive del qui ed ora. Tale frangente potrebbe giustificare la fugace scrittura presente nel codice lucchese, differente da quella invece molto precisa (sia essa manoscritta o a stampa), osservabile nel volume fiorentino e nella raccolta di Giovanni Ghizzolo76. Entrambe paiono essere pensate come una versione più definitiva del brano. Venendo alla musica, il contenuto del ms 774 richiama quello del codice Barbera, dal quale differisce di poco, motivo per cui quest’ultimo è parso più adatto al confronto. La tonalità coincide; la polifonia 76 Diversamente dal codice Barbera e dal ms 774, la composizione del Ghizzolo è a tre voci (C1, C2, B). Codice 602
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del lucchese fa intuire l’uso di uno strumento in la, probabilmente una tiorba77, la cui accordatura rientrante risolve bene la b. 6; l’intavolatura è priva di cenni metrici, ma l’esecuzione strumentale, similmente al fiorentino, rivela un ritmo ternario ed è a due voci78. Nella trascrizione è stata aggiunta una melodia desunta dalle attinenze esistenti tra i due manoscritti79; ciò palesa maggiormente la riconoscibilità del contenuto musicale. Seppure indipendenti nelle genesi, i documenti comparati paiono ispirati da un’analoga idea. La conferma che il testo e la melodia siano stati molto popolari ci giunge da due travestimenti musicali di Alessandro Guiducci. La prima, (1621) Lauda del peccatore che di nuovo torna a Dio80, mostra con chiarezza la derivazione dalla canzonetta profana con la quale condivide gran parte della lirica delle prime quattro sestine81.
77 Strumento intonato in la con accordatura rientrante: la mi si sol re LA SOL FA MI RE DO SI LA SOL. 78 La composizione è per voce di soprano e basso continuo. 79 Pentagramma piccolo. 80 Alessandro Guiducci, Scelta di laudi spirituali raccolte a compiacenza di virtuose e divote persone, Di nuovo ricorrette con nuova aggiunta e figure, parte prima, con gratia, di S.A.S, et privilegio, In Firenze, M D CXXI, Con licenza, de Superiori, nel Garbo, per Alesandro Guiducci, pp. 27-28, presso la Biblioteca Centrale di Roma, collocazione 6.41.F.58.1/0001, inventario 000058314/ Copia A; su www.bncrm.librari.beniculturali.it; consultato il 30 luglio 2016. 81 La trascrizione indica in corsivo i termini differenti; dalla quinta sestina la lirica appare scritta ex novo.
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1621, Alessandro Guiducci) Mentre Giesù nel mio petto fu dolcezza, e fu diletto cantai ridente soavemente fra l’erbe, e fiori i santi amori. Rise il bosco, il fonte, e’1 prato del mio dolce, e lieto flato, per selve, piaggie culte, e selvagge sonar si udia la gioia mia. Voi, che udite i mie lamenti, dolorosi, e mest’accenti, aure volanti a mesti pianti fermate il volo, udite il duolo. Udite aure; udite insieme queste mie parole estreme, e miei sospiri vani desiri c’hò gran dolore al mesto core. Le speranze e i van desiri sono haime doglie, e martiri il riso, il canto rivolto in pianto morendo vivo d’ogni ben privo. De i desir la vana fede schermo, e duolo ho per mercede tra pene tante non vedo errante ove mi mena tormento, e pena. Vergine bella che pietosa siete tutta, & amorosa al mio dolore piegate il core, datemi aita in questa vita. Vergine bella, che sei amica del mio cor la piaga antica lava e monda sana, e feconda scocca immortale celeste strale. Codice 602
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La seconda, (1622) Invito a Giovanetti ad imparare la Dottrina82, citandola esplicitamente in testa al titolo, manifesta senza sottintesi il travestimento spirituale della canzonetta Mentre amor dentro al mio petto. 1622, Alessandro Guiducci) LODI SPIRITUALI Mentre amor dentro al mio petto. INVITO A GIOVANETTI ad imparare la Dottrina. Chi desia dentro il suo petto pace, amor, gioia e diletto canti ridente, suavemente del Redentore L’immenso honore. Chi desia viver giocondo d’alma pura, & di cor mondo, dolce Ragioni, de gli alti doni del paradiso con canto, & riso. Chi desia goder amante di Gesù fido, & costante la sua Dottrina alma e divina, a tutte l’hore servi nel core. Chi desia sua mente accesa Di Gesù corra alla chiesa, ch’indi s’impara la via più chiara con puro zelo, di gire al cielo. Dunque hor voi vaghe angiolette puri spirti anime elette, con l’occhio fisso al crocifisso fate rapina di sua Dottrina. Ch’ei pietoso ogn’hor n’invita, con la sua voce alta, e gradita, figlie dicendo gite prendendo 82 Alessandro Guiducci, Scelta di laudi spirituali raccolte a compiacenza di virtuose e divote persone. Di nuovo ricorrette con nuova aggiŭta. Parte Seconda. Cŏ Gratia, di S.A.S, e privilegio. In Firenze, per Alesandro Guiducci, Con licenza de Superiori, M D CXXII, p. 169, presso la Biblioteca Centrale di Roma, collocazione 6.41.F.58.1/0001; su www.bncrm.librari.beniculturali.it; consultato il 30 luglio 2016.
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mie leggi amate, che voi beate. Non ha il ciel costante Stelle Quant’ha gemme ornate, e belle La mia Dottrina Santa, e divina, che chi l’intende divo risplende. Quei ch’in ciel trionfan santi Fur di mia dottrina amanti Perch’ella, e via, ch’al ciel n’invia vostre belle alme con gigli, & palme. O felici, & fortunate Fanciullette alme ben nate, ch’a tal acquisto, v’invita Christo per darvi il pegno del suo bel regno. Gareggianti hor in amore Date lodi al Creatore, lode divina, che fu dottrina, fide impariate, ch’al ciel poggiate.
Ricollegandoci al codice lucchese, tutto ciò suggerisce alcune riflessioni: in primo luogo vanno puntualizzate le date di pubblicazione del volume del Ghizzolo (1609) e dei Laudari del Guiducci (1621/1622); va inoltre considerato che il codice fiorentino – seppure privo di datazione sicura – è collocabile in un’area temporale stimata nella prima metà del sec. XVII. Anche il ms 774 non ha un’età certa e la sua compilazione, verosimilmente avvenuta per mano di più autori, pare coprire un’apprezzabile estensione temporale. L’ultima parte, quella che appunto contiene Mentre Amor dentro al mio petto, potrebbe essere successiva al 1600, cioè riconducibile ad anni quantomeno prossimi a quelli dei documenti citati.
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(10) Non vedo hoggi il mio sole â&#x20AC;&#x201C; villanella alla napoletana
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ms 774, pagg. 48r, 48v) Non vedo hoggi il mio sole splender nel logo usato né sento le dolcissime parole che mi pon far beato come viver poss’io senz’alma e core porgimi aita Amore. Valle riposte, e monti deserte apriche piagge limpidi freschi, e cristallini fonti andri e fier selvagge voi godete il sereno almo splendore porgi aita Amore. Ite rime dolenti trovate il mio bel lume e cantando narrate i miei tormenti e come un largo fiume spargo dagl’occhi miei a tutte l’hore [porgimi aita Amore.] Hor dammi Amor aita, con un breve ritorno; conduci in qua quella beltà infinita che rende luce al giorno: ma se non mi contenti dirò forte guidami Amor a morte.
1588, Ruggiero Giovanelli, ed. 1600, 1624)83 Non vedo hoggi il mio sole splender nel luogo usato né sento le dolcissime parole che mi pon far beato come viver poss’io senz’alma e core porgimi aita Amore. Valle riposte, e monti deserte apriche e spiagge limpidi freschi, e cristallini fonti andre e fiere selvagge voi godete il sereno almo splendore porgimi aita Amore. Ite rime dolenti trovate il mio bel lume e cantando narrate i miei tormenti e come un largo fiume spargo dagl’occhi miei a tutte l’hore porgimi aita Amore. Hor dammi Amor aita, con un breve ritorno; conduci in qua quella beltà infinita che rende luce al giorno: ma se non mi contenti dirò forte guidami Amor a morte.
Particolarità rilevabile nella lirica è una lacuna, cioè un’elisione del verso “porgimi aita Amore”, che avrebbe dovuto chiudere sempre le prime tre sestine. In realtà, nel lucchese è correttamente riprodotto solo in quella iniziale, contratto – cioè accennato – nella seconda ed assente nella terza. È invece corretta la conclusione dell’ultima, che però prevede un verbo diverso: “guidami”. Tale osservazione spinge a ritenere che proprio la sua ridondanza potrebbe essere la causa dell’errore, spiegabile da un punto di vista psicologico: una costante ripetizione porta il copista a sottovalutarne la necessità di precisione nella duplicazione, perché assume solo una funzione di promemoria. Non a caso, laddove differisce è corretto. L’intera storia editoriale della canzonetta consta di ventiquattro pubblicazioni (1522-1624). 83
83 Ruggiero Giovanelli, ibidem. Codice 602
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(11) Per mostrar d’esser bella – villanella alla napoletana 8485
ms 774, cc. 49r, 49v)84 Per mostra d’esser bella, la mia nemica cru[da, iniqua e fella,] [si] vanta ch’io per lei pianga e sospiro, [o che bel tiro, o che bel tiro, o che bel tiro.
1588, Ruggiero Giovanelli, ed. 1600, 1624)85 Per mostra d’esser bella, la mia nemica cruda, iniqua e fella, si vanta ch’io per lei piango e sospiro, o che bel tiro, o che bel tiro, o che bel tiro.
E se gli parlo, o scrivo, lo sà tosto l’amante, amato,] e divo, [con cui del mio dolor si gloria, e vante o l’è galante, ò l’è gala]nte, ò l’è galante.
E se gli parlo, o scrivo, lo sà tosto l’amante, amato, e divo, con cui del mio dolor si gloria, e vante o l’è galante, ò l’è galante, ò l’è galante.
[Poi perdarmi martello, hor fà l’amor con questo,] et hor con quello, [e par che ogn’or disp]rezza il foco mio, [no te diss’io. Sì bene] mio, o bon per mio.
Poi perdarmi martello, hor fà l’amor con questo, hor con quello, e par che ogn’or disprezzi il foco mio, no te diss’io. Sì bene mio, sì bene mio.
[Ma quel che mi] par peggio, [con ogni] vil plebeo scherzar la veggio, [e tu te] lo comporti, ò ingrato amore, [ò bel h]onore, ò bel honore, ò bel honore.
Ma quel che mi par peggio, con ogni vil plebeo scherzar la veggio, e tu te lo comporti, ò ingrato Amore, ò bel honore, ò bel honore, ò bel honore.
84 Le parole in corsivo tra parentesi quadra corrispondono alle porzioni di testo mancante a causa della lacerazione del f. 49 del ms 774. 85 Ruggiero Giovanelli, ibidem.
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Il foglio dedicato a questa composizione è lacerato, quindi non è possibile usufruire della notazione nella sua interezza. Tuttavia quello che resta del frammento disponibile è ben leggibile ed aderisce perfettamente con la versione del Giovanelli. La lirica della villanella occupa le due facciate del f. 49: sul recto, in calce alla notazione, è scritta la prima quartina e sul verso sono riprodotte le rimanenti tre. Il contenuto letterario, nonostante la mutilazione, è leggibile e sufficiente a confermare la corrispondenza con il testimone. Le piccolissime difformità sono da ritenersi quanto mai insignificanti. L’intera storia editoriale della villanella consta di otto pubblicazioni (1588-1624).
Conclusioni e sintesi delle eventuali paternità Il risultato di questo lavoro86 è stato quello di dimostrare che, diversamente da quanto fino ad oggi sostenuto87, dieci degli undici titoli del ms 774 vantano storie editoriali di tutto rilievo e si rifanno a celebri musicisti ed editori coevi. Immaginare di poter risalire ad un archetipo indubitabile è, per varie ragioni, poco conveniente. In primo luogo, spesso la vera prima sorgente creativa trova la sua concreta collocazione in un’idea non sempre isolabile, nella trasmissione orale, oppure nella mente di chi, paradossalmente, non è chiamato in causa nelle citazioni bibliografiche. In secondo luogo, i documenti che sono oggi disponibili, con ogni probabilità, rappresentano solo una parte di quelli che furono in circolazione nel Cinque-Seicento. Inoltre, un identico materiale musicale, manipolato da differenti musicisti, pur conservando la stessa sostanza e, per così dire, lo stesso codice genetico, trova forme plastiche del tutto autonome. Della larga diffusione e del grande rimaneggiamento di idee musicali e poetiche, sono prova proprio le numerose pubblicazioni che le composizioni del lucchese hanno nel loro curriculum, peraltro impossibile da ritenersi definitivo. Ciò, pur non negando il valore del primo concepimento artistico, di fatto consegna alla versione ri-generata un’autenticità che, da sola, ha un suo pregio – oltre che musicale – anche storico e documentale, certamente oggi non contestabile. Eventuali problematiche riguardano più gli aspetti interpretativi; ma questo è un argomento che esula dal lavoro qui proposto. In conclusione, stabilire quali possano essere state le menti che per 86 Desidero ringraziare: dott.ssa Paola Gibbin e dott.ssa Francesa Filippeschi della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze; dott.ssa Francesca Bassi, dott.ssa Cristina Targa e dott.ssa Marzia Mignani del Museo internazionale e Biblioteca della musica di Bologna; dott.ssa Annalisa Battini della Biblioteca Estense Universitaria di Modena; dott.ssa Federica Riva, bibliotecario del Conservatorio Luigi Cherubini di Firenze; Patrizia Durando per la rilettura. 87 Giovanni Sforza, ibidem, pp. 312-918/312. Codice 602
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prime hanno partorito gli oggetti artistici credo che sarebbe un’impresa impraticabile e forse finanche superflua. Ad oggi è possibile solo individuare la data della più vetusta pubblicazione disponibile di ogni composizione. Di conseguenza, pur senza escludere che tali edizioni possano coincidere con le origini, tuttavia non si può far altro che citarle semplicemente come testimoni più remoti oggi fruibili. La sinossi che segue (tab. E) elenca, in ordine di apparizione, le composizioni vocali del manoscritto lucchese, accanto alle quali sono indicate le edizioni musicali a stampa attualmente risultanti più remote nella storia editoriale di ogni componimento lirico.88899091929394 tab.
E) Sinossi dei testimoni più vetusti contenenti le composizioni vocali del ms 774
(1) Occhi dell’alma mia vivaci e soli
Di Giovanni Piccioni, il Terzo Libro delle Canzoni a cinque voci: da lui nuovamente composte et date in luce. Venezia, 158288.
(2) Ancora che tu m’odii89
Paolo Quagliati, in Ghirlanda di Fioretti musicali composta da diversi ecc.ti musici a tre voci, con l’intavolatura del Cimbalo et del Liuto raccolte et stampate da Simone Verovio. Roma 158990.
(3) Quando mirai sa bella faccia d’oro
Di Giovan Ferretti, il Primo Libro delle Canzoni alla napoletana a sei voci. Nuovamente posto in luce. Venezia, 157391.
(4) Donna mi fuggi
Di Giovan Ferretti, il Quinto Libro delle Canzoni alla napoletana a cinque voci nuovamente posto in luce. Venezia 158592.
(5) Tutta gentile e bella
(6) M’ha punto amor
Gio. Maria Nanino, in Ghirlanda di Fioretti musicali composta da diversi ecc.ti musici a tre voci, con l’intavolatura del Cimbalo et del Liuto raccolte et stampate da Simone Verovio. Roma 158993. Il Secondo Libro delli Madrigaletti a tre voci di Rinaldo Del Mel gentil’huomo fiammengo. Novamente composto et dato il luce. Venezia, 158694.
88 Presso il Museo internazionale e Biblioteca della musica di Bologna. 89 La canzonetta è presente anche nelle Canzonette di Giulio Belli da Longiano, libro primo a quattro voci, Venezia 1595. Questo volume è la riedizione di quello del 1584, tuttavia con l’aggiunta di due composizioni nuove: Ancora che tu m’odii anima mia e Ohimè crudel amore. La più vetusta testimonianza rimane quindi quella del Quagliati, nell’edizione del Verovio (1589). 90 Presso il Museo internazionale e Biblioteca della musica di Bologna. 91 Presso la Bibliothèque Nationale de France. 92 Presso la Bibliothèque Royale de Belgique, nell’edizione moderna di Concetta Assenza, ibidem, pp. 114-115, 192-197. 93 Presso il Museo internazionale e Biblioteca della musica di Bologna. 94 Presso il Museo internazionale e Biblioteca della musica di Bologna.
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Storie di canzonette del ms 774 di Lucca
(7) Sian [fiumi e] fonti
Nessun riferimento.
(8) Porgemi cara Filli
Canzonette di Horatio Vecchi da Modona Libro Terzo a quattro voci, nuovamente posto in luce. Venezia, 158595.
(9) Mentre amor
Canzonette et Arie a tre voci di Gio. Ghizzolo da Brescia novamente composte, et date in luce. Libro Primo. Venezia, 160996.
(10) Non ved’hoggi il mio sole
(11) Per mostrar d’esser bella
Secondo Libro de Madrigaletti et Napolitane a sei voci di Giovanni de Macque, novamente composto, et dato in luce. Venezia, 158297. Il Primo Libro delle Villanelle et Arie alla napoletana a tre voci. Di Ruggiero Govanelli, novamente composte, et date in luce. Venezia, 158898.
Infine, un ultimo interrogativo: nel ms 774, con la sola esclusione di Quando mirai sa bella faccia d’oro99, ci sono solo melodie per basso invece dell’intero sistema. Ciò accade in Occhi dell’alma mia vivaci e soli, Donna mi fuggi ogn’hora, Sian [fiumi e] fonti, Porgemi cara Filli, Non ved’hoggi il mio sole e Per mostrar d’esser bella100. È possibile che il redattore di questa parte del codice possa essere stato un cantante di tale tessitura? Evidentemente non c’è una risposta assodata, ma questo è il limite ed il fascino della ricerca. 95969798
95 Presso il Museo internazionale e Biblioteca della musica di Bologna. 96 Presso il Museo internazionale e Biblioteca della musica di Bologna. 97 Diversamente da quanto può apparire dalla tab. C/1, il testimone oggi risultante più vetusto, riconducibile alla lirica della canzonetta, non è quello di Felice Anerio (n. 53bis N.V.). Infatti, come ho spiegato nella nota dedicata, il volume del 1522 non può ritenersi probatorio e, di conseguenza, il testo più antico sembrerebbe essere Il primo libro delli Madrigali a cinque voci (1575) di F. Benedetto Serafico di Nardò (n. 325 N.V.). Questo tomo, conservato presso la Biblioteca Estense di Modena, ha in sé un madrigale intitolato Non ved’hoggi il mio sole. La lirica, che combacia con il lucchese nei soli primi quattro versi e parte nel quinto della prima sestina, certamente fruisce della stessa origine, ma non ne soddisfa l’interezza; “Non ved’hoggi il mio sole, splender nel luogo usato, né sento le dolcissime parole, che mi può far beato, come dunque poss’io tenerm’in vita, senza l’usata aita. Ov’è l’alma mia luce, ov’è sparita […]”. Medesimi riscontri si hanno anche nel Primo libro de Madrigali a cinque voci (1578) di Paolo Bellasio Veronese (n. 296 N.V.), disponibile presso il Museo internazionale e Biblioteca della musica di Bologna e nel Quinto libro de Madrigali a cinque voci (1581) di M. Domenico Micheli (n.1845 N.V.), custodito presso la Biblioteca Estense di Modena. Presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze si trova il Secondo Libro de Madrigaletti et Napolitane, a sei voci (1582) di Giovanni De Macque (n. 1546 N.V.) ed in esso è contenuta una nuova versione del Non ved’hoggi il mio sole; «Non vegg’hoggi’l mio sole splender nel loco usato, ne sento le dolcissime parole che pon far beato, come viver pos’io senz’alm’et core porgim’aita Amore». Questa risulta essere la prima formulazione poetica che corrisponde fedelmente a quelle che poi appariranno nel ms 774 e nel Giovanelli (1588). 98 1600, 1624, presso il Museo internazionale e Biblioteca della musica di Bologna, in copia anastatica Arnaldo Forni Editore, Bologna, 1980; stesso indice del 1588 (N.V. nn. 12411247, pp. 784-786). 99 c. 44v (3). 100 cc. 47r (1), 45r (4), 44r (7), 46r (8), 48r (10), 49r (11). Codice 602
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Tesi di laurea
Il respiro del mondo: numeri e principi matematici nella composizione – Sofia Gubaidulina e la Sonata per pianoforte (1965)
di Cristina Concetti*
1. Il fiore che cresce sui sassi: la vita e il contesto storico-politico Sofia Asgatovna Gubaidulina è nata il 24 ottobre 1931 ed è cresciuta a Kazan’, nella Repubblica Tatara dell’allora Unione Sovietica, importante crocevia tra la Russia occidentale e quella orientale. Vi si concentravano molte minoranze etniche e numerosi intellettuali, cosa che ne faceva un centro con un buon fermento culturale. Erano inoltre presenti e ben radicate le tradizioni musicali, da un lato di tipo diatonico, di discendenza occidentale, dall’altro di tipo pentafonico, di origine orientale. La famiglia di Sofia Gubaidulina, come la quasi totalità della popolazione dell’Unione Sovietica all’epoca, viveva nella povertà. Ricorda Gubaidulina: “Per mangiare siamo stati costretti a vendere mobili e vestiti”1. Non c’era assolutamente nulla con cui un bambino avrebbe potuto giocare e così, “improvvisamente, la mia immaginazione di bambina si è rivolta al cielo. […] Certo, tutto questo nasceva dalla povertà, ma era una così grande ricchezza”2. Un avvenimento significativo della sua infanzia è stata la nascita del sentimento religioso: guardando un’icona, “riconobbi il Cristo […] avevo solo cinque anni […] I miei genitori erano spaventati che io potessi essere religiosa”3. La religione, infatti, era molto osteggiata dal regime di Stalin. “Dall’inizio della mia esistenza […], la musica era il senso della * Cristina Concetti è nata nel 1993 a San Benedetto del Tronto nelle Marche. Si è avvicinata alla musica da bambina, grazie al pianoforte, e ha proseguito i suoi studi musicali al Conservatorio Pergolesi di Fermo, sotto la guida del M° Fabrizio Viti, e all’Istituto Boccherini di Lucca, sotto la guida del M° Riccardo Peruzzi, dove ha conseguito il diploma di I livello con il massimo dei voti nel 2015. È allieva della Scuola Normale Superiore dal 2013 ed è attualmente iscritta alla laurea magistrale in Neuroscienze all’Università di Pisa. 1 Gubaidulina – Un’autobiografia dell’autore raccontata da Enzo Restagno, a cura di Enzo Restagno, Torino 1991, p. 8. 2 Documentario The Fire and the Rose – A Portrait of Sofia Gubaidulina, diretto da Barrie Gavin, 1990, BBC. 3 Ibidem. Codice 602
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mia vita. […] Un essere umano, anche nelle condizioni più difficili, […] deve avere davanti a sé qualcosa di sacro. […] Tutta la mia vita era colorata di grigio e mi sentivo bene soltanto quando varcavo la porta della scuola di musica” 4. Un giorno, poco dopo l’inizio dei suoi studi musicali, nella casa della piccola Sofia comparve un pianoforte a coda, che scatenò la fantasia della bambina, davanti alla quale si dischiudeva un intero mondo sonoro: “sotto di esso si potevano sentire suoni inusuali, si poteva suonare direttamente sulle corde o sulla tastiera, c’erano così tante possibilità” 5. Di fronte alla semplicità dei primi piccoli pezzi da imparare che le erano stati assegnati, in confronto alle potenzialità dello strumento, nacque in lei la volontà di comporre: “Sapevo che […] ciò avrebbe voluto dire lavorare di notte” 6. Nel 1951, Gubaidulina, ventenne, si è trasferita a Mosca per completare i suoi studi musicali di pianoforte e composizione al Conservatorio, sotto la guida di Nikolai Peiko. “È stato un periodo molto duro […] Lo stipendio era appena sufficiente per non patire la fame; non potevo quindi comprare il biglietto per un concerto e dovevo industriarmi per entrare gratis o andare alle prove”7. Nei 10 anni trascorsi al Conservatorio di Mosca, Gubaidulina ebbe modo di entrare in contatto anche con gli altri musicisti più significativi del tempo: “Schnittke e Denisov erano […] miei compagni di scuola e attorno a loro c’era un’atmosfera molto fervida e positiva”8. Un incontro che segnò la giovane compositrice fu quello con Šostakovič, in occasione di un esame di composizione: “Šostakovič prese le mie difese, sfidando l’opinione degli altri insegnanti. […] Non dimenticherò mai il momento in cui mi disse che mi augurava di proseguire la mia strada “non giusta”. Da allora provo per lui una riconoscenza infinita”9. Nel 1962 ebbe inoltre l’occasione di incontrare Stravinsky, tornato in Russia dopo 48 anni di assenza: “una sorta di leggenda vivente […] incontrarlo, sentirlo parlare, vederlo dirigere la sua musica aveva dello straordinario”10. Ciò era stato possibile anche grazie al clima leggermente più aperto e favorevole in cui vivevano gli intellettuali nel periodo del disgelo, iniziato nel 1953 con la morte di Stalin e la salita al potere di Nikita 4 Gubaidulina, cit., p. 4. 5 Gavin, The Fire and the Rose, cit. 6 Ibidem. 7 Gubaidulina, cit., p. 9. 8 Ibidem, p. 15. 9 Ibidem, p. 12. 10 Ibidem, p. 16.
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Kruščëv. Negli anni Sessanta la vita di artisti e musicisti migliorò però solo leggermente: “Lo stato sovvenzionava alcuni settori della vita artistica […] Lo stato comprava opere dai compositori. […] Il ministero poneva all’artista […] una condizione: che l’opera fosse scritta secondo un determinato carattere ideologico”11. Nel 1964 arrivò a Mosca Pierre Boulez che diresse l’orchestra della BBC in opere di Schönberg, Berg, Webern e proprie, suscitando un grande entusiasmo: “Ebbi infatti proprio allora la sensazione di uscire poco alla volta dall’ombra, e poi nacque in noi la speranza che avremmo finalmente potuto anche noi prendere parte al processo di evoluzione universale”12. In quanto all’influenza della Seconda scuola di Vienna, gli spartiti e le informazioni che giungevano a lei e agli altri studenti erano poche: “Noi siamo entrati in possesso di quel tipo di musica più tardi degli altri paesi; a quel punto per noi tutte quelle cose erano già storia e le nostre tradizioni erano già fatte”13. Gubaidulina inquadra la dodecafonia e tutti gli altri movimenti del Novecento nell’ottica di un processo di smantellamento delle tradizioni e del materiale sonoro: “Il nostro secolo ha affrontato il problema della preparazione della terra per poi seminare e avere quindi nuovi raccolti. In questa fase di preparazione il terreno deve essere livellato”14. Nel 1965 Gubaidulina compose la prima delle sue opere comprese in catalogo, Cinque studi per contrabbasso, arpa e percussione, con una tecnica seriale. “Mi sono addentrata in quello stile studiandolo a fondo, […] ma con l’intenzione di raccogliere le energie che mi consentissero di scavalcarlo”15. Analogo è stato il suo rapporto con la musica aleatoria: nella sua cantata Notte a Menfi del 1968 per mezzosoprano, coro maschile e orchestra da camera si può trovare, nell’ultima parte, una scrittura che richiama l’alea controllata, con riquadri nella partitura che racchiudono schemi che gli strumenti sono chiamati a sviluppare. Riguardo alle opere composte da frammenti distaccati che vengono eseguiti in una successione scelta dall’esecutore, però, chiarisce: “Le necessità di Boulez e di Stockhausen nei confronti della forma sono completamente diverse dalle mie. […] Per me è invece molto importante raggiungere una forma che serva a chiudere lo spazio sonoro”16. Gubaidulina non è estranea neanche alla musica elettronica e microtonale: 11 Ibidem, p. 36. 12 Ibidem, p. 24. 13 Ibidem, p. 15. 14 Ibidem, p. 27. 15 Ibidem, p. 33. 16 Ibidem, p. 35. Codice 602
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negli anni Settanta cominciò infatti a frequentare un laboratorio di musica elettronica. Da questa esplorazione nacque Vivente-non vivente, un’opera di musica elettronica mista a musica concreta “il cui materiale di base era prelevato dalla vita: respiro umano, riso, suono delle campane e altre cose del genere”17. Gli anni Settanta furono per la compositrice un periodo molto prolifico, che vide nascere diverse tra le sue opere più rilevanti, come il Quartetto n. 1 per archi (1971), Concordanza (1971) per complesso da camera, Detto-II (1972) per violoncello e complesso da camera, Stupeni (Gradi, 1972) per orchestra sinfonica in sette movimenti, Čas duši (L’ora dell’anima, 1974) per mezzosoprano e orchestra di fiati, Detto-I (1978) per organo e percussioni. Nel 1975, inoltre, fondò con i compositori Viktor Suslin e Vyacheslav Artyomov il gruppo Astreja, dedito principalmente all’improvvisazione su strumenti antichi. Da questa sperimentazione nacque nel 1977 Po motivam tatarskogo folklora (Su motivi del folclore tataro), ciclo di tre raccolte per pianoforte e domra, strumento tataro ad arco a tre corde, suonato con il plettro. Fu, però, anche un periodo molto duro per la sua attività: “[…] mi risultava difficile far eseguire i miei lavori […]. I responsabili dell’organizzazione dei concerti cancellavano semplicemente le mie opere dai programmi”18. L’ostilità degli uomini di potere verso Gubaidulina e diversi suoi colleghi, tra cui Schnittke e Denisov, era dovuta alla mancanza, da parte loro, di dichiarazioni ufficiali di adesione all’ideologia del partito. Ad un congresso dell’Unione dei compositori, Khrennikov, che ne era a capo, presentò una lista di musicisti, tra cui Gubaidulina, e “dichiarò che […] erano degni di ogni riprovazione e delle critiche più forti. Quello era l’elenco dei compositori da disprezzare e […] fu un colpo tremendo, perché chiudeva tutte le porte”19. L’accusa era che le loro opere erano state eseguite al Festival di Venezia: personalità apprezzate dal mondo occidentale non potevano certo essere dei buoni cittadini sovietici e “ufficialmente era proibito alle nostre partiture comparire all’estero”20. Nonostante ciò, Gubaidulina non si piegò al potere e proseguì per la propria strada con fervore ancora maggiore. Da questo sforzo nacquero due delle sue opere più famose: i concerti Introitus per pianoforte e orchestra da camera, nel 1978, e Offertorium per violino e orchestra, nel 1980, che rientrano in un grande progetto di messe strumentali che comprende Stupeni per orchestra sinfonica 17 Ibidem, p. 39. 18 Ibidem, p. 41. 19 Ibidem, p. 79. 20 Ibidem, p. 73.
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(1972), come graduale, mentre Detto-II (1972) svolge la funzione di communio. Offertorium è dedicato al violinista lettone Gidon Kremer, che lo eseguì per la prima volta a Vienna nel 1981, evento a cui Gubaidulina non poté essere presente: “[…] non era neanche concepibile chiedere un visto per andare a Vienna”21. Kremer è uno degli interpreti con cui Gubaidulina ha lavorato volentieri e che considera coautore delle sue opere: la composizione di Offertorium le è stata commissionata da lui e ispirata dal suo modo di suonare. “Quando lui tocca la corda dello strumento si ha la sensazione di una vibrazione totale, come se tutta la sua energia vitale si raccogliesse in quel punto. […] mi fu subito chiaro che avrei voluto esprimere quella specie di dedizione totale dell’interprete all’atto del suonare e che il componimento sarebbe stato in qualche modo un’azione sacrificale”22. Da qui l’idea di sacrificio del tema: il tema viene ridotto ad ogni ripetizione, fino a scomparire del tutto, simboleggiando l’annientamento del singolo in contrapposizione con il mondo, in cui l’unica salvezza è data dal passaggio ad un’altra dimensione, quella spirituale. Altri interpreti sono stati altrettanto importanti nel processo creativo di Gubaidulina, consentendole di operare una profonda esplorazione dei loro strumenti, tanto che lei li considera dei coautori: “Ho la sensazione che un pezzo non sia completo fino a che non incontro gli esecutori. Ho l’impressione che l’arte di comporre è diversa da tutte le altre arti: il compositore non fa tutto il lavoro, bensì fa metà del lavoro”23. Al violoncellista Vladimir Toncha sono dedicati i Dieci preludi per violoncello (1974), in cui vengono esplorate le diverse modalità di emissione del suono, come staccato, legato, pizzicato, ricochet, sul tasto, sul ponticello. Il Concerto per fagotto e archi gravi (1975) è dedicato al virtuoso del fagotto Valerij Popov, che rivoluzionò e ampliò le possibilità di produzione del suono con il suo strumento. Il percussionista Mark Perkarskij, attento collezionista di strumenti a percussione provenienti da tutto il mondo, ha ispirato più di un’opera, tra cui la seconda versione di Čas duše (L’ora dell’anima, 1976), per mezzosoprano, orchestra di fiati e percussioni, e Jubilacja (Jubilatio, 1979), per quattro percussioni. Gubaidulina ha impiegato inoltre diversi cordofoni orientali, come il tar iraniano e il koto giapponese. Lo strumento che forse è stato più rivoluzionato da Sofia Gubaidulina è però la fisarmonica, grazie alle innovazioni introdotte da Friedrich Lips nella tecnica strumentale, a partire dal 1978 con De Profundis per 21 Ibidem, p. 72. 22 Ibidem, p. 70. 23 Bruce Duffie, Composer Sofia Gubaidulina – A Conversation with Bruce Duffie, http://bruceduffie. com/gubaidulina.html, 1997. Codice 602
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fisarmonica sola e proseguendo con il brano Sem’slov (Sette parole, 1982) per violoncello e fisarmonica: questo strumento ha affascinato molto la compositrice per la sua peculiare caratteristica di poter “respirare” e nella sua simbologia strumentale è spesso associato a Dio Padre. All’inizio degli anni Ottanta il clima politico si fece più disteso e le condizioni di artisti e musicisti migliorarono: Gubaidulina poté veder eseguita Sette parole, a condizione che modificasse il titolo, in quanto si richiamava esplicitamente alla religione, in Partita per violoncello e orchestra d’archi. Nel 1985 divenne segretario del partito Gorbačëv, che dichiarò ufficialmente ciò che il popolo intuiva già da tempo: il sistema economico basato sulla pianificazione non aveva dato i frutti sperati e perciò era necessario un cambiamento. In questo decennio, Gubaidulina produsse diverse altre opere importanti, oltre a quelle ispirate dai suoi esecutori preferiti, tra cui Descensio (1981) per un complesso strumentale inusuale che comprende clavicembalo e celesta, Perception (1983) per soprano, baritono e strumenti ad arco, su testi del poeta tedesco contemporaneo Franzisko Tanzer, Posvjaščenie Marine Cvetaevoj (Omaggio a Marina Cvetaeva, 1984) per coro a cappella su testi della poetessa, V na čale byl ritm (In principio era il ritmo, 1984) per percussioni, Et ex-specto (1985) per fisarmonica sola, la sinfonia in 12 movimenti Stimmen… Verstummen… (1986), Posvjaščenie T. S. Eliotu (Omaggio a T. S. Eliot, 1987) per soprano e complesso strumentale, due quartetti per archi (1987) e la sinfonia per orchestra Pro et contra (1989). La sinfonia Stimmen… Verstummen…, eseguita a Berlino nel 1986, ebbe un enorme successo, tanto da diventare assieme ad Offertorium uno dei suoi brani più noti, e portò la compositrice alla notorietà sul piano internazionale, resa possibile anche dal clima di distensione e apertura della politica sovietica. Da quel momento poté anche viaggiare all’estero: nel 1987 visitò per la prima volta gli Stati Uniti. Gubaidulina commenta così l’attenzione del panorama musicale mondiale verso di lei negli ultimi anni: Da un lato la situazione presente mi schiude possibilità mai viste prima, per realizzare nuove opere, concepire altri progetti; dall’altro questa situazione interiore implica anche il pericolo di distruggere quel tipo di concentrazione interiore dalla quale soltanto hanno potuto nascere opere come Perception. Prima dovevo fare i conti con un altro genere di pericolo: lo scoraggiamento e la delusione […]. Adesso il pericolo è rappresentato dalla dispersione24.
Ma Gubaidulina, temprata dalle difficoltà della vita, ha saputo far fronte anche alla nuova notorietà. Nel corso di un successivo viaggio a New 24 Gubaidulina, cit., p. 86.
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York, dopo un lungo processo di maturazione interiore sul tema della morte e della gioia, scrisse Alleluja (1990), una sorta di requiem che sfocia nel ringraziamento a Dio, che prende spunti da un antico inno ortodosso come Pro et contra e che con quest’ultimo forma un dittico. Negli ultimi trent’anni orchestre, solisti e conservatori di tutto il mondo le hanno commissionato molte opere, come Silenzio (1991) per bayan – fisarmonica a bottoni nata in Russia all’inizio del XX secolo –, violino e violoncello, Der Seiltänzer (Il Funambolo, 1993) per violino e pianoforte, il Quartetto n. 4 per archi (1993), In Erwartung (1994) per sassofoni e percussioni, Concerto per viola e orchestra (1996), dedicato a Yuri Bashmet ed eseguito da lui per la prima volta; Two paths: a dedication to Mary and Martha (1998) per due viole e orchestra, Johannes-Passion (2000) e Johannes-Ostern per soprano, tenore, baritono, basso, due cori, organo e orchestra, che formano un dittico monumentale; Risonanza (2001) per trombe, tromboni, organo e archi, Riflessioni sul tema BACH (2002) per quartetto d’archi, Mirage: The Dancing Sun (2002) per otto violoncelli, In Tempus Praesens (2007) concerto per violino e orchestra eseguito per la prima volta da Anne-Sophie Mutter, Fachwerk (2009) concerto per bayan e archi, Labyrinth (2011) per 12 violoncelli. Gubaidulina nel corso della sua carriera ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti, in patria e nel resto del mondo, tra cui quello del Concorso Internazionale di Composizione di Roma (1974), il Prix de Monaco (1987), il Koussevitzky International Record Award (1989 e 1994), il Premio di Stato Russo (1992), il Premio Imperiale Giapponese (1998), il Cannes Classical Award (2003). Dal 1992 vive in Germania.
2. Un accordo che riluce di tutti i colori: caratteri generali dello stile compositivo La personalità artistica e lo stile compositivo di Sofia Gubaidulina sono del tutto peculiari e sfuggono a qualsiasi classificazione nel contesto dei movimenti musicali d’avanguardia e delle tendenze stilistiche del XX secolo. Una delle particolarità che la caratterizzano è quella di essere nata e cresciuta nel Tatarstan, punto di incontro tra Oriente e Occidente, in cui la componente di etnia russa, legata al cristianesimo ortodosso, convive accanto a quella tatara di fede islamica. L’intreccio di elementi legati alla cultura orientale e a quella occidentale è molto evidente nella sua produzione artistica. All’Oriente sono tipicamente legati i concetti di unità, meditazione e silenzio, staticità e irrazionalità, mentre all’Occidente spettano quelli di dualità, dinamicità e parola, azione e razionalità. In tutte le opere di Gubaidulina, un ruolo primario è rivestito dall’unità: ogni brano è basato su un’idea centrale, sovente espressa nel titolo, e il ruolo stesso dell’arte, e della musica in particolare, è quello Codice 602
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di ricostituire l’unità con il Creatore, dispersa nella frammentarietà della vita e delle cose terrene. Ciò è in linea con il principio orientale secondo cui “la molteplicità porta allo smarrimento, per questo l’uomo saggio conserva l’unità”, principio espresso nell’I Ching o Libro dei mutamenti, testo classico del confucianesimo cinese risalente al terzo millennio a.C. Il silenzio è una parte fondamentale della funzione religiosa musulmana, cui Gubaidulina ebbe modo di assistere una volta e da cui rimase molto colpita. Esso è anche un principio fondante della sua musica, non solo nel rapporto tra note e pause, che definisce il ritmo, ma anche come interiorizzazione del suono: l’esempio più emblematico è costituito dalla sinfonia Stimmen… Verstummen…, in cui il momento culminante coincide con il silenzio dell’orchestra. La componente occidentale è legata alla grande stima per compositori e umanisti dell’area tedesca – Bach, Webern, Göthe, Hölderlin – derivante dall’educazione musicale, veicolata da insegnanti di radici ebraiche. Legata all’Occidente è l’idea di dualità e contrapposizione di due opposti, anch’essa molto evidente nell’intera opera di Gubaidulina, disseminata di quelle che lei definisce “opposizioni binarie”, riguardanti il materiale tematico, il ritmo, la struttura e tutte le componenti del linguaggio musicale. Ciò è evidente finanche dai titoli, come Sad radosti i pečali (Giardino di gioia e tristezza), Čet i ne čet (Pari e dispari), Pro et contra, che, inoltre, sono quasi sempre in russo o in tedesco o in latino. In Gubaidulina, però, gli elementi occidentali e orientali non sono semplicemente presenti gli uni accanto agli altri, bensì si fondono e si amalgamano in un modo tanto naturale e spontaneo da rendere la sua arte unica e del tutto particolare, senza confini e universale. Strumenti orientali come la dorma tatara, il koto giapponese, le percussioni a suono determinato e indeterminato cinesi, indiane e dell’Asia centrale suonano insieme a strumenti tipicamente occidentali come il pianoforte, gli archi e l’organo, in una sinergia e un amalgama timbrico che rivelano una ricerca profonda sul suono. I versi di poeti russi come Marina Cvetaeva (L’ora dell’anima 1988, Omaggio a Marina Cvetaeva, 1984), tedeschi come Franzisko Tanzer (Perception, 1983) e anglosassoni come T. S. Eliot (Omaggio a T. S. Eliot, 1987) sono messi in musica al pari di quelli dei poeti persiani Hagāni Shirvani, Hāfiz e Omar Khayyām (Rubajjat, 1969) – vissuti tra il XII e il XIV secolo, autori di robå’i, un tipo di componimento poetico in quartine di contenuto lirico e filosofico, il cui plurale è proprio rubajjat – ed anche delle iscrizioni tombali dell’Antico Egitto (Notte a Menfi, 1968). Sofia Gubaidulina guarda alle sue radici tatare nei tre cicli Su motivi del folklore tataro (1977) per domra e pianoforte, nelle sue musiche per film e nei caratteri di durezza e ascetismo delle sue opere giovanili. 194
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L’elemento russo è invece presente nel richiamo alla liturgia ortodossa in Alleluja (1990), nella chiarezza e concretezza del linguaggio musicale ed anche nella assoluta dedizione e concentrazione dell’artista e di tutte le sue forze nel suo lavoro. Sarebbe però un errore considerare la produzione di Gubaidulina come musica di carattere nazionale, infatti, pur avendo a cuore le proprie radici, ella sottolinea: “I problemi che affronto innanzitutto non sono nazionali ma appartengono a tutto il genere umano”25. Il valore universale che sta forse più a cuore a Gubaidulina è la libertà: “Essere un uomo libero è assolutamente indispensabile […]. Nella libertà risiede la possibilità di realizzare pienamente il proprio essere”26. Razionalità e intuito intervengono nel processo creativo della compositrice in maniera estremamente costruttiva: elementi razionalmente controllati, anche mediante l’uso di proporzioni numeriche come la serie di Fibonacci, vengono sottoposti all’intuito e fatti fiorire, mentre le più spontanee espressioni dell’intuito vengono processate e strutturate razionalmente, acquisendo maggiore significato. Gubaidulina rivela: “Ho sempre il pieno controllo del processo [compositivo]”27, però “Anche nel caso in cui domina il supporto strutturale, comunque vince l’intuizione […]. Per me la cosa più importante è non interferire con l’intuizione”28. Ed è proprio dall’intuizione che nasce l’idea fondante dell’opera, precedente a qualsiasi tentativo di traduzione nel linguaggio musicale: “È un momento che chiamerei di vero piacere. […] un momento in cui c’è [nella mia mente] un accordo che riluce di tutti i colori e risuona con tutte le note […] una visione connessa con impressioni uditive e visive”, a cui segue lo sforzo di “cercare di capire cosa c’è”29 in quel magico accordo. Il concetto di idea fondante puramente intuitiva si richiama all’Oriente, ma la sua trasformazione in materiale tematico che viene esposto e variato è di matrice prettamente occidentale, come anche il simbolismo applicato sempre più estensivamente nel corso della sua produzione artistica, fino a coprire tutti gli ambiti musicali: i diversi strumenti, i loro registri, le modalità di emissione del suono, il ritmo. D’altro canto, la musica di Gubaidulina ha in sé la concezione della meditazione orientale, non come quiete e distacco, ma come massima tensione intellettuale e sensoriale in grado di portare l’essere umano alla trascendenza. 25 Valentina Kholopova, Gubaidulina – Sofija Gubajdulina. Tra Oriente e Occidente, trad. it. di Luigi Giacone, 1991, p. 101.
26 Da un intervento di Sofia Gubaidulina al Conservatorio di Sverdlovsk il 22 Gennaio 1990. 27 Duffie, Composer Sofia Gubaidulina, cit. 28 Ibidem. 29 Ibidem. Codice 602
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Un ruolo di primaria importanza rivestono i titoli – rivelatori di quell’idea fondante – attraverso i quali Gubaidulina riesce ad evocare sinteticamente un’immagine o un concetto, come nel caso di Concordanza (1971), termine che deriva dalla fusione di concordia e consonanza, o di Et ex-specto (1985), dove vengono fusi i verbi expecto e specto – in latino, expecto vuol dire aspettare o aspettarsi, mentre specto ha il significato di osservare, contemplare, tendere a qualcosa, da cui il sostantivo italiano speculazione –, o ancora nel caso di Stimmen… Verstummen… (1986) – il titolo prende spunto da una poesia di Franzisko Tanzer e si può tradurre con Voci… Ammutolite… –, sinfonia basata appunto sul rapporto tra suono e silenzio. La sua musica, perciò, per il fatto che presenta quasi sempre un’idea concreta spesso accompagnata da una ricca simbologia strumentale e ispirata ad un testo poetico, si può inquadrare nell’ambito della musica detta descrittiva o a programma, pur non condividendo i caratteri stilistici né di intenti delle grandi sinfonie descrittive della seconda metà dell’Ottocento. Uno dei compositori più amati e stimati da Gubaidulina è Johann Sebastian Bach, alla cui scrittura però ella non si richiama mai: “tutto ciò che ho assimilato si forma [in me] come le radici di un albero, e il [mio] lavoro come i suoi rami e le sue foglie”30. Tra gli autori guardati con ammirazione vi sono anche Wagner e Alban Berg, ma “Dmitry Šostakovič e Anton Webern hanno avuto la maggiore influenza sul mio lavoro. Anche se la mia musica non ne conserva alcuna traccia apparente, questi due compositori mi hanno insegnato la lezione più importante di tutte: essere me stessa”31. Una caratteristica dello stile di Gubaidulina, in comune con la Seconda Scuola di Vienna e con gli autori del Novecento in generale, è l’estetica del rifiuto, che consiste nel rifiutare i capisaldi della musica romantica ottocentesca: la melodia, nel senso di cantabile, e l’armonia che, secondo Stravinsky, “come scienza degli accordi e delle loro interrelazioni ha avuto una storia brillante ma di breve durata”32. In tale ottica si pone anche la necessità di fare di ogni opera d’arte del Novecento un “pezzo unico”, il che si traduce nella scelta di un organico inedito e di una tecnica compositiva innovativa per ogni brano: nella produzione di Gubaidulina si hanno il Concerto per due orchestre (1976) di cui un’orchestra sinfonica e una jazz band, il Trio (1976) per tre trombe, il Quartetto (1977) per quattro flauti, il Duo-Sonata (1977) per due fagotti, la sonata Detto-I (1978) per organo e percussione e Jubilatio (1979) per percussioni, per citare alcuni esempi. Nella sua ricerca 30 Naxos Classical Music, Sofia Gubaidulina, http://www.naxos.com/person/Sofia_Gubaidulina_. 31 Ibidem. 32 Kholopova, Gubaidulina, cit., p. 102.
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sul suono ella giunge anche, nelle parole della musicologa Valentina Kholopova, alla costruzione di “colori sonori particolarmente ricercati e raffinati”33, con una sola nota o un solo accordo che tremola, vibra e scintilla in intere sezioni di alcuni brani del periodo della maturità, tra cui emblematico è il Quartetto n. 2 per archi (1987). Tale procedimento può essere a ragione accostato alla Klangfarbenmelodie, cara a Schönberg e ai suoi allievi. Il linguaggio musicale del Novecento presenta, tra gli aspetti innovativi, la cosiddetta drammaturgia, che in Gubaidulina è un principio compositivo fondamentale: si tratta di una concezione scenica del brano musicale, in cui sono presenti blocchi corrispondenti all’azione e alla contro-azione. Tale principio ben si sposa con le opposizioni binarie presenti nella sua musica e viene messo in atto principalmente tramite il diverso uso degli strumenti musicali e delle modalità di emissione del suono. Si possono prendere ad esempio i concerti per solista e orchestra Introitus (1978) e Offertorium (1986), in cui l’orchestra è identificata musicalmente con il personaggio della folla che banalizza, ingloba e annichilisce il solista, protagonista ed eroe sconfitto che inizialmente suona in maniera totalmente indipendente dall’orchestra ma alla fine non può che soccombere e allinearsi con essa. Un struttura drammaturgica è evidente anche nella cantata Notte a Menfi (1968), dove il mezzosoprano è la protagonista femminile, che esprime la sua afflizione per la caducità della vita e dell’amore in maniera profondamente lirica e individuale, mentre il coro maschile, registrato su nastro, rappresenta la sfera delle emozioni esteriori, collettive, impersonali del popolo egizio. Gubaidulina fa inoltre ampio uso del parametro di espressione (termine coniato dalla musicologa Valentina Kholopova) o fisionomia sonora, che consiste nell’uso cosciente e precisamente determinato delle diverse gradazioni dei parametri caratteristici della musica, come l’uso della voce e degli strumenti, le modalità di articolazione del suono e il ritmo. Per la voce, ad esempio, Gubaidulina utilizza 7 gradi di espressione in Perception (1983) e addirittura 26 in Omaggio a Marina Cvetaeva (1984), tra cui figurano il canto con risonanza del respiro, il canto limpido, il parlato con risonanza del respiro, il parlato limpido, il sussurro, la Sprechstimme, il parlato con intonazione, il parlato con intonazione e risonanza del respiro, l’inspirazione, l’espirazione, suoni con altezza approssimativa, il discorso glissato, il discorso ritmato o non ritmato. Tra le diverse modalità di articolazione del suono negli strumenti musicali si trovano, oltre ai tradizionali staccato, legato, pizzicato e vibrato, comuni a molti, anche con l’arco, ricochet, glissando, flautato per gli archi, glissando e cluster per la fisarmonica e il bayan, suoni doppi per il fagotto, la cui produzione è stata resa possibile 33 Ibidem. Codice 602
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grazie alla particolare tecnica ideata da Valerij Popov, con le dita, con la bacchetta, con il plettro e molte altre opzioni ancora per gli strumenti a percussione. Anche il ritmo è un parametro impiegato con una grande varietà e organizzato su molti livelli, dal livello motivico e tematico a quello delle sezioni fino al livello dell’intera struttura del brano, sia in senso orizzontale, come successione di durate dei suoni e delle pause, sia in senso verticale, come loro sovrapposizione. Il ritmo per Gubaidulina è il fondamento architettonico della struttura delle composizioni, come testimonia il titolo In principio era il ritmo (1984), e viene spesso da lei identificato come scansione spaziale. Nella stessa ottica, le tradizionali melodie e armonie si configurano come parte del parametro di espressione della sola altezza del suono, l’una in senso orizzontale e l’altra in senso verticale. La grande quantità di procedimenti compositivi applicati a questo parametro nel corso della storia della musica – le modalità di conduzione della melodia, gli sviluppi dell’armonia, il contrappunto – possono essere parimenti utilizzati per tutti gli altri aspetti della fisionomia sonora. Ed ecco che la musica di Sofia Gubaidulina, pur mancando in maniera quasi totale di passaggi melodici cantabili e dell’armonia tonale, ha una struttura e una logica perfettamente funzionanti, che veicolano un significato musicale molto chiaro e diretto, attraverso l’uso del contrappunto del ritmo e della contrapposizione dei modi di articolazione del suono, che vengono ad acquistare un significato simbolico: staccato, simbolo della molteplicità e dei mali terreni, contro legato, simbolo di connessione, trascendenza e unione con il divino. Nelle parole di Valentina Kholopova, Gubaidulina “ha sostituito un certo tipo di accessibilità musicale – quello di frasi melodiche che tutti possono cogliere – con un tipo diverso: quello di un suono ad alta carica emozionale, un suono tremante, vibrante, esclamante, comprensibile ad ognuno senza necessità di traduzione”34. Parlando delle ricerche sul suono condotte attraverso i suoni armonici e la microtonalità all’inizio del Novecento, Gubaidulina le considera “un punto di partenza. La vita all’interno del suono, d’accordo. Ma bisogna andare oltre, inseguendo l’articolazione di quel suono nello spazio, il suo mutare con il passaggio da uno stato all’altro, in una sorta di sublimazione che trascenda la trivialità del suono per trasformarlo in simbolo”35. A proposito dei Cinque studi (1965) per arpa contrabbasso e percussione, considerata la prima opera in cui viene utilizzato estesamente il parametro di espressione, Sergej Razorenov commentò stupito: “Manca ciò che noi definiamo melodia. Ciononostante, tutto è così perfettamente logico e ciò che segue pare fluire così naturalmente 34 Ibidem. 35 Gubaidulina, cit., p. 32.
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da ciò che precede che il fenomeno è pienamente convincente. […] l’intera opera è densa di emozionalità e non può non risvegliare i moti del nostro animo”36. Tra le peculiari caratteristiche dello stile compositivo di Gubaidulina rientra anche la particolare predilezione per la catabasi, ovvero il movimento dall’alto verso il basso, solitamente molto poco utilizzata rispetto all’anabasi, movimento dal basso verso l’alto. Quest’ultima detta infatti solitamente la struttura di frasi, periodi, sezioni e forme musicali: da una iniziale situazione di riposo e stabilità emotiva, che corrisponde alla tonica nell’armonia tonale, si procede verso un culmine di massima tensione, corrispondente alla dominante, che coincide anche con un innalzamento registrico complessivo verso l’acuto, per poi sciogliere la tensione e tornare alla situazione iniziale. In alcune composizioni, tra cui emblematica è Gradi (1972) per grande orchestra sinfonica su versi di R. M. Rilke, Gubaidulina invece incentra l’intera struttura sul moto discensionale, con uno spostamento di tutte le voci verso il registro grave, che simboleggia la morte, la polvere, il ritorno alla terra, mentre nel finale si ha un moto ascensionale con cui l’anima sale verso il cielo. Tale svolgimento è in contrasto con il ruolo tradizionalmente affidato all’arte, quello di arricchire e innalzare lo spirito, ma bisogna ricordare che questa è una concezione tipicamente occidentale, mentre il monismo orientale guarda al miglioramento dell’uomo non come ad un’ascesa, bensì come ad un ritorno ad un principio, in un moto circolare, principio che in Gradi è rappresentato dalla terra. Una sorta di struttura circolare è riscontrabile spesso nella produzione di Gubaidulina, ad esempio nel Quartetto n. 3 (1987) per archi, ma non si può parlare di forma chiusa con un vero e proprio ritorno al principio, infatti la ripresa del materiale tematico iniziale non è mai completa, bensì una o più voci si allontanano verso nuovi orizzonti, verso la trascendenza, costituendo quindi una sorta di mancata ripresa. Tale forma si potrebbe definire a cornice, nel senso che una parte del materiale torna al punto iniziale, mentre tutto il resto, che è dentro e fuori dalla cornice, prosegue liberamente nel suo percorso. Ciò ha un significato molto profondo: la ripresa intesa in senso tradizionale non è altro che l’affermazione dell’idea tematica iniziale, dalla quale tale idea risulta rafforzata e riconfermata, dopo aver attraversato le burrasche dello sviluppo, e infatti la nascita delle forme con sviluppo e ripresa si può far risalire all’epoca illuminista. La non-ripresa gubaiduliniana, invece, ha un carattere tutt’altro che affermativo: nel XX secolo l’uomo ha visto cadere le certezze ottocentesche e per lui restano solo domande. La stessa Gubaidulina afferma: “Vivo nel mondo delle domande. Penso che un 36 Kholopova, Gubaidulina, cit., p. 112. Codice 602
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artista del mio tipo non dà risposte, ma pone domande. La composizione stessa è una domanda […] penso che non ci sia nessuna risposta”37. Profondamente legato sia al concetto di unità sia a quello di dualità, in una sublime fusione tra principi occidentali e orientali, è il tema della concordanza e discordanza, presente in molte opere dell’autrice. Si consideri ad esempio il Quartetto n. 1 (1971) per archi, in cui, da un’iniziale situazione di concordanza e unità di intenti musicale tra i quattro esecutori, si giunge alla totale discordanza, dove ognuno suona indipendentemente dagli altri, come se non li sentisse. Concordanza è anche il titolo di un lavoro del 1971 per quintetto di fiati, quattro archi e percussioni, in cui l’intento della compositrice era “trovare il senso della sonorità stessa. Ho scelto determinate unità e raggruppamenti sonori che avessero fra loro rapporti di concordanza e di discordanza e poi ho tentato di verificare se fra quei lati opposti si poteva trovare una certa unità musicale”38. La concordanza e la discordanza costituiscono due veri e propri temi drammaturgici che pervadono l’intera opera: la concordanza è espressa tramite il legato, intervalli piccoli, omoritmia, tessitura musicale continua e determinazione del testo, mentre la discordanza è incarnata da articolazioni quali staccato e tremolo, intervalli ampi, poliritmia, tessitura frammentaria e ricca di pause, aleatorietà del testo. I due temi drammaturgici vengono sviluppati, intrecciati e posti in contrappunto come dei veri e propri temi tradizionali, fino a sconfinare l’uno nell’altro nel poderoso finale.
3. Le radici di un nuovo albero: temi e principi nell’arte di Sofia Gubaidulina La dispersione e la molteplicità cui il clima e la storia del Novecento conducono possono però essere ricondotte all’unità: “intendo la religione proprio come re-ligio, ricomposizione di un legame, ricomposizione del legato della vita. La vita riduce l’uomo in tanti pezzi. Egli deve ristabilire la propria integrità – la religione è questo. Non vi è ragione più seria della ricomposizione dell’integrità spirituale per comporre musica”39. Infatti, “Quella di legare elementi diversi tra loro riconducendoli verso un centro è un’idea tipicamente musicale ed è anche un’idea esistenzialmente tragica […]. Ogni essere umano ne sente la necessità e l’arte è un modo di esprimere questa necessità”40. “Penso che, nel processo creativo, la trasfigurazione è quella che ricerchiamo maggiormente, perché la trasfigurazione è ciò che ci unisce 37 Duffie, Composer Sofia Gubaidulina, cit. 38 Ibidem. 39 Valentina Kholopova, Muzyka spaset mir (La musica salverà il mondo), Sovetskaja muzyka, 1990. 40 Gubaidulina, cit., p. 55.
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al nostro Creatore. Senza di essa, i nostri sforzi sono inutili”41. Nella visione di Gubaidulina, la musica non ha dunque uno scopo, bensì una causa: “C’è una profonda necessità per gli esseri umani di realizzare il proprio potenziale. […] Questo è ciò che fa l’arte, ed è assolutamente necessario”42. L’arte e la religione sono dunque accomunate dal fatto di consentire all’uomo la trascendenza, viaggio oltre il proprio spirito e oltre il proprio tempo, per giungere in una dimensione atemporale. Tale percorso prevede una smaterializzazione delle forme e dei materiali musicali del tutto simile a quella necessaria all’esplorazione dell’interiorità: “è necessario dissolvere quella coltre di materia che ricopre le trame spirituali”43. Spiritualità e tendenza verso il divino coincidono dunque perfettamente con la discesa nell’io: tale coincidenza è di matrice squisitamente orientale ed ha un forte legame con la meditazione, intesa come viaggio verso l’interno del proprio spirito per raggiungere ciò che è esterno al mondo e al tempo. Le idee di sacro e di trascendenza sono molto legate nella cultura russa alla tematica del dolore: “Un essere umano afflitto dalla povertà e schiacciato dal dolore deve tentare di trasformare la forza della sofferenza in un altro tipo di energia: questo è il principio della sublimazione. […] [Il popolo russo] ha una pazienza infinita, accetta condizioni difficili e misere ed è nutrito di sentimento religioso”44. Il tema del sacrificio e il dolore del popolo russo stanno molto a cuore a Gubaidulina, che dipinge quest’ultimo, ad esempio, in Jubilatio (1979) per quattro percussionisti: un brano complessivamente molto gioioso, ma […] a un certo punto due percussionisti […] si mettono al collo una collana di campanelli e cominciano ad agitarsi […]. Quel pesante collier di campane mi fa pensare […] ad uno schiavo che porta al collo una rozza catena; lui è un fanatico, un po’ ottuso ed entusiasta di quella festa che a lui sembra una vera festa. Lo schiavo è dunque felice di avere la sua tintinnante catena e in questa immagine io vedo una metafora del popolo russo45.
La schiavitù e la spersonalizzazione del singolo sono tematiche ben evidenti anche nei concerti per solista e orchestra, come nel Concerto per fagotto e archi gravi (1975) e in Introitus per pianoforte e orchestra (1978), nei quali lo strumento solista non incarna più la figura dell’eroe, come accadeva nell’Ottocento, bensì rappresenta il singolo che 41 Gavin, The Fire and the Rose, cit. 42 Duffie, Composer Sofia Gubaidulina, cit. 43 Gubaidulina, cit., p. 82. 44 Ibidem, p. 57. 45 Ibidem, p. 68. Codice 602
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cade sotto i colpi della folla, uniformandosi ad essa. Tornando a Jubilatio, non si può non notare la forte componente scenica presente in questo brano: gli esecutori non vanno solamente ascoltati, ma osservati nei loro movimenti e spostamenti sul palco, precisamente annotati dalla compositrice. La gestualità scenica è una componente importante del brano, tanto che si può parlare di teatro strumentale, presente in molte altre opere di Gubaidulina, come ad esempio nel Quartetto n. 1 (1971) per archi, in cui si assiste ad un progressivo allontanamento degli esecutori fra loro. “Alla fine i solisti sono così lontani, seduti ai quattro angoli della scena, che non si sentono più. È come se la musica fosse impazzita”46, in preda ad una completa disintegrazione. Il teatro strumentale è molto diverso dalla musica per il teatro, infatti la musica non è di accompagnamento alla scena, bensì la sfera visiva della scena, attraverso i gesti dei musicisti, si affianca alla sfera uditiva nel veicolare il messaggio musicale. La musica rappresenta così, con suoni e gesti degli strumentisti, la sofferenza umana, ma essa costituisce anche e soprattutto il mezzo attraverso il quale l’uomo può allontanarsene e per Gubaidulina incarna innanzitutto una preghiera. In quest’ottica rientra il grande progetto di concerti per solista e orchestra che vanno a costituire l’ordinarium missae: Introitus, Offertorium, assieme a Gradi in luogo di graduale e DettoII in luogo di communio. In Introitus sono presenti “[…] differenti spazi sonori […]: lo spazio infracromatico, quello cromatico, quello diatonico e quello pentafonico. In ciascuno di questi appaiono intonazioni di preghiere […] esistono passaggi continui tra uno spazio e l’altro e talvolta realizzo un’unione verticale dei quattro modi. Nel finale, per esempio, dove desidero raggiungere un effetto festoso e solenne”47. I quattro sistemi sonori costituiscono dunque modi diversi di articolare la preghiera: il modo infracromatico è il più interiore perché gli intervalli tra le note sono molto ristretti, quello cromatico è più appassionato e tende all’esteriorizzazione, il modo diatonico è il più sereno, tipico del canto gregoriano ma anche degli antichi canti russi, infine il pentafonico è il più naturale, come constatò anche Messiaen dall’ascolto del canto degli uccelli. Offertorium è invece profondamente legato al tema del sacrificio: “Nel secolo passato, produrre suoni bellissimi era la norma, ma per noi è un atto mistico, l’atto di afferrare il proprio destino. L’artista è come una vittima: la forza di questa devozione per il suono è così grande che trasforma il suono in un atto religioso. Questo fenomeno artistico dà al compositore il diritto di creare qualcosa che è basato su questa qualità”48. Il sacrificio non riguarda solo l’esecutore ma anche 46 Ibidem, p. 43. 47 Ibidem, p. 65. 48 Gavin, The Fire and the Rose, cit.
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il materiale tematico: Offertorium presenta infatti una citazione del tema regio dall’Offerta musicale di Johann Sebastian Bach ed è interessante notare che il termine Opfer nel titolo tedesco Musikalisches Opfer ha il significato di offerta ma anche di vittima sacrificale. Il tema regio, inoltre, nel brano va incontro ad un sacrificio, infatti ad ogni ripetizione si riduce progressivamente, privandosi di volta in volta della prima e dell’ultima nota, fino a ridursi ad un unico suono. L’interiorizzazione e la trascendenza del suono è il silenzio, fondamentale nella produzione di Gubaidulina: esso è protagonista nella sinfonia in 12 movimenti Stimmen… Verstummen… (1986): “[…] il desiderio di dire si fa talvolta così imperioso e intenso da gettare un velo di silenzio su tutto ciò che sta intorno. Per questo il momento più intenso e significativo, quello da cui nasce tutta l’opera, coincide con il silenzio in cui il direttore batte il tempo da solo”49. Nelle parole di Gubaidulina, questo culmine silenzioso viene percepito come una dominante, “in questo caso significa silenzio puro, una pausa dell’orchestra”50, mentre all’inizio il silenzio ha la funzione di sottodominante: “un silenzio vibrante, l’immagine di un’energia che percorre e attraversa la materia. L’energia cresce e raggiunge il suo culmine; in quel momento smette di essere udibile e diviene il silenzio come dominante. […] Inizia in questo modo il processo di sublimazione e spiritualizzazione destinato a concludersi nel finale con il silenzio come tonica”51. Il silenzio come principio fondante è presente anche in Quasi hoquetus (1984) per viola, fagotto e pianoforte, che si richiama all’hoquetus rinascimentale francese, caratterizzato da una scrittura contrappuntistica con pause obbligatorie. È notevole il fatto che le pause sono del tutto assenti nella musica russa tradizionale e sono state introdotte solo in epoca barocca, come risultato di influenze occidentali. Il silenzio è intimamente connesso al ritmo, che tra tutti gli aspetti del suono musicale è quello basilare per Gubaidulina, come testimonia il titolo In principio era il ritmo (1984), e costituisce il fondamento architettonico delle sue opere: Avevo un’idea, un piano […], un modo per unificare i vari aspetti del linguaggio musicale. Si può paragonare all’idea di un albero, dove diversi aspetti della musica sono rappresentati dalle diverse parti dell’albero: un aspetto è rappresentato dalle radici, un altro dal tronco, un altro ancora dalle foglie e dai frutti. Le radici sono l’idea, il tronco è la realizzazione dell’idea e i rami e le foglie sono una sorta di trasfigurazione musicale. E se guardiamo alla storia [della musica] in questo 49 Gubaidulina, cit., p. 85. 50 Ibidem, p. 84. 51 Ibidem, p. 85. Codice 602
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modo, vediamo che all’inizio vi era il periodo lineare, dove la radice è la linea, e tutto è lineare, e vediamo che la cultura lineare è una cultura vocale. In sostanza, il ritmo della parola definisce la forma, il ritmo emerge come il tronco dell’albero. Cosa sono le foglie? Le foglie sono il suggerimento dell’armonia. Se ci spostiamo al periodo omofonico, vediamo che i semi [dell’albero precedente] erano caduti a terra e hanno creato le radici dell’albero, le radici sono diventate l’armonia. Tutto sorge da questa essenza armonica. Cos’è il tronco, allora? La linea, lo sviluppo lineare del tema. Ma cosa sono le foglie ora? Le foglie sono il ritmo; in questo caso, la funzione di trasfigurazione è rappresentata dal ritmo. Da queste due immagini, ne ho dedotta una terza, che era un enigma per me. Cosa sta succedendo nel XX secolo? Poi ho visto che si trattava sempre dello stesso processo: le foglie sono cadute a terra e hanno creato una nuova radice, che è il ritmo. E le radici sono diventate il tronco, che è tutto ciò che è armonico, verticale, che ha a che fare con l’altezza del suono. E la trasfigurazione delle foglie? A questo punto, è la melodia52.
L’esplorazione della dimensione ritmica è vasta nella produzione di Gubaidulina, che giunge anche ad associare al ritmo i colori: in Alleluja (1990) per coro, orchestra, organo e voce bianca è prevista la proiezione di colori sulla scena, ispirata da Prometeo, il poema del fuoco (1910) di Skrjabin. L’idea fondante del brano è proprio la luce, intesa come espressione del ritmo e collegata al tema del sacrificio: i colori, infatti, non sono altro che la luce bianca che, cadendo su una superficie, perde una parte delle sue componenti e si sacrifica. Al colore spetta il culmine emotivo del componimento, in corrispondenza del quale irrompe sulla scena il nero, simbolo del giudizio universale, dal quale nascono poi tutti gli altri colori, le vittime sacrificali. Il simbolismo, presenza significativa in tutta la produzione di Gubaidulina, non va inteso come affine a quello francese presente in Débussy e Messiaen, bensì legato all’arcaismo russo come quello di Stravinsky. Gubaidulina spiega: “Secondo me [il simbolo è] la massima concentrazione di significati”53. Inoltre: Sono fermamente convinta che ci troviamo ora in un periodo di nuovo arcaismo. Abbiamo dissolto la materia sonora della quale ci siamo serviti per tanto tempo, abbiamo dissolto le strutture per scendere in una nuova profondità e ora ci troviamo in uno spazio completamente oscuro e sconosciuto per ogni artista. […] E in questo lavoro di costruzione [di nuovi linguaggi musicali] secondo me il mezzo più adatto è il simbolo, quel simbolo che è appunto la caratteristica maggiore di ogni arte arcaica. Sono materiali antichi, di sempre, usati 52 Gavin, The Fire and the Rose, cit. 53 Gubaidulina, cit., p. 51.
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quotidianamente e banalmente nella musica, ma divelti dai contesti di cui fecero parte e che ora possono venire impiegati con un valore simbolico. Così […] i pizzicati, i suoni armonici, i glissandi non sono più evidentemente variazioni di colore, ma simboli che alludono a una diversa condizione sonora54.
In Introitus sono usati in maniera simbolica i diversi sistemi di scrittura – infracromatica, cromatica, diatonica e pentafonica –, in In croce (1979) per violoncello ed organo, sono gli strumenti e i loro registri sonori a costituire gli elementi simbolici, in Offertorium il simbolo del sacrificio è incarnato dal tema regio che si riduce man mano, nei Quartetti n. 2 e n. 3 (1987) per archi sono simbolici di diversi modi di produzione del suono, per fare solo alcuni esempi. Tra tutti i simboli impiegati da Gubaidulina, quello della croce è senza dubbio il più importante e viene realizzato tramite l’incrocio di una linea verticale e una linea orizzontale, intese in diversi modi possibili. In In croce (1979) per violoncello e organo, come in altri lavori per violoncello, l’intersezione stessa tra le corde dello strumento e l’archetto costituisce una croce, rafforzata dallo scorrere delle dita dell’esecutore in senso verticale per effettuare dei glissando, inoltre l’incrocio avviene anche tra il materiale tematico dei due strumenti, che pian piano viene scambiato. Questo è un esempio del simbolismo strumentale, evidente anche in Sem’ slov (Sette parole, 1982) per violoncello, fisarmonica e orchestra d’archi, dove il violoncello, lo strumento che porta la croce, rappresenta il Cristo, la vittima sacrificale, mentre la fisarmonica, sulla quale la croce è realizzata tramite i glissandi sulla tastiera e i movimenti del mantice, è Dio Padre, infine gli archi rappresentano lo Spirito Santo. Non solo gli strumenti, ma anche la scrittura musicale ha un preciso significato simbolico: quella cromatica e microcromatica sono legate alle sofferenze terrene, mentre quella diatonica rimanda alla serenità celeste. L’idea dell’intersezione di questi modi, che i diversi strumenti impiegano senza mescolanze, costituisce ancora una volta il simbolo della croce. La compositrice impiega spesso versi poetici, enunciati in molti modi diversi che, grazie al parametro d’espressione, spaziano dal sussurrato al parlato al cantato, spesso ad opera di cantanti ma a volte anche dalle voci degli orchestrali, come in Gradi (1972), o da un nastro magnetico registrato, come in Notte a Menfi (1968). Tali componimenti appartengono perlopiù a poeti del Novecento e vicini alla sua sensibilità, tra cui i più importanti sono senza dubbio Marina Cvetaeva, Franzisko Tanzer e Thomas Stearns Eliot. Marina Cvetaeva (26 settembre 1892-31 agosto 1941) visse e narrò 54 Ibidem, p. 87. Codice 602
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la Rivoluzione Russa, la carestia di Mosca, e l’epoca delle persecuzioni staliniane. I suoi versi profondamente lirici e intensi hanno toccato la sensibilità di Gubaidulina, che li ha inclusi in più di una composizione. In L’ora dell’anima (1976) per grande orchestra sinfonica, percussioni e mezzosoprano, “la tragedia esistenziale di Marina Cvetaeva si configura proprio come l’insuperabile contrasto fra la banalità, il conformismo, l’aggressività del mondo circostante e la profonda sensibilità della poetessa”55: nell’ampio finale dal sapore catartico, intervengono i versi del suo componimento omonimo, “Nella profonda ora dell’anima / nella profonda ora della notte […] / (un gigantesco passo dell’anima, / dell’anima nella notte)”. Omaggio a Marina Cvetaeva (1984) è invece una suite per coro a cappella in cinque movimenti, in cui ognuno prende il nome dalla poesia citata: Sommerso dalle onde, Il cavallo, Tutto lo splendore delle trombe, Interludio e Il giardino, che si conclude tragicamente. Franzisko Tanzer (Vienna, 12 settembre 1921-Düsseldorf, 25 ottobre 2003) è stato un poeta tedesco, amico di Sofia Gubaidulina, che volle conoscerla personalmente dopo aver ascoltato il suo Quartetto n. 1 per archi: la loro corrispondenza epistolare negli anni li ha portati a uno scambio di idee prolifico per la produzione artistica di entrambi. Il primo componimento in cui Gubaidulina utilizza versi di Tanzer è Garten von Freuden und Traurigkeiten (Giardino di gioia e di tristezza, 1981), il cui finale consiste nella recitazione ad libitum di una frase presa dai diari del poeta. I suoi versi sono invece utilizzati all’interno di Perception (1983), di cui Gubaidulina dice: “Estremamente importante per me in quest’opera è la corrispondenza tra due ambiti molto distanti l’uno dall’altro”, riferendosi alla distanza geografica e culturale tra lei e il poeta tedesco. Perception si ispira ad una ballata che viene sviluppata da Gubaidulina in modo molto ingegnoso, con l’utilizzo di un quadrato magico. Su un gioco di simmetrie ispirato agli enigmi e alle questioni estetiche sviluppate nei dialoghi con Tanzer si basa anche la sinfonia Stimmen… Verstummen…. Il poeta che ha avuto l’effetto più profondo su Gubaidulina, in relazione alla poetica e alla visione del mondo, è senza dubbio Thomas Stearns Eliot (St. Louis, 26 settembre 1888-Londra, 4 gennaio 1965), americano naturalizzato inglese, che visse in prima persona le tragedie della Seconda Guerra Mondiale. Gubaidulina riconosce in lui “uno dei pensatori più straordinari del ventesimo secolo”56 ed è particolarmente affascinata dalla sua visione del tempo:
55 Kholopova, Gubaidulina, cit., p. 167. 56 Gavin, The Fire and the Rose, cit.
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Per me è essenziale per l’individuo che il tempo sia trasformato. Eliot si interessava di questo, specialmente nei suoi Four Quartets, i suoi ultimi lavori […]: quattro variazioni nel tempo, e quattro variazioni nel non-tempo. L’ho trovato molto affascinante: il passato, il presente, il futuro e il non-tempo sono legati ai quattro elementi, alle quattro età [dell’uomo]. Il non-tempo ha quattro variazioni, e questo è molto bello: un punto immobile dentro un cerchio che ruota, un punto su un cerchio mobile, che quindi ruota lui stesso, un punto al centro della croce e infine un punto irrazionale, completamente pazzo, fuori dalla croce, fuori dal cerchio. È questo punto che è il centro del Tempo, dove tutto muore, è bruciato dalle fiamme, ridotto a nulla. Noi non possiamo vivere oltre quel punto a meno che non accettiamo questa morte. Il Fuoco e la Rosa sono uniti insieme nell’essenza del tempo. Questo non solo è bello, [ma è anche] una verità profonda – specialmente nel ventesimo secolo, ora che siamo così vicini alla nostra fine – percepire questa fine come uno stato di grazia, come una fiamma purificatrice, dopo la quale ha luogo la vera trasfigurazione, la resurrezione dello spirito57.
Il non-tempo costituisce quindi la dimensione della trascendenza, mentre il fuoco e la rosa fanno riferimento ai versi finali dei Four Quartets (1942), che Gubaidulina ha messo in musica in Omaggio a T. S. Eliot “And all shall be well and “E tutto sarà bene e all manner of thing shall be well ogni sorta di cosa sarà bene when the tongues of flame are in-folded quando le lingue di fuoco si incurvino into the crowned knot of fire nel nodo di fuoco in corona and the fire and the rose are one”. e il fuoco e la rosa sian uno”.
(1987) per soprano e ottetto strumentale (Tabella 1): Gubaidulina li commenta così: “in quella conclusione c’è l’ultima sostanza della vita umana e può darsi anche dell’arte stessa. Secondo me Eliot nei suoi Quartetti riunisce le condizioni più profonde del nostro secolo ed è per questo che ho deciso di musicare quelle parole straordinarie con cui lui saluta l’apparizione di questa rivelazione […]. Tutto ciò esprime un pensiero così bello, così profondo e così vero che per conquistarlo sarei pronta a pagarlo con la vita”58.
4. Il respiro del mondo: numeri e principi matematici nella produzione di Sofia Gubaidulina Conoscendo l’importanza che l’intuizione e la spiritualità rivestono nell’arte di Sofia Gubaidulina, ci si potrebbe stupire, in un primo 57 Ibidem. 58 Gubaidulina, cit., p. 88. Codice 602
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momento, di scoprire che ella opera spesso una programmazione molto razionale del piano delle sue opere, prima di iniziare a comporre il materiale musicale, impiegando principi matematici e numerologici. Ad uno sguardo più attento, però, ciò è perfettamente in linea con la sua visione del rapporto tra razionalità e irrazionalità e dell’importanza di unificare ciò che è frammentato: considerandosi una persona molto intuitiva, sente il bisogno di imbrigliare l’intuizione in strutture razionalmente determinate, in modo da poterne incanalare al meglio l’idea alla base. Nelle sue parole, “i numeri hanno un suono che concretizzano nella musica”59 e, tra tutti i numeri, quelli che impiega nella maniera più estensiva sono la sezione aurea e la serie di Fibonacci. Queste due entità sono intimamente legate dal punto di vista matematico. La serie di Fibonacci è infatti definita come la stringa di interi che inizia da 0 e 1 e prosegue di volta in volta con un numero pari alla somma dei due precedenti, ovvero 0, 1, 1, 2, 3, 5, 8, 13, 21, 34, 55, 89, 144… fino all’infinito. Facendo il rapporto tra un numero e il precedente, si può dimostrare che, considerando numeri via via più alti, questo rapporto si avvicinerà sempre più alla sezione aurea. La serie di Fibonacci e la sezione aurea si possono riscontrare in natura in molti casi, ad esempio nella maniera in cui si dispongono le foglie e le ramificazioni in un albero, detta fillotassi. Sofia Gubaidulina spiega che la sezione aurea può essere applicata nella struttura intervallare e in quella ritmica. […] [Sul primo] tipo di applicazione io ho alcuni dubbi, perché gli intervalli in questione sono considerati all’interno del sistema temperato […], un sistema artificiale. La serie di Fibonacci si applica invece al sistema “del mondo”, in una parola a quella natura che viene violata dall’artificio del sistema temperato. L’uso della serie di Fibonacci nel sistema ritmico mi sembra invece giusto e naturale perché il ritmo è legato alla naturalità del nostro respiro60.
Gubaidulina sottolinea spesso che la serie di Fibonacci consente di costruire un sistema all’interno del quale si può respirare, che rende dunque la forma una struttura dinamica. Enzo Restagno, a tal proposito, riflette: Se scelgo invece un altro tipo di proporzione – quella simmetrica, in base alla quale un oggetto viene diviso in due parti uguali – allora avrò una simmetria statica […] [che] tende a presentarci sistemi chiusi, delle forme immobili. La simmetria dinamica, fondata sul principio 59 Kholopova, Gubaidulina, cit., p. 227. 60 Gubaidulina, cit., p. 29.
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della sezione aurea, risulta invece più vitale e più fertile. Se consideriamo in questa prospettiva […] la Scuola di Vienna […] abbiamo a che fare con una simmetria di tipo statico e non dinamico. È questa, secondo me, la ragione per cui l’ideologia del 12 […] si è venuta a trovare nell’impasse della serializzazione integrale61.
Gubaidulina, d’altro canto, rifugge la staticità della forma e l’adesione alla metrica tradizionale proprio grazie all’utilizzo di strutture dinamiche e aperte. Un primo impiego della serie di Fibonacci si osserva nell’assolo dei timpani in L’ora dell’anima (1976), mentre nella sinfonia Stimmen… Verstummen… è applicata alla struttura macroscopica, a quello che la compositrice ama chiamare il ritmo della forma. Il numero di battute delle sezioni di numero dispari, infatti, aumenta progressivamente secondo i numeri della serie, mentre parallelamente la lunghezza delle sezioni di numero pari diminuisce. La serie è però evidente anche a livello della forma delle singole sezioni: nella prima, nella decima e nella dodicesima si osservano successioni di quarti che aumentano come la serie, mentre nella seconda parte sono le pause ad essere presenti in successione secondo lo stesso principio. Infine, in corrispondenza del culmine silente dell’opera, il direttore d’orchestra esegue movimenti le cui proporzioni ritmiche sono dettate dai numeri di Fibonacci: egli riesce così a costruire “il geroglifo dell’esistente legame tra noi e il ritmo cosmico”62. L’uso degli strumenti matematici diviene sempre più forte nella produzione di Gubaidulina nel corso del tempo: la serie di Fibonacci costituisce il fondamento di In principio era il ritmo (1984), dove è presente sia a livello di figurazioni ritmiche, sia di gruppi di battute, sia di intere sezioni. La struttura di questo brano è però definita anche da correlazioni sonore: quelle timbriche hanno una funzione di sottodominante, quelle aleatorie di dominante, mentre quelle metriche, le uniche a cui non viene applicata la serie, hanno funzione di tonica. Tale procedimento è perfettamente inquadrato nell’ambito delle contrapposizioni binarie tra l’azione e la dinamicità associate alla sottodominante e alla dominante, realizzate tramite la sezione aurea, e lo stato di quiete e riposo associato alla tonica, che necessita invece di “simmetrie statiche”. La compositrice associa i numeri non solo al ritmo e all’organizzazione strutturale, ma anche a simbologie ben determinate: il numero 4 è collegato alla concezione eliotiana del tempo che Gubaidulina fa propria, comprendente il presente, il futuro, il passato e il non-tempo. Il numero 7 è considerato tradizionalmente foriero di significati religiosi e misteriosi, in quanto sette sono i giorni della Creazione, i cieli del 61 Ibidem, p. 30. 62 Kholopova, Gubaidulina, cit., p. 195. Codice 602
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Paradiso, i colori dell’arcobaleno, le meraviglie del mondo, le parole di Cristo, e questo numero, nella produzione gubaiduliniana, si riscontra in Gradi, dove sette sono appunto le tappe che conducono verso il basso e verso la terra. I numeri sono inoltre legati al tema del sacrificio in Alleluja (1990), come porzioni della luce, che si deve sacrificare per generare i colori, in una scala di vittime sacrificali cromatiche (Tabella 2): giallo
arancione
azzurro
verde e porpora
rosso
blu
viola
1:7
2:6
3:5
4:4
5:3
6:2
7:1
Anche Perception ha una genesi di tipo matematico: trovandosi davanti alla narrazione racchiusa in una ballata di 11 versi di 13 sillabe, una forma troppo rigida, Gubaidulina costruì a partire da queste un quadrato di 144 caselle, con due diagonali di 12 caselle ognuna. “A quel punto cominciai a distribuire degli episodi strumentali su quelle diagonali partendo ogni volta da un unisono molto espressivo che si sposta verso l’alto. […] Mi ero trovata così a dare le risposte più imprevedibili realizzando una nuova forma”. La compositrice si diletta anche ad usare dei crittogrammi musicali come quello che si trova nel Quartetto n. 3 (1987) per archi, in cui le note formano tre monogrammi: g-es, ovvero sol-mi, le iniziali di Sofia Gubaidulina, e-d, ovvero mi-re, per Edison Denisov e es-c-h-a, ovvero mi-do-si-la per Schnittke Alfred. Infine, anche la contrapposizione di una tessitura di tipo continuo, con poche pause, ad una tessitura discreta, frammentata da pause – emblematica in Quasi hoquetus (1984) – costituisce un richiamo alla matematica, che ha elaborato e sistematizzato il concetto di continuità nel XVIII secolo. Dagli anni Novanta, la dimestichezza e la naturalezza con cui Gubaidulina fa uso della matematica nella sua musica le hanno permesso di estendere l’applicazione delle proporzioni numeriche nei modi più fantasiosi, che ben si sposano con il suo intuito. Nel brano … Heute früh, kurz vor dem Aufwachen… (… Stamattina presto, appena prima del risveglio…, 1993) per sette koto giapponesi, ella impiega non solo la serie di Fibonacci, ma anche la serie di Lucas, una stringa di numeri interi in cui ognuno è la somma dei due precedenti a partire da 2 e 1: 2, 1, 3, 4, 7, 11, 18, 29, 47, 76, 123, 199… Il pezzo conta infatti in totale 217 battute, di cui 199 con suoni e 18 di silenzio, distribuite nelle 11 sezioni, ognuna delle quali presenta un numero di battute della serie di Lucas, 7, 11, 18, 29 o 47. Inoltre, il culmine emotivo del brano corrisponde al segmento aureo e anche il ritmo a livello motivico è organizzato secondo la serie di Lucas, ad esempio le crome all’inizio del brano sono presenti in gruppi di 3, 1, 4 e 7. Gubaidulina si spinge ancora oltre in Meditation on the Bach Chorale “Vor Deinen Thron tret ich
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hiermit” (1993) per clavicembalo e quartetto d’archi, dove impiega la simbologia numerica associata al nome di Bach, a quello di Cristo e al proprio, ottenuta sommando le posizioni alfabetiche delle lettere secondo l’alfabeto cirillico: 9 14 23 32 37 41 48
J (di Johann) Bach J. Bach S. Bach J. Chr. (di Jesu Christus) J. S. Bach Sofia
L’indicazione del tempo di metronomo è 48 alla semiminima. Il brano è strutturato con una sezione in forma di corale, un interludio, un secondo corale e un secondo interludio: in quest’ultimo viene citato musicalmente il corale di Bach e negli ultimi 23 movimenti, numero che simboleggia il nome J. Bach, risuona altresì il tema BACH (si♭-lado-si) nella voce superiore degli accordi. La struttura macroscopica è basata sul numero 518, come somma di 384, 111 e 23: 384 è divisibile per 48, il numero di Sofia, 111 è divisibile per 37, il numero di Cristo, e 23 è ancora una volta il numero di Bach. Inoltre, 518 è anche ottenibile come prodotto dei numeri 37 e 14, che corrispondono rispettivamente a Cristo e a Bach, come a dire che Sofia, se unita all’essenza di Bach e del Cristo, trascende la propria identità di singolo e confluisce nell’armoniosa monumentalità che scaturisce dall’intreccio indissolubile dell’operato del divino e del massimo genio della musica, raggiungendo la vetta più alta che lo spirito umano potrebbe mai immaginare. Infine, sommando le cifre che compongono il numero 518, si ottiene 14, il numero di Bach63. Procedimenti numerici e proporzioni matematiche sono riscontrabili anche in Dancer on a Tightrope (Il funambolo, 1993), Musica per flauto, archi e percussione (1994), Quartetto n. 4 per archi (1993), nel concerto per violoncello Und: das Fest ist in vollem Gang (E: la festa è nel pieno dello svolgimento, 1993), nel Concerto per viola (1996), nella sinfonia Im Schatten, unter dem Baum (All’ombra, sotto l’albero, 1998) e nella JohannesPassion (2000). Ho potuto incontrare Sofia Gubaidulina lo scorso 9 Maggio 2015 presso l’Istituto Boccherini di Lucca, in occasione del Premio Lucca Classica conferitole. A proposito della relazione tra la matematica e la musica, ha sottolineato che i suoi lavori nascono da due tensioni intellettuali: “La forza dell’intuizione e la forza del pensiero. La parte intuitiva 63 Valeria Tsenova, Magic Numbers in the Music of Sofia Gubaidulina, in «Muzikologija», 2, 2002, p. 260. Codice 602
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nell’arte è una dimensione inconsapevole e molto forte, ci aggrappiamo ad essa nell’arte contemporanea e da questo deriva un lavoro molto mentale”. Più è forte la componente intuitiva, infatti, tanto più poderoso deve essere il lavoro di razionalizzazione e organizzazione della struttura. “Le serie matematiche sono importanti a livello cosmico, sono state applicate in arte e in architettura. Io le uso come un esperimento, perché hanno un collegamento con la natura”. L’uso dei numeri nella struttura architettonica di un brano non ha lo scopo di essere inteso razionalmente dall’ascoltatore, ma conferisce al brano una forma la cui bellezza strutturale viene certamente percepita. La matematica conferisce alla composizione uno scheletro di base, ma non ne costituisce l’essenza, che risiede invece in quell’unica idea, in quell’accordo scintillante che la compositrice vede e sente nella sua interezza, ancora prima di aver elaborato la strutturazione e scelto il materiale musicale. Ella dice infatti: “Sono ispirata da questo metodo di lavoro: “la danza dei numeri” e la pura intuizione. La musica si sviluppa in due direzioni opposte: secondo lo schema numerico e secondo l’intuizione. E quando questi due approcci si intersecano, il risultato inaspettato è meraviglioso”64.
5. La Sonata per pianoforte La Sonata è stata scritta nel 1965 ed appartiene alle opere giovanili, in cui la compositrice non aveva raggiunto ancora la piena maturità artistica, caratterizzate da un’ampia sperimentazione. È interessante notare che la produzione per pianoforte solo è molto ristretta in Gubaidulina, limitata agli anni Sessanta e Settanta: oltre alla Sonata, infatti, comprende Čakona (Ciaccona, 1962), Muzykal’nye igruški (Giocattoli musicali, 1969), Toccata-troncata (1971) e Invencja (Invenzione, 1974). Pur avendo studiato pianoforte, Gubaidulina nel periodo della maturità si è rivolta principalmente ad altri strumenti, come gli archi e i cordofoni orientali, che permettono il microcromatismo, o strumenti poco sfruttati nelle epoche precedenti, come il fagotto, la fisarmonica e le percussioni, grazie ai quali ha potuto esplorare modalità del tutto inedite di emissione del suono. Del resto il pianoforte era stato lo strumento principe dell’Ottocento romantico, che ne aveva già sfruttato ampiamente tutte le potenzialità, lasciando libero ai compositori del Novecento solo la percussività dello strumento e il pianoforte preparato; questi due aspetti sono difatti ampiamente indagati nella Sonata di Gubaidulina. Il pezzo è dedicato a Henrietta Mirvis, amica e compagna di studi di Sofia Gubaidulina, entrambe allieve del corso di pianoforte di Jakob Israelevič Cak al Conservatorio di Mosca. “Henrietta era una pianista di grande spessore, ha vinto tanti premi internazionali. La mia Sonata è 64 Ibidem, p. 260.
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stata eseguita molte volte, ma lei non l’ha mai studiata, non so se per la difficoltà tecnica o perché non era di suo gusto”, mi ha rivelato la compositrice in occasione del nostro incontro. La struttura macroscopica del brano è quella di una sonata classica in tre tempi: un Allegro in cui viene esposto e sviluppato il materiale sonoro, un Adagio di carattere meditativo e un Presto energico e conclusivo. Non viene però utilizzata la tradizionale forma-sonata articolata in esposizione, sviluppo e ripresa, che per l’autrice risulta “troppo rigidamente tripartita. Gubaidulina è invece attratta dalla forma drammatica, che si sviluppa dinamicamente”, come spiega Valentina Kholopova. La forma-sonata, del resto, mal si adatterebbe alla scrittura non tonale utilizzata. A tal proposito, si può parlare di scrittura cromatica, ma non di dodecafonia, in quanto non vi è un impiego sistematico di una serie né viene rispettata la regola dodecafonica di non ripetere un suono prima che tutti gli altri siano comparsi. Lo sviluppo emotivo cui va incontro il materiale sonoro e il contrasto tematico sono costruiti, invece che con l’armonia, mediante il parametro di espressione e in generale il ritmo riveste un ruolo più importante dell’altezza dei suoni. Nel primo movimento possono essere individuate quattro aree tematiche che si ripresentano, in maniera più o meno trasfigurata, anche nei due movimenti seguenti. Tali regioni tematiche sono ben distinguibili tra loro, grazie alla loro diversa fisionomia sonora, e possono essere associate a immagini concrete. Infatti, pur trattandosi formalmente di musica assoluta, vi si possono distinguere, in nuce, quel simbolismo registrico e quelle contrapposizioni binarie che costituiscono la firma dell’arte matura di Gubaidulina. Il pezzo si apre con un cluster in fortissimo, accompagnato da una sollecitazione della cordiera del pianoforte tramite una bacchetta di bambù, uno dei metodi non tradizionali di utilizzo dello strumento (Es. 1).
La prima area tematica presenta gruppi di note secchi e veloci, di carattere improvvisativo e nell’ambito del forte, con un continuo crescendo di intensità fino a raggiungere il culmine emotivo e registrico. Caratteristici di questa sezione sono gli attacchi in levare (Es. 2) e due
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tipologie di profilo sonoro, l’una con intervalli ampi e tendente ad arricchirsi sempre più di cluster (Es. 3), l’altra con intervalli piccoli,
discendente e con bicordi alla quinta accentati alternativamente nella prima e nella seconda posizione delle quartine (Es. 4).
Per il suo carattere esplosivo, irrompente e legato alla sfera terrena, lo si può chiamare tema della primavera, immaginando la rapida fioritura e il repentino cambio del paesaggio che avviene nella Russia continentale dopo i lunghi mesi invernali. Al termine di una scala discendente in diminuendo, sovrapposta ad una linea ascendente melodica della mano sinistra, si giunge nella seconda area tematica, che si svolge principalmente nel piano e presenta un profilo ritmico molto peculiare, con piccole cellule in staccato e che iniziano con una semicroma in levare, alla mano destra, e semicrome inesorabilmente regolari, appoggiate, sul primo e terzo quarto di ogni battuta (Es. 5). In questa sezione è particolarmente evidente il parametro d’espressione, in quanto il tipo di attacco di ogni nota è indicato precisamente in partitura: staccato semplice, staccato appoggiato, staccato accentato, staccato legato, legato, legato appoggiato.
Inizialmente le cellule motiviche sono molto brevi e la tessitura risulta frammentata dalle pause e dai cambiamenti nel registro, ma il ritmo deciso conferisce una chiara direzionalità al materiale, interrotto di tanto in tanto da sprazzi di accordi in forte. Successivamente, la cellula viene ripetuta e variata a formare una frase, che nelle ripetizioni si fa sempre più incalzante, fino ad acquistare una terzina terminale che 214
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fa da elemento propulsivo per il ritmo, mentre le note al basso si trasformano in accordi e invadono anche la porzione acuta della tastiera (Es. 6).
Questo materiale tematico, per il suo carattere agitato ed estremamente mobile ma anche poderoso e terreno, ricorda il ribollire del magma. È destinato ad avere uno sviluppo in cui si ingigantisce sempre più fino ad una vera e propria esplosione, perciò si può scegliere di chiamarlo tema del vulcano. Il suo culmine emotivo prepara la scena per il ritorno del tema della primavera, rafforzato da una cellula di accordi perlopiù ascendenti, che fanno da rampa di lancio per ogni gruppo di semicrome, e da cluster che le accompagnano. Il passaggio discendente con bicordi si presenta in fortissimo, più esteso, e sfocia nel registro grave, acquisendo ampi intervalli e cluster (Es. 7), in un ibrido tra i due motivi fondamentali di questa area tematica, che si arresta piuttosto bruscamente e lascia spazio a tre battute in cui interviene il materiale del tema del vulcano in mezzoforte.
Si sfocia così in una terza area tematica, che subirà un notevole incremento delle proporzioni nella parte finale del primo movimento. Essa è caratterizzata da una proposizione di cinque accordi, formati da intervalli di seconda e ottava, che descrivono un arco, in un moto prima ascendente e poi discendente per gradi congiunti, con suono appoggiato. Tale linea è cantabile, ma non nel senso tradizionale del termine in quanto presenta intervalli considerati dissonanti, e avanza accompagnata da un basso ostinato che ripete le note fa#-la-si-la sotto forma di semiminime sul primo e terzo movimento, nel registro più grave del pianoforte (Es. 8).
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Nelle ripetizioni del cantabile gli accordi centrali subiscono una dilatazione temporale, quasi a significare un indugiare dello spirito quando sente di essersi avvicinato al cielo, e tra una ripetizione e l’altra ricompare la cellula molto ritmata del tema precedente, eseguita però nel registro acuto, a formare dei piccoli zampilli giocosi. Per il procedimento per moto parallelo e per gradi congiunti, che ricordano le antiche polifonie, questa sezione può prendere il nome di tema del canto liturgico. Questo si dissolve per dare spazio alla quarta area tematica, più vasta, caratterizzata da due elementi contrapposti: uno, sostenuto ed espressivo, con intervalli contenuti, cantabile e legato, che procede con un passo di adagio, affidato alla mano destra (Es. 9); un altro, affidato alla
sinistra, mosso ed affannato, insistente, che gravita attorno alla nota re ripetuta e non si discosta mai significativamente da essa, suonato con sordina, ovvero coprendo con la mano libera le corde del pianoforte (Es. 10). Tale inusuale tecnica permette di ottenere un suono scarno e metallico, che ricorda quello prodotto da un tamburo, e conferisce a questo elemento la valenza di richiamo insistente verso le cose terrene e tangibili.
Al contrario, l’elemento dolce e cantabile pare sospingere lo spirito verso l’alto, verso il cielo e la purezza; esso acquista una seconda voce che si intreccia con la prima (Es. 11), quasi come il canto di due angeli,
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fino a giungere al culmine forte, per poi proseguire con tre frammenti contrastanti (Es. 12) che riportano infine alla purezza della melodia
iniziale composta quasi esclusivamente dalle due note do#-re# (Es. 13). Nel complesso, questa area potrebbe essere definita come il tema del cielo e della terra.
Sullâ&#x20AC;&#x2122;ultima nota della voce angelica si innesta un accordo cupo, nel registro grave, in gruppi di una, due o tre ripetizioni, come un grande tamburo in lontananza (Es. 14). Ricompare la formula ritmica della
seconda area tematica, che fa capolino dapprima in frammenti brevi nel registro medio (Es. 15), che diventano poi piĂš estesi ed acquistano un grande volume sonoro.
Compaiono anche frammenti con intervalli ampi, che per la figurazione ricordano quelli di rinforzo alla ripetizione del primo tema, e che vanno a formare una proposizione a sĂŠ, con un incedere costante Codice 602
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di crome (Es. 16). Tale elemento fa da contrappeso al disegno con la cellula con croma puntata e semicroma, che presenta intervalli più contenuti, e i due si alternano, ampliandosi sempre più, con la costante presenza di un accordo ripetuto al basso.
Il culmine di questa sezione presenta un ampio accordo ripetuto, ripartito tra le due mani nel registro acuto e in quello grave (Es. 17),
che costituisce un’esplosione di quell’accordo ostinato del basso, e che si alterna con la variazione fondamentale della frase con la cellula ritmica, fino a giungere ad un epilogo della sezione basato sull’elemento di crome, con intervalli molto ampi, e una conclusione su un accordo con indicazione fff (Es. 18).
Questa zona centrale molto ampia e burrascosa costituisce la prosecuzione o lo sviluppo del tema del vulcano, che qui manifesta tutta la sua forza immensa e travolgente, in cui si può scorgere un’atmosfera simile a quella della vitalità arcaica e selvaggia evocata da Stravinsky nella Sagra della primavera. Si può notare come già a questo stadio fosse presente nella musica di Gubaidulina il concetto di “fatica sisifea”, sovrumana, che, viene poi sviluppato nella sinfonia Stimmen… Verstummen…. 218
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Entro l’impasto sonoro dell’accordo, nasce una figurazione di crome molto rapide che si rifà chiaramente alla prima area tematica, insistendo sui bicordi, coprendo molta parte della tastiera del pianoforte con salti vertiginosi che confluiscono poi in una sorta di scala cromatica ascendente (Es. 19).
Quest’ultima porta direttamente ad un si♭ acuto, ripetuto con insistenza, quasi come un campanello, su cui si innesta l’elemento cantabile di due sole note alternate del tema del cielo e della terra, che viene però soppiantato dal ritorno del tema della primavera, che si presenta come una reminiscenza, nella scansione inesorabile del si♭che si fa man mano più grave (Es. 20).
Questa sorta di ripresa del primo tema, che risulta trasfigurato dal passaggio attraverso la tumultuosa sezione centrale, si conclude con una lunga scala discendente, che riporta lo spirito subito a contatto con le entità terrene. Si apre infatti una sezione molto ritmica, con cellule intervallate a pause, in una tessitura discreta e un registro grave: questa costituisce una sorta di ripresa e trasfigurazione del secondo tema (Es. 21).
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Segue una lunga sezione in cui interviene il tema del canto liturgico inframezzato a brevi frasi del tema del vulcano, che inizialmente si svolgono nel piano e nel registro acuto ma nel corso del tempo acquistano sempre maggiore volume sonoro e si espandono in tutto il registro medio del pianoforte. Anche il tema del canto liturgico è soggetto ad un crescendo, graduale ed inesorabile, mentre sale verso un registro più acuto, come se l’incedere dell’anima verso il cielo assumesse un passo sempre più pesante, sotto il peso di una fatica crescente (Es. 22).
Il culmine di questa sezione sfocia in una coda paradisiaca, un oceano di pace e serenità, che muove i suoi passi a partire dall’alternanza di due sole note, re e mi, alla mano destra, elemento derivante dal tema del cielo, mentre, alternativamente, la mano sinistra esegue una successione di accordi omoritmici e basati sulle triadi che, per la presenza di ottave e per il moto parallelo, ricordano gli antichi canti liturgici. Essi presentano inoltre una eco al basso, data dalla ripetizione della nota più grave di ogni accordo, e una all’acuto, realizzata pizzicando le corde con le dita nel registro medio, con suoni ad altezza non ben determinata (Es. 23).
Si giunge così alle battute conclusive, in cui lo spirito si libra accompagnato dalla ripetizione di un la molto acuto e dalla risonanza di un accordo molto grave, quasi come se i suoni volessero oltrepassare i limiti della tastiera dello strumento, verso una dimensione ultraterrena.
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Sull’accordo al grave si innesta l’inizio del secondo movimento, Adagio, con una cascata di suoni metallici generati da un glissando con la bacchetta di bambù sui piroli del pianoforte.
Nel complesso, il secondo movimento presenta una sola grande area tematica, che si può vedere come un’espansione e trasformazione del tema del cielo e della terra, con la contrapposizione di questi due elementi. Esso è ricco, inoltre, di episodi in cui le corde vanno pizzicate direttamente con le dita producendo note non ben determinate ma con un’altezza relativa dei suoni indicata in partitura (Es. 26). Sono presenti, inoltre, altre modalità innovative di uso dello strumento: alla battuta 5, in corrispondenza di un accordo grave, la bacchetta di bambù viene poggiata sulle corde in vibrazione, con un effetto tintinnante (Es. 26), mentre più avanti un bicordo molto grave viene rafforzato mediante lo strofinamento delle corde con le unghie.
Uno degli elementi tematici fondamentali è costituito da figurazioni di semicrome presenti in gruppi irregolari di 7, 9, 10 o 11, nel registro più grave del pianoforte, che danno l’idea di qualcosa di minaccioso che ribolle nelle viscere della terra, in lontananza (Es. 27). Ad esso si sovrappone un elemento tematico dal carattere diametralmente opposto, nel registro acuto, dal profilo limpido, che sorge dalla nota mi, ripetuta in maniera sempre più insistente, dapprima pura, poi con accordi che ne cambiano lo sfondo sonoro come sprazzi di luce. Questo elemento ricorda un campanello suonato da un angelo, un forte richiamo verso l’alto, verso il cielo.
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La contrapposizione tra cielo e terra si richiama alla terza area tematica del primo movimento e, sebbene il materiale musicale non sia molto simile, ci sono delle corrispondenze: nel primo movimento era la terra ad essere rappresentata mediante una nota ribattuta, come se inizialmente quello della terra fosse un richiamo più vicino, mentre nel secondo movimento, dopo che l’anima ha vissuto l’esperienza paradisiaca della coda del primo, è il richiamo del cielo ad essere vicino, forte e chiaro, mentre la terra è un ribollire lontano. A metà circa del movimento intervengono degli episodi nel registro medio, dal carattere percussivo, a cui segue uno sprofondamento verso il basso, verso il bicordo grave con corde strofinate, dunque verso le profondità della terra, che riprende a ribollire (Es. 28).
Segue una cadenza in cui sono assenti le stanghette divisorie delle battute, caratteristica che prende il nome di monomensuralismo. In questa sezione è presente un’alternanza tra passaggi suonati pizzicando le corde nella porzione più grave della cordiera, con un effetto acustico particolare, e passaggi rapidi e ritmati delle note fa-sol--sol che ricordano il rullo di un tamburo (Es. 29).
Per il fatto che delle note suonate direttamente sulla cordiera sono indicate solo le altezze relative, questa sezione potrebbe essere associata all’alea controllata, ma bisogna tenere in considerazione che la particolare modalità di produzione del suono utilizzata non consente una facile identificazione delle altezze all’orecchio. Perciò, più che mirare ad una esecuzione improvvisata, che risulti sempre nuova e diversa e che dipenda dallo spirito del momento, questo tipo di scrittura si limita ad un’indicazione non del tutto precisa delle altezze perché l’effetto sonoro finale non dipende da esse. 222
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Sulle note pizzicate si innesta il motivo del campanello celeste che, tra una frase e l’altra, lascia spazio ad episodi che costituiscono una reminiscenza della cadenza e si riducono progressivamente. Infine resta solo il mi e il campanello angelico vola via con una serie di graziosi balzi sulla tastiera, verso l’acuto e, idealmente, oltre il confine del suono (Es. 30).
Il terzo movimento, Presto, ha un carattere festoso ed energico e si configura come una sintesi e trasfigurazione dei primi due: in questi, infatti, gli elementi tematici legati alla terra possono essere concepiti come una dimensione orizzontale, mentre quelli legati alla ricerca della sfera spirituale e all’ascesa verso l’alto come una dimensione verticale. La loro intersezione, dunque, forma idealmente l’immagine della croce, tanto cara all’autrice, e il terzo movimento ne è il risultato musicale. Esso si apre con una cellula ritmica al basso, in pianissimo (Es. 31), che viene ripetuta e arricchita man mano, con l’intervento di altri episodi nel registro medio e medio-grave, con un costante aumento del volume sonoro, l’aggiunta di materiale musicale e la copertura dell’intera gamma dei registri del pianoforte mediante intervalli molto ampi.
La tessitura è piuttosto frammentata e presenta un’alternanza tra cellule discendenti e cellule ascendenti, finché non si giunge ad una breve sezione più compatta, dalla chiara direzionalità ascendente, accompagnata da bicordi e accordi che cadono alternativamente sulla prima e sulla seconda nota di ogni quartina (Es. 32). Segue, per contrapposizione, una sequenza nuovamente frammentata e ricca di salti.
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I due elementi tematici contrapposti si ripresentano, variati e ampliati nell’estensione e nel volume sonoro, fino ad arrivare al culmine centrale del movimento, dove le braccia dell’esecutore si incrociano, in un’evocazione della croce, introducendo un chiaro richiamo al primo tema del primo movimento, il tema della primavera (Es. 33). Questo è accompagnato da una nota ribattuta nel registro medio-acuto, come già era avvenuto nel primo movimento, ma se in quel caso la nota ribattuta diventava sempre più grave e lo sviluppo del tema era perseguito a partire dalla componente di scala, ora la nota ribattuta non cambia registro e del tema viene sviluppata la componente di arpeggio.
Questa regione di ripresa si interrompe bruscamente per lasciare spazio ad un energico accordo molto esteso con una repentina caduta verso il basso, che esplode ben quattro volte. Segue un breve episodio contrastante, in piano, in cui sono presenti due linee – accordi alla mano destra e singole semiminime alla mano sinistra – entrambe dal carattere melodico ma che procedono in maniera sfalsata l’una rispetto all’altra (Es. 34). Al registro acuto fa capolino un bicordo che prelude al poderoso epilogo.
L’ultima sezione del terzo movimento è significativamente più ampia delle precedenti e presenta un carattere ritmico molto spiccato. Essa nasce dalla cellula ritmica con cui si apre il movimento, la quale si amplia sempre più, fino a diventare un arpeggio legato con funzione di basso ostinato, mentre anche lo schema della mano destra, non legato, si estende. Quest’ultimo procede quasi esclusivamente per intervalli di quarta, con cui sono costruiti anche gli accordi che si alternano al procedere delle quartine. Le note più acute acquistano una valenza percussiva molto marcata, e si arricchiscono man mano di bicordi (Es. 35). È interessante notare che esse compaiono con una frequenza crescente 224
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all’interno di ogni frase, ad esempio all’inizio di un gruppo di 8 note, poi di 6, poi 5, cosa che conferisce all’intera sezione un carattere molto incalzante, dando l’idea di una grande energia impaziente di essere sprigionata.
L’ultima frase, la più lunga, presenta uno schema in cui il suono acuto compare dopo 8-7-5-3-5-3-5-3-5-3 note e piomba in un glissando che copre buona parte dell’estensione del pianoforte per culminare con un accordo e un cluster eseguito con il palmo della mano sinistra.
Al glissando segue un elemento ritmico con ampi intervalli, derivato dall’incipit del precedente, dal carattere molto propulsivo, che conduce ad una serie di poderosi accordi dal carattere molto percussivo e travolgente, tanto da trasformarsi in cluster ascendenti da eseguire con il palmo della mano rivolto di taglio alla tastiera (Es. 37). Questo
vortice di energia irrompente sfocia nelle ultime battute dal carattere molto martellato, con un ritmo classificabile tra quelli bulgari, del tipo 3+2+3, che si svolge in fff coinvolgendo il registro grave, alla mano sinistra, quello medio e quello acuto, che si alternano alla mano destra, fino all’accordo finale (Es. 38). Codice 602
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Nel complesso, si tratta di un brano dalla grande carica emotiva, in cui l’autrice aveva già compreso appieno le possibilità del parametro di espressione e dell’uso del ritmo in quanto elemento fondante della sostanza sonora. È altresì ben evidente il concetto di dinamicità della forma ottenuta mediante simmetrie non tradizionali, inoltre i raggruppamenti di note secondo numeri quali 3, 5, 8 e 13, appartenenti alla serie di Fibonacci, oppure secondo numeri primi, suggeriscono che già negli anni giovanili Gubaidulina fosse profondamente affascinata dai numeri. La Sonata per pianoforte costituisce una sfida all’uso tradizionale, soprattutto ottocentesco, del pianoforte e la tecnica richiesta, oltre che complessa, è altamente inusuale. Il suono prodotto deve spesso essere secco, nitido e molto articolato, quasi mai legato. L’articolazione è fondamentale nei passaggi più ritmati e rapidi, sia nel piano che nel forte, e la sua grande varietà, assieme agli intervalli molto ampi e in rapida successione, costituisce una delle sfide più grandi nell’esecuzione, tanto da avvicinarsi a volte alla soglia dell’ineseguibilità. Quest’ultima costituisce, del resto, una delle caratteristiche stilistiche della musica del Novecento, assieme all’uso del basso ostinato, dei richiami alla musica pre-tonale e della complessità ritmica. Anche le nuove tecniche di produzione del suono sono una costante del ventesimo secolo ma, considerando l’isolamento intellettuale della Russia sovietica e la forte repressione del regime nei confronti della musica d’avanguardia di produzione sia interna sia estera, l’origine di queste tecniche in Gubaidulina è da ricercarsi piuttosto nelle sue esperienze con la musica durante l’infanzia. Lei stessa racconta che era molto affascinata dal pianoforte a coda che aveva in casa, e si divertiva ad esplorare tutte le sue possibilità sonore, prima ancora di apprendere la tecnica pianistica tradizionale. Le tecniche che lei impiega – bacchetta sulle corde, corde pizzicate o sfregate con le dita, bacchetta sui piroli – si possono accostare alle tecniche dette del pianoforte preparato, ma se ne discostano in quanto queste ultime prevedono una vera e propria preparazione precedente l’esecuzione, ad esempio tramite fogli di carta o tessuti applicati alle corde per alterarne il suono, mentre quelle di Gubaidulina sono vere e proprie tecniche esecutive. Sitografia: http://www.theguardian.com/music/ - http://www.nytimes.com/ http://www.naxos.com/person/Sofia_Gubaidulina_23274/23274.htm
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finito di stampare nel novembre 2016 per conto di s i l l a b e