Storia SCOPRIRE IL PASSATO, CAPIRE IL PRESENTE
n°125 marzo
MENSILE – Austria, Belgio, Francia, Lussemburgo, Portogallo, Spagna � 8 - MC, Côte d’Azur � 8,10 - Germania � 11,50 - Svizzera CHF 10,80 - Svizzera Canton Ticino CHF 10,40 - Canada CAD 11,50 - USA $ 11,50
Antica Roma Gladiatori, battaglie navali, martiri: tutti i segreti del Colosseo
Rivoluzioni 1810-1816 l’Argentina caccia gli spagnoli
Le ultime fortezze dell’Asse
16 FEBBRAIO 2017 - MENSILE � 4,90 IN ITALIA
Sped. in A.P. - D.L. 353/03 art.1, comma 1, DCB Verona
DAL POLO ALLE ALPI FINO ALLE GIUNGLE DEL PACIFICO, GLI ESTREMI RIFUGI DI CHI NON SI ARRESE AGLI ALLEATI
RINASCIMENTO
GALEAZZO MARIA SFORZA, IL DUCA EROTOMANE CHE MODERNIZZÓ MILANO
HOUDINI
VITA, AVVENTURE E MIRACOLI DEL PIÙ GRANDE MAGO DELLA FUGA
PENSIONI
TRE SECOLI PER CONQUISTARLE, POCHI DECENNI PER PERDERLE
Non vendibile separatamente dal numero di Focus Storia in edicola. *Prezzo rivista escluso
L’ITALIA ANTICA
DUE NUMERI DA COLLEZIONE
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FOCUS STORIA COLLECTION. STORIA E STORIE DA COLLEZIONE.
125 marzo 2017
focusstoria.it
Storia Berlino, maggio 1945. I russi catturano soldati tedeschi riparatisi nella metropolitana.
S
Aldo Carioli
RUBRICHE 4 LA PAGINA DEI LETTORI 6 NOVITÀ & SCOPERTE 8 TRAPASSATI ALLA STORIA 9 AGENDA 10 MICROSTORIA 68 PITTORACCONTI 72 CURIOSARIO 73 TECNOVINTAGE 74 RACCONTI REALI 76 DOMANDE & RISPOSTE 114 FLASHBACK
IN PIÙ...
12 LaOTTOCENTO sofferta
indipendenza dell’Argentina.
ANTICHITÀ 18 Tutti i segreti
del Colosseo.
PERSONAGGI 24 Houdini, il mago
della fuga.
AKG/MONDADORI PORTFOLIO
tavano dalla parte sbagliata, ma loro non la pensavano così. Qualcuno (a dire il vero pochi, nella primavera del 1945) tra le forze dell’Asse era davvero convinto di essere votato alla vittoria finale. Qualcun altro, come il comandante militare di Berlino bloccato nella morsa dei sovietici, era spinto da un senso del dovere più forte di una durissima realtà. Tra i protagonisti del Primo piano di questo numero ci sono i soldati fantasma giapponesi che, tagliati fuori da tutto, continuarono a combattere un nemico invisibile. O i 4mila volontari (su 50mila immaginati dai vertici del fascismo) che si spinsero fino in Valtellina per presidiare il Ridotto alpino, un baluardo che non aveva più niente da difendere. O, ancora, i tedeschi rimasti incredibilmente isolati in una base oltre il Circolo Polare Artico e che si arresero soltanto nel settembre del 1945, quattro mesi dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Non sono racconti di eroismo. Piuttosto, destini di singoli travolti dai grandi fatti della Storia, come quasi sempre accade.
CI TROVI ANCHE SU:
30 ICOSTUME manifesti della Belle Époque.
ALLA RESA FINALE 36 Gli irriducibili
Truppe tedesche in Polonia, Iugoslavia e Cecoslovacchia; ma anche sottomarini che continuarono a combattere per mesi.
40 Soldati fantasma Non tutti i soldati giapponesi sentirono il loro imperatore dichiarare la resa, nel 1945. E resistettero a oltranza. Alcuni fino agli anni Settanta.
46 Nazisti al Polo
Hitler voleva conquistare il mondo: tracce dei suoi tentativi spuntano ancora oggi, come la scoperta delle sue basi segrete nell’Artico.
50
L’inutile difesa Il Ridotto alpino valtellinese doveva essere l’ultimo campo di battaglia della Repubblica di Salò. Ma non fu così.
54 139 ostaggi speciali
Il nipote di Garibaldi, il figlio di Badoglio, il genero del re d’Italia: i nazisti volevano usarli come merce di scambio per la resa finale.
60
La caduta di Berlino Nell’aprile del 1945, i berlinesi furono bersaglio di uno dei più massicci attacchi subiti da una città. Ecco come tentarono di resistere. In copertina: i leader dell’Asse Hitler, Mussolini e Hirohito. Sotto, Berlino.
78 LaSETTECENTO prigionia
dorata di Maria Teresa di Francia.
84 IDISASTRI terremoti che
hanno segnato il nostro Paese.
STORIE D’ITALIA 86 Edgardo Mortara,
il bambino rapito dal papa.
SOCIETÀ 90 Chi ha inventato
la pensione?
RELIGIONI 96 Santa Chiara,
pasionaria di Dio.
TEMI 100 IlGRANDI New Deal di
Franklin Delano Roosevelt.
RINASCIMENTO 106 Galeazzo Maria
Sforza, il duca scapestrato.
3
LA PAGINA DEI LETTORI Inviateci opinioni, idee, proposte, critiche. Pubblicheremo le più interessanti oltre a una selezione dei commenti alla nostra pagina Facebook. (www.facebook.com/FocusStoria). Scrivete a Focus Storia, via Battistotti Sassi 11/a, 20133 Milano o all’e-mail redazione@focusstoria.it
Storia Scoprire il paSSato, capire il preSente
n°124 Febbraio
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famiglie di roma bianca malaspina camorra cavo oceanico cotone Disastri spaziali Discorso hitler libri maleDetti mazzetta nera nesle ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■
MENSILE – Austria, Belgio, Francia, Lussemburgo, Portogallo, Spagna � 8 - MC, Côte d’Azur � 8,10 - Germania � 11,50 - Svizzera CHF 10,80 - Svizzera Canton Ticino CHF 10,40 - Canada CAD 11,50 - USA $ 11,50
hitler
Il “fuori onda” che nel 1942 registrò le idee del Führer sulla guerra
le dinastie di roma trame, intrighi, personaggi le grandi famiglie dell’urbe dalla fondazione all’impero
17 gennaio 2017 - Mensile � 4,90 in italia
Sped. in A.P. - D.L. 353/03 art.1, comma 1, DCB Verona
cuba
fatti e protagonisti dell’isola caraibica, da colombo a fidel castro
settecento
le sorelle nesle, dalla provincia al letto del re di francia
belligeranti. La violazione della neutralità del Belgio (e del Lussemburgo) tra l’altro fu la causa dell’ingresso della Gran Bretagna nella Grande guerra. Durante tutto il conflitto la territorialità del Belgio fu sotto il dominio della Germania, salvo alcune piccole porzioni di territorio e le colonie oltreoceano.
Pace relativa
Relativamente all’incidente della Soyuz 11, nell’articolo “Disastri Spaziali”, su Focus Storia n° 124, alle pagine 8485, sembra di capire, dalla costruzione della frase, che la morte dei cosmonauti sia stata causata solo dalla decisione di non far indossare tute pressurizzate. In realtà quella era la procedura utilizzata dall’inizio del programma fino appunto alle modifiche post Soyuz 11 (all’inizio, per lasciare spazio alle ingombranti tute, l’equipaggio era stato ridotto a due). L’evento scatenante fu lo scoppio simultaneo dei bulloni esplosivi che univano il modulo orbitale e il modulo di servizio, che provocò la fatale decompressione.
vita quotidiana come il cotone conquistò il mondo e riscrisse la storia
Le radici di parentopoli? Leggendo gli articoli sulle grandi famiglie di Roma antica del numero 124 non ho potuto fare a meno di pensare alla storia recente dell’Italia. Le radici del nepotismo e del clientelismo “all’italiana” sembrano proprio la fotocopia di quello che succedeva ai tempi degli imperatori romani, e anche prima, nella Roma repubblicana. Che cosa ne dicono gli storici? Davvero la corruzione che ci portiamo come una palla al piede è vecchia di 2mila e più anni? Se in così tanto tempo non siamo riusciti a liberarcene, sarà davvero dura... La risposta degli storici sulle origini del nepotismo sono molteplici. Su Focus Storia ne abbiamo parlato a più riprese. I paralleli con il clientelismo romano sono certamente molto forti. Ma bisogna considerare che fra quell’epoca e la nostra ci sono state fratture storiche molto importanti. C’è stato un periodo in cui il “potere del clan”, così forte in Italia, è stato attribuito a una particolarità antropologica del nostro Paese (è la teoria del cosiddetto “familismo amorale”, in voga negli anni Cinquanta). Ma oggi si tende a considerare superata questa spiegazione. C’è poi stata tutta la lunghissima parentesi degli Stati 4
regionali (il Rinascimento, quando Milano, Firenze, Venezia e altre città erano indipendenti), ma in mano alle famiglie patrizie. Altri ancora fanno risalire i problemi del clientelismo alla nascita dello Stato unitario italiano, e in particolare al trasferimento del governo a Roma e all’innesto dell’amministrazione pubblica piemontese su quella dello Stato della Chiesa.
Prima di tutto vi faccio i complimenti per la scelta dell’argomento principale del n° 123 di Focus Storia: le epoche più felici sono un argomento poco trattato e, anzi, forse neppure considerato nella grande storiografia. Vi vorrei però segnalare che in base a quanto si sostiene a pagina 39 sui più lunghi periodi di pace nella Storia, considero sia sbagliato inserire Belgio e Olanda nel periodo compreso tra il 1831 e il 1939, perché se è vero che questo discorso vale indubbiamente per i Paesi Bassi, per il Belgio assolutamente no. Infatti nell’agosto del 1914 è partito dall’Impero germanico il piano Schlieffen volto a invadere la Francia aggirando le armate posizionate nel confine tra i due
Loris Zancanella, Rovereto (Trento)
Disastrosa Soyuz
Mattia Marchetto
Il vero Gesù Non è da tanto tempo che sono abbonato alla vostra rivista ma mi sono già appassionato! Volevo suggerire, se non è già stato discusso, un argomento: il Gesù storico. Mi piacerebbe leggere chi era realmente il Gesù uomo e come i cristiani si sono mossi nei primi secoli, citando fonti diverse dai Vangeli. Andrea, Castel Mella (Brescia)
Gentile Andrea, al tema della storicità di Gesù abbiamo dedicato diversi articoli in passato e anche due copertine: quella di Focus Storia n° 7 e quella di Focus Storia n° 30. Non è escluso però che torneremo su questo argomento.
In risposta a Caterina Fabbiani, sulle serie tv australiane Ieri sera stavo leggendo l’articolo che riguardava quella serie tv ambientata in Australia e mi sono permessa di fare alcune ricerche. Ho trovato una serie tv chiamata Woodhal, poi un’altra chiamata Prisoner: Cell Block H andata in onda in Italia dal 1979 al 1986, e poi ho anche trovato un elenco di serie tv ambientate in Australia, sia nuove sia meno nuove. Magari qui c’è anche quella che cerca la signora Fabbiani. Ecco il link con l’indice delle serie tv: www. australiantelevision.net/list.html Mariangela Ciucci
Felicità e demoni
Ypres (Belgio) durante la Grande Guerra fu teatro di quattro battaglie.
Nell’articolo “Alla ricerca della felicità”, su Focus Storia n° 123, ci sono due errori. Intanto, la parola greca eudaimonía, non significa demone buono: infatti deriva dalla particella eu assieme al sostantivo daimon, il cui significato, più che demone, è divinità, in conseguenza di ciò un uomo eudaimon non sarà un
significa però che per gli uomini quei piaceri (o vizi, a seconda dei punti di vista) fossero considerati un modo per sentirsi felici.
LESSING/CONTRASTO
Da un appassionato di... invasioni
Il giardino delle delizie (1480-1490 circa) di Hieronymus Bosch.
demone buono ma un uomo in pace con gli dèi, significato che tra l’altro ha molto più senso anche visto in relazione al resto dell’articolo. Inoltre, il trittico Il giardino delle delizie di Hieronymus Bosch è un dipinto che è ben lungi dal rappresentare una specie di paradiso terrestre come fanno intendere la didascalia e il trafiletto cui è associato nell’articolo. Infatti nel dipinto, del quale sono presenti molteplici interpretazioni, non ci sono persone che vivono in stato di grazia, bensì uomini e donne che si dedicano a peccare nel modo più orrendo, cosa che suggerisce che sia una specie di satira delle passioni terrene dell’uomo, ma che per lungo tempo ha contribuito a far etichettare questo trittico come eretico. Marco Battistone
Ringraziamo Marco Battistone delle precisazioni. Tuttavia non si tratta di errori. L’eudemonismo al quale si fa riferimento nell’articolo, alla base della filosofia della felicità di alcune correnti filosofiche greche, si basa proprio sul significato di “demone buono”. Un daimon è infatti una sorta di “genio” o “spirito-guida” (e non una divinità). Nella concezione greca della felicità, alla quale si accenna nell’articolo, corrisponde proprio a una condizione in cui un uomo è felice perché accompagnato idealmente da un daimon positivo. Più o meno è quello che in seguito la civiltà cristiana definirà “buona stella”. Quanto al trittico di Hieronymus Bosch, è vero che i piaceri che vi si descrivono erano condannati dalla morale cristiana. Il fatto che l’artista ne volesse fare una satira non
Mi piacerebbe leggere un articolo riguardante le occupazioni militari nella Storia. Per esempio l’occupazione giapponese in Manciuria o l’occupazione nazista in Francia, o più recentemente l’occupazione dei territori del califfato da parte dell’Isis o il tentativo di occupazione del Tibet da parte dei cinesi. O, in piccolo, anche l’occupazione delle isole Bikini da parte degli americani, o quella di mezza isola di Cipro da parte dei turchi. Un articolo che riassume le principali occupazioni militari potrebbe rispondere a numerose domande. Per esempio: c’è stata un’occupazione che è andata a buon fine e per cui i popoli occupati alla fine si sono adeguati all’invasore? Oppure: le occupazioni finiscono tutte alla lunga per sconfiggere gli occupanti? Paolo Marazzi
Molti degli esempi fatti dal lettore sono stati raccontati da Focus Storia: per esempio l’invasione turca di Cipro e quella cinese del Tibet, quella della Francia da parte dei nazisti (recentemente su Focus Storia n° 122). Esempi di occupazioni più o meno accettate dagli invasi ce ne sono, ma tutto dipende dai punti di vista. Le campagne napoleoniche furono per esempio viste con favore dai liberali e dai progressisti d’Europa, ma certo non dagli aristocratici dell’ancien régime e dai lealisti. Insomma, quando c’è un’occupazione, tutto diventa molto relativo. Terremo comunque
conto del suggerimento come spunto per un articolo.
Il governo dimenticato Nel vostro articolo intitolato “L’americano sepolto al Cremlino” pubblicato sul n° 120 di Focus Storia affermate che Aleksandr Kerenskij guidò il governo provvisorio dopo la rivoluzione di febbraio. In realtà Kerenskij prese il potere solo a luglio. Prima di luglio il governo provvisorio fu nelle mani del principe L’Vov (foto). Fulvio Bertoglio
La precisazione è corretta, ma il governo provvisorio che fu rovesciato dalla rivoluzione bolscevica fu quello di Kerenskij. Soltanto per questo non abbiamo citato il governo L’vov.
I NOSTRI ERRORI
Focus Storia n° 123, pag. 80: nel credito del servizio fotografico sulla Grotta dei Cervi non è stata riportata la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Lecce, Brindisi e Taranto, che detiene diritti di riproduzione delle immagini del sito archeologico; ce ne scusiamo con l’autorità interessata. 5
novità e scoperte
I Principia di Newton in un’asta da record
Q
uasi 3,5 milioni di euro: è il prezzo da capogiro a cui la casa d’aste Christie’s ha recentemente venduto, a New York, una rara copia dei Philosophiae Naturalis Principia Mathematica di Isaac Newton. Il libro, diventato così il testo scientifico più costoso mai venduto, era stato valutato dagli esperti tra 1 e 1,5 milioni, ma ha invece fruttato ben più di quanto stimato. Matematico, fisico e astronomo, l’inglese Newton pubblicò il suo trattato nel 1687 a Londra. Versione deluxe. Scritto in latino, il volume – considerato
uno dei massimi capolavori della letteratura scientifica mondiale – tratta delle leggi della dinamica e della gravitazione universale. La copia messa all’asta, che appartiene alla prima tiratura dell’opera ed era destinata alla diffusione in Europa continentale, è foderata da una preziosa copertina di marocchino (di pelle di montone) rosso cremisi. Ne esiste solo un’altra edizione con la stessa rilegatura: lo scienziato l’aveva offerta in dono al re d’Inghilterra Giacomo II: fu venduta nel 2013, ma fruttò “solo” 2,5 milioni. (s. z.)
La scienza che vale
Rafforzare la ruota destra con una striscia di ferro era il segreto dei carri che si sfidavano a Roma. Lo dice uno studio. GETTY IMAGES (4)
Isaac Newton e una copia dei suoi Principia (a sinistra): il trattato scritto nel 1687 ha fruttato all’asta una cifra record.
UN TRUCCO
O
ggi la scelta degli pneumatici è decisiva in Formula 1, ma anche nell’antica Roma quella delle ruote era cruciale nelle corse dei carri che tanto appassionavano i cittadini dell’Urbe. La recente analisi di un model-
IN PILLOLE
1
Un Natale di 5mila anni fa
Una spedizione archeologica ha scoperto in Egitto una pittura rupestre che raffigura un bambino con i genitori e un astro nel cielo: con i suoi 5.000 anni è la natività più antica. 6
2
Il servizio è monouso
Anche nel ’400 si usavano stoviglie usa e getta, di porcellana. Gli archeologi hanno trovato numerosi frammenti di tazze, gettati via forse durante un sontuoso banchetto.
3
lino di biga di epoca romana, ritrovato nel Tevere negli Anni ’90 dell’Ottocento e conservato al British Museum di Londra, ha permesso di scovare un particolare costruttivo che avvantaggiava nell’agone circense. Si tratta di una fine
La fine di Madame Tussauds
Madame Tussauds, famosa per il suo museo delle cere, morì a 89 anni nel 1850. Il certificato di morte diceva di vecchiaia: oggi si specifica che fu vittima di una polmonite.
La spedizione perduta di Franklin nel 1845: i 129 membri morirono.
Il mistero sull’unghia
N Formula 1 romana Una sfida al Circo Massimo nel I secolo d.C. “vista” nel ’700: i ludi circensi, cioè le corse dei carri, erano la passione dei Romani.
PER LE BIGHE striscia di metallo che veniva applicata su una sola delle ruote del carro. Sorpasso in curva. Le ruote erano realizzate con elementi di legno fissati con colla animale e strisce di cuoio; l’aggiunta di una parte metallica su un’uni-
4
ca ruota, quella di destra, consentiva al carro di affrontare meglio le curve. Il percorso nel circo era generalmente in senso antiorario e quindi la ruota destra era più sollecitata di quella di sinistra e perciò più soggetta a rotture.
Anna, la poetessa
Otto versi scritti nel 1942 da Anna Frank, il cui diario è diventato uno dei simboli dell’Olocausto: la poesia è recentemente andata all’asta per 140mila euro.
5
Secondo il Journal of Roman Archaeology, questa striscia metallica aumentava le probabilità di vittoria dell’80 per cento. Chissà se il fuoriclasse cinematografico Ben Hur conosceva questo trucco. • François-Xavier Bernard
A lunghissima conservazione
I lavori della metropolitana di Londra hanno svelato oltre 13mila scatolette e lattine di ketchup, funghi, marmellata e mostarda. Erano state prodotte tra il 1870 e il 1921.
on fu avvelenamento da piombo, ma deficienza cronica di zinco a uccidere almeno alcuni dei 129 membri dell’equipaggio della spedizione artica di John Franklin, partita nel 1845 con le navi Erebus e Terror (ritrovate rispettivamente nel 2014 e 2016) in cerca del passaggio di Nord-ovest e mai più tornata. La nuova ipotesi, che si aggiunge alle tante altre formulate a partire dagli Anni ’80 per spiegare la decimazione dell’equipaggio, si basa sull’analisi di frammenti delle unghie di alluci e pollici del marinaio John Hartnell, di cui fu rinvenuta la sepoltura sull’isola di Beechey. Fame di zinco. Analizzate con il laser e con il sincrotrone (un tipo di acceleratore di particelle) dell’Università del Saskatchewan (Canada), i frammenti hanno rivelato che l’uomo nell’ultimo periodo non aveva potuto usare le riserve di pesce e carne della nave e si era nutrito male. Per Jennie Christensen, dello Stantec Consulting di Sydney (Canada), la conseguente carenza di zinco aveva indebolito l’organismo esponendolo a tubercolosi e polmonite, malattie di cui è forse morto Hartnell, e causando un crescente rilascio nel sangue del piombo immagazzinato nelle ossa. (g. l.) 7
novità e scoperte
Un dottore a Cipro n piccolo bicchiere in vetro e un kit di strumenti chirurgici, sei in bronzo e uno in ferro, riposti in una cassetta in bronzo. Quella che sembra la “valigetta del dottore” è venuta alla luce in una stanza lungo il portico orientale dell’agorà di Nea Paphos, che durante il periodo ellenistico-romano fu capitale di Cipro, l’isola della dea dell’amore Afrodite. Per gli archeologi dell’Università di Cracovia, in Polonia, potrebbe trattarsi di strumenti medici (ricordano infatti simili ritrovamenti della Casa del Chirurgo a Pompei e di uno studio oculistico a Lione, Francia) in dotazione in una sorta di ambulatorio operante sulla piazza della città. Kit completo. In una sala limitrofa è stata ritrovata infatti un’altra scatola con manici di ferro che conteneva due ampolle di vetro quasi intatte, e lucerne. Alcune monete datano i ritrovamenti all’età dell’imperatore Adriano, che regnò nel II secolo d.C. (a. b.)
GETTY IMAGES
U
L’evoluzione di un colore Oregon, fine ’800: i primi jeans erano in tessuto marroncino, poi tinto con coloranti naturali. A sinistra, il tessuto trovato in Perù.
Il blu degli indios Già 6.200 anni fa in Perù si tingevano i tessuti con l’indaco. Forse per scopi rituali.
L’
indaco dei blue-jeans ha almeno 2.000 anni più di quanto si credesse, e non nacque in Egitto ma in Perù, 6.200 anni fa. È quanto si legge in uno studio firmato dall’antropologo Jeffrey Splitstoser e da altri ricercatori dell’Università statunitense George Washington. Esaminando frammenti di tessuto ritrovati nel sito di
Huaca Prieta, a nord della città di Trujillo, tanto sporchi da sembrare incolori, sono state individuate sbiadite tracce di strisce blu. Dalle analisi chimiche è risultato che il colore era proprio l’indaco, ricavato da piante del genere Indigofera con lunghi e complessi procedimenti. Una prima fermentazione dà un bagno giallo in cui immergere i tessuti, che dopo
essere stesi all’aria diventano blu per ossidazione. Li usavano probabilmente i sacerdoti a Huaca Prieta, luogo di cerimonie religiose. Abili tessitori. La scoperta rivela la maestria nella tecnologia tessile dei nativi sudamericani, aspetto finora poco noto. Con la conquista spagnola i loro metodi furono sostituiti da quelli europei. E solo in seguito tintura, filatura e tessitura degli esperti locali furono rispolverate dagli invasori. • Giuliana Lomazzi
TRAPASSATI ALLA STORIA Personaggi sconosciuti che sono stati, in vita, protagonisti.
WILLIAM SALICE
dirigente
Dal 1960 alla Ferrero come rappresentante, in un decennio questo abile sperimentatore divenne responsabile dello sviluppo dei prodotti. Grazie a lui nacquero il marchio Kinder e i suoi prodotti, tra cui il noto Ovetto di cui fu il “papà”. Pensionato mecenate. In pensione dal 2007, investì la liquidazione di 400mila euro per fondare a Loano (Sv) Color Your Life, un campus di eccellenza di corsi formativi gratuiti per giovani talenti. È morto a 83 anni. 8
CLARE HOLLINGWORTH
giornalista
Inviata dal Daily Telegraph in Polonia come corrispondente, il 28 agosto 1939 passò avventurosamente il confine tedesco e segnalò alla scettica redazione un cospicuo movimento di truppe. Scoop del secolo. Il 1° settembre scoppiava la Seconda guerra mondiale e fu Clare a darne l’annuncio al quotidiano inglese e al mondo, dopo aver visto volare gli aerei nazisti. Lavorò poi per quarant’anni nelle zone di massima tensione del mondo. È morta a Hong Kong a 105 anni.
A cura di Giuliana Lomazzi
TYRUS WONG
artista
Immigrato negli Usa dalla Cina nel 1920, lavorò per tre anni alla Disney disegnando sfondi tra cui quelli per il noto cartone animato Bambi (1942); il suo contributo fu riconosciuto solo nel 2001. Artista in sordina. Tyrus lavorò come disegnatore e illustratore per la Warner Bros. e la Hallmark, per cui fece cartoline di successo. Fu pittore, muralista e litografo. Dopo la pensione si dedicò agli aquiloni di bambù, per cui vinse anche dei premi. È morto a 106 anni.
agenda A cura di Irene Merli
FOTOGRAFIA
TERNI
Gianni Berengo Gardin ROMA
Roma e Malta, che passione!
Vera fotografia con testi d’autore: 24 immagini selezionate e commentate da protagonisti dell’arte e della cultura, tratte dal corpus di 60 anni di carriera del grande reporter (sotto, Venezia,1960).
©GIANNI BERENGO GARDIN/COURTESY FONDAZIONE FORMA PER LA FOTOGRAFIA
MOSTRA
Fino al 30/4. Caos. Info: 0744/285946, caos.museum.it
EVENTO
FERRARA
Carnevale rinascimentale Balli in maschera, spettacoli a tema, visite guidate e un fastoso corteo in costumi d’epoca. Dal 23 al 26/2. Centro storico. Info eventi: 0532783944, www.carnevalerinascimentale.eu
N
ella cornice dello splendido Palazzo Barberini (in basso a destra), una mostra che spiega l’intensa relazione storica e artistica che si instaurò tra Italia e Malta fin dal Seicento, quando prima Caravaggio e poi Mattia Preti si trasferirono a La Valletta (Malta) come Cavalieri di San Giovanni. Influenza barocca. La presenza nell’isola dei due artisti (Caravaggio vi restò dal 1606 al 1608, Preti per lunghissimi periodi dal 1661 e vi morì nel 1699) favorì infatti la progressiva apertura di Malta al nuovo stile ba-
rocco. Come testimoniano i 18 dipinti dell’esposizione Mediterraneo in chiaroscuro. Ribera, Stomer e Mattia Preti da Malta a Roma. Alcuni di questi capolavori provengono dal Muzew nazzjonali tal-Arti di La Valletta e per
la prima volta sono messi a confronto con quelli della collezione romana. Chiude la mostra Allegoria della Nobiltà dell’Ordine di Malta di Francesco De Mura, (sopra), che rende omaggio all’isola e ai suoi cavalieri. •
Fino al 21/5. Palazzo Barberini, Roma. Info e prenotazioni: 064814591; www.barberinicorsini.org
IL LIBRO
La Guerra civile spagnola Uno scrittore e giornalista esiliato in Messico, attraverso una serie di racconti, narra le terribili condizioni degli antifranchisti spagnoli e degli indesiderabili europei rinchiusi nei campi di concentramento in Francia e in Algeria, alla fine degli Anni Trenta. Max Aub, Gennaio senza nome, Nutrimenti, 17 euro. 9
microstoria A cura di Marta Erba, Paola Panigas e Daniele Venturoli
PAROLE DIMENTICATE
D
A
P
E
Derivato dalla parola daps che in latino significa cibo, pranzo sontuoso, ma stranamente anche escremento, in italiano viene usato per indicare una vivanda oppure un banchetto.
Nella mitologia nordica BIFRÖST (che letteralmente significa “via tremula”) è il nome del variopinto ponte realizzato con la forma di un arcobaleno (sopra) che unisce la terra (Midgard) alla residenza degli dèi (Asgard). Percorso tutti i giorni dagli dèi che si riuniscono in assemblea, il ponte è sorvegliato dal dio Heimdallr, dotato di sensi così acuti che può sentire l’erba crescere, e in possesso del Gjallarhorn, un corno dal suono così potente da raggiungere ogni luogo. Lo suonerà all’avvento del Ragnarök, la fine del mondo, quando si presenteranno le orde infernali guidate da Loki, figlio adottivo di Odino. E a quel punto sarà necessario distruggere il ponte per bloccare le forze del male. Sospeso tra cielo e terra. Generalmente nella mitologia l’arcobaleno simboleggia il legame tra il cielo e la terra, e in particolare tra gli dèi e gli uomini. Tuttavia sono in molti gli studiosi a identificare il Bifröst proprio con la Via Lattea. 10
FOTOTECA GILARDI
IL MITO
LA VIGNETTA
GRASSE RISATE Nel 1897 il giornale satirico torinese il Pasquino indirizzò il suo pungente umorismo al diretto “competitor”, Il Fischietto, anch’esso pubblicato a Torino, titolando la copertina di gennaio il “Gran veglione del Fischietto”. Il “gran veglione” si riferiva al lungo periodo che avrebbe preceduto le elezioni italiane del 21 marzo 1897. La vignetta del Pasquino, giornale che inizialmente non si occupava di politica, recitava: “Le prossime elezioni sono, come sempre, il carnevale della stampa e il Fischietto approfitta della coincidenza del suo cinquantenario per indire un veglione a benefizio di giornalisti vecchi e bisognosi”, insinuando che i giornalisti “andavano a nozze” con le elezioni. La velata accusa era che i colleghi
del Fischietto non avrebbero perso occasione per sfruttare questo periodo scatenandosi con vignette a tema. E che la satira politica servisse più che altro a ingrassare le tasche dei vignettisti. Fair play. Casimiro Teja, anima della rivista che diresse dal 1857 fino al giorno della sua morte nel 1897, per il Pasquino s’ispirò alla “statua parlante” di Roma, su cui di notte venivano appesi fogli anonimi contenenti feroci satire dirette ai personaggi pubblici più importanti. In realtà al caricaturista fu sempre riconosciuta una grande lealtà verso i suoi “bersagli”. Lo scrittore Edmondo De Amicis dichiarò: «Tutti gli avversari che Teja bollò nel Pasquino gli possono stringere la mano».
CORBIS VIA GETTY IMAGES
IL NUMERO
CHI L’HA DETTO?
3.418
Le stanze della residenza del re di Spagna. Con i suoi 135mila m², il Palazzo di Madrid è il più grande d’Europa.
TOP TEN
FALSI STORICI
“Annus horribilis” L’espressione, che si contrap pone alla più antica annus mirabilis (impiegata dal poe ta inglese John Dryden nel 1666), è nota soprattutto per essere stata usata dalla regina Elisabetta II in un discorso alla Guidhall di Londra nel 1992.
Sventure. Quell’anno ad angu stiarla erano stati, tra le altre co se, le separazioni dei figli Andrea e Anna dai rispettivi consorti, le rivelazioni della principessa Diana al Sunday Times sulla re lazione tra Carlo e Camilla e un incendio al castello di Windsor.
L’OGGETTO MISTERIOSO
La donazione di Costantino Documento in cui l’imperatore romano donava l’Impero di Occidente a papa Silvestro I. Atto confutato nel 1517 da L. Valla.
3
Canti di Ossian Scoperti nel XVIII secolo e attribuiti a un bardo del III secolo, erano in realtà opera di un poeta scozzese contemporaneo.
4
I protocolli dei savi di Sion I piani ebraici per “controllare” il mondo, pubblicati nel 1903, riprendevano un falso del 1895 scritto dalla polizia segreta russa.
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L’uomo di Piltdown L’anello mancante tra scimmia e uomo era una contraffazione: cranio medioevale, mascella di orangutan, denti di scimpanzé.
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Le fate di Cottingley Un caso di presunta apparizione di fate. Immortalate, nel 1917, mentre giocano con due cugine di 16 e 10 anni.
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La placca di Drake Scherzo fatto nel 1933 allo storico H. Bolton. Doveva essere la placca deposta da F. Drake nel 1579, all’arrivo in California.
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I falsi Vermeer Realizzati dal pittore olandese Han van Meegeren, vennero venduti a nazisti di spicco, come Himmler e Goering.
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I Tasaday Nel 1971 fu scoperta una tribù filippina che viveva come all’Età della pietra; nel 1986 saltò fuori che era una trovata per turisti.
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È stato Giovanni De Giorgi di Ancona il lettore più veloce a indovinare l’oggetto del numero scorso. Si tratta di una “trottola” usata dagli idraulici per sagomare e allargare il diametro dei tubi di piombo. Operazione necessaria per inserire un tubo dentro l’altro prima della saldatura.
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Secondo alcuni storici questo termine deriverebbe dal nome di Cafo, un rozzo centurione (nel tondo) inviato dai Romani a Capua nel 42 a.C., poco dopo l’uccisione di Giulio Cesare (15 marzo del 44 a.C.). “Cafones”, i suoi seguaci, erano poco inclini alla vita cittadina e i loro modi dovettero apparire molto villani e rozzi ai Campani che invece coltivavano il culto per l’eloquenza, la poesia, la musica e il canto.
Il Cupido dormiente (Michelangelo) La statua, oggi perduta, scolpita nel 1496, fu venduta come un reperto archeologico per 200 ducati, contro i 30 pagati all’artista.
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È un anello in legno, inciso verticalmente all’interno, con un diametro di 32 cm. L’attrezzo è dotato di una cordicella da agganciare a uno dei denti della griglia esterna. Come era usato?
VOCABOLARIO: CAFONE
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I diari di Hitler Pubblicati da Der Stern nel 1983, sarebbero stati trovati dall’artista Konrad Kujau, in realtà autore del falso, nel relitto di un aereo.
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OTTOCENTO
ARGENTINA LIBRE
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rano poco più di trenta persone, in una modesta casa di tre stanze nella città di San Miguel de Tucumán. Radunate attorno a un grande tavolo, esaminavano la carta per l’ultima volta, dopo mesi di modifiche e negoziati. Il testo era conciso, appena due paragrafi. Con la firma dei deputati presenti si siglava la Dichiarazione di indipendenza delle Province Unite del Río de la Plata, territorio che decenni più tardi avrebbe dato luogo all’Argentina. Due secoli dopo quel 9 luglio 1816, gli storici sono d’accordo su quanto accaduto quel giorno a Tucumán, ma non lo sono su quel che ha significato per il futuro politico, sociale ed economico dell’Argentina. Fu vera emancipazione oppure un colpo di mano della borghesia di Buenos Aires, dato che le altre province non erano così entusiaste di separarsi dalla madre Spagna?
A Tucumán, 200 anni fa, nasceva un nuovo Paese, indipendente dalla Corona spagnola, ma subito sprofondato in una guerra civile a causa dei contrasti interni
Verso la libertà
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Sotto, durante il Congresso di Tucumán, il 9 luglio 1816, si giura sulla Dichiarazione di indipendenza dell’Argentina (a sinistra, in una cartina del ’700). Nella pagina accanto, José de San Martín, uno dei primi leader che combatté per la causa nazionale.
Mobilitazione. Tutto era iniziato nel 1808, quando l’abdicazione di re Ferdinando VII di Spagna a favore di Giuseppe Bonaparte, fratello maggiore di Napoleone, aveva fatto scoppiare le ostilità tra l’esercito francese e la resistenza iberica, accelerando il disfacimento del logoro impero coloniale spagnolo. I creoli della regione di Buenos Aires (discendenti degli europei nati in America) si erano mobilitati già dopo le invasioni britanniche del 1806-1807: respingendo gli attacchi della Royal Navy senza l’aiuto di truppe spagnole, impegnate in Europa, avevano dimostrato capacità organizzative non indifferenti. Da tempo, d’altronde, non facevano mistero del forte fastidio per la rigidità burocratica del governo spagnolo e dell’irritazione per il monopolio commerciale e per la pessima gestione della colonia, oltre che per la forte tassazione imposta da Madrid. Inoltre, la potenza delle idee liberali provenienti dagli Stati Uniti, ormai
repubblica indipendente, e dalla Francia rivoluzionaria crearono un clima di fermento. Non tutti però nella colonia la pensavano così. La sensazione di vuoto di potere, sommata al ritiro di parte delle truppe spagnole, portò alla nascita di autonome “juntas provinciales” (“province unite”) tra i territori di Argentina, Uruguay e Bolivia. Tutte però giurarono fedeltà a re Ferdinando VII e chiesero il rispetto dello status quo. La spinta indipendentista di Buenos Aires andava placata. Ma ci fu un imprevisto. effetto collaterale. Nel 1810 Siviglia cadeva nelle mani dei francesi, scatenando una serie di eventi che avrebbero portato a quella casa di tre stanze a Tucumán. Il viceré spagnolo di Buenos Aires, Baltasar Hidalgo de Cisneros, cercò di nascondere la notizia della débâcle spagnola, fatta arrivare da navi inglesi, dando ordine ai suoi soldati di sequestrare tutti i giornali presenti sui vascelli. Non bastò, e Cisneros dovette procla-
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La resistenza di Buenos Aires I britannici nel 1806 tentano la conquista di Buenos Aires: vengono respinti nonostante la colonia non sia stata appoggiata militarmente dalla Spagna.
Durante la Rivoluzione di maggio, iniziata il 18 maggio 1810, fu deposto il viceré spagnolo: fu la pietra miliare del processo di indipendenza 14
marla ufficialmente il 18 maggio 1810 scatenando quella che è passata alla Storia come la Rivoluzione di maggio. Dopo il proclama di Cisneros, un gruppo di possidenti, giornalisti, avvocati, economisti, intellettuali e militari di origine creola organizzò un’assemblea straordinaria per decidere il futuro del vicereame, che all’epoca comprendeva, oltre a gran parte del territorio dell’attuale Argentina, anche quello di Bolivia, Paraguay e Uruguay. Tra le prime decisioni ci fu quella di cacciare Cisneros e creare un primo embrione di governo. Nacque così la Prima Giunta. Ma non si pensò subito all’indipendenza: la Rivoluzione era stata fatta al grido di “Viva il re, a morte il malgoverno” e molti preferivano una transizione “morbida”, impauriti da un cambiamento veramente rivoluzionario. Avrebbero rischiato di perdere i loro possedimenti terrieri, così come avvenuto in Francia nel 1789. Guerra civile. Non c’era però unanimità sulla strada da intraprendere. Da un lato i porteños, esponenti della borghesia commerciale di Buenos Aires, spingevano per una rottura con la
Spagna, prevedendo che il potere si sarebbe concentrato nelle loro mani, mentre i rappresentati delle altre province, soprattutto possidenti terrieri, non erano d’accordo, temendo lo strapotere di Buenos Aires e preferendo il governo spagnolo, sotto il quale avevano goduto di un’ampia autonomia. Veniva piantato il seme della lotta tra chi voleva l’indipendenza e un governo forte e centralizzatore e chi, invece, puntava a una soluzione federalista. Le divergenze anche sociali erano difficilmente appianabili e si arrivò a flirtare con l’idea di consegnare il Paese all’Impero britannico. La formazione di una giunta provvisoria composta esclusivamente da rappresentanti di Buenos Aires fu considerata un oltraggio dalle altre province, che si rifiutarono di riconoscerne la legittimità, scatenando una guerra civile in cui si affrontarono numerose fazioni locali. Quello che doveva essere l’inizio dell’indipendenza argentina sfociava nel caos e nella violenza. il colpo di coda spaGnolo. La prima esperienza rivoluzionaria naufragò, assediata dalla reazione della Corona spagnola, che inviò truppe
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Le date chiave dell’Argentina
Parentesi napoleonica
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Ferdinando VII di Spagna in un ritratto dell’epoca: la sua abdicazione nel 1808 a favore di Giuseppe Bonaparte aveva fatto scoppiare la guerra tra francesi e resistenza iberica. Sopra, Il 3 maggio 1808, celebre dipinto di Francisco Goya che onora i patrioti spagnoli fucilati.
1516 L’esploratore Juan Díaz de Solís conquista il Río de la Plata, nome dato poi alla regione che comprende Argentina, Paraguay e Uruguay. Dopo un primo disinteresse, il re di Spagna ordina che vi vengano create delle colonie. 2 febbraio 1536 Lo spagnolo Pedro de Mendoza fonda la città di Santa Maria de Buenos Aires. Abbandonata 5 anni dopo a causa di conflitti con i nativi, viene rifondata permanentemente nel 1580. 1776 Per meglio amministrare le colonie americane, la Corona spagnola crea il Vicereame del Río de la Plata, dividendolo dal territorio Vicereame del Perù. 1806-1807 Invasioni britanniche. Gli inglesi si stabiliscono nella Banda Orientale del Río de la Plata e da lì invadono e occupano Buenos Aires. Sono presto scacciati dalla popolazione creola. Chiedono rinforzi a Londra e attaccano nuovamente, ma vengono battuti ancora.
18 maggio 1810 Il viceré spagnolo Baltasar Hidalgo de Cisneros (foto) annuncia l’invasione napoleonica della Spagna. Nel vicereame scoppia la Rivoluzione di maggio. Buenos Aires chiede l’autogoverno. Inizia il processo che porterà all’indipendenza. 1811-1816 Caos politico e militare in tutta la regione. 27 febbraio 1812 Per la prima volta la bandiera argentina sventola su un campo di battaglia. 9 luglio 1816 Il Congresso generale a Tucumán dichiara l’indipendenza delle Province Unite ed elabora uno statuto provvisorio. 1852 ”Rivoluzione del 1852”: per dieci anni si crea una separazione politica tra la Confederazione Argentina e lo Stato di Buenos Aires. 15
Battaglia fratricida Qui e a destra, due momenti della battaglia combattuta a Tucumán tra il 24 e il 25 settembre 1812, dove si scontrarono truppe fedeli al re di Spagna e patrioti separatisti. La vittoria di questi ultimi favorì l’indipendenza dell’Argentina.
Si scatenò una battaglia tra “patrioti” che volevano l’autonomia del Paese e per reprimere la rivolta, e dai dissensi interni. Fu scontro tra i sostenitori della Corona, denominati “realisti”, e i rivoluzionari (i “patrioti”). Ma anche una lotta intestina tra gli stessi rivoluzionari. Non si riuscì a costruire un potere centrale legittimo e riconosciuto da tutte le province. Per questo motivo furono sei gli anni che dovettero trascorrere tra la Rivoluzione di maggio e la Dichiarazione d’Indipendenza. Quando in Europa Napoleone Bonaparte fu rovesciato dagli Stati coalizzati nella Santa Alleanza (1813), Ferdinando VII tornò al suo posto sul trono di Spagna. Da quel momento le parole “indipendenza” e “repubblica” vennero messe all’indice e la lunga e dolorosa guerra di liberazione nazionale naufragò. Era essenziale legittimare la lotta contro una Corona rafforzata e unificare i progetti di tutti i leader creoli. Nel marzo del 1815, in un Congresso Generale a Tucumán, 33 rappresentanti eletti nelle varie regioni delle Province Unite del Río de la Plata cominciarono a discutere il futuro dell’Argentina. Primo passo: mettere fine al caos interno che asfissiava il disegno patriottico. In fretta e furIa. L’obiettivo originario del Congresso di Tucumán era elaborare una costituzione che riformulasse i rapporti con la Spagna. Non si parlava ancora di indipendenza, visto che molti deputati avevano giurato fedeltà al sovrano di Madrid. Ci fu un dibattito lungo e molto acceso: alla fine la Dichiarazione fu scritta in fretta e in furia, e firmata quasi un anno e mezzo dopo l’apertura dei lavori. Ne uscì un testo di appena due laconici paragrafi, scritti in spagnolo e in quechua, la lingua indigena. Con 16
un unico punto chiaro: “rompere i legami violenti che legavano il Paese ai reali di Spagna” a cui, pochi giorni dopo a causa della pressione popolare, si aggiunse “e da qualsiasi altra dominazione straniera”. La Spagna, ovviamente, si rifiutò di riconoscere l’indipendenza fino al 1859. Perché tanta urgenza di chiudere la “questione costituzione”? Si temeva che se non fossero cessate le insurrezioni armate in tutto il territorio del Río de la Plata si sarebbero diffuse idee radicali. Si rischiava una drammatica replica del Terrore che si era scatenato in Francia dopo la rivoluzione. A questo si sommava il panico degli uomini forti di Buenos Aires di fronte alla prospettiva di perdere il controllo del territorio e il monopolio commerciale. Per questo motivo, molti ancora oggi considerano che la Dichiarazione d’Indipendenza abbia tradito lo spirito e le reali intenzioni della Rivoluzione di maggio. una sola bandIera. A due secoli di distanza, quel “pezzo di carta” è considerato solo un ingranaggio in un processo di lotta tra fazioni con progetti sociali e politici divergenti. Uno scontro che si è trascinato fino ai giorni nostri, esacerbato dalle differenze sociali, e reso ancora più violento dagli interventi dei militari. Oggi a Tucumán rimane solo una modesta casa a ricordo di quell’evento, mentre nella città di Rosario è stato eretto un imponente Monumento alla bandiera, per celebrare il luogo in cui per la prima volta è sventolato il vessillo argentino, nel 1812. Un evento teoricamente minore ma che ha conquistato i cuori degli argentini. • Carlo Cauti
“realisti” fedeli alla monarchia spagnola di Ferdinando VII Vessillo patriottico
4 giugno 1946 Juan Domingo Perón prende il potere in Argentina. Governerà per quasi due mandati con a fianco la first lady Evita (sopra). 16 settembre 1955 I militari argentini danno inizio alla “Revolución Libertadora” che caccia Perón. Chiudono il Congresso, depongono i giudici della Corte Suprema e proibiscono il peronismo. 1955-1973 Si apre un tumultuoso periodo in cui si susseguono una serie di golpe militari. 23 settembre 1973 Nuova vittoria elettorale di Perón, che torna da 18 anni di esilio e governa fino alla morte, il 1° luglio 1974, quando viene sostituito dalla terza moglie Isabel Martínez de Perón. 1976 La Perón viene deposta e inizia una nuova dittatura militare che governa il Paese fino al 1983. A guidarla è Jorge Rafael Videla (sotto): inizia il periodo più sanguinoso della storia argentina, la violazione dei diritti umani diviene una costante con la scomparsa e la morte di migliaia di persone.
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Il generale Manuel Belgrano, capo dei patrioti, sventola per la prima volta la bandiera argentina: è il 27 febbraio 1812 e l’Argentina non è ancora un Paese indipendente.
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1862 Bartolomé Mitre è eletto primo presidente dell’Argentina unificata. 1930-1943 “Década Infame”, periodo che inizia con il golpe che destituisce il presidente Hipólito Yrigoyen e finisce con un altro golpe, che spodesta Ramón S. Castillo.
2 aprile-14 giugno 1982 Gran Bretagna e Argentina si affrontano nella Guerra delle Falkland. L’Argentina viene sconfitta e cade la dittatura. 1983 Raúl Alfonsín è il primo presidente eletto dopo la fine della dittatura militare. 17
ANTICHITÀ
È il simbolo di Roma e il più grande anfiteatro dell’antichità. Storia, curiosità e
TUTTI I SEGRETI LE ENTRATE Gli spettatori accedevano alla cavea, la parte a loro riservata, attraverso i vomitoria, gli ingressi laterali che permettavano entrata e deflusso rapidissimi.
IDENTIKIT • L’Anfiteatro Flavio, meglio cono-
sciuto come Colosseo, è la più grande e maestosa arena dell’antichità e il secondo monumento più visitato al mondo dopo la Muraglia Cinese. È stato inserito tra le nuove sette meraviglie del mondo.
IL POSTO DELL’IMPERATORE Il palco imperiale si trovava a ridosso dell’arena, in corrispondenza dell’asse minore. Aveva anche un accesso più diretto, attraverso un criptoportico che dava all’esterno.
• Fu voluto da Vespasiano e iniziato
nel 71 d.C. A inaugurarlo fu però l’imperatore Tito, nell’80, con 100 giorni di giochi in cui combatterono 2mila gladiatori e furono uccisi 9mila animali. I lavori furono terminati da Domiziano nel 96.
• Ha una forma a ellisse, con un
perimetro di 527 metri. Era alto 52 metri, lungo 188 e largo 156.
• Alle estremità dell’asse maggiore
si trovavano la Porta Triumphalis (ovest), da dove entravano gladiatori e musicisti, e la Porta Libitinaria (est), da dove uscivano i combattenti morti. Sull’asse minore vi erano l’ingresso dell’imperatore (sud) e quello per le autorità (nord).
• Poteva contenere 50mila persone
sedute e fino a 73mila se restavano in piedi quelle sugli spalti più alti. Ma bastavano tre minuti per svuotarlo completamente, perché ogni livello e ogni settore avevano un’uscita diretta e in tutto c’erano 80 scalinate che portavano fuori.
• La disposizione prevedeva i posti
migliori in basso, più vicini all’arena: era l’Ima cavea, dove sedevano l’imperatore, i senatori e le loro famiglie e le vestali. Seguivano salendo: il Maenianum primum riservato agli esponenti dell’ordine equestre; il Maenianum secundum imum e il Secundum summum riservati alla plebe; il Maenianum summum in ligneis, gradinate lignee riservate ai forestieri, agli schiavi e alle donne.
• Gli ultimi combattimenti tra
gladiatori si svolsero nel 435 d.C., le lotte tra animali nel 523 d.C. Rimase in attività per un totale di 443 anni.
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La ricostruzione di oggi è corretta?
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o. Sul lato orientale del Colosseo si trova infatti una porzione di sette gradini, ricostruita nel 1933 utilizzando frammenti dei sedili di marmo risalenti al III e IV secolo, che riportano ancora i nomi delle ultime classi senatoriali che vi presero posto. Ma
questa ricostruzione è imperfetta, poiché in quel punto della tribuna non c’erano gradini ma subsellia, i seggi personali dei senatori e delle vestali, che avevano bisogno di più spazio rispetto a quello che rendeva disponibile una semplice gradinata.
retroscena della “macchina del consenso” preferita dagli imperatori
DEL COLOSSEO PORTICI E SEDILI Un portico proteggeva le gradinate superiori, di legno, destinate al popolino. I sedili degli altri ordini erano invece di marmo.
A cura di Cecilia Vezzi
Come funzionava il “velario” per ripararsi dal sole?
LE GALLERIE Quattro ampie gallerie concentriche davano accesso ai vari livelli delle gradinate dell’anfiteatro, attraverso un articolato sistema di scale.
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ra talmente straordinario il dispiegamento dei teli, che il velarium era indicato come attrazione nei programmi dei giochi. Era una gigantesca tenda formata da numerosi spicchi di tela, colorata e decorata, che potevano essere stesi uno indipendentemente dall’altro a formare un anello, con un foro al centro, in modo da offrire ombra sugli spalti e lasciar passare una corrente d’aria. Per manovrarlo si usava un complesso sistema di carrucole e argani e, considerato che tra teli, cavi, anelli e carrucole si raggiungevano le 24 t di peso, vi erano impiegati esperti di vela, individuati nei classiarii, i velisti della flotta imperiale di stanza a Capo Miseno. Gli addetti potevano essere da 400 a un migliaio, tutti addestratissimi.
A che cosa si deve la sua forma attuale?
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Perché il Colosseo sorge in una conca?
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roprio lì sorgeva il laghetto della Domus Aurea di Nerone, che si era appropriato dei quartieri distrutti dall’incendio del 64 d.C. Vespasiano scelse quel luogo per costruirvi l’anfiteatro come simbolo della restituzione al popolo dei terreni sottratti da Nerone. Inoltre, c’era anche un motivo
di ordine pratico: scegliere quella conca significava risparmiare più di metà del lavoro necessario per scavare le fondamenta dell’edificio. Volle dire trasportare 35mila metri cubi di terra, anziché i 125mila che sarebbe stato necessario scavare: un bel risparmio di fatica, denaro e burocrazia.
dare al Colosseo la forma asimmetrica sono stati 16 secoli di disavventure. Numerosi terremoti provocarono la caduta di parti del monumento, soprattutto sul lato meridionale, che sorge sui sedimenti alluvionali di un antico affluente del Tevere. Le macerie furono riutilizzate per costruire altri edifici e, dal IX secolo, l’anfiteatro divenne una cava di materiali per i palazzi della Roma papale. Nel 1744 Benedetto XIV dichiarò il Colosseo “suolo sacro” e finirono le spoliazioni. I due speroni in laterizio inclinati furono costruiti nell’800 per impedire nuovi crolli. 19
È vero che era il luogo del martirio dei cristiani?
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on esistono prove in tal senso e le narrazioni di martirii sono tutte posteriori al V secolo d.C., quando ormai il Colosseo era caduto in disuso, il cristianesimo era diventato religione di Stato e gli Acta Martyrum, i resoconti di processi e morti, si riferivano a conflitti tra cristiani e autorità verificatisi secoli prima. Nel XVI secolo gli Acta iniziarono a essere trattati come fonti storiche e nacque la convinzione del Colosseo quale luogo di martirio. Oggi la Chiesa è restia nell’affermare che qualche martire conosciuto abbia davvero trovato la morte nel’Anfiteatro Flavio, così come lo sono anche gli storici cattolici. Ciò non esclude che possa essere successo, anche se appare improbabile, poiché è risaputo che, paragonata alle altre province e in particolare con l’Africa, Roma non vide mai i peggiori eccessi delle persecuzioni. Senza contare che di norma nell’Urbe i cristiani venivano giustiziati dal boia di Stato nel pubblico luogo delle esecuzioni, che si trovava all’Esquilino.
Cosa succedeva nei sotterranei?
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otto l’arena, il Colosseo continua per sei metri di profondità ed è diviso in dodici corridoi più una galleria centrale (sotto, una sezione dei sotterranei ai tempi di Domiziano). Era un vero sottopalco, dove lavoravano tecnici e attrezzisti, trovavano posto gli attrezzi di scena, le gabbie per gli animali e gli impianti per manovrare i montacarichi che, attraverso apposite botole trasformate in passerelle, portavano in scena le belve e le
scenografie. Qui poi i gladiatori attendevano il loro turno per entrare in scena, mentre i condannati a morte trascorrevano gli ultimi minuti prima di andare incontro alla propria sorte. Oggi i sotterranei del Colosseo sono scoperti e visibili, ma non devono essere molto diversi da come apparivano ai tempi della caduta dell’Impero romano, poiché sono rimasti sepolti sotto terra da allora fino alla loro riscoperta verso la fine del 1800.
Nell’arena scesero anche alcune gladiatrici. Non erano schiave, ma donne d’alto rango che volevano emulare la gloria degli uomini Che cosa indicano i numeri sopra le arcate?
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gni “biglietto” per entrare al Colosseo riportava indicati la porta d’ingresso, il settore, la gradinata e il gradino su cui sedersi. Per riconoscere l’ingresso ogni arcata al piano terreno recava indicati sopra di sé il numero, alto 34 centimetri, inciso nella pietra con lo scalpello e poi dipinto di rosso, per permettere a chiunque di vederlo anche da lontano. Le recenti ripuliture hanno permesso di evidenziare alcune tracce del pigmento originale, mentre i numeri sopravvissuti sono quelli presenti sull’unica porzione dell’anello esterno ancora integra. Vanno dal XIII al LIV, cioè dal 13 al 54.
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Che cosa voleva dire davvero “pollice verso”?
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ei testi latini, il gesto compiuto dall’imperatore per ordinare la morte del gladiatore sconfitto è indicato come verso pollice o pollicem vertere, “pollice verso”. Ma il significato è dibattuto. Il pollice sporgente dalla mano ricordava una spada sguainata e si pensa simboleggiasse la morte. L’espressione pollicem premere, usata per il pollice tenuto nel pugno come una spada nel fodero, indicava che lo sconfitto era risparmiato. L’idea che il pollice in alto corrispondesse alla grazia e in basso alla morte nasce però nell’Ottocento, con la moda dei dipinti sui gladiatori nell’arena.
Come era decorato dentro e fuori?
Chi era l’architetto che lo costruì?
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ciceroni degli Anni ’60 del secolo scorso raccontavano che l’architetto del Colosseo sarebbe stato un tale Gaudenzio, nobile romano convertitosi al cristianesimo, che finì martirizzato proprio nell’arena che aveva costruito. È solo una leggenda: il nome di quell’architetto è andato infatti perduto. Questo non deve sorprendere visto che sono ignoti i nomi di chi costruì gran parte dei monumenti romani. A quel tempo contava solo il signore del momento e l’architetto era trattato come un manovale, il cui nome non avrebbe mai potuto oscurare quello del suo committente. (A sinistra, l’imperatore Vespasiano osserva il progetto dell’anfiteatro in una stampa del XIX secolo).
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ll’esterno, nelle arcate del secondo e terzo livello, c’erano 80 statue di bronzo che rappresentavano eroi e dèi. L’ultimo piano era scandito da 40 finestrelle e lesene corinzie intervallate da clipea, grandi scudi rotondi di bronzo. L’ingresso dell’imperatore aveva un porticato sorretto da colonne e sormontato da una quadriga in bronzo dorato. All’interno le arcate erano decorate da stucchi e mosaici che raffiguravano ghirlande e divinità e nella cavea c’erano statue, colonne, corrimano di marmo. Oggi non è rimasto nulla delle decorazioni esterne. Ispirazione. All’interno gli stucchi erano ancora in parte visibili in epoca rinascimentale (e ispirarono i pittori del tempo), ma oggi sono scomparsi anch’essi. Solo su un paio di soffitti degli ingressi principali si intravvedono alcune porzioni di ornamenti delle volte in stucco, dove si distinguono decorazioni floreali, ghirlande e figurine alate. Sulle pareti del criptoportico, il passaggio da cui entrava l’imperatore, ci sono frammenti di stucchi, pitture e decorazioni che raffiguravano giochi e scontri con le fiere.
Quali strumenti si usavano per i “giochi” con le belve?
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e n’erano diversi e le raffigurazioni di questi strumenti, in uso soprattutto in epoca tardoantica e altomedioevale, si trovano in alcuni dittici, tavolette appartenute a consoli romani. Una era la cochlea, che prende il nome dalla conchiglia del mollusco, ed era un attrezzo che serviva a distrarre le belve e a dare un attimo di respiro al venator, il cacciatore. Era un aggeggio che ricorda una porta girevole, con un pilastro centrale piantato nel terreno (forse nella piattaforma di un montacarichi), attorno al quale giravano da due a quattro pannelli. L’uomo si nascondeva dietro le porte girevoli, mentre la belva dall’altra parte grattava con
le zampe, sperando di scovare la sua preda. Il continuo ruotare dell’attrezzo, invece, aveva l’effetto di irritare ulteriormente l’animale, per la gioia degli spettatori. Difesa a riccio. Un altro strumento utilizzato per stupire il pubblico e agitare le belve era l’ericius, un termine che significa “porcospino”. Era una sorta di sfera cava con numerose punte all’esterno che, manovrata dall’interno da un atleta, veniva fatta rotolare proprio come un porcospino che si richiudeva a palla per difendersi dalle aggressioni. Questi strumenti venivano distrutti alla fine di ogni rappresentazione e venivano sostituiti. 21
NAUMACHIE: BATTAGLIE NAVALI PER GIOCO Erano spettacoli così grandiosi da sminuire i normali giochi con le fiere. Ma non è certo che il Colosseo ne abbia ospitati.
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er divertirsi i Romani non badavano a spese, né si lasciavano scoraggiare dalle difficoltà. E da questo punto di vista le naumachie (in latino naumachiae), spettacolari battaglie navali simulate, erano una sfida irresistibile per chi poteva sostenerne i costi. Gli scontri, grandiosi e realistici, avvenivano in bacini artificiali scavati in specchi d’acqua naturali o nello spazio ristretto di un’arena, preventivamente allagata. Onde e tempeste. Secondo alcuni storici anche il Colosseo ne avrebbe ospitate alcune, ma al riguardo ci danno notizie contraddittorie. Per certo sappiamo invece di spettacoli che, dentro il Colosseo, riproducevano il moto ondoso e addirittura le tempeste, per mettere in scena il mito di Leandro, giovane innamorato che attraversava ogni notte a nuoto lo Stretto dei Dardanelli e andava a trovare la sua amante Ero. Qui si tennero spettacoli anche con le Nereidi, le ninfe marine ancelle
di Poseidone, le cui interpreti si disponevano in acqua raffigurando ancore e fiocine, come in una specie di nuoto sincronizzato ante litteram. All’ultimO sAngue. Tra gli appassionati di naumachie c’era l’imperatore Claudio. Per il varo del progetto di bonifica del Lago di Fucino, nel 52 d.C., Claudio volle una grande battaglia navale simulata in quelle acque, che fece circondare da spalti provvisori, a formare un immenso anfiteatro. Come soggetto scelse uno scontro tra Siculi e Rodii e per rendere l’evento il più realistico possibile fu previsto l’impiego di un centinaio di navi fra triremi, quadriremi e quinqueremi e di 19mila comparse, i naumachiarii, scelte tra i condannati a morte. Come nei giochi gladiatori, dovevano combattere all’ultimo sangue. piAcevAnO A cesAre. Organizzare una naumachia era il modo migliore per stupire la gente con effetti speciali, ma anche la via più sicura per finire sul lastrico, a causa dei costi di allestimento. Tenuto conto di questi due parametri, non può esservi dubbio su chi sia stato il primo a organizzarne una a Roma: Giulio Cesare. Il generale e dittatore non badò mai a spese per accattivarsi le simpatie dei Romani. A maggior ragione non lo fece
quando si trattò di festeggiare i suoi trionfi militari, nel 46 a.C. Ordinò di costruire un “laghetto” in Campo Marzio e la sua iniziativa si rivelò assai apprezzata. Con il tempo la passione di Cesare per le battaglie navali diede vita a una categoria di naumachiarii liberi, che si mantenevano combattendo nei bacini artificiali. pOpOlAri. Il suo erede non fu da meno. Augusto, per l’inaugurazione del Tempio di Marte Ultore, nel 2 a.C., riprodusse la battaglia di Salamina in un enorme bacino artificiale di 536 x 357 metri in Trastevere, accanto alla villa che Cesare aveva donato al popolo romano (horti Caesaris). Il bacino era di forma rettangolare e aveva un’isola al centro; era alimentato da un acquedotto dedicato, l’Aqua Alsietina, proveniente dai laghi di Bracciano e Martignano, e un canale sormontato da un ponte mobile lo collegava al Tevere. Per tutta l’età imperale le naumachie rimasero popolarissime. Ne organizzò Domiziano, che fece scavare un lago nell’area del Vaticano. L’ultima naumachia di cui abbiamo notizia è però quella di Traiano, che ne costruì una vicino a quella di Domiziano. Poi, con il declino dell’impero, anche le battaglie navali finirono. • Andrea Frediani
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Tertulliano racconta che talvolta le belve destinate ai giochi riuscivano a fuggire dai loro recinti, nei sotterranei. E divoravano gli ignari passanti Dove si tenevano i giochi a Roma prima che fosse costruito il Colosseo?
SCALA
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Navi da guerra
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Sopra, dall’alto: ricostruzione delle sottostrutture esterne del Colosseo, forse usate come ancoraggi per le galee delle naumachie; la naumachia di Domiziano; disegno ricostruttivo di una galea e di una biremi. Sotto, il pubblico della naumachia di Domiziano.
nizialmente ai Fori, spazi rettangolari che però riducevano la visione agli spettatori disposti alle estremità dei lati lunghi. Il primo tentativo noto di creare un anfiteatro fu quello intrapreso nel 53 a.C. da Scribonio Curione, che fece costruire due teatri lignei, capaci di ospitare ben 20mila persone e poggianti su una struttura mobile. I due teatri erano accostati di schiena e il pubblico poteva seguire contemporaneamente due spettacoli diversi. Quando era il momento dei gladiatori, due squadre di manovratori facevano ruotare i due teatri finché si trovavano uno giustapposto all’altro. Una manovra sorprendente ma molto rischiosa, almeno stando al racconto di Plinio il Vecchio (23-79 d.C.). Secondo lo storico latino correvano minori pericoli i gladiatori scesi nell’arena rispetto agli spettatori sui trabiccoli di Curione. Da record. Un contemporaneo di Curione, l’edile Marco Scauro, superò il rivale costruendo un anfiteatro ligneo su tre ordini di colonne, con base in
Si entrava gratis?
A.MOLINO
Chi organizzava i giochi distribuiva inviti alle cariche pubbliche, ai senatori, ai sacerdoti e famiglie. Riservava poi alcuni posti per sé e per gli amici influenti e incaricava i locarii di vendere i restanti. La grande maggioranza dei biglietti, dunque, era distribuita attraverso il sistema della clientela: gli aristocratici avevano a disposizione un grande numero di biglietti per loro clientes. Il sistema permetteva anche di organizzare i flussi degli spettatori nei vari settori, evitando di affollarne alcuni. A pagare erano invece i forestieri. Ma quegli incassi bastavano solo a contenere le inevitabili perdite.
marmo e una cima di legno dipinto, per un totale di 360 colonne. Secondo Plinio (ma forse esagerava) l’edificio poteva contenere fino a 80mila persone. Un monumento arricchito da ben 300 statue di bronzo, tappeti, pitture e ornamenti che non si sa precisamente quanto sopravvisse, ma di certo contribuì a diffondere la moda degli anfiteatri ricchi e maestosi.
S+
APERNE DI PIÙ
L’avventura del Colosseo (Massimo Polidoro, Piemme). La lunga e stratificata storia dell’Anfiteatro Flavio, che racchiude l’epopea della Roma imperiale, dell’Italia e dell’Occidente. 23
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PERSONAGGI
Maestro dell’evasione New York, 1912. Houdini in procinto di eseguire uno dei suoi numeri: liberarsi dalle catene, pezzo forte del suo repertorio.
Fu il più grande illusionista del XX secolo e ogni sua esibizione rischiava di essere l’ultima: vita, morte e “miracoli” di Harry Houdini
A G M O L I DELLA
FUGA
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essanta, sessantuno, sessantadue: gli spettatori contano i secondi, trattenendo il fiato. Centodiciannove, centoventi, centoventuno: le speranze di rivedere il loro idolo in superficie si affievoliscono. Ma è proprio allora che Harry Houdini riemerge trionfante dal fiume Hudson: è riuscito chissà come ad aprire la cassa di legno sigillata con chiodi, catene e lucchetti in cui era stato buttato nell’acqua gelida. E, ovviamente, si è liberato anche delle manette che gli legavano i polsi. La povera Beatrice “Bess” Rahner, sua moglie, si lascia sfuggire un singhiozzo. Nessuna impresa è troppo pericolosa per il più grande illusionista del Novecento: rischiare la vita è l’unico modo che conosce per strabiliare ogni volta il suo pubblico. Il suo repertorio è pericoloso e imprevedibile, le sue fughe, da corde, lucchetti, manette, catene, prigioni blindate o camicie di forza, bidoni del latte o trappole cinesi, sono sempre spettacolari e rocambolesche. È proprio questo che lo ha reso famoso: il fatto che nessuno possa prevedere se sopravviverà o meno al suo stesso spettacolo. Uomo eclettico e a volte contraddittorio, geniale illusionista ma anche pilota di aeroplani,
attore, regista, sceneggiatore e produttore cinematografico: aveva ragione sua moglie, quando diceva che “il segreto di Houdini è Houdini stesso”. Una complessa miscela di ingredienti che, anche a 90 anni dalla morte dell’illusionista, continua a mantenere una certa dose di mistero. Fine di un mito. La morte bussò alla porta del suo camerino il 22 ottobre 1926, alla fine di uno spettacolo al Princess Theater di Montreal (Canada): il killer, uno studente della McGill University appassionato di boxe, si chiamava Jocelyn Gordon Whitehead. Voleva sfidarlo: “Vediamo se sei davvero capace di sopportare qualsiasi pugno”, gli disse colpendolo all’addome con un violento cazzotto. Houdini, che si prestava spesso a giochi di questo genere con gli spettatori, non fece in tempo a contrarre i suoi poderosi addominali. Nonostante i forti dolori, continuò la tournée per alcuni giorni, finché, a Detroit, stramazzò dietro al sipario con 40 di febbre. Morì all’ospedale, ufficialmente di peritonite, durante la notte di Halloween. Ma un suo pronipote, nel 2007, avanzò l’ipotesi che fosse stato avvelenato: l’autorizzazione alla riesumazione del cadavere non venne mai concessa e 25
Era nato in una famiglia ebrea in difficoltà economiche: per sostenerla aveva sperimentato i lavori più umili, ma a 17 anni scelse la carriera di illusionista
ancora oggi i dubbi rimangono. Eppure manCominciò dandosi un nuovo nome, ispirato danti e movente non mancavano: ma per tro- a due grandi maestri ottocenteschi dell’illusiovarli è necessario capire chi fosse davvero Har- nismo: l’americano Harry Kellar e il francese ry Houdini. Jean Eugène Robert-Houdin (v. riquadro nella Il segreto del successo. Il coraggio, la curio- pagina accanto). Ma fu l’occhio clinico di un sità, ma soprattutto la perseveranza e la pas- impresario, Martin Beck, a cambiargli la vita: sione: furono queste doti a indirizzare verso la nel 1899, in mezzo a un repertorio trito e ritridifficile strada della prestidigitazione il figlio to di trucchi da baraccone, l’uomo colse la bradi un rabbino. Nato nel 1874 a Budapest (Un- vura di Harry in un numero di “escapologia”, gheria), in una povera famiglia ebrea, ed emi- quella che in gergo da mago è la capacità di ligrato in America a soli 4 anni, il piccolo Ehrich berarsi da qualsiasi costrizione (nel caso speWeisz (il vero nome dell’illusionista) si esibi- cifico un paio di manette). Gli suggerì quindi va già a 9 anni per i suoi amichetti nei panni di puntare tutto su quella sua indubbia abilidel trapezista “Ehrich, principe dell’aria”. Per tà e lo inserì nel circuito di spettacoli di varietà aiutare i familiari, lustrò scardella catena di teatri Orpheum. pe, fece il fattorino e ritagliò Nel giro di pochi mesi Houdifodere in una fabbrica di crani si esibì su tutti i più imporvatte per tutta l’adolescenza, tati palcoscenici d’America e GLI ANNI CHE AVEVA ma nel 1891 decise di dediall’inizio del nuovo secolo sbarQUANDO INIZIÒ carsi anima e corpo al suo vecò in Europa, dove diventò una A ESIBIRSI COME ro amore.
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TRAPEZISTA.
Beato tra le sue donne
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In uno scatto del 1907, Harry Houdini con la madre Cecilia Steiner (1841-1913) e la moglie Beatrice Rahner (1876-1943). Quest’ultima fu la sua assistente di scena per tutta la carriera dell’illusionista.
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leggenda. “Riesce a liberarsi da un paio di manette più in fretI MINUTI DURANTE ta di quanto una persona norI QUALI HOUDINI male riesca a liberarsi da un RESISTEVA paio di scarpe”, notò un poliIN APNEA. ziotto dopo aver assistito a una della sue famose “fughe”. C’era chi sosteneva che ce la facesse grazie a un incidente che aveva privato la sua mano delle ossa e dei muscoli, ma in realtà si trattava più che altro di costanza e acume: “La mia mente è la chiave che mi rende libero”, amava ripetere Houdini, che infatti si allenava con ogni tipo di manetta finché non riusciva a trovare il trucco per scassinarla. A Londra, per esempio, aprì quelle in dotazione alla polizia di Scotland Yard in pochi secondi, con un colpo secco in un punto preciso. Per altre, costruite “su misura”, usava grimaldelli, duplicati di chiavi e arnesi da scassinatore che ingoiava e rigurgitava al momento opportuno, dietro la tenda che lo nascondeva al pubblico durante i suoi numeri più difficili. Doti non comuni. «Oltre a una conoscenza delle serrature unica al mondo, Houdini possedeva anche una resistenza fisica e un sangue freddo incredibili, un’intelligenza acutissima e un senso dello spettacolo eccezionale», spiega Massimo Polidoro, uno dei maggiori esperti sull’argomento, nel suo libro Il grande Houdini (Piemme edizioni). Non temeva l’acqua gelida dei fiumi in cui si tuffava ammanettato, perché ogni mattina si immergeva nella propria vasca da bagno riempita di ghiaccio. Senza trucco né inganno Forte e muscoloso, aveva polmoni allenati al Houdini in tribunale nel 1926 contro medium e punto da resistere in apnea per più di 4 minuspiritisti. Sopra, in due dei suoi numeri: sospeso ti: questa capacità gli tornava utile quando si sopra una cisterna d’acqua nella quale stava per esibiva nelle fughe da un claustrofobico bidoessere rinchiuso e, sotto, legato a una ruota. ne di ferro pieno d’acqua, sigillato dall’esterno
L’illusionista quasi omonimo
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ean-Eugène RobertHoudin (1805-1871), il quasi omonimo di Houdini, fu il più famoso illusionista di Francia del XIX secolo (sotto). I suoi l’avevano costretto a diventare avvocato, ma dopo gli studi preferì dedicarsi al mestiere paterno, l’orologiaio. Finché non gli capitarono per caso fra le mani due volumi sui giochi di prestigio: fu un colpo di fulmine. Mago in frac. Tra le sue illusioni ci furono gli esperimenti di lettura del pensiero e la levitazione con l’etere, ma a Robert-Houdin è soprattutto riconosciuto il merito di aver nobilitato la professione del mago: nel proprio teatro inaugurò la tradizione dei maghi in abito da sera, che si esibivano nei salotti, nelle feste private e nei luoghi eleganti, non più nelle fiere e nei mercati. Della sua curatissima attrezzatura di scena, tutta fai da te, facevano parte anche, per l’epoca geniali, giocattoli meccanici: un uccellino che cantava, un funambolo su una corda, un automa capace di eseguire il gioco dei bussolotti.
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con 6 lucchetti, o dalla pagoda cinese, una specie di enorme acquario in cui veniva immerso a testa in giù, con le mani e i piedi legati. «Per un illusionista ogni mezzo è lecito e le casse e gli altri oggetti truccati che usava in teatro erano costruiti con tale abilità da poter sostenere gli esami più minuziosi», nota Polidoro. In più Madre Natura gli aveva dato dita dei piedi quasi prensili e il “talento”, sviluppato fin da bambino, di dislocarsi entrambe le spalle: il che era di grande aiuto quando, appeso per i piedi a grande altezza su una folla adorante, doveva liberarsi in pochi minuti da una camicia di forza. Neppure una camionetta blin-
Subito libero
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Houdini a New York prima di farsi rinchiudere in una cassa ammanettato. A sinistra, riemerge dall’acqua fuori dalla cassa e con le mani libere. L’illusionista era in grado di liberarsi dalle manette in dotazione alla polizia di Scotland Yard in pochi secondi.
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data usata per il trasporto dei ma volta con lei, l’illusionista deportati in Siberia riuscì a si era gettato a capofitto nel I MINUTI CHE CI MISE trattenerlo, durante una tourmondo delle sedute spiritiche. PER “EVADERE” DA née in Russia nel 1903. Una Da buon re degli inganni, UN MEZZO BLINDATO porta, una piccola finestrella però, era in grado di scopriIN RUSSIA. e una sola serratura esterna: re ogni volta i trucchi usati ammanettato e completamendai medium per impressionate nudo, ne uscì in 28 minuti. re i clienti: frustrato e indignaIllusIonI, fIno a un certo punto. “La verità è to cominciò a denunciare le loro truffe durante che non è il trucco in sé né come lo si esegue a i suoi spettacoli. Era così bravo in questo lavofare di un numero un successo: la riuscita di- ro che nel 1923 la prestigiosa rivista Scientific pende dal discorso che accompagna il numero American lo volle nel comitato di indagine sui stesso”, scrisse Houdini tra i suoi consigli agli medium: grazie a lui, nessun sedicente spiritiaspiranti maghi. sta riuscì a conquistare il premio di 5mila dollaChe fosse un maestro della messinscena lo ri promesso dall’editore a chi avesse dimostradimostra il fatto che, nonostante avesse più to la veridicità delle proprie doti ultraterrene. volte ribadito di non possedere poteri sopranMessaggIo In codIce dall’aldIlà. Si comprennaturali, molti dei suoi estimatori continuaro- de perché, quando Houdini morì all’improvvino a pensare il contrario: tra i vip, la “divina” so, molti sospettarono che i suoi nemici giuraattrice Sarah Bernhardt, ormai settantenne, gli ti si fossero vendicati scagliandogli contro una chiese di usare la sua magia per farle ricresce- maledizione (o più realisticamente un sicario). re la gamba da poco amputata. Harry però non aveva mai del tutto smesso di Il presidente degli Stati Uniti Theodore Roo- credere nei medium: nei successivi dieci ansevelt era convinto che Houdini fosse in grado ni, sua moglie tentò di mettersi in condi leggergli nel pensiero, ma quando anche lo tatto con lui, ma il marito non torscrittore scozzese Arthur Conan Doyle affermò nò mai dall’aldilà per comunicarle il pubblicamente che l’illusionista era in grado di messaggio in codice che avevano con“smaterializzarsi”, lo showman quasi si offese: cordato mentre era in vita. E neppure all’epoca infatti era impegnato in una crociata per far luce sul mistero della sua morte. anti-truffa contro gli spiritisti. Tutto era comin- Evidentemente certe fughe sono impossibiciato dopo la morte di sua madre Cecilia, nel li: anche per Houdini. • 1913: sperando di poter comunicare un’ultiMaria Leonarda Leone
Houdini si impegnò in una crociata contro le truffe di spiritisti e medium
Houdini insieme al suo più celebre predecessore Harry Kellar (seduto) nel 1915.
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er molti aspetti, la sua storia assomiglia a quella del suo più noto fan e successore: come Houdini, infatti, Harry Kellar (1849-1922) era figlio di immigrati, tedeschi nel suo caso. Scoprì cosa voleva fare da grande a 10 anni, dopo aver assistito allo spettacolo di un mago ambulante: “il fachiro di Ava”. Studiò e lavorò per diversi anni, finché nel 1869 si unì a un gruppo di “spiritualisti”: dopo quattro anni con loro, si sentì pronto a intraprendere la carriera da protagonista. Celebrità. Cominciò a esibirsi in Centro e Sud America, raccogliendo, nel solo Messico, più di 200mila euro odierni, grazie a truc-
chi impressionanti come quello della decapitazione o della “levitazione della principessa di Karnack”. Diventato famosissimo, si ritirò dalle scene nel 1908: nove anni dopo Houdini lo convinse ad abbandonare il pensionamento per un ultimo spettacolo insieme. Quando Kellar, eseguiti i suoi numeri, fu in procinto di lasciare il palco, Houdini lo fermò: “il più grande mago d’America dovrebbe essere portato via in trionfo dopo la sua ultima performance pubblica”, gli disse. Così, i membri della Society of American Magicians caricarono il vecchio artista su una portantina, facendolo uscire di scena in pompa magna.
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Prima di lui, Harry Kellar
COSTUME
Osvaldo Ballerio LA FIDUCIARIA 1900
Emilio Malerba
ARCHIVIO FOTOGRAFICO DEL POLO MUSEALE DEL VENETO, SU CONCESSIONE DEL MIBACT (14)
CICLI STUCCHI 1902
Aldo Mazza
CORSE A SAN SIRO 1909
William Bradley
VICTOR BICYCLES 1896
Alla fine del XIX secolo esplode la moda delle affiches artistiche. Che mostrano i fasti di un periodo vivacissimo e ricco di innovazioni
La Belle Époque della
PUBBLICITA
Kolo Moser
XIII AUSSTELLUNG SECESSION 1902
Giovanni M. Mataloni
INCANDESCENZA A GAS 1895 31
Le grandi immagini colorate tappezzavano le città e divennero subito popolari e amatissime
Leonetto Cappiello
CHAMPAGNE DE ROCHEGRÉ 1902
Adolf Hohenstein
FRATELLI RITTATORE TORINO 1901
Adolf Hohenstein
BITTER CAMPARI MILANO 1902
Leonetto Cappiello
ABSINTHE GEMPP PERNOD 1902
Ferdinand Andri
XXVI AUSSTELLUNG SECESSION 1906
Luigi Bonazza
SOCIETÀ ALPINISTI TRENTINI 1904
Leopoldo Metlicovitz
DISTILLERIE ITALIANE 1899
Una mostra e un museo sui manifesti
A Marcello Dudovich FISSO L’IDEA 1899
Treviso sta per aprire i battenti il Museo Nazionale Collezione Salce, che ospiterà la raccolta di manifesti più importante d’Italia e la seconda in Europa, dopo il Musée des arts décoratifs di Parigi. Un patrimonio di 24. 580 affiches, che coprono un periodo tra il 1895 e il 1962. Capolavori grafici. Dall’8 aprile al 2 luglio, il Museo trevigiano presenterà la prima di un ciclo di tre mostre: La Belle Époque. Illustri persuasioni. Capolavori pubblicitari dalla Collezione Salce. In esposizione 150 manifesti (tra cui tutti quelli pubblicati in queste pagine), realizzati
da stelle del cartellonismo del tempo. Le affiches reclamizzano di tutto: café chantants, corse di cavalli, champagne e liquori, distillerie, case di moda, assicurazioni, escursioni, crociere ma anche eventi come la Secessione viennese. Non più realizzati solo dai tipografi, ma disegnati da artisti di calibro come Marcello Dudovich, Leopoldo Metlicovitz, Giovanni Maria Mataloni, Alfons Mucha, Jules Chéret, Adolf Hohenstein. Tutta la raccolta è visibile online sul sito: www.collezionesalce.beniculturali.it 33
I N O I Z O M E E L I WARS. RIVIV DELLE GRANDI IA. R O T S A L L E D E I BATTAGL
Mosca torna a essere il grande nemico, ma quanto sono davvero temibili Vladimir Putin e le sue forze armate? Ecco la storia militare della Russia, dalla fondazione a opera dei vichinghi a Ivan il Terribile, dallo zar Pietro I alla Grande guerra patriottica di Stalin, dal T-34 al T-14 Armata. E inoltre, la falange greca, le uniformi dei nemici di Roma, Carlo il Temerario, i soldati della Compagnia delle Indie, l’Operazione Nimrod, il progenitore dei fucili d’assalto, lo Sturmgewehr 44, i reenactors a Caporetto, la guerra aerea e i cacciabombardieri multiruolo.
WARS. LA STORIA IN PRIMA LINEA Disponibile anche in versione digitale su:
Abbonati su: www.abbonamenti.it/wars
PRIMO PIANO
PRIMA della RESA L’Alto Adige, la Valtellina, le giungle del Pacifico, i bunker di Berlino: gli ultimi baluardi dell’Asse alla fine della Seconda guerra mondiale.
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GLI IRRIDUCIBILI pag. 36 ■
SOLDATI FANTASMA pag. 40 ■
NAZISTI AL POLO pag. 46 ■
L’INUTILE DIFESA pag. 50 ■
139 OSTAGGI SPECIALI pag. 54 ■
LA CADUTA DI BERLINO
CONTRASTO
pag. 60
Ex nemici Un militare americano e uno giapponese durante una conferenza per la resa nell’agosto del 1945 nelle Filippine. 35
PRIMO PIANO
GLI
IRRIDUCIBILI
Truppe in Polonia, Iugoslavia e Cecoslovacchia; ma anche sottomarini che continuarono a combattere per mesi: i tedeschi che non volevano arrendersi
Bandiera bianca del Reich Reims (Francia), 7 maggio 1945. Il generale Alfred Jodl firma la resa tedesca. Il documento (sopra) entrava in vigore il giorno dopo. Ma non tutti ubbidirono. 36
“L’Alto Comando Tedesco invierà subito a tutte le autorità militari, navali e aeree e a tutte le forze sotto controllo tedesco ordine di cessare tutte le operazioni attive alle 23:01 ora dell’Europa Centrale l’8 maggio 1945”. Così recitava l’atto di resa incondizionata firmato a Reims (Francia) dal capo di Stato maggiore tedesco Alfred Jodl, ma per alcuni quell’ordine non arrivò o rimase inascoltato. Ecco gli ultimissimi tedeschi a deporre le armi.
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GIORNO
La resistenza, dalla Polonia alla Grecia
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i vollero 24 ore perché centinaia di soldati intrappolati nelle prime linee della Polonia occupata dai sovietici deponessero le armi. La fanteria isolata nelle fortificazioni costiere vicino alla città portuale di Danzica continuò a combattere per un giorno intero prima di arrendersi di fronte all’Armata Rossa il 9 maggio. Anche sbandati della 4a armata tedesca – quasi completamente spazzata via dai sovietici nella Prussia Orientale durante la Sacca di Braunsberg-Heiligenbeil nel marzo del ’45 – continuarono a resistere per un giorno, così come le guarnigioni su alcune isole greche nel Mar Egeo.
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GIORNI
A Praga contro i russi anche senza comandante
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n Cecoslovacchia truppe tedesche del Gruppo d’armate Centro smisero di combattere solo il 12 maggio, in quella che è passata alla Storia come l’offensiva di Praga (nella foto, il ritiro dei tedeschi). Fronteggiarono i sovietici alle porte della città nonostante la diserzione del loro comandante, Ferdinand Schörner, che informato della resa aveva deciso di scappare in aereo verso l’Austria, dove fu arrestato dagli americani. Nella penisola di Hel, in Polonia, gli ultimi abbandonarono bunker e trincee dal 13 maggio. La penisola, di importanza strategica già nella Prima guerra mondiale, era stata occupata e fortificata nel 1939.
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GIORNI
Equipaggio in fuga verso il Giappone
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Poljana (oggi Slovenia), sul confine tra Iugoslavia e Austria, in una battaglia campale si fronteggiarono 30mila tra cetnici (bande di guerriglieri dei Balcani: nella foto, durante la guerra), croati filonazisti e soldati tedeschi contro un esercito di partigiani comunisti. La bandiera bianca dei tedeschi fu issata il 15 maggio. Sei giorni dopo la capitolazione della Germania fu intercettato al largo di Terranova dal cacciatorpediniere americano USS Sutton il sottomarino tedesco U-234 (nella foto, il momento della consegna): in missione per consegnare uranio e armi al Giappone dell’imperatore Hirohito, era stato sorpreso in pieno oceano Atlantico dalla notizia della resa e aveva continuato la navigazione. Fu scortato fino a Portsmouth (New Hampshire) con il suo carico di 560 chili di ossido di uranio. I due giapponesi a bordo si suicidarono per non subire l’onta della prigionia.
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GIORNI
Le Isole della Manica ancora in mano al Reich
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i volle più di una settimana perché i tedeschi sulle Isole del Canale sulla Manica deponessero le armi. Jersey, Guernsey, Alderney e le più piccole isole dell’arcipelago a ovest della penisola francese del Cotentin (Normandia) erano l’unica parte dell’Inghilterra che gli uomini del Terzo Reich erano riusciti a occupare, nel luglio del 1940. E diventarono gli ultimi possedimenti di terra ad arrendersi. Le isole erano state fortificate e gli Alleati avevano deciso di non investire risorse preziose nell’attacco a posizioni che, dopo il riuscito sbarco in Normandia nel giugno del 1944, avevano perso valore strategico. Jersey e Guernsey furono liberate il 9 maggio, il 16 si arrese Alderney (nella foto, soldati deportati in Inghilterra da quell’isola).
Il comandante del sommergibile tedesco U-977, arresosi con il suo equipaggio in Argentina nel 1945, fu accusato di aver avuto a bordo anche uomini illustri del Reich. Ma lui non lo ammise mai
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GIORNI
L’ultimo campo di battaglia d’Europa
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pochi giorni dalla resa c’era un altro posto dove si combatteva ancora: l’isola di Texel (nella foto), nel Nord dell’Olanda, perno del Vallo Atlantico costruito dal Terzo Reich in Europa. Anche in questo caso lo sbarco in Normandia ne aveva ridotto l’importanza strategica, e a presidiarla era stato mandato un battaglione di “volontari” sovietici della Georgia, formato da ex prigionieri dell’esercito sovietico, integrato da alcuni reparti tedeschi. Il 5 aprile 1945 i georgiani si erano ribellati, confidando in un intervento alleato a loro sostegno. Aiutati dai partigiani olandesi, resistettero ai tentativi tedeschi di riprendersi per intero l’isola. La lotta durò violenta ben oltre la data della resa, fino a quando, il 20 maggio, l’arrivo di truppe canadesi pose fine all’inutile carneficina. “Chiudendo” l’ultimo campo di battaglia d’Europa.
+101 Il sommergibile GIORNI
che riparò in Argentina
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agosto 1945: di fronte all’Argentina, a poche miglia dalla costa della città di Mar del Plata, riemerge un sommergibile il cui equipaggio chiede di arrendersi. È l’U-boot tedesco U-977 con a bordo 32 uomini (nella foto la capitolazione), ma come è arrivato oltreoceano a oltre 3 mesi dalla resa tedesca? L’8 maggio l’U-977 era in navigazione lungo le coste della Norvegia: via radio al comandante Heinz Schaeffer arrivò l’ordine di fare rotta al più vicino porto alleato dove consegnarsi. Ma, d’accordo con l’equipaggio, decise di proseguire verso l’Argentina dove – stando a quanto dichiarato dopo l’arresto – ci si aspettava che il trattamento dei prigionieri di guerra sarebbe stato migliore. Per arrivarci ci vollero 107 giorni di navigazione di cui 66 in immersione ininterrotta. Dopo la resa alle autorità argentine gli uomini dell’U-977 furono estradati negli Usa come era capitato ai “colleghi” dell’U-530 che si era arreso sempre nel porto di Mar del Plata il 10 luglio dello stesso anno. Schaeffer fu sottoposto a numerosi interrogatori: lo si accusava principalmente di aver fatto sbarcare clandestinamente oltreoceano personaggi illustri del Reich. Ipotesi mai confermata.
+119 La stazione tedesca GIORNI
che si arrese nell’Artico
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l 9 settembre 1945, quattro mesi dopo la resa della Germania, si consegnò agli Alleati l’ultima unità combattente del Terzo Reich, ovvero la stazione tedesca Haudegen insediata nell’isola di Nordaustlandet, nell’arcipelago delle Svalbard (v. articolo “Nazisti al Polo”). •
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Anita Rubini
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FOTO VATTELAPESCA
PRIMO PIANO
SOLDATI FANTASMA
Non tutti i soldati giapponesi sentirono il loro imperatore dichiarare la resa, nel 1945. E resistettero a oltranza. Alcuni fino agli anni Settanta. In Cina, in Manciuria, nelle isole del Pacifico. Nascosti nella giungla
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15mila uomini di stanza tra i monti della Manciuria si arrese nel dicembre 1949. I “soldati fantasma” nacquero però fra i piccoli reparti rimasti nelle isole minori e nelle zone più impervie dei territori del Pacifico. Nella primavera del 1945, il Comando Supremo giapponese aveva impartito via radio l’ordine di resistere a oltranza. Già in quel momento non tutti erano in grado di captare il messaggio radio, ma furono ancora meno quelli che ricevettero la successiva comunicazione della resa. Per cui non è poi così incredibile se, a guerra finita, per qualche anno si continuò ad assistere a vere e proprie piccole battaglie. Nell’agosto del 1946, almeno 4mila giapponesi risultavano ancora in armi nelle Filippine, e il 20 gennaio di quell’anno vicino a Manila un battaglione statunitense-filippino si scontrò con 120 soldati nipponici armati: rimasero uccisi 72 giapponesi e 50 militari alleati. Ci furono altri scontri e rese, non solo nelle Filippine ma in molte altre isole, da Guam a Pelelieu a Guadalcanal. I solItarI. I casi singoli e di piccoli gruppi si protrassero per decenni. Nell’isola indonesiana di Morotai 15 soldati giapponeALAMY
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vestiti magari non li avevano più. Ma fucili oliati e funzionanti, la spada da ufficiale e pezzi di divisa, sì. Era questo ciò che portavano gli ultimi soldati giapponesi quando si sono arresi, negli anni Settanta. Non per tutti, infatti, la Seconda guerra mondiale è finita nell’estate 1945. Per molti militari del Sol Levante è durata ancora settimane, mesi, addirittura anni. Per il sergente Shoichi Yokoi la pace è arrivata nel 1972, per Hiroo Onoda e Teruo Nakamura nel 1974. Non potevano credere che il Giappone si fosse arreso e, siccome nessuno aveva impartito loro l’ordine di smettere di resistere, avevano continuato imperterriti la vita di guerriglieri della giungla. I contIngentI rIbellI. Ma questi soldati irriducibili non furono casi isolati. Al momento della resa di Tokyo, gli americani stimarono che due milioni di militari giapponesi fossero ancora in armi fuori dell’arcipelago. I contingenti più grossi si trovavano in Cina e Manciuria, dove continuarono a combattere contro sovietici e cinesi. La maggior parte di loro si arrese nella seconda metà del 1945, ma 6mila soldati sull’isola di Bali si consegnarono nel febbraio 1946, e una divisione di
Dopo l’atomica, la pace Sopra, la prima pagina del Sunday Telegraph con la storica notizia della resa della Giappone. A sinistra, Hiroo Onoda, uno dei soldati fantasma, nella giungla delle Filippine nel 1974.
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Era inconcepibile che l’Impero giapponese perdesse la guerra. Sembrava un trucco della propaganda
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si continuarono a combattere fino al 1956. L’ultimo di loro fu ritrovato il 18 dicembre 1974: era il soldato semplice Teruo Nakamura, che consegnò alla polizia il suo fucile d’ordinanza, ben conservato in un panno intriso di olio e benzina, e 5 proiettili. È l’ultimo soldato fantasma riconosciuto, ma non il più famoso: pur essendo di cultura giapponese e arruolato nell’esercito del Sol Levante, era un indigeno Amis di Taiwan. Tokyo se la cavò pagandogli lo stipendio arretrato. Quasi un disertore. Ben altra sorte ebbero invece Shoichi Yokoi e Hiroo Onoda. Nel primo caso non fu una resa spontanea: il 24 gennaio 1972 fu catturato sull’isola di Guam da due pescatori ai quali per sfamarsi rubava i gamberetti dalle trappole. La sua è una storia particolare perché, nel 1944, quando gli americani conquistarono Guam, Shoichi Yokoi (che era solo un soldato semplice) con altri due o tre compagni rimase indietro, appartato rispetto alla guerra. Così per vent’anni si nascosero nella giungla, vivendo di espedienti. Intorno al 1964 Yokoi restò solo, ma non per questo si convinse a tornare nel mondo, poiché temeva di essere considerato un disertore. Continuò a nascondersi in una buca-rifugio, vestendosi con fibra di ibisco e nutrendosi anche di corteccia degli alberi. Al momento della cattura conservava ancora un vecchio fucile Arisaka con poche munizioni e una bomba a mano arrugginita. Al suo ritorno in patria fu accolto come un eroe. “È con molto imbarazzo che sono tornato vivo”, dichiarò riferendosi all’esito del conflitto. Gli venne conferita la “Medaglia della grande Asia dell’Est”, che pure era stata abolita dopo la guerra. Venne anche ricevuto dall’Imperatore, cui si rivolse affermando: “Maestà, sono ritornato. Sono profondamente dispiaciuto di non aver potuto servirla bene. La mia determinazione nel servirla non cambierà mai”. Il ruolo di superstite gli piaceva.
Il ritorno del guerriero A lato, Teruo Nakamura, che combatté nell’isola di Morotai (sotto, nel 1945) fino al 1974, ritratto al suo arrivo all’aeroporto di Taipei, con la moglie che non vedeva da decenni.
Quelli che scelsero un’altra bandiera
Accolto da eroe
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ULLSTEIN/GETTY IMAGES
A destra, Shoichi Yokoi in divisa. Disertò nel 1944 e tornò in patria nel 1972, accolto da eroe. Sotto, un raid aereo americano sulla base giapponese di Nauri, in Micronesia.
lcuni soldati non deposero le armi per una scelta precisa: seppure a conoscenza della resa, preferirono continuare a combattere sotto un’altra bandiera. Fra questi gli ultimi in assoluto ad arrendersi, nel 1989, furono Kiyoaki Tanaka e Shigeyuki Hashimoto, nel Sud della Thailandia. Erano i superstiti di un gruppo di oltre duecento militari che si unirono alla guerriglia comunista malese. Nel 1947 gli olandesi catturarono in Indonesia Hideo Horiuchi, divenuto ufficiale del movimento indipendentista. Anche altri giapponesi dopo il 1945 si unirono a gruppi locali. Alcuni si arruolarono nel movimento guerrigliero anticolonialista del Viet Minh. Fra questi Kikuo Tanimotom, che dopo la vittoria in Vietnam nel 1954 tornò in Giappone.
Questione di onore. Ma nell’immaginario giapponese Yokoi venne presto soppiantato da Hiroo Onoda. Questi, ritrovato nel 1974, davvero non aveva voluto arrendersi per una questione di onore. Per trent’anni si era nascosto nell’isola di Lubang, nelle Filippine. Il giovane tenente dell’intelligence giapponese aveva mantenuto la guida di una pattuglia di quattro uomini dopo che il 28 febbraio 1945 l’isola era stata riconquistata dagli americani. Razionarono il riso, impararono a nutrirsi di cocco e banane, poi anche di bacche e di serpenti. Nel 1949 uno di loro si sfilò dal gruppo e si arrese. Gli altri continuarono a resistere, rubando cibo e vestiti ai locali e vivendo dei frutti della foresta. Nel 1954, in uno scontro a fuoco con una pattuglia filippina, morì il caporale Shoichi Shimada, e nel 1972 fu ucciso in combattimento anche l’ultimo compagno di Onoda, Kozuka Kinshichi. Ma Onoda continuava a non cedere. Nulla, fino a quel giorno del 1974, l’aveva convinto che la sua nazione avesse davvero potuto arrendersi. Ci avevano provato in tanti, ma ogni volta aveva pensato che si trattasse di propaganda nemica. Non aveva dato retta al discorso per radio dell’imperatore Hirohito che chiede-
I russi e i cinesi Un gruppo di carristi dell’Armata Rossa dopo una battaglia in Manciuria, durante l’operazione August storm, che si svolse nell’agosto del 1945. 43
va di “sopportare l’insopportabile”, una voce che non aveva mai sentito prima e che parlava una lingua troppo sofisticata per essere davvero compresa a fondo. E non aveva creduto neanche ai volantini lanciati sull’isola nel 1952: li considerò una strategia americana. Le spedizioni inviate da Tokyo a cercarlo fino al 1959 lo spinsero solo a nascondersi sempre più in profondità. Venne più volte dato per morto, ma sempre arrivava una nuova azione di guerriglia a fornire una puntuale smentita. Per lui, legatissimo al codice d’onore, contavano solamente gli ultimi ordini ricevuti: “Mantenere le posizioni, aspettare rinforzi. Non arrendersi. Categoricamente proibito togliersi la vita. Può richiedere tre anni, o cinque, ma in qualunque momento avverrà noi torneremo indietro per voi. Fino allora, finché avrai un soldato, dovrai continuare a guidarlo. Se è il caso, vivete di noci di cocco”. ImperterrIto. Fu per questo che Onoda non si uccise e continuò imperterrito la sua missione. Finché non entrò in scena Norio Suzuki, una specie di avventuriero che lo trovò ed escogitò l’unico modo per riuscire a farlo tornare in Giappone.
Hirohito il dio, ultimo potente ad arrendersi on poteva che essere l’imperatore del Giappone l’ultimo ad arrendersi: egli infatti era ancora considerato un dio, e la resa e la sconfitta non erano neanche immaginabili nel codice d’onore nipponico. Ma per sconfiggere una divinità serviva un intervento infernale: le bombe atomiche che furono sganciate su Hiroshima e Nagasaki il 6 e 9 agosto 1945. Il governo di Tokyo era spaccato sul comportamento da tenere in quel momento, e fu l’imperatore in persona a far pendere la bilancia in favore della fine della guerra. Il 15 agosto per la prima volta Hirohito (1901-1989) si rivolse al suo popolo annunciando la resa incondizionata che venne sottoscritta il 2 settembre. Quel discorso non arrivò chiaro a tutta la popolazione, a causa dei disturbi tecnici ma anche del linguaggio troppo sofisticato usato dall’imperatore. E così per molti reparti militari la resistenza continuò. Nel 1946, un’altra svolta impensabile: l’imperatore proclamò la propria natura umana negando di essere un dio. Un altro frutto della sconfitta.
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La caduta degli dèi
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Un giapponese piange disperato alla notizia che il suo Paese si è arreso. Sopra, dall’alto, l’imperatore Hirohito mentre dichiara la resa incondizionata alla radio; Hirohito con il generale McArthur, nel 1945.
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Ce ne sono altri?
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Contattò il diretto superiore di Onoda negli anni di guerra, il maggiore Yoshimi Taniguchi, e lo condusse a Lubang perché liberasse formalmente Onoda dai suoi doveri di soldato al servizio dell’Impero. E Onoda lo fece pronunciando queste parole: “L’ordine di spiare i soldati americani e sabotare le loro attività è revocato. Tutte le attività militari devono essere interrotte. Deponi le armi, sei dispensato dal giuramento di combattere fino alla morte”. Con la divisa rattoppata, il fucile d’ordinanza e una riserva di bombe a mano, il guerrigliero finalmente si arrese. Poi prese la sua spada da ufficiale, che aveva conservato con estrema cura per tutti quegli anni, e la consegnò all’allora presidente della Filippine Ferdinando Mar-
cos, il quale lo accolse con tutti gli onori e gli rese la spada. Gli concesse anche il perdono per le trenta vittime che Onoda aveva provocato nei suoi decenni di “guerra”. Fu così, infine, che si concluse davvero la Seconda guerra mondiale. • Aldo Bacci
L’ordine militare, prima della resa, era: “Mantenere le posizioni, non arrendersi, non suicidarsi, combattere finché avrai un soldato”
ggi sarebbero davvero troppo anziani per essere ancora vivi nella giungla. Ma negli anni passati ci sono stati ulteriori avvistamenti di soldati fantasma, di cui poi non si è avuta conferma. Sarebbero stati addirittura ultraottantenni i due giapponesi identificati nel 2005 sull’isola di Mindanao, smentiti successivamente da Tokyo. In precedenza ci furono avvistamenti in Nuova Guinea, nelle Isole Salomone e sull’isola filippina di Mindoro. E c’è ancora chi cerca quegli uomini o almeno le loro tracce.
Un esercito “fanatico” Sopra, a sinistra, Hiroo Onoda, ufficiale nipponico che non si arrese fino al 1974. Sotto, soldati giapponesi impilano munizioni da usare contro i sovietici a Harbin, in Cina (1945).
PRIMO PIANO
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NAZISTI
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Più segrete di così... Sopra, l’ingresso innevato di Haudegen, la base costruita sull’isola di Nordaustlandet (nel cerchio), nell’arcipelago delle Svalbard, in Norvegia. Nel cerchio a destra, Zemlja Aleksandry, a nord della Russia, sede della base meteo Schatzgräber.
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Hitler voleva conquistare il mondo: tracce dei suoi tentativi spuntano ancora oggi, come la scoperta delle sue basi segrete nell’Artico
Mare Siberiano dell’Est
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ra il 1940 e il 1945 l’Artico fu teatro di una guerra poco nota, ma non per questo meno importante: la cosiddetta “guerra meteorologica”, combattuta tra Germania e gli Alleati a colpi di basi meteo stanziate ai vari capi del Polo Nord. Una guerra misteriosa che vide contrapposte, nelle inospitali isole circondate dalle acque dei mari di Norvegia, di Groenlandia e di Barents, piccole pattuglie di coraggiosi scienziati alla ricerca di dati per accurate previsioni meteo, preziose per pianificare le strategie belliche. Dalla regione artica, infatti, era possibile elaborare previsioni per tutta l’area centro-settentrionale europea, mari inclusi. Fu così che prese forma la “guerra meteorologica” tra nazisti e forze alleate, combattuta attraverso l’invio nell’Artico di imbarcazioni e aeroplani equipaggiati di tutto punto per effettuare previsioni meteo. Per la cronaca, fu proprio la stazione tedesca Haudegen insediata nell’isola di Nordaustlandet, nell’arcipelago delle Svalbard, l’ultima unità combattente del Terzo Reich a consegnarsi agli Alleati, il 9 settembre 1945, ben quattro mesi dopo la firma della resa della Germania. A poca distanza da qui, nella Terra di Alessandra (Zemlja Aleksandry), gelida isola russa del Mare di Barents, lo scorso autunno sono stati localizzati i probabili resti di Schatzgräber, un’altra base nazista risalente al 1942. Una squadra di scienziati del Russian Arctic National Park ha rinvenuto quasi 600 reperti contrassegnati da stemmi del Terzo Reich, provenienti dalla stazione meteo. Qui sono stati trovati resti di alloggi, uniformi, scatolame,
Mare di Okhotsk
MEDIA DRUM WORLD/IPA (8)
L’ultimo soldato del Führer Il geografo tedesco Wilhelm Dege: operò nella base meteorologica artica Haudegen, nell’arcipelago delle Svalbard, per un anno intero a partire dal settembre 1944.
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LA MITICA BASE 211, O NUOVA BERLINO
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ase 211: è questo il nome in codice di una presunta base militare nazista sorta nella cosiddetta Nuova Svevia, in Antartide (“di fronte” alle coste meridionali del Sudafrica). La sua esistenza non è mai stata supportata da prove concrete, ma intorno a essa sono fiorite leggende d’ogni sorta. Rifugio sicuro? Al pari di altri Paesi, la Germania organizzò missioni esplorative in Antartide già dal XIX secolo, proseguendole in epoca nazista. Una delle più importanti vide la nave Schwabenland partire da Amburgo nel dicembre 1938 e giungere in Nuova Svevia nel gennaio 1939. La missione si protrasse per circa un mese, durante il quale fu monitorata l’area e attivata una base temporanea nel sottosuolo della Neu Schwabenland (Nuova Svevia). Con lo scoppio della guerra, però, le spedizioni antartiche si interruppero. Nondimeno, iniziò a circolare la voce che i nazisti fossero riusciti a costruire una base segreta tra i ghiacci, utile come laboratorio per sviluppare nuove armi (tra cui dei fantomatici dischi volanti) e come rifugio sicuro. Si sarebbe appunto trattato della Base 211, detta anche Neu Berlin (Nuova Berlino); a foraggiare le dicerie sulla sua esistenza contribuì il fatto che in prossimità dell’Antartide furono avvistati sottomarini tedeschi anche a conflitto concluso. Sempre in Nuova Svevia, nel 1992, la Germania appena riunificata attiverà una stazione di ricerca chiamata Neumayer II.
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Scatti di vita quotidiana A lato, in questa foto datata 22 marzo 1945, due soldati tedeschi tengono in braccio una coppia di giovani orsi polari. A sinistra, una banda composta dai membri della spedizione nell’Artico suonano sul tetto della base meteorologica di Haudegen l’11 giugno 1945.
taniche di benzina, batterie, munizioni, tende, strumentazioni meteorologiche, manuali tecnici e documenti; il tutto ottimamente conservato dal clima glaciale. «Grazie a questi reperti, e in particolare ai registri per i dati meteo potremo presto ampliare le conoscenze sulle operazioni dei nazisti nell’Artico durante la Seconda guerra mondiale», ha affermato entusiasta Evgeny Ermolov, ricercatore del parco nazionale in cui è avvenuto il ritrovamento. Ermolov ha spiegato inoltre che la scoperta è stata agevolata dal fatto che il 2016 è stato un anno mite: gli scienziati hanno potuto così inoltrarsi nel territorio della base, sgombro da neve e ghiaccio. InformazIonI prezIose. Edificata a mezzo chilometro dalla costa e a una trentina di metri d’altezza, la stazione di Schatzgräber fu voluta da Hitler a seguito dell’invasione tedesca dell’Unione Sovietica del 1941, l’Operazione Barbarossa. Entrata in servizio nel settembre 1943, fu abbandonata dopo neanche un anno di attività, nel luglio 1944. A spiegarci i motivi è ancora Ermolov: «Quando i tedeschi giunsero sull’isola, una tempesta distrusse parte delle provviste e così i meteorologi, per procurarsi carne fresca, andarono a caccia di orsi polari. Mangiando
carne mal cotta, rimasero però avvelenati». Contrassero la trichinellosi, infezione intestinale dovuta a contaminazione da parassiti che costò la vita a molti di loro nonostante un’evacuazione di emergenza su un sottomarino della Marina militare tedesca. La metà dei militari morì infatti nel corso del viaggio, lasciando un alone di mistero sulla travagliata storia della base. Tra scIenza e leggenda. A seguito della recente scoperta dei resti di Schatzgräber, Ermolov ha tra l’altro sottolineato come questa stazione meteo fosse una struttura assai complessa. «Sulla base delle fonti a disposizione e dei reperti trovati, abbiamo realizzato una sua descrizione completa e stilato uno schema dettagliato, che includeva tra le altre cose un bunker, edifici per gli alloggi e una rete di fortificazioni», spiega il ricercatore. «Tutto questo contribuirà a sfatare alcuni miti che si sono tramandati per anni». Uno su tutti: quello che la stazione non esistesse, che fosse una sorta di leggenda di guerra. Sempre in tema di leggende, c’è chi pensa che la base servisse anche a intercettare comunicazioni alleate o, addirittura, fungesse da centro logistico per la ricerca di reliquie e reperti archeologici delle popolazioni nordiche, sulla scia del-
Quello che resta A lato, la base Haudegen nel 1985. Più a destra, deposito di armi scoperto in una grotta vicino alla base meteorologica.In basso, soldati di stanza a Haudegen, il 19 marzo 1945. Media Drum World/Ipa
le imprese del celebre storico ed esploratore tedesco Otto Rahn (ossessionato dalla ricerca del Sacro Graal, la cui figura ispirerà quella di Indiana Jones). Ad aumentare il mistero, il fatto che il nome in codice Schatzgräber significa “cacciatore di tesori”. Pur essendo esistite istituzioni naziste che perseguivano questi obiettivi, non vi sono prove che qualcosa di simile sia accaduto anche nell’Artico, così come non ne abbiamo circa l’esistenza di una leggendaria base in Antartide (vedi riquadro). Un’ultima curiosità: l’isola di Zemlja Aleksandry – che fa parte dell’arcipelago della Terra di Francesco Giuseppe – ospita ancora oggi una struttura militare, la Nagurskoye, attiva dalla fine degli anni Quaranta; si tratta della più settentrionale delle basi russe. L’uLtimo atto. Dopo la sua brusca chiusura, la stazione di Schatzgräber venne menzionata nel 1954 nel volume Wettertrupp Haudegen dal geografo e meteorologo tedesco Wilhelm Dege. Il quale a sua volta operò in un’altra importante base artica, la Haudegen (“cavallo di battaglia”), operativa dal settembre 1944 nell’isola di Nordaustlandet, nell’arcipelago norvegese delle Svalbard. Il team di specialisti che vi lavorava
vi trascorse un intero anno in stato di isolamento, a temperature proibitive, con la minaccia degli orsi polari e di possibili attacchi dagli eserciti alleati. Dege e i suoi trasmisero regolari bollettini fino al 5 maggio 1945, due giorni prima della resa tedesca (formalizzata l’8 maggio), dopodiché, dotati solo di una barca a remi e senza più contatti radio, non riuscirono a lasciare la base, trascorrendovi ancora quattro mesi con il terrore di dovervi rimanere per sempre. Finché, il 3 settembre 1945, un’imbarcazione norvegese, la Blasel, approdò all’isola. Una volta a terra il capitano familiarizzò con i tedeschi prima di rivelare loro – non senza imbarazzo – che era stato incaricato di farli arrendere e riportarli indietro. A quel punto Dege estrasse la pistola dalla fondina, la posò sul tavolo ed esclamò perentorio: “con questo mi arrendo...”. Seguì la resa formale da parte dell’intera unità militare, l’ultima del Terzo Reich ad alzare bandiera bianca. • Matteo Liberti
Dopo la resa tedesca, la base Haudegen rimase isolata. E i militari la lasciarono solo quattro mesi dopo la fine della guerra
PRIMO PIANO
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Fortezza sul lago A lato, Benito Mussolini a Gargnano, sul lago di Garda, nel 1944. PiĂš a sinistra, Alessandro Pavolini, segretario del Partito fascista repubblicano. Sullo sfondo, il Forte Montecchio Nord, a Colico (Lecco), costruito tra il 1912 e il 1914 a protezione della frontiera. Nella primavera del 1945 il forte faceva parte del Ridotto.
L’inutile
Il Ridotto alpino valtellinese doveva essere l’ultimo campo di battaglia della Repubblica di Salò. Ma non fu così
DIFESA A
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metà dicembre 1944, nel suo ultimo bagno di folla a Milano, Mussolini lanciò proclami bellicosi, preannunciando, in un famoso discorso pronunciato al Teatro Lirico, di voler difendere la Valle del Po, “con le unghie e coi denti”, frenando l’avanzata degli Alleati ancora attestati lungo la Linea Gotica, sulla dorsale appenninica. In quegli stessi giorni, nella metropoli lombarda, il dittatore prese in esame, e alla fine approvò, un progetto militare che gli era stato presentato dal federale di Milano, Vincenzo Costa. Si trattava del cosiddetto “Ridotto alpino repubblicano” e prevedeva la realizzazione in Valtellina – quindi immediatamente a ridosso dei valichi – di un quadrilatero nel quale concentrare le forze armate fasciste per l’estrema resistenza. Il principale sostenitore del Ridotto valtellinese fu il segretario del Partito fascista, l’irriducibile Alessandro Pavolini, che troverà poi la morte, insieme ad altri gerarchi, a Dongo, il 28 aprile 1945. Quadrilatero militare. Quale fu il reale scopo di una soluzione militare così ardita? E fino a che punto trovò attuazione pratica? Il Ridotto, dal punto di vista delle strutture difensive, si sarebbe dovuto avvalere soprattutto delle vecchie fortificazioni della Linea Cadorna che risalivano alla Prima guerra mondiale. All’ora convenuta tutti i fascisti provenienti da sud e da est avrebbero dovuto avanzare nelle direzioni nord e ovest per “chiudere” il quadrilatero, portando con sé viveri sufficienti per almeno 30 giorni. Il comando operativo di tutte le forze armate concentrate nella valle sarebbe stato affidato al generale Onorio Onori. Le forze della provincia di Como avrebbero dovuto sbarrare i passi alpini al confine con la Svizzera, mentre a quelle milanesi sarebbe stato assegnato il controllo degli accessi alla Valtel51
Dei 50mila uomini che sarebbero dovuti confluire in Valtellina per difendere il Ridotto ne arrivarono soltanto 4mila
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lina attraverso la Valsassina lecchese. Sul fronte orientale, con i capisaldi della Val Camonica e della Val Brembana, sarebbero infine affluiti i fascisti provenienti dal Bresciano e dalla Bergamasca. Risultato: si sarebbero bloccate tutte le vie di transito che, dagli imbocchi meridionali della Valtellina, fino alle sue estremità settentrionali, garantivano le comunicazioni con la Svizzera e con l’Alto Adige. Il progetto avrebbe consentito allo stesso tempo a Mussolini di ricevere per le trattative emissari alleati attraverso le molteplici porte di ingresso del Ridotto. Senza piano. Tuttavia, con il trascorrere del tempo e soprattutto dopo che Mussolini stesso ebbe abbandonato ogni proposito di resistenza agli angloamericani, questo piano militare rivelò tutta la sua debolezza e si mostrò per quello che era: un’arma spuntata. Tra l’altro, il ministro della Guerra della Repubblica sociale italiana (Rsi), il maresciallo Rodolfo Graziani, manifestò la sua freddezza riguardo al progetto. E non è un caso che Graziani stesso, dopo essersi congedato da Mussolini, il 26 aprile 1945, si sia consegnato agli americani.
Le fortezze riciclate Fortificazioni della Grande guerra sulla cosiddetta “Linea Cadorna”, una barriera difensiva contro l’invasione da nord. A sinistra, trincee sulle Alpi Orobie. In alto, il Forte Oga, a Bormio (Sondrio). Sopra, ancora il Forte Montecchio Nord di Colico. 52
ro ultimi accoliti. Durante l’incontro in arcivescovado, però, apprese che i tedeschi avevano firmato segretamente in Svizzera, con gli Alleati, la resa delle loro armate in Italia. Livido di collera, il duce abbandonò la riunione, accelerando i preparativi per il concentramento, verso nord, dei fascisti in armi. La scelta di abbandonare Milano fu dovuta al suo desiderio di evitare che la città si trasformasse nell’ultimo terreno di scontro tra le residue forze della Repubblica di Salò, i liberatori alleati e le formazioni partigiane che avevano dato il via all’insurrezione. Giunto a Como, però, Mussolini si rese conto di essere ormai in balia degli eventi. La fine. Abbandonato dagli alleati germanici, il duce comprese che i suoi pretoriani, lungi dall’essere una forza significativa, erano ormai ridotti a un pugno di uomini. Non gli restò che attendere gli eventi. Si preparò così a consegnarsi alle prime avanguardie americane che lo avessero raggiunto. La fine è nota: nascosto in una colonna di automezzi tedeschi in ripiegamento verso nord, sulla via del lago di Como, Mussolini venne identificato su un camion della Wehrmacht e arrestato dai partigiani a Dongo. Era il pomeriggio del 27 aprile. L’unico gerarca che, in quei frangenti, accennò a una reazione armata contro gli uomini della Resistenza fu Pavolini. E dei 50mila uomini che avrebbero dovuto difendere il baluardo del Ridotto alpino, in Valtellina, alla fine ne giunsero non più di 4mila. •
E qui si sparava ancora
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n Italia, durante la Seconda guerra mondiale, la resa dei nazifascisti fu formalizzata il 29 aprile 1945. Ma gli scontri tra partigiani, forze alleate e tedeschi in fuga proseguirono anche nelle ore successive. Lo stesso 29 aprile, vicino a Parma, si consumarono gli ultimi atti della battaglia della Sacca di Fornovo, che si protraeva da giorni. Mantova. Quello che fu considerato l’ultimo evento bellico su suolo italiano però si svolse il mattino seguente. Le armi ripresero a crepitare vicino a Mantova, in località Ponti sul Mincio, poco a sud del lago di Garda. Protagonisti i partigiani delle brigate Italia e Avesani affiancati dagli arditi del IX reparto d’assalto, contro una colonna nazifascista rifugiatasi su un’altura di Monte Casale. Colle espugnato. Il reparto tedesco era giunto sulla collina nella notte, riparandosi in un casolare. Il mattino iniziò uno scontro a fuoco con le forze della Resistenza. I colpi si protrassero fino al pomeriggio del 30 aprile, quando il colle fu espugnato. I nazifascisti morti in quella che fu detta la battaglia di Monte Casale furono una decina; oltre a 5 arditi, 3 partigiani, un soldato americano e un civile. (m. l.)
Roberto Festorazzi
Il duce a Milano Mussolini a Milano il 17 dicembre 1944 nella sede della Legione Ettore Muti, corpo militare della Repubblica di Salò con compiti di polizia politica. 53
ARCHIVI FARABOLA
La soluzione del Ridotto, tuttavia, al di là delle finalità di resistenza estrema di chi la sponsorizzava, sembrava sposarsi con i disegni politici che Mussolini perseguiva nella sua mente. Ancora il 18 aprile, illustrando i suoi propositi nella Prefettura di Milano dove si era nel frattempo stabilito una volta lasciato il quartier generale sul lago di Garda, il duce aveva detto: “Dalla Valtellina intendo trattare con il governo che il popolo italiano si sarà dato; intendo consegnarmi a un tribunale italiano: solo questo ha il diritto di giudicarmi, ma mi si deve garantire che mi si lascerà parlare, perché il popolo italiano deve sapere il perché di questa guerra, deve sapere ciò che non ha mai saputo... Poi mi si punisca, se mi si riterrà colpevole. Non intendo consegnarmi ai tribunali anglo-sassoni: mi impedirebbero di parlare, di dire una verità che a loro brucia”. Soltanto pochi giorni più tardi, dopo che le armate alleate dilagarono in Val Padana, il proposito di arroccarsi nel fortilizio valtellinese si dimostrò, nei fatti, del tutto irrealizzabile e illusorio. TraTTaTive naufragaTe. Quando, il pomeriggio del 25 aprile 1945, incontrò in arcivescovado a Milano i capi della Resistenza, il duce aveva già rinunciato all’opzione militare. Valutava invece un’estrema possibilità: raggiungere un compromesso per il passaggio dei poteri tra la Repubblica sociale italiana e il Clnai (Comitato di liberazione nazionale Alta Italia). Mussolini sperava ancora di negoziare, per sé e per i suoi fedelissimi, una resa condizionata, che salvaguardasse la vita dei gerarchi e dei lo-
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OSTAGGI SPECIALI
Rifugio alpino
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HJALMAR SCHACHT
Ex economista del Terzo Reich 54
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Il lago di Braies, in Alto Adige, dove nell’aprile del 1945 furono trasferiti 139 prigionieri eccellenti dei nazisti, nell’hotel Pragser Wildsee (sopra, in una cartolina d’epoca).
ALEXANDROS PAPAGOS
Ministro greco della Guerra
LÉON BLUM
Presidente del Consiglio francese
Il nipote di Garibaldi, il figlio di Badoglio, il genero del re d’Italia: sono alcune delle personalità di spicco che i nazisti volevano usare come merce di scambio per la resa finale
È
FRITZ THYSSEN
Industriale tedesco
MARIO BADOGLIO
Figlio del maresciallo Badoglio
il 28 aprile 1945 e, nonostante sia ormai primavera inoltrata, durante la notte ha nevicato a Villabassa, in Alto Adige: sotto la coltre bianca, gli echi della guerra agli sgoccioli sembrerebbero lontani se non fosse per quel gruppo di uomini, donne e bambini inzuppati dalla pioggerella ghiacciata, radunati nella piazza centrale da un’ottantina di Ss col mitra spianato. I cinque pullman su cui hanno lasciato il campo di concentramento di Dachau sono fermi a circa un chilometro dall’abitato: sono arrivati a piedi, con le scarpe rotte, gli abiti laceri e poche cose strette in fagotti. Chi erano? E perché furono portati qui, in questo paesino dell’Alta Val Pusteria, nei giorni convulsi che anticiparono la fine della Seconda guerra mondiale? Prigionieri famosi. I nazisti li chiamavano sonderhäftlinge, i “prigionieri speciali” di Hitler: 139 persone di 17 nazionalità diverse, un gruppo eterogeneo di teste coronate e politici, uomini di chiesa e celebrità, doppiogiochisti, traditori della causa nazista e spie britanniche. Tra gli italiani sono almeno due i cognomi famosi: il diplomatico Mario Badoglio, figlio del maresciallo Pietro, e il generale Sante Garibaldi, nipote dell’eroe dei due mondi. Ma in mezzo a quei volti emaciati dagli occhi atterriti, si può riconoscere anche il presidente del Consiglio francese Léon Blum, il ministro greco della Guerra Alexandros Papagos e l’ex cancelliere austriaco Kurt Schuschnigg, arrestato nel 1938 con moglie e figlia per aver difeso l’indipendenza del suo Paese. La famosa attrice Isa Vermehren, cantante del kabarett berlinese, condivide la sorte con due principi: Saverio di Borbone, cognato dell’imperatore d’Austria Carlo I, e Filippo d’Assia, genero del re d’Italia Vittorio Emanuele III. 55
Vista lago
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A destra, gli ostaggi, ormai salvi, sul balcone dell’hotel affacciato sul lago di Braies (1945). A sinistra, Heinrich Himmler (primo a destra), negli anni Trenta.
I 139 prigionieri erano di 17 nazionalità diverse. C’erano anche tedeschi e tra questi alcuni erano stati personaggi di spicco del Terzo Reich
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I parenti del conte Claus von Stauffenberg, esecutore dell’attentato a Hitler (1944), stanno fianco a fianco con famosi sostenitori del partito nazionalsocialista, caduti in disgrazia: l’ex ministro dell’Economia del Terzo Reich, Hjalmar Schacht, e l’industriale Fritz Thyssen, il “prigioniero personale del Führer”. Nomi segreti. Nei campi di concentramento, a parte le guardie, nessuno ha mai conosciuto il loro vero nome: gli altri prigionieri, però, avevano notato il particolare trattamento destinato a quegli ospiti cui nulla veniva chiesto se non rimanere in vita. Il motivo di tanta riservatezza sta nel fatto che dovevano essere usati come merce di scambio una volta giunti oltreconfine, nel Die Alpenfestung, la “fortezza delle Alpi” vagheggiata nel 1944 dal numero due del Reich, Heinrich Himmler, come l’ultimo baluardo della resistenza nazista: un’ipotetica linea fortificata di 400 chilometri circa, che avrebbe dovuto
comprendere parte dell’Alta Baviera e della Svevia, il Salisburghese, il Tirolo e l’Alto Adige, ma che nella realtà fu solo un bastione fantasma. «La fortezza non esisteva, ma ovviamente le montagne alpine costituivano un rifugio naturale e ancora lontano dalle armate alleate in avanzata su tutti i fronti. Quindi chi voleva mettere al sicuro, e allo stesso tempo sotto controllo nazista, i prigionieri eccellenti, poteva trovare nella zona del Sud Tirolo un luogo adatto», spiega Lutz Klinkhammer, ricercatore di Storia contemporanea all’Istituto storico germanico di Roma. iNutili. «Certo era che ormai la situazione stava precipitando anche in Italia: quando i prigionieri d’onore arrivarono in Alto Adige, le trattative per una resa incondizionata delle truppe tedesche in Italia erano concluse», prosegue lo storico. I deportati “vip” sapevano di non essere più al sicuro: era probabile che presto le Ss li avrebbero uccisi, consideran-
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doli inutili. Alcuni infatti avevano origliato un discorso nella notte fra due guardie ubriache: “Niente fucilazione, li caricheremo nei pullman imbottiti di esplosivo e li faremo esplodere in un luogo isolato”. Perciò, ammucchiati nel Municipio di Villabassa, su balle di fieno gettate a terra come giacigli, si diedero dei turni di guardia, per tenersi pronti al peggio. “Eravamo uniti da una singolare solidarietà [...] le nazioni che da sei anni erano feroci avversarie [...] adesso vivevano in grande armonia”, scrisse dopo la fine della guerra l’attrice Isa Vermehren, in una lunga relazione sulla sua odissea. E in questa unità ritrovata, alcuni vecchi nemici si trasformarono in salvatori. Il primo fu il colonnello della Wehrmacht Bogislaw von Bonin: dopo una carriera militare di tutto rispetto, a gennaio era finito in un campo di concentramento perché, invece di mandarle al massacro, aveva ordinato alle sue truppe la ri-
tirata da Varsavia durante l’offensiva sovietica sulla Vistola-Oder. «Sfuggendo al controllo dei carcerieri, Bonin si era messo in contatto con il generale Heinrich von Vietinghoff-Scheel, suo amico, che era in procinto di partire per Caserta per arrendersi alle potenze alleate», racconta la giornalista Mirella Serri nel suo saggio Gli invisibili. La storia segreta dei prigionieri illustri di Hitler in Italia (Longanesi). “Siete sotto la mia giurisdizione: non permetterò l’uccisione di civili innocenti”, assicurò il generale. Ospiti in hOtel. Detto fatto, il 29 aprile il capitano Wichard von Alvensleben, a capo di un commando di 150 soldati della Wehrmacht, irruppe nella piazza di Villabassa e prese in consegna gli “speciali”, esautorando le Ss. Poi, per motivi di sicurezza, li fece trasferire poco distante, sul lago di Braies, nell’hotel Pragser Wildsee, affidandoli alle cure della coraggiosa proprietaria, Emma Heiss-Hellenstainer. «La
Il primo campo Il campo di Dachau (Monaco di Baviera), aperto nel 1933. Himmler, comandante delle Ss (Reichsführer Ss) lo definì “il primo campo di concentramento per prigionieri politici”.
resa tedesca entrò in vigore tra il 2 e il 3 maggio: nelle ultime ritirate delle forze armate tedesche verso le Alpi, avvennero altre stragi nei confronti della popolazione civile italiana», conclude Klinkhammer. In quella situazione indefinita, mentre le truppe della Wermarcht erano in ritirata, gli ostaggi speciali si salvarono da un ultimo colpo di mano delle Ss grazie ad Hans Philipp, il capo della Gestapo di Sillian, piccolo paese al confine fra Austria e Italia. Quando da Klagenfurt (Austria) i suoi superiori gli ordinarono di portare i 139 oltre frontiera per provvedere alla loro eliminazione, lui rifiutò. Preferì suicidarsi, sparandosi il 4 maggio: proprio quel giorno un battaglione della V Armata americana, guidato dai partigiani bellunesi allertati da Garibaldi, raggiunse l’albergo. “La Wehrmacht è disarmata”, dichiarò un ufficiale, gli ex prigionieri “si considerino ospiti dell’esercito americano”. • Maria Leonarda Leone 57
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PRIMO PIANO THE LIFE PICTURE COLLECTION/GETTY IMAGES
Nell’aprile del 1945, i berlinesi furono bersaglio di uno dei più massicci attacchi subiti da una città. Ecco come tentarono di resistere
La caduta di BERLINO
Cannonate Macerie e devastazione nella Oberwallstrasse di Berlino, dove avvennero alcuni dei combattimenti più duri per il controllo della città.
N
ei piani di Hitler, Berlino doveva essere la nuova capitale dell’Europa nazificata e quindi andava ripensata e ricostruita. I suoi progetti (e quelli del suo architetto, Albert Speer) prevedevano edifici talmente imponenti da fare invidia a San Pietro, a Roma, e sfarzosi come Palazzo Pitti a Firenze. E poi teatri, cinema, sale da migliaia di spettatori e una piazza da un milione di persone per le adunate. Il trasporto cittadino su ruota e rotaia si sarebbe sviluppato in appositi tunnel sotterranei avveniristici. Per questo, nel 1938, cominciarono i lavori di scavo: a 18 metri di profondità fu costruita una parte della rete delle gallerie previste dal progetto. Ma nel 1939 i lavori si interruppero per lo scoppio della guerra.
Da quel momento l’uso che venne fatto delle gallerie fu molto diverso da quello per cui il Führer le aveva pensate. Diventarono prima depositi di armi e poi, nei drammatici giorni della Battaglia di Berlino, rifugio per la popolazione. ArrivAno i russi. Nella primavera del 1945, quando sulla capitale del Terzo Reich cadevano giorno e notte le bombe alleate, molti berlinesi si rifugiarono lì. Ma il peggio doveva ancora venire: l’Armata rossa stava avanzando su Berlino. La mattina del 21 aprile entrarono in città i primi reparti corazzati sovietici, che aprirono la strada alle truppe d’assalto. Da quel momento Berlino fu vittima di una delle più massicce operazioni di artiglieria di tutti i tempi in una città. Si stima che in dieci giorni siano caduti sul-
In 10 giorni caddero sulla città tedesca quasi 2 milioni di proiettili 61
la capitale tedesca quasi 2 milioni di proiettili. I civili cercarono di rifugiarsi ovunque ve ne fosse la possibilità: nei tunnel in costruzione, nella metropolitana, nelle fognature. Sottoterra. I rifugi presto si rivelarono insufficienti e si riempivano fino al doppio della loro reale capacità. I bunker antiaerei erano collocati nelle Flakturm, enormi fortificazioni di difesa poste a “guardia” della città e costruite in punti considerati strategici a partire dal 1941. Erano tre: la Flakturm Tiergarten, la Flakturm Friedrichshain e la Flakturm Humboldthain. In quest’ultima (l’unica ancora oggi in piedi, le altre invece furono abbattute dopo la guerra) si trovava un bunker antiaereo per 15mila civili (ma ne arrivò a contenere fino a 30mila), un ospedale con 95 posti letto e due sale operatorie. Nelle torri c’era persino un’area per mettere al riparo le opere d’arte, come il busto egizio di Nefertiti e l’altare greco di Pergamo. Testimoni raccontarono che le spessissime pareti di cemento armato dei bunker tremavano sotto i colpi dell’artiglieria russa: sembravano sempre sul punto di cedere. Ma resistettero. Poiché la maggior parte dei berlinesi adulti era al fronte, la difesa delle torri era affidata a ragazzi di 15-16 anni, che sui tetti delle Flakturm si trovavano a maneggiare armi contraeree con pochissimo addestramento. Altre gallerie sotterranee, destinate a rifugio per i civili e deposito di armi, si trovavano presso l’aeroporto di Tempelhoff, fiore all’occhiello del Terzo Reich voluto e progettato dallo stesso Führer. Sotto “l’aeroporto di Hitler” c’era un mondo segreto: 40 chilometri di tunnel su 6 livelli. Con tanto di gallerie ferroviarie destinate al trasporto degli spettatori per le esibizioni militari in tempo di pace. In tempo di guerra, qui si riparavano i caccia. L’aeroporto, nodo fondamentale per la difesa della città, fu però conquistato dai russi in appena due giorni.
Il numero è ancora oggi controverso, ma si parla di 100mila stupri da parte dei sovietici solo a Berlino 62
ROGER-VIOLLET/ALINARI
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I colpi dell’artiglieria russa risuonavano in città facendo tremare le mura dei bunker in cemento armato
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L’ultimo comandante
H
Bombardieri sovietici e un carro colpiscono il Reichstag. Questo fotomontaggio di propaganda apparve nell’aprile del 1945 sul quotidiano russo Pravda. Sopra, soldati sovietici con i civili a Berlino immediatamente dopo la battaglia. Sopra a sinistra, membri della Volkssturm, la milizia popolare nazista, preparano le barricate.
Cessate il fuoco. Era chiarissimo anche a Weidling che infatti, valutata la situazione, propose a Hitler un piano di fuga e il permesso di ripiegare. Gli fu negato. Solo il 30 aprile, quando ormai il cerchio intorno alla Cancelleria, sotto la quale si trovava il bunker di Hitler, si stava stringendo, il Führer diede il permesso di ritirare le truppe. Poi, il giorno stesso, si suicidò. Il 2 maggio gli altoparlanti sugli autoblindo diffusero il messaggio di Weidling che, d’accordo con il comando sovietico, invitava tutti a deporre immediatamente le armi. L’ultimo comandante di Hitler fu deportato in Russia e condannato nel 1952 da un tribunale sovietico a 25 anni di reclusione. Nel 1955 morì per un attacco di cuore a Vladimir, dove viveva sotto la custodia del Kgb.
Sotto l’aeroporto di Tempelhoff c’era un formicaio: 40 km di gallerie su 6 livelli
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Militarizzati
elmuth Weidling, comandante del LVI Panzerkorps del Gruppo d’armate Vistola, doveva essere di pessimo umore quando si presentò nel bunker di Hitler per difendere le sue scelte. Il Führer, infatti, il 22 aprile 1945, mentre l’artiglieria sovietica metteva a ferro e fuoco Berlino, infuriato, ne aveva ordinato la fucilazione per aver fatto ripiegare le truppe verso occidente senza la sua autorizzazione. Weidling lo convinse di non aver contravvenuto ai suoi ordini. E il Führer, non si sa se per pietà o per vendicarsi, lo nominò comandante in capo dell’area di difesa di Berlino. Scampato alla condanna a morte, era stato condannato a una missione impossibile. Adesso aveva su di sé un’enorme responsabilità. Vietato arrendersi. Le forze a sua disposizione erano molto limitate, 45mila uomini tra Wehrmacht e Waffen Ss, una decina di migliaia di anziani della Volkssturm e un po’ di giovani della Gioventù hitleriana, mezzi limitati e scarsità di munizioni. Con questo “bagaglio” aveva l’ordine di combattere fino all’ultimo uomo contro un esercito di un milione e mezzo di sovietici con 6mila carri armati, pronti a tutto pur di conquistare la capitale del Terzo Reich. Nonostante la palese inferiorità numerica, le divisioni tedesche si dettero da fare per difendersi come potevano: barriere stradali con macerie e mobili, nascondigli sotterranei, trappole anticarro. La tattica da combattimento urbano, veloce e mobile, era l’esatto contrario di quella della pesante artiglieria russa che non era certo agile ma aveva una forza militare tale da non lasciare dubbi sul fatto che la situazione non poteva reggere a lungo.
Il comandante Weidling (sopra in alta uniforme nel ’44) esce dal suo quartier generale a Berlino e si arrende ai russi.
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Violenze inaudite. Alla fine, anche i rifugi non furono più così sicuri. Molti berlinesi erano terrorizzati dall’idea di infilarsi in quelle gallerie e temevano di fare la fine dei topi, con i sovietici alle spalle. La loro era una paura più che giustificata. I testimoni riferirono poi di saccheggi, omicidi e soprattutto stupri da parte dei militari sovietici. A dire il vero, quello che accadde in quell’ultimo atto della Battaglia di Berlino è ancora oggi dibattuto tra gli storici. Alcune stime dicono che i militari sovietici si siano macchiati di 100mila violenze sulle donne solo a Berlino e di 240mila in tutta la Germania. Lo storico britannico Antony James Beevor lo ha definito “il più grande stupro di massa della Storia”. Gli uomini erano fuori controllo, gli alti comandi dell’Armata rossa ne erano consapevoli e tollerarono le violenze. In fondo, le giudicavano una sorta di vendetta nei confronti dei tedeschi per l’invasione dell’Urss. E questo nonostante i timori dei vertici sovietici per il possibile danno d’immagine. Il terrore della popolazione civile in quei terribili giorni è indescrivibile. Molti, pur di non finire nelle mani dei russi, si suicidarono: 100mila persone si tolsero la vita a Berlino tra aprile e maggio del 1945. Mentre la capitale bruciava, Hitler era rintanato nel suo bunker sotto la Cancelleria (v. riquadro a destra). Era apparso un’ultima volta il 20 aprile, un giorno prima dell’arrivo dei russi. Dal Führerbunker non uscirà mai più vivo. Il 30 aprile 1945 Hitler si suicidò. Ma nella torre di Humboldthain la contraerea continuò a combattere ancora per tutto il giorno seguente, nonostante la città fosse allo stremo e le possibilità di respingere il nemico fossero nulle. Il 2 maggio finalmente arrivò il “cessate il fuoco”. L’inferno finì, lasciando dietro di sé un mare di macerie, il 90% degli edifici era gravemente danneggiato; 22mila civili erano morti e, nei mesi successivi, si verificò un numero altissimo di aborti, eredità degli stupri. • Federica Ceccherini
Il 90 per cento degli edifici andò distrutto e si stimano 100mila suicidi tra i civili 64
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Molti berlinesi temevano che nel bunker potessero arrivare i sovietici non lasciando loro alcuna via di fuga
Dopo la battaglia Parata militare dell’Armata rossa per celebrare la vittoria, dopo la Battaglia di Berlino.
La fine di Hitler entre Berlino è sotto le cannonate dei russi, il 29 aprile del 1945, otto metri sotto il suolo si celebra un matrimonio: Adolf Hitler sposa Eva Braun. Una cerimonia lugubre come il luogo in cui si tiene. La location è il Führerbunker (in basso) situato sotto il giardino della Cancelleria del Reich, nel quale Hitler si trovava dal 16 gennaio. Il bunker era stato rifornito di tutto il necessario per la sopravvivenza, aveva persino un impianto di condizionamento dell’aria e l’elettricità. Tuttavia il condizionamento funzionava a singhiozzo e la luce era intermittente, soprattutto dopo che erano cominciati a esplodere i pesanti colpi d’artiglieria in città, il 21 aprile. In molti erano fuggiti dal bunker, e alla fine erano rimaste solo una trentina di persone, tra cui Martin Bormann, segretario del Führer, e Joseph Goebbels, ministro della Propaganda, con la famiglia. Ultime volontà. Il giorno dopo il matrimonio, Hitler incaricò Otto Günsche, suo assistente personale, di uscire per procurarsi 200 litri di benzina. L’ordine era quello di bruciare il suo corpo e quello di Eva dopo il loro suicidio. In seguito il Führer radunò le collaboratrici che erano rimaste, segretarie, cuoche, infermiere e assistenti, e diede loro l’ultimo saluto. Tutto era pronto. Si chiuse nel suostudio con la moglie e dopo aver ingoiato del cianuro si sparò alla testa. Le ultime ore di Hitler sono state ricostruite in base alle testimonianze dei sopravvissuti, che dissero di aver visto, dopo
L’ultima apparizione di Hitler in pubblico il 20 aprile 1945.
IPA
M
aver aperto la porta della stanza, i coniugi Hitler sul divano. Morti. Eva con la pistola ai piedi, Hitler con un colpo in testa, il vaso di fiori rovesciato. Successivamente i corpi furono trascinati fuori, bruciati e seppelliti nel giardino. Era il 30 aprile; il 2 maggio arrivarono nel bunker i sovietici. 1 La stanza da letto di Hitler (a sinistra)
e la sala riunioni dove prendeva le decisioni militari. 2 Salottino con il divano per il relax; a
fianco, l’ufficio del Führer. 3 La camera da letto di Eva e, a sinistra, il
bagno a lei riservato. 4 L’ufficio di Bormann e la sala
comunicazioni. 5 Lo studio di Goebbels. 6 La camera di Goebbels;
a fianco, l’infermeria.
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Berlino Anno zero Alcuni berlinesi tra i cumuli di macerie che riempiono le strade, alla ricerca di legno e altri oggetti utili, dopo la resa.
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BALUARDI ESTREMI La battaglia di Berlino, il Ridotto della Valtellina, l’Alpenfestung sono alcuni degli argomenti trattati in questi libri. L’ultima battaglia Cornelius Ryan (Bur) La fine del Terzo Reich e la caduta di Berlino nella drammatica primavera del 1945. Il racconto delle settimane in cui un milione e mezzo di soldati dell’Armata rossa circondarono Berlino in attesa dell’attacco finale. Nel bunker della Cancelleria, Adolf Hitler sognava intanto contrattacchi impossibili, mentre i gerarchi pensavano a come salvarsi o a come trattare con gli Alleati. Ma l’Urss a quel punto colpì senza pietà, travolgendo ogni ultima resistenza. La disfatta Joachim Fest (Garzanti) La ricostruzione degli ultimi giorni del Terzo Reich in un classico del maggiore (e controverso) storico e biografo di Hitler, scomparso nel 2006. Fest è stato un protagonista del violento dibattito tra gli storici
tedeschi sul nazismo ed è finito spesso al centro di polemiche, ma i suoi testi restano un utile strumento per capire quel periodo della storia europea. Dopo Hitler Michael Jones (Newton Compton) Gli ultimi 10 drammatici giorni della Seconda guerra mondiale in Europa, dopo il suicidio di Adolf Hitler. Con la morte del dittatore il conflitto non finì: c’erano i gerarchi che cercavano di sfuggire alla cattura, i soldati che tentavano un’ultima disperata lotta e soprattutto gli Alleati che cercavano nuovi equilibri. Un resoconto che analizza gli avvenimenti che definirono gli assetti del Dopoguerra. Io fascista Giorgio Pisanò (Il Saggiatore) La testimonianza di uno degli estremi difensori del fascismo,
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saperne di più
Nel maggio del 1945 alcuni prigionieri tedeschi alla periferia di Berlino.
catturato dopo essersi unito ai militari accorsi in difesa del Ridotto alpino repubblicano. Un inutile baluardo che non salvò da una difficile prigionia chi aveva creduto nella causa sbagliata, come questo testimone di quei giorni. Ostaggi delle Ss nella Alpenfestung Hans-Günter Richardi (Edizioni Raetia) Alla fine della guerra oltre cento prigionieri famosi furono portati in Alto Adige. I 139 ostaggi provenivano da 17 nazioni diverse e sarebbero stati usati,
nelle intenzioni delle Ss, per le trattative con gli Alleati come merce di scambio. Tra gli internati: l’ex Cancelliere austriaco Kurt von Schuschnigg, l’ex Primo ministro francese Léon Blum e i familiari del colonnello Claus Schenk, conte di Stauffenberg, colui che il 20 luglio 1944 compì l’attentato ad Adolf Hitler. Gli italiani noti erano invece Mario Badoglio, figlio del capo del Governo italiano, Tullio Tamburini e Eugenio Apollonio, capo e vicecapo della Polizia nella Repubblica di Salò e alcuni generali. Il libro racconta la poco conosciuta vicenda della deportazione di questi prigionieri dalla Germania all’Alto Adige.
La Storia raccontata in queste pagine rivive anche in tv
A
nche questo mese History, il canale di Sky dedicato alla Storia, disponibile anche in Hd, approfondisce il tema del Primo piano di Focus Storia: gli ultimi giorni delle forze dell’Asse durante la Seconda guerra mondiale.
cui molti notabili del regime fascista, come merce di scambio durante le trattative con gli Alleati. Questo documentario ricostruisce quella storia (e un tentativo di fuga). Domenica 26 febbraio, ore 17:40
OSTAGGI DELLE SS SULLE ALPI Aprile 1945: nel corso di una drammatica operazione, le Ss trasportano 139 prigionieri speciali sulle Alpi, in Alto Adige. Il loro obiettivo è quello di usare queste persone, tra
GLI EROI DI DACHAU Questo documentario fa rivivere la storia della liberazione dei prigionieri del lager di
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Dachau, nel Sud della Germania, attraverso le toccanti testimonianze dei deportati e dei loro salvatori che tornano in quei luoghi per affrontare il passato. Una pagina vissuta sullo sfondo della caduta del regime nazista, che in quei giorni lasciava la strada a una lunga e difficile ricostruzione materiale e morale. Lunedì 27 febbraio, ore 9:50 NAZISMO, DAL TRAMONTO ALL’ALBA Una serie in sei puntate di un’ora ciascuna, dedicata
alla Seconda guerra mondiale e allo sterminio degli ebrei. Raccontati però da un punto di vista particolare: la testimonianza diretta dei tedeschi, militari e non, che credettero a quell’ideale di violenza e supremazia. E che, in qualche caso, fino all’ultimo pensarono di essere destinati alla vittoria finale. Tutti i giorni da lunedì 20 a giovedì 23 febbraio, lunedì 27 e martedì 28 febbraio, ore 17:40
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pittoracconti
Il ritorno della flotta Dopo millenni di oblio, in Grecia, nell’isola di Santorini, è tornato alla luce un affresco che decorava una casa dell’Età del bronzo. E ha una storia da raccontare.
U
na piccola flotta torna vittoriosa da una misteriosa spedizione. O forse, invece, sta sfilando in un gioioso corteo cerimoniale... Qualunque sia l’esatta lettura di questa scena, siamo di fronte a uno dei temi decorativi che impreziosivano l’ambiente di una casa dell’Età del bronzo nell’insediamento di Akrotiri, sull’isola di Thera (l’odierna Santorini, nelle Cicladi). Dopo millenni di oblio, l’affresco è tornato visibile grazie agli scavi che dal 1967 hanno riportato alla luce alcuni edifici del piccolo centro abitato, la “Pompei dell’Egeo” come è stato definito, distrutto dalla grande eruzione che alla fine del XVII secolo a.C. fece esplodere l’isola vulcanica conferendole l’attuale conformazione ad atollo. Ricomposti i frammenti dei dipinti, gli archeologi si sono trovati di fronte al racconto di una storia cui è ancora difficile dare precisi contorni. Sono di aiuto i pochi brandelli di pittura che, su una
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parete vicina, accennano al cruento scontro avvenuto alle porte di una città: una colonia minoica sulle coste libiche per alcuni, probabilmente un insediamento nel Mare Egeo, come sostengono altri. In ogni caso ci sono dei corpi in mare, mentre sulla costa si distinguono soldati e greggi di pecore e di capre. L’identità del committente. È forse da quello scontro che ritornano le navi della flotta: dopo aver salvato la colonia dai nemici, o in seguito a un’incursione vittoriosa. Ad attenderla ci sono i cittadini in festa. Il proprietario della casa che ha fatto realizzare l’affresco potrebbe essere stato uno di loro, un abitante qualunque. Ma niente ci impedisce di immaginarlo protagonista, nei panni dell’ammiraglio che siede fiero nella torretta di comando della sua nave. • Edoardo Monti
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LUISA RICCIARINI/LEEMAGE (2)
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1 Lo stile dei dipinti è considerato meno raffinato rispetto all’eleganza delle più tarde pitture minoiche che decoravano i palazzi cretesi; ma è già notevole la capacità descrittiva e topografica.
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2 Sulle colline un leone insegue alcuni cervi. La scena potrebbe alludere a un ambiente africano, ma più probabilmente è un tema di repertorio di carattere allegorico. La raffigurazione del leone era molto diffusa nell’arte egea.
3 Due figure sembrano indossare lunghi mantelli di pelliccia, desueti per l’epoca. È stato ipotizzato che si tratti del retaggio di un uso antico, forse mantenuto in contesto rurale. O, ancora, potrebbero essere costumi utilizzati per il culto.
4 La prima città, quella da cui la flotta fa ritorno, si trova presso un corso d’acqua che si biforca e ha i caratteri dell’architettura egea, con edifici in pietra, mattoni stretti gli uni agli altri e coperture a terrazza.
5 Questa è l’unica nave della flotta in cui i rematori vogano rivolgendo le spalle alla prua, la posizione più adatta per affrontare il mare.
6 Sulle imbarcazioni maggiori i rematori impiegano remi corti e pagaiano con le spalle alla poppa, sporgendosi molto in avanti, oltre il parapetto. Si tratta di un tipo di voga fluviale e lacustre inadatta per il mare.
7 L’incongruo tipo di voga ha generato molte discussioni tra gli studiosi. C’è chi ha avanzato l’ipotesi che le navi siano raffigurate nella manovra di attracco, dopo aver ammainato le vele di cui erano dotate.
8 A poppa, accanto ai timonieri, ci sono le torrette di comando chiuse su tre lati da cui i capitani impartivano gli ordini per il governo della nave.
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9 In qualche caso, sopra le teste degli eleganti passeggeri si possono scorgere elmi da battaglia appesi alla copertura del padiglione, dove trovavano sistemazione anche le lunghe picche dei guerrieri.
10 Sulle piattaforme coperte da strutture a padiglione siedono quelli che potrebbero essere i soldati che hanno partecipato alla spedizione. Le loro vesti eleganti però fanno pensare anche a notabili o ambasciatori.
11 Questa è stata riconosciuta come la nave ammiraglia della flotta. È al centro del gruppo ed è anche la più decorata. Sulle fiancate si distinguono grandi figure di animali dipinte, mentre un leone è scolpito sulla ruota di poppa.
12 Le figure maschili in attesa presso il porto indossano per la maggior parte il tipico perizoma minoico. Solo due personaggi vestono abiti in pelliccia 13 , simili a quelli dei due uomini della prima città 3 .
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Storia viaggi
In collaborazione con
GEORGIA
Il gioiello del Caucaso Nella zona montana dello Svaneti, nel cuore del Grande Caucaso.
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ocus Storia propone a tutti i suoi lettori un viaggio in Georgia, Paese che ha raggiunto da poco l’indipendenza e che ora si sta aprendo al mondo. Monasteri, città rupestri, castelli e villaggi medioevali disseminati in un incredibile scenario montano sono il “menu” di questo tour che prevede una guida locale e un accompagnatore archeologo. L’itinerario. Prima tappa Tbilisi, capitale dal V secolo d.C. e antico crocevia eurasiatico, con vicoli stretti e tortuosi, edifici sacri e caravanserragli. Passando per Mtskheta, l’antica capitale religiosa, e Kazbegi, si visita la chiesa di Tsminda Sameba e si raggiunge la città rupestre di Uplistsikhe, centro commerciale sulle rotte carovaniere fino al 1240, quando venne
distrutta dai Mongoli. Gli archeologi che lavorano nella zona dal 1957 hanno riportato alla luce circa la metà del sito. Si prosegue poi verso il confine con la Turchia: meta Vardzia, città rupestre medioevale che si sviluppò su 13 livelli abitativi sotto il regno della regina Tamar, nel XII sec. Ancora più antica Kutaisi, città della Colchide, zona abitata da 4.000 anni e “famosa” per essere stata la destinazione di Giasone e degli Argonauti in cerca del Vello d’Oro. Un salto al Monastero di Gelati (Patrimonio dell’Umanità) e poi si riparte verso il misterioso Svaneti, una terra così isolata che gli abitanti locali parlano una lingua incomprensibile al resto della popolazione. Il viaggio si conclude con la cittadina di Zugdidi e il porto di Batumi, oggi zona di villeggiatura sul Mar Nero. •
RUSSIA SVANETI KAZBEGI KUTAISI
UPLISTSIKHE MTSKHETA
BATUMI VARDZIA
TBILISI BAKURIANI
TURCHIA ARMENIA 70
SIGNAGI
◆ Partenza: 7 luglio 2017, da Milano ◆ Durata: 10 giorni ◆ Prezzo: a partire da € 1.750/1.880 ◆ Ulteriori informazioni:
www.viaggilevi.com/focus-storia contatti e prenotazioni: ◆ www.viaggilevi.com ◆ info@viaggilevi.com ◆ Tel. +39 02.34934528
La torre medioevale di Ushguli, pittoresco villaggio ai piedi del monte Shkhara (5.068 m).
Un salto nel tempo fra città rupestri e remoti villaggi medioevali.
La chiesa trecentesca della Trinità di Gergeti, nota anche come Tsminda Sameba (nei pressi di Kazbegi). A sinistra, la città rupestre di Vardzia. 71
curiosario A cura di Paola Panigas
La banda delle tartine
G V. SIRIANNI
li imbucati alle feste esistevano già nel III secolo a.C. Erano “ospiti fissi” anche nelle commedie di Plauto, dove avevano un nome ben preciso: il parasitus, ovvero il parassita, era il personaggio che si presentavan alle feste senza invito. Dotati di una fame insaziabile, gli ospiti che nessuno conosceva cercavano di far dimenticare la loro presenza divertendo gli altri ospiti: speravano così che la loro voracità passasse inosservata. I ferri del mestiere. Gli imbucati erano tutti dotati di un inseparabile taccuino dove segnavano le loro battute migliori e le barzellette da rispolverare a seconda dell’occasione. Un documento giunto fino ai giorni nostri è il Philogelos (che in greco significa “amante della risata”), la più antica raccolta di barzellette (ben 265). Risale a 1.500 anni fa ed è giunta intatta fino a noi. Alcol, cibo, flirt e risate erano all’ordine del giorno anche nelle serate dell’Iraq medioevale, come racconta Al-Khatib al-Baghdad, un religioso musulmano dell’XI secolo che raccolse in un libro aneddoti, barzellette da raccontare e scherzi da fare nelle feste dell’epoca. E siccome gli imbucati non mancavano neanche qui, per chi si intrufolava senza essere invitato forniva alcune scuse da sfoderare nel caso venisse scoperto. Alla domanda “chi sei tu?” posta dal padrone di casa, suggeriva di rispondere sfacciatamente “quello che ti ha risparmiato la fatica di spedire un invito”.
Nozze a peso d’oro
Il fascino del piede
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u un’unione politica quella tra Annibale Bentivoglio e Lucrezia d’Este voluta dal Signore di Bologna, Giovanni II, e da quello di Ferrara, Ercole I, che non badarono a spese per suggellare l’alleanza tra le due casate. Il banchetto che accompagnò le nozze, celebrate a Bologna il 29 gennaio 1487, fu memorabile. Sontuoso. Il menu, 22 portate, durò sette ore e fu quasi una performance: da castel72
li di zucchero dorato vennero liberati uccelli, conigli e anche un porco pronti per essere catturati tra lo stupore dei commensali. Fra le stranezze anche maialini coperti d’oro e pagnotte dorate. Un banchetto così sfarzoso che oggi lo definiremmo una “cafonata”, ma che passò alla storia, grazie al resoconto di Giovanni Sabadino degli Arienti, come il matrimonio più “dorato” del Rinascimento.
arà vero che quella testa calda di Francis Scott Fitzgerald (1896-1940), autore del Grande Gatsby e di Tenera è la notte, fosse un feticista? La sua segreteria giura di no. E sostiene che questa diceria sia stata alimentata da una sua dichiarazione male interpretata. Di sicuro lo scrittore aveva un rapporto “difficile”, quanto meno, con i suoi di piedi. Si rifiutava di mostrarsi scalzo e si presentava
in spiaggia con calze e scarpe, senza mai toglierle. Fetish. In seguito confessò di provare una morbosa attrazione per i piedi femminili. Forse per esternare questi impulsi ambivalenti descrisse in un passaggio del romanzo Di qua dal paradiso il protagonista come disgustato alla vista dei piedi. Un dettaglio che non è passato inosservato ai suoi biografi, che ci hanno fantasticato sopra molto.
tecnovintage A cura di Eugenio Spagnuolo
1976
La carta per telefonare
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a prima volta di una scheda telefonica fu nel maggio del 1976 a Villa Borghese, a Roma, dove la Sip aveva installato un innovativo telefono a scheda: la tecnologia serviva ad arginare il furto di gettoni telefonici (molto frequente all’epoca). Ci vollero più di 10 anni per adeguare gli apparecchi pubblici e perché le schede si diffondessero in maniera capillare. La scheda, in cartoncino plastificato leggero, aveva una banda magnetica di 13 mm e la scritta in blu: “Carta di credito per apparecchio telefonico a prepagamento”. Vi erano anche riportate le istruzioni per l’uso (in italiano, inglese e francese): d’altronde a quel tempo in Italia non c’erano neppure i bancomat (i primi sarebbero arrivati nel 1983). Sul retro, la raccomandazione di non piegare e non avvicinare la carta a campi magnetici Conviene comprarla? La prima scheda telefonica, prodotta dalla Sida di Montichiari (Bs) e nota anche come Sida Zero, è rarissima: i prezzi per una carta in buone condizioni possono superare i 1.500 euro. Per quanto inutilizzabile è oggetto di collezionismo tra gli appassionati. •
Perle per collezionisti Una scheda telefonica del 1996 con il valore in lire: sul retro trovavano spesso spazio pubblicità di aziende private. Si tratta di una versione molto più recente e meno rara della Sida Zero del 1976 (sopra).
TECNOLOGIA
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Steve Jobs (a 22 anni nella foto), Steve Wozniak e Ronald Wayne fondano a Cupertino in California la Apple Computer Company, col sogno di realizzare e portare in ogni casa un personal computer.
ITALIA Un incidente all’azienda Icmesa causa la fuoriuscita di una nube di diossina, che investe Seveso e altri comuni brianzoli, che vengono evacuati. Si trattò del più grande disastro ambientale italiano.
ARCHIVIO
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DINO FRACCHIA
E NELLO STESSO ANNO...
POLITICA Jimmy Carter sconfigge il repubblicano Gerald Ford e diventa il trentanovesimo presidente degli Stati Uniti d’America, riportando i democratici alla Casa Bianca dopo l’era Nixon.
CINEMA Esce Rocky, scritto e interpretato da Sylvester Stallone, che vincerà anche l’Oscar. Nato come film a basso costo e realizzato in soli 28 giorni, incasserà 225 milioni di dollari e avrà ben 5 sequel. 73
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RACCONTI REALI A cura di Francesco De Leo
Il matrimonio tra il principe Grimaldi e Grace Kelly, star del cinema americano, nel 1956.
La favola di MONACO
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ella notte tra l’8 e il 9 gennaio del 1297, un uomo vestito con il saio dei francescani giunge al posto di guardia della fortezza che i Genovesi hanno costruito sulla Rocca di Monaco ottant’anni prima. Domanda asilo per la notte. Appena riesce a entrare, sguaina una spada da sotto la veste e mette fuori combattimento le sentinelle. Francesco Grimaldi si impadronisce del castello di Monaco. Sette secoli più tardi, la sua famiglia regna ancora sul Principato”. Così lo storico francese Alain Decaux racconta come iniziarono i 720 anni che legano la famiglia dei GRIMALDI al minuscolo Principato di Monaco. Scandali a corte. Per 56 anni il principe sovrano di Monaco fu RANIERI III, e fu anche il più famoso della stirpe, presenza fissa del jet-set. Dal 1949, dopo la sua ascesa al trono, si adoperò per riportare la “Rocca” all’antico splendore. C’era infatti da rimediare agli scandali finanziari che avevano coinvolto sua madre, la PRINCIPESSA CHARLOTTE. Ranieri riuscì a far dimenticare quelle pagine oscure della storia monegasca grazie a un’attrice e a un matrimonio che sembrò a molti una favola. Amore al primo sguardo. Il 6 maggio 1955 la diva più fotografata e ammirata dell’epoca, annoiata da ricevimenti e conferenze stampa, fingendosi una semplice turista decise di sfuggire ai paparazzi e recarsi a Monaco. Era l’americana GRACE KELLY, nata a Filadelfia, ma con un portamento regale e una bellezza glamour alla quale era difficile resistere. Dopo aver visitato il Museo Oceanografico, l’automobile che l’accompagnava puntò al Palazzo del principe. Durante la visita, in un corridoio del palazzo, incrociò il sovrano: secondo la leggenda fu un caso. Difficile crederlo. Comunque tra i due fu amore a prima vista. Ranieri cominciò da allora a scriverle lettere d’amore e accettò poi l’invito della famiglia Kelly a trascorrere il Natale a Filadelfia, dove Grace annunciò alla stampa che l’avrebbe sposato. L’anno dopo quella coppia, che aveva permesso al più piccolo Paese del mondo di raggiungere una fama internazionale, celebrò il suo matrimonio civile nello stesso palazzo del primo incontro, e lo consacrò il mattino seguente nella Cattedrale di Monte Carlo. La stampa lo definì “il matrimonio del secolo”. Ombre lunghe. La favola di Grace, che aveva lasciato Hollywood per amore di un principe e che aveva incantato il mondo, sarebbe terminata tragicamente il 14 settembre 1982. Un terribile incidente automobilistico spezzò la vita della principessa di Monaco e la felicità di Ranieri. Qualcuno, che forse non voleva credere alla fine di quel sogno, ancora oggi, ha più di un dubbio sulla reale dinamica di quell’incidente. C’è chi ha parlato di omicidio, chi di “lati oscuri” della principessa. • 74
CHI? DOVE? QUANDO? I GRIMALDI I Grimaldi sono un’antica, illustre famiglia di origine genovese che regna sul principato di Monaco dal XIV secolo.
PRINCIPATO DI MONACO È una monarchia costituzionale ereditaria. Il potere legislativo spetta al principe e al Consiglio nazionale, eletto ogni 5 anni.
13 SETTEMBRE 1982 La principessa Grace e la figlia Stephanie sono coinvolte in un incidente automobilistico. Stephanie riuscì a uscire dalla vettura precipitata in una scarpata. Grace, in coma, morì 36 ore dopo: aveva 52 anni. Ranieri III in una foto giovanile. Dalla sua morte, nel 2005, regna il figlio Alberto.
RUE DES ARCHIVES/MONDADORI PORTFOLIO
Storie segrete, curiose e dimenticate dalle cronache delle grandi e piccole monarchie, attraverso i secoli: Ranieri III Grimaldi e la moglie Grace.
iniziative
BATTAGLIE DA RIVIVERE VOL. III
1940-1990 DAL NAZISMO A SADDAM
IN EDICOLA A € 9,90
È in edicola il terzo volume della collana dedicata alle grandi battaglie: la Seconda guerra mondiale e il Dopoguerra.
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al nazismo a Saddam Hussein: è questo il periodo che si affronta nel terzo volume della collana dedicata alle grandi battaglie della Storia. Attraverso una selezione dei migliori articoli pubblicati su Focus Storia e su Focus Storia Wars il libro ripercorre gli scontri della Seconda guerra mondiale e i principali conflitti regionali del Dopoguerra. Guerra totale. Dal punto di vista storico quelli tra il 1940 e il 1990 sono stati decenni di tragedie personali di enorme portata, che hanno coinvolto, come mai in precedenza, anche le popolazioni civili. E la guerra, da allora, è cambiata radicalmente, passando dai fanti agli arsenali nucleari in una manciata di anni. Dalla campagna in Nord Africa al Viet Nam, da Iwo Jima al conflitto dei Sei giorni, fino alla Prima guerra del Golfo, vi raccontiamo le tappe di quei decenni fatti di sacrifici e di eroismo. •
Guerra calda
CORBIS
Truppe delle Nazioni Unite (americani) per le vie di Seoul, durante la Guerra di Corea (1950-1953).
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domande & risposte
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Queste pagine sono aperte a soddisfare le curiosità dei lettori, purché i quesiti siano di interesse generale. Non si forniscono risposte private. Scrivete a Focus Storia, via Battistotti Sassi 11/a, 20133 Milano o all’e-mail redazione@focusstoria.it
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Quando è stata combattuta la prima guerra della Storia? Domanda posta da Edoardo Barbieri.
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lmeno diecimila anni fa, secondo quanto emerge da una scoperta recente. Nel sito di Nataruk, vicino al lago Turkana, in Kenya, nel 2016 gli archeologi e gli antropologi dell’Università di Cambridge e del Turkana Basin Institute di Nairobi hanno trovato i resti di 27 individui vissuti nell’8000 a.C. Sterminio di massa. I corpi non furono sepolti, ma erano rimasti così come erano morti in quella che all’epoca era una laguna, i cui sedimenti hanno conservato le ossa. Si tratta di 21 adulti (compresa una donna incinta) e di 6 bambini. Secondo gli studiosi, il gruppo fu
I resti di un massacro avvenuto circa 10mila anni fa, ritrovati in Kenya (2016).
vittima di un massacro deliberato. Segni di lesioni da frecce sul collo; proiettili di pietra penetrati nel cranio e nel torace; traumi agli zigomi dovuti a percosse fatte con un corpo contundente; mani, ginocchia e costole spezzate. Almeno dieci dei dodici scheletri ricostruibili presentavano questi evidenti segni di morte violenta. I corpi erano stati deposti a faccia in giù e probabilmente avevano le mani legate dietro la schiena. Secondo gli studiosi si tratta della prima prova scientifica di un attacco armato da parte di un gruppo rivale. (a. b.)
Cosa accadde in Italia tra il 5 e il 14 ottobre 1582? Domanda posta da Leonardo Benedetti.
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Riforma del calendario. Il papa allora incaricò alcuni esperti di studiare una riforma per porre rimedio a questo problema, poiché sapeva
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roprio niente. Per una volta nella Storia gli italiani dormirono 10 giorni: andarono a letto la sera del 4 ottobre e si svegliarono la mattina del 15. Non fu una magia: quel giorno entrò in vigore la riforma del calendario voluta da papa Gregorio XIII. Il problema era adattarlo al corso delle stagioni. Con il calendario precedente (detto giuliano da Giulio Cesare) si verificava infatti una sfasatura dell’equinozio di primavera rispetto alla data prevista: il primo giorno di primavera cadeva astronomicamente l’11 di marzo, anziché il 21 marzo come previsto dal calendario.
che con il passare degli anni la forbice si sarebbe allargata. Nacque così il calendario gregoriano, tuttora in uso. Bisognava però fare un’ultima operazione: per pareggiare la differenza tra calendario e stagioni già accumulatasi nel tempo, era necessario eliminare i 10 giorni in eccesso. La scelta ricadde sul periodo 4-15 ottobre. I Paesi cattolici si allinearono subito, per gli altri ci volle più tempo. (a. b.)
Papa Gregorio XIII, artefice del calendario gregoriano (XVI secolo).
Ritratto del compositore Charles-François Gounod, che ha scritto l’inno pontificio in uso dal 1950. Sullo sfondo: San Pietro alla fine del XIX secolo.
Il Vaticano ha un inno nazionale?
Chi sono le vergini giurate?
Domanda posta da Valeria Leone.
Domanda posta da Matteo Testa.
lo Stato della Città del Vaticano il cui inno era però ancora la marcia di Hallmayr. Per volere del pontefice Pio XII, la marcia di Gounod fu eseguita per la prima volta come inno ufficiale il 24 dicembre del 1949 e poi ripetuta all’apertura dell’Anno Santo del 1950. •
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n albanese si chiamano burrnesha e sono donne che hanno fatto voto di castità pur di aver gli stessi diritti (tranne quello di potersi fare una famiglia) degli uomini. È una pratica antica in uso in alcuni Paesi balcanici, soprattutto in Albania e Kosovo, e risale al XVI secolo. Il Kanun, l’arcaico codice di comportamento locale, stabiliva infatti che le donne maritate fossero proprietà dei mariti e che il loro posto fosse esclusivamente all’interno delle mura domestiche. Non potevano lavorare, portare armi né avere proprietà. Motivo per cui alcune decidevano di diventare burrnesha. Ma poteva anche succedere che la scelta fosse dettata dalla necessità, per esempio quando, in mancanza di uomini, ci voleva un capofamiglia. Come un uomo. Le vergini giurate potevano fumare e bere alcolici, ma dovevano indossare abiti maschili e portare capelli corti, per assomigliare il più possibile agli uomini. Dovevano inoltre rinunciare alla vita di coppia, ai figli e a qualsiasi forma di vita sentimentale. Tutto avveniva in una notte: giuravano davanti ai 12 capi clan e ottenevano lo status sociale di burrnesha. Oggi la tradizione è quasi del tutto scomparsa e le poche vergini giurate ancora in vita sono anziane. (m. l.)
Matteo Giorgi
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la Santa Sede, sostituendo la Marcia trionfale dell’austriaco Vittorino Hallmayr. Fine dell’autonomia. Il proposito del papa tuttavia non si realizzò poiché la presa di Roma nel 1870 determinò la fine dello Stato della Chiesa e dei suoi simboli. Solo nel 1929, con i Patti lateranensi, venne poi costituito
ALINARI
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inno nazionale del Vaticano è la Marcia pontificale, del francese Charles-François Gounod, la cui istituzione risale al 1950, anno del ventiquattresimo Giubileo. In realtà la marcia fu suonata per la prima volta l’11 aprile 1869, in onore di papa Pio IX, che pensò di renderla l’inno ufficiale del-
Una delle poche burrnesha rimaste in Albania. La tradizione, tipica dei Balcani, è ormai scomparsa. 77
SETTECENTO
LA PRIGIONIERA
BAMBINA
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L’agonia della famiglia reale francese negli anni della Rivoluzione vista con gli occhi di una teenager d’eccellenza: Maria Teresa, l’unica sopravvissuta
Vendetta popolare
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aria Teresa varcò la porta della prigione del Tempio il 13 agosto 1792, non ancora quattordicenne. Fosse stata una semplice teenager non si sarebbe trovata in quella condizione, ma era la primogenita di Luigi XVI e di Maria Antonietta e il popolo voleva la loro testa. Tutta la famiglia fu incarcerata, compreso il fratello Luigi, di sette anni, e la zia Elisabetta (sorella del re). Nei tre anni che seguirono, la principessa li vide portare via uno dopo l’altro, senza sapere quale sarebbe stata la loro sorte. Solo suo fratello rimase alla prigione del Tempio, come lei, e morì in una cella senza poter comunicare con nessuno. C’era di che impazzire, ma Maria Teresa era forte
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L’irruzione del popolo nel palazzo delle Tuileries. A sinistra, Maria Teresa ritratta bambina, quando ancora non immaginava che avrebbe assistito impotente alla morte dei suoi famigliari più stretti.
e riuscì ad andare avanti, sfogando il dolore nel suo diario. Ma cosa era successo nei giorni precedenti al suo arresto? AssAlto Al pAlAzzo. Il 10 agosto 1792 fu una delle giornate più drammatiche della Rivoluzione francese. La tensione a Parigi era alle stelle, il popolo, munito di bastoni, forconi e asce, si unì alle truppe di volontari armati e riuscì a impadronirsi delle Tuileries. Fu un bagno di sangue, le guardie svizzere che erano a difesa del palazzo vennero massacrate, i rivoluzionari rubarono il possibile e distrussero il resto, lanciando i mobili dalle finestre, rompendo specchi e lacerando preziosi tessuti. Di fatto, quella giornata segnò la caduta della monarchia. I sovrani si salvarono a stento,
rifugiandosi nell’Assemblea Nazionale, lì accanto. Ma tre giorni dopo vennero tutti arrestati e condotti alla prigione del Tempio, una fortezza di origine medioevale di cui oggi non resta più nulla (la fece demolire Napoleone nel 1808). La famiglia reale non dormiva per terra su giacigli di paglia con le catene ai piedi; anzi, nei primi anni, godette di un trattamento di riguardo, che tuttavia, col passare del tempo, si fece gradualmente sempre più severo. Al suo arrivo, gli ambienti della grande torre antica furono ristrutturati per renderli più vivibili e poi arredati con mobili più che dignitosi. Nel frattempo, i Borboni si sistemarono per un paio di mesi nella piccola torre. E fu lì che, dopo circa tre settimane dal lo79
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Giorni disperati
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A sinistra, la famiglia reale al completo rinchiusa nella prigione del Tempio nel 1792. Sotto, il principino sul letto di morte. Il piccolo Luigi, abbandonato a se stesso, perse la vita a soli dieci anni, l’8 giugno 1795, dopo otto giorni di febbre.
La prigionia dorata dei reali di Francia, fatta di champagne e posate d’argento, venne bruscamente interrotta dalla prima condanna a morte, quella del re. Poi seguirono le altre. Solo Maria Teresa sopravvisse ro arrivo, i reali si resero conto fino a che punto potesse arrivare l’odio e la violenza del popolo. La prima testa. Maria Luisa di Lamballe, principessa di origine italiana, era una delle dame più vicine a Maria Antonietta. Il 3 settembre 1792, più o meno alle 3 del pomeriggio, il re e la regina sentirono delle grida e il rullio di tamburi sotto le loro finestre. Subito la guardia corse a chiudere le tende in modo che i prigionieri non potessero vedere. Il re chiese spiegazioni e un giovane ufficiale rispose: “Signore, poiché lo volete sapere, è la testa di Madame de Lamballe che vi si vuole mostrare”, scrisse Maria Teresa nel suo diario. Maria Antonietta quasi svenne. Il popolo esaltato fece il giro della torre del Tempio con la testa della principessa Lamballe su un’asta, poi proseguì la sua marcia con il macabro trofeo, portando con sé anche il corpo martoriato della poveretta, a cui avevano estratto il cuore e le viscere. Dopo poco meno di due mesi tutta la famiglia si trasferì nella grande torre. Il re e il delfino Luigi erano sistemati al secondo piano, in un appartamento composto da quattro locali. Al terzo piano c’era invece quello della regina, con la figlia Ma80
ria Teresa e la sorella Elisabetta. Nella sala da pranzo c’era un grande tavolo ovale. Qui la famiglia si riuniva per i pasti, al muro era appeso un orologio a pendolo e, in un angolo, il clavicembalo di Maria Antonietta, ormai scordato. Ma l’apparente normalità degli appartamenti non deve ingannare, le finestre avevano le sbarre e l’accesso, sia al secondo piano sia al terzo, era bloccato da due porte presidiate da gendarmi. All’interno, poi, c’era sempre qualcuno che sorvegliava. La vita quotidiana. Le giornate passavano lentamente, ma tutti si sforzavano di tenersi occupati. Maria Teresa racconta alcuni particolari di una giornata tipo: “Mio padre insegnava a mio fratello la geografia, mia madre la storia e le poesie, mia zia la matematica”. Anche Maria Teresa faceva esercizi e scriveva dei temi, “ma c’era sempre un gendarme che guardava da dietro le mie spalle, credendo che si trattasse di congiure”. Il re aveva a disposizione dei libri da leggere, mentre Maria Antonietta si dedicava al ricamo e la zia, religiosissima, alle preghiere. A mezzogiorno facevano una passeggiata tutti insieme nel giardino fino alle due, poi pranzavano.
La tavola era apparecchiata con piatti di porcellana e posate d’argento, il cibo e il vino (compreso lo champagne) erano abbondanti, anche se “non tutto è consumato dai detenuti, che sono molto sobri”, si legge nei processi verbali della Comune di Parigi, in cui si precisa che dal 13 agosto al 31 ottobre 1792 il personale di servizio in cucina era costituito da 13 persone, tra chef, pasticcieri, addetti agli arrosti e a mansioni varie. a morte iL re (e La regina). Ma gli eventi precipitarono rapidamente: Luigi XVI fu processato, giudicato colpevole di alto tradimento e condannato a morte. L’addio alla famiglia, riunita nell’appartamento del re, fu straziante. Erano circa le otto di sera del 20 gennaio 1793: “Per quasi mezz’ora non fu articolata parola, non erano solo lacrime e singhiozzi, ma grida così penetranti che potevano essere udite fuori dalle mura della torre”, racconta l’abate Edgeworth, confessore del re, che assistette alla scena. Il re fu decapitato il giorno dopo, lunedì 21 gennaio alle dieci e dieci del mattino. I controlli per qualche tempo si fecero meno pressanti, poi, improvvisamente, il 3 luglio 1793 le guardie vennero a prelevare il piccolo Luigi per portarlo nell’ap-
SCALA (2)
Il piccolo Luigi viene strappato alla madre dai rivoluzionari.
La fiera degli orrori Il massacro della principessa di Lamballe, dipinto nel 1908 da Léon-Maxime Faivre. Fu uno degli episodi più raccapriccianti della Rivoluzione. La donna, dopo essere stata denudata e violentata, fu decapitata.
RMN/ALINARI
Il doloroso addio di Luigi XVI alla sua famiglia, in un dipinto dell’800.
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La seconda (e infelice) vita della principessa
L
a liberazione della principessa Maria Teresa fu un evento che commosse l’Europa intera, per tutti era l’orfanella del Tempio, una martire della rivoluzione. Esilio perpetuo. Fu subito portata a Vienna dagli Asburgo, parenti della madre, che la trattennero a corte tre anni. Ma fu solo la prima tappa di una vita passata quasi sempre in esilio per l’Europa. Nel 1799 sposò suo
cugino, il duca d’Angoulême, senza sapere che era impotente. Si rassegnò, ma cambiò carattere, divenne dura, brusca, incapace di mostrare i suoi sentimenti, una difesa dopo tanta sofferenza. Eroina di Francia. Ebbe molta influenza durante la Restaurazione del 1814, che portò sul trono suo zio Luigi XVIII e nei cento giorni di Napoleone dimostrò grande coraggio con la sua appas-
sionata difesa di Bordeaux. Lo stesso Napoleone le riconobbe di essere “il solo uomo della sua famiglia”. Ma già dal 1814 Maria Teresa non godeva più della popolarità di una volta, anche per il suo strenuo appoggio a una monarchia del tutto anacronistica. Morì nel 1851, alla veneranda età di 72 anni, e riposa nel monastero di Nova Gorica in Slovenia, accanto a suo marito.
I cento giorni L’eroina di Bordeaux di Antoine-Jean Gros (1819). In occasione della difesa della città francese, Napoleone definì Maria Teresa “l’unico uomo della famiglia dei Borbone”.
LEEMAGE/MONDADORI PORTFOLIO
partamento più sicuro della torre, da solo. I rivoluzionari erano consapevoli che, agli occhi dei monarchici, ora era lui il successore al trono. Dopo qualche giorno, il 2 agosto 1793, le tre donne vennero svegliate di soprassalto dalle guardie, venute a prendere Maria Antonietta per condurla alla prigione della Conciergerie, in vista del processo. La regina abbracciò la figlia, raccomandandole di avere coraggio e fu portata via. “Mia zia e io, inconsolabili, passammo la notte piangendo”, annota Maria Teresa, convinta che non l’avrebbe più vista, e fu così. PrinciPino Plagiato. Luigi venne affidato ad Antoine Simon, un ciabattino ubriacone che aveva il compito di fargli dimenticare le sue origini reali e, con le buone o con le cattive maniere, indurlo a testimoniare contro Maria Antonietta, per mandarla al patibolo. Il bambino si rifiutò a lungo. Ma alla fine firmò un documento in cui accusava la madre di pratiche incestuose. La sorella e la zia lo sentivano cantare alla finestra l’inno rivoluzionario della Marsigliese e della Carmagnola, con l’aggiunta di bestemmie e insulti verso la sua famiglia e gli aristocratici. Il che dimostrava l’efficacia del cosiddetto “sistema Simon”, che, oltre a prevedere di far ubriacare il ragazzo, comprendeva anche imporgli esperienze sessuali con prostitute. Nel gennaio 1794 Simon se ne andò e per sei mesi nessuno entrò nella cella del principe, se non per il tempo strettamente necessario a lasciargli del cibo. Nessuno portava via la spazzatura o apriva la finestra e l’odore nella stanza era insopportabile. “Pulci e zecche lo ricoprivano, la sua biancheria e la sua persona ne era piena”, aggiunge la so-
Il processo-farsa alla regina
SCALA
Maria Teresa, detta anche Madame Royale, fu liberata il giorno del suo diciassettesimo compleanno. Ma l’esperienza vissuta la segnò per sempre
I
niziò il 14 ottobre 1793 e durò due giorni. I suoi avvocati d’ufficio, avvisati quasi all’ultimo, ebbero appena il tempo di scorrere l’insieme confuso e voluminoso dei faldoni. La regina era seduta su una panca, quasi irriconoscibile: aveva solo 38 anni, ma, con i capelli bianchi e il volto emaciato, ne dimostrava molti di più. Tre erano i principali capi d’accusa: aver dilapidato il tesoro nazionale, intrattenuto contatti e corrispondenza con il nemico (Austria e filo monarchici) e aver cospirato contro la sicurezza nazionale. Ma i testimoni, tutti dell’accusa, non portarono prove schiaccianti a carico della regina, che si difese con forza, senza venire mai sorpresa a mentire. Calunnia. Venne accusata anche di incesto in base a una dichiarazione estorta al figlio Luigi. Indignata, dapprima la regina rimase immobile, senza aprire bocca, poi si alzò in piedi ed esclamò: «Se non ho risposto, è perché la natura stessa si rifiuta di rispondere a una simile accusa rivolta a una madre. Mi appello a tutte le madri che sono presenti!». Queste parole commossero le popolane che assistevano, ma non cambiarono la sorte della regina, già condannata ancora prima di iniziare il processo.
rella. Quando finalmente un medico lo visitò, era ormai troppo tardi. Luigi morì a dieci anni, l’8 giugno 1795, dopo otto giorni di febbre. il turno di ElisabEtta. Anche le condizioni di Maria Teresa e della zia erano molto cambiate rispetto al passato, la porcellana e l’argenteria erano ormai solo un lontano ricordo e nella primavera del 1794 alle due vennero tolte anche candele e matite. Il 9 maggio, infine, un ufficiale venne a prendere anche la zia, per condurla in tribunale per il processo. Maria Teresa rimase così completamente sola. Ed è probabilmente in quelle tragiche ore che con un ago incise dei graffiti sul muro dell’anticamera: “Maria Teresa è la più infelice persona al mondo”. Non riuscì mai a ottenere notizie sui componenti della sua famiglia, nonostante le avesse chieste più e più volte.
J’accuse! La regina ascolta l’atto d’accusa, in un dipinto inglese di fine Ottocento.
arriva la grazia. Dopo la morte di Robespierre nel novembre 1794, la vita della prigioniera gradualmente migliorò. Il popolo era stanco di violenza, non avrebbe tollerato che anche Maria Teresa finisse come il resto della sua famiglia. Le venne assegnata una dama di compagnia, Renée de Chanterenne, che la principessa chiamava affettuosamente Renette. Sarà proprio lei a rivelarle la sorte di sua madre, di sua zia e di suo fratello. Nessuno, fino a quel momento, per pietà o per ordini precisi, aveva mai voluto rispondere alle sue domande. Fu liberata di notte, il 19 dicembre 1795, giorno del suo diciassettesimo compleanno. Per lei iniziava una nuova vita (vedi riquadro pagina accanto), ma quei tre anni di prigionia condizionarono tutta la sua esistenza. • Silvia Büchi 83
DISASTRI
TERREMOTI D’ITALIA Dall’antichità romana ad Amatrice, dal Friuli a Messina, i sismi che hanno segnato la storia del nostro Paese.
Magnitudo fino a 6 Richter Magnitudo fino a 7 Richter Magnitudo oltre 7 Richter
03.01.1117 VERONA 6.5 Fu il terremoto più devastante di tutti i tempi nel Nord Italia. Vittime: tra le 20 e le 30mila.
217 a.C. ITALIA CENTRALE 6.5 Fu il terremoto più antico di cui si abbia notizia in Italia: lo registrarono le cronache della Seconda guerra punica.
14.01.1703 ITALIA CENTRALE 6.6 Il sisma distrusse i comuni colpiti anche dal terremoto del 2016. Tra i paesi rasi al suolo, Accumoli, Amatrice e i centri della Valnerina. Vittime: 10mila.
06.05.1976 15.09.1976 FRIULI 6.4 I comuni colpiti furono quasi un centinaio, nella zona di Udine. Vittime: circa 1.000, 45mila senzatetto.
06.04.2009 L’AQUILA 6.3 Il centro storico, completamente distrutto, fu evacuato. Vittime: 308, 50mila senzatetto.
23.11.1980 IRPINIA 6.9 Colpita una vasta area (Campania, Basilicata e Puglia). La ricostruzione avvenne tra scandali e speculazioni. Vittime: 3mila, 250mila senzatetto.
24.08.2016 CENTRO ITALIA 6.0 Epicentro ad Accumoli; seguito da un lungo sciame sismico e da un nuovo evento il 26 ottobre. Vittime: 299.
05.12.1456 ABRUZZOMOLISE-CAMPANIA 7.1 Sisma tra i più forti di tutti i tempi in Italia. Vittime: tra le 20mila e le 30mila.
11.01.1693 SICILIA ORIENTALE 7.4 Rase al suolo molte città della Sicilia, tra cui Modica e Noto. Vittime: 60mila, di cui 16mila soltanto a Catania.
28.12.1908 STRETTO DI MESSINA 7.1 Distrusse Messina e Reggio Calabria e fu seguito da uno tsunami. Vittime: 80-100 mila.
21.07.365 d.C. SICILIA 8.0 Fu tra i più potenti sismi di sempre in Europa. L’epicentro fu a Creta e seguì uno tsunami che investì le coste siciliane.
217 a.C. Italia Centrale 174 a.C. Sabina 100 a.C. Marche 91 a.C. Reggio Calabria 76 a.C. Centro Italia 56 a.C. Marche 05.02.62 Campania 25.08.79 Campania 99 Sannio 101 Abruzzo 346 Sannio
6.5 6.6 5.8 6.3 6.6 5.8 5.8 5.7 6.3 6.3 6.0
361-363 Stretto di Messina 6.6 21.07.365 Sicilia 8.0 375 Benevento 6.0 443 Roma 5.7 778 Veneto 5.8 848 Sannio 6.0 31.08.853 Messina 6.3 951 Rossano (Cs) 6.0 25.10.989 Irpinia (Av) 6.0 03.01.1117 Verona 6.5 07.06.1125 Siracusa 5.8 11.10.1125 Sannio 5.7 04.02.1169 Sicilia Orientale 6.6 24.05.1184 Valle Crati 6.0 25.12.1222 Brescia 6.0 1223 Gargano 6.0 1273 Potentino 5.8
01.05.1279 Marche-Umbria 04.09.1293 Sannio 01.12.1298 Reatino 03.12.1315 Abruzzo 01.12.1328 Valnerina
6.3 5.9 5.9 6.0
6.3 09.09.1349 Lazio-Molise-Abruzzo 6.6 25.12.1352 Val Tiberina 6.0 17.07.1361 Foggiano 6.0 18.10.1389 Alta Val Tiberina 6.0 1414 Gargano 5.8 07.08.1414 Toscana 5.6 11.06.1438 Parmense 5.6 05.12.1456 Abruzzo-MoliseCampania 7.1 26.04.1458 Val Tiberina 5.8 27.11.1461 Aquilano 6.4 15.01.1466 Irpinia (Av) 6.0 07.05.1481 Lunigiana 5.6 11.08.1483 Romagna 5.7 05.06.1501 Appennino modenese 5.9 25.02.1509 Calabria 5.6 26.03.1511 Friuli-Slovenia 6.5 13.06.1542 Mugello (Toscana) 5.9 10.12.1542 Siracusano 6.6 11.05.1560 Barletta 5.6 19.08.1561 Vallo Di Diano 6.4 20.07.1564 Alpi Marittime 5.9 10.09.1584 Romagna 5.9 06.11.1599 Valnerina 5.8
18.03.1624 Argenta (Fe) 04.04.1626 Catanzarese 30.07.1627 Gargano
5.5 6.0
6.7 27.03.1638 Calabria Tirrenica 7.0 08.06.1638 Crotonese 6.7 07.10.1639 Monti Della Laga 5.9 31.05.1646 Gargano 6.6 23.07.1654 Frusinate 6.1 29.01.1657 Gargano 6.3 05.11.1659 Calabria 6.5 22.03.1661 Romagna 5.8 14.04.1672 Rimini 5.6 11.04.1688 Romagna 5.8 05.06.1688 Sannio 6.7 09.01.1693 Val di Noto (Sicilia) 6.1 11.01.1693 Sicilia Orientale 7.4 08.09.1694 Irpinia e Lucania 6.8 25.02.1695 Veneto 6.6 11.06.1695 Lago di Bolsena 5.7 14.03.1702 Beneventano 6.3 14.01.1703 02.02.1703 Italia Centrale 6.6 03.11.1706 Majella (Abruzzo) 6.6 12.05.1730 Umbria-Marche 5.8 20.03.1731 Foggiano 6.3 29.11.1732 Irpinia (Av) 6.6 24.04.1741 Marche 6.0 20.02.1743 Salento (Puglia) 7.0 07.12.1743 Calabria 5.7
17.04.1747 Umbria-Marche 27.07.1751 Umbria-Marche 06.10.1762 Aquilano 14.07.1767 Cosentino 19.10.1768 Romagna 10.07.1776 Carnia (Ud) 04.04.1781 Romagna 03.06.1781 Marche 05.02.1783 Calabria 07.02.1783 Calabria 28.03.1783 Calabria
5.9 6.3 5.9 5.8 5.8 5.8 5.9 6.2 6.9 6.5
6.9 10.03.1786 Golfo di Patti (Me) 6.0 25.12.1786 Romagna 5.7 30.09.1789 Val Tiberina 5.8 13.10.1791 Calabria Centrale 5.9 07.06.1794 Carnia (Ud) 6.0 22.10.1796 Emilia 5.6 28.07.1799 Marche 5.9 12.05.1802 Valle dell’Oglio (Cr) 5.6 26.07.1805 Molise 6.5 26.08.1806 Colli Albani (Lazio) 5.5 02.04.1808 Val Pellice (Piemonte) 5.7 25.10.1812 Friuli 5.7 20.02.1818 Area etnea (Sicilia) 6.0 05.03.1823 Cefalù (Pa) 5.9 01.02.1826 Basilicata 5.7 09.10.1828 Valle Staffora 5.7 13.01.1832 Umbria 6.1 08.03.1832 Crotone 6.5
12.10.1835 Cosentino 25.04.1836 Calabria 20.11.1836 Basilicata 11.04.1837 Alpi Apuane 14.08.1846 Monti Pisani 14.08.1851 Basilicata 12.02.1854 Cosentino 29.12.1854 Mar Ligure 16.12.1857 Basilicata 04.10.1870 Cosentino 12.03.1873 Marche 29.06.1873 Bellunese 17.03.1875 Romagna 06.12.1875 Puglia 28.07.1883 Ischia 23.02.1887 Liguria 07.06.1891 Val d’Illasi (Vr) 16.11.1894 Calabria 30.10.1901 Salò (Bs)
5.9 6.1 5.9 5.7 5.8 6.3 6.1 5.8 6.9 6.1 5.9 6.3 5.8 6.0 5.7 6.3 5.7 6.0
5.7 24.02.1904 Marsica (Abruzzo) 5.6 08.09.1905 Calabria 6.9 23.10.1907 Calabria Ionica 5.9 28.12.1908 Stretto di Messina 7.1 07.06.1910 Irpinia (Av) 5.8 27.10.1914 Lucchesia (Lu) 5.8 13.01.1915 Marsica (Abruzzo) 7.0 17.05.1916 Romagna 5.8 16.08.1916 Romagna 5.9 26.04.1917 Val Tiberina 5.9
10.11.1918 Appennino (Romagna) 5.8 29.06.1919 Mugello (Toscana) 6.1 07.09.1920 Lunigiana-Garfagnana 6.4 07.03.1928 Calabria Centrale 5.8 27.03.1928 Carnia (Ud) 5.8 23.07.1930 Vulture-Irpinia 6.7 30.10.1930 Senigallia (An) 5.9 26.09.1933 Majella (Abruzzo) 5.7 18.10.1936 Cansiglio (Veneto) 6.0 03.10.1943 Marche 5.9 11.05.1947 Calabria 5.7 05.09.1950 Gran Sasso 5.7 21.08.1962 Irpinia (Av) 6.2 15.01.1968 Valle Del Belice 6.1 06.05-15.09.1976 Friuli 6.4 15.04.1978 Golfo Di Patti (Me) 6.0 19.09.1979 Valnerina 5.9 23.11.1980 Irpinia 6.9 07.05.1984 Abruzzo 5.9 05.05.1990 Basilicata 5.8 13.12.1990 Augusta (Sr) 5.7 26.09.1997 Umbria-Marche 6.0 09.09.1998 Pollino 5.7 06.09.2002 Palermo 5.8 31.10.2002 Molise 5.7 26.10.2006 Tirreno Meridionale 5.6 06.04.2009 L’Aquila 6.3 20-29.05.2012 Emilia 6.0 24.08.2016 Centro Italia 6.0 85
STORIE D’ITALIA BOLOGNA
Edgardo Mortara era ebreo, ma fu battezzato all’insaputa dei suoi genitori. Così venne sottratto alla famiglia da Pio IX. E divenne prete.
IL BAMBINO
RAPITO DAL PAPA
A. MOLINO
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portato in un luogo segreto, nonostante le proteste dei genitori e dell’intera comunità ebraica, molto rispettata in una Bologna che più di ogni altra città papalina mal tollerava l’ingerenza del Vaticano. Ai tempi una legge vietava ai cristiani di lavorare in casa degli ebrei e viceversa. Ma molte famiglie povere mandavano le figlie a servizio delle famiglie israelite: svolgevano le mansioni più umili, accudivano i bambini e lavoravano durante lo shabbath quando, dal tramonto del venerdì, agli ebrei era proibito accendere le lampade e il fuoco per riscaldarsi o cucinare. In casa Mortara, dove i figli erano 8, tutti in tenera età, lavorava da tempo Anna (Nina) Morisi, una giovane di San Giovanni in Persicelo che all’epoca aveva circa 15 anni. Anna era affezionata ai piccoli Mortara, e soprattutto a Edgardo. Quando il bimbo si ammalò gravemente da piccolo, Anna, dietro consiRES
F
iniva un’era. I vecchi regimi fatti di ducati, granducati, regni sabaudi e borbonici, avamposti austriaci e Stato Pontificio stavano per scomparire dalla penisola italiana nello scontro con gli eredi dell’Illuminismo e della Rivoluzione francese. In questo clima, il papa Pio IX era sovrano di un territorio che si stendeva da Roma verso nord, lungo il Granducato di Toscana fino a Bologna. Ed è proprio a Bologna, in una serata estiva, che si consumò la tragedia del rapimento di un bambino di 6 anni, Edgardo Mortara. I fattI. Era il 23 giugno del 1858 quando il maresciallo Lucidi bussò alla porta di Momolo Mortara, un piccolo commerciante ebreo che viveva nel centro storico di Bologna. “Mi spiace il dirlo: loro sono vittima di un tradimento. Il loro figlio Edgardo è stato battezzato e io ho l’ordine di condurlo meco”. Fu così che Edgardo venne sottratto alla famiglia e
In nome del Papa Re Nel disegno, la straziante scena in cui un maresciallo porta via dalla sua casa di Bologna il piccolo Edgardo Mortara, per consegnarlo alle autoritĂ ecclesiastiche papaline. A sinistra, Pio IX (1792-1878).
RES (3)
All’inizio il bimbo recitava le preghiere ebraiche, prima di dormire. Poi il condizionamento fu tale che temeva di essere forzato a tornare in famiglia glio di un fornitore della famiglia, lo battezzò in segreto: pensava che il sacramento potesse salvarlo. Edgardo guarì e più avanti Anna lasciò la famiglia per sposarsi e tornare al paese. Non è chiaro come il segreto fu scoperto: forse confidenze fra amiche, forse una confessione al prete. Le proteste. Anni dopo la faccenda arrivò al Sant’Uffizio di Bologna. La ragazza venne convocata dall’Inquisitore e tra le lacrime raccontò l’accaduto. Questo bastò per far valere la legge dello Stato Pontificio, che prevedeva l’obbligo di impartire un’educazione cattolica a tutti i battezzati. La Chiesa proibiva il battesimo dei bambini di famiglie non cattoliche, ma ammetteva che il sacramento potesse essere amministrato, anche contro il volere dei genitori, in punto di morte. Un cristiano non poteva essere allevato secondo il credo degli ebrei, quindi Edgardo doveva essere allontanato dalla famiglia ed educato secondo la dottrina cattolica. A nulla valsero i tentativi della comunità ebraica di convincere l’inquisitore e i più alti prelati bolognesi a restituire il bambino: neppure la scoperta che il battesimo “era stato compiuto da una ragazza di solo 15 anni su un bambino non in vero pericolo di vita, utilizzando l’acqua del secchio, quindi senza sapere quello che importasse l’atto, senz’avere le qualità volute dalla Chiesa e forse solo per scherzo”. Pio 88
IX si assunse in prima persona la responsabilità del rapimento e difese l’operato del Sant’Uffizio. La famiglia Mortara, disperata, si rivolse alla comunità ebraica di Roma, ma la notizia correva di ghetto in ghetto, compresi quelli più emancipati del Regno di Sardegna. E mentre la comunità romana restò muta come d’abitudine, per non turbare equilibri e privilegi, altrove gli ebrei protestarono. In Piemonte, unico Stato dove la comunità israelitica godeva di diritti costituzionali di base, vi fu un dissenso pubblico. Ma fu soprattutto la comunità ebraica internazionale a mobilitarsi, portando il caso fuori dall’Italia. In Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti gli ebrei erano infatti liberi di organizzarsi pubblicamente. A Parigi l’episodio fu lo spunto per la nascita dell’Alleanza Israelitica Universale. QuaLi diritti umani? Il caso Mortara diffuse l’immagine di uno Stato Pontificio anacronistico e irrispettoso dei diritti umani, suscitando una valanga di proteste. Non solo. L’incresciosa vicenda fu sfruttata da tutti i governi, da Cavour a Bismarck allo stesso Napoleone III, per gettare discredito sulla Chiesa cattolica e su Pio IX. Ma niente riuscì a far cambiare idea al Papa Re che si dichiarò indifferente a tutti gli appelli, in quanto provenivano “principalmente da protestanti, atei ed ebrei”.
Come in un film Il rapimento Mortara in un dipinto tedesco. In alto, da sinistra, il conte Cavour, che accusò la Chiesa di oscurantismo; Edgardo (a destra nella foto), divenuto sacerdote con il nome di Pio Maria, assieme alla madre e a un fratello (1898). Sul caso Mortara il regista Steven Spielberg sta girando in film.
La famiglia poté rivedere il piccolo solo nell’ottobre del 1858, quando ottenne dalle autorità ecclesiastiche il permesso di incontrare, per brevi istanti, Edgardo, presenti alcuni sacerdoti. In questa circostanza si rivelò il dramma interiore del bambino e l’attaccamento alla religione familiare. Nei pochi momenti di vera intimità con la madre, Edgardo riuscì a dirle: “Sai, la sera recito ancora lo Shemà Israel (“Ascolta Israele”)”. Nel novembre del 1867 Edgardo pronunciò i voti semplici e prese il nome di Pio Maria, in onore del padre adottivo, Pio IX. Il 20 settembre 1870 le truppe italiane entrarono a Roma. Un mese dopo il padre invitò il giovane a seguirlo a Firenze, ma egli rifiutò. Temeva che il ricongiungimento con la famiglia gli venisse imposto, co-
sì la sera del 22 ottobre partì in abiti borghesi per il monastero di Novacella, presso Bressanone, dove visse sotto falso nome, studiando teologia ed ebraico. Fu lì che nel 1871 pronunciò i voti solenni. L’anno seguente andò a Poitiers (Francia) e nel 1873 ricevette l’ordinazione sacerdotale. Edgardo nei successivi 30 anni predicò e raccolse fondi per il suo ordine. Mantenne anche una sporadica corrispondenza con i genitori, cercando di convincerli a convertirsi. Nel 1906 si ritirò nel monastero di Bouhay, vicino a Liegi, e dedicò il resto della vita allo studio e alla preghiera. Una ferita aperta. Il caso Mortara ha continuato a suscitare scandalo e malumori. Nel 1986, durante la famosa visita alla Sinagoga di Roma, Giovanni Paolo II se lo sentì ricordare dal presidente dell’U-
nione delle Comunità ebraiche italiane. La beatificazione di Pio IX, voluta da Wojtyla, ha riaperto una ferita dolorosa. Elèna Mortara, la cui bisnonna era sorella di Edgardo, ha dichiarato, in polemica col filosofo Vittorio Messori che glorificò la fede di Edgardo e il suo attaccamento a Pio IX: «Segregato e indottrinato dai 6 anni in poi perché diventasse sacerdote, aveva sviluppato il tipico attaccamento del prigioniero verso i suoi carcerieri che si osserva a volte anche nelle vittime adulte dei sequestri. E aveva visto nel pontefice una figura paterna, sviluppando un forte senso di colpa per i “dolori immensi” che, secondo quanto gli veniva ripetuto dallo stesso rapitore, pensava di avergli arrecato attirandogli contro tante polemiche». • Anna Magli
SOCIETĂ€
Un furbo conservatore
SCALA (3)
Bismarck in Parlamento nel 1888. Fu proprio un reazionario come il Cancelliere di ferro a creare il primo sistema pensionistico obbligatorio.
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Dalle leggi per tenere buone le masse alle società di mutuo soccorso, fino all’Infps (diventata Inps) di Mussolini. Ecco come ci siamo guadagnati il tanto ambito vitalizio
SOSPIRATA ✦ ✦ L
PENSIONE
a storia recente delle pensioni in Italia ricorda l’accanimento terapeutico. Dal 1992 non c’è governo che non si sia impegnato a “ritoccarle”: Amato, Ciampi, Berlusconi, Dini, Prodi e poi, ancora, Berlusconi, Monti (con la riforma Fornero) e, ultimo, Renzi. La pensione sembra essere al primo posto nella scala della serenità sociale per chi governa, ma senza dubbio anche i cittadini le danno un’importanza fondamentale. Eppure la messa a riposo garantita economicamente non è un diritto acquisito da tanto: come la conosciamo oggi, arriva a compimento nel Dopoguerra, in Italia come nel resto dell’Europa. Ma dove vede gli albori? Stranamente, non negli Stati Uniti riorganizzati dal New Deal di Roosevelt o nell’Italia paternalista di Mussolini, ma nell’Impero germanico appena riunito nel 1871 da Otto von Bismarck. Pace sociale. Il Cancelliere di ferro (1815-1898), in una biografia scritta dal tedesco Emil Ludwig, afferma: “Avere contenta la classe più povera è una cosa che non si paga mai cara abbastanza. È un buon impiego del denaro anche per noi: a quel modo evitiamo una rivoluzione che potrebbe inghiottirci ben altre somme”. Così, nel 1889, per arginare l’agitazione degli operai che cresceva di pari passo con l’espansione industriale, il Cancelliere ideò una serie di riforme a tutela dei lavoratori che introdussero il primo sistema pensionistico generale e obbligatorio di tipo moderno. La spesa veniva coperta con i versamenti dei la-
Senza soldi... Donne ospiti del Pio Albergo Trivulzio di Milano: qui trovavano ricovero gli anziani raffigurati da Angelo Morbelli.
... e senza futuro Giorni ultimi, dipinto nel 1883 sempre da Morbelli: gli ospiti del Pio Albergo Trivulzio nel refettorio maschile.
I PIONIERI
Tra humour e realismo
Alcuni dei governanti che, a volte solo per mantenere il consenso, introdussero forme di assistenza per anziani e indigenti. GETTY IMAGES (3)
Giorno di paga in una fattoria francese, in un quadro del 1882. A sinistra, una vignetta umoristica sulla New Poor Law emanata a “tutela” dei poveri dal governo inglese nel 1834.
Elisabetta I (1533-1603)
SCALA
Jacques Necker (1732-1804)
Dal Medioevo al Settecento il problema della pensione...
DE AGOSTINI/GETTY IMAGES
Giuseppe II (1741-1790)
Leopoldo II (1797-1870) 92
voratori e dei datori di lavoro, cui si aggiungeva un’integrazione dello Stato. Bismarck applicò un principio che poco si addiceva a un conservatore come lui, il socialismo di Stato: “Non come una elemosina, ma come diritto a un aiuto, laddove la buona volontà di lavorare diventa insufficiente. Perché deve ricevere una pensione soltanto chi ha perduto la capacità sul campo o in un impiego, e non il soldato del lavoro?”. Ma se state pensando che il Cancelliere avesse sposato la teoria marxista siete fuori strada: aveva solo escogitato un metodo efficace per tenere buone le masse. Indubbiamente, però, l’iniziativa fu una novità assoluta. Prima di allora, in questo campo il buio era totale, o quasi. NoN sopraggiuNti limiti d’età. Dal Medioevo al Settecento il problema della pensione non esisteva perché la vita era breve (in media non si arrivava a quarant’anni) e la popolazione era prevalentemente contadina, con una struttura patriarcale che garantiva la sus-
sistenza agli anziani. In quei secoli, grazie all’organizzazione in corporazioni, anche gli artigiani erano in grado di provvedere a chi non riusciva più a lavorare a causa dell’età. Senza alcuna tutela era, invece, la massa dei poveri delle città. Abituati a vivere di espedienti, questi disgraziati se arrivavano alla vecchiaia dovevano contare sulla beneficenza della Chiesa: le mense per i poveri e gli ospizi. In Inghilterra, quando l’espropriazione dei beni della Chiesa cattolica dovuta alla riforma anglicana fece saltare questi sussidi, Elisabetta I fra il 1597 e il 1601 fu costretta a emanare le Poor Laws, che garantivano assistenza agli indigenti e agli anziani. peNsioNi “di grazia”. In Francia, le prime tracce di un sistema pensionistico risalgono al 1673 ed erano a favore degli ufficiali della marina, ma la pensione vera e propria prese forma solo nel Settecento, come riconoscimento dei servigi resi al sovrano. Una concessione, quindi, non un diritto, cui si fece un forte ri-
non era un problema: l’età media infatti arrivava a stento a quarant’anni corso nella gestione del potere, tanto che Jacques Necker, direttore generale della finanze di Luigi XVI, cercò di correre ai ripari: limitò le cosiddette “pensioni di grazia”, le mise sotto il controllo della Corte dei Conti e impose la prescrizione delle rate non riscosse. Ma questi vitalizi erano difficili da arginare: il successore di Necker, Joly de Fleury, fu costretto alle dimissioni quando tentò di ridurli. AnziAnità di lAvoro. Nella seconda metà del Settecento andò via via affermandosi un nuovo concetto, la pensione a tutela del fedele servitore dello Stato: la “giubilazione”. Il criterio su cui ci si basava era l’anzianità di lavoro. Ecco comparire nella Lombardia asburgica una pensione per gli impiegati civili in età avanzata o divenuti inabili, con un’anzianità di servizio di dieci anni. Era in corso la riforma amministrativa voluta dall’imperatore Giuseppe II, alla dispe-
rata ricerca di consensi. Correva l’anno 1781 e la riforma aveva caratteri innovativi: la pensione, dal minimo di un terzo, poteva arrivare al 100 per cento dello stipendio per chi vantava quarant’anni di servizio e prevedeva la reversibilità. Pochi anni prima, nel 1772, il Regno di Sardegna aveva concesso la pensione ai professori universitari con 14 anni d’insegnamento e, in seguito, a tutti gli impiegati civili dopo 45 anni di servizio o al compimento dei 75 anni, età improbabile da raggiungere a quei tempi. In Francia i funzionari pubblici ottennero questo riconoscimento solo 25 anni dopo, nel 1797. Al servizio dello stAto. Ma che cosa accadde in Francia con la Rivoluzione? La pensione di grazia non venne abrogata, ma si trasformò in segno di gratitudine dello Stato nei confronti del funzionario fedele servitore. I requisiti per ot-
tenerla furono fissati a 30 anni di lavoro e 50 d’età (legge del 1790). Nel 1853 lo stesso trattamento venne esteso ai funzionari civili e agli ufficiali; per i dipendenti privati esistevano invece solo versamenti volontari. Questi stessi criteri vennero poi adottati nel corso dell’Ottocento dal Granducato di Toscana allo Stato Pontificio, fino al Regno delle due Sicilie. Non erano più i cortigiani a beneficiare della pensione, ma i funzionari. La motivazione di chi governava era però la stessa: garantirsi il consenso per il mantenimento del potere. Ne è prova l’iniziativa “pensionistica” degli Asburgo in Lombardia, che puntava a indebolire il potere della nobiltà locale anti-austriaca. L’elemento forte di quei vitalizi era l’anzianità di servizio, ben più importante dell’età: arrivare alla vecchiaia infatti era un traguardo quasi irraggiungibile. 93
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Dai pionieri all’Inps In questa foto i soci fondatori della Società di mutuo soccorso Porta Palio a Verona, 1882. Sotto, Mussolini in visita all’Istituto nazionale fascista di previdenza sociale di Cremona, 1934.
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La “Cassa nazionale di previdenza per l’invalidità e la vecchiaia” ebbe il merito di trasformare la terza età da una questione privata a un problema pubblico Mutuo soccorso. Dopo l’Unità d’Italia, nel 1863 comparve il primo schema pensionistico nazionale a favore dei dipendenti pubblici sulla falsariga dell’ordinamento già esistente nel Regno sabaudo. Intanto i lavoratori dell’industria, non potendo più contare sulla solidarietà familiare del mondo contadino, si trovavano senza tutele. Nacquero così le società di mutuo soccorso, che cercavano di far fronte soprattutto a un’eventuale invalidità per infortunio. Ma era un sistema che funzionava male: nel 1885, di 2mila società che avevano promesso pensioni, soltanto 500 le erogavano realmente. In questo contesto zoppicante, nel 1898 nacque la “Cassa nazionale di previdenza per l’invalidità e la vecchiaia degli operai”, che prevedeva il diritto alla pensione dopo 25 anni di contributi. Inizialmente facoltativa, divenne obbligatoria nel 1919 con l’età della messa a riposo fissata a 65 anni. Ne avevano diritto operai, impiegati dell’industria, dei commerci, dell’agricoltura e affittua-
Pochi privilegiati Un documento che testimonia l’impegno del Regno di Sardegna a concedere la pensione ai professori universitari. 94
ri con un reddito annuo inferiore a 3.600 lire. In pratica il 45 per cento della popolazione adulta, ma il traguardo dell’età la rendeva privilegio per pochi. Comunque la Cassa, anche se si occupava d’invalidità, ebbe il merito di trasformare la vecchiaia da fatto privato a problema pubblico. PaternalisMo di regiMe. Il sistema pensionistico attraversò poi il regime. Mussolini prima trasformò la Cassa nell’Infps, “Istituto nazionale fascista di previdenza sociale” (poi Inps dal 1943). Quel decreto legislativo, del 1933, è rimasto un punto di riferimento fino ai giorni nostri. Poi abbassò l’età pensionabile a 60 anni per gli uomini e a 55 per le donne, istituì la pensione di reversibilità e introdusse l’antenato del Tfr, cioè la liquidazione. Superato il ventennio fascista, la neonata Repubblica non solo mantenne intatta la vecchia struttura pensionistica, ma la estese a contadini, artigiani e commercianti. Nel 1965, grazie alle lotte operaie, venne riconosciuta ai lavoratori la pensione sociale e, nel 1969, si arrivò alla pensione contributiva legata allo stipendio degli ultimi anni di lavoro (oggi abolita). Alla fine degli anni Ottanta, però, arriva uno scossone: con l’allungarsi dell’età media, ci si rese conto che la spesa per le pensioni sarebbe diventata presto insostenibile. E via con una riforma dietro l’altra. Ma questa è storia recente, recentissima. • Franca Porciani
RISPETTATI O DIMENTICATI? IL RUOLO DEGLI ANZIANI NELLA STORIA aggezza, malattia, esperienza, declino, sicurezza, prestigio, sofferenza. Le parole che associamo al concetto di vecchiaia rispecchiano la considerazione che gli anziani hanno avuto nel corso dei secoli. Il loro ruolo nella società è infatti cambiato a seconda dei modelli familiari e dei valori sociali, economici e politici tipici di ogni periodo storico. DALLA BIBBIA. La vecchiaia ha avuto un ruolo ambivalente fin dalle prime civiltà. Nella cultura ebraica la longevità simboleggiava una benedizione di Dio, non a caso alcuni protagonisti delle Sacre Scritture hanno un’età improbabile: Adamo 930 anni e Matusalemme 969. In linea di massima nelle epoche (o gruppi sociali) in cui la morte arrivava presto, barba e capelli bianchi conferivano un che di soprannaturale. Questo, però, non assicurava agli anziani sempre un’esistenza tranquilla. Sul loro destino pesavano anche altri fattori. La scarsità di cibo, per esempio, causava l’abbandono o addirittura l’uccisione dei più vecchi, considerati improduttivi. Così nel Nord della Siberia chi non era più in grado di cacciare si suicidava o si lasciava morire. I TurchiMongoli, invece, rispettavano solo gli anziani in buona salute, arrivando perfino a soffocare chi non lo era. In molte società gli anziani ricoprivano il ruolo di stregoni e sacerdoti, con il compito di mediare col mondo dei morti. GRECIA: FORTUNE ALTERNE. Per una civiltà che amava la bellezza, la vecchiaia era una maledizione. Per gli dèi dell’Olimpo la felicità suprema era l’eterna giovinezza e proprio questo fu il dono che Zeus fece a Ganimede. In realtà, nella società greca i vecchi godettero di fortune alterne (a destra, un giovane ateniese saluta con rispetto un anziano, V secolo a.C.). Erano presenze importanti nei consigli cittadini e istitutori di giovani rampolli, ma venivano anche trascurati dai parenti: usanza che doveva essere parecchio diffusa se gli Ateniesi furono costretti a emanare varie leggi in merito. Chi non provvedeva al sosten-
tamento dei genitori veniva colpito da atimia: privato, cioè, dei diritti politici e civili. Anche i filosofi non amavano la terza età. La concezione politica di Aristotele escludeva gli anziani dal governo della polis a favore di militari di età media. A Sparta le cose andavano meglio. Gli anziani guerrieri, per esempio, ricoprivano incarichi pubblici. E dei 30 membri della gherusia, un’assemblea con funzioni legislative e giudiziarie, 28 erano spartiati ultrasessantenni e i restanti i due re di Sparta. I PADRI DI ROMA. Come ha scritto lo storico francese Georges Minois in Storia della vecchiaia dall’antichità al Rinascimento: “I Romani hanno parlato molto dei vecchi, ma di rado per lodarli”. Però nel periodo repubblicano gli anziani ebbero un ruolo importante. Il diritto romano, attraverso l’istituto del pater familias, attribuiva al capofamiglia anziano un grande valore. Il suo era un potere assoluto con un’autorità senza limiti su tutti i membri della famiglia. Per esempio, poteva abbandonare i neonati e vendere i figli come
schiavi. Il passaggio all’impero, nel 31 a.C., segnò la perdita di questo ruolo politico e sociale. L’istituzione del pater familias s’indebolì, come il potere del Senato, composto da anziani. Nelle commedie di Plauto i vecchi venivano rappresentati con disprezzo e peggio era per le donne attempate, contro le quali molti autori, fra i quali Orazio, si accanivano crudelmente. Anche Seneca sosteneva che era meglio saper morire quando la vita diventava troppo penosa. Quel che è certo è che aumentarono i casi di suicidio in vecchiaia. ARRIVA IL NONNO. L’Alto Medioevo fu un periodo cupo per gli anziani, impotenti contro la legge del più forte. La loro vita non valeva granché: per l’uccisione di un vecchio il “rimborso” era lo stesso che per un bimbo di dieci anni. Dal VI secolo, in Europa, gli anziani più ricchi iniziarono a scegliere di lasciare la vita attiva e ritirarsi in monastero, soluzione che avrebbe garantito la salvezza eterna. Nel XIV secolo accadde qualcosa di eccezionale. In una società in cui solo l’8% della popolazioSCALA
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ne raggiungeva i 60 anni arrivò la Peste nera che scombussolò tutto. Il flagello del 1348 falcidiò infatti bambini e adulti, ma risparmiò i vecchi. Il numero degli anziani aumentò di colpo e nelle famiglie finirono per coabitare più generazioni. Non a caso nel ’400 si fece strada una figura inedita: il nonno. CINQUECENTO CRUDELE. Nel Rinascimento la giovinezza era simbolo di bellezza e vitalità, mentre la vecchiaia segnava la fine dello slancio vitale e creativo. Il ’500 iniziò con tre giovani sovrani – Francesco I, Enrico VIII e Carlo V – ma si concluse all’insegna della gerontocrazia con Elisabetta I (morta a 70 anni), Filippo II (74) e Solimano “il Magnifico” (72). Anche gli aristocratici europei iniziarono a vivere più a lungo, suscitando ammirazione quasi fossero protagonisti di un’impresa sportiva. Per il popolo, come ha scritto Luigi Lorenzetti nel libro Gli anziani e la città, fu invece un periodo di indifferenza nei confronti dell’età, che non conferiva alcuna autorità o prerogativa se non quella legata al proprio status sociale ed economico. Nelle città europee poveri, orfani e anziani erano considerati un unicum e percepiti come un pericolo. Per questo vennero emanate le prime leggi di segregazione sociale: il primato fu di Venezia che nel 1528 dispose di rinchiudere i vecchi negli ospedali insieme a pazzi e malati. INFINE, L’OSPIZIO. Il ’700 segnò un punto di svolta nella percezione dell’anziano. L’Illuminismo contribuì a darne un’immagine positiva: la vecchiaia diventò l’età della saggezza. In campagna, per tutto l’800 e parte del ’900, la famiglia patriarcale assegnava agli anziani un ruolo fondamentale nella società agricola, ma in città le cose andavano diversamente. L’industrializzazione mise subito in evidenza “l’inutilità” di chi non lavorava più. Si moltiplicarono strutture come gli ospizi, che escludevano gli anziani dalla società, ma incarnavano l’ideale di efficienza e controllo tipico della nuova borghesia. • Geoffrey Pizzorni
RELIGIONI
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La lunga lotta di Santa Chiara, determinata fino alla fine a mantenere il “privilegio della povertà”
PASIONARIA
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una notte di marzo. L’aria è tiepida e la campagna fuori le mura è avvolta nel silenzio. Accompagnata da un’amica, una ragazza sta scappando dal palazzo di famiglia e scivola furtiva fra i vicoli diretta verso le mura. Riesce a eludere la sorveglianza e a superare la cinta muraria. Le guardie infatti sono meno ligie del solito: si è appena celebrata la Domenica delle palme, anche i nemici perugini staranno in pace quella notte. La città è Assisi, l’anno il 1211 o il 1212. La ragazza in fuga è una giovane di sangue nobile: si chiama Chiara ed è figlia del conte Favarone di Offreduccio degli Scifi e di Ortolana. Sta lasciando gli agi della sua casa per raggiungere Santa Maria della Porziuncola, una chiesetta a 7 km da Assisi. La aspetta Francesco: il matto, il predicatore, il sovvertitore dell’ordine sociale che Chiara ha frequentato in segreto per alcuni mesi e che infine ha deciso di seguire. Ora sono insieme: Chiara si fa tagliare i capelli e indossa il saio come gesto simbolico dell’irrevocabilità della sua decisione di rinuncia al mondo. Ma chi è Chiara? E perché è stata rivoluzionaria quanto Francesco? AllA ricercA di vAlori. Chiara nacque probabilmente nel 1193 (e morì sessant’anni più tardi), in un’epoca in cui Assisi attraversava una profonda instabilità politica a causa dello scontro tra impero e papato che coinvolgeva anche le neo-fondate istituzioni cittadine, i Comuni. Sullo sfondo c’era la cultura cortese cavalleresca, che dominava l’Europa. Il movimento, cominciato nella letteratura che cantava le gesta dei cavalieri e l’amor cortese, si era allineato con i valori cristiani: generosità, spirito d’abnegazione e sacrificio, fedeltà e rispetto del nemico. Soprattutto, rispetto assoluto per
Iconografia celestiale Chiara saluta il corpo di Francesco: una scena tratta dal ciclo di affreschi delle Storie di san Francesco, attribuiti a Giotto, che si trovano nella Basilica superiore di Assisi. Nell’altra pagina, ritratto di Santa Chiara, dipinto da Simone Martini nel 1326.
Le Costituzioni imposte dal cardinale Ugolino, dal 1228 Papa Gregorio IX, vanificarono il pensiero francescano.
L’ideale di Chiara e Francesco, uguaglianza nella la donna, che stava riacquistando una centralità perduta nei secoli precedenti. «Lo stesso Francesco nel segno dell’antica generosità cavalleresca della sua giovinezza, ora mutata di segno, sperava di potere riunire in un’unica fraternità uomini e donne annullando distinzioni sociali e culturali», spiega la storica Chiara Frugoni nel libro Storia di Chiara e Francesco (Einaudi). La realtà, però, era ben lontana da quegli ideali. Altro che solidarietà e fratellanza: la società che conoscevano allora era divisa in classi in lotta per la supremazia, gli umili venivano schiacciati dai potenti e ci si ammazzava di continuo per conquistare terre e denaro. Difficile, per Chiara e Francesco, sopportarlo. Il loro obiettivo? Un mondo più giusto, maggiore equità sociale; volevano annullare le differenze ripartendo le risorse, in un’ottica di uguaglianza e parità anche tra i sessi. Una monaca atipica. Con la sua scelta Chiara deluse le aspettative dei pa-
renti che avevano in serbo per lei nozze con un rampollo di famiglia altolocata. Per due volte cercarono di ricondurre la giovane con la forza tra le mura di casa, senza successo. Ortolana, la madre di Chiara, era molto devota: intraprese anche un pellegrinaggio a Roma e uno in Terrasanta, cosa pericolosa e rara per una donna a quell’epoca. Perché allora tanta opposizione all’idea di una vita religiosa per la figlia? Nessun problema se avesse deciso di entrare in un convento di clausura. Allora le donne di famiglia nobile potevano diventare “monache da coro” e in alcuni casi badesse, mentre quelle di umili origini sarebbero diventate “serviziali”: avrebbero cioè dovuto occuparsi di assistere le altre monache o di curare gli infermi. Chiara fece scandalo perché rifiutò la clausura e la divisione in classi. E soprattutto fu rivoluzionaria la sua scelta di condividere con Francesco la vita errante.
Vita, morte e miracoli Miracolo di Santa Chiara, affresco del XIII secolo conservato nella chiesa di Santa Chiara a Nola. A destra, un affresco del XIV sec. che raffigura la morte della santa.
DE AGOSTINI/GETTY IMAGES
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Intransigenza papale
ripartizione delle risorse e parità tra i sessi, era davvero troppo per l’epoca e la carità, che dovevano essere messe alla prova quotidianamente, non in una vita ascetica. sOrella pOvera e inflessibile. Quando nel 1219 il cardinale Ugolino formulò le sue Costituzioni ispirate alla Regola benedettina, stravolse completamente il senso della scelta di Chiara. «Il progetto di Ugolino sembra formulato per spegnere punto dopo punto le novità del programma di Francesco che Chiara aveva fatto proprio», spiega Chiara Frugoni. «Niente povertà, niente lavoro manuale, ma separazione dal mondo esterno, preghiere, mortificazioni corporali, silenzio e, infine, rendite e dotazioni che permettessero a quelle carceri sante di funzionare». Non fu l’unico tentativo di soffocare la vitalità rivoluzionaria delle sorelle di San Damiano (la chiesa di Assisi dove Chiara si stabilì e visse per oltre quarant’anni). A più riprese, infatti, si tentò di fare accettare alla testarda Chiara
la Regola benedettina. Ugolino stesso, diventato papa nel 1228 con il nome di Gregorio IX, tornò alla carica più determinato che mai a imporre alle riottose sorelle la clausura, la proprietà e la netta separazione tra fratres e sorores. Quando Tommaso da Celano (11901265) fu incaricato dal pontefice di redigere per la seconda volta la Vita di Francesco, Chiara non venne nominata neanche una volta. Un’assenza rumorosa, da cui traspariva la volontà di annullare gli elementi del messaggio di Francesco in netta contraddizione con la corte papale. Messaggio che invece fu proprio Chiara a portare avanti con maggior energia e coerenza di quanto avessero fatto i francescani. In alcuni momenti dovette cedere e accettare almeno formalmente le regole ugoliniane. Ma riuscì a salvare sempre il privilegio più prezioso per lei: quello dell’“altissima povertà”. • Marco Monaco
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O utsider . Come Francesco, anche Chiara ebbe difficoltà a far accettare all’establishment ecclesiastico la sua visione del monachesimo. Persino il cardinale Ugolino da Ostia, “amico” di Chiara e Francesco, sostenitore degli ordini minori, nonché futuro papa che la aiutò nella diffusione dei monasteri, cercò di inquadrare le “povere dame” entro le rigide norme della disciplina benedettina. La sua idea era che si mantenessero grazie alle rendite dei terreni ricevuti in dotazione. Chiara aveva in mente un’altra immagine di convento. Ma solo negli ultimi anni mise nero su bianco la sua Regola. All’inizio si limitò a consigli affettuosi alle consorelle. Non ricorreva mai alla penitenza intesa come mortificazione del corpo, non usava il principio d’autorità e voleva un monastero aperto al mondo, pronto ad accogliere chiunque avesse bisogno. Però era inflessibile su alcuni principi come la povertà, l’umiltà
Così nacquero le clarisse
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opo la santificazione di Chiara (avvenuta il 15 agosto 1255, ad appena due anni dalla morte), non tutti i monasteri femminili accolsero la sua impostazione. Il cardinale protettore dell’ordine, Gaetano Orsini, propose perciò una nuova regola che fu approvata da Urbano IV il 18 ottobre 1263: le religiose potevano possedere beni in comune, una norma in aperta contraddizione con il privilegio della povertà concesso a Chiara da Gregorio IX nel 1228. Scisma. L’ordine quindi si divise: da una parte le clarisse, fedeli alla regola di Chiara e, dall’altra, le urbaniste, che accettavano la regola del 1263. Tra le successive congregazioni di clarisse ancora attive, ci sono le colettine, sorte nel 1406 nel monastero di Besançon, e le cappuccine, fondate a Napoli nel 1535 da Maria Lorenza Longo. 99
I GRANDI TEMI
ROOSEVELT
Quando arrivò alla Casa Bianca, nel 1932, Franklin Delano Roosevelt dovette affrontare una crisi economica senza precedenti. Lo fece con una serie di provvedimenti che hanno fatto scuola e che chiamò New Deal.
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IL NEW DEAL
LA SOLUZIONE DI
Gli uomini del presidente Franklin D. Roosevelt (sopra) con il segretario agli Interni Harold L. Ickes (al centro) e Henry A. Wallace, segretario all’Agricoltura, nell’agosto del 1933. In alto, una spilla dell’Nra (National recovery administration), che durante il New Deal finanziò il rilancio dell’economia.
INTANTO NEL MONDO
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abato 4 marzo 1933, a Washington, sotto un cielo plumbeo, il neoeletto 32° presidente degli Stati Uniti, il democratico Franklin Delano Roosevelt, giurò fedeltà alla Costituzione. Pronunciò uno storico discorso che conteneva queste parole: “La sola cosa di cui dobbiamo aver paura è la paura stessa”. Era l’annuncio del programma di riforme economiche e sociali più audace e radicale mai realizzato, nelle nazioni democratiche dell’Occidente: il New Deal, che significa “nuovo corso”, ma anche “nuovo patto”. Si trattava di rimettere in piedi il gigante americano, che era stato abbattuto dalla Grande Depressione seguita al crollo della Borsa di Wall Street dell’ottobre 1929: in pochi giorni, oltre 60 milioni di azioni vennero vendute, innescando una reazione di panico sui mercati. Il grande crac. Il tonfo di Wall Street era stato causato da una politica dissennata di espansione del credito, che aveva generato un aumento della produzione di beni alla quale non era seguito un aumento della domanda interna. Quando i consumi privati rallentarono, perché le famiglie si erano troppo indebita-
STATI UNITI
24-29 ottobre 1929 Crollo della Borsa di Wall Street. 8 novembre 1932 Franklin Delano Roosevelt viene eletto 32° presidente degli Stati Uniti.
1933 (marzo-giugno) Nei primi 100 giorni di governo, Roosevelt vara un pacchetto di provvedimenti di emergenza: è l’inizio del New Deal.
Novembre 1936 Roosevelt è rieletto trionfalmente. Prevale in quasi tutti gli Stati.
8 dicembre 1941 Dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbor, gli Usa entrano in guerra. 12 aprile 1945 Roosevelt muore a 63 anni poco prima della fine della Seconda guerra mondiale.
ALTRI PAESI 1928 Unione Sovietica: Stalin vara il primo piano quinquennale. È l’avvio dell’industrializzazione del Paese, a tappe forzate.
CULTURA
1929 Alberto Moravia dà alle stampe Gli indifferenti.
23 gennaio 1933 In Italia nasce l’Iri (Istituto per la ricostruzione industriale), motore pubblico per il rilancio dell’economia nazionale, dopo la crisi dei mercati seguita al crollo del ’29. 30 gennaio 1933 Adolf Hitler diventa cancelliere in Germania. 7 giugno 1933 Benito Mussolini firma il Patto a Quattro con Francia, Germania e Gran Bretagna.
17 luglio 1936 In Spagna, scoppia la guerra civile, tra i repubblicani e i falangisti guidati dal generale Francisco Franco.
22 giugno 1941 Con l’Operazione Barbarossa, Hitler sferra l’attacco all’Unione Sovietica.
28 aprile 1945 Mussolini viene fucilato a Giulino di Mezzegra. Due giorni più tardi, Hitler si suicida, nel bunker della cancelleria di Berlino.
29 giugno 1933 ll pugile Primo Carnera vince il titolo mondiale dei pesi massimi.
16 agosto 1933 Il transatlantico Rex conquista il record di velocità nella traversata dell’Atlantico. 16 agosto 1936 Si chiude a Berlino l’undicesima Olimpiade dell’era moderna. 1940 Ernest Hemingway pubblica il romanzo Per chi suona la campana. 1942 Lo scrittore americano John Steinbeck scrive La luna è tramontata.
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I GRANDI TEMI
IL NEW DEAL
Un presidente, 4 mandati
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ranklin Delano Roosevelt nacque a Hyde Park, lungo il fiume Hudson, il 30 gennaio 1882. Fu l’unico presidente degli Stati Uniti a essere eletto per ben 4 volte, dal 1932 al 1944. Nel 1905 sposò Eleanor, nipote di Theodore Roosevelt. Fu eletto senatore per il partito democratico nel 1910 e tre anni più tardi entrò nell’amministrazione di Woodrow Wilson. Nel 1921 una grave forma di poliomielite gli paralizzò le gambe. Il che non gli impedì, nel 1928, di essere eletto governatore dello Stato di New York. Guerra e pace. L’8 novembre 1932 vinse le presidenziali e varò
i primi provvedimenti del New Deal. Grazie al quale vinse poi le elezioni ancora nel 1936, nel 1940 e nel 1944. Allo scoppio del secondo conflitto mondiale, nel 1939, dichiarò che gli Usa sarebbero rimasti neutrali. Ma l’8 dicembre 1941, dopo l’attacco alla base statunitense di Pearl Harbor, nel Pacifico, dichiarò guerra al Giappone. Tre giorni più tardi, Italia e Germania scesero in guerra contro gli Stati Uniti. Roosevelt morì a Warm Spring per un’emorragia cerebrale, il 12 aprile 1945, a guerra mondiale ormai vinta.
I suoi oppositori lo accusarono di avere
Il presidente Roosevelt in uno dei “discorsi del caminetto” trasmessi alla radio dal marzo del ’33 fino a tutta la Seconda guerra mondiale. 102
te, le merci rimasero invendute e le imprese smisero di produrre e cominciarono a licenziare in massa. Iniziò così la Grande Depressione che, nel periodo 1929-33, determinò il dimezzamento della produzione industriale, il brusco calo di quella agricola, il crollo dei prezzi dei beni di oltre l’80%, la caduta dei salari e il fallimento, in soli due anni, di 4.305 banche. Roosevelt, appena insediato, affrontò di petto quella situazione disastrosa, che aveva ereditato dal suo predecessore, il repubblicano Herbert Hoover. In soli cento giorni varò una serie di provvedimenti sociali ed economici rivoluzionari. Gli oppositori in seguito accusarono FDR di aver introdotto nel sistema economico americano alcuni strumenti di pianificazione di stampo socialista. In realtà Roosevelt non seguiva alcun orientamento ideologico: le sue politiche erano sperimentazioni, che in parte fornirono eccellenti risultati e in parte fallirono. La serrata. Per prima cosa, per frenare la corsa al ritiro dei soldi dei risparmiatori, Roosevelt proclamò con l’Emergency Banking Act una “vacanza bancaria”: cioè la chiusura degli sportelli nel Paese e la sospensione delle operazioni finanziarie. Sul piano monetario, staccò il dollaro dal sistema aureo: da quel momento la divisa nazionale cessò di essere direttamen-
Servizio civile Membri dei Civilian Conservation Corps impegnati nella riforestazione in Virginia, nel 1938. Sotto, un giovane al lavoro negli Anni ’30. Tra il ’33 e il ’42 circa 3 milioni di disoccupati furono reimpiegati in lavori di pubblica utilità.
te convertibile in oro. Questo pose le premesse per una svalutazione del biglietto verde, che nel 1934 perse infatti il 40% del suo valore. Appoggiato dal Congresso, il presidente Usa agì su due fronti. Da una parte intervenne per assistere, con sussidi, vestiti e altre forme di aiuto, le vittime della crisi del ’29, che erano soprattutto disoccupati. Dall’altra cambiò pelle all’America, creando una nuova base sociale ed economica e modificando in modo strutturale il sistema produttivo. Roosevelt introdusse, con una serie di leggi, una forma di intervento dello Stato nella finanza: lo sviluppo economico si sarebbe basato su una programmazione fondata su principi totalmente nuovi di crescita e di distribuzione della ricchezza. FDR, come lo chiamavano, aveva molte idee nel cassetto. AssistenziAlismo. Il 31 marzo 1933 Roosevelt fece approvare il programma del Civilian Conservation Corps, un piano per impegnare 250mila giovani disoccupati nelle opere di rimboschimento in tutto il Paese. In rapida successione, il Congresso diede poi vita a un ente di assistenza nazionale e a un provvedimento straordinario per il sostegno all’agricoltura, settore tra i più colpiti dalla crisi: l’Agricoltural Adjustment Act (Aaa).
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introdotto strumenti dei sistemi socialisti
I GRANDI TEMI
IL NEW DEAL
La prima mossa del presidente Roosevelt fu chiudere le banche per evitarne il fallimento Le fattorie ipotecate furono finanziate, e fu introdotto un nuovo criterio economico, che suscitò sconcerto: quello del contenimento della produzione, con la riduzione volontaria dei raccolti da parte dei contadini. Lo scopo era evitare che l’eccesso di offerta innescasse una nuova spirale depressiva dell’economia. Per la prima volta in assoluto, gli agricoltori che accettavano di distruggere le eccedenze furono indennizzati. Quando una tremenda siccità colpì le campagne americane nel 1934, il sistema delle colture intensive fu sostituito con metodi che riducevano il consumo di terra e acqua. Per far crescere i profitti degli imprenditori, e di conseguenza migliorare i salari e le condizioni di vita dei lavoratori, Roosevelt creò infine un ente apposito: l’Nra (National recovery administration). Il suo scopo era pianificare e coordinare la produzione industriale. Socialmente utile. I disoccupati, oltre a poter usufruire delle misure assistenzialistiche, furono anche impiegati come forza lavoro per la realizzazione di nuo-
Welfare
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La celebre foto di una madre raccoglitrice di piselli, con due dei suoi 7 figli. In alto, un manifesto del Social security program destinato a chi aveva più di 65 anni.
ve opere pubbliche, come ponti e strade, per le quali il governo stanziò 3,3 miliardi di dollari. Siccome poi l’attività delle fabbriche fu regolata dalle concessioni governative, ai dipendenti vennero riconosciuti nuovi diritti: la settimana lavorativa fu ridotta a 40 ore e fu vietato l’impiego dei minori sotto i 16 anni. Gli operai, inoltre, poterono organizzarsi in sindacati. Una sperimentazione di successo fu quella dell’Ente per la Valle del Tennessee, uno dei maggiori bacini idrici degli Stati Uniti. Sotto l’egida di questa autorità, vennero costruite gigantesche dighe che consentirono di distribuire energia ai residenti del distretto, elettrificando 125mila nuove aziende agricole. Sotto il profilo della distribuzione della ricchezza, Roosevelt modificò il regime fiscale, aumentando le imposte per i più abbienti. Tutelò inoltre i risparmiatori, garantendo i depositi bancari e limitando i titoli “tossici”. SucceSSi e fallimenti. I benefici di questa “cura da cavallo” non tardarono a manifestarsi: il prodotto interno
lordo, che nel 1933 ammontava a 56 miliardi di dollari, salì a 65 l’anno successivo e a 82,7 miliardi nel 1936. Il numero totale dei disoccupati, dai 12,8 milioni del 1933, scese ai 6,9 milioni del 1936. Ma per Roosevelt non furono soltanto allori. Nel 1935, la Corte Suprema giudicò incostituzionale l’esperimento dell’Nra e ne abrogò i decreti. Allo stesso modo, liquidò il programma di rilancio dell’agricoltura. Il presidente tuttavia non si diede per vinto e ingaggiò una dura battaglia, con il Congresso, per fargli approvare la “fase due” del New Deal. Così, nell’estate del 1935, il capo della Casa Bianca impedì a deputati e senatori di andare in vacanza, impegnandoli in un estenuante braccio di ferro che portò al varo di provvedimenti dal contenuto inedito: si passò infatti dalla creazione di un sistema nazionale di previdenza, in grado di assicurare una pensione a tutti i lavoratori, ad atti legislativi che colpivano gli oligopoli dell’energia elettrica, le cosiddette “piovre”, e stabilivano un controllo federale più diretto sulle attività bancarie. I dIscorsI del camInetto. Per rassicurare l’opinione pubblica dopo il grido d’allarme lanciato dai nemici del New Deal che lo dipingevano come l’inizio del bolscevismo negli States, Roosevelt usò i famosi “discorsi del caminetto”, trasmessi settimanalmente alla radio fin dal 1933. Il modo informale in cui, durante queste chiacchiere radiofoniche, il presidente parlava ai cittadini era una nuovità assoluta, ma avvicinava, come mai era accaduto, il presidente al popolo. Non a caso, i discorsi del caminetto ebbero grande successo soprattutto durante la Seconda guerra mondiale.
I risultati del New Deal furono presto sotto gli occhi di tutti: alle presidenziali del novembre 1936, Roosevelt sbaragliò il suo contendente, il repubblicano Alfred Mossman Landon, ottenendo 27,7 milioni di voti: oltre 11 milioni più dell’avversario. Durante il suo secondo mandato alla Casa Bianca, però, Franklin Delano si trovò a fare i conti con una nuova congiuntura economica: il numero dei disoccupati tornò a crescere e superò, nel 1938, quota 10 milioni. Soltanto la guerra, nel 1939, avrebbe “messo il turbo” all’industria a stelle e strisce. A quel punto, però, il New Deal poteva dirsi un capitolo chiuso. L’esperimento era riuscito, al di là dei suoi limiti. Certo, Roosevelt non era riuscito a far ritrovare la prosperità economica di un tempo; ma aveva saputo guarire il gigante ferito, offrendo a tutti gli americani un’occasione di riscatto, senza sacrificare troppo le “sacre” libertà individuali. • Roberto Festorazzi
Pausa pranzo Sotto, lavoratori addetti alla riforestazione in fila per il pasto servito nelle strade di New York. A destra, una vignetta satirica contro il New Deal, colpevole di “pompare” (ossia sprecare) troppi soldi.
I nemici del Nuovo Corso
L
a destra americana si organizzò subito per combattere le “derive” socialiste del New Deal. I grandi interessi del capitale privato e del mondo finanziario, che si ritenevano colpiti dalle misure rooseveltiane, non tardarono a mobilitarsi, dando vita all’American Liberty League, che rappresentò la punta di diamante dell’opposizione. Il presidente democratico cominciò a essere chiamato “il becchino d’America”, perché si sosteneva che le sue politiche “socialiste” avrebbero finito per distruggere la libera concorrenza e il mercato.
Socialista. In verità, i fatti hanno dimostrato che, esaurita la funzione storica di far risorgere il Paese dalla Grande Depressione, le politiche di pianificazione del New Deal e il deciso interventismo statale nell’economia vennero abbandonati, sia pure per gradi, e l’America tornò al liberismo. Ma, per anni, Roosevelt venne attaccato dai conservatori. Il senatore del West Virginia Henry Hatfield, davanti all’assemblea del Campidoglio, definì polemicamente il capo della Casa Bianca “un emulo di Stalin, di Mussolini e di Hitler”. 105
RINASCIMENTO
Galeazzo Maria Sforza
Il secondo Sforza al comando di Milano fu ben poco amato. Crudele, irascibile, instabile e accentratore, morì assassinato a 33 anni
GALEAZZO • MARIA • IL DUCA SCAPESTRATO
SCALA (2)
L
a mattina del 26 dicembre 1476 faceva molto freddo. E Galeazzo Maria Sforza, duca di Milano, avrebbe volentieri fatto a meno di uscire per recarsi a messa. Ma tutto era già pronto, non poteva tardare oltre. Baciò i figli Gian Galeazzo ed Hermes, poi montò a cavallo e dal Castello Sforzesco si diresse verso la chiesa di Santo Stefano. Quello che non sapeva, però, era che non sarebbe più tornato a casa. Ad attenderlo tra le sacre mura trovò infatti Giovanni Lampugnani e altri due congiurati, che in pochi istanti lo massacrarono con quattordici coltellate sferrate a bruciapelo. Galeazzo aveva allora solo 33 anni e da dieci aveva preso in mano il governo di Milano, dopo la morte del padre Francesco Sforza. Sepoltura Segreta. Quell’assassinio fu uno dei momenti più cupi del ducato. La duchessa Bona di Savoia, più spaventata che affranta, mandò dal castello tre anelli e una veste bianca e oro con cui rivestire il corpo straziato del marito, portato nel frattempo nella sacrestia della chiesa. Calata la notte, il cadavere “eccellente” venne seppellito in Duomo, in una tomba senza nome, in alto tra due piloni. Niente cerimonia ufficiale. Solo un breve corteo con
Lo stemma dei signori di Milano L’emblema di Galeazzo Maria Sforza, con il biscione dei Visconti e l’aquila imperiale. Galeazzo era figlio di Francesco Sforza e dell’ultima erede dei Visconti, Bianca Maria.
i famigliari e il clero. Perché tanta fretta? Anzitutto il timore di un colpo di Stato: non si sapeva che piega avrebbe potuto prendere la congiura. Del resto, Galeazzo Maria era un personaggio controverso: i milanesi non lo amavano e in fondo pensavano che quella morte violenta se la fosse cercata. Ma era davvero così? un bravo bambino. Per scovare nei documenti del tempo giudizi positivi su di lui bisogna risalire molto indietro, a quando era ancora bambino. A quei tempi le cronache erano piene di lodi e di ammirazione per quel “duchino” spigliato e studioso, che incantava per i suoi modi perfetti, sempre a suo agio con i potenti del tempo che venivano in visita alla corte di suo padre, Francesco Sforza. Già a sei anni, nel marzo 1450, Galeazzo Maria ricevette in Duomo l’investitura a cavaliere, con spada e speroni dorati, tutto in formato mignon. Ma anche da cavaliere, Galeazzo rimaneva pur sempre un bambino: nel dicembre 1452 scriveva al padre una lettera di Natale in cui prometteva di “conseguire la vera e solida gloria”, sicuro che “la Vostra Magnanima Signoria non me lassarà mancare cavalli, cani e uccelli, né alcuna altra cosa che grata me fosse”. La caccia, infatti, fu per tutta la vita il 107
Milano, giugno e luglio 1457
Il decalogo di papà Francesco per Galeazzo Maria Devi essere devoto a Dio, dal quale dipende ogni bene e felicità, e seguire i precetti della Chiesa cattolica.
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Sii sempre obbediente e sforzati di fare cosa gradita all’illustrissima madonna tua madre [Bianca Maria Visconti], e alle madonne tue ave [la nonna paterna Lucia di Torsciano e la nonna materna Agnese del Maino]. Segui gli insegnamenti di messer Guiniforte [Guiniforte Barzizza, suo precettore], e di qualunque altro ti debba guidare e istruire e così con ogni altra persona saggia e virtuosa.
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Devi riverire con modestia ogni persona, sia in casa sia fuori, con la testa, la berretta o col ginocchio, secondo la condizione delle persone, ed essere sempre gentile e onorare i forestieri che vengono a visitare l’illustrissima madonna tua madre, o noi, o te. Sii con tutti onesto e gentile nel parlare, secondo il grado, qualità e condizione delle persone, tanto in casa quanto fuori e con coloro che ti servono in casa. Non essere scorretto quando scherzi con armi, sassi o bastoni o in altro modo; sii morigerato e non irritarti per ogni minima cosa e se proprio non puoi trattenerti dall’arrabbiarti, non perseverare nell’ira e nell’odio.
Il padre condottiero Ritratto di Francesco Sforza (1401-1466), il padre di Galeazzo Maria. Fu il primo della terza dinastia che decise le sorti del Ducato di Milano fino all’inizio dei lunghi domini stranieri. Le altre due furono i Torriani e i Visconti.
Francesco Sforza
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Non essere crudele e superbo né a parole, né in azioni. Cerca di sforzarti di imparare a essere magnanimo, giusto e clemente, come si conviene a chi governa. Non desiderare ciò che non è degno o necessario e non volere tutto quello che vedi e che ti piace. Non far dispiacere a una persona solo per soddisfare un tuo capriccio e abbi pazienza se non hai potuto avere quello che desideravi. Non mentire o fingere, non essere borioso, non credere facilmente ai maldicenti e non divertirti ad ascoltare coloro che commettono questi errori, perché le abitudini non lodevoli degli amici infamano il padrone. Sii moderato nel mangiare e bere, pulito e ammodo. Dato che ti diletti di cavalli, guardati dal cavalcare un cavallo duro di bocca o che si impenna.
Milano si inchina
SCALA(2)
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Una miniatura del XV secolo ritrae Galeazzo Maria omaggiato dalla sua corte. A destra, nel tondo, il ritratto della moglie.
Lui si vantava di avere un solo vizio, la lussuria. Certo ebbe moltissime amanti. E il primo figlio, illegittimo, a 14 anni suo passatempo preferito. Crescendo, Galeazzo si dimostrò un adolescente intelligente, curioso di tutto, ma con un carattere prepotente e aggressivo. Voci per niente rassicuranti sulla sua indole arrivarono presto all’orecchio di Francesco Sforza, molto attento all’educazione del figlio, nonostante le sue frequenti assenze legate al governo del ducato. Il duca decise di intervenire e, tra la fine di giugno e gli inizi di luglio del 1457, prese carta e penna e di sua mano scrisse a Galeazzo Maria i Dieci suggerimenti di buon vivere (v. nel riquadro in alto, riassunti in un linguaggio moder-
Ma questo era il meno. Galeazzo Maria soprattutto era vendicativo, crudele, incapace di perdonare. Bastava un nonnulla per fargli sguainare la spada e ottenere con quella ciò che voleva. Il duchino, dopo aver letto i consigli paterni, assicurò il padre che l’unico suo intento era di “satisfare al desiderio de la Excellentia Vostra” e poco dopo mise incinta Lucrezia Landriani, prima di una lunghissima serie di amanti, divenendo così padre a 14 anni. stuprI e torture. Galeazzo Maria, vari anni dopo, si vantava di avere un solo vizio, quello della “lussuria, ma quello lo ho in tutta perfezione, perché lo ho adoperato in tutti quei modi e forme che si possa fare”. Chi l’ha conosciuto bene, come Bernardino Corio, racconta che molestava le donne e quando “lui havea satisfato a la disonesta voglia, puoi d’assai numero de suoi le faceva stuprare”. A prova della crudeltà di Galeazzo Maria riporta poi una lista di torture cui sottoponeva chi non gli andava
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no), preceduti da una lettera in cui parlava a cuore aperto al figlio. Ne emerge la figura di un padre molto più sensibile e evoluto di quanto ci si potrebbe aspettare da un condottiero come lui, abituato a comandare sui campi di battaglia. Con il figlio usa un tono pacato, alternando dolcezza e severità. Scopriamo così che Galeazzo Maria, fino ai 13 anni, non aveva mai ricevuto uno schiaffo, né un rimprovero. E questo perché era ancora “ne li anni de la pueritia” e il duca voleva prima capire i vizi e “li costumi et modi” che il figlio assumeva. Ora però che Francesco Sforza si era reso conto dei comportamenti del figlio, correva ai ripari indicandogli le regole da rispettare. IrascIbIle. Il duca passa poi ai dieci Suggerimenti veri e propri, da cui è facile capire i comportamenti che lo impensierivano. Si delinea così il ritratto di un tredicenne per alcuni aspetti simile a molti adolescenti di adesso, insofferente alle regole, svogliato nello studio, arrogante e con amicizie non sempre raccomandabili.
Bona di Savoia a genio, come il povero Petrino da Castello, a cui fece tagliare le mani perché aveva osato parlare con una sua favorita. O Pietro Drago, a cui andò anche peggio: lo fece chiudere in una bara e seppellire vivo, mentre un suo favorito, Giovanni da Verona, fu legato a un tavolo e gli fu tolto un testicolo. Non per nulla la duchessa Bona di Savoia, pur avendo ingoiato molti bocconi amari per gli eccessi del marito, raccomandò al papa l’anima di Galeazzo per “i saccheggi, ruberie, estorsione dei suddi109
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Ritratto equestre
NEL CASTELLO SFORZESCO È il maniero rinascimentale urbano più grande d’Italia. Venne costruito a partire da una rocca viscontea, che fu eretta tra il 1358 e il 1368 a cavallo con la cinta medioevale.
Galeazzo Maria ritratto a cavallo, con le ricche insegne del casato. Galeazzo fu investito cavaliere a soli sei anni, nel Duomo di Milano, e fin da ragazzino la caccia fu una delle sue più grandi passioni.
CORTILE DELLA ROCCHETTA Fortezza nella fortezza, fu il rifugio di Bona di Savoia, che commissionò l’alta torre, finché il cognato Ludovico il Moro non prese il potere.
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CORTILE DELLE ARMI La Piazza d’Armi, vastissima, era destinata ad accogliere le truppe di stanza nel maniero.
MERLATE E CAMMINAMENTI Correvano lungo tutto il perimetro del castello, per consentire l’osservazione al riparo e le ronde. 110
Il funerale avvenne la notte stessa dell’omicidio e il corpo del duca fu seppellito nel Duomo, senza segnalarne il luogo in nessun modo
CORTE DUCALE Dal 1468, la parte destinata alla residenza ducale. Gli appartamenti di Galeazzo Maria si estendevano a pianoterra e al primo piano: gli Sforza vi salivano anche a cavallo grazie a una scala.
vorendo l’artigianato, l’arte della stampa, la coltivazione del riso e del gelso, ben prima del fratello Ludovico il Moro che se ne attribuì poi il merito. Ma restava un personaggio scomodo. La sua politica accentratrice lo portò per esempio a ridimensionare il ruolo della madre Bianca Maria Visconti, donna “de animo virile” abituata al comando, e quello dell’antica nobiltà milanese, che Galeazzo sommerse di tasse. Anche i fratelli
TORRIONE DEL CARMINE Come quello di Santo Spirito (lungo lo stesso lato), era composto di sei sale coperte da volte che ospitarono anche prigioni.
TORRE DEL FILARETE Costruita nel 1452 dal famoso architetto rinascimentale, crollò nel 1521 e fu poi ricostruita nel 1904.
furono emarginati. In particolare Ludovico il Moro che infatti dopo la sua morte si vendicherà prendendo il potere con un colpo di mano a scapito del nipote Gian Galeazzo. Sullo sfondo, Luigi XI, re di Francia, preoccupato per le ambizioni di Galeazzo Maria di diventare re d’Italia. Ce n’era abbastanza per accendere la miccia di una congiura contro quel duca “scapestrato”. • Silvia Büchi
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ti, imposizione di gabelle, vizi di carnalità, simonie notorie e scandalose e altri innumerevoli peccati”, con poche speranze di risparmiargli l’inferno. Qualcosa di buono. Il duca dimostrò comunque buone capacità di governo, anche se in parte vanificate dal caratteraccio. Per Milano aveva progetti grandiosi: fece sistemare il Castello Sforzesco e vi trasferì la corte, migliorò strade e canali, trasformò l’economia lombarda fa-
Parente serpente: Ludovico il Moro Investitura di Ludovico Sforza, meglio conosciuto come Ludovico il Moro (1452-1508). Fratello di Galeazzo Maria, ne prese il posto al comando di Milano prima come reggente, usurpando il potere del nipote, e poi come duca a pieno titolo. 111
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