MOUSSE magazine

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MOUSSE magazine gratuito d’arte contemporanea

numero quattro # novembre duemilasei


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EDITORIALE Alessio Ascari / Edoardo Bonaspetti E sono quattro. Così. Neanche te ne sei accorto. Sei mesi. Magari qualcosa di più. Volati via. Andati. E noi siamo ancora qua. Mica ce ne andiamo. Ci speravi, eh? E invece no. Still the boys next door, con lo stesso sorriso sotto i baffi. Quello degli ultimi arrivati. Quello di chi si imbuca alle feste a cui non è invitato e magari si porta a casa l’argenteria e pure la festeggiata. Perché no. Così. Come una corsa in macchina con Messin’ With The Kid dei The Saints in sottofondo. Col volume alto. Come un patrimonio dilapidato in una sola notte. Elettrici. Come fulmini all’orizzonte in un cielo viola e bellissimo che così non l’hai mai visto. Con lo stesso entusiasmo (si, hai ragione tu, magari un po’infantile) con cui Burroughs comprava pappagalli bianchi. Chiaro no? Così. Che l’arte ci fa girare la testa e lo facciamo per questo, cosa ti credevi? E allora leggitelo con calma questo quarto numero. Prenditi il tempo che ti serve. E smettila di agitarti se non riesci a passare a Milano. Veniamo noi da te. Ci trovi in tutta Italia, da Trieste in giù e via dicendo. Tiè.


SOMMARIO INTERVISTE / PAG. 6 PAOLA PIVI JESPER JUST DOUG AITKEN FOCUS / PAG. 21 CHRIS BURDEN BRUCE NAUMAN / PAG. 26 HELLO MY NAME IS BRUCE NAUMAN VEZZOLI NAUMAN / PAG. 30 VATTENE DA QUESTA STANZA! VATTENE DALLA MIA MENTE, BRUCE! LOVETT+CODAGNONE / PAG. 34 FORGET ALL ABOUT EQUALITY TOM BURR / PAG. 38 L’ARTE COME FETICCIO DE COCK - BUREN / PAG. 43 TRAPPOLE LIBERATORIE SPECIAL GUEST / PAG. 47 MARKUS SCHINWALD HOU HANRU / PAG. 51 INTERVISTA PLANET ASIA / PAG. 52 OLOGRAMMI DI MEGALOPOLI FUTURE PORTFOLIO / PAG. 54 TAKASHI HOMMA LOST IN THE SUPERMARKET / PAG. 57 NEWS + RECENSIONI

DIREZIONE ALESSIO ASCARI / EDOARDO BONASPETTI direzione@moussemagazine.it CAPO REDATTORE CRISTINA TRAVAGLINI cristina@moussemagazine.it RECENSIONI SARAMICOL VISCARDI BOOK EDITOR MARCO VELARDI COLLABORATORI CECILIA ALEMANI / STEFANO BERNUZZI LUCA CERIZZA / LUCA FELLER ANDREA LISSONI / LUCA MARTINAZZOLI SIMONE MENEGOI / ROBERTA TENCONI IN QUESTO NUMERO ILARIA BONACOSSA / LORENZO BRUNI BARBARA CASAVECCHIA / ANNA DANERI FLORENCE DERIEUX / MILOVAN FARRONATO PAOLA MANFRIN / SIMONA MALVEZZI RAUL MONTANARI / LUCIA TOZZI ELENA VOLPATO / ANDREA VILIANI LAY OUT LORENZA NEGRI (progetto grafico) lorenza@moussemagazine.it MELANIE RICHAUD-GARDI PUBBLICITA’ advertising@moussemagazine.it DISTRIBUZIONE distribuzione@moussemagazine.it

BOOKSHOPPING / PAG. 66 LIBRI CHE DEVI AVERE DANCING / PAG. 68 CAMILLA CANDIDA DONZELLA INTRODUCING / PAG. 70 NICO VASCELLARI PIETRO ROCCASALVA / PAG. 73 INTERVISTA SOFISTICA

EDITORE CONTRAPPUNTO s.r.l. MOUSSE MAGAZINE Via Arena 23, 20123 Milano - Italia tel. / fax +39 0236565787 info@moussemagazine.it www.moussemagazine.it

PHIL COLLINS / PAG. 74 NEXT TURNER PRIZE?

STAMPA

SLIDING TATE / PAG. 76 CARSTEN HOLLER @ TURBINE HALL

Registrazione presso il Tribunale di Milano n. 285 in data 18 aprile 2006

CORRISPONDENZE / PAG. 80 BERLIN STUDIO VISITS NEW YORK - MILANO LOS ANGELES - MILANO ARCHITETTURA / PAG. 88 BURNING BORDERS LETTERATURA / PAG. 92 CORMAC MC CARTHY

CSQ via dell’Industria 52, 25030 Erbusco (BS)

COVER Markus Schinwald - Contortionists (Vicky), 2003 courtesy: the artist IN QUESTA PAGINA Lovett/Codagnone - Party with us, 2006 courtesy: Galleria Emi Fontana



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PAOLA PIVI di Alessio Ascari

Realismo Magico. Così è stato definito lo stile di Paola Pivi (Milano, 1971). Cento cinesi chiusi in una stanza, un asino su una barchetta in mezzo al mare, e poi l’isola di Alicudi fotografata in scala 1:1, un aereo rovesciato e uno scivolo d’erba per gli art-addicted. Lavori sgargianti, sensazionali. Questioni semplici affrontate con un’attitudine unica, che nel 2001 le è valsa il Leone d’Oro alla Biennale di Venezia. La incontriamo alla Fondazione Nicola Trussardi, con la quale sta preparando la grande mostra che aprirà i battenti il 14 novembre presso i Vecchi Magazzini della Stazione di Porta Genova, a Milano. Ne esce fuori un’intervista bizzarra, che rivela alcuni lati nascosti di Paola Pivi: piccole paure, dettagli, un libro sulla passione amorosa, quella che brucia, e una straordinaria, imprevedibile irrequietezza di fondo. Hai affermato che la tua è una natura mobile, che cambi casa in continuazione, che non riesci a stare ferma. In che modo il tuo lavoro rispecchia tutto questo? Io non collego per forza le due cose, ma a ben guardare il mio lavoro è sempre diverso, mutevole, quindi c’è sicuramente una corrispondenza.

Something to love, 2005 - Courtesy Galleri Christna Wilson, Copenhagen and Perry Rubenstein Gallery, New York

Mi parli del tuo viaggio in Alaska e del tuo lavoro sulla gara di Iditarod? So che sei andata lì con un idea di un lavoro preciso che poi alla fine hai abbandonato, quasi per rispetto verso i gareggianti... è vero? La gara partiva dalla città di Iditarod, una città fantasma. In Alaska all’inizio del ‘900 sono arrivati a migliaia i cercatori d’oro; dopo 10 anni, quando l’oro è finito, se ne sono andati tutti e sono rimaste queste città abbandonate. Io in realtà sono andata lì esattamente per non fare un lavoro. Volevo prendermi semplicemente una vacanza da me stessa e quindi ho pensato che potevo andare lì, fare finta di essere una giornalista e seguire questa gara pazzesca. Ho comprato una macchina fotografica, una videocamera. Ho fatto 10.000 foto e alcune sono uscite belle. Allora ne ho scelte quattro e ne ho fatto un lavoro tradizionale, che poi è stato esposto qualche volta. Però ho ancora tutto questo materiale, e mi piacerebbe farne qualcosa di documentaristico. So che stai preparando un libro. Una sorta di raccolta di esperienze amorose. Me ne parli? Verrà pubblicato? Io ho chiesto alle persone: “Sapete quel momento in cui si è pazzi d’amore, non si capisce più niente? A volte in quei momenti si manda o si riceve una lettera, un sms , una mail. Ecco, mandatemi i più folli”. Ne ho ricevuti circa 200. E adesso ho tutto questo materiale che voglio raccogliere.

Sia l’innamoramento che la rottura, giusto? Quando ho fatto quella richiesta, secondo me era chiaro che parlavo dell’innamoramento. Invece la gente questa follia amorosa l’ha interpretata anche come generata dalla rottura, e io ho conservato anche quel tipo di testimonianze. Ci sarà anche qualche tuo messaggio? Ma certo, celati e non. Un tema forte del tuo lavoro è lo spostamento, la decontestualizzazione... Penso che “decontestualizzare” oggi non significhi più niente. Quando questa parola è stata usata per Duchamp era un altro mondo, un altro momento. Le zebre nella neve non sono decontestualizzate, hanno più a che fare con il mondo rovesciato dei cartoni animati. Però prendi qualcuno o qualcosa e lo metti dove non c’entra nulla: penso ai cinesi, alle zebre, all’aereo, agli struzzi. Oltre che essere divertente sembra tutto un po’ dispettoso, quasi insolente, non trovi? Sembra di veder giocare una bambina... sei dispettosa? Sì, il gioco c’è. Secondo me alla fine metto le cose al posto giusto. Dove dovrebbero stare. Un’altra cosa che mi ha sempre colpito nei tuoi lavori è la luce. È tutto molto luminoso, colorato, quasi sgargiante. Secondo te la


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Senza titolo, 2004 - foto di: Hugo Glendinning - courtesy Galleria Massimo De Carlo, Milano


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bellezza è luminosa? E penso anche ai fari puntati sul pubblico... I miei lavori riescono colorati e luminosi perché uso cose attraenti che lo sono già di loro. Però ad esempio il lavoro con gli alligatori nella panna montata non è uscito luminoso. Secondo me ci sono anche lavori diversi. Sono d’accordo. E ce n’è uno che mi ha colpito in particolare. Qualche anno fa, entro nella galleria Massimo De Carlo e vedo una piccola foto di Kurt Cobain e uno specchio rotto. Tutto il colore, lo humor, la sensazionalità scompaiono. Rimane la morte, l’identità spezzata. Ed è come una sorpresa da Paola Pivi. Almeno per me è stato così... mi parli di quel lavoro? Io non so di cosa parla quel lavoro. So che quella foto mi piaceva da morire e la volevo comprare. La vedevo da Goldenshot, un laboratorio fotografico a Londra. Quando ho chiesto a Chris di Goldenshot dove si potesse comprare, lui me l’ha regalata. La tenevo a casa. In realtà in quel momento vivevo in uno studio sistemato alla meno peggio. Per risparmiare avevo letto e cucina fatti con dei cartoni. E poi c’era questa foto che invece era una presenza fortissima. Un giorno un amico è venuto a stare lì e ha rotto lo specchio. E così è nato il lavoro. Alicudi: la foto 1:1. E poi la tua collaborazione con gli scienziati al

100 Cinesi, 1998/2005 - courtesy: Galleria Massimo De Carlo, Milano

Cern. C’è sempre qualcosa di utopico: sfide impossibili, obiettivi apparentemente irraggiungibili... Che rapporto hai con i limiti, con le regole? Nelle tue opere sembri cercare di abbatterli continuamente... Limiti, regole... che parole orribili! Prova a immaginare che bello sarebbe se tra i paesi non ci fossero più confini...

altrimenti poi si appesantiscono e si rovina tutto. In altri casi devo accendere il cervello a 3000, avere tutto sotto controllo e metterci un’energia infinita. Nel tuo lavoro non c’è molta manualità... mi chiedevo se è una cosa di cui senti la mancanza, se è qualcosa che hai raggiunto e che poi hai abbandonato, se ci sono tecniche che ti piacerebbe padroneg-

Penso che “decontestualizzare” oggi non significhi più niente. Quando questa parola è stata usata per Duchamp era un altro mondo, un altro momento. Le zebre nella neve non sono decontestualizzate, hanno più a che fare con il mondo rovesciato dei cartoni animati. Fa molto John Lennon... Sì, lo so, ma prova a pensarci veramente, sarebbe stupendo... Pensa di viaggiare da qui all’Inghilterra e di non incontrare nessun confine... E comunque non sono il limite o il confine i punti di partenza. Il punto di partenza è la speranza o il desiderio, solo che poi purtroppo ti trovi un limite tra i piedi. E nel lavoro? Come gestisci i limiti, le tempistiche, le scadenze? Secondo me il cervello va tenuto spento oppure va acceso al massimo. Ci sono dei lavori che sento di dover fare in modo incosciente,

giare, o se invece non ti interessa affatto... Io ho un’ottima manualità, ma usarla costantemente richiederebbe uno sforzo enorme. In verità, in lavori come l’aereo ribaltato io tocco poco o nulla, ma lì c’è tutta la mia manualità, anche se magari passa per le mani di altre persone. Che rapporto hai con l’imprevisto? Non sono una control freak. Via via che il lavoro prende forma, valuto quali elementi non previsti far entrare a far parte del risultato finale e quali no. Spesso le persone che lavorano per me a


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un lavoro finiscono per inserirci la propria storia, la propria vita. E nella maggior parte dei casi è una cosa che non voglio che succeda. Hai qualche aneddoto, un disastro fatto da qualche operaio? No, in verità non ne ricordo. Forse ho detto un sacco di palle fino ad adesso, non c’è mai stato nessun imprevisto. Hai studiato a Milano, all’Accademia di Brera. Ho letto che non ti piacciono le scuole... Non è che non mi piacciano, però non bisogna vederle come una cosa assolutamente necessaria, come un rilascio di patente. Sono luoghi in cui puoi incontrare cose e persone interessanti e prendere quello che ti interessa. Cosa hai studiato? Guarda, io sono entrata a Brera che non sapevo neppure che esistesse l’arte. Mi divertivo a disegnare, e volevo imparare a disegnare meglio. Mi sono iscritta con un professore che faceva copiare il gesso per quattro anni. Lui era molto bravo e carismatico, ma, quando ci ha portato a visitare la pinacoteca, mi sono resa subito conto che questo anziano professore aveva una percezione molto meno profonda della mia di quello che stavamo guardando.

Poi un bel giorno ho aperto una porta e dentro c’era Garutti che faceva lezione. Da lì ho seguito Garutti e basta. Al suo corso ognuno portava le proprie opere e tutti quanti cercavano di discuterle in modo molto diretto e molto poco ipocrita. Eravamo una classe di persone che, molto spontaneamente, erano attratte da quello che succedeva lì dentro. Non c’era neanche un arrivista. E’ stato un momento speciale. Ora, se ci pensi, metà di quella classe fa mostre: è una percentuale davvero allucinante. Come vivi il giudizio della critica? C’è qualcosa che è stato detto di te che non ti è piaciuto? C’è qualcosa che non è mai stato detto? Con i critici sarebbe bello diventare più amici, chiacchierare con calma. La critica è geniale quando capita che una persona senta il tuo lavoro molto profondamente e che senta l’urgenza di analizzarlo, di parlarne. Ma non è che capiti sempre. Cosa hai visto, letto o ascoltato di recente e che ha lasciato il segno? Ti dico una cosa: ho visto quel film fatto da dei ragazzi con la videocamera digitale - come si chiama? (Blair witch project, ndr), e ho pensato che era meglio che mi dessi una calmata, ho pensato che bisogna stare attenti, perché se ti capita qualcosa di brutto poi muori. L’ultimo libro che hai letto...

Ho letto la biografia del Dalai Lama, quella che ha scritto da giovane. Com’è il tuo studio? Dove lavori? Io ti immagino disordinata... Non c’è uno studio vero e proprio. Alcuni lavori hanno avuto bisogno di un luogo. Per esempio, l’ultimo lavoro realizzato é una struttura di nastri: è stata fatta a Parigi, da Emmanuel Perrotin. Nel comunicato stampa della mostra che stai preparando con la Fondazione Nicola Trussardi nei vecchi magazzini di P.ta Genova, si parla di una Milano operosa, produttiva. Qual’ è il tuo rapporto con la città? A Milano vivi bene se sei impegnatissimo. Se invece sei in un periodo della tua vita in cui sei un po’ più rilassato ti suicidi, perché non c’è nient’altro da fare. Quali sono i luoghi che ami di più? La vetrina di Beryl in via Statuto, un negozio unico al mondo dove vendono delle bellissime scarpe. Se dovessi scegliere un’immagine che trovi rappresentativa della “tua” Milano, quale sceglieresti? Quel palazzo su piazza della Repubblica che ha ancora i buchi della guerra.

Untitled (slope), 2003 - foto: Hugo Glendinning - courtesy: Frieze Art Fair, Londra

Kurt Cobain, 2005 - foto di: Alessandro Zambianchi - courtesy: Galleria Massimo De Carlo


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03.11.2006 11:47:09 Uhr


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jesper

JUST di Cristina Travaglini

Bliss and heaven, 2005 - courtesy: Galleri Christna Wilson, Copenhagen

C’è qualcosa di potente, crudele e geniale che arriva dal Nord Europa. Te ne accorgi quando metti in fila tutti i nomi di artisti, registi, musicisti scandinavi che ti vengono in mente. Saranno gli inverni lunghi, come dicono tutti. Sarà l’ordine e questo senso di perfetta organizzazione. Sarà il rigore del luteranesimo che non conosce redenzione. Sarà quel che sarà, dal nord arriva un pensiero preciso, senza sbavature e di una lucidità spietata. Che fa più o meno così: l’uomo è destinato alla solitudine, non esiste salvezza, tutto quello in cui credi è falso o inutile. O, come direbbe Jesper Just, It will all end in tears, tutto finirà in lacrime. L’ho intervistato pochi giorni fa e al telefono parlava tanto che il nostro registratore ha esaurito il tempo. Lui è nato in Danimarca, a Copenaghen, che poi è la cerniera tra quel mondo e il nostro. Forse anche per questo nel suo lavoro il pensiero di cui parlavo prima è mitigato da una sorta di romanticismo e di calore. Nelle sue narrazioni ambigue, immaginose, spezzate, il primato è della suggestione e della sensazione - come a dire che quello lineare non è l’unico linguaggio possibile e che il senso di una vicenda, di un’immagine, di un’azione non è per forza uno e univoco. Poi c’è da dire che, oltre a esserci nato, lui in Danimarca ci vive ancora, nonostante sia seguito da un’importante galleria newyorkese e sotto gli occhi di tutto il mondo. Tra le altre cose adesso lo vedremo in Italia, è stato selezionato per la sezione Present Future di Artissima, Torino. Però lui resta a Copenaghen, forse per continuare a respirare questo strano virus del nord. Persino lui, quando gli ho chiesto di spiegarmi questa faccenda, quest’onda compatta e devastante che viene dalla Scandinavia, mi ha parlato del tempo, dei lunghi inverni, di una certa predisposizione alla depressione (leggi: suicidio). Forse è una cosa difficile da spiegare per lui, che ci è dentro fino al collo.


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Something to love, 2005 - Courtesy Galleri Christna Wilson, Copenhagen and Perry Rubenstein Gallery, New York


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Poco più di 30 anni, il grande debutto nel 2004 e ora già una quindicina di video all’attivo. Ti definiresti un tipo prolifico, ti piace lavorare tanto, velocemente? All’inizio, nel 2004, avevo appena finito di studiare e tendevo a lavorare molto velocemente, poi la produzione ha cominciato a richiedere sempre più tempo. Ma ho lavorato tanto, questo è certo. Il tuo medium d’elezione è senz’altro il video. E hai lavorato spesso con produzioni altamente professionali e sofisticate. Cosa significa per un artista avere la possibilità di dare libero sfogo al proprio perfezionismo, utillizzando le migliori tecnologie per ottenere un’immagine e un risultato impeccabili? All’inizio cercavo in tutti i modi di distinguermi, di prendere le distanze dai canoni commerciali. Lavoravo in un modo anche molto trash, semplicemente giravo per le strade con la videocamera e aspettavo che succedesse qualcosa. Gli ultimi lavori invece sono molto più vicini alle produzioni hollywoodiane, ma la differenza è che io cerco di distruggere e di escludere tutto il realismo. E cosa mi dici del tuo rapporto con il cinema? Ho letto che uno dei tuoi modelli è il regista noir francese Jean-Pierre Melville. E spesso i titoli dei tuoi film arrivano dal cinema. E’ un importante punto di riferimento per te e per il tuo lavoro, sbaglio? Assolutamente. È il punto di partenza, quello che mi permette di condurre gli spettatori sulla giusta lunghezza d’onda. E i gangster movies di quel periodo, Melville ad esempio, sono un grandioso riferimento perché c’è questo modo particolare di gestire la trama, di mantenere una certa ambiguità nelle relazioni tra i personaggi, che mi interessa perchè lascia allo spettatore libertà nell’interpretazione della storia. Non mi piace puntare il dito e dire: “Questa cosa è come dico io!”. Ognuno deve poterla interpretare come vuole. Mi chiedevo se c’è anche un’avversione verso il cinema e i telefilm americani che veicolano certi modelli comportamentali. Gli stessi che tu cerchi di abbattere... Sì, soprattutto perchè il cinema americano è fermo su certi stereotipi, non c’è un solo film che riesca a superarli. E, avendo questa straordinaria influenza, diffonde i suoi modelli fino a manipolare il modo in cui noi vediamo noi stessi e gli altri. Con il mio lavoro io voglio scuotere queste false certezze e generare confusione sulle cose che la gente sente come “normali”. Nonostante questo grande interesse nei confronti del cinema, si sente anche l’influenza del teatro, nel tuo lavoro... Ho fatto una performance, un tempo mi piaceva fare happening per le strade... E senz’altro in questo tipo di esperimenti c’è una componente teatrale... Ma quando poi ho cominciato a fare film, ho scoperto che è la cosa che preferisco, perché ti permette di avere un controllo totale sull’azione.

No man is an island, 2002, courtesy: Galleri Christna Wilson, Copenhagen and Perry Rubenstein Gallery, New York

Bliss and heaven, 2005, courtesy: Galleri Christna Wilson, Copenhagen

L’ultimo bel film visto? Silence di Ingmar Bergman.


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Johannes Lilleore è un attore che hai usato diverse volte, una sorta di alter ego. Com’è nata questa collaborazione? Ho lavorato con lui prima che lui diventasse un attore e prima che io diventassi un artista. Un lavoro part-time che niente aveva a che fare con quello che faccio adesso. Non ci siamo visti né sentiti per anni e poi ci siamo rincontrati per caso. E da lì abbiamo cominciato a lavorare insieme. Utilizzare lo stesso attore mi permette di creare una connessione tra i diversi film. In particolare ho scelto lui per una serie di video che considero come un corpus unico, quelli in cui mi sono concentrato sulla relazione tra un uomo maturo e un uomo più giovane. Come mai un interesse così costante per questo soggetto? Ho cercato di avvicinarmi al tema da diverse angolazioni, cercando di approfondire e di diventare sempre più preciso. In questi giorni c’è la premiere di It will all end in tears a NY da Perry Rubenstein. È il primo video ambientato a New York.

True love is yet to come, 2005, Courtesy Performa, New York and the artist

Com’è stato girare lì? NY è interessante perché è una città che si è costruita attorno un mito. E anche se il film non è propriamente politico, ho deciso di lavorare con i grandi simboli americani. Quando mi si è presentata l’opportunità di girare questo film, ero certo soltanto di una cosa: non volevo assolutamente fare un ritratto edulcorato della città, darle un aspetto migliore di quello reale. Ci ho messo qualche mese per elaborare il concept del film, che poi è venuto fuori oscuro e apocalittico. Ma del resto quella era l’atmosfera che avevo percepito.

Deve essere a causa dei lunghi inverni, e poi la gente qui è più suscettibile alla depressione. Del resto i paesi scandinavi hanno il più alto tasso di suicidi al mondo...

E il titolo da dove arriva? È il segno di un pessimismo esistenziale senza scampo... Francamente credo che sia ragionevole essere pessimista riguardo a molte cose...

Ho avuto occasione di intervistare Annika Larsson non molto tempo fa. Secondo te ci sono delle connessioni tra le vostre rispettive attitudini? Adoro il suo lavoro, e penso che prendiamo a riferimento la stessa cultura visiva. Poi c’è tutto il discorso della costruzione e ricostruzione dell’idea di virilità, che senz’altro ci accomuna. Ma credo anche che l’approccio sia diverso: il mio lavoro è decisamente romantico, mentre quello di Annika tende ad essere freddo, non solo dal punto di vista stilistico, ma anche perchè è concentrato sull’analisi dei rapporti di forza, che escludono ogni slancio di tenerezza.

Del resto questo pessimismo assoluto accomuna tanti artisti e registi scandinavi. Cosa c’è in quella terra, cos’è che produce questa geniale disperazione? Me lo sono sempre chiesta...

Quindi come definiresti il tuo lavoro? Direi che, distruggendo la narrazione lineare, al tempo stesso ne sto suggerendo una nuova.



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DOUG

AITKEN di Edoardo Bonaspetti

Doug Aitken si è imposto negli ultimi dieci anni come uno degli artisti più interessanti sull panorama artistico internazionale. Californiano, nato a Redondo Beach nel 1968, riceve il Premio Internazionale alla Biennale di Venezia nel 1999. Inaugurerà il 2007 con una delle più imponenti video-installazioni che il MOMA, il museo d’arte contemporanea di New York, abbia mai ospitato. Aitken sceglie il tempo dell’immagine simultanea, i suoi video dilatano lo spazio e contraggono il tempo. Il suo è un universo caleidoscopico e frammentato. Perchè quando il mondo diventa immagine, le narrazioni lineari vanno in crisi. Hai pubblicato di recente Broken Screen: una raccolta di interviste ad artisti, architetti, cineasti e musicisti che gravitano intorno al tema della non-linearità nel processo creativo. Come è cominciata? Pensavo a questo progetto da diverso tempo. Mi capitava di par-

lare con amici - artisti, scrittori - e ogni volta mi accorgevo che, sia che avessi di fronte un coreografo come William Forsith o un artista come Matthew Barney, ricorrevano sempre alcune idee sul concetto di narrazione. Pensavo che sarebbe stato molto interessante catturare queste discussioni; a volte ti fai una chiacchierata a mezzanotte e poi la mattina seguente le idee ti fluttuano in testa ma non hai nulla che possa “documentarle”. E allora ho voluto realizzare questo libro e vedere da quante angolazioni si poteva affrontare questo tema. C’è qualcuno che non hai intervistato ma che avresti voluto? Non c’è niente che amo di più che incontrare casualmente nuove persone e discutere. A gennaio, in contemporanea con l’intervento al MOMA, uscirà un nuovo testo che raccoglie altre conversazioni. Tra quelle che preferisco, c’è un dialogo con una delle pochissime taxiste donne a New York. È stato incredibile incontrarla. Mentre percorrevamo la sesta, mi descriveva le strade della città come fiumi d’asfalto, mi parlava delle trasformazioni dei grattacieli... È stato un incontro che ha lasciato il segno.

Mi ha colpito un’affermazione fatta da Ugo Rondinone durante una vostra conversazione. Rondinone sosteneva che oggi manca un linguaggio crtitico capace di affrontare gli ultimi sviluppi dell’arte contemporanea. La struttura lineare ed ordinata del nostro sistema linguistico si rivelelerebbe riduttiva rispetto ai progressi che il linguaggio visivo ha compiuto in questi ultimi anni... Sai, penso che ogni ambito della comunicazione cresca nel momento in cui emerge un deficit, una mancanza in un altro ambito. È capitato, quindi, che il linguaggio visivo esercitasse i propri muscoli in un momento in cui quello verbale non era sufficiente. Non scordiamoci, però, che la letteratura ha delle potenzialità che il linguaggio visivo non possiede. In questi anni sembra diffusa l’idea che non si possa più creare qualcosa di veramente innovativo. Molti pensano che la nostra cultura, e penso alla cultura nel senso più ampio possibile, debba necessariamente riferirsi al già detto, al già fatto. Tu cosa ne dici? E’ possibile creare oggi qualcosa che non sia connesso al passato? È una domanda complicata. Da un certo punto di vista, tutto ciò


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Interiors, 2002 - 03 - courtesy: the artist


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che realizzi è sempre legato al passato, ma allo stesso tempo siamo tutti consapevoli che la nostra società è profondamente mutata rispetto a trent’anni fa. Oggi la nostra vita assomiglia più a un caleidoscopio, è frammentata ed è forse per questo che c’è un forte interesse, un’enfasi verso tutto ciò che accade ora, nel presente. È un aspetto che mi stimola moltissimo. Tuttavia mi colpisce l’arretratezza culturale dei nostri modelli narrativi. Ci aspettiamo, ad esempio, che ogni storia abbia un inizio e una fine, che un film abbia una certa durata o che al termine di un libro ci sia sempre una conclusione. Sono aspettative lontane da ciò che accade veramente intorno a noi. Quindi mi interessa rompere le strutture troppo fisse e lineari; mi piace alterare i linguaggi visivi, modificarne i modelli spaziali e temporali. In generale cerco di trovare un terreno più aderente all’esperienza che ogni giorno abbiamo della vita, qualcosa che assomigli più ad un continuum. Se cammino per strada con un amico, ad esempio, posso parlare con lui e allo stesso tempo osservare qualcuno in una macchina ed un attimo dopo perdermi in un ricordo… Vivi e lavori tra Los Angeles e New York, due città, due poli dell’America, culturalmente distanti se non in tensione. Tu come vivi questa distanza? Cosa ha l’una che manca all’altra e viceversa? E se fossi costretto quale sceglieresti? Los Angeles e New York sono le due polarità della America: sono come il bianco e il nero, il giorno e la notte. Amo la loro distanza e la tensione che tale distanza fa esplodere. Io ho scelto L.A., vivo vicino all’oceano ed ogni mattina vado in spiaggia; mi affascina guardare ad ovest e non trovare nulla, non vedere più terra: tutto finisce. Quando la civiltà europea si è spinta verso l’America, prima è arrivata nella East Coast, poi ha proseguito nel midweast fino a trovare un termine geografico. Qui esiste un senso di vuoto, una mancanza di storia: c’è qualcosa di assolutamente liberatorio nella California. New York, invece, assomiglia più ad un isola bloccata tra l’Europa e l’America. Che ne pensi delle rispettive scene artististiche? Sono climi, temperature creative molto diverse. L’area di New York è molto più compatta, compressa e verticale. Il lavoro tende, quindi, a diventare più formalizzato. Nella West Coast, invece, tutto è più sperimentale e questo mi attrae molto. C’è spazio per seguire strade nuove, spazio per permettersi di sbagliare… A New York, il MOMA e Creative Time ti hanno commissionato una videoinstallazione che coinvolgerà a gennaio le sette facciate esterne di uno dei più importanti musei del mondo; forse uno dei

metallic sleep, 2000 - courtesy: the artist

progetti di public art più ambiziosi mai realizzati in USA. Cosa mi puoi dire? Sicuramente che dovrei mettermi al lavoro sul serio. Scherzi a parte, è un progetto che nasce da una contaminazione tra architettura e arte. L’obiettivo è quello di trasformare l’edificio in una struttura dinamica, in movimento. Ho pensato di convertire il museo in una cascata di immagini che possano interagire direttamente con lo spettatore, che si tratti di un passante uscito dalla metropolitana o di un appassionato d’arte. In sostanza, quello che vorrei è che ne uscisse un lavoro potente, trasversale, capace di comunicare su più livelli. Spesso nel tuo lavoro rappresenti la città come uno spazio anonimo, poco organico. Penso all’installazione The Moment in cui si alternano immagini di persone che dormono a quelle di enormi grattacieli; ma anche Cristal Coma, una serie di fotografie che ritraggono “non luoghi”, architetture inaccoglienti spogliate di qualsiasi umanità. Fino a che punto l’architettura, lo spazio, la città possono influenzare la nostra vita? Credo che non ci sia mai una separazione tra ciò che ci circonda e noi stessi. Viviamo in un mondo che abbiamo creato noi, più o meno direttamente, e a volte accade di diventare ciò che abitiamo, che viviamo… Ci sono momenti in cui non c’è differenza tra il tuo battito cardiaco e la velocità, il ritmo di una metropolitana, tra il white noise di un incrocio e la tua mente che vaga in un taxi. A volte, penso che la città sia un organismo vivente, una rete nevralgica che connette luoghi e persone e li fonde assieme. Sicuramente è uno dei temi centrali del mio progetto al MOMA… Ho letto che trovi molto interessante realizzare video perché ti rendono consapevole di come percepiamo il tempo. È vero? Uno più grandi meriti del cinema è stato diffondere la consapevolezza che il tempo può essere dilatato e contratto. È una cosa che mi interessa moltissimo e che, certo, mi spinge a lavorare con il video. Ci sono artisti, del passato o del presente, che consideri punti di riferimento? Diciamo che tutto mi può influenzare, non guardo all’arte come unico punto di rifermento. Vivo come quel personaggio di Pasolini che prende un taxi e si infila in questa conversazione miracolosa che gli cambia la vita. Penso che la creatività sia una dimensione senza confini, un continuum….sai, potremmo quasi paragonarci a dei satelliti, trasmettiamo informazioni, le irradiamo…

Una cosa che mi ha sempre colpito nei tuoi video è la tensione verso la tridimensionalità, è come se impedissi alle immagini di ridursi alla superficie piatta dello schermo. Utilizzi multiproiezioni, le allestisci nello spazio in modo geometrico… Penso a lavori come Interiors o Lightrain… Dimmi qualcosa di più. Ogni mio lavoro è un’entità singola, con la sua personalità e le sue caratteristiche. Quello che tento di fare è rompere sia il formalismo dello schermo, sia un certo formalismo narrativo. In Interiors, il lavoro cambia a seconda di come gli giri attorno e i personaggi variano continuamente. E questa è una cosa che infrange lo statuto bidimensionale dell’immagine, e tende verso un più onesto coinvolgimento dello spettatore, più diretto e meno distaccato. Mi hanno detto che fai molta attenzione alle colonne sonore dei tuoi video, anche se forse parlare di colonna sonora è un po’ riduttivo... Sì, infatti non penso mai all’audio di un lavoro nei termini di una colonna sonora, piuttosto come un elemento che si muove insieme alle immagini. La maggior parte della musica e dei suoni sono creati appositamente per le immagini, a volte dopo una lunga e complessa elaborazione. In Moment ho inserito 1500 tipologie di suoni differenti distribuiti in 10 minuti. Bisogna esplorare nuove dimensioni, in cui il suono non sia solo musica: è una frontiera fantastica. Quanto sono importanti l’improvvisazione e la casualità nel tuo lavoro? Non penso che ci possa essere un reale progresso senza una certa dose d’improvisazione e senza confrontarsi con gli errori. Quando ho girato il materiale per la video-installazione al MOMA, mi sono mosso a New York per due settimane. Ogni giorno avevamo una scaletta che ci indicava dove andare, cosa filmare e chi erano gli attori. Tuttavia, abbiamo cercato di integrare nelle registrazioni tutte quelle situazioni che non puoi prevedere, che non ti aspetti. Sono fonti straordinarie che arrichiscono il tuo lavoro ma che non ti puoi permettere se lavori in modo troppo programmato, diciamo alla Hithcock. Qualche anno fa hai preso una barca e hai risalito il Los Angeles River. Che intenzioni avevi? Scovare le sorgenti del Nilo! Infine, se dovessi inviare un’immagine simbolo della civiltà umana a forme di vita extraterrestri, quale sceglieresti? Invierei Dick Cheney! (vice presidente degli U.S.A., ndr)


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new skin, 2002 - courtesy: the artist

The Mirror # 11 (rise), 1998 - courtesy: the artist

rendering for Doug Aitken’s video installation at MOMA, New York, 2006 - courtesy: the artist



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LONELY

HERO

TV Hijack, 1972

di Simone Menegoi

Chris Burden è nato a Boston nel 1946 ma è uno di LA, vive e lavora lì da sempre. Negli anni Settanta forza i limiti della Body Art con lavori audaci e pirotecnici, mettendo in pericolo la propria vita in performance estreme, caratterizzate da uno spiccato “guerrilla-style”. Da allora la sua carriera è stata un crescendo. Ha lavorato con i musei e le gallerie più importanti del pianeta ed è rimasto uno duro e puro. Violenza e rapporti di forza sono temi che gli interessano e che gli sono sempre interessati. Recentemente lo abbiamo visto a Milano - in gran forma - in occasione della mostra alla Galleria Massimo De Carlo, che è stata per noi un invito a ripercorrere la sua storia. Viva Chris. Nella prima metà degli anni ‘70, l’attività artistica principale di Chris Burden era quella di mettere a repentaglio la propria incolumità; quella secondaria, di mettere a repentaglio l’incolumità altrui. Alla prima categoria appartengono le sue gesta più celebri (o famigerate), come farsi sparare nel braccio con un fucile (Shoot, 1971), o crocifiggere a un maggiolone Volkswagen (Trans-fixed, 1974). Nella seconda si collocano gesti non meno sconcertanti, come sparare fortunatamente senza conseguenze - a un aereo in volo (747, 1973), o ‘dirottare’ un programma televisivo locale puntando un coltello alla gola della conduttrice (TV Hijack, 1972). Come mostrano le rare registrazioni video dell’epoca, si trattava, a dispetto di quello che si potrebbe credere, di azioni seccamente antispettacolari, consumate in pochi minuti, in una dimensione semiclandestina (la trasmissione televisiva di TV Hijack non era in diretta). Nessuna volontà di far notizia o scandalo: piuttosto, una specie di esperimento esistenziale estremo, essenzialmente privato. Quando, malgrado tutto, l’eco delle sue performance cominciò a diffondersi sulla stampa americana, l’artista californiano le abbandonò. Una delle sue ultime azioni potenzialmente violente, Back to you (1974), nasceva già come reazione alla loro fama mediatica: invertendo l’aspettativa degli spettatori di essere aggrediti fisicamente, proponeva loro di aggredire l’artista conficcandogli degli spilli nella pelle. Con la stessa lucida determinazione con cui metteva in gioco la propria vita, a partire dal 1975 Burden ha impresso una sterzata al suo lavoro, così netta che qualcuno potrebbe faticare a trovare un filo conduttore fra le sue prime opere e quelle successive. Cosa lega una performance drammatica come Shoot a Beehive Bunker (2006), esposto in questi giorni nella prima personale italiana dell’artista (da Massimo de Carlo, a Milano), un piccolo bunker di cemento faida-te, realmente efficace contro un assalto balistico? “Il mio lavoro è passato dall’avere a che fare con questioni personali legate al potere, all’avere a che fare con questioni generali legate al potere”, sintetizza Burden. Da farsi sparare con un’arma individuale a progettare difese contro le armi da guerra; dalla minaccia di un coltello alla rassicurazione (che finisce per essere quasi altrettanto minacciosa) di una serie di uniformi della polizia di Los Angeles, complete di armi e sfollagente, che l’artista ha fatto riprodurre in dimensioni più grandi del vero. (L.A.P.D. Uniforms, 1993, un altro lavoro esposto da De Carlo). Ma come far rientrare in questa prospettiva opere come i modelli in scala di ponti, costruiti dall’artista alla fine degli anni ’90 con pezzi di giochi di costruzione in metallo (il famoso ‘meccano’), o come The Flying Steamroller (1996), un enorme bilanciere che tiene in equilibrio e fa ruotare un imponente rullo compressore stradale, appena riproposto a Londra in occasione della personale di Burden alla South London Gallery? Forse la caratteristica essenziale di questo artista, quella che permette di collegarne gli aspetti più diversi e apparentemente lontani, è l’accento sull’individualismo, sui poteri e le risorse dell’uomo in quanto singolo. Le performance degli anni ‘70 erano tentativi di reagire al modo in cui i media trasformavano le immagini di violenza reale (del Vietnam, soprattutto) in fiction, sperimentando di persona cosa significa patire privazioni, paura e dolore fisico; ma erano anche tentativi di dominare e vincere tutto ciò, strenui esercizi di endurance. “Era come poter organizzare il destino o qualche cosa del genere, in una maniera controllata”, ha detto l’artista di Shoot. Nelle opere successive, Burden ha applicato questo approccio ad aspetti della vita che, in una società evoluta, sono altrettanto cruciali della paura o del dolore: il rapporto con la scienza, con la tecnologia, con le istituzioni politiche e militari. Ha invertito il rapporto


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747, 1973


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di passività e sottomissione che di solito abbiamo con queste autorità, le ha decostruite e ricostruite a misura della comprensione e delle necessità dell’individuo medio. Nel 1975 ha concepito, studiato e realizzato un prototipo di auto energeticamente efficiente, capace di percorrere 35 chilometri con un litro e di correre a 160 Km all’ora; fra la fine degli anni ’70 e la metà degli anni ’80 ha realizzato dei macchinari per spiegare in modo intuitivo le leggi fisiche implicate dal moto, dall’attrito, dalla trasmissione della luce. Negli stessi anni (e dunque prima di Tom Sachs), ha costruito armi DIY, in miniatura ma realmente funzionanti, e ha allestito (in anticipo sui Chapman Bros) un modellino in scala di una gigantesca scena di battaglia. La storia non è sfuggita a questo processo di riappropriazione critica: dell’inizio degli anni ’90 è The Other Vietnam War Memorial, dove a essere incisi su grandi lastre di metallo non sono i nomi degli americani, ma dei tre milioni di vietnamiti,

Shoot, 1971

civili e militari, morti nella ‘sporca guerra’. C’è qualcosa di assolutamente americano in questo modo di fare e di pensare. Il rispetto dei diritti del singolo, la fede assoluta nelle sue possibilità e la severa valutazione delle sue responsabilità sono il fondamento stesso della società americana, a partire dalla sua carta costituzionale. E implicano che l’individuo sia non

filosofia morale alla sua cultura pop, dalla fiction alla cronaca. C’è un lato sublime in questo mito - l’idea di ‘disobbedienza civile’ elaborata da D. H. Thoreau a metà dell’800, per esempio - e uno tenebroso - Unabomber, i giustizieri solitari nati dalla paranoia dell’autodifesa. Con le due facce di questa mitologia, Chris Burden ha giocato fin dall’inizio del suo lavoro. Lui stesso, attraverso le

C h r i s B u rd e n , at t ra v e r s o l e s u e p e r f o r m a n c e e l e s u e o p e r e , h a c o s t r u i t o c o n s a p e v o l m e nt e ( e s p e s s o i ro n i c a m e nt e ) l a f i g u r a d i u n e r o e s o l i t a r i o . solo distinto, ma perfino opposto alla collettività; che abbia il pieno diritto di criticarla e combatterla con tutte le sue forze quando viola i suoi diritti e i suoi valori. La figura dell’eroe solitario, che obbedisce solo alla propria coscienza e lotta contro il sistema, è uno dei grandi miti dell’America, e si ritrova ovunque, dalla sua

sue performance e le sue opere, ha costruito consapevolmente (e spesso ironicamente) la figura di un eroe solitario, che sfida il pericolo, crea da solo il proprio ‘kit di sopravvivenza’ (Survival kit, 1979), si dota di armi autocostruite e perfino di una ‘forza aerea’ personale, sia pure in miniatura (i modellini di C.B. Air

Transfixed, 1974

Througt the Night Softly, 1973


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Force, 1980). Il suo studio, dove studia e sviluppa progetti sempre più tecnicamente complessi, è un hangar metallico isolato e sull’orlo di un canyon a Topanga (California): a qualcuno potrebbe far venire in mente il capannone-bunker del film Enemy of the State (Tony Scott, 1999), un fortino inattaccabile, schermato contro ogni possibilità di intrusione elettronica, creato da un ex agente della CIA (Gene Hackman) per proteggersi da essa. Naturalmente, giocare con un mito non significa identificarsi con esso. Burden è un artista essenzialmente critico, e della critica accetta sia l’impegno alla lucidità, sia quello alla responsabilità. L’anno scorso, un allievo dell’università in cui l’artista insegnava, la celebre U.C.L.A. di Los Angeles, forse con l’intenzione di calcare le orme di Burden stesso, ha inscenato davanti ai compagni una performance che consisteva in una partita di roulette russa. Accertato che non c’era stato pericolo reale, l’università non ha ritenuto di dover prendere provvedimenti disciplinari contro lo studente: l’introduzione di un’arma da fuoco nel campus, da molti contestata, è stata giustificata appellandosi al diritto di espressione. Burden, però, è stato così contrariato dalla decisione dell’ateneo che per protesta lui e la moglie (la scultrice Nancy Rubins, anche lei di ruolo all’U.C.L.A.) hanno dato le dimissioni. “Quando insegnavo performance, dicevo ai miei studenti che ci sono cose che non puoi fare”, ha spiegato l’artista. “Quando si è parte dell’università, non si ha libertà totale. Quando si è fuori dalla classe, allora è diverso. Là puoi fare ciò che devi fare e lasciare che la società si confronti con esso”. Solo nei film, l’eroe solitario è al di sopra di ogni legge, sempre e ovunque; nella realtà non succede – o meglio, non dovrebbe succedere. E Burden, col suo gesto, ha voluto ricordarlo.

L.A.P.D. Uniform, 1993 - courtesy Galleria Massimo De Carlo, Milano

The Rant, 2006 - courtesy Galleria Massimo De Carlo.



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hello, my name is

BRUCE NAUMAN

NoNo, 1983, - courtesy: Sperone Westwater

In occasione della grande retrospettiva sull’artista americano al MADRE (Napoli), oraganizzata in collaborazione con la TATE Liverpool, pubblichiamo in queste pagine un testo di Elena Volpato, già comparso sul volume di interviste “Inventa e Muori”. Un’analisi limpida e audace, che mette in luce con efficacia alcuni aspetti cruciali dell’opera di una leggenda vivente. “Ora entro” pensava il contadino, seduto davanti alla porta di casa. Teneva le dita incrociate sul panciotto e un piede su una grossa pietra che spuntava dalla terra. “Ora entro” diceva tra sé e sé, ma restava lì. Non è l’inizio di un racconto, né quel genere d’opportuna citazione con cui i critici sono soliti incominciare i propri saggi, è un gioco e niente più. Assomiglia un po’ al gioco del “se fosse”… Uno pensa ad un personaggio e gli altri chiedono: “Se fosse un fiore, che fiore sarebbe? E se fosse un animale?” E così via finché il nome del personaggio non viene indovinato. Se Samuel Beckett avesse cercato tra le parole di Wittgenstein un’immagine per una sua pièce, quale avrebbe scelto? Avevo premesso che era solo un gioco. Molti di quelli che hanno scritto sul lavoro di Bruce Nauman non hanno potuto fare a meno di evidenziare quanti riferimenti ci siano nelle sue opere al pensiero di Wittgenstein e ai testi di Beckett.

“Ora entro” è una frase immaginata per provare a tenere quei ri-ferimenti uniti, così come si trovano uniti, con molti altri, nel lavoro di Nauman, e per evitare ogni ermeneutica da nota a piè di pagina con cui accade di veder separatamente rilevate quelle cose orribilmente chiamate ‘influenze’, e giustamente negate da Nauman, quanto meno nella loro brutalità. In differenti occasioni, però, dice di aver letto, nel periodo iniziale delle sue ricerche, testi di Beckett, romanzi di Nabokov e soprattutto le Ricerche filosofiche di Wittgenstein, l’opera dalla quale Nauman dichiara di aver ricavato un’attitudine e un metodo. E in quell’opera c’è un passo dal quale noi abbiamo tratto l’immagine del contadino. In quel passo Wittgenstein sta affrontando il tema dell’immaginazione, della formazione di qualcosa che “si ha in noi”. Ipotizza che quello spazio, nel quale uno pensa tra sé e sé,

drone, né fuori né dentro. “Immagina – scrive Wittgenstein – un quadro raffigurante un paesaggio immaginario, e in esso una casa - e immagina che qualcuno chieda «A chi appartiene quella casa?». La risposta potrebbe essere, d’altronde: «Al contadino che è seduto sulla panca lì davanti». Ma allora egli non può, per esempio, entrare nella sua casa”. E continua “Si potrebbe anche dire: certamente il proprietario della ‘stanza visiva’ dovrà essere della stessa natura della stanza; ma non si trova in essa, e un fuori non esiste”. Wittgenstein conclude che ciò che si è trovato parlando di ‘stanza visiva’ è un nuovo modo di parlare, un nuovo paragone, una nuova sensazione anche, ma un luogo e una movenza della grammatica, non uno spazio metafisico, ma affianco alla movenza grammaticale sente il bisogno di aggiungere che si è scoperto anche un nuovo modo di concepire le cose, come se si fosse trovato un nuovo modo

Quello che si fa nella vita di tutti i giorni, è un problema dell’arte. Ed è un problema di più ampia portata rispetto alla questione se si debba essere un pittore o uno scultore, è un problema che hanno tutti prima o poi. si possa provare ad indicare col termine ‘stanza visiva’. Tuttavia osserva che quella stanza, per quanto diciamo d’averla in noi, non possiamo possederla, tanto quanto non possiamo camminarci su e giù, guardarla o additarla, e tanto meno riusciamo a possederla se applichiamo ad essa la stessa forma della stanza fisica in cui ci troviamo. La ‘stanza visiva’ non ha nessun pa-

di dipingere, un nuovo metro, o un nuovo genere di canzoni. Nelle due concessioni del linguista alla ‘stanza visiva’: la sensazione nuova e il nuovo modo di concepire le cose, troviamo due elementi fondamentali del lavoro di Nauman, che con quel dentro e con quel fuori della stanza visiva, nella loro assenza fisica ed insieme nella loro esistenza percettiva, si è confrontato sin dagli


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Art Make Up, No.1: White, 1967, - courtesy: Sperone Westwater


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inizi. Confrontarsi con quella stanza è confrontarsi con un’impossibilità di attraversamento compiuto, e ha significato per Nauman esplorare quello spostamento che si attua tra percezione e inganno percettivo, che può essere, di volta in volta, la sensazione destabilizzante di un attimo o lo sforzo di una tensione prolungata. “Ora entro” diceva tra sé e sé il contadino, ma restava lì. Molti personaggi di Beckett dichiarano, dicono e ripetono frasi come “Andiamo”, “Ti lascio”, “Ora vi devo lasciare”, “Io parto”, “Io me ne vado”, dichiarazioni alle quali non segue mai il movimento, l’atto. Sono di molti tipi le azioni annunciate e non agite dai personaggi del suo teatro, ma quando si tratta di ‘andare’, Beckett mette in scena per lo più l’impossibilità di uscire, piuttosto che di entrare, la difficoltà di abbandonare la scena, di attraversare il limite dalla luce verso l’ombra, di separarsi da ciò che è dentro, la cornice; e allo stesso modo la tensione costante delle rappresentazioni va verso la morte, verso la fine. “Ora entro” suona in modo beckettiano, ma assomiglia troppo ad un inizio per poter essere davvero una sua frase, perché dalla condizione umana, che è quanto interessa a Beckett come a Nauman, si esce, o si aspetta di uscire. C’è chi per Beckett ha ricordato le parole di Ungaretti, “la morte si sconta vivendo”, apparentemente contrarie all’assunto di Wittgenstein: “La morte non è evento della vita. La morte non si vive.” Ma per Nauman la morte e la vita, così come l’entrare e l’uscire, sono atti di una realtà bipolare i cui estremi sono opposti interscambibili come nei suoi One Hundred Live and Die (1984), secondo la sessa regola per cui ai suoi esercizi di levitazione, Failing to levitate in the studio (1966), rispondono quelli di caduta, Anti-Illusion (1969), o d’immersione, Tony sinking in the floor (1973). Dunque Nauman potrebbe dire “Ora entro” e pensarlo tra sé e sé e, se per continuare il gioco, lo immaginassimo nei panni del nostro contadino, potremmo esser certi che dal palcoscenico farebbe percepire tutta la tensione e tutta la fatica di quel tentativo irrealizzato di muoversi. La differenza fondamentale tra il tentativo di uscire in Beckett e l’entrare e uscire in Nauman sta tutta nel diverso utilizzo espressivo dello spazio. Nel teatro “c’è uno spazio definito con dentro delle persone. E questo è rilassante” dichiarò Beckett che, considerando l’impossibilità di riconoscere nel romanzo modernista il mondo come un tutto unitario e comprensibile, trovava nel teatro dei limiti spaziali e temporali dai quali è stato notato come seppe trarre vere occasioni di libertà espressiva. Wittgenstein, Beckett e Nabokov, tutti appassionati del gioco degli scacchi, tanto da dedicarvi molti aspetti delle loro opere, hanno nutrito la consapevolezza del loro ‘qui e ora’ nei confini di un preciso schema di movimenti. Anche Nauman a un certo punto si diede una scacchiera: il primo atto della sua ricerca artistica fu acquistare uno studio, una volta terminato il college, ed entrarci e starci dentro tutti i giorni, anche ‘solo’ per camminarci su e giù. “In studio mi ero sistemato da solo e questo mi ha portato a domandarmi cosa faceva un artista quando era completamente da solo in studio. (…) Mi occupavo di ciò che avrei fatto durante il giorno, di come sarei passato da un giorno all’altro, e allo stesso tempo mi preoccupavo di mantenere il mio livello di interesse per un lasso di tempo più lungo, per esempio per la durata di una fase della vita (…) Quello che si fa nella vita di tutti i giorni, è un problema dell’arte. Ed è un problema di più ampia portata rispetto alla questione se si debba essere un pittore o uno scultore, è un problema che hanno tutti prima o poi”. Ecco espressa la condizione umana e tracciata una quotidiana scacchiera. Presto Nauman avrebbe disegnato quadrati di nastro adesivo sul pavimento dello studio vuoto, e regolarizzato il suo beckettiano camminare su e giù in precisi movimenti come sul territorio di un gioco da tavolo. Nabokov, l’ultimo dei tre riferimenti riconosciuti dall’artista, il meno approfondito dalla critica, ma anche il più immaginoso, ha realizzato in letteratura immagini raddoppiate nel tempo in modo del tutto simmetrico a come Nauman ha realizzato in scultura immagini raddoppiate nello spazio. Ada, il romanzo che nella finzione narrativa è scritto come un diario al presente da un filosofo convinto di abitare su Anti-Terra, contiene l’immagine di Zembre, un’antica cittadina del Vallese sulle rive del fiume Minder che, assediata dalla costruzioni moderne, fu ricostruita minuziosamente nel suo aspetto antico sull’opposta riva del fiume. Zembre è immagine dell’impossibilità di agire pienamente il nostro “Ora entro” in entrambe le dimensioni, dello Spazio e del Tempo, e per entrambi gli autori, Nabokov e Nauman. Quest’ultimo realizzò alla fine degli anni Sessanta una serie di film e video in cui il tempo, era affrontato secondo lo stesso principio: il ritmo, riconosciuto come unica possibile chiave di lettura del tempo dal filosofo protagonista di Ada: “non i battiti cadenzati del ritmo, ma lo spazio tra due battiti, l’intervallo grigio tra due colpi neri; il Tenero intervallo.”

Raw Material - BRRR, 1990, - courtesy: Sperone Westwater

estratto da Inventa e Muori: Interviste 1967-2001, Gian Enzo Sperone e a+mbookstore edizioni, 2005


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Double No, 1988, - courtesy: Sperone Westwater

Mean Clown Welcome, 1985, - courtesy: Sperone Westwater


MOUSSE / VEZZOLI

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Un vecchio luogo comune hollywoodiano sostiene che sia molto più facile ricavare una buona sceneggiatura da un qualsiasi libro spazzatura piuttosto che ispirandosi a un classico. Come hai aggirato il rischio ‘cine-polpettone’ nel riferirti a un classico dell’arte contemporanea come Bruce Nauman? Bruce Nauman rappresenta la “buona sceneggiatura”, mentre il mio remake di Bouncing Balls (1969) e l’installazione con le rose rosse sono la mia idea di come corromperla e convertirla in cine-spazzatura... La logica conclusione di questo secolo di avanguardia permanente sembrerebbe il reclutamento del sistema dell’arte nella società dello spettacolo, una mossa di geniale mascheramento dell’avanguardia contemporanea di fronte a quella “confidenza con il pubblico” che l’arte avrebbe perduto... La posizione di quegli artisti che, come te, ricercano oggi un ruolo pubblico forte, e un forte impatto sul pubblico, mi sembra il tentativo – che per altro fu in parte anche quello di Nauman - di pensare l’artista appunto come una figura giullaresca in grado di sviluppare una riflessione ludica a critica (concettuale?) sui meccanismi infernali del ‘pop’ contemporaneo. Mischiando per esempio Milva e Bruce Nauman…. Personalmente non credo di cercare in maniera consapevole un forte impatto nella reazione del pubblico, ma dal momento che il sistema dell’arte è diventato così vario, esteso e a tratti confuso sul piano critico, forse gli artisti oggi si sentono costretti ad ‘urlare’ un po’ di più perché circondati da molto rumore. Quando presentasti Greatest Hits – Milva canta Bruce Nauman in occasione della mostra personale al Museu Serralves di Porto, nel 2004, facevi per la prima volta riferimento a Nauman? Qual è stata la ragione per cui hai pensato di porre Nauman accanto a Milva, Amália Rodrigues, Sonia Braga, Lauren Bacall - le altre protagoniste di quella mostra? Sì, era la prima volta. Era da tempo che volevo affrontare l’opera di Nauman e tuttora sogno un giorno di realizzare un remake di Good boy, bad boy (1985). Per quanto riguarda l’accostamento a Milva nella mostra al Museu Serralves, ho voluto associare e contaminare il re dell’arte concettuale americana e una delle icone più popolari della musica leggera europea. Nelle mie intenzioni, quel progetto parla appunto dell’evoluzione (o dell’involuzione) della fruizione dell’arte contemporanea, che forse ai tempi di Nauman era più critica che ludica, mentre oggi è clamorosamente più spettacolare che analitica.

BRUCE! VATTENE DALLA MIA MENTE! VATTENE DA QUESTA STANZA,

di Andrea Viliani

Che Bruce Nauman sia un mito, è cosa nota. Che sia considerato un maestro e un guru da un’intera generazione di artisti, anche. Basti sapere che non molto tempo fa la galleria newyorkese Zwirner and Wirth ha pensato di riunire in una sezione della mostra dedicata a Nauman tutti i suoi adepti e ammiratori, artisti del calibro di Paul McCarthy, John Bock e Mike Kelley, tutti con un lavoro ispirato a Nauman in curriculum. In questa schiera, non poteva mancare il più appassionato (e per nulla segreto) ammiratore di Bruce Nauman: Francesco Vezzoli. Artista bresciano ma milanese d’adozione, Vezzoli è una delle punte di diamante dell’arte italiana nel mondo. Il suo amore per Nauman è un amore dichiarato, totale, fatto di carezze, di citazioni e di remake. In questa conversazione con Andrea Viliani, se qualcuno ancora non lo avesse capito, lui non si nega di gridare di nuovo: I love Bruce!

Non è la prima volta che interpreti il tuo ruolo di artista quale catalizzatore di incontri “impossibili”. In occasione della tua mostra alla Fondazione Prada, sempre nel 2004, hai riattualizzato i Comizi d’Amore pasoliniani senza citarli direttamente ma calandone, invece, le intuizioni e l’esigenza intellettuale nel linguaggio artisticamente spurio ma radicalmente pasoliniano e perfettamente contemporaneo del format televisivo. Hai seguito un processo analogo nell’ideare The Return of Bruce Nauman’s Bouncing Balls, presentato in occasione della tua mostra alla Galerie Neu di Berlino la scorsa primavera? Ho studiato a lungo il video originale di Bruce Nauman e sono rimasto colpito dalla voluta artigianalità delle immagini. Raramente mi era capitato di vedere due testicoli filmati in un modo così crudo e realistico. Ho pensato immediatamente, per opposizione, al linguaggio visivo pornografico, soprattutto dei film porno-gay americani, dove le parti anatomiche sono eccessivamente estetizzate: testicoli perfettamente illuminati, rasati e lucidati... A quel punto è scattata l’idea di “aggiornare” perversamente l’anatomia concettuale di Nauman e farla diventare la parodia di un film porno-gay girato nella San Fernando Valley, il luogo deputato alla ricchissima industria del porno di Los Angeles. La mostra si intitolava The Bruce Nauman Trilogy. Quali erano le altre parti che componevano questa trilogia? Flower arrangement è un ironico remake di Flour arrangements (1966). Esattamente come nell’opera originale di Nauman, ho rappresentato la metamorfosi di una natura morta. Al posto delle sette diverse sculture di farina (flour), ho documentato (sia con sette fotografie che con un’installazione dal vivo) un mazzo di fiori (flowers) dal pieno sboccio al completo appassimento. La terza parte è l’installazione multimediale Greatest Hits – Milva canta Bruce Nauman, per la quale ho chiesto alla cantante Milva di reinterpretare una delle più famose opere audio di Bruce Nauman, Get out of my mind! Get out of this room! (1968), come se fosse una battuta da un dialogo teatrale melodrammatico. La nuova interpretazione sonora è accompagnata da un’insegna al neon. Firmando in corsivo con il nome “Milva” proprio questo neon, scritto invece in lettere maiuscole, sembri riferirti all’analisi del linguaggio fatta da Nauman nei suoi famosi neon pieces… La grafica delle parole “Per Bruce Con Amore” è stata progettata


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il più possibile vicina a quella utilizzata da Bruce Nauman per il lavoro One Hundred Live and Die (1984). Mi piaceva l’idea di citare espressamente un lavoro storico di Nauman, accostandolo ironicamente alla riproduzione dell’autografo di Milva. Mi sembrava anche questo un tentativo ulteriore di fondere il “concettuale” con il “melodrammatico”. Questo tentativo si sovrappone a quello ricorrente, nella tua pratica artistica, di entrare in contatto con una figura mitica: proprio Milva recitò nel 1972 in un film di Carlo Carunchio - D’amore si muore - in cui interpretava il ruolo della fidanzata del protagonista, un giovane la cui ossessione per la bellezza e l’eleganza di una donna più anziana interpretata da Silvana Mangano, icona di altre tue opere, giunge al limite di un paradossale suicidio (d’amore, si sa, non si muore). L’annullamento della distanza, spesso favorito dalla ‘cattiva coscienza’ provinciale di riferimenti di questo tipo, è in questi lavori l’espressione del desiderio di un’esperienza diretta che ti affranchi dall’alienazione dello spettatore comune, dalla sublimazione mediatica e divistica? La perfetta metafora dell’avvicinamento al mito è il mazzo di fiori ed è proprio per questo che ho deciso di utilizzarlo come scultura vera e propria in Flower arrangement, al posto delle sculture di farina fatte a mano. È una forma di parodia della ridicola corbeille floreale, tipico omaggio da cantante lirica. Ma è anche un onesto, preciso e molto diretto riferimento autobiografico. In tutti i miei tentativi di avvicinamento alle icone o attori con i quali volevo o avrei voluto interagire, i mazzi di fiori si sono rivelati il miglior strumento di comunicazione e di convincimento, un linguaggio quasi autonomo e sorprendentemente persuasivo. Pur se i tuoi progetti assumono spesso riferimenti esterni - e anzi delineano intorno ad essi un complesso sistema di rimandi simile a quello predisposto nelle sue opere da un artista, per esempio - la natura di questi riferimenti non è mai citazionista o appropriazionista, ma si basa appunto sulla tensione intima e sociale prodotta da incontri imprevisti … Nauman stesso è stato un maestro di questa sorta di schizofrenia, ti affascina la sua irriducibilità e ambiguità tematica e stilistica? Sì, il punto del progetto è proprio questo: cercare di capire come lo spettatore di oggi possa rapportarsi al lavoro di Nauman ed in quale misura le istituzioni o le gallerie che lo presentano ne possano preservare l’integrità estetica e concettuale. Nauman nel corso della sua carriera ha cambiato radicalmente e incessantemente le tecniche dei propri lavori e questo lo rende, a livello superficiale, meno immediatamente riconoscibile di altri artisti. Se pensi al modo in cui i grandi musei nel mondo installano le proprie collezioni, Nauman diventa sempre più un artista di resistenza, proprio perché le sue opere (siano esse un video, un’istallazione o un sound piece) richiedono molta più attenzione della media ed hanno un grado di comprensibilità più articolato. Dal momento che oggi, con la miriade di fiere e biennali, gli artisti devono competere soprattutto per catturare l’attenzione dello spettatore, è proprio l’impegno intellettuale al quale Nauman costringe che mi interessa in maniera ossessiva.

Flower Arrangement – Homage to Bruce Nauman, 2005, Courtesy Galleria Franco Noero, Torino

Installation view, 2005 - Courtesy: Galleria Franco Noero, Torino

Ma, Francesco, non te l’ho ancora chiesto: Bruce Nauman sei poi riuscito a incontrato? No, non l’ho mai incontrato e forse non ne sento il bisogno, lo rispetto profondamente e questo mi basta .


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After Eight, 1997 - foto: Roberto Maross - courtesy: Galleria Emi Fontana

forget all about equality let’s play master and servant it’s a lot like life

di Milovan Farronato

Le pratiche Sado/Maso possono essere intese come amplificazioni delle manifestazioni comportamentali ricorrenti all’interno delle normali dinamiche relazionali (rapporti di forza inclusi). Infatti il sesso sadomaso porta alle estreme conseguenze i “contatti” interpersonali che ogni essere umano si illude di ridefinire ogni giorno. Si illude, perché, paradossalmente, sembra non uscire mai dagli stessi schemi: una condanna alla reiterazione nell’illusione del cambiamento, come compilare un contratto il cui testo è già stato redatto a priori. Quindi un’interpretazione inusuale del lavoro di Lovett/Codagnone mi induce a pensare che gli artisti estrapolino dalla realtà dei clichè comportamentali per analizzarli, non prima di aver fatto slittare i segni di partenza verso altri mutuati dall’estetica S/M. Non c’è forse del masochismo nel percorso di formazione di una ballerina classica? E che dire del sadismo deduttivo di una segretaria che si rapporta al suo boss? O di un atleta con il suo coach? Così L/C propongono una ballerina quanto mai irsuta e tormentata da piercing e un’improbabile segretaria altrettanto pelosa e borchiata a dovere. Questo slittamento di

senso e ricontestualizzazione avviene il più delle volte sulla base di possibili affinità, per cui è il rapporto tra il primogenito e il figlio minore o quello tra padre e figlio ad essere tradotto secondo le metodologie S/M. Nell’ultima mostra presso la galleria Emi Fontana, gli artisti esorbitano il senso di predeterminazione dei rapporti tra esseri umani e nella performance dell’inaugurazione presentano un’azione che entra in un loop conchiuso dove tutto sembra già essere stato scritto, espressione di una comunicazione che cessa di esistere. L/C si pongono in piedi, uno di fronte all’altro, in un cubicolo seminterrato, ciascuno con in mano un megafono. Il master conduce mentre lo slave, ad occhi bendati, ovviamente obbedisce a una ritmica predefinita. A intervalli regolari entrambi portano alla bocca i megafoni così puntati l’uno contro l’altro: un dialogo improbabile, una comunicazione negata, un urlo impossibile. In performance precedenti la copia si è confrontata in una singolar tenzone al fucile come nella miglior tradizione del duello in una boscaglia romantica in total look S/M. In un’altra si è palesata

Depeche Mode

stringendo tra le labbra una doppia lama su una pedana rotante di esigue dimensioni. Erano strettamente congiunti, anche in questo caso, da una doppia legatura polsi e caviglie ed erano avvinti in un tango periglioso nello stesso scantinato della galleria milanese. Impossibile in questo caso discernere il gioco dei ruoli, impossibile individuare il Master e il Sub; differentemente dal sistema consueto delle pratiche S/M per cui l’imperativo categorico resta “forget all about equality. Domination’s is the name of the game in bed or in life” (sempre according The Gospel dei Depeche Mode). In For you - titolo della performance - sembra di scena il limite di potabilità della portanza relazionale. Anche in A love extending far beyound si intravede il principio del dominio dal basso, non propriamente dell’equilibrio. Si tratta in questo caso di una frusta a doppia presa (a un’estremità e all’altra) che idealmente potrebbe trasformarsi in una corda per saltare. Entrambi possono infliggere: si tratta quindi di un’autoinflizione e di un’autodefinizione S/M in cui il soggetto è egualmente oggetto (una sorta di onanismo?). Negli autoscatti di voyeurismo narcisista L/C hanno invece iniettato


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Play, 2000 - foto: Roberto Maross - courtesy: Galleria Emi Fontana


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il loro sistema estetico leather and latex in uno spettro eteroclita di clichè fotografici. Dal set pubblicitario con fondali di palme e spiagge artificiali alla fotografia di Grand Tour Romantico, fino ad arrivare al gruppo di famiglia in un interno decisamente borghese o nell’eden domestico del patio di casa (arredi giardineschi in gres compresi). Non possono mancare chiaramente le foto incidentali di una serata tra amici in pizzeria; i tete a tete amorosi nell’eden stilizzato dysneiano; e la passeggiata nella suburbia

degli artisti!). È in questa ricontestualizzazione quotidiana e domestica dell’S/M che riecheggia per certi versi WolfgangTillmans, mentre nell’estetizzazione sembra di intravedere qualcosa di Robert Mappelthorpe, profeta indiscusso dell’S/M. La costante presenza del duo in ogni lavoro — sia esso fotografico, video o performativo — mi ricorda invece un altro interprete della tematica d’area francese: Jean-Luc Verna, cultore del fisico e delle sue possibili declinazioni (ma Verna rintraccia nei lavori cartacei e nei wall

Non c’è forse del masochismo nel percorso di formazione di una ballerina classica? E che dire del sadismo deduttivo di una segretaria che si rapporta al suo boss? O di un atleta con il suo coach? Così Lovett/Codagnone propongono una ballerina quanto mai irsuta e tormentata da piercing e un’improbabile segretaria altrettanto pelosa e borchiata a dovere. americana, una promenade che si palesa con coppia di cani toelettati di fresco al moderno guinzaglio a pettorina e recupero automatico (un’aporia rispetto al look pelle, museruola e borchie

painting i clichè S/M nella storia dell’arte, non nella quotidianità). Con Claude Léveque invece L/C condividono un senso di claustrofobia nei rapporti umani. L’artista francese propone infatti

installazioni calde, allergiche, soffocanti come quando ha costretto l’osservatore a percorrere un interno ricoperto di balle di fieno per vedere attraverso finestre virate da febbricitanti gelatine rosse una mandria di grasse vacche rannicchiate a dovere sotto enormi ombrelloni di pizzo nero. Forse si poterbbe citare anche Bruce Labruce e la sua arte nel batuage (o il batuage nell’arte). Si tratta di uno spettro ampio di trattamento di tematiche, modalità, prassi ed estetica S/M che Lovett/Codagnone interpretano in modo del tutto originale come evidenzia la mostra in corso Party with us, in cui, attraverso insegne al neon, lavori a parete e installazioni, il loro pessimismo sembra dichiarare che ogni forma di sovversione è vuota in quanto preventivata o preventivabile in una sorta di “matrix” relazionale che tutto ha scritto in sé, nel suo programma che lo tiene in vita e che ne rappresenta la sua intima essenza. Graffitismo, vandalismo, manifestazioni di piazza vengono rievocate e svuotate, neutralizzate nella loro ovvietà. Sembrano diventare registri relazionali abusati, triti, privi di ogni carica, tanto familiari da diventare scontati.

Robert Mapplethorpe, Helmut, NYC, 1978 - courtesy: The Robert Mapplethorpe Foundation Inc.

Wolfgang Tillmans, Philip light, 1997 - courtesy Taschen

Each man kills the think he loves, 2005 - courtesy: Galleria Emi Fontana


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31-10-2006

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ZERO Via Ventura 5 20134 Milano Tel. +39 02 36514283 Fax. +39 02 99982731 info@galleriazero.it www.galleriazero.it Skype: G.Zero


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l’arte come feticcio

TOM BURR

Courtesy: Modern Art Inc.


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di Florence Derieux Le strategie sviluppate dall’artista americano Tom Burr sono quelle inventate dalle avanguardie (essenzialmente dal movimento Dada) e dalle neoavanguardie (Minimalismo, Post-minimalismo, Land Art, Pop Art). Rielaborando liberamente le opere di artisti come Tony Smith, Richard Serra e Robert Morris, egli respinge i limiti sia formali che concettuali che questi sostenitori del Minimalismo si sono imposti, per proporne una visione nuova, radicalmente mutata. Ad esempio Deep Purple (2000), copia in legno della celebre scultura Titled Arc (1981) di Richard Serra, ridotta a due terzi della dimensione originale, costituisce una negoziazione con il quadro storico dell’arte nell’ambito degli anni ‘60. Anche i suoi primi lavori associano problematiche legate allo spazio pubblico, all’architettura e all’arte in situ con questioni di sociologia, psicologia e politica dei sessi. Così l’opera di Burr si inserisce contemporaneamente in una continuità storico-artistica ma anche socio-culturale e politica. La sua ricerca concettuale mira infatti ad indagare le modalità di formazione dell’identità, e più precisamente dell’identità sessuale, analizzando in che modo si costruisce e in che misura è al contrario manipolata dalla società. Tramite la serie di otto fotografie in bianco e nero intitolata Unearthing The Public Restroom (1994), Burr sposta la sua indagine dalla sfera pubblica a quella privata. Con Split, 2005, opera che mostra con umorismo e perversione la promiscuità negli spazi pubblici, l’artista raggiunge una sorta di parossismo nell’orrore che può suscitare l’esperienza dell’intimità e, per estensione, della sessualità condivisa. Gli spazi pubblici diventano così per l’artista teatri urbani in cui si forgiano le identità. L’appropriazione di diversi linguaggi ha permesso a Tom Burr di collocarsi al crocevia tra ambiti differenti: egli mescola iconografia pop, cultura omosessuale, estetica underground, musica, letteratura, architettura e design. E forse proprio questo vasto repertorio di influenze è alla base di una pratica assai ricorrente nel suo lavoro, quella della sovrapposizione di elementi diversi. Ciò può essere certamente messo in relazione con l’interesse dell’artista per il Dadaismo, movimento al quale egli ha guardato con attenzione fin dagli esordi. Nei pannelli (Boards) che realizza dopo il 1998, veri e propri assemblages composti da fotografie, ritagli di giornali e fotocopie, accosta icone della cultura “alta” con immagini tratte da un repertorio “basso” e popolare. Così Jim Morrison incontra l’architettura “brutalista” degli anni Cinquanta e Sessanta, e frames dai film di Kenneth Anger si scontrano con le sculture di Tony Smith. Guarda caso The Elevens Are Up di Tony Smith, l’uscita di Scorpion Rising di Kenneth Anger e la fotografia di Jim Morrison utilizzata dall’artista, risalgono tutti allo stesso anno, il 1963, che è anche l’anno di nascita di Burr. Attraverso questa selezione, in effetti, l’artista non solo evidenzia l’illusione delle coincidenze, ma anche Courtesy: Modern Art Inc.

Courtesy: Modern Art Inc.

Folding Screen (Yellow), 2003 - courtesy: Modern Art Inc.


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Untitled, 2002 - courtesy: Modern Art Inc.

quella di una storia costituita da un insieme di fatti che appaiono concordanti. Se Burr ha un’attenzione del tutto particolare a ciò che può sembrare, di primo acchito, appartenere al dominio della coincidenza e dell’aneddoto, è perchè si prefigge di ricostruire una storia che rivendica una tradizione di artisti e scrittori omosessuali. Collocandosi in relazione ad una eredità di erudizione culturale gay, l’artista inventa una nuova forma di autobiografia. Nei primi anni del 2000 il problema si fa dominante nel suo lavoro e la figura dell’artista diventa ancora più centrale. Eppure, paradossalmente, è l’assenza che contrassegna queste opere. Sembra prendere forma l’analisi di Douglas Scrimp sulla nozione di “presenza” nel postmodernismo: “Presenza fantasma che talvolta diventa assenza reale, presenza che non è là”. A partire dal 2004 inizia una serie di sculture, gli “Elementi bianchi pieghevoli”, serie che segna una svolta nella sua opera. Appaiono allora numi tutelari come Jean Cocteau, Truman Capote o Allen Ginsberg. Con l’espediente di alcune indicazioni (un libro, un cappello, un telefono rosso, un ventaglio), ovvero qualche traccia delle loro esistenze, la presenza di queste icone omosessuali della modernità è segnalata. Per l’artista non si tratta tanto di fare un parallelo tra la loro esistenza in declino e la sconfitta del modernismo, quanto di rendere visibile (scrivere e rivelare) una storia gay nella quale egli stesso possa inserirsi. Le ultime opere dell’artista rivelano effettivamente una nuova evoluzione nel suo lavoro in questa direzione: l’utilizzo ricorrente di specchi, che costituisce evidente riferimento a Smithson e Morris appare legata a questo interesse per la figura. Lo spazio impossibile popolato dai riflessi che descrive Jorge Luis Borges nei Dreamtigers

(1970) – una raccolta che del resto si trovava nella biblioteca di Robert Smithson – diviene per Burr un mezzo di inclusione dello spettatore più che di partecipazione. Il fatto di mettere tuttavia un personaggio nel doppio ruolo di spettatore e di attore suggerisce che noi tutti siamo potenzialmente attori di una fiction, e nello stesso tempo di un’illusione. In realtà, gli specchi diventano la forma rovesciata del mondo,

che potrebbe essere la sua vita personale, egli inizia ad esplorare il divenire della storia comune. E’ ugualmente l’idea di biografia che sottende a due installazioni recenti, cioè Abstract-Lausanne/ Lausanne-Abstrait I e Abstract-Lausanne/Lausanne-Abstrait II (2006). Partendo ancora una volta da una figura d’artista moderno, in questo caso Francis Picabia, Burr rivela che quest’ultimo, dopo una vita di eccessi a New York, ha soggiornato a Losanna nel 1918

L’appropriazione di diversi linguaggi ha permesso a Tom Burr di collocarsi al crocevia tra ambiti differenti: egli mescola iconografia pop, cultura omosessuale, estetica underground, musica, letteratura, architettura e design. poichè mostrano all’esterno ciò che si trova all’interno. Michel Foucault mette d’altra parte in evidenza il fatto che in uno specchio si vede precisamente “il luogo ove non sono”. Tramite le sue composizioni di specchi fotografati in luoghi diversi, Smithson contaminava la realtà con la finzione. Per Tom Burr è chiaro che la realtà è una finzione ed il mondo una scena vuota. Così Burrville (2006) è una serie di fotografie in bianco e nero, tramite la quale egli esplora il desiderio di scoprire elementi autobiografici nella produzione di un artista. Le “feticizzazioni” di questi “fatti” includono, anche se non vi si limitano, i nomi ed i luoghi. Poichè sembra direttamente legato al nome di famiglia dell’artista, il nome della città (reale? fittizia?) nella quale Burr ha realizzato questa serie appare all’improvviso degno di interesse. Attraverso le sue opere Tom Burr crea un nuovo tipo di biografia: una mitologia collettiva, non più rivolta verso la sua persona ma verso la figura dell’artista in generale. Attraverso l’analisi di quella

per effettuarvi una cura disintossicante; in quell’anno realizza un piccolo quadro astratto che chiama Abstract-Lausanne/LausanneAbstrait. Grazie a ciò che sembra in apparenza un aneddoto, Burr arriva ad integrare se stesso al centro di una storia particolare collocando il suo stesso intervento in un quadro geograficotemporale. Per la natura “riepilogativa” degli elementi che costituiscono l’opera, questi pezzi possono senza dubbio essere definiti “di cerniera”. Inoltre l’aspetto di “prova” di queste opere sembra indirizzarci verso nuovi sviluppi possibili del lavoro a venire. Le collaborazioni di recente iniziate da Burr, notoriamente con l’artista Jack Pierson ed il critico George Backer, sembrano infatti andare radicalmente in tal senso. Thomas Burr è nato nel 1963 a New Haven, Connetticut. Vive e lavora a New York.


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courtesy: Modern Art Inc.

Courtesy: Modern Art Inc.

Courtesy: Modern Art Inc.



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TRAPPOLE LIBERATORIE di Simona Malvezzi

Jan De Cock, 30 anni, nato a Bruxelles, è un giovane prodigio dell’arte contemporanea internazionale. Si è fatto conoscere ovunque per le sue sculture modulari, scatole in legno con le quali interviene sull’architettura degli spazi e che richiamano l’arte astratta del Costruttivismo del primo Novecento. Lui le chiama Denkmal, monumenti memoriali. Le abbiamo viste alla Tate Modern di Londra nel 2005 e adesso nella tentacolare mostra che prende vita dalla Casa del Fascio di Como, capolavoro dell’architettura razionalista, e raggiunge le gallerie Massimo e Francesca Minini, rispettivamente a Brescia e a Milano. Questo progetto nasce dalla collaborazione del giovane artista belga con un maestro dell’arte concettuale, Daniel Buren, che con lui ha in comune l’interesse a lavorare direttamente sugli spazi, sull’architettura. Il segno distintivo di Buren sono strisce verticali che si ripetono sempre uguali a se stesse, in una continua tensione verso la totale oggettività, e che ora si insinuano nelle costruzioni di De Cock, trasformandole e suggerendo nuovi significati. In occasione di questo storico incontro, abbiamo chiesto a Simona Malvezzi – un terzo dello studio di architetti Kuehn Malvezzi, da sempre impegnato in ambiziosi progetti rivolti agli spazi per l’arte contemporanea, tra i quali ricordiamo gli interventi per la Schirn Kunsthalle di Francoforte, la collezione Flick a Berlino e Documenta 11 – di darci un suo punto di vista, di offrirci la possibilità di guardare a questo progetto attraverso la lente dell’architetto.

Installation view from Denkmal 4, 2006 - courtesy: Galleria Francesca Minini


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Installation view from Denkmal 4, 2006 - courtesy: Galleria Francesca Minini


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Perché il giovane artista belga Jan de Cock chiama I suoi lavori recenti “ Randschade”, danni collaterali? E perché sceglie Daniel Buren come complice per la prima personale italiana? La relativizzazione dello spazio espositivo e la costruzione di molteplici rapporti visivi, percezioni, trappole, sono il punto di intersezione tra i diversissimi lavori di Buren e di De Cock. Entrambi mettono in discussione la sacralitá del luogo istituzionale in cui intervengono, cosí come il concetto di opera d’arte in sé. Buren con l’uso degli specchi, del colore e delle strisce smaterializza l’architettura esistente sino a decostruirla, De Cock la tematizza sovrapponendo o integrando nuove strutture. I lavori di Buren e De Cock non professano una visione generale assoluta, ma si occupano di concetti spaziali diversi di volta in volta. Non cercano di creare uno stile ma delle soluzioni specifiche in ogni situazione. Questo vuol dire reagire al contesto e lavorarci. La produzione dello spazio avviene nella relazione tra l’opera e il contesto, tra l’opera e il visitatore, dunque dopo l’intervento architettonico. Il secondo indizio per capire la collaborazione tra i due artisti è la precarietá degli interventi “in situ” come scelta progettuale consapevole. Buren afferma che un’opera che prenda in considerazione il luogo

in cui viene mostrata/esposta non puó essere spostata altrove e dovrà scomparire ad esposizione conclusa. La temporaneità dell’intervento diventa la forza stessa del medesimo. Il limite temporale, caratteristica principale del concetto situazionale, favorisce paradossalmente la continuità dell’opera che si moltiplica con il mezzo fotografico, il testo, il video. De Cock integra nelle nuove installazioni le foto delle precedenti.

nella galleria di Milano sono lo spazio pubblico su strada e gli spazi comuni dell´edificio il vero luogo espositivo, la facciata é rivestita completamente ed il cortile é occupato dalla struttura modulare di De Cock; a Brescia la galleria è invasa e resa inaccessibile dalla scultura; a Como nella casa del Fascio tre strutture segnano un percorso visivo, una sequenza filmica tra la piazza e l´atrio dell´edificio.

Infine, i moduli d’indagine dello spazio: Buren inizia nel 1975 la serie numerata delle Cabane Eclatée , non oggetti ma modulazioni dello spazio tridimensionali la cui molteplicità di materiali e l’uso del colore riflettono una complessitá architettonica che dialoga con il contesto. De Cock utilizza il Denkmal (monumento memoriale) con gli stessi intenti di Buren e la Cabane Eclatée. Anche lui lo numera per segnare una continuità tra un intervento e l’altro e definirne la funzione di strumento.

Sono evidenti le analogie con gli esperimenti di scomposizione dei volumi e di razionalizzazione costruttiva compiuti da Mondrian e da Rietveld, ma soprattutto con la scultura praticabile di El Lissitzky: lo Spazio dell´astratto del 1927 è il momento di rottura col concetto tradizionale di esposizione, é il momento in cui lo spazio contenitore diventa opera d´arte. Il riferimento al modernismo non è solo estetico ma lo è nella metodologia dell´analisi dello spazio, della focalizzazione di particolari nascosti accostando altri elementi: è la finestra-Frame, è la terrazza di casa Beistegui progettata da Le Corbusier che sottolinea ed evidenzia lo skyline di Parigi, ma è anche lo specchio posizionato da Adolf Loos sotto la finestra della casa Steiner che devia ed intrappola lo sguardo confondendolo e che rende ambigua la relazione tra interno ed esterno. Le case di Loos non sono fotografabili, sono il prodotto dell’effetto sullo spettatore in quel preciso istante. Così le strutture di Buren e di De Cock sono delle grandi Show-Boxes che mettono lo sguardo in movimento generando molteplici spazi diversi.

Buren con una semplice stoffa per tende a righe d’uso comune ricava una sorta di matrice numerica con cui ricoprire e misurare gli ambienti e lo spazio. Nei lavori di Como, Milano, Brescia, Buren agisce sulle costruzioni di De Cock che a loro volta agiscono sugli spazi esistenti. Le strutture di De Cock sono per Buren degli elementi dati su cui sovrapporre il colore, le bande verticali e gli specchi. De Cock esplora i tre luoghi della mostra sovvertendo i concetti di interno-esterno, sopra-sotto, vuoto-pieno, luce-ombra:

Installation view from Denkmal 4, 2006 - courtesy: Galleria Francesca Minini



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di Andrea Viliani Quando nel 1712 furono inaugurate nelle sale del cinquecentesco Palazzo Poggi, le collezioni dell’Istituto delle Scienze e delle Arti di Bologna non possedevano un carattere propriamente artistico o esclusivamente scientifico. I reperti antichi, le cere anatomiche dei ceroplasti Ercole Lelli, Clemente Susini, Anna Morandi e Giovanni Manzolini, gli strumenti chirurgici e ostetrici del medico Giovan Antonio Galli, il cinquecentesco “teatro della natura” di Ulisse Aldovrandi, le raccolte cospiane e marsiliane di mineralogia, geologia, botanica, zoologia e paleontologia, gli strumenti astronomici dell’Osservatorio della Specola, i dispositivi fisici ed ottici, i modelli navali, le carte nautiche e geografiche, gli immensi fondi di manoscritti, libri a stampa, disegni e incisioni… erano utilizzati dai vari professori dell’Istituto nell’attività quotidiana di ricerca e insegnamento, quali strumenti di una conoscenza in costante evoluzione. Integrandosi e spesso sovrapponendosi fra loro, le varie discipline intrattenevano in questo contesto un confronto continuo e un aggiornamento incessante delle loro metodologie che, se da un lato sembra anticipare l’approccio interdisciplinare e ipertestuale di oggi, dall’altro realizzava pienamente l’ideale barocco di quella Répubblique des Lettres a cui si ispirarono a quel tempo modelli istituzionali analoghi quali la Royal Society inglese, l’Académie des Sciences francese o la celebre wunderkammer del gesuita Athanasius Kirker allestita presso il Collegio Romano. La complessità di questo museo dei musei, nella storia plurisecolare dei suoi riordini contraddittori, censure, apologie e riscoperte e confluito infine nelle collezioni universitarie bolognesi rappresenta la piattaforma del progetto espositivo che Markus Schinwald, invitato dalla Galleria d’Arte Moderna, presenterà a Bologna nel mese di novembre in occasione della sua prima mostra in un museo italiano. Attingendo ai linguaggi e ai meccanismi della performance, della messa in scena teatrale e cinematografica e della moda, spesso in relazione alla gestualità corporea, Schinwald costruisce le sue opere – video, dipinti, wallpaper, stampe, dispositivi ottici e acustici, sculture semoventi simili a marionette in scala umana – intorno a una continua oscillazione semantica e formale in modo da conferire loro un carattere ambiguo, al contempo ludico e critico. Come se fosse una mostra ‘nascosta’ o ‘sovrapposta’ al contesto che la ospita, l’intervento di Schinwald assumerà l’aspetto di uno scavo archeologico fittizio sospeso fra passato e presente. Giocando con l’osservatore come è abitudine dell’artista, tra le antiche vetrine dell’Istituto e nei locali affrescati che oggi ospitano, oltre al museo, la Biblioteca universitaria, le sue opere si caleranno in modo quasi mimetico con l’ambiguità di oggetti che potrebbero essere allo stesso tempo manufatti antichi e opere d’arte contemporanea. Senza entrare in conflitto, ma anzi incorporando l’atmosfera di questo antico museo/non museo, l’artista propone di intendere le sue opere come traduzioni da una lingua arcaica di cui abbiamo perso la chiave, qualcosa di contemporaneo che assomiglia ad una antica forma di fantascienza. Con sguardo lucido nei confronti dei clichè e dei feticci della società dei consumi, e recuperando quella particolare tipologia di scoperta intellettuale che è la maraviglia barocca, l’artista accosta così tassidermie ittiche a scarpe e borse da lui modificate utilizzando quelle comunemente disponibili in commercio e crea oggetti non sense (un orologio con soltanto 11 ore, sculture fatte di gambi di tavolini, una carta da parati ispirata alla produzione di un corno dell’unicorno) che sottolineano le affinità tra momenti storici e modelli culturali solo apparentemente divergenti. Accanto a loro, strumenti che, se nel passato rientravano in un orizzonte interpretativo certo, allo sguardo contemporaneo appaiono puramente fantastici e quindi nuovamente disponibili all’interpretazione e alla sperimentazione, indistinguibili sia nella forma che nel loro statuto da un’opera d’arte. La natura stessa di una collezione assemblata prima dell’affiorare di una coscienza moderna - tra l’altro esemplificata a Bologna proprio dallo smembramento delle collezioni di Palazzo Poggi in epoca napoleonica quale riflesso della nuova cultura specialistica dell’Encyclopédie - ha fatto sì che nel corso dei secoli in questi locali si ammassassero una colossale quantità di errori, invenzioni fittizie, false piste, ‘serendipità’ (come, nel linguaggio scientifico, viene definito il meccanismo per cui verità scientifiche vengono rivelate da premesse false anche se ritenute del tutto plausibili). Confrontandosi con la struttura diacronica delle collezioni di Palazzo Poggi e i principi protomoderni e protomuseali che ne hanno ispirato l’ideazione, e regolato per secoli il funzionamento, Schinwald esplora l’orizzonte di questa potenzialità estetica evitando sia l’autorità di uno sguardo retrospettivo sia il gioco combinatorio dei riferimenti o della decostruzione per rintracciare invece l’evoluzione contraddittoria del sapere moderno nella sua costante oscillazione fra scoperta ed errore, realtà e finzione, scienza e arte. Questi détournements, alla base dell’arte dio Schinwald, ci permettono di minare il criterio stesso di specificità del linguaggio artistico contemporaneo così come l’ipotesi modernista che identifica contemporaneità ed avanguardia. Alla luce della competizione con altre forme di intrattenimento e di formazione culturale, l’arte contemporanea si trova di fronte alla necessità di ridefinire i suoi formati e la sua stessa identità, di ‘riscoprirsi’. Nonostante o anche grazie alle provocazioni delle avanguardie storiche che proclamarono la fine di musei, mostre e opere d’arte, e dopo due decenni di critica delle istituzioni, gli artisti sembrano oggi nuovamente interessati a scrivere narrazioni avventurose che reinventino il senso di questi vecchi, antiquati strumenti di lavoro dell’artista. Come in questa mostra/ non mostra le cui opere cercano ostinatamente di stupirci ancora, di non “dissolversi immediatamente nel loro significato”.





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hou di Anna Daneri

Nato a Guangzhou, in Cina, nel 1963, Hou Hanru ha vissuto dal 1990 a Parigi. Recentemente si è trasferito a San Francisco dove ricopre la carica di Direttore delle Mostre e dei Programmi Pubblici per il San Francisco Art Institute. Profondo conoscitore dell’arte asiatica, ha al suo attivo numerose mostre che hanno contribuito a ridefinire il ruolo del curatore e dell’artista all’interno di una prospettiva globale e multisciplinare. Scrittore prolifico e intellettuale vicino al pensiero dei post-colonial studies, Hanru colla-bora regolarmente, tra gli altri, con Flash Art International, Frieze, Art Monthly, Third Text, Domus e Tema Celeste. Nel 2007 curerà la prossima edizione della Biennale di Istanbul. I titoli delle tue mostre ci portano immediatamente al cuore della tua ricerca intellettuale e curatoriale: Cities on the Move ci parla della trasformazione e della continua crescita dei territori urbani. Le possibili definizioni per il futuro sono incerte (Laboratoire pour un Avenir Incertain), nella consapevolezza che viviamo in una condizione geopolitica di transitorietà come suggerito dalla mostra in corso a Milano allo spazio Oberdan, Wherever We Go… La questione geografica è oggi centrale, sia per la cultura che per l’arte, poiché viviamo tutti in una cosiddetta società globalizzata. Abbiamo raggiunto una chiara consapevolezza della necessità di superare le linee geografiche di confine tra le comunità, e ciò che è veramente importante è che la nostra esistenza è strettamente legata al concetto di estensione e di continuità di uno spazio geografico. L’attività creativa ha luogo all’interno di un processo che è in continuo spostamento spazio -temporale, da qui il mio utilizzo frequente della nozione di spazio inteso come contesto, per i miei progetti. Sei cresciuto a Pechino, hai vissuto per vent’anni a Parigi e recentemente ti sei trasferito a San Francisco, vivendo in prima persona quindi il displacement, il dislocamento. Il mio interesse verso l’idea di displacement culturale parte appunto un’esperienza molto fisica, perché collegata ai miei diversi spostamenti. Ma credo che la cosa più importante non sia tanto l’esperienza personale. Già a partire dalla fine della guerra fredda, il dibattito culturale e artistico si è focalizzato sulla questione del confine e su come superare e ristrutturare la realtà geografica. Questa è stata una delle motivazioni principali per il lavoro di molti artisti. Inoltre la tradizionale distinzione tra centro e periferia è stata messa in crisi: ci sono sempre più artisti ed eventi artistici prodotti in tutto il mondo e in particolare in quelle aree tradizionalmente considerate periferiche. È quindi fondamentale guardare oltre la consolidata idea della centralità della creazione: la situazione geografica è mutata profondamente e al suo interno gioca un ruolo fondamentale la geopolitica. D’altro canto, se consideriamo la mappa globale, ci rendiamo conto che le linee di confine non sono tracciate solo orizzontalmente. Stiamo vivendo una situazione ben più complessa, fatta di divisioni verticali della società: uno dei fenomeni più importanti è quello delle città globali, un network che va da New York, Londra, Parigi a Pechino, Shanghai, San Paolo, e che ci permette anche di guardare a nuovi centri di creazione artistica. La verticalità di cui parlavi prima, è un fenomeno che divide profondamente la società contemporanea tra cittadini e fette sempre crescenti della popolazione mondiale di non aventi diritto ad alcuna forma di cittadinanza. Si tratta di una situazione drammatica. Ci sono forme di migrazione molto diverse: da un lato stanno le persone privilegiate che si possono muovere liberamente e lavorare in modo ‘protetto’, il loro modo di vivere e lavorare ‘globale’ è frutto di una scelta volontaria; dall’altro lato ci sono le persone obbligate a lasciare il proprio paese, per trovare un lavoro, o per altre ragioni, una migrazione ‘forzata’ quindi. In mezzo ci stanno le persone che sognano di stare

in un luogo diverso per trovare condizioni di vita migliore, e che quindi si muovono dai paesi e dalle comunità d’origine. Ci sono quindi diversi tipi di displacement e diversi gradi di accesso alla cittadinanza, e questa situazione ci impone di trovare un modo definire o ridefinire le nostre identità. Parlando dei tuoi progetti in Asia – la Biennale di Gwangju o la Triennale di Guangzhou, tra gli altri- come vivi la tua condizione di curatore asiatico che viene dall’estero a lavorare con artisti locali e migranti? Essendo di origini asiatiche, si instaura una connessione e un’aspettativa molto naturale da parte della comunità locale. Tuttavia penso che sia molto importante cogliere l’opportunità di usare il contesto asiatico come condizione unica per sperimentare nuove idee, che forse non possono più essere sperimentate in un contesto occidentale, molto più ‘established’ e congelato in certe strutture istituzionali o economiche. In Asia esiste ancora lo spazio e la possibilità di sperimentare qualcosa di nuovo. Ma la grande attenzione nei confronti dell’arte cinese non risponde secondo te proprio a un tentativo da parte delle istituzioni e del mercato occidentali di colonizzare un terreno vergine? Non si tratta necessariamente di un fenomeno positivo o negativo. La Cina è diventata centro di interesse globale. Senza dubbio si tratta della più importante economia e mercato in via di sviluppo ed è il luogo per sperimentare nuove possibilità in diversi settori, anche in politica. E’ naturale che ci sia quindi una spettacolarizzazione della situazione cinese. La contraddizione sta però nel fatto che proprio a causa di questa proiezione entusiastica, gli spazi e i tempi di maturazione e di indipendenza degli artisti cinesi vengano ridotti. Dobbiamo quindi imparare a relazionarci con questa eccitazione e queste nuove pressioni esterne. Quali pratiche artistiche prodotte nell’area asiatica possono secondo te delineare dei possibili modelli per il futuro della ricerca?

Molti artisti asiatici lavorano su tematiche sociali. La loro ricerca parte letteralmente dalla strada, dalle case, dalla vita quotidiana. Apparentemente il loro lavoro è molto vicino ad altre discipline, dal teatro all’architettura, all’attivismo sociale e culturale. Si tratta quindi di una reale opportunità per noi di ridefinire la nostra pratica, di usare questa condizione come riferimento, di aiutarci a capire le possibilità di ridefinire ciò che stiamo facendo, in un periodo in cui l’arte è dominata completamente dalle strutture istituzionalizzate e dal mercato. La situazione asiatica ci permette in qualche modo di immaginare qualcosa di più indipendente, al di là della stretta costituita dal controllo istituzionale e commerciale. Il progetto che ho sviluppato insieme a Charles Esche per la Biennale di Gwangju del 2002 partiva dall’idea di usare le forme auto-organizzate in Asia per immaginare possibili attività artistiche per il futuro. La Biennale non era concepita quindi solo come una mostra, ma come un evento che svelava processi temporali e spaziali più ampi, collegandosi ad altri luoghi, creando una rete globale e sfidando i criteri espositivi, dalla formalizzazione ai modelli concettuali. Anche la Triennale di Guangzhou dello scorso anno, curata insieme a Hans Ulrich Obrist, era un esperimento interessante. Abbiamo organizzato degli eventi nel corso di tre anni, creando un progetto basato sul concetto di tempo: un’istituzione culturale nuova, temporanea o semi-permanente, non facilmente definibile secondo i modelli tradizionali. Abbiamo generato pratiche molto interessanti che sono sfociate nella costruzione di una nuova idea di museo, una nuova forma di istituzione che è un luogo di produzione piuttosto che un luogo di conservazione e di presentazione. Ciò è potuto accadere grazie all’opportunità unica offerta dal contesto asiatico, dove vediamo crescere un’economia che permette di sviluppare nuovi progetti culturali grazie all’entusiasmo, alla visionarietà e al coraggio di essere differenti.


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OLOGRAMMI DI MEGALOPOLI FUTURE di Ilaria Bonacossa

Bangkok, Kuala Lumpur, Jakarta, Singapore, Shanghai, Guangzhou, Beijing, Gangwon-do, Nanjing, Osaka, Seul, Tokyo, Yokohama; le megalopoli asiatiche rappresentano la più concreta formalizzazione dei flussi del capitale Globale, ologrammi fedeli della vertiginosa crescita economica dei diversi paesi dell’estremo oriente. Il ritmo della loro trasformazione è inconcepibile e straniante per un cittadino occidentale abituato alla persistenza secolare delle sue piazze e dei suoi monumenti; qui in pochi mesi interi quartieri sorgono e vengono abbattuti, trasformati in maniera talmente radicale da rendere le città irriconoscibili ai loro stessi abitanti. Oggi quella orientale è la città per antonomasia, onirica e astratta emerge dalla realtà virtuale, dalla nostra percezione digitale ed elettronica del mondo. Sparite le lanterne rosse, i kimoni dorati, i dragoni di seta rossa, le pagode e i ventagli ricoperti di uccelli tropicali, le città asiatiche del nostro immaginario sono la materializzazione di ologrammi alla Bladerunner, segnate da una rete infinita di strade, macchine, luci e grattacieli, sono lo scenario di una vita accelerata e tecnologica. La crescita di queste megalopoli ha trasformato tutti in spettatori passivi delle loro trasformazioni, come se le città si auto-generassero privando chiunque della possibilità di comprendere e razionalizzare il panorama con cui è costretto quotidianamente ad interagire. La città assume una dimensione teatrale e cinematografica, una bidimensionalità emersa dalla contaminazione tra la realtà dei videogiochi, dei fumetti, di internet, dalla pittura tradizionale delle carte e dei paraventi, dai motivi che decorano i vasi Ming e Tang. Il suo aspetto estetico tende infatti al “virtuale”: la città si compone di facciate i cui spazi interni modificabili e impermanenti vengono vissuti come non-luoghi da attraversare e abitare solo temporaneamente. Queste città sono contemporaneamente gli ultimi avamposti della conquista da parte dell’arte contemporanea di un mercato globale, una conquista perpetuata a suon di biennali, triennali, musei, gallerie e case d’aste ma soprattutto dal fervido interesse internazionale nei confronti della scena artistica emergente. Ma come vengono percepite e immaginate queste città dagli artisti contemporanei che quotidianamente le attraversano e le vivono? Come scandiscono la loro vita quotidiana in un paesaggio urbano in cui concetti di casa e famiglia sembrano scomparire per essere sostituiti da internet caffè gratuiti, sponsorizzati dalle multinazionali, bagni pubblici e dormitori ad ore, treni suburbani e distributori automatici di qualsiasi bene di consumo attivi 24 ore su 24? L’onnipresenza della città come cornice pantagruelica della vita dei suoi abitanti è uno dei fenomeni più interessanti della produzione artistica asiatica emergente. La trentenne Chio Aoshima, crea con il suo macintosh una città virtuale piatta che si estende all’infinito ma che non viene mai conosciuta ed appropriata in profondità, una città complessa che si sviluppa e si trasforma contemporaneamente in tutte le sue parti senza seguire alcuno svolgimento logico. La sua rappresentazione adolescenziale, innocente e grottesca nasce dalla teoria del Superflat (super piatto) coniata dal celebre Takashi Murakami come frutto della fusione tra l’antica tradizione pittorica giapponese e la cultura dei manga e dei fumetti. Nella sua ipnotica video-installazione City Glow (presentata a Platform nella metropolitana londinese su 5 schermi) racconta il bagliore della città; la narrazione si sviluppa a partire dal punto di vista di un verme che dal basso osserva una mostruosa, minacciosa e gigantesca città contemporanea. Gradualmente quelli che a prima vista

sembravano dei grattacieli, cominciano a muoversi come vegetali giganti assumendo forme vagamente antropomorfe; l’immagine scivola attraverso i palazzi verso la desolazione di una periferia semideserta, attraversa un cimitero per giungere infine ad una foresta selvaggia e incontaminata dove si arresta nella visione dell’arcobaleno, simbolo di un’utopica armonia tra uomo e natura. La colonna sonora, una versione new-wave dei Genesis mixata con il rumore del mare ci guida attraverso questo ciclo vitale, la rivisitazione pop e adolescenziale di antiche credenze shintoiste. Più macabra e crudele la visione delle metropoli giapponesi che emerge dalle immagini di Tabaimo, artista giapponese, autrice di violente video installazioni composte da infinite serie di disegni animati, in cui la manualità della pittura tradizionale giapponese viene mutata attraverso la tecnologia digitale. Nelle sue immagini il paesaggio della città e i pellegrinaggi allucinati degli impiegati sui treni della metropolitana e le loro fantasie perverse, si stagliano su uno sfondo di immagini in movimento. Le sue scene sembrano delinearsi con la stessa libertà degli incubi, mostrando sadiche immagini di telegiornali, talk show, amputazioni e violenze sessuali nati dalle nostre fobie. Da un’incredibile tecnica grafica nascono i quadri-fumetto di Choi Ho Chul che celebrano quartieri periferici di Seul come Daldogne (Villaggio Lunare) chiamato così perché i suoi abitanti rientrano dal lavoro solo al sorgere della luna. Choi Ho Chul critica attraverso queste tele la violenta distruzione, in occasione delle olimpiadi del 1988, di interi quartieri popolari della capitale coreana, creando delle immaginarie quinte teatrali in cui il vertiginoso impianto prospettico mostra la vita quotidiana di un paesaggio soffocato dalle case popolari. Anche il lavoro di Chen Qiulin riflette sulle conseguenze dello sviluppo urbano nella vita delle persone, in particolare il suo lavoro prende spunto dalla costruzione della più grande diga al mondo, la Diga delle tre gole sul fiume Yangtze. Nel suo video River, River pone aree semi deserte e in costruzione della città come sfondo mobile alla vicenda dei protagonisti di un’opera tradizionale in costume. La complessa struttura narrativa sembra mettere in evidenza lo scarto esistente tra le trasformazioni sociali e la psicologia individuale. I personaggi restano impotenti, chiusi in un passato che è già presente, reso ineluttabile dall’assenza di dialogo. I video di Chen Qiulin sembrano testimoniare come non esista più uno spazio alternativo alla città ma solo la persistenza di vaste aree non ancora urbanizzate che verranno gradualmente attraversate e mangiate dallo sviluppo urbano. Lo sviluppo sconfinato della città ha divorato l’esotico, dando vita nelle grandi tele di Liu Wei ad un paesaggio urbano trasfigurato in una serie di diagrammi nei diversi toni del grigio, rappresentazioni pixelate dello sviluppo verticale dei grattacieli orientali. Quasi paesaggi cinetici sembrano nascere dalla visione periferica della città che si percepisce guidando ad alta velocità sui suoi cavalcavia. Le immagini non sono strutturate secondo la prospettiva classica e i punti di vista si accavallano e si sovrappongono mobili, nel tentativo di mappare i flussi di energia delle megalopoli cinesi. Questi quadri diventano la materializzazione delle profezie fantascientifiche di un pianeta totalmente ricoperto di città, di metropoli in qualche modo disabitate e deserte, illuminate da una luce lunare post atomica o forse semplicemente dalla luce degli schermi dei computer che le hanno generate. È come se i personaggi e le immagini di questi artisti non occupassero più uno specifico punto spazio-temporale, ma esplorassero forme di estrema libertà,


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Chen Qiulin, River River, 2005

aprendosi a una nuova possibilità di città, uno spazio dove sogni e incubi sono in interscambio costante. Celebre l’immagine di Yang Zhengzhong in cui in ironica risposta agli attacchi terroristici alle torri gemelle l’artista regge in equilibrio con un dito il paesaggio capovolto di Shanghai, trasformandosi in mago-inventore di una realtà giocattolo priva di minacce. Visioni assurde come questa convivono con immagini poetiche ed apocalittiche. È la condivisione dell’esperienza del guardare il paesaggio urbano mentre entra in relazione con lo spazio anarchico del singolo a dar vita ai lavori di Liang Juhui, uno dei fondatori del seminale gruppo di artisti cinesi Big Elephant Tail Workshop. One Hour Game è un’inquietante performance in cui l’artista sale e scende da solo senza sosta con il montacarichi industriale di un grattacielo in costruzione interferendo così con la normale espansione verticale della città. Il montacarichi perde la sua funzione d’uso e si trasforma in una piattaforma panoramica attraverso cui ammirare l’infinita distesa del paesaggio urbano. Cieli notturni illuminati a giorno dall’inquinamento luminoso, interi palazzi che con il crepuscolo iniziano ad accendersi e a diventare giganti televisori, cartelloni pubblicitari, una cacofonia di luci che si sovrappongono, nel tentativo di catturare l’attenzione dei passanti. Analogamente nei suoi collage l’artista sovrappone serialmente inquadrature di finestre illuminate di grattacieli e architetture urbane precarie, racchiudendo gli abitanti in un angusto e colorato spazio astratto. Evoca così la realtà alienante dello svolgersi parallelo nelle città orientali di infinite vicende estranee le une alle altre. Come disse l’artista, morto pochi mesi fa a soli 47 anni, “Con la trasformazione della città e della sua dimensione espansa, la velocità dei suoi spostamenti diventa inconcepibile. Il naturale viene sopraffatto dall’artificiale, e lo spazio può solo essere percepito come un enorme buco artificiale.” È questa sensazione opprimente di solitudine che emerge dalle fotografie di Yang Yong in cui si muovono giovani donne sole nell’universo globalizzato della città asiatica mentre cercano disperatamente di adeguare le loro abitudini e i loro ritmi di vita a quelli della città. Donne il cui universo emotivo sembra trovarsi allo sbando quasi come se delle persone reali si spostassero sull’orlo del flusso costante della realtà virtuale. Le megalopoli diventano quindi uno spazio in cui agisco dei nuovi attori resi dalla città contemporaneamente protagonisti ed alieni a se stessi. Nei suoi video Song Tao vaga senza meta per la città di Shanghai. Girati spesso di notte, i suoi lavori sono segnati da un’atmosfera onirica in cui la musica elettronica di DJ B6 guida la scelta dei pellegrinaggi urbani dell’artista. Three Days Ago è un viaggio poetico nei territori inesplorati della notte di Shanghai, in cui alcuni elementi di sfondo sembrano ripetersi ossessivamente portando il pubblico a dimenticare lo svolgimento narrativo catturato in una situazione di trance. Le sue visioni sembrano emergere dalla dimensione frammentata della memoria, Song Tao mette in evidenza il carattere inafferrabile dell’esperienza urbana percepita come un luogo simultaneamente reale e astratto capace di suscitare una solitudine cosmica. Il carattere destrutturato dei suoi lavori si apre ad una concezione della struttura sociale in cui i singoli membri si trovano liberi, anzi obbligati a reinventare il proprio rapporto con una città che diventa digitale e impermanente.

Song Tao, My Beautiful Zhang Jiang, 2006

Yang Yong, Anonymous still 2, 2004

Confrontando queste immagini è chiaro che le megalopoli nella loro estensione restano incomprensibili, non possono cioè essere ‘comprese’, (racchiuse), in alcuna forma. Come immaginare quindi il loro futuro? Come capire il carattere rivoluzionario della loro pluritemporalità? Impossibile sarebbe infatti cercare di dedurre logicamente la dimensione della megalopoli del futuro dalla società contemporanea, meglio seguire le visioni frattali di questi artisti capaci di creare delle interfacce di scambio temporaneo con le infinite città del futuro. Liang Juhui, One Hour Game, Guangzhou, 1996


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Takashi Homma ritrae la città come se fosse la propria casa, come se fosse sua figlia, con uno sguardo familiare e intimo. E quando mette nello stesso libro tutte queste foto di Tokyo, della propria casa, e quelle della sua bambina che cresce, non si sente nessuna cesura, il linguaggio è lo stesso, delicato e lirico e pieno di calore. Infondo queste fotografie sono una dichiarazione d’amore, non di quelle eclatanti o rumorose, di quelle semplici, che celebrano il valore dei piccoli gesti quotidiani e della complicità. Homma dedica ai suoi soggetti i colori più tenui, estrae tutti i contrasti e lascia che venga fuori solo la leggerezza, anche quando è fatta di grattacieli e di cemento. E se volete farvi un giro a Tokyo evitando gli spiacevoli effetti del jet-lag, date un’occhiata alle sue migliori raccolte: Hyper Ballad: Icelandic Suburban Landscapes (1997, Switch Publishing), Tokyo Suburbia (1998, Korinsha) e la più recente, Tokyo and My Daughter (2006, Nieves).


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All images courtesy: the artist



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ULRICH RUCKRIEM @ GALLERIA A ARTE STUDIO INVERNIZZI / fino al 14/01/07 La galleria A arte Studio Invernizzi inaugura martedì 28 novembre 2006 la mostra personale dell’artista Ulrich Rückriem nella quale sono presentate opere realizzate appositamente per lo spazio espositivo. Ulrich Rückriem infatti ha realizzato per questa mostra 6 nuove sculture che, poste in relazione alle colonne presenti nello spazio espositivo, si integrano divenendo corpo unico con l’ambiente. Inoltre, partendo dal numero di 8 colonne l’artista ha creato 92 disegni su acetato ovvero le possibilità di disposizione delle 8 colonne su una scacchiera composta da 8 quadrati per lato che spostate in orizzontale, in verticale e diagonalmente, non s’incontrano mai, ma restano isolate nello spazio. L’artista presenta inoltre un “wall drawing” a grafite, realizzato per l’occasione, ripreso da una delle possibili variazioni dei disegni.

Indirrizzo Via Domenico Scarlatti 12 telefono +39 0229402855 (info), +39 0229402855 (fax) mail / web info@aarteinvernizzi.it www.aarteinvernizzi.it orari da lunedì a venerdì 10-13 e 15-19

SHIZEN - VALENTINA D’AMARO @ ANTONIO COLOMBO ARTE CONTEMPORANEA / fino al 13/01/07 Usato sia in cinese che in giapponese a indicare la natura nella sua essenza. In apparenza il lavoro di Valentina D’Amaro presenta variazioni minime, quasi impercettibili, ma in realtà è il frutto di un’intensa riflessione, di un approfondimento concettuale che si dirige sempre più verso l’essenza delle cose. in ogni quadro, la cui lentezza esecutiva è diventata una sorta di ritualità procedurale, compiamo un passo in avanti verso il puro significato esistenziale dell’essere.L’artista, in questa mostra, utilizza e propone per la prima volta anche la fotografia, che non vuole essere né un surrogato della pittura né tanto meno una stampella teorica, ma un’ulteriore riflessione sul rapporto naturale – artificiale, realtà - invenzione. Questo nuovo ciclo di opere fotografiche accompagna altrettante tele realizzate con la consueta minuzia ed eleganza.

Indirizzo Via Solferino 44 telefono +39 0229060171 (info), +39 0229060171 (fax) mail / web info@colomboarte.com www.colomboarte.com orari da martedì a sabato 16-19.30

KIKI SMITH @ GALLERIA RAFFAELLA CORTESE / dal 23/11/06 al 27/01/07 Questa personale dell’artista americana Kiki Smith è dedicata alla parte meno conosciuta della sua produzione: quella delle stampe e più in generale dei multipli, celebrata dalla grande mostra antologica al MoMA. Artista da sempre votata alla sperimentazione, Smith si avvicina all’incisione sin dalla prima metà degli anni ottanta e da questo momento in avanti l’attività grafica sarà una pratica costante del suo lavoro. Nel corso della sua ricerca artistica Kiki Smith ha tratto più volte ispirazione dalla letteratura, dal mito, dalla favole e dalla Bibbia, cercando sempre di reinterpretare le storie dei personaggi che “prendeva in prestito” da un punto di vista femminile e personale. La centralità del corpo umano, in particolare quello femminile, resta un importante oggetto di indagine, sebbene gli interessi di Kiki Smith si aprono al rapporto tra l’uomo e la natura.

Indirizzo Via Stradella, 7 telefono +39 022043555 +39 0229533590 (fax) mail / web rcortgal@tiscali.it www.galleriaraffaellacortese.com orari da martedì a sabato ore 15.00-19.30 e su appuntamento

FRANCESCA GABBIANI - DAYDREAM @ GALLERIA MONICA DE CARDENAS / dal 16/11/06 al 13/01/07 Ognuno dei lavori presenti è costituito da un collage di carte colorate sul quale l’artista interviene ulteriormente utilizzando la pittura acrilica e l’acquarello. La tecnica del collage crea una composizione apparentemente stilizzata e piana, ma le immagini che ne derivano sono in realtà ricostruzioni accurate di interni ed esterni cinematografici rielaborati, il più delle volte caratterizzati da un’atmosfera sottilmente sinistra e minacciosa. Le immagini sono rimandi e citazioni a pellicole cinematografiche di autori dell’età dell’oro del cinema “horror” degli anni settanta ed ottanta, come Kubrick e Dario Argento, ma anche a Pasolini. Il processo di ricostruzione dell’immagine con superfici di carte colorate enfatizza gli esiti grafici, cromatici e visivi di quegli spazi, rimuovendo l’aspetto narrativo.

Indirizzo Via Francesco Viganò 4 telefono +39 02 29010068 mail/ web monica@decardenas.com www.artnet.com/decardenas.html orari da martedì a sabato ore 15.00-19.00

URS FISCHER E RUDOLF STINGEL @ GALLERIA MASSIMO DE CARLO / dal 30/11 La Galleria Massimo De Carlo, dopo la mostra del grande Chris Burden, ospita nei suoi bellissimi spazi i lavori nati dalla collaborazione tra i due artisti svizzeri Urs Fischer e Rudolf Stinger. Lo stile favolistico del primo, a Milano, ha già lasciato il segno qualche anno fa, in occasione della mostra organizzata con la Fondazione Trussardi presso l’Istituto Dei Ciechi. Rudolf Stingel, invece, creatore di atmosfere metafisiche in grado di alterare il processo percettivo, lavora da anni sulla relazione che intercorre tra l’opera e lo spazio che la ospita, con un occhio di riguardo verso la decorazione e la monocromia.

Indirizzo Via Ventura 5 telefono +39 02 70003987 mail/ web info@massimodecarlo.it www.massimodecarlo.it orari da martedì a sabato ore 11.00-19.30

SAM DURANT - SCENES FROM THE PILGRIM STORY: GOODBYE TO MERRY MOUNT @ GALLERIA EMI FONTANA / dal 12/11/06 a fine febbraio Il lavoro di Sam Durant indaga il tema dell’utopia e del suo fallimento in relazione alla storia politica americana, ai movimenti di dissenso e alle controculture. Il nuovo progetto per la Galleria Emi Fontana consiste in una serie di lavori che rileggono alcuni aspetti dell’insediamento di Merry Mount – una propaggine pagana della colonia di Plymouth, fondata dai Padri Pellegrini in Massachusetts nel 1620. Tutti i nuovi lavori in mostra nascono da una ricerca dell’artista sul materiale documentario e fotografico del Museo Nazionale delle Cere di Plymouth e presentano una rilettura delle varie composizioni da cartolina del museo che prendono forma in una serie di tableau scultorei, disegni e fotografie.

Indirizzo Viale Bligny 42 telefono +39 02 58322237 +39 02 58306855 (fax) mail emif@micronet.it orari da martedì a sabato ore 11.00-19.30


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STEFANO ARIENTI - STUDIO GUENZANI @ Via Eustachi fino al 18/11/06 - Via Melzo fino al 22/12/06 Prosegue nei due spazi di Studio Guenzani la mostra personale di Stefano Arienti. In via Melzo sono esposti alcuni lavori in marmo: lastre sottili che l’artista ha lavorato incidendole o praticando piccoli fori. Negli spazi di via Eustachi, Arienti cambia il materiale su cui interviene, usando tappeti tinti dello stesso colore che riempiono lo spazio della galleria. Ad Arienti interessa in particolar modo l’affiorare del disegno e il suo imporsi libero da qualsiasi rimando che non sia all’interno delle categorie dell’arte. Le due mostre diventano così un percorso dedicato al disegno come forma di conoscenza, un modo di appropriarsi di forme e immagini già esistenti dando loro nuovo significato. Dal 30 novembre, presso la sede di Via Eustachi, la mostra personale di Alessandro Pessoli dal titolo “Il caduto” che proseguirà fino alla fine di gennaio 2007.

Indirizzo - Studio Guenzani / via Eustachi 10 - Guenzani via Melzo / via Melzo 5 telefono - Studio Guenzani +39 0229409251 - Guenzani via Melzo +39 0229532971 web sinfo@studuiguenzani.it www.studioguenzani.it orari da martedì a sabato ore 15.00-19.30

ADRIAN PACI - PER SPECULUM @ GALLERIA FRANCESCA KAUFMANN / dal 23/11/06 al 23/12/06 Nel nuovo spazio della galleria è proiettato il film in 16mm ‘Per Speculum’: protagonisti sono un gruppo di bambini che, dopo avere distrutto lo specchio in cui è riflessa la loro immagine, ne utilizzano i frammenti per ingaggiare una giocosa sfida al sole. Arrampicati sui rami di un enorme albero i bambini riflettono con gli specchietti la luce, infondendo così alla pianta una vitalità pulsante. Alla rottura dello specchio, un’azione in sé drammatica, autodistruttiva, segue inaspettatamente il gesto liberatorio del gioco e, insieme, un capovolgimento di prospettiva per cui i raggi di luce sono diretti verso lo spettatore, che è come incluso nel vivo della scena. Le immagini del film sono intessute di sottili richiamo simbolici che offrono numerose aperture interpretative, a partire dallo specchio, la cui rottura indica in molte culture cattivo presagio, ma che qui diventa strumento di gioco e, oltre, di conoscenza.

Indirizzo Via Dell’Orso 16 telefono +39 0272094331 (info) mail / web info@galleriafrancescakaufmann.com www.galleriafrancescakaufmann.com orari da martedì a venerdì ore 11.30-19.30 il sabato dalle 15.30 alle 19.30

LORENZA BOISI - CALL ME WINTER, CALL ME SNOW @ GALLERIA KLERKX / dal 20/11/06 al 14(01/07 La figurazione espressionista di Lorenza Boisi è resa con una modalità plastica fluida e sinteticamente significata da pennellate fisiche e continue, gestite magistralmente nell’uso di cromatismi sofisticati con stratificate valenze simboliche. Nella definizione e ridefinizione di un alfabeto di motivi e soluzioni pittoriche che enfatizzano uno sfaldamento del soggetto, Lorenza Boisi sperimenta attraverso la composizione e la relazione di peso e forza tra le varie parti dell’opera, la modulazione di una realtà atmosferica, privata del sostegno prospettico che stempera in una profondità bianca. percorre la via possibile verso una nuova figurazione espressionista manifestazione di un ambiente ibrido popolato da personaggi ricorrenti che si muovono in un’atmosfera ambigua, ironicamente nostalgica ed egualmente familiare.

Indirizzo Via Massimiano 25 telefono +39 0221597627 (info), mail / web info@manuelaklerkx.com www.manuelaklerkx.com orari da martedì a sabato ore 13.00- 19.00

ALDO SPOLDI - LA TROMBA DELLE SCALE @ FONDAZIONE MARCONI / dal 14/11/06 al 23/12/06 “Per progettare questo quadro non ho guardato, come ero solito fare in passato, le ultime tendenze dell’arte contemporanea, ma ho voluto sfidare le più grandi imprese decorative di tutti i tempi. (...) Ciò che mi affascina di questo lavoro è il fatto che non si potrà mai vederlo per intero! Sia salendo che scendendo se ne vedrà solo un frammento: è una bella provocazione per la pura visibilità! Certo non lo si potrà vedere nella sua interezza con gli occhi ma lo si può vedere con la mente”, dice l’artista. E infatti la mostra gravita attorno ad un’opera di 16 metri di altezza che si snoda per i quattro piani dello spazio di via Tadino: l’autoritratto del pittore dal sotterraneo al secondo piano lungo la tromba delle scale. Al primo e al secondo piano sarà esposta una galleria di studi all’acquarello di personaggi dell’universo di Spoldi.

Indirizzo Via Tadino, 15 Telefono +39 02 29 41 92 32 fax +39 02 41 72 78 mail / web info@fondazionemarconi.org www.fondazionemarconi.org orari da martedì a sabato ore 10.30- 12.30 e 15.30 - 19.00

DANIEL BUREN & JAN DE COCK @ GALLERIA FRANCESCA MININI / fino al 22/12/06 La Casa del Fascio di Como, le gallerie Francesca Minini di Milano e Massimo Minini di Brescia ospitano una collaborazione inedita e originale tra Daniel Buren e Jan De Cock. Jan De Cock interviene sull’architettura dei luoghi modificandone la percezione attraverso il posizionamento di moduli, scatole scultoree in legno che di volta in volta inglobano, serrano, invadono lo spazio; il segno stilistico distintivo di Daniel Buren sono le strisce verticali bianche alternate al colore o alla materia. Per la galleria Francesca Minini, De Cock ha ideato un progetto che non coinvolge solo la galleria ma anche la facciata dell’edificio e gli spazi condivisi del palazzo. Un relazionarsi al contesto a 360°, sia in termini di funzionalità che di abbellimento estetico. Daniel Buren interverrà sullo spazio con il suo tocco artistico portando a compimento la collaborazione tra i due artisti.

Indirizzo Via Massimiano 25 telefono +39 3355843285 (info) mail / web info@francescaminini.it www.francescaminini.it orari da martedì a sabato ore 12.00 - 19.30

GIOGIO SOMMER - EDMONDO BEHLES. VIAGGIO IN ITALIA1855 / 1865 @ NEPENTE ART GALLERY / fino al 23/12/2006 Nel 1839 era ufficialmente nata la fotografia e da lì a poco un precoce professionismo dedicatole. A seguito dei viaggiatori un folto gruppo di fotografi professionisti si trasferisce nelle città d’arte italiane aprendo nuove attività commerciali. E’, tra questi, il caso del noto fotografo Giorgio Sommer, arrivato in Italia da Francoforte nel 1857, e del tedesco Edmondo Behles. In mostra due differenti nuclei di immagini (uno primitivo - della seconda metà degli anni Cinquanta dell’Ottocento e l’altro dei primi anni Sessanta) raccontano i tempi e i luoghi dimenticati di un’Italia che non esiste più. Venticinque delicate albumine (e carte salate) rivelano una dopo l’altra panorami assolati, maestosi monumenti, vedute di genere e scorci romantici. Si osservano, lentamente. E si ripensa alla storia, alla nostra storia

Indirizzo Via volta 15 Telefono +39.02.29008422 mail / web www.nepente.com orari da martedì a sabato ore 15.00-19.30


MOUSSE / NEWS MILANO / PAG. 60

ROBERTA IACHINI - you are my destiny @ N.O. GALLERY / fino al 24/11/06 Il progetto di Roberta Iachini You Are My Destiny è costruito su una playlist di videoclip. Alcune famosissime canzoni sono interpretate con emozionanti e colorate animazioni realizzate con uno dei software più utilizzati per l’espressione artistica contemporanea attraverso il computer. Il tema del ballo è il filo conduttore di tutte le opere presentate; ogni canzone viene ascoltata e osservata sullo schermo seguendo le sagome dei passi che l’artista fa danzare nell’animazione. Il conteggio dei passi è l’inizio di un viaggio alimentato dai sogni e dalla memoria personale, intima. You Are My Destiny rimanda all’incontro tra due persone, alle tensioni intense e sfuggenti che siamo abituati a vivere. La condizione dell’incontro è caratterizzata anche dal cedere ad una casualità ed imprevedibilità che è nella natura stessa di questo evento e nel brivido che lo anticipa.

Indirizzo Via Matteo Bandello 14 Telefono +39 02 4989892 mail / web press@nogallery.it www.nogallery.it orari da lunedì a venerdì ore 15.00-19.00

Wherever We Go @ SPAZIO OBERDAN / fino al 28/01/07 Di provenienza differente, dall’Albania al Sud-est asiatico, al Medio Oriente, gli artisti di Wherever We Go sono accomunati dal fatto di abitare in paesi diversi da quelli in cui sono nati e di aver sperimentato in prima persona l’incontro con valori, visioni del mondo e sistemi di vita eterogenei, facendosi portatori di una cultura sfaccettata che integra punti di vista molteplici. Attraverso le loro opere si manifesta così l’orientamento interculturale che caratterizza molta parte della società e dell’arte del presente, e si esprimono i temi della dislocazione e della stratificazione culturale, della rappresentanza, e l’idea di cultura come ambito dotato di vitalità capace di assimilare ed integrare continuamente, nella propria forma e nella propria tradizione espressiva, elementi nuovi ed estranei.

Indirizzo Viale Vittorio Veneto 2 telefono +39 02.7740.6300/6302 mail / web www.provincia.milano.it/cultura orari tutti i giorni 10.00 -19.30, martedì e giovedì fino alle 22, chiuso il lunedì

ANDRES SERRANO - IL DITO NELLA PIAGA @ THE MORGUE / PAC - PADIGLIONE D’ARTE CONTEMPORANEA / fino al 26/11/06 Dai suoi esordi – agli inizi degli anni ‘80 – fino ai giorni nostri, le fotografie di Serrano non hanno mai smesso di rappresentare i temi più controversi e polemici del convulso mondo in cui viviamo. La religione, il fanatismo, la corporeità, la xenofobia, la malattia e la morte, sono stati oggetto della sua meticolosa attenzione. Il PAC celebra questo grande interprete dei nostri tempi con un duplice appuntamento: la mostra Il dito nella piaga, a cura di Oliva Mari’a Rubio, una selezione di alcune delle sue piu’ significative fotografie degli ultimi vent’anni, e la mostra The Morgue, a cura di Alessandro Riva, dieci lavori inediti dell’artista tratti dalla controversa omonima serie fotografica del 1992. Immagini macabre e scioccanti a lungo tenute nascoste per volere dello stesso artista e che ora vengono presentate per la prima volta, in esclusiva assoluta, a Milano.

Indirizzo Via Palestro 14 telefono + 39 0276009085 mail / web segreteria@pac-milano.org www.pac-milano.org Orari 9.30 - 19.00 tutti i giorni. Giovedi’ fino alle 21.00

FRANKO B - THE BLACK PERIOD @ GALLERIA PACK / fino al 13/01/07 Franko B ci sorprende una volta ancora svelando una nuova direzione della sua ricerca, proponendoci una serie di opere pittoriche inedite caratterizzate dall’uso esclusivo del (non)colore nero. Franko B ha seguito fin’ora lungo un percorso artistico segnato da azioni spettacolari, legate alla sua presenza fisica affascinante, nello stesso tempo seducente e disarmante (ricordiamo in particolare la magistrale azione “Oh lover boy” alla Tate Modern nel 2003, lunga sfilata silenziosa nella quale l’artista si svuotava lentamente del suo sangue). Mentre l’artista ha usato il proprio corpo come mezzo espressivo assoluto per sottoporlo ad una serie di esperienze estreme, travolge qui ogni tipo di aspettative per svelare un aspetto in apparenza più sobrio e quieto, più “saggio” ma certo non meno politicamente scorretto o provocatorio.

Indirizzo Foro Bonaparte 60 telefono +39 02 8699 6395 +39 02 8739 0433 (fax) mail/ web galleriapack@libero.it orari da martedì a sabato ore 13.00-19.30

LUCIA UNI - THE RARE @ GALLERIA PIANISSIMO / 20/11/06 – 13/01/07 Pianissimo è lieta di presentare la mostra personale di Lucia Uni, THE RARE. Titolo ineffabile, che sintetizza l’umore di fondo di tutti i lavori presentati e ben introduce alle atmosfere sospese e paranoidi di Dead man’s fingers (2006), un video girato nel centro Italia, ma che evoca le colline di una Calico Ghost Town. In primo piano, usciti di scena gli uomini a cavallo, degli inattesi protagonisti: quella moltitudine di cactus in genere relegati sullo sfondo o quantomeno ai margini delle scene d’azione. Umanizzati dal montaggio e dal suono sinistro di uno scacciapensieri, danno vita ad un carosello metafisico dove ritroviamo,nella migliore tradizione dello Spaghetti-western, sospetto, circospezione e sfida. Gli altri tre lavori in mostra concentrano la stessa attitudine metaforica nella fissità dell’ immagine fotografica.

Indirizzo Via Ventura 5, Milano telefono +39.022154514 mail / web info@pianissimo.it www.pianissimo.it orari da martedì a sabato: 15.00-19.00

JANNIS KOUNELLIS @ FONDAZIONE ARNALDO POMODORO / fino al 11/02/07 L’esposizione, curata in stretta collaborazione con l’artista da Bruno Corà, consente di valutare i dati più recenti della concezione pittorica di Kounellis, nonché di porre al centro dell’osservazione gli aspetti più significativi della lingua plastica da lui messa a punto in oltre quarant’anni di lavoro. L’evento, di per sé originale, costituisce la più ampia manifestazione dell’opera di Kounellis mai realizzata a Milano. In mostra, oltre alle nuove creazioni ideate appositamente per gli ambienti della Fondazione, è possibile osservare numerose opere ‘storiche’, strettamente correlate alle grandi installazioni. Del tutto proiettata a sottolineare preoccupazioni e tensioni poetiche di questi recenti anni e dell’attualità, la mostra di Kounellis alla Fondazione Pomodoro è destinata a divenire un caposaldo della sua maturità linguistica.

Indirizzo Via Andrea Solari 35, Milano telefono +39 02 89075394/5 mail / web info@fondazionearnaldopomodoro.it www. fondazionearnaldopomodoro.it orari da mercoledì a domenica ore 11.00-18.00, giovedì fino alle 22.00


MOUSSE / NEWS MILANO / PAG. 61

CIPRIAN SAYS / IAN TWEEDY @ PROMETEOGALLERY / FINO AL 25/11/06 La mostra di Ciprian Mureşan ideata per Prometeogallery delinea la giustapposizione della perdita e del recupero, non intese come contradditori, ma come parte della stessa dinamica sociale, e segue i percorsi nei quali esse attivano loop, circuiti, causali. Esposte quattro opere reliazzate appositamente per Prometeogallery e un video precedente. Nello spazio Project, la prima personale di Ian Tweedy, artista americano di base a Milano. La mostra, a cura di Marco Scotini, presenta tre nuovi lavori - video, disegni e wall painting – concepiti come un’unica installazione. Graffitista e street artist all’inizio, ora Ian Tweedy interviene su mappe geografiche della guerra fredda, sulle copertine di vecchi libri, su documenti del passato. Purché ogni centimetro quadrato di superficie sia la memoria di qualcosa, abbia una storia.

Indirizzo via Ventura, 3 telefax + 39 0226924450 mail / web info@prometeogallery.com www.prometeogallery.com orari dal martedì al sabato ore 12.00 -19.30

VANESSA BEECROFT - VB SOUTH SUDAN @ GALLERIA LIA RUMMA / fino al 22.11.06 VB South Sudan è l’ultimo progetto di Vanessa Beecroft, iniziato lo scorso anno nel corso di un viaggio compiuto dall’artista in Sudan. Rispetto alle algide e impassibili modelle, alle quali ci ha abituati l’artista nell’ultimo decennio, i soggetti di queste immagini presentano molte corrispondenze con l’iconografia cristiana del passato. In alcune foto, infatti, la Beecroft è ritratta come una Madonna bianca, con al seno due piccoli gemelli. Le altre immagini presentano ugualmente una tipologia rappresentativa di matrice cristiana: una Madonna nera incinta, una donna nera con i due bambini in grembo, un Gesù nero crocifisso, una Sacra Famiglia composta da una Madonna bionda e da Giuseppe e dal bambino neri. In questi lavori, come del resto nei precedenti progetti, è riconoscibile una costante ricerca verso la perfezione dell’immagine.

Indirizzo Via Solferino 44 telefono +39 0229000101 (info), +39 0229003805 (fax) web / mail liarumma@tin.it www.gallerialiarumma.it orari dal martedì al sabato ore 11.00 -13.00 / 15.00 - 19.00

SPENCER FINCH @ GALLERIA SUZY SHAMMAH / fino al 18.11 La galleria Suzy Shammah apre la stagione espositiva con una perso-nale dell’artista americano Spencer Finch (New Heaven, 1962). Per la sua prima mostra in Italia, l’artista ha ideato - ad hoc per gli spazi della galleria - un’installazione luminosa che intende ricreare la sua percezione di un luogo reale, ad oggi non specificato. Sei pannelli luminosi, uguali per dimensioni ma diversi per intensità e configurazione, sono la traccia per riprodurre qualitativamente l’atmosfera di quel luogo. Ciascun elemento dell’installazione è infatti legato sia ad un momento temporale preciso sia ad un punto di osservazione visiva. La contrapposizione dei pannelli luminosi negli spazi della galleria mette in relazione le differenti qualità visive che caratterizzano quel momento creando l’esperienza di un tempo sospeso.

indirizzo via San Fermo - Milano p. o. via Moscova 25 IT-20121 Milano telefono +39 02 29061697 +39 02 89059835 (fax) mail/ web info@suzyshammah.com www.suzyshammah.com orari dal martedì al sabato ore 14.00-19.00

THE JEAN-MICHEL BASQUIAT SHOW @ LA TRIENNALE / FINO AL 28/01/07 Protagonista emblematico della scena newyorchese degli anni ’80, Basquiat è uno degli artisti più popolari dei nostri tempi. Ancora oggi, a quasi venti anni dalla morte, avvenuta quando non era ancora ventottenne nell’agosto del 1988, i suoi lavori e il suo linguaggio continuano ad affascinare il pubblico di tutto il mondo. The Jean-Michel Basquiat Show si qualifica come una delle più vaste retrospettive dedicate al grande artista americano: comprende circa ottanta dipinti e quaranta disegni. Una vasta documentazione fotografica e una sezione video, con molti materiali inediti, documenteranno il lavoro dell’artista e il contesto in cui è nata e si è sviluppata la sua arte: la New York degli anni Ottanta. Le opere selezionate provengono da prestigiose collezioni private americane ed europee e da numerosi musei e istituzioni pubbliche

indirizzo Viale Emilio Alemagna 6 Milano telefono +39 02724341 +39 0289010693 (fax) mail/ web info@triennale.it www.triennale.it orari dal martedì alla domenica ore 10.30-20.30

PAOLA PIVI - MY RELIGION IS KINDNESS. THANK YOU, SEE IN THE FUTURE @ FONDAZIONE NICOLA TRUSSARDI / dal 14/11/06 al 10/12/06 La mostra della Fondazione Nicola Trussardi porta a Milano il mondo alla rovescia di una delle punte di diamante della giovane arte italiana. Paola Pivi ha immaginato per i maestosi spazi industriali dei magazzini una combinazione di opere realizzate specificatamente per l’occasione e lavori recenti. Con cambiamenti di scala o mutamenti di scenario, il realismo magico di Paola Pivi trasforma operazioni apparentemente impossibili in gesti di una semplicità disarmante. Come in un laboratorio scientifico che sfida le leggi della fisica e dell’ingegneria, le installazioni dell’artista milanese sono esperimenti dell’immaginazione che costruiscono un mondo di favole governato dall’eccesso e dall’ironia. Attraverso un processo tanto giocoso quanto inquietante, Paola Pivi rimaneggia la natura inseguendo principi assurdi e sovvertendo ogni regola.

indirizzo Vecchi Magazzini della Stazione di Porta Genova via Valenza, 2, Milano telefono +39 02 8068821 mail / web press@fondazionenicolatrussardi.com orari tutti i giorni dalle 10.00 alle 20.00

SUBITO SERA @ GALLERIA ZERO / 20/11/06 – 22/12/2006 Conclusa la mostra di Jeppe Hein, che ha aperto la stagione nei giorni di Start, la Galleria Zero riapre i battenti con la collettiva Subito Sera, che inaugura giovedì 20 novembre e prosegue sino a fine dicembre. Gli artisti invitati sono di provenienze e generazioni diverse: Dorota Jurczak, artista polacca scomparsa nel 1990, Klara Liden, giovane artista svedese negli stessi giorni impegnata nella sua prima personale da Reena Spaulings a New York, la berlinese Kirsten Pieroth e Paul Ramirez Jonas, artista americano che riflette sulla storia del suo paese e sul suo decadimento.

indirizzo via Ventura 5 telefono +39 02 36514283 mail / web info@galleriazero.it www.galleriazero.it orari dal martedì al sabato ore 12.00-19.30


MOUSSE / NEWS ITALIA / PAG. 62

DIALOGO II @ GALLERIA ENRICO FORNELLO / fino al 1/12/06 Secondo atto della mostra Dialogo, che invita tre artisti - in questo caso Athanasios Argianas, Tobias Putrih e Luca Trevisani - a esprimersi sul tema proposto dal curatore Simone Menegoi. Se il centro del primo Dialogo era l’equilibrio che si instaura, all’interno della creazione, fra controllo e abbandono, ora gli artisti sono chiamati a confrontarsi su alcuni elementi comuni del loro lavoro: l’interesse per il Modernismo, la dialettica tra organico e geometrico, la scultura come linguaggio privilegiato. indirizzo Via Paolini, 27 - Prato telefono +39.0574.462719 +39.0574.471869 (fax) mail /web info@enricofornello.it

GROUP THERAPY @ MUSEION / fino al 7/1/07

DOUGLAS GORDON @ MART / fino al 21/01/07

La prima mostra museale di Douglas Gordon in Italia comprende una retrospettiva dei lavori dell’artista scozzese e una nuova installazione pensata appositamente per il Mart. Douglas Gordon, vincitore del Turner Prize nel 1996, si è ormai distinto come uno dei più importanti artisti internazionali. Da sempre interessato al doppio registro espressivo della comunicazione verbale e di quella delle immagini in movimento, Gordon si è imposto per le sue video-installazioni di dimensioni inusitate, e per i suoi testi, stampati sui muri degli spazi espositivi nelle collocazioni più diverse. Vengono riproposti in mostra i video 24 hour psycho (1993) e Play dead. Real time (2003), mentre l’installazione Pretty much every film and video... presenta tramite un gran numero di monitor televisivi una selezione di opere video dell’artista, dal 1992 ad oggi. In un’altra sezione della mostra, Gordon presenta un lavoro composto da tutti i suoi testi verbali, ricontestualizzati in una nuova versione pensata appositamente per questo particolare spazio e con l’aggiunta di un testo nuovo, anch’esso realizzato per il Mart. indirizzo Corso Bettini 43 - Rovereto (TN) telefono + 39 0464438887 (info) mail /web info@mart.trento.it www.mart.trento.it orari da martedì a domenica dalle 10,00 alle 18,00

SCOTT MYLES @ GALLERIA SONIA ROSSO / dal 11/11/06 al 27/1/07 Per la sua seconda personale alla Galleria Sonia Rosso, Scott Myles presenta un’installazione composta da sculture e fotografie, che prende spunto da un romanzo di Lawrence Sterne, ‘The Life and Opinions of Tristram Shandy, Gentleman’. L’interesse di Myles si concentra sulla reputazione di quest’opera settecentesca, considerata sovversiva nei confronti dei canoni del romanzo per l’utilizzo di tecniche di narrazione innovative e altamente sperimentali.

L’attenzione di questa mostra si concentra sul concetto di opera come catalizzatore di relazioni, come situazione aperta, che riceve il suo senso nella partecipazione, nello scambio con il fruitore e nell’evoluzione temporale e che pertanto risulta definitivamente lontana dall’idea di un’opera puramente rappresentativa o contemplativa. A questo si aggiunge la ripresa - anche ironica – dell’antico concetto di catarsi dell’opera d’arte. Il lavoro di gruppo e/o di coppia presuppone una relazionalità a priori della realizzazione e della fruizione dell’opera, significa un dialogo sull’opera che la precede e che viene poi portato avanti dal fruitore. La maggior parte delle opere esposte è stata appositamente concepita e realizzata per Museion. In mostra: A12 (Genova, Milano), Jennifer Allora e Guillermo Calzadilla (San Juan, Puerto Rico), Bernadette Corporation (Berlino, NY), Claire Fontaine (Parigi), Clegg & Guttmann (NY, Vienna), Elmgreen & Dragset(Danimarca, Norvegia), gelitin (Vienna), goldiechiari (Roma), Superflex (Danimarca). indirizzo via Sernesi 1 - Bolzano telefono +39 0471 977116 mail /web info@museion.it orari mar–dom 10.00–18.00 
giov 10.00–20.00 
Lunedì chiuso

GREGOR SCHNEIDER @ FOND. MORRA GRECO / dal 25/11/06 al 25/12/06 26.11.2006 è il titolo della mostra che Gregor Schneider presenta a Napoli, alla Fondazione Morra Greco; nel calendario luterano il 26 novembre è il giorno dei morti, il giorno in cui si commemorano i defunti. Infatti il progetto che l’artista tedesco ha sviluppato durante un suo soggiorno a Napoli è strettamente legato al tema della morte, sentimento che da sempre compenetra l’essenza di questa città, una città che dietro la maschera di allegria e di vitalità nasconde un grande senso della morte. indirizzo Via Anticaglia, 17 – Napoli telefono +39.3336395093 mail /web info@fondazionemorragreco.it

indirizzo via Giulia di Barolo 11/h - Torino telefono tel/fax +39 011 8172478 mail /web info@soniarosso.com orari dal martedì al sabato 15.00/19.00

VENEZIA UNA SELEZIONE POST-POP @ PALAZZO GRAZZI / dal 11/11/06 al 11/3/07 L’arte Post-Pop trae le sue radici dalla Pop Art, ricontestualizzandone le forme, le tecniche e le strategie artistiche nell’epoca contemporanea. Diciotto artisti provenienti da differenti situazioni storico-culturali sono stati scelti dalla collezione Pinault in quanto rappresentano una perfetta incarnazione dell’arte Post-Pop, accomunati da un’attenta analisi della comunicazione di massa. Le imponenti sculture di Jeff Cuns, l’amara ironia di maurizio Cattelan, l’audace introspezione di Christopher Wool, la monumentale fotografia di Andreas Gursky, le impressionati sculture di Thomas Schutte e la dirompente trasgressione della Young British Art sono solo alcuni esempi tra i grandi artisti presenti in mostra. indirizzo Campo San Samuele, 3231, Venezia telefono +39.0415231680 mail /web www.palazzograssi.com orari tutti i giorni dalle 10 alle 19


MOUSSE / NEWS ITALIA / PAG. 63

MODENA

EURHOPE 1153 @ VILLA MANIN / fino al 23/2/07

CODROIPO (UDINE)

UGO RONDINONE - GIORNI FELICI @ GALLERIA CIVICA DI MODENA / fino al 7/01/07

1153 sono le miglia marine che separano il Golfo di Trieste dal porto di Istanbul. La Turchia è una nazione che si esprime geograficamente come ponte tra Europa e Asia e che, particolarmente oggi, può essere principale luogo d’incontro e fondamentale territorio di dialogo tra oriente ed occidente. La mostra EuroHope1153 a cura di Francesco Bonami e Sarah Cosulich Canarutto, presenterà un gruppo di giovani artisti turchi che utilizzano principalmente il video e la fotografia e che, nel loro lavoro, raccontano un mondo multiforme e dinamico, particolarmente rilevante in relazione agli attuali sviluppi artistici internazionali. indirizzo Piazza Manin 10, Passariano - Codroipo (UD) telefono tel +39 0432 906509 mail/web info@villamanincontemporanea.it

NAPOLI Dopo aver partecipato alla collettiva “EGOmania”, Ugo Rondinone torna alla Galleria Civica di Modena con una personale intitolata “Ugo Rondinone. Giorni Felici”, curata da Milovan Farronato in collaborazione con Angela Vettese. La mostra presenta una serie di lavori inediti - alcuni dei quali pensati appositamente per questa mostra - ed è la prima grande rassegna in Italia dell’autore svizzero, dal vasto curriculum internazionale. Ugo Rondinone è stato definito un artista visionario intrappolato nella realtà. Questa mostra, che testimonia l’eclettismo dell’artista proponendo una vasta selezione della sua opera, dalla fotografia alla scultura, ci permette di entrare nel suo mondo interiore, dominato da melanconia e rassegnazione; noi stessi siamo accompagnati dalle opere in un percorso analogo di analisi interiore.

BRUCE NAUMAN @ MUSEO MADRE / fino al 8/01/07

indirizzo Corso Canalgrande 103 - Modena telefono + 39 0592032911 (info) mail /web galcivmo@comune.modena.it www.comune.modena.it/galleria orari da martedì a venerdì dalle 10,30 alle 13,00 e dalle 15,00 alle 18,00 sabato, domenica e festivi 10,30 -18,00 chiuso il lunedì

P.CHIASERA, L.STOPPINI, Y.ZHOU @ QUARTER RELOCATED / fino al 2/12/06

TORINO

A Torino, in occasione di Artissima 2006, QUARTER (associazione che negli ultimi due anni ha scandito il tempo della cultura contemporanea fiorentina) inaugura QUARTER RELOCATED, un nuovo spazio nel quartiere di San Salvario; uno dei quartieri forti della città, un pezzo di quella Torino che si è già incamminata nel nostro futuro multiculturale. La mostra mette in gioco tre nomi del panorama artistico internazionale, tre personalità emergenti che esprimono emblematicamente le trasformazioni in corso nella cultura planetaria: Paolo Chiasera, Luca Stoppini e Yi Zhou.

La mostra, a cura di Laurence Sillars - curatore della Tate Liverpool - attraversa le fasi più salienti della carriera dell’artista. Cinquanta lavori, tra sculture, neons, video, performance e disegni, eseguiti tra 1966 ed il 2005, costituiscono il corpus dell’esposizione, concentrandosi in particolare sull’interesse di Nauman per la potenzialità e la manipolazione del linguaggio, attraverso i giochi di parole e la ripetizione, e sottolineando la sua attenzione verso le forme di controllo e sulle possibili reazioni dello spettatore alle sollecitazioni ambientali da lui create, nonché sull’attenzione dell’artista nell’uso e nelle potenzialità del corpo all’interno della società tecnologica contemporanea

indirizzo Largo Saluzzo 10, Torino telefono +39 3475754563 (tel), mail/web info@quarterprogetti

indirizzo Via Settembrini 79 - Napoli telefono +39 081 5624561 orari chiuso il martedì / lun - mer - gio - dom 10.00-21.00 / ven - sab 10.00-24.00

PISA CITIES FROM BELOW @ STABILIMENTO TESECO / dal 13/11/06 fino a settembre 2007

TRACEY EMIN - MORE FLOW @ GALLERIA LORCAN O’NEILL / fino al 30/11/06

Il progetto “Cities from below” intende concentrarsi - attraverso un programma ricco e complesso composto da workshop, proiezioni e momenti di interazione con il territorio - sulle forme della trasformazione urbana contemporanea, nella convinzione che lo sviluppo della città sia divenuto, oggi, uno dei principali problemi politico-sociali. Lo spazio della Fondazione Teseco sarà trasformato in una sorta di laboratorio e in uno spazio di rappresentazione temporaneo pensato come piattaforma di auto-gestione o governo della città a venire: aprirà al pubblico sabato 18 novembre e sarà presentato nella sua dimensione finale nel maggio 2007.

indirizzo Via Orti D’Alibert 1E - Roma telefono + 39 06 6889 2980 mail/web mail@lorcanoneill.com

ROMA

La mostra presenta nuovi lavori realizzati con una grande varietà di media, quali la pittura, i neon e opere a ricamo che la contraddistinguono; queste diverse tecniche e tematiche riflettono infatti la sua complessa personalità artistica. In questa mostra, Emin esplora la sua vita personale e il suo passato attraverso i pensieri più intimi e i sogni. Quest’indagine compiuta nelle sue opere ne intensifica la verità e la forza. Le piccole dimensioni le rendono preziosi gioielli. L’artista ritrae se stessa come un’icona erotica e allo stesso tempo indifesa e bisognosa d’amore. Le opere incarnano un inno all’amore e al sesso, che sono parte intensa della vita di una donna.

indirizzo via Carlo Ludovico Ragghianti, 12 Pisa telefono +39.050 987511 mail/web orari Lun/Ven 14.30-18.00 o su appuntamento


RECENSIONI

a cura di Sara Micol Viscardi

MOUSSE / RECENSIONI / PAG. 64

SHAPE WITHOUT FORM... @ GALLERIA FRANCESCA KAUFMANN

CATHERINE SULLIVAN @ GALLERIA GIO’ MARCONI

Curiosa e ricercata, la collettiva in scena da Francesca Kaufmann chiosa il tema del ritratto, raccogliendo in un piccolo spazio ben nove artisti che presentano ricerche, linguaggi e profili completamente diversi. A partire dal titolo, che sembra un non-sense complicato e sibillino, la mostra affascina e convince, per nulla scontata e molto intellettuale. Mettere in scena il ritratto, senza di fatto mai affrontarlo esplicitamente: i lavori degli artisti esposti, provenienti da contesti completamente diversi tra loro, sono accomunati dalla rinuncia alla riconoscibilità del modello come invece avviene all’interno del Ritratto nella sua accezione più tradizionale. Ancor prima di entrare nello spazio espositivo, Gesto denaturalizzante di Gianni Caravaggio invade il cortile con una grande rete da tennis incastonata da palline colorate. Il lavoro dell’artista italiano ritrae il luogo in cui si colloca, accostandolo - in una successiva installazione all’interno della galleria - ad altre rappresentazioni spaziali, ricreando così un percorso personale dell’artista. Leggermente più esplicito il rimando alla categoria nel lavoro dell’americano Peter Coffin, che indugiando sul concetto di aura realizza sagome concentriche di diverso colore, lasciando l’impalpabile impressione del passaggio, fugace e appena distinto, di una sagoma umana. Il soggetto della ricerca di Roberta Silva ruota attorno alla figura archetipica del padre, che dal particolare assurge al generale attraverso l’utilizzo del mercurio come elemento da cui dipendono tutte le trasformazioni alchemiche. Il soggetto è altrettanto centrale nel lavoro di Francesco Gennari, basato sul rapporto tra mondo esteriore ed interiore, rappresentato in mostra da un solido che cela la parte interna e strutturata all’occhio dello spettatore. I lavori di Tom Burr e Lorna Macintyre svolgono il tema a partire dal riferimento a figure del mondo letterario: il primo attraverso una sorta di raccolta fotografica, la seconda con complesse costruzioni appena ancorate alle pareti. Scores è un lavoro video di Allan Kaprow degli anni Settanta: i performers devono seguire scrupolosamente, nello svolgere le proprie azioni, le indicazioni dell’artista, che interviene dunque nell’azione messa in atto dal soggetto. Viene ritratto così l’atto stesso nel suo divenire, al posto della mera rappresentazione soggettiva. L’artista californiana Pae White presenta uno chandelier a cui sono stati appesi numerosi ritagli di giornale, dove la tinta della struttura viene decisa dal soggetto stesso ritratto. Infine Dave Muller, che utilizza liste di LP preferiti compilate dalle persone ritratte dai suoi lavori, per poi rappresentarne il dorso delle copertine in delicati dipinti che, unitamente a determinate direttive (ad esempio l’altezza dei soggetti), impedisce all’artista di comunicare una visione personale e soggettiva attraverso l’opera.

L’artista americana Catherine Sullivan gioca con i generi come con la macchina da presa: formatasi inizialmente come attrice, ha incrociato nel suo percorso il teatro, la videoarte, la musica e l’arte contemporanea. The Chittendens è composta dall’installazione di sei video proiezioni al piano terra, e da una sala dedicata a fotografie tratte dalle riprese, al piano superiore dei grandi spazi della GalleriaFondazione Giò Marconi. Il progetto, prodotto dalla galleria milanese, da Metro Pictures gallery (New York) e Catherine Bastide gallery (Bruxelles), ha coinvolto sedici diversi attori e il compositore Sean Griffin, che ha realizzato la colonna sonora del video. In questo lavoro l’artista mette in scena, ancora una volta, i complessi rapporti tra gli attori, che spesso portano a sfasamenti tra ruolo e identità, in un continuo citazionismo che passa dal noir d’autore alla storia del teatro, dall’arte contemporanea a impliciti riferimenti storico-culturali. La narrazione è praticamente inesistente, mentre le riprese si spostano a volo d’uccello tra diverse stanze, cogliendo e subito abbandonando il climax di isteria che la scena attraverso la quale si passa sta raggiungendo. I personaggi interpretati derivano da stereotipi dell’America del XIX e XX secolo; agli attori è stato chiesto di interpretare – anche più volte - quattordici diverse emozioni/situazioni. Le performance sono diverse tra loro, sovrapposte in una sorta di sequenza incomprensibile e straniante. È praticamente impossibile capire quale attore stia interpretando cosa, in questo continuo movimento concitato e sospeso. L’impressione di trovarsi di fronte ad un dramma è forte quasi quanto quella di non riuscire a comprenderlo: la profonda schermatura che ci separa dagli interpreti della scena che si sta svolgendo è invalicabile. Nemmeno il titolo del lavoro viene in aiuto allo spettatore: Catherine Sullivan si prende ancora una volta gioco delle regole semantiche, scegliendo un titolo totalmente fuori asse rispetto al contesto: The Chittendens è infatti il nome di una agenzia di assicurazioni, il Gruppo Chittendens. L’artista, girando per le strade dell’Arizona, ha visto questo nome su di un’insegna sbiadita a forma di faro, appesa ad un edificio abbandonato. Non a caso il video si apre con una scena girata a Poverty Island, piccola isola sul Lago Michigan, dove si trova appunto un vecchio faro disabitato. Per il resto le scene sono state principalmente girate negli spazi di un ufficio abbandonato di Chicago, di volta in volta in sala d’aspetto, ufficio, sala conferenza, bagno e dispensa. Il leggero tocco del pianoforte fa da sottofondo a tutte le scene che si susseguono vorticosamente, crendo ancora una volta un effetto stridente tra due dimensioni incompatibili.


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WHEREVER WE GO @ SPAZIO OBERDAN (fino al 28.1.2007)

FRAGMENTED SHOW @ FONDAZIONE RATTI

VANESSA BEECROFT - VB SOUTH SUDAN @ LIA RUMMA (fino al 22.11.2006)

Artisti accomunati dalla propria condizione di migranti per scelta, costrizione, nomadismo radicale o semplice spostamento professionale. Infinite variabili culturali, l’incontro di traiettorie sempre diverse che intersecano tra loro aree del mondo diametralmente opposte o semplicemente distanti, geograficamente e culturalmente. La globalizzazione non è certo fenomeno nuovo, e l’arte contemporanea ne riflette e monitora conseguenze, dinamiche e contraddizioni da tempo, con esiti stimolanti e profondi. Incentrato sul rapporto locale-globale è ad esempio il lavoro dell’artista brasiliana Maria Thereza Alves, che attraverso una sorta di carrellata video pubblicitaria, presenta provocatoriamente frutti, fiori, ortaggi e prodotti di vario tipo come tipici del proprio paese d’origine. Ne risulta una grottesca rivendicazione nazionalista che, trasposta dall’oggetto al soggetto, vuole riflettere su culture e identità. Tra i numerosi video in mostra, il forte e struggente messaggio dell’artista israeliana Yael Bartana si esplicita attraverso la messa in atto di un gioco inventato da giovani attivisti israeliani, dove due gruppi di ragazzi parafrasano – attraverso la dimensione ludica – il proprio contesto politico. In largo anticipo cronologico questo lavoro ci propone immagini che sembrano anticipare i reportages legati alle più recenti vicende di cronaca. Keren Amiran narra attraverso l’uso della camera l’irreale e forzato dialogo-monologo tra una donna filippina (immigrata illegalmente in Israele) e una piccola tartaruga. Il lavoro a quattro mani delle artiste serbo-croate Maja Bajevic e Danica Dakic è girato tra Sarajevo, Parigi e Düsseldorf, giocando sul diverso significato che assumono dieci frasi in forma affermativa e successivamente negativa in relazione ai diversi luoghi. Poetico il lavoro dell’albanese Adrian Paci, che inscena il proprio funerale come simbolo del processo di morte e rinascita insito in ogni cambiamento; completamente basato sull’utilizzo dell’animazione il video di Carlos Amorales, che attraverso immagini simboliche e quasi archetipiche, allude a emozioni e paure ancestrali dell’uomo. Ingombrante e disordinata incombe sull’ingresso l’installazione di Nari Ward, che utilizza oggetti riciclati per indurci a riconsiderare lo scarto di produzione, metaforicamente e materialmente inteso, come un valore da non rimuovere. Ma anche i grossolani fotomontaggi di Magali Claude, il blog – sorta di diario di bordo digitale e aperto a tutti – di Elena Nemkova, composizioni-arma montate con ingredienti di ricette provenienti da diverse culture, anche gastronomiche, da Tsuyoshi Ozawa. Ventitrè artisti, la riflessione sulla multiculturalità: uno stimolante viaggio attraverso il mondo, con gli occhi del mondo stesso.

L’idea di frammentare una mostra in diverse sedi può non essere originale, si può credere che avvenga usualmente e non sia poi – tutto sommato – una grande novità. Ma qui siamo a Milano, non a Berlino o a Basilea, e il concetto di network è ancora piuttosto lontano. L’esperienza di Start è – in questo senso – un importante modello, ma legato ancora all’idea di grande evento annuale, difficilmente applicabile alla quotidianità degli spazi espositivi che anche ne fanno parte. Fragmented Show ci regala, oltre ad una mostra di spessore, varia e molto ben costruita, un’idea da seguire in futuro: Viafarini, C/O careof, neon>fdv e Fabbrica del Vapore si trasformano, in un’area ben circoscritta della città, in un percorso fortemente connesso, pur mantenendo ciascuno una propria identità. La mostra scaturita dal XII Corso Superiore di Arte Visiva della Fondazione Ratti di Como presenta ventuno tra artisti e collettivi che hanno frequentato per tre settimane il Corso organizzato dall’istituzione comasca, con l’artista Marjetica Potrc in qualità di Visiting Professor. Gli artisti hanno potuto visionare gli spazi delle quattro sedi e scegliere il più adatto per sviluppare il proprio progetto, con una coerente curatela firmata da Anna Daneri, Roberto Pinto e Cesare Pietroiusti. Tra i diversi lavori, particolarmente lirico il progetto dell’artista islandese Gunndis Yr Finnbogadóttir, giocato sull’utilizzo del cibo per mantenere – ed ampliare – i propri legami affettivi; maggiormente legato al contesto del workshop il lavoro della finlandese Ulrika Ferm, che ha intervistato alcuni abitanti di Como alla ricerca di una storia operaia lontana. Vesna Bukovec narra, attraverso fotografie commentate dal testo, gli anni Ottanta nel suo paese d’origine, la Slovenia, facendoci riflettere sui flussi che un determinato modello politico-economico origina. La sua famiglia, come molte altre, compiva regolarmente brevi viaggi in Italia o in Austria per fare acquisti nei Supermarket, in una sorta di irreale incursione nel Paese dei Balocchi per l’allora giovanissima artista. Il collettivo americano neuroTransmitter propone una ricerca su tracce e frequenze registrate durante un’escursione sul Lago di Como, tradotto in un’elegante e raffinata videoinstallazione che utilizza riprese aeree e registrazioni subacquee. Inmi Lee (Corea/ USA) ha osservato e studiato i gesti e le parole più comuni dal suo arrivo in Italia, utilizzate poi in un rudimentale storyboard, mentre il progetto del canadese Emanuel Licha propone polemici viaggi turistici in Paesi in stato di guerra. Tra gli italiani, da segnalare Alice Cattaneo, vincitrice del Premio EPSON FAR, con la poetica installazione Untitled e la Portable Sculpture; l’opera di Nicola Toffolini prevede l’interazione del pubblico con una stanza piena di candide piume agitate da un vento artificiale, ed infine Dafne Boggeri, con il lavoro i-D e la serie di 4 poster in edizione limitata.

All’origine di VB South Sudan, nuovo progetto di Vanessa Beecroft, l’interessamento verso il drammatico genocidio del Sudan meridionale, il viaggio che ne è seguito, e che ne ha preceduti altri due. La maternità, il rapporto complesso e problematico tra Occidente e Sud del Mondo, la religione letta attraverso la tradizionale iconografia cristiana sono altre importanti componenti del lavoro esposto per la prima volta da Lia Rumma, che si discosta quindi nettamente dalla precedente ricerca dell’artista. Il rigore compositivo, l’equilibrio formale e l’attenzione per gli accostamenti cromatici rimangono però invariati rispetto alla produzione precedente. Il colore puro e monocromo degli abiti viene applicato non più a donne algide e omologate, ma a uomini e donne di colore, accostati al candore della pelle dell’artista stessa (ritratta in Madonna bianca con gemelli) e della sua assistente. Questo contrasto – prima di tutto culturale – viene posto in risalto anche nella scelta di muri assolutamente neutri, utilizzati come sfondo ai tableux vivant messi in scena dall’artista: pareti bianche e crepate che rimandano alla condizione di povertà e miseria del contesto d’origine. L’austerità regna sovrana sulle fotografie, trasformando temi come La Sacra Famiglia, il Cristo morto o La Madonna col Bambino, in gelide e raffinatissime composizioni che molto ricordano certe campagne pubblicitarie di moda di Oliviero Toscani. Nell’opera Black Christ il nitore dell’immagine bilancia il riferimento letterale ad un soggetto potenzialmente naïf: a cavallo tra pesantezza barocca – adagiato com’è il corpo su uno sfondo crepato come fosse marmo rosa– e tecnica iperrealista, il soggetto mantiene vivo lo sguardo, seppur puntato nel vuoto alla destra dello spettatore, a cui offre un corpo liscio, intatto e assolutamente banale. Accolto come una cesura profonda, in apparente contrapposizone con tutto ciò che è stato il lavoro precedente della Beecroft, questo progetto risulta in realtà omologabile ai codici visivi, estetici e stilistici a cui il pubblico è abituato. Di certo è cambiato il messaggio, partecipato e velatamente politico nella sua critica al rapporto unilateralmente dominante tra il mondo occidentale e – in questo caso – i Paesi in via di sviluppo. Quanto questa possa essere una strada percorribile nel lungo termine resta invece una questione aperta: frutto di un’empatia che ha portato l’artista a pensare anche all’adozione dei due gemelli ritratti al suo seno (e realmente allattati da lei stessa durante il suo primo soggiorno sudanese), il tema scelto sembra colorarsi maggiormente dei toni emotivi piuttosto che politici, sociali, culturali. Come dire che questo progetto – seppur osteggiato dal gallerista americano Jeffrey Deitch poichè non abbastanza politically correct – non annovera improvvisamente Vanessa tra le fila degli artisti politicamente impegnati.


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BOOKSHOPPING

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18-10-2005

11:57

Pagina 1

MIKE KELLEY: Interviews, Conversations, and Chit-Chat (1986-2004) a cura di John C. Welchman JRP|Ringier / Les Presses du rĂŠel, 2005 lingua: inglese pp. 228 / 28 illustrazioni formato: 15 x 21 cm â‚Ź 15.00 www.jrp-ringier.com I]^h kdajbZ Wg^c\h id\Zi]Zg V YdoZc oZhi[ja ^ciZgk^Zlh VcY XdckZghVi^dch WZilZZc i]Z A6"WVhZY Vgi^hi B^`Z @ZaaZn VcY hdbZ d[ i]Z aZVY^c\ kd^XZh ^c XdciZbedgVgn XjaijgZ dkZg i]Z aVhi XdjeaZ d[ YZXVYZh# I]Zn gVc\Z [gdb ZmiZcYZY Y^hXjhh^dch l^i] ]^h Vgi^hi"[g^ZcYh ?^b H]Vl VcY Idcn DjghaZg! l]^X] VgZ ZhhZci^Va [dg Vcn jcYZghiVcY^c\ d[ i]Z^g [dgbVi^kZ ldg`! id egdW^c\ Y^Vad\jZh l^i] eZg[dgbZg B^X]VZa Hb^i]! 66 7gdchdc d[ <ZcZgVa >YZV VcY <ZgbVc eV^ciZg$ lg^iZg ?jiiV @dZi]Zg# @ZaaZn Vahd iVa`h l^i] i]Z e]did\gVe]Zg$[^abbV`Zg AVggn 8aVg` VcY Vgi^hi G^X]VgY Eg^cXZ! l^i] @^b <dgYdc VcY I]jghidc BddgZ d[ Hdc^X Ndji]! VcY l^i] cdiZY [^abbV`Zgh ?d]c LViZgh VcY =Vgbdcn @dg^cZ# I]Z Wdd` WZ\^ch VcY ZcYh l^i] ild XdckZghVi^dch l^i] Xg^i^Xh/ kdajbZ ZY^idg! ?d]c 8# LZaX]bVc iVa`h id @ZaaZn VWdji i]Z cVijgZ d[ iVa`^c\! VcY ?Z[[gZn HXdcXZ VWdji @ZaaZn h ^ccdkVi^kZ Zm]^W^i^dch I]Z JcXVccn &..( VcY '%%) #

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CHRONOLOGY di Daniel Birnbaum Lukas & Sternberg, 2005 lingua: inglese pp. 115 formato: 11 x 17 cm â‚Ź 15.00 www.sternberg-press.com

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Sembra che pubblicare interviste sia di moda, e ogni casa editrice che conti pare senta il bisogno di avere almeno un libro di interviste nel suo catalogo 2006. Per fortuna Interviews, Conversations, and Chit-Chat è uno di quei libri che non si lasciano pregare per essere letti. Le interviste di Mike Kelley non sono materiale qualunque, ma grazie alla sua capacitĂ di raggiungere un elevato livello di intimitĂ con i suoi interlocutori, si ha la sensazione quasi di entrare nelle menti degli artisti stessi. In questo volume, pubblicato da JRP in collaborazione con la francese Les Presses du rĂŠel, per una nuova serie intitolata “Positions Seriesâ€?, sono state raccolte alcune tra le interviste piĂš significative di Kelley, con artisti del calibro di AA Bronson, Larry Clark, Kim Gordon, Thurston Moore, Jutta Koether, Harmony Korine, Tony Oursler, Richard Prince, Jim Shaw, Michael Smith, Jeffrey Sconce, e John Waters. Tanti spunti e materiale interessante, magari per quando un giorno toccherĂ a voi pubblicare le vostre interviste.

DE APPEL. Performances, Installations, Video, Projects, 1975-1983 a cura di Marga van Mechelen De Appel, 2006 lingua: inglese / olandese pp. 440 / 469 illustrazioni formato: 17 x 24 cm â‚Ź 45.00 www.deappel.nl

FISCHLI WEISS: Flowers and Questions A Retrospective a cura di Bice Curiger Tate Publishing, 2006 lingua: inglese pp. 360 / 200 illustrazioni fomato: x cm ÂŁ 19.99 www.tate.org.uk/publishing

Un duo affascinante, una retrospettiva mozzafiato, un ottimo catalogo: uscire dal bookshop senza averne una copia sottobraccio, o nel bel sacchetto di plastica firmato TATE, sarebbe inammissibile. Forse voi pensavate tutto il tempo agli scivoli di HĂśller e credevate che bastasse una di quelle visite guidate per ricordarvi qualcosa. Di sicuro non stiamo parlando dello stesso catalogo, perchĂŠ se questo lo aveste guardato bene, ora sarebbe giĂ in bella mostra sul vostro coffee table. Finalmente un catalogo degno di chiamarsi tale, ricco di testi inediti scritti da alcuni dei nomi piĂš importanti dell’arte contemporanea, una selezione di oltre 200 immagini ed un layout unico studiato appositamente dagli artisti stessi. Siete giĂ di nuovo in volo per Londra? Un consiglio, prendetene due copie stavolta, troverete sempre qualcuno che la mostra non ha avuto tempo di vederla, ma gli sarebbe piaciuta una copia di quello splendido catalogo di cui si è parlato tanto. <>=> :D;CDA '

MONO.KULTUR mono.kultur, 2006 lingua: inglese pp. 32 formato: 15 x 20 cm â‚Ź 4.00 / 24.00 (6 numeri) www.mono-kultur.com

Per chi non se ne era già accorto, la casa editrice Lukas & Sternberg, per metà americana e per metà tedesca, ha pubblicato negli ultimi anni due serie di libretti davvero degni di attenzione, distinguibili esclusivamente per il colore delle copertine, bianche o nere, ed un obiettivo principale per ciascuna serie. La serie bianca si impegna a raccogliere scritti e saggi dei piÚ rinomati critici d’arte contemporanei. Dall’altro lato, la serie nera si occupa di offrire una piattaforma di presentazione per progetti d’artista, sia emergenti che affermati. Tra queste, dalla serie bianca, ha attirato la nostra attenzione Chronology di Daniel Birnbaum, in cui i lavori di artisti come Stan Douglas, Eija-Liisa Ahtila, Doug Aitken, Dominique Gonzalez-Foerster, Tacita Dean, Darren Almond, Tobias Rehberger, Pierre Huyghe e Philippe Parremo vengono analizzati da Birnbaum, nella ricerca di una possibile conclusione alla sua analisi filosofica sul tempo. Forse non una prima scelta per tutti, ma di sicuro un valido inizio per avvicinarsi a queste due magnifiche serie.

Una storia importante da raccontare, gli anni in cui De Appel divenne il centro di performance art per eccellenza in Europa; e non solo, un periodo di intenso sviluppo e di supporto per gli artisti che si avvalsero del video come medium privilegiato. Anni in cui De Appel giocò un ruolo importantissimo nella storia della video art europea, ed in particolare olandese, spingendo nuovi canali di comunicazione e promuovendo programmi televisivi prodotti dagli artisti stessi. Marg van Mechelen, studiosa e ricercatrice olandese, insegnante nel dipartimento di arte, religione e scienze culturali all’universitĂ di Amsterdam, è riuscita a mettere insieme un volume che rende il giusto onore al lavoro dello storico primo direttore, Wies Smals, e di tutto lo staff che lo accompagnò in quegli anni, consegnando finalmente la storia del De Appel a tutti coloro che non sono stati cosĂŹ fortunati da vivere in prima persona quegli eventi.

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WOLFGANG VOIGT DANCEFLORENSICS “I believe in the signal of the bass drum. It is the heartbeat of my life.�

Mono.Kultur si auto-definisce magazine, ma se vi capitasse di prenderne una copia in mano fareste fatica a crederlo. Se poi, oltre a quel singolo numero, scovato in qualche libreria straniera o per caso su internet, decideste di saperne di piĂš, allora vi accorgereste che Mono.Kultur non è solo un magazine ma una mini collana di interviste monografiche. I temi variano, passando dalla musica all’arte, dalla letteratura al cinema, dall’architettura alla danza, ed insieme ad essi si alternano personaggi di spicco dei vari settori. E’ pro-prio questa diversitĂ che Mono.Kultur vuole portare avanti, con la consapevolezza di non piacere sempre a tutti, ma è qui che si merita un altro punto di ammirazione; perchĂŠ a Mono.Kultur vi potete abbonare, ma non per forza seguendo l’ordine di uscita, piuttosto seguendo i vostri interessi e temi prescelti.

GORE a cura di Black Dice & Jason Frank Rothenberg PictureBox, 2006 lingua: inglese pp. 128 / solo illustrazioni formato: 22 x 28,5cm $30.00 www.pictureboxinc.com

Gore è il libro perfetto per risollevare le grigie domeniche d’inverno, o per chi ha costantemente bisogno di colori e di immagini forti, che ti fanno venire voglia di ballare fino allo sfinimento come una compilation della DFA records. I Black Dice, composti da Aaron Warren ed i fratelli Bjorn e Eric Copeland, e il loro fotografo ufficiale di sempre, Jason Frank Rothenberg, si sono uniti in questo progetto editoriale davvero unico nel suo genere. Forse per gli amanti di grafiche e collage psichedelici, Gore può ricordare molto i lavori del duo di designer austra-liani Perks And Mini (P.A.M.), ma di sicuro dimostra di essere frutto di menti fuori dal comune, che possono solo travolgere i vostri sensi o lasciarvi indifferenti del tutto. Un libro da scoprire a piĂš passaggi, se ne avete il tempo, e magari da approfondire con un bel disco dei Black Dice.



MOUSSE / DANCING / PAG. 68

All images courtesy: the artist


MOUSSE / DANCING / PAG. 69

Capita a volte che si incontrino, nelle falde della città, persone i cui corpi nascondono sensibilità dilatate. Temperature, gesti, sguardi. Spontanei. Loro prediligono l’interno. E i silenzi. E la bici a scatto fisso. Perchè è molto, molto, più veloce. Pura, essenziale. Traumaticamente autobiografica nella sua sibilante fragilità. E trionfalmente contrastante nei flussi urbani. Per le sue traiettorie cromatiche perfette e la conduzione tecnicamente impeccabile. Minoritaria. Ma non sfrontatamente, al contrario, umana, quasi spaurita, senza pelle. E, naturalmente, pericolosa. Loro è Camilla Candida Donzella. Che fotografa, disegna e scuote con incursioni dalle forme più svariate, le verità, i comportamenti e le immagini di una comunità silenziosa. Divertita in superficie e pronta a deflagrare di gesti e di energie appena sotto, dietro, dentro. Loro sono molti. Camilla ne rappresenta volti, corpi, stili e sentimenti. E racconta insieme anche se stessa, occhio eccentrico ed interiore nella congrega dei coloni dell’immaginario urbano contemporaneo. www.somewheresometimes.com


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introducing

NICO VASCELLARI

Buio Primario, 2003 - Courtesy: the artist

di Roberta Tenconi La ricerca di Nico Vascellari (Vittorio Veneto, Treviso, 1976) è per sua natura interdisciplinare e poliedrica. Si potrebbe parlare della sua attività di artista, performer, musicista, frontman e voce del gruppo punk With Love, illustratore e costumista, del tempo trascorso a Fabrica come designer, o dei progetti nella Grande Mela come borsista del Premio New York 2006: i molteplici input si condensano in una sola anima in un continuo cross over disciplinare. Dal punto di vista squisitamente artistico le sue installazioni e performance ricordano alternativamente i mondi caotici e rocamboleschi costruiti da John Bock, le narrazioni surreali e stratificate di Matthew Barney, o i set complessi di Thomas Hirschhorn. Le storie che racconta hanno trame complicate, ricche di suggestioni composite che vanno dalla festa folkloristica di paese, alle cerimonie del carnevale, ai riti processionali, fino ai recenti riferimenti alla cultura popolare messicana. Lavori multiformi, magmatici, modulari, concepiti in fasi differenti e in ambientazioni articolate che prevedono spesso la partecipazione di numerose comparse e il contributo del pubblico. Nei suoi lavori Nico Vascellari gioca in

prima persona, interagendo con i presenti e lo spazio circostante; improvvisa utilizzando la propria immagine e il proprio corpo – accuratamente abbigliato con costumi concepiti e realizzati in prima persona - come tramite di relazione. L’emblematico video A Great Circle (2005), prodotto in tre differenti versioni (un’edizione limitata ensata esclusivamente per il mercato dell’arte; una serie più ampia prodotta dalla prestigiosa etichetta discografica californiana GSL; e infine un’edizione speciale per un pubblico a cavallo tra i due mondi), è composto dalla stratificazione e dal montaggio di materiale prodotto nel 2003 durante Buio Primario, Glitter Secondario e Nodo Terziario, tre performance avvenute in luoghi e tempi diversi ma concepite sin dall’inizio come parte di un progetto unitario. La colonna sonora, affidata al gruppo With Love, fa da trait d’union tra i tre momenti che diventano un punto di intersezione tra la scena musicale underground e la performance artistica. In Buio Primario l’artista costruisce all’interno di una galleria una struttura in legno cunicolare e labirintica, una sorta di tunnel completamente buio dalle dimensioni ridotte entro il quale vive per una settimana in una dimensione

quasi animale, e senza alcun riferimento temporale se non i rumori prodotti dai visitatori durante l’orario di apertura dello spazio espositivo. Glitter Secondario è una complessa installazione che per tre giorni trasforma le stanze del Tent Museum di Rotterdam in una foresta artificiale tetra, ma al tempo stesso luccicante. Il suono, che attraversa e collega i diversi ambienti, proviene da una stanza verde completamente isolata e priva di ingressi all’interno della quale i musicisti della band With Love manipolano i suoni prodotti dalle azioni di Nico, che si aggira nell’adiacente stanza principale interagendo con i visitatori. In Nodo Terziario infine il pubblico viene trasportato a sua insaputa, in una fredda serata invernale, all’interno di una dolina carsica nei pressi della Galleria d’Arte Contemporanea di Monfalcone. Nel bosco si partecipa a un concerto live interpretato dall’artista, avvolto in un massiccio mantello fuori misura costituito da centinai di t-shirts smembrate raccolte durante concerti underground. L’esibizione si basa su suoni registrati durante le due precedenti fasi, mixati con materiale audio raccolto sul luogo nei giorni precedenti. La stessa presentazione di A Great Circle sottolinea la complessità


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del lavoro, modificandone ogni volta la messa in scena. Ad esempio nella versione # 4 di Roma (ottobre 2005) la proiezione del video e la performance che l’accompagna avvengono all’interno di un

visiva ed emotiva sviluppate durante i concerti col gruppo With Love, ridisegnano i rapporti familiari. Il titolo si riferisce al nome di una inverosimile band musicale che coinvolge tutti i

Dal punto di vista squisitamente artistico le sue installazioni e performance ricordano alternativamente i mondi caotici e rocamboleschi costruiti da John Bock, le narrazioni surreali e stratificate di Matthew Barney, o i set complessi di Thomas Hirschhorn. pulmann da turismo attraversando i luoghi emblematici della città. In Nico & The Vascellaris (2005), con la quale l’artista è stato nominato vincitore de Il Primo Premio Internazionale della Performance di Dro, Trento, l’impatto fisico e l’intensa sensibilità

Glitter secondario, 2003 - Courtesy: the artist

componenti della famiglia dell’artista: durante la performance live a Dro, Nico Vascellari canta di vicende domestiche su una base precedentemente registrata – il padre alla batteria, la madre al basso, la sorella alla chitarra – mentre i familiari sostengono una scenografia composta da un neon rosa con il nome del gruppo e

una copertura di legno sovrastante il quartetto. Tra i lavori più recenti, Death Blood War (2006) presentato alla Galleria Skuc di Lubiana in Slovenia, è una complessa installazione in cui due metallari, uno originario di Vittorio Veneto l’altro del luogo, sono seduti alle due estremità di un massiccio tronco e lo scolpiscono con due grosse asce, senza mai fermarsi, a ritmo di musica. L’articolata installazione, che comprende tra l’altro il remix delle canzoni Angel of Death, Reign in Blood e War ensemble del gruppo Slayer, procede attraverso la stratificazione e il rimontaggio di elementi preesistenti. Lo scrupoloso processo di genesi del lavoro offre, ancora una volta, nuova identità e autonomia a forme preesistenti, coniugando allo stesso tempo procedimenti di distruzione e creazione.

Nodo Terziario, 2003 - Courtesy: the artist

Nico & The Vascellaris, foto: Ela Bialkowska - Courtesy: the artist



MOUSSE / PIETRO ROCCASALVA / PAG. 73

che di cose bianche si può predicare la pensabilità; e analogamente, se delle cose pensate si predica l’inesistenza, delle cose esistenti si deve necessariamente predicare l’impensabilità. Per il che, è giusta e conseguente la deduzione, che “se il pensato non esiste, ciò che è non è pensato”. E invero, le cose pensate (rifacciamoci di qui) non esistono, come dimostreremo; dunque, l’essere non è pensato. Che le cose pensate non esistano, è evidente: infatti, se il pensato esiste, allora tutte le cose pensate esistono, comunque le si pensino; ciò che è contrario all’esperienza: perché non è vero che, se uno pensa un uomo che voli, o dei carri che corran sul mare, subito un uomo si mette a volare, o dei carri a correr sul mare. Pertanto il pensato non esiste. Inoltre, se si ammette che il pensato esiste, si deve anche ammettere che l’inesistente non può esser pensato; perché i contrari hanno predicati contrari; e il contrario dell’essere è il non essere. E perciò in via assoluta, se dell’esistente si predica l’esser pensato, dell’inesistente si deve predicare il non esser pensato. Il che è assurdo, perché per esempio e Scilla e Chimera e molte altre cose inesistenti sono pensate. E dunque, ciò che esiste non è pensato. E come, ciò che si vede, in tanto si dice visibile, in quanto si vede; e quel che si ode, in tanto si dice udibile, in quanto si ode; né noi respingiamo le cose visibili pel fatto che non si odano, né ripudiamo le udibili pel fatto che non si vedano (ché ciascuna dev’esser giudicata dal senso che le corrisponde, non da un altro), cosí anche le cose pensate, se pur non si vedano con la vista né si odano con l’udito, esisteranno, in quanto sono concepite dall’organo di giudizio che è proprio di esse. Se dunque uno pensa dei carri che corran sul mare, anche se non li vede, deve credere che ci siano carri che corron sul mare. Ma questa è un’assurdità; dunque l’esistente né si pensa, né si comprende. 5 Dove vivi? Intorno al non ente o intorno alla natura. 6 Che lingua parli? La parola è l’espressione dell’azione che su noi esercitano i fatti esterni, cioè a dire le cose sensibili; per esempio, dal contatto col sapore, ha origine in noi la parola conforme a questa qualità; e dall’incontro col colore, la parola conforme al colore. Posto questo, ne viene che non già la parola spiega il dato esterno, ma il dato esterno dà significato alla parola. E neppure è possibile dire che, a quel modo che esistono oggettivamente le cose visibili e le udibili, cosí esista anche il linguaggio; sicché, esistendo anch’esso come oggetto, abbia la proprietà di significare la realtà oggettiva. Perché, ammesso pure che la parola sia oggetto, tuttavia differisce dagli altri oggetti; e soprattutto differiscono, dalle parole, i corpi visibili; perché altro è l’organo, con cui si percepisce il visibile, ed altro quello con cui si apprende la parola. Pertanto, la parola non può esprimere la massima parte degli oggetti, cosí come neppure questi possono rivelare l’uno la natura dell’altro. Di fronte a tali quesiti insolubili, sparisce, per quanto li concerne, il criterio della verità; perché dell’inesistente, dell’inconoscibile, dell’inesprimibile non c’è possibilità di giudizio. 7 Pietro Roccasalva, DeMorgen,2006, Collezione My Private, in comodato al MARTa Herford Museum

PIETRO ROCCASALVA a cura di My Private

Socrate: Questo è parlare! O Cherefonte, interrogalo! Cherefonte: E che dovrei domandargli? Socrate: Domandagli chi è.1 Chi sei? Ammesso che qualcosa esista, esiste soltanto o ciò che è o ciò che non è, ovvero esistono insieme e ciò che è e ciò che non è. Ma né esiste ciò che è, come dimostrerà, né ciò che non è, come ci confermerà; né infine, come anche ci spiegherà, l’essere e il non essere insieme. Dunque, nulla esiste. E invero, il non essere non è; perché, supposto che il non essere sia, esso insieme sarà e non sarà; ché in quanto è concepito come non essere, non sarà, ma in quanto esiste come non esistente, a sua volta esisterà; ora, è assolutamente assurdo che una cosa insieme sia e non sia; e dunque, il non essere non è. E del resto, ammesso che il non essere sia, l’essere non esisterà piú; perché si tratta di cose contrarie tra loro; sicché se del non essere si predica l’essere, dell’essere si predicherà il non essere. E poiché l’essere in nessun modo può non essere, cosí neppure esisterà il non essere. Ma neppure esiste l’essere. Perché se l’essere esiste, è o eterno o generato, oppure è insieme eterno e generato; ma esso non è né eterno, né generato, né l’uno e l’altro insieme come dimostreremo; dunque l’essere non esiste. Perché se l’essere è eterno (cominciamo da questo punto), non ha alcun principio. Poiché ha un principio tutto ciò che nasce; ma l’eterno, essendo per definizione ingenerato, non ha avuto principio. E non avendo principio, è illimitato. E se è illimitato, non è in alcun luogo. Perché se è in qualche luogo, ciò in cui esso è, è cosa distinta da esso; e cosí l’essere non sarà piú illimitato, ove sia contenuto in alcunché; perché il contenente è maggiore del contenuto, mentre nulla può esser maggiore dell’illimitato; dunque l’illimitato non è in alcun luogo. E neppure è contenuto in se stesso. Perché allora sarebbero la stessa cosa il contenente e il contenuto, e l’essere diventerebbe duplice, cioè luogo e corpo; essendo il contenente, luogo, e il contenuto, corpo. Ma questo è

assurdo. Dunque l’essere non è neppure in se stesso. Sicché se l’essere è eterno, è illimitato; se è illimitato, non è in alcun luogo; e se non è in alcun luogo, non esiste. Ammessa dunque l’eternità dell’essere, si conclude all’inesistenza assoluta. (…) Resta cosí dimostrato che né l’essere, né il non essere esistono. Che poi neppure esistano ambedue [l’Essere e il Non-essere] insieme, è facile a dedursi. Perché ammesso che esista tanto l’essere che il non essere, il non essere s’identificherà con l’essere, per ciò che riguarda l’esistenza; e perciò, nessuno dei due è. Infatti, che il non essere non è, è già convenuto; ora si ammette che l’essere è sostanzialmente lo stesso che il non essere; dunque, anche l’essere non sarà. E per vero, ammesso che l’essere sia lo stesso che il non essere, non è possibile che ambedue esistano; perché se sono due, non sono lo stesso; e se sono lo stesso, non sono due. Donde segue che nulla è. Perché se l’essere non è, né è il non essere, né sono ambedue insieme, né, oltre queste, si può concepire altra possibilità, si deve concludere che nulla è.2 Da dove vieni? Da Leontini.3 Cosa hai studiato? La poesia, nelle sue varie forme, io la ritengo e la chiamo un discorso con metro, e chi l’ascolta è invaso da un brivido di spavento, da una compassione che strappa le lacrime, da una struggente brama di dolore, e l’anima patisce, per effetto delle parole, un suo proprio patimento, a sentir fortune e sfortune di fatti e di persone straniere. 4 Esiste qualcosa che tu chiami “conoscere”? Passiamo ora a dimostrare che, se anche alcunché sia, esso è, per l’uomo, inconoscibile e inconcepibile. Se infatti le cose pensate non sono esistenti, ciò che esiste non è pensato. Questo è logico; per esempio, se di cose pensate si può predicar la bianchezza, ne segue

Cosa fai per vivere? Questo discorso ho voluto scrivere, non solo per elogiare Elena, ma perché fosse a me di passatempo. 8 Qual’e’ il prodotto del tuo lavoro? La natura delle cose che vediamo non è quale la vogliamo noi, ma quale è coessenziale a ciascuna; e per mezzo della vista, l’anima anche nei suoi atteggiamenti ne vien modellata. (…) Non di rado alcuni, alla vista di cose paurose, smarriscono nell’attimo la ragione che ancora possiedono: tanto la paura scaccia e soffoca l’intelligenza. Molti poi cadono in vani affanni, e in gravi malattie, e in insanabili follie; a tal punto la vista ha impresso loro nella mente le immagini delle cose vedute. (…) D’altro lato i pittori, quando da molti colori e corpi compongono in modo perfetto un sol corpo e una sola figura, dilettano la vista. E figure umane scolpite, figure divine cesellate sogliono offrire agli occhi un gradito spettacolo. 9 Con quale nome dovremmo dunque chiamarti? Farmacista! 10 Dici mai bugie? La tragedia opera un inganno per cui chi inganna è più giusto di chi non inganna e chi è ingannato è più sapiente di chi non è ingannato. 11 Essere o apparire? 1) Nulla esiste 2) Se anche alcunché esiste, non è comprensibile all’uomo; 3) Se pure è comprensibile, è per certo incomunicabile e inspiegabile agli altri. 12 Note: 1) Platone, Gorgia. 2) Sesto Empirico, Contro i matematici, VII, par. 66-70; 75-76. 3) e 4) Gorgia, Elogio di Elena, par. 9. 5) Sesto Empirico, Contro i matematici, VII, par. 77-82. 6) e 7) Sesto Empirico, Contro i matematici / Against the Schoolmasters, VII, par. 85-87. 8) Gorgia, Elogio di Elena, par. 19. 9) Gorgia, Elogio di Elena, par. 15-18. 10) Pietro Roccasalva. 11) Gorgia, frammento B 23 DK. 12) Sesto Empirico, Contro i matematici, VII, par. 65.


MOUSSE / PHIL COLLINS / PAG. 74

NEXT TURNER PRIZE?

Shady Lane Productions, 2006 - Credit: © Tate Photography

di Barbara Casavecchia Se ci vai il weekend, tutto chiuso. Gli uffici della Shady Lane Productions che Phil Collins ha deciso d’impiantare in una sala della Tate Britain, come suo contributo al Turner Prize di quest’anno, funzionano solo dal lunedì al venerdì, dalle canoniche 10 alle 18. Probabile che dopo aver timbrato il cartellino, gli impiegati (Collins compreso) si trasferiscano al pub, tornino a casa da fidanzati, figli e amanti, vadano a cena o al cinema, leggano, dormano, pensino ai cazzi propri. Vivano, insomma. Ricordandoci che fare arte è un lavoro come un altro e non c’è nessun obbligo di stare sotto i riflettori 24/7, né di rispettare tutte le regole che detta il Grande Fratello. Nemmeno, o soprattutto, quando sei a bordo del carrozzone da Reality Circus del Turner (media partner The Guardian), con premiazione in diretta televisiva – il 4 dicembre – su Channel 4, preceduta dal debito zum-pap-pa’ di scandali, gossip, nomination e indignazione del pubblico che affolla le sale con uno share di 2.000/3.000 presenze al dì, fino all’assegnazione al vincitore di un bel gruzzolo da 25.000 sterline. Bruscolini, se paragonati al 1.000.000£ in palio per il prossimo dei vieppiù minacciosi reality show sfornati dallo stesso Channel Four (nel ’05, ha scritturato sette candidati pronti a farsi torturare per 48 ore in versione “Guantanamo light”), i cui concorrenti potranno farsi le scarpe chiusi in un bunker sotterraneo. Forse assisteremo a un travaso di celebrità da un livello dell’entertainment all’altro, visto che con la sua casa di produzione “in diretta” Collins sta cercando una quindicina di persone che raccontino come si sono rovinate la vita accettando di partecipare a un reality. Questo capitolo londinese della serie “the return of the real” fa seguito a gerçõein geri dönübu, partorito dall’artista nel 2004 per la 9° Biennale di Istanbul – dove Collins aveva allestito un

set nell’elegante Hotel Marmara, delegato a uno studio d’immagine cittadino il compito di scattare foto individuali e di gruppo ai partecipanti, e affidato a un regista televisivo locale le riprese di 11 interviste da un’ora. Un’altra puntata è in cantiere a Bilbao, dove il progetto ha fatto tappa quest’estate, alla Sala Rekalde. Nessuna ingenuità. Collins sa di rendersi complice degli stessi meccanismi di sfruttamento, voyeurismo e identificazione che stigmatizza. “Io mi accosto alla costruzione di ogni lavoro da una posizione d’invidia”, spiega. “Che si tratti di ballare in una maratona di musica disco, cantare un karaoke o raccontare la propria vita a una telecamera, quella cosa vorrei poterla fare io. Qualcuno le ha dato valore col solo fatto di guardarla. Vorrei esserci io nell’inquadratura. Vorrei potervi uccidere e occupare il vostro spazio”. E’ quello che ha sempre fatto, sistematicamente. Sabotando la grammatica del documentario low-budget in presa diretta (e la retorica dello sguardo “in soggettiva”) con le incursioni che fa compiere a mani, braccia e voce dell’operatore/regista nel campo di ripresa, per ribadirne la costante presenza fuori campo. E mettendosi ancor più in difficoltà, sul versante delle ambivalenze, con la scelta di situazioni già bersagliate dalle distorsioni dal sensazionalismo mediatico, perché filmate sullo sfondo di città borderline come Baghdad (nel 2002), Belfast, Ramallah. Che tuttavia Collins non ci mostra affatto. Dribblando latitudini, esotismi e luoghi comuni geografici, ci propina i soliti format, l’abc dell’esperanto televisivo generalista: il provino per aspiranti ai 15 minuti di fama, il talk show, il videoclip, lo spettacolo musicale per ragazzi. Mentre all’inizio lavorava coinvolgendo amici e parenti, negli ultimi anni ricorre sempre piu’ spesso al filtro dell’annuncio a pagamento e

successivo casting per selezionare i propri soggetti. Che poi paga, o ricambia con il saldo per una notte in una camera d’albergo deluxe, o lo sviluppo di una foto “d’autore”, in cambio del diritto di sfruttamento illimitato dell’immagine. Per l’equivalente di due giornate di paga da operaio, 8 + 8 ore, ha ottenuto che un gruppo di teen-ager palestinesi s’impegnasse in una massacrante maratona di ballo, sulle note plastificate di un “best of” di tutto il meglio e il peggio della dance internazionale (they shoot horses, 2004). Ha caricato su una macchina da karaoke l’intero album The world won’t listen (’87) degli Smiths, una delle sue passioni giovanili, per farlo cantare a squarciagola da fan adolescenti di Bogotà (el mundo no escucharà, 2004) e Istanbul (dünya dinlemiyor, 2005). Con una pubblicità sul giornale locale, ha invitato chiunque se la sentisse, purché in età compresa tra i 18 e gli 88 anni, a spogliarsi nella suite di un albergo di San Sebastian (real society, 2002), per farsi immortalare da un celebre “fotografo internazionale”. Nel giugno 2005, la Shady Lane Promotions ha fatto la sua prima comparsa a Bristol come casa di produzione video, con il bando per selezionare tre gruppi della scena locale (Forest Giants, I Have No Collar, François), di cui s’impegnava a confezionare il promo. Collins non è sempre così buono. In hero (2001-2), tampina con la sua videocamera un giornalista newyorkese post 11/9, costringendolo a bere di tanto in tanto da un boccale di whiskey, fino a fargli perdere il filo, sciogliere le emozioni, ubriacarlo di parole a vanvera. Torna in mente un cattivissimo film del ’92, Il cameraman e l’assassino del belga Rémy Belvaux (suicidatosi a settembre di quest’anno), in cui una troupe tv seguiva un serial killer appassionato d’arte, musica natura, architettura e filosofia, finendo col dargli una mano a seviziare, uccidere, seppellire i cadaveri.


MOUSSE / PHIL COLLINS / PAG. 75

from free fotolab, 2005 - courtesy: Kerling Gallery and the artist

from free fotolab, 2005 - courtesy: Kerling Gallery and the artist

Quel film (in originale, C’est arrivé près de chez vous, dal titolo di un settimanale trash di cronaca nera, genere “rockstar rapita dagli alieni” e “bestie di satana violentano due novantenni”) era la versione expanded, in 16 mm, di un cortometraggio dal titolo rivelatore: Pas de C4 pour Daniel, Niente Channel 4 per Daniel. Collins è nato nel 1970 (a Runcorn, UK. Ha studiato a Manchester e Belfast; ora vive a Glasgow). Il reality show è nato a maggio dell’anno dopo, negli USA, il giorno in cui Alan e Susan Raymond hanno installato una telecamera fissa nel salotto dei signori Loud e se stessi nella loro casa, rimanendoci fino al Giorno del Ringraziamento. Nelle dodici ore finali del documentario An American Family, mandato in onda nel gennaio ’73 dalla PBS, sarebbe successo di tutto, dal divorzio dei genitori Pat e Bill al coming out di uno dei cinque figli, Lance, all’epoca ventenne. Bingo: dieci milioni di spettatori. E i Loud? Dieci anni dopo, concluse le riprese di una specie di sequel da anniversario, i Raymond constatavano che la serie “sembra aver avuto un effetto traumatico su Pat. Se le chiedessero di rifarlo, non accetterebbe mai. La odia”. Per Lance, diventato nel frattempo giornalista free-lance e stripper professionale, “siamo stati gli ultimi. Con noi è finita l’età dell’innocenza televisiva”. Amen. Per le Frieze Commissions 2006, Collins ha presentato il film he who laughs last laughs longest, il suo modo per festeggiare l’ottantesimo compleanno della televisione: i protagonisti ridono a crepapelle, fino alle lacrime, nel tentativo di aggiudicarsi il premio in denaro destinato a chi riuscirà a ridere più a lungo di tutti gli altri. Come sempre, il suo obiettivo è la manifattura del consenso, la costruzione mediatica della realtà. Nel catalogo di Manifesta 3, a Lubiana (dove aveva presentato il disarmante how to make a refugee, 1999, girato nei campi di rifugiati di Skopje, in Macedonia), Phil Collins riporta una lunga citazione dei Minima moralia di Adorno. Io avevo sottolineato una frase: “L’osservatore distaccato è altrettanto coinvolto del partecipante attivo; l’unico vantaggio del primo è la sua consapevolezza del proprio coinvolgimento, e l’infinitesimale libertà che risiede in tale cognizione”. Sembra la fotocopia di uno dei caposaldi della fisica quantistica, il principio d’indeterminazione di Heisemberg: “L’osservatore modifica il comportamento dell’osservato e l’osservazione è necessariamente ristretta ad una porzione del fenomeno osservato, tanto che, in fin dei conti, non esiste un osservatore e un osservato, ma l’unione di entrambi e l’osservazione in se fornisce dati su una coppia inscindibile di elementi: lo stato dell’osservatore e lo stato dell’osservato” (grazie, Wiki). Heisemberg ci era arrivato nel 1927, più o meno negli stessi anni in cui Johnson e Weinhart realizzavano il prototipo del tubo catodico a valvole.

from free fotolab, 2005 - courtesy: Kerling Gallery and the artist

fov evevr #1, 2003 - courtesy: Kerling Gallery and the artist


MOUSSE / SLIDING TATE / PAG. 76

slidingTATE di Lorenzo Bruni Qual è la distinzione tra giocare con degli scivoli qualunque e giocare con quelli realizzati alla Turbine Hall (Tate Modern, Londra) dall’artista Carsten Höller? La differenza è fornita solo dal particolare contenitore del museo? Oppure c’è altro? Quest’opera è il risultato dell’instancabile ricerca condotta da Holler sul concetto di normalità, sulle modalità di percezione fornite dall’impostazione culturale odierna e sul ribaltamento dell’aspettativa. Höller come sempre ha puntato a creare una dimensione in cui le differenze esistenti tra il punto di vista di un bambino, di un esperto di arte e del normale cittadino risultino irrilevanti, fornendo la possibilità di un’esperienza più che una forma da contemplare. Il visitatore, entrando nell’imponente vuoto dell’architettura della Turbine Hall, un antro scuro che incute timore, rimane colpito da un’inedita atmosfera di gioia, un misto di eccitazione e di attesa. La folla che staziona con il naso all’insù, gli ooooooh di stupore e il nervosismo delle persone in coda. Poi l’attenzione si sposta sul motivo di tale trepidazione: una serie di scivoli a chiocciola che lanciano le persone dai vari livelli della Tate Modern nel grande vuoto della grande sala al piano terra. Stretti cunicoli tubolari in materiale trasparente e metallo, che dialogano con l’architettura intorno e al tempo stesso la trasformano, dandole l’aspetto di un paesaggio fantascientifico alla Metropolis. Dopo le scatole di Rachel Whiteread dell’anno passato, dopo l’installazione sonora di Nauman, il sole di Eliasson e l’architettura elastica e illusoria di Kapoor, questi scivoli (sculture al limite con l’architettura che richiedono l’uso partecipato dello spettatore) sono il progetto di Carsten Höller per le Unilever Series. Il titolo è Test Site. Ma cosa dobbiamo testare? Le capacità di

reazione e di percezione che abbiamo dopo essere scesi a tutta velocità lungo uno scivolo a chiocciola dal quarto piano della Tate invece di visitare uno dei suoi percorsi tematici? La ricerca di Höller è sempre stata al limite con il metodo scientifico, psicologico e antropologico, proponendo una riflessione radicale sul ruolo dell’artista e sul ruolo dello spettatore. L’artista smette di essere colui che detiene la verità, e diventa soggetto in ricerca al pari di qualsiasi altro osservatore. Lo spettatore viene messo in una condizione di perplessità che lo costringe a riconsiderare e mettere in discussione se stesso e le proprie reazioni. Mettere in crisi le certezze del pubblico era, ad esempio, l’intento del suo progetto del 1999, il Laboratorio del Dubbio presentato poi alla Biennale di Istambul e alla mostra ad Antwerpen (curata da Hans-Ulrich Obrist e da Barbara Vanderlinden). L’obiettivo prioritario di Holler è dunque proporre esperienze fruibili in presa diretta e non opere contemplative, rifiutando il rapporto unilaterale che normalmente si instaura tra artista (parte attiva) e osservatore (parte passiva). La presenza e le reazioni del pubblico devono diventare parte integrante dell’opera. L’intervento di Höller per la Turbine Hall è da considerare nell’ottica di questo particolare approccio, e non punta ad intrattenere lo spettatore o a distrarlo dai problemi del reale, ma a renderlo cosciente delle proprie reazioni accompagnandolo in uno stato allucinatorio momentaneo, come se fuoriuscisse da sè. L’idea dello scivolo non è nuova per Holler: l’aveva già sperimentata alla Fondazione Prada a Milano nel 2000, e ancora prima al Kunst-Werke di Berlino nel 1998. In quest’ultimo caso, inserito in un percorso di mostra che comprendeva installazioni e sculture, lo scivolo riportava il visitatore al punto di partenza - una fuga, una dimensione di interattivittà e di dinamicità inedita per una mostra

tradizionale. Per Höller, lo scivolo si pone al limite tra la dimensione di svago e quella di pericolo. Si usa tanto per il gioco quanto per una fuga di emergenza. Consente di ripetere lo stato della sorpresa, perchè sappiamo già come inizia e come finisce quell’esperienza, ma resiste sempre una dose di incognita e di timore. Proprio per questo lo scivolo produce una gioia gratuita e sottile in chi lo usa. E’ il miracolo dell’imprevidibilità calcolata. Forse anche per questo, i progetti di Holler per collegare con scivoli i piani di singoli palazzi hanno uno sviluppo successivo nell’ipotesi di realizzare un’intera città in questo modo. Il test di cui parla il titolo, allora, consiste nello sperimentare l’impatto che avrebbero gli scivoli in una dimensione di fruizione collettiva, seguendo e amplificando anche uno dei più cruciali intenti della Tate, quello di essere luogo aggregativo per tutti. E gli esiti di questo esperimento sono tutt’altro che scontati. L’ effetto immediato è l’eliminazione, se non altro la sospensione delle differenze nel pubblico, tra l’intellettuale e il bambino. Il mito dell’intrattenimento e della sua democratizzazione. L’elemento che emerge in seguito, però, è il disagio da parte del singolo quando si accorge che non è l’unico ad essere lì per fare quell’esperienza. Siamo tanti e in attesa. Questo stato di coabitazione imposta e di collaborazione che si crea all’interno della Turbine Hall fa pensare ad un altro progetto dell’artista, The Balduin Experiment, del 2000. Consisteva nel far coabitare duecento persone desiderose di evadere dalla routine quotidiana per 24 ore. Non vi erano compiti o attività da svolgere, in questo luogo, ma solo una sospensione delle normali abitudini e un forte spirito di condivisione. L’idea dell’artista era che queste persone sarebbero tornate il giorno dopo alla loro vita con un approccio diverso.


MOUSSE / SLIDING TATE / PAG. 77

Carsten Hรถller, Construction of The Unilever Series: Test Site - Courtesy: Tate photography




MOUSSE / BERLIN STUDIO VISITS / PAG. 80

Ho una certa riluttanza ai cosiddetti “studio visit”. Mi è sempre sembrata una pratica troppo diretta, un po’ meccanica, innaturale. Nei miei primi anni di lavoro, in Italia, non ci ero abituato: praticamente nessuno degli artisti che conoscevo aveva, e forse ha ancora adesso, uno studio vero e proprio. Questioni di economia e di modalità di lavoro, che per lo più viene “subappaltato”, prodotto con e da qualcun altro, piuttosto che dall’artista stesso. Questo mi piace, perché trasmette un’idea nomade e leggera del fare arte, come quella di un pensiero più che di una pratica, di un’idea più che di un mestiere. Ho qualche dubbio sul mito dell’artista solitario, chiuso nel suo studio a lottare contro i suoi fantasmi e il mondo. Già da allora mi ero convinto che esistono altri e più interessanti modi di avvicinare e conoscere un artista: una partita a calcio, uno scambio di e-mail, una discussione di musica o di politica. Poi ho lasciato l’Italia e affrontato contesti ed abitudini diverse. Durante il corso per curatori del De Appel, ad Amsterdam, facevamo fino a dieci, forse dodici “studio visit” in un giorno, soprattutto quando ci capitava di visitare un’accademia. Un vero stillicidio, almeno per me. Da una parte noi (i curatori o aspiranti tali), con un atteggiamento tra l’incerto e il supponente, che arrivavano come un team compatto, affamato, costantemente in cerca del miracolo. Dall’altra loro (gli artisti, o aspiranti tali) che mostravano i loro lavori e ripetevano timidi la formula appena imparata o provavano a stupirci con effetti speciali. Spesso era un dialogo tra sordi. Adesso le cose sono un pò cambiate: affronto la “procedura” con più serenità, senza l’ansia della “prestazione” da una parte o dall’altra. In verità, quando entro in uno studio, non cerco sempre e solo il lavoro. Mi piace prenderla alla larga, farmi distrarre dal contesto. Guardo in giro, apparentemente svagato, in cerca di indizi. Prendo tempo, metto a fuoco. Butto l’occhio sui libri, l’arredamento, le pile di cd o i film vicino al televisore. Tutto può essere interessante. Col tempo sono forse diventato più feticista. Adesso gli studi mi piacciono, ma un pò come possono piacermi delle abitazioni private. Continuo comunque a pensare che ci siano tanti modi, e anche migliori, per avvicinare e conoscere un artista. Però ci sono due cose, a Berlino, che la rendono uno dei posti più interessanti tra i centri dell’arte internazionale: gli artisti e gli spazi. Gli artisti sono tanti, gli spazi sono grandi, spesso molto belli e costano poco. Per questo ci sono tanti artisti a Berlino. E continuano ad arrivare da ogni parte della Germania e del mondo. Il fallimento economico di questa città è, in un certo senso, la sua stessa forza. In questi anni di “esilio volontario” berlinese ho visitato sicuramente alcuni studi, non molti. In alcuni casi neanche quelli di artisti con cui ho lavorato. Altri ancora gli studi non c’è l’hanno, e questo è anche più interessante (il computer portatile funziona sempre bene). Per questa rubrica andrò a trovarli in un bar, una casa, un parcheggio abbandonato, una chiesa sconsacrata. Non importa. Sarà una visita, più che un dialogo. Sarà un modo per raccontare Berlino attraverso i suoi spazi e gli artisti che li abitano. Un modo per guardare ai diversi modelli produttivi ed economici dell’arte contemporanea. “Un modo per conoscere e per conoscersi”, come direbbe il grande Gigi. “Io non ho bisogno di uno studio. Lavoro in treno”, mi diceva un pò di tempo fa Tino Sehgal. Eravamo seduti al Keyser Soze, un bar all’angolo tra Auguststrasse e Tucholskystrasse, due vie del Mitte di Berlino. Tino abita a pochi metri da lì, in una specie di comune autogestita, dove le porte degli appartamenti sono sempre aperte e la postazione internet è condivisa. Uno degli ultimi posti del genere in questa zona di Berlino dove ormai, alle gallerie e agli studi d’artista della metà degli anni novanta, iniziano a sovrapporsi o subentrare le boutique e i negozi di moda (e alcune gallerie scadenti…). Di solito ci incontravamo lì o, come oggi, al bar del Kunst-Werke, il centro d’arte che è proprio dall’altro lato della strada dalla casa di Tino. L’ultima volta, credo fosse luglio, abbiamo cambiato bar. Quelli del Keyser Soze sono tra gli esempi più tipici della lentezza e mancanza di charme dei camerieri berlinesi.

Sull’onda del suo successo e degli impegni sempre più frequenti, qualcuno aveva suggerito a Tino di prendersi un assistente, uno studio, insomma di costruire una situazione di lavoro più efficiente. Ma Sehgal dello studio non saprebbe veramente cosa farsene, neanche adesso (è stato appena selezionato tra i quattro finalisti del premio per la “Junge Kunst” tedesca, ha avuto una personale alla Kunsthaus di Bregenz e una allo Stedelijk Museum di Amsterdam, per citare alcune delle sue attività più recenti). Meglio il treno, anche perché per l’aereo ha una certa idiosincrasia. Per lui potrebbero valere le parole degli Archigram: “…se vedi qualcuno vicino a te con un cellulare, vai da lui e chiedigli ‘dove stai andando’…e se la risposta è ‘vado in ufficio’, allora digli ‘ma tu sei già in ufficio’”. L’unico problema è che Tino non possiede un cellula-

questa “leggerezza”, questa facilità – solo apparente se si ha avuto l’esperienza di vedere quanta pratica ci sia dietro a certi suoi progetti– che il suo lavoro trasmette. Per quanto mi riguarda non posso che iscrivermi al primo partito. D’altronde sono compromesso. Ho visto per la prima volta un suo lavoro a Francoforte, all’edizione di Manifesta del 2002. Alcune guardie del museo si rotolavano per terra con movimenti lentissimi e tortuosi, come in preda a delle convulsioni, che in verità erano gesti ripresi da lavori video di Bruce Nauman e Dan Graham. Saputo che viveva a Berlino ho rintracciato il suo numero (grazie Jens!) e gli ho chiesto un appuntamento. Lui ha preferito venire a casa mia: dopo un paio d’ore avevo già deciso di invitarlo all’ultima di una serie di tre mostre che stavo curando alla galleria

Sull’onda del suo successo e degli impegni sempre più frequenti, qualcuno aveva suggerito a Tino di prendersi un assistente, uno studio, insomma di costruire una situazione di lavoro più efficiente. Ma Sehgal dello studio non saprebbe veramente cosa farsene, neanche adesso. Meglio il treno, anche perché per l’aereo ha una certa idiosincrasia. re…Fa parte di un suo set di regole e limitazioni che si è dato nel concepire, produrre e trasmettere il suo lavoro. Il tutto può essere riassunto più o meno come segue. I suoi lavori hanno la forma instabile e leggera di movimenti e azioni che alcune persone compiono su richiesta dell’artista. A volte sono coreografie molto semplici e anche buffe; in altri casi sono complesse forme di dialogo e interazione tra performers e visitatori, entrambi “attori” di una trama analitica e surreale al tempo stesso, che irrompe inaspettata nello spazio di una galleria, di un museo, di una fiera d’arte. Verrebbe naturale chiamarle “performance”, ma a differenza di una normale performance non hanno una durata circoscritta, piuttosto quella di ogni altro lavoro d’arte “tradizionale”, di un quadro e di una scultura, per esempio. Sono visibili per l’intera durata di una mostra, come se fossero parte integrante e definitiva del contesto che, a loro volta, contribuiscono ad interrogare, violare, alterare con la loro presenza aliena. Hanno sempre a che fare, con estrema precisione e una buona dose di intelligenza e umorismo, con le funzioni, le regole, le dinamiche del luogo che le ospita. Le “coreografie” di Sehgal interrogano i rituali, le convenzioni e le relazioni tra pubblico e prodotto artistico, tra pubblico e istituzioni, tra istituzioni e prodotto artistico. Sehgal rifiuta ogni tipo di registrazione e di documentazione. Nessuna immagine, oggetto, o forma viene prodotta a seguito di queste azioni. Nulla. Perfino la didascalia del lavoro esiste solo come parola detta e non scritta É la trasformazione dei comportamenti, più che la trasformazione dei materiali ad interessare Sehgal, che in questo modo vuole evidenziare, o almeno suggerire, la possibilità di diverse forme di economia da quelle vigenti. Lui la chiama “una simultaneità di produzione e de-produzione”. Sono i corpi di galleristi, guardie di museo, persone comuni, ad essere “abitate” da quei gesti e da quelle parole. Dopo essere stato “rappresentato” il lavoro prende la forma di una pratica orale, di una trasmissione di gesti e comportamenti, di una canzone popolare che si perpetua di bocca in bocca, attraverso l’esperienza e il racconto, piuttosto che l’immagine. Anche la commercializzazione del lavoro avviene senza che venga prodotto alcun documento scritto, ma attraverso un accordo orale e la memoria di un notaio. L’educazione apparentemente anomala di Sehgal (studi di danza al Folwang di Essen e poi di economia politica a Berlino) ha una sintesi perfetta nella sua pratica: una specie di speculazione sulla produzione, la circolazione e la valorizzazione dei beni nella società del capitalismo avanzato sotto forma di coreografia. Una forma di politica in punta di piedi. Sehgal è sicuramente tra gli artisti più amati e odiati di questo inizio di secolo. Difficile avere una posizione neutra o essere indifferenti nei suoi riguardi. Il suo lavoro, la sua attitudine, la sua stessa personalità non possono che dividere tra entusiasti ammiratori e polemici oppositori. Penso che molti gli invidino

di Massimo Minini. Tino ha subito accettato (all’epoca non aveva ancora una galleria) e abbiamo iniziato un dialogo che è durato più di un anno, per costruire una mostra che mettesse il suo lavoro in una prospettiva storica (questa era la mia intenzione), soprattutto legata all’eredità dell’arte concettuale e alle problematiche del “site-specific”. Alla fine, dopo aver accarezzato l’idea di una collaborazione con Daniel Buren, ho ritrovato dei lavori di Robert Barry e Ian Wilson nei magazzini e negli uffici della galleria. Con questi ho costruito una sintetica ma possibile storia della smaterializzazione dell’oggetto artistico, dove il lavoro di Sehgal era l’anello finale ed estremo di una lunga storia (Don’t Expect Anything, 2004). Così, per la mostra, mi sono ritrovato a “recitare” la parte del curatore che racconta delle opere e dell’arte concettuale in una visita guidata che “incorporava” il lavoro di Sehgal. Durante la mia “interpretazione”, con voce e movimenti da posseduto, tipo L’Esorcista, esclamavo: “What do you think this is about?”, per poi ricompormi immediatamente e parlare del suo lavoro. Infatti: “di cosa stiamo parlando?” All’inaugurazione, una signora visibilmente seccata, sembrava avere la risposta pronta: “Ma questa è la fine dell’arte!”. Molti altri lo hanno pensato in questi anni, e non saranno gli ultimi. In qualche modo hanno ragione. Anche se Tino preferisce parlare del suo lavoro come “scultura”, certo la sua posizione è radicale nel rifiutare un certo tipo di modalità produttiva, che si conclude in un oggetto autosufficiente e solitario, slegato da ogni contesto. Senza un “altro da sé” il lavoro di Sehgal non esisterebbe: ha sempre bisogno di qualcosa a cui attaccarsi, appoggiarsi, entrare in relazione. É una specie di virus che si insinua in un corpo e lo modifica, almeno temporaneamente. All’ultima Biennale di Venezia i corpi erano quelli dei guardiani del padiglione tedesco che Sehgal condivideva con le sculture formaliste e colorate di Thomas Scheibitz. Appena entravi capivi che c’era qualcosa di strano. Donne e uomini in divisa ufficiale saltellavano in giro per la grande sala e intorno ai visitatori, canticchiando “This is so contemporary, contemporary, contemporary!”. Credo che anche in questo caso molti si siano offesi, altri scandalizzati, altri ancora lo abbiano interpretato come una trovata troppo furba o uno scherzo di pessimo gusto. A me è piuttosto sembrato un gesto d’incredibile forza: un’azione apparentemente banale e stupida rendeva tutto quello che era intorno prosaico, pesante, forse addirittura inutile. Una parentesi di leggerezza nei muri spessi dell’istituzione. Qualcosa di popolare e profondissimo insieme, di bizzarro e intelligente allo stesso tempo. In quei giorni, e non so per quanto ancora, nei sentieri della Biennale, attraverso le calli e i campi di Venezia spesso sentivi canticchiare “This is so contemporary…”. I più temerari, forse al terzo bianco spruzzato, accennavano lievemente ad un passo di danza.


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Kunst - Werke, Berlin - foto: Luca Cerizza


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L’IMPERO INCERTO L’America si trasferisce in Europa. E infatti, anche la nostra rubrica da New York per questo numero trasloca a Londra, dove due dei più importanti spazi espositivi della capitale inglese, Serpentine e Satchy Gallery, guardano agli Stati Uniti nel tentativo di tracciare i lineamenti delle ultime tendenze artistiche d’oltreoceano. Ansie millenaristiche, rabbia, vulnerabilità e testosterone: tutto va in scena e quella che emerge è un America incerta, cupa, un gigante che fa ancora paura ma che non riesce a nascondere l’insicurezza e le ferite più profonde.

di certo che la mostra riunisce una nutrita pattuglia di artisti che circolano, ormai da qualche anno, tra le pagine di Artforum e tra le più prestigiose gallerie di Chelsea. Per certi versi prevedibile e attenta al mercato, Uncertain States of America si distingue per un approccio curatoriale che crea percorsi di senso, cercando di dare forma alle tensioni che animano una generazione emersa dopo l’undici settembre. In molti lavori si percepisce la rabbia contro un sistema politico in crisi e il desiderio di contrastarlo, anche se poi sono pochi gli artisti che si impegnano in posizioni precise, mentre molti sembrano vittime di una certa superficialità. Così l’incertezza evocata dal titolo della mostra finisce per riflettere non solo una condizione esistenziale, ma anche una scelta poetica condivisa da tutti gli artisti, una tendenza a percepire e descrivere il reale in maniera obliqua e opaca, a volte semplicemente confusa. Nei momenti migliori questa confusione si trasforma in energia e la mostra riesce a trasmettere la sensazione di una nazione che ha raggiunto il punto di ebollizione e rischia quasi di esplodere. L’altra mostra che include molti degli artisti presenti in Uncertain States of America e che si rifà a premesse simili anche se con un approccio assai meno intellettuale o di ricerca è USA Today, organizzata da Charles Saatchi, magnate della pubblicità britannica e già celebre per aver lanciato la generazione britannica di Damien Hirst & Co. Nelle stesse stanze della Royal Academy of Arts che lo resero famoso in tutto il mondo per la controversa mostra Sensation, Saatchi organizza una retrospettiva di giovane arte americana, raccogliendo 40 degli artisti più cool dell’industria dell’arte contemporanea. Molti sono i nomi che ritornano da Uncertain States of America, ma qui l’idea di un percorso tematico e politico è abbandonata in favore di una panoramica generale delle tendenze della giovane arte americana. La mostra si rivela così decisamente carente dal punto di vista concettuale, ma offre un gruppo di opere e sezioni quasi monografiche, a volte persino eccellenti nella loro individualità. Concentrata unicamente su pittura e scultura, intrappolata da una moquette grigia che attutisce anche le dissonanze più acide, USA Today celebra e allo stesso tempo sembra sforzarsi di costruire a tavolino una generazione di artisti affascinati dalle grandi dimensioni e da un’enfasi ora carnevalesca ora forse involontariamente comica. A ben vedere poi molti sono gli artisti che sfuggono dal diktat più sensazionalistico di Saatchi, e le prove più convincenti forse vengono proprio dagli artisti più introversi o semplicemente isolati, come Matthew Monahan, Mark Grotjahn, Aleksandra Mir e Lara Schnitger.

di Cecilia Alemani

Kelley Walker, Schema; Aquafresh plus Crest with Whitening Expressions (Regina Hall), 2006 - Courtesy of The Saatchi Gallery, London - © Kelley Walker, 2006

Anche se può sembrare un progetto impossibile, in questi ultimi mesi non sono mancati tentativi più o meno disperati di definire una nuova scena artistica americana. Biennali, fiere, gallerie e musei si sono cimentati nell’ardua impresa di individuare le nuove tendenze artistiche che plasmano l’identità culturale made in USA. In particolare due importanti mostre – Uncertain States of America e USA Today – hanno provato a descrivere quello che succede tra le due capitali dell’arte contemporanea americana, New York e Los Angeles. Curiosamente, entrambe le rassegne si sono divise le attenzioni della critica e del pubblico di Londra, a migliaia di chilometri di distanza dalle rive americane. E, dettaglio ancora più importante, entrambe le mostre sono organizzate da europei, cosi

come europei erano i curatori (Chrissie Iles e Philippe Vergne) dell’ultima biennale del Whitney, che ha molto a che spartire con queste due mostre. Uncertain States of America è una mostra collettiva itinerante partita da Oslo dall’Astrup Fearnley Museum per approdare a New York presso il Bard College e per terminare proprio in questi giorni a Londra, alla Serpentine Gallery. Curata da Daniel Birnbaum, Gunnar B. Kvaran e Hans Ulrich Obrist, la mostra, che ruba il titolo a un’esposizione del 2000 di Stefano Boeri intitolata Uncertain States of Europe, riunisce una generazione emergente di artisti americani. A un occhio allenato non sfuggirà

In entrambe le esposizioni, la tendenza che affiora con più forza e che si riallaccia alla storia dell’arte anni Ottanta è costituita da un gruppo di artisti che utilizzano tecniche di appropriazione per riflettere sulla società americana contemporanea. Rifacendosi apertamente ad artisti come Cady Noland, David Hammons e Richard Prince, questa nuova generazione impiega metodologie simili – riciclo di materiali trovati, utilizzo di immagini ormai entrate nell’immaginario collettivo e il continuo richiamo al mondo della pubblicità – per mettere in scena un mondo saturo di informazioni e di prodotti, un mondo opulento ma percorso da un senso di vulnerabilità o di imminente decadenza. Tra i nomi più interessanti di questa compagine emergono Wade Guyton e Kelley Walker, che hanno spesso collaborato in occasione delle loro mostre in gallerie e musei. Kelley Walker (1969) – rappresentato a New York dalla prestigiosa galleria Paula Cooper che già lavora con altri artisti dell’appropriazione anni Ottanta come Sherrie Levine – riproduce fotografie di manifestazioni politiche o di copertine di giornali ricoperte da strati di dentifricio o cioccolata. Wade Guyton (1972) si dedica invece a un lavoro più astratto, creando sculture metalliche e quadri che riprendono motivi modernisti e geometrici. Forse meno interessante ma presente pressoché in tutte le collettive del 2006, Nate Lowman (1979) ricicla immagini della cultura di massa e icone della storia americana come Bonnie e Clyde, e li riproduce in serigrafie che ricordano Warhol e Prince, ma come virati in brutta


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copia. Infine Seth Price (1973) che lavora con la iper-trendy galleria Reena Spaulings, occupa in questo gruppo un posto più concettuale e radicale: abbandonati i metodi più sensazionalistici, Price esplora l’inconscio collettivo delle nuove tecnologie, combinando riflessioni teoretiche e filosofiche con un oscuro senso di minaccia strisciante. Questo dell’apocalisse prossima e ventura sembra essere un altro tema ricorrente, di sicuro stimolato dalle visioni di guerra che dominano il nostro presente. Tra gli artisti che sembrano rispondere a questa sensazione di disastro si distingue Paul Chan (1973), che con le sue strane animazioni intreccia software ormai obsoleti con visioni bibliche e ansie millenaristiche. Sulla costa occidentale invece spiccano Edgar Arceneaux (1972) e Karl Haendel (1976), che con disegni a matita, collage, poster e installazioni parlano di una società consumistica in rovina. Anche Matthew Day Jackson (1974) si rifà alla storia americana, rielaborando i miti pionieristici e le tradizioni native americane mescolate a una visione assolutamente personale della storia e della cronaca. L’ultimo gruppo che emerge in questo scorcio di fine anno è quello più testosteronico, aggressivo e cool – una pattuglia di artisti, per lo più uomini, che espongono con alcune delle gallerie giovani più alla moda, da Peres Project a Los Angeles a Rivington Arms a New York. Questi artisti si credono, e forse sono, i nuovi esponenti di una cultura giovanile fatta di sesso, droga e rock’n’roll, nata all’incrocio dell’estetica punk e quella più goliardica degli skaters. Presenti già alla Biennale del Whitney, ormai quasi inavvicinabili per prezzi e per popolarità, vivono tutti a NY dove hanno costituito un vero e proprio gruppo, una comunità autentica con un linguaggio condiviso, nel quale confluiscono arte, musica, graffiti e pop, con un occhio all’esplosione anni Ottanta dell’East Village e le orecchie sintonizzate su una strana forma di celebrità fai da te, una specie di MTV underground. Tra questi artisti bisogna citare almeno Dan Colen (1979), Terence Koh (1980), Dash Snow (1981), Banks Violette (1973) e Aaron Young (1972). Un quadro fedele e allo stesso tempo inquietante di quello che avviene in questa comunità artistica newyorchese è ritratto dalle migliaia di polaroid che Dash Snow scatta immortalando notti brave di cocaina, violenza e sesso. Spesso esposte come un enorme collage sul muro, questi scatti ricreano l’atmosfera depravata e alla moda che caratterizza il Lower East Side. Chi formula un linguaggio più originale, fatto di sensualità e di effimero è Terence Koh. Le sue sculture e installazioni, spesso rinchiuse in fragili vetrine, sono assemblage di materiali eterogenei come capelli, cera, neon e candelabri, che ricreano diorami seducenti e allo stesso tempo lugubri. Quella che Uncertain States of America e USA Today ritraggono, forse anche in maniera involontaria, è un’arte che guarda alla politica di sbieco, che ha perso la limpidezza di una visione critica per rintanarsi nell’oscurità e nell’indecisione. Alcuni artisti sono riusciti a emergere grazie a un lavoro attuale e complesso. Altri, stanno ancora cercando un posto in un mondo contraddittorio e incerto.

Jules De Balincourt, United We Stood, 2005 - Courtesy: Saatchi Gallery, London - © Jules De Balincourt, 2006

Dash Snow, This was your life (detail), 2005 - Courtesy: Saatchi Gallery, London

Terence Koh, Untitled (Medusa), 2006 - Courtesy: Saatchi Gallery, London

Dan Colen, Secrets and Cymbals, Smoke and Scissors, (My Friend Dash’s Wall in the Future) 2004 - 2006, Courtesy of The Saatchi Gallery, London


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O.C. DOES AMERICA

Scott Klinger - courtesy: the artist

di Luca Martinazzoli Gli sprawl sono praterie mono familiari. Le case sono chiare, intarsiate da giardini verdi e rigogliosi. L’asfalto fa il resto, e si insinua pervasivo in ogni angolo. Continuano per chilometri, senza respiro. Senza un punto di fuga. David Maisel li fotografa dall’alto. Sono topografie alienanti, che disegnano un’urbanizzazione amorfa, puntellata da autostrade e gated community. Puoi farti anche un giro su Google Earth. Scrivi Los Angeles, San Fernando Valley oppure Riverside. Infilati in una freeway e tra le insegne di uno strip mall. Soffermati sui giardini, tra le forme delle piscine e i vialetti pieni di fiori. Scivola dentro spingendo sullo zoom. Cerca spazi di aggregazione. Trovi solo parking lot, o campi da golf. Respiri la pulizia, respiri suburbia. Respiri il vuoto. Oppure ti è bastato vedere OC. Sembra un telefilm, ma è tutto vero.

vedi lo spettro della modernità. L’aeroporto di Irvine è intitolato a John Wayne. Te lo ritrovi bronzeo quando ritiri i bagagli. La presenza di un cowboy non è casuale. La struttura urbana è organizzata intorno a gated community. Pezzi d’immaginario esotico fanno da etichetta a complessi edilizi trincerati dietro un muro. Lottizzazioni che ti vendono la sicurezza come se giocassimo a guardie e ladri. Ma la gente compra. La gente scappa dagli spettri di una città multiculturale e inquinata. “White flight”, la classe

Siamo a Newport beach, Orange County. C’è un’economia che traina la California. Dentro ha la capitale dei surfisti e del punk rock, di quello che si sfoga nei giardini con piscina. Poi ci sono i nervi scoperti, il white trash che degenera in comportamenti autodistruttivi, il consumismo isterico e rateizzato, rivoli di intolleranza razziale e segregazione.

media ha lasciato Los Angeles alle enclave latine e asiatiche per rifugiarsi nei sobborghi. Security in divisa, cancelli inespugnabili e sofisticati sensori di controllo. Le gated community hanno nomi campestri o tropicali e ti promettono “ a bit of paradise”. Dentro c’è la monotonia di un villaggio vacanze. La sicurezza del nulla nascosto dietro la banalità.

A guardala dall’alto OC è una distesa senza fine di villette monofamiliari. Si aggregano in pattern ordinati. A guardala dentro

Gli sprawl sono stati un parto utopico, senza ritorno. Altro che casalinghe disperate. Negli anni sessanta le signore erano felici

di chiudersi in una cucina all inclusive con un giardino fiorito. Si sono accorte tardi che oltre la cucina non ci potevano andare. Si sono accorti tardi che stare in macchina tre ore al giorno per raggiungere un posto di lavoro ti cambia. Probabilmente non si sono ancora resi conto che hanno prosciugato il territorio e il deserto è dietro l’angolo. Bill Owens all’inizio degli anni settanta fotografava il fiorire di queste periferie entusiaste della modernità. Esce nel 1973 con Suburbia, un libro cult. Tutti sorridono illusi che la felicità

Siamo a Newport beach, Orange County. C’è un’economia che traina la California. Dentro ha la capitale dei surfisti e del punk rock, di quello che si sfoga nei giardini con piscina. Poi ci sono i nervi scoperti, il white trash che degenera in comportamenti autodistruttivi, il consumismo isterico e rateizzato, rivoli di intolleranza razziale e segregazione. si ritagli in una villetta mono famigliare piena di elettrodomestici, due marmocchi e un garage coperto. La fluorescenza di una società patriarcale e consumista si trova nei lunghi titoli delle foto. “I’ ve always been sales-oriented. If I can sell myself, I can sell the product. I take pride in my customers and have sold nine cars to one family. Everyone you meet is different.” “I bought the lawn in six-foot rolls. It’s easy to handle. I prepared the ground and my wife and son helped roll out the grass In one day you have a front yard.” “We’re really happy. Our kids are healthy, we eat


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Scott Klinger - courtesy: the artist

Copyright Bill Owens- Courtesy James Cohan Gallery

Scott Klinger - courtesy: the artist

Copyright Bill Owens- Courtesy James Cohan Gallery

Copyright Bill Owens- Courtesy James Cohan Gallery

Scott Klinger - courtesy: the artist


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and we have a really nice home.” Peccato che il sogno è pieno di crepe che lo xanax non riesce a sanare. Blaise Christie ne racconta un pezzo, di quel malessere che stria OC. Lui fa il regista, porno. Lontano dalla Porn Valley. Si annoia in Orange county. Si annoia e gira porno di gente annoiata, disperata. Sembrano Suicide Girl (suicidegirls.com). La pubertà trafitta dai piercing e dagli aghi pieni d’inchiostro. Si fanno roba tagliata male. Sono ritratti di una gioventù autodistuttiva e narcisa. Ti eccita, forse neppure. Le ragazze non sanno recitare. La grammatica dei clip è banale e ripetitiva, la musica è quella di una cassetta di un adolescente di provincia. Ma funziona. Il gesto erotico è una farsa, e tutto il resto cosi vero, cosi tossico e disperato. E’ un vuoto vertiginoso, talmente profondo da risucchiare pezzi di una generazione. Guardatevi i sui trailer online (www.electrofilms.com). Neorealismo d’appartamento, girato con una S-VHS. Lo chiamano alt porn, ma dentro c’è il pulsare di un sentire comune, che va oltre forme di consumo. C’è la miseria e l’isolamento dello sprawl. L’economia che ha spinto la crescita è stata quella aerospaziale e militare. Milioni di dollari per la sicurezza globale, famiglie che pagano le rate con gli stipendi da marines. Bandiere stelle e strisce appese fuori di casa. Pax Americana, come la serie di fotografie di Scott Klinger. Il lavoro sporco lo fanno gli americani. Io scrivo per Mousse. Loro si abbronzano in Iraq. Scott Klinger invece fa il fotografo. I suoi ritratti raccontano la quotidianità della violenza. Non c’è nulla di straordinario nella brutalità che trapela dalle sue immagini. La violenza striscia sottopelle, nei portafogli e sotto il cuscino. E’ il collante che ci tiene tutti per mano. Nei suoi ritratti non c’è retorica, non c’è traccia di ideologia. Lui insegue implacabile il ventre molle della modernità. Klinger è cresciuto in Arizona, tra gli sprawl che si stagliano nel deserto. Per lui gli sprawl sono schermi a troppi pollici e i tuoni dei caccia bombardieri. La sera si sta a casa a bere. La domenica si va a sparare. Non si gioca alla guerra, siamo in guerra. C’è anche la paranoia delle gang. Sono arrivate tra la glassa dell’Orange County. Si sono prese gli sprawl e le misure per la sicurezza aumentano. Quelli che raccolgono più affiliati sono FxTroop. Ti assoldano a scuola, ti danno una stigma e fai il lavoro sporco. Stanno all’avamposto della guerra tra borghesia bianca e la crescente popolazione latina. I latini sono il 30% della popolazione di OC, alla faccia del “white flight”. Poi ci sono le enclave asiatiche e afroamericane. Il tasso di criminalità è cresciuto vertiginosamente spinto dalle frizioni sociali. Gli immigrati illegali si nascondono tra le pieghe della ricchezza. È la prima tappa quando passano il confine. Edilizia e giardinaggio. Oppure fanno manovalanza tra le gang. Le punte si trovano intorno a Santa Ana. La Rockfeller Foundation (2005) dice che è uno dei posti più difficili dove crescere un figlio. Le gang latine girano sulle low rider, classic. Quelle asiatiche invece preferiscono le forme aerodinamiche. Quando fanno i primi soldi si fanno il Lamborghini. Una replica, chiaramente. A Ontario, a est di Los Angeles, c’è un distretto che produce fiberglass. Piccoli laboratori con una decina di operai, in nero. Ti presenti con una Mazda e 5000 dollari. In poche settimane ti ritrovi una replica di una Diablo. Scegli pure il colore.

Copyright Bill Owens- Courtesy James Cohan Gallery

Scott Klinger - courtesy: the artist

C’è del marcio in OC, ma rimane la lente più interessante da cui guardare gli Stati Uniti. Se negli anni novanta il nostro immaginario era segnato dai quartieri di lusso di Los Angeles e i ragazzetti che suonavano il grunge a Seattle, l’Orange County negli ultimi anni si è presa tutto. Le sitcom si girano li. O.C., Laguna Beach: The Real Orange County, Arrested Development, Scrubs, The Real Orange. La musica punk rock si suona li, si produce più punk rock ad Hunnington Beach che in una della tante città che si definiscono capitali culturali. La mediana degli stipendi e tra le più alte del mondo. O.C. DOES AMERICA. Segno di uno sprawl che nonostante tutto produce ricchezza e immaginario. E il modello si esporta. Torna su google. Scrivi Orange County. Finisci in Cina. Stessa storia, stesso progetto per nutrire le stesse aspettative di benessere. Stanno investendo milioni di dollari per ricreare quello che a troppi sembra un paradiso.

Gelatimotel.com

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BURNING BORDERS di Lucia Tozzi

La frontera Messico-USA alimenta da più di un secolo un immaginario fatto di corruzione, violenza, prostituzione, droga, deserto, burritos e spazzatura. Dal Quinlan di Orson Welles fino ai vampiri di Tarantino e Rodriguez e alla cocaina di Traffic, Tijuana e le altre città di confine hanno sempre fatto da sfondo a losche trame di sesso e commerci illegali, incarnando di fatto lo stereotipo della trasgressione più di quanto Parigi non incarni quello dell’amore romantico. Uno stereotipo talmente forte da generare uno stile di vita norteño plasmato a propria immagine e somiglianza: dopo la cultura chicana degli anni Sessanta e Settanta, racconta Sergio González Rodríguez in Ossa nel deserto (Adelphi 2006), è stata la volta della moda e della musica tex-mex, con i suoi stivali, cinte di vipera, ciondoli a punta, e soprattutto i corridos, le popolarissime canzoni che inneggiano ai narcotrafficanti cantate da gruppi come Los Incomparables de Tijuana o Los Tigres del Norte. L’aspetto a suo modo attraente di questo luogo comune consiste nel fatto che rappresenta la frontiera come un limite poroso: è proprio il transito continuo di turisti americani e contrabbandieri, merci e mode a dare senso all’intera area geografica, trasformandola in un territorio brulicante di vita e denaro, seppure della peggior specie. Quello che il mito frontalero rimuove energicamente è che a questa apertura corrisponde un irrigidimento del blocco nei confronti dei migranti sudamericani. A partire dal governo Clinton le politiche statunitensi sulla sicurezza e l’immigrazione hanno puntato sulla militarizzazione e la solidificazione del confine messicano, sulla costruzione di una barriera che riesca a coprire l’intera distanza di 3500 chilometri che separa la costa atlantica da quella del Pacifico. Pezzi di muro metallico o in cemento, filo elettrificato, telecamere, sensori, rilevatori, elicotteri, fari e migliaia di uomini della polizia di frontiera contribuiscono a formare un immenso panopticon, lo strumento più spaventoso di questa vera e propria guerra ai clandestini che ha prodotto all’incirca 6000 morti nell’ultimo decennio. Un oggetto imbarazzante, tanto che il New York Times è arrivato a promuovere, di fronte all’ennesima proposta di ampliamento della barriera giunta in Senato la primavera scorsa, una sorta di concorso di idee tra una dozzina di architetti famosi per «mascherare il brutto problema» del muro creando «gradevolezza dove non può essercene». Le risposte ottenute equivalgono ad altrettante manifestazioni di disagio, dal rifiuto sprezzante dello studio Diller&Scofidio ai paradossali progetti, ambiguamente sospesi tra l’ironico e il ridicolo, di James Corner (un rivestimento di pannelli solari), Eric Owen Moss (un “paseo di luce” visibile dal satellite), Calvin Tsao (la creazione di una striscia di cittadine industriali bipartisan, sempre

illuminate di notte), di Enrique Norten (una fitta rete infrastrutturale – strade invece di barriere, che metafora!) o di Antoine Predock (un muro smaterializzato, simile a un miraggio di rocce sospese). «La metamorfosi del confine dall’inconsistenza alla solidità va nella direzione opposta alle ultime tendenze dell’architettura, che procedono dal solido all’immateriale. L’architettura contemporanea è ancora una volta alla ricerca di dinamiche di leggerezza e libertà, è più interessata alle strategie territoriali che a elaborare oggetti di repressione. Forse questo significa, una volta di più, che i sogni dell’architettura si situano agli antipodi delle realtà sociopolitiche ed economiche in cui esistono». A parlare così è Teddy Cruz, guatemalteco di stanza a San Diego, il cui lavoro verte da anni sull’elaborazione di teorie e soluzioni urbanistiche che reagiscano in maniera colta e produttiva alla situazione frontaliera, contrastando attivamente lo spazio della segregazione. Secondo lui, la barriera rappresenta una denuncia dell’astrattezza e del disimpegno che caratterizzano l’attuale pratica architettonica: «Se l’architettura e l’urbanistica contemporanee non affrontano la dimensione sociopolitica, economica e culturale dei territori di cui si occupano, sono destinate a restare eventi formali isolati». Teddy Cruz però è una figura tutt’altro che isolata: il suo pensiero si sovrappone a una densa attività artistica e intellettuale localizzata su entrambi i fronti del confine, che trova espressione nelle opere diversissime di Marcos Ramírez «Erre» e di Torolab a Tijuana come negli scritti di Mike Davis (sopra ogni altro, naturalmente, I latinos alla conquista degli USA, Feltrinelli 2001), in infiniti romanzi e mostre di autori indigeni e internazionali. All’origine di tanto interesse c’è una ragione fondamentale, vale a dire che la barriera americana può forse rivendicare il primato della dimensione, ma è solo un caso di un fenomeno globale. Se i chicanos rischiano la morte per disidratazione nel deserto americano, i sudamericani saltano sulle mine che lo stesso Messico piazza sul confine meridionale, mentre gli africani affogano copiosi nel Mediterraneo, nel tentativo di penetrare nella “Fortezza Europa”, oppure muoiono sbranati dalle belve dei parchi naturali al confine con il Sudafrica. La retorica della sicurezza sta attuando un processo di criminalizzazione dell’intera popolazione svantaggiata della terra, trasformando ogni singolo migrante in un potenziale terrorista. La traduzione immediata di questa metamorfosi è la separazione materiale dell’universo dei ricchi da quello dei “barbari”, la riproduzione del modello delle gated communities su scala continentale, il trionfo universale di muri, steccati, recinti, cancelli. «Non c’è niente di meglio di un solido steccato per fare due buoni vicini», affermava orgoglioso un senatore repubblicano in una perorazione a favore del muro. Una

metafora alquanto goffa che ha il merito di mettere il nesso tra la cultura apparentemente innocente della villetta americana – di primo acchito lo steccato fa venire in mente Tom Sawyer, o al più Paolino Paperino che litiga con Anacleto Mitraglia – e il rapido tramonto delle idee di accessibilità, di apertura, di universalità dei diritti, di spazio pubblico. Dall’abitare al consumare al viaggiare, l’ideologia dello steccato infonde a chi se ne fa portatore il desiderio di usufruire di spazi anche infimi, ma privati e protetti da qualsiasi contatto con il mondo esterno: il fazzoletto di terra dove arrostire in pace le salamelle, il condominio sorvegliato, il villaggio turistico estraniato rispetto al contesto, l’outlet ermeticamente sigillato dove i bambini possono scorazzare tra le guardie mimetizzate, il tutto collegato da strade a scorrimento veloce e aeroporti. D’altra parte, come dimostrano i casi della barriera di Padova e di Usti nad Labem (la città ceca in cui nel 1999 è stato eretto un muro di separazione da una comunità Rom) ultimamente è diventato accettabile persino costruire piccole barriere urbane per risolvere “emergenze etniche”. «Paradossalmente le città – che originariamente vennero costruite per dare sicurezza a tutti i loro abitanti – ora, sempre più spesso, invece che alla sicurezza vengono associate al pericolo», scrive Zygmunt Bauman in Fiducia e paura nella città (Bruno Mondadori 2005), e aggiunge: «Mettersi al servizio della guerra urbana, in particolare progettando modi per precludere ai nemici – reali, potenziali o presunti – l’accesso allo spazio da loro rivendicato, tenendoli a distanza di sicurezza, costituisce l’interesse maggiore, e destinato a più rapida espansione, dell’innovazione architettonica e dello sviluppo urbano delle città americane». Il che equivale a dire, a conferma di quanto sostenuto da Teddy Cruz, che l’architettura contemporanea si muove su due filoni paralleli, uno “alto”, formale, teso alla ricerca dell’evanescenza e della totale apertura degli spazi, utilizzato in pochissimi casi puramente simbolici, e l’altro legato alla prassi, finalizzato alla realizzazione e alla diffusione di edifici o spazi-bunker sempre più impenetrabili. Solo apparentemente divergenti, questi due piani appartengono alla stessa ideologia dominante, il primo perché colpevolmente evasivo, il secondo per via della sordida accondiscendenza ai suoi valori. «Solo nei territori di conflitto – conclude Cruz – possono emergere pratiche urbane criticamente alternative, violando una volta per tutte la barriera che separa la responsabilità sociale e la sperimentazione artistica». È impossibile oggi per gli architetti essere neutrali. Basta leggere gli scritti di Eyal Weyzman, architetto e studioso delle politiche urbanistiche israeliane dagli insediamenti fino al muro di Sharon, per averne la certezza.


MOUSSE / ARCHITETTURA / PAG. 90

CARLO MOLLINO Arabeschi @ GAM + Castello di Rivoli - Torino fino al 7 / 1 / 2007 Architetto @ Archivio di Stato - Torino fino al 7 / 1 / 2007 di Stefano Bernuzzi Parafrasando Ernst Gombrich, non esiste qualcosa chiamata architettura ma esistono gli architetti. Una tesi quanto mai veritiera nel caso di Carlo Mollino, architetto e designer prima di tutto, ma anche fotografo, sciatore, automobilista, pilota d’aerei... Una personalità dalla forte curiosità intellettuale che rivendicava, anche per la pratica progettuale, i principi sinestetici delle avanguardie, e poneva al centro della sua riflessione l’idea del corpo protagonista dello spazio e nello spazio. Per Mollino tutte le esperienze, le passioni e le forme espressive sono poste su piani in continua relazione e nell’analisi dei suoi progetti non si può prescindere dalle altre attività che svolgeva in parallelo. Laureatosi nel 1931 inizia a fianco del padre ingegnere una quarantennale attività artistica e progettuale, sempre a cavallo tra Modernismo, ispirazioni surrealiste e forti passioni, che ne hanno fortemente condizionato l’andamento e la fortuna. Attivo quasi esclusivamente nell’area torinese e valdostana, Mollino ha realizzato solo una decina di edifici, ma la sua poliedrica produzione lo ha reso un personaggio unico nel panorama culturale italiano del novecento, a tal punto che nel centenario della nascita si sono rese necessarie ben tre mostre per poterne ricostruire la figura (e non tutto è stato ancora detto). Mentre “Carlo Mollino. Architetto” analizza le tappe della sua carriera principale, “Arabeschi” si avvicina ai lati più originali e curiosi del suo essere “artista” a tutto tondo. Nel primo caso la lettura del suo lavoro si svolge in senso cronologico a partire dalla sede della Federazione degli Agricoltori di Cuneo (1933 - 34) fino al Teatro Regio di Torino (1965 - 73) definito “una forma intermedia tra l’uovo e l’ostrica semiaperta”, soffermandosi anche sulle sperimentazioni e i progetti non realizzati, da la “camera da letto per una cascina in risaia” alla “casa in collina”, e soprattutto sui fallimenti degli anni ‘50. In questo decennio muore il padre Eugenio e Mollino deve sopportare la demolizione dell’edificio per la Società Ippica Torinese (progettata nel 1936 - 41) e la bocciatura nel concorso per il Palazzo del Lavoro per Italia ‘61, audace caso di sperimentazione figurativa, tipologica e costruttiva. A causa di questi eventi Mollino per molti anni abbandona l’attività progettuale per dedicarsi quasi esclusivamente alle sue grandi passioni, lo sci, l’automobilismo e l’acrobazia aerea. Su questi aspetti si concentra la mostra “Arabeschi” allestita alla GAM dove sono esposte le sue due creazioni più originali di questo periodo, il “Bisiluro”, un veicolo da corsa con cui parteciperà alla 24 Ore di Le Mans, e un prototipo di macchina da record di velocità. In questa sede viene inoltre messa in luce la ricca produzione di mobili e di arredi d’interni, sebbene Mollino non si legò mai alla grande

industria e alle imprese del design, e la sua attività può essere paragonata a quella di un artigiano d’altri tempi, autore di pezzi unici. Molti suoi arredi realizzati per le case dell’élite culturale o per le aziende sono andati perduti e solo pochi esemplari si sono salvati. Tra questi, gli arredi per la casa di Lisa Ponti, i mobili progettati per la Casa del Sole di Cervinia (un raro esempio di produzione “seriale”, 1947 - 54), scrivanie, tavoli, biblioteche e scrittoi, e soprattutto il tavolo “a vertebre” per Casa Orengo. Il Castello di Rivoli ospita la produzione più “artistica” di Mollino, legata alla sua attività di fotografo, che si pone sia come aspetto documentario e di completamento della sua attività di architetto sia come esperienza artistica del tutto autonoma. Un’attività quasi misteriosa e segreta, poiché queste fotografie non furono mai pubblicate, nè esibite in mostre, nè vendute.

Castello di Rivoli P.zza Mafalda di Savoia - Rivoli (TO) www.castellodirivoli.org Archivio di Stato Piazzetta Mollino - Torino www.palazzobricherasio.it GAM via Magenta 31 - Torino www.gamtorino.it

© archivio Studio Albini

ZERO GRAVITY. Franco Albini @ TRIENNALE DI MILANO fino al 26 / 12 / 2006 di Stefano Bernuzzi Più che una mostra “su” Albini Zero Gravity potrebbe essere una mostra “di” Albini. Renzo Piano nel suo allestimento riprende letterariamente la lezione del suo maestro e gli spazi della Triennale vengono ridisegnati con la stessa leggerezza propria dell’architetto comasco. Un allestimento che non è solo omaggio ma anche metafora dell’esperienza progettuale di Albini: una ragnatela di fili d’acciaio pendenti dal soffitto sostiene pannelli, disegni, fotografie delle opere e testimonianze audiovisive. L’intricato sistema crea piani sovrapposti attraverso i quali lo sguardo dello spettatore spazia davanti a tutti gli aspetti della produzione albiniana di architetture, allestimenti, prodotti di design. La mostra ricostruisce le tappe principali dell’attività di Albini attraverso sette sezioni tematiche non schematicamente isolate ma che suggeriscono le diverse chiavi di lettura del suo lavoro, anche attraverso suggestioni e paragoni con i progetti dei suoi contemporanei, a partire dal celebre allestimento per la “stanza per un uomo” alla VI Triennale del 1936 messa a confronto con le “visioni” molliniane de “la casa di Oberon”. Questa serie di confronti e parallelismi continua per i restanti progetti d’architettura, il rifugio-albergo Pirovano a Cervinia, l’edificio INA a Parma, il quartiere di Cesate, la villa Olivetti vicino a Ivrea, villa Allemandi a punta Ala (Gr) posti accanto alla Triennale di Milano V.le Alemagna 6, Milano www.triennale.it

casa Borsalino ad Alessandria di Gardella e alle case in viale Etiopia a Roma di Ridolfi, e diventano inevitabili quando l’analisi si sposta nell’ambito degli allestimenti museali. Albini nel dopoguerra propone accanto ai BBPR, Gardella e Scarpa una nuova concezione del museo, innovativa e progressista dal punto tecnologico e architettonico, il museo non è più solo un triste contenitore di opere d’arte ma diventa “opere d’arte in sè”, con nuovi approcci culturali e concettuali resi manifesti dai progetti per i tre musei genovesi di Palazzo Bianco, Palazzo Rosso e del Museo del Tesoro di San Lorenzo. Questo stesso spirito innovativo si ritrova anche nell’esperienza come designer, Albini diventa un esploratore delle forme e dei materiali come nel progetto per un radioricevitore in metallo e vetro Securit (1938) in cui l’oggetto viene svincolato dal pesante mobile tradizionale, riducendo il supporto a due semplici lastre di vetro, in cui è sospeso l’apparecchio scoperto, oltre che nella serie di mobili smontabili destinati alla colonie italiane (1937); la poltroncina Luisa (premio “Compasso d’oro” 1955) e una libreria con struttura tensile in legno e cavi d’acciaio (1939-1949). L’essere sospeso e leggero diventa il tratto distintivo della sua pratica progettuale, i piani galleggiano nello spazio e non fa molta differenza che siano i ripiani di una libreria o i gradini delle scale, espositori museali e commerciali oppure balconi e tribune di palazzi e centri sportivi.



MOUSSE / CORMAC MC CARTHY / PAG. 92

di Raul Montanari

La storia personale di Cormac McCarthy è molto diseducativa, perché è di quelle che instillano nelle menti degli aspiranti scrittori l’idea che alla fine la giustizia trionfa, la qualità s’impone, il tempo è galantuomo, il lavoro paga e via dicendo. McCarthy è nato nel 1933, ma solo nel 1992, alla soglia fatale dei sessanta e con cinque romanzi uno più sbalorditivo dell’altro alle spalle (“Il guardiano del frutteto”, 1965; “Il buio fuori”, 1968; “Figlio di dio”, 1973; “Suttree”, 1979; “Meridiano di sangue”, 1985), arrivano per lui la consacrazione critica universale e il successo di pubblico con “Cavalli selvaggi”, che non era migliore dei libri precedenti. Poi sono venuti “Oltre il confine”, “Città della pianura”, “Non è un paese per vecchi” e l’ultimo, “The Road”, non ancora tradotto in italiano. E adesso, guardate cosa dicono di lui... Giudizi critici su Cormac McCarthy. Gli americani hanno l’abitudine di ficcarli dappertutto, nei libri: in copertina, in prima pagina, in quarta di copertina, ecc. Questi ve li riporto dall’edizione tascabile di Blood Meridian, il suo capolavoro nonché primo suo romanzo da me tradotto (gli altri sono stati Il buio fuori, Figlio di dio e Città della pianura). Sono tutti azzeccatissimi e ci fanno capire con chi abbiamo a che fare: “Un classico romanzo americano di rigenerazione attraverso la violenza. McCarthy può essere paragonato solo ai nostri scrittori più grandi, a Melville e Faulkner, e questo è il suo capolavoro”. “Il libro sembra un mix dell’Inferno, dell’Iliade e di Moby Dick... un risultato straordinario, da mozzare il fiato”. “Un western che evoca tanto lo stile di Sam Peckinpah quanto quello di Hieronymus Bosch... McCarthy elabora una retorica neobiblica, una lingua vertiginosa, pulsante, sconvolgente, senza eguali nella letteratura americana contemporanea”. “McCarthy è uno scrittore da leggere, da ammirare e - in tutta onestà - da invidiare”. “McCarthy è un narratore nato, e ogni singola riga della sua scrittura è incisiva quanto la realtà stessa. Egli è fra noi per durare”. “McCarthy è uno scrittore del migliore stile sudista, quello che fonde audace eloquenza, ritmi intricati e spietata precisione”. “Cormac McCarthy è un uomo del Sud, un cantastorie nato, uno scrittore dal dettato naturale e impeccabile, un figlio letterario di Faulkner... capace di porre una giusta dose di comicità nera nel cuore stesso della tragedia”. “La prosa lirica di McCarthy non sacrifica mai l’economia che un narratore deve imporsi, e il suo senso del tragico è pressoché infallibile”.

McCarthy non è stato scoperto dal pubblico e imposto a una critica dormiente: il contrario. Dopo Meridiano di sangue, del 1985, la grandezza di questo scrittore era così evidente che un gruppo di studiosi dedicò al romanzo un libro di commento, Notes On Blood Meridian, trattandolo non come un’opera contemporanea ma come un classico, un testo di Virgilio o di Shakespeare. In Notes è presente perfino un lessico in cui le parole-chiave del romanzo vengono analizzate come si fa con i grandi di ogni epoca (generalmente, però, dopo che sono morti). Era impossibile che McCarthy diventasse un autore popolare senza un appoggio della critica, perché la sua scrittura richiede spalle larghe e uno stomaco a prova d’ulcera, non è di quelle che assicurano un successo spontaneo. Per questo non sono d’accordo con Fernanda Pivano quando dice di lui: “Il cuore americano lo ha premiato per aver riportato la narrazione nelle verdi praterie”. In realtà, se un editore avesse tentato di farlo passare per autore di semplice narrativa western l’imbroglio sarebbe stato smascherato subito, perché del western Cormac assume i paesaggi e l’illegalità diffusa, non certo l’etica johnfordiana e nemmeno i moduli decadenti degli anni ‘70 o quelli stilizzati dei decenni successivi. Il western di McCarthy è come la Los Angeles di Blade Runner o il Vietnam di Apocalypse Now: un inferno darwiniano dove sopravvivere è il fine primario, per uomini e animali. Un iperspazio gremito di violenza cieca e insensata, dove da ogni angolo possono uscire personaggi impensati, in ogni momento crearsi le situazioni più esplosive.

generosità, cortesia che fanno risaltare ancora di più il deserto che le circonda. E se al lettore non importa niente del vecchio West il fascino di questi libri resta intatto, perché senti fin dalla prima pagina che il West è solo un grandioso pretesto per sfogare un pessimismo cosmico, un anarchismo spietato che solo grazie al miracolo della scrittura diventa materia d’arte. A conferma di ciò, la divagazione paranoir del suo penultimo libro, Non è un paese per vecchi, dimostra che Cormac può fare benissimo a meno anche del West. Casomai quello che gli interessa è la frontiera: quella zona fra USA e Messico che è la cerniera fra due culture, due orizzonti.

Nonostante l’importanza che la critica ha avuto perché la sua opera fosse conosciuta e capita, la fortuna del nostro esula da frequentazioni di salotti letterari, redazioni e simili. La sua misantropia è leggendaria e lo accosta per certi versi a un altro sommo profeta visionario della nostra epoca, Stanley Kubrick. Di soli cinque anni più vecchio di lui, Kubrick viveva in una specie di castello alla periferia di Londra, mentre McCarthy se ne sta rintanato in un ranch a El Paso, in Texas, e spara a vista su chiunque si avvicini. Ogni tanto finisce la biada per i cavalli e allora scrive un nuovo romanzo.

Avrete notato che nei giudizi su Cormac ricorre il richiamo all’epica. Si parla della Bibbia, di Omero, di Melville. In effetti l’epica non è altro che una narrazione in cui gli aspetti materiali della vita prevalgono sulla descrizione delle motivazioni psicologiche dei personaggi. McCarthy, come la Bibbia, Omero, i tragici greci, Virgilio, si disinteressa della psicologia dei personaggi. I suoi sono caratteri, tipi umani alle prese con necessità elementari: accendere un fuoco, tamponare una ferita, trovare da mangiare, ammazzare prima di essere ammazzati. Epica vuol dire mito, vuol dire fiaba. Abbassandosi al livello terrigno della materia, del fango e del metallo, McCarthy innalza le proprie storie al livello del mito e della narrazione assoluta.

McCarthy racconta storie di una crudeltà assoluta, ma la sua magia è quella di non suscitare mai il sospetto del compiacimento o dell’inverosimiglianza. Ti convince che il vecchio West doveva essere davvero così, con gli indiani puzzolenti, imbroglioni e sodomizzatori, i messicani più sordidi che nelle avventure di Tex Willer, i negri perlopiù deficienti o talora statuari e sinistri, i giudici crudeli, la vita di tutti alla mercé di qualunque farabutto, facce sfregiate, corpi deformi, assi di legno su cortili fangosi, puttane reperibili solo dal quintale in su oppure consumate dalla tisi, città che sono ammassi di baracche, sole e pioggia ugualmente insopportabili, sentimenti aboliti; rarissime oasi di umanità,

Cos’ha allora di speciale, questa scrittura? Intanto è difficilissima da tradurre. McCarthy ha un lessico sterminato, sembra conoscere il nome di tutte le forme vegetali, minerali e animali, ogni tanto si lancia in descrizioni di oggettistica d’epoca degne di un collezionista impazzito: armi, utensili, bardature, vestiti, bare. Poi alza lo sguardo al cielo e allora giù con costellazioni, fenomeni meteorici, digressioni climatiche, e mi fermo qui. La sua sintassi oscilla tra la frammentazione drammatica dei dialoghi (tutti scritti senza usare le virgolette, uno dei suoi marchi di fabbrica), spesso ridotti a lunge sinuose sequenze di una, due parole per battuta, e le architetture grandiose delle parti descrittive e narrative, tanto più intricate quanto più dinamiche sono le scene. E’ una prosa che accelera e rallenta, si espande e si contrae, pulsa scandita da un ritmo di fondo molto particolare.

In un romanzo di Rex Stout, un tale si presenta a Nero Wolfe e gli dice: “Sono qui perché lei è il più grande investigatore del mondo”. Nero replica: “Per quanto ne sappiamo, può darsi che il più grande investigatore del mondo sia lo stregone di una tribù africana. Diciamo che io sono il più grande fra quelli conosciuti”. Molti oggi dicono che McCarthy è il più grande scrittore vivente. Bene, per quanto ne sappiamo forse il più grande scrittore vivente è un minimalista delle isole Vergini che scrive su cortecce d’albero; però, fra quelli conosciuti...


MOUSSE / CORMAC MC CARTHY / PAG. 93


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