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Mensile • Anno 1 • Numero 00 • Gennaio 2009
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Proprio così, muta ma non tace, che si trovasse o meno nei vostri programmi del giorno. Come si cominci a scrivere un editoriale, non ne abbiamo idea, ma paradossalmente iniziare a scriverne uno è ciò che abbiamo appena fatto, ché spesso le regole esistono solo nelle nostre cervella. Questo non è nemmeno il primo numero di Hzine, ma solo il suo annunciatore. A pensarci bene... quanto sudore per uno zero stampato in copertina, quale miglior rappresentante del fatidico nulla. Ma a pensarci ancora meglio, è davvero poi così orrendo il nulla? Chissà, in questo caro, arrugginito mondo, così pieno e rumoroso, forse non è la peggiore delle cose, l’assenza. Anche la nostra H nella lingua italiana assomiglia tanto a un’assenza. Così incompresa, nel suo mutismo, spesso minimizzata dalla collettività. Ci siamo allora presi la briga di diventare le sue corde vocali per dar voce a tutto quello che finora le è stato impedito di esprimere. Ricorda un po’ lo stato dell’arte, così misco-
nosciuta, così appartata, come se avesse paura di fare la sua conoscenza. Eppure non uccide, non ferisce, non il corpo delle persone e non con armi fatte di metallo e polvere da sparo. Così veramente bella (accanto a lei, “bello” non è mai banale), così varia, così oscena. Fa male solo a chi non si aspetta di essere attaccato, ma è una fitta che fa presto a diventare riflessione. Hzine è appena nato, sgambetta ancora nella culla. Forse riceverà qualche consenso, ma se sarà bastonato dalle critiche il piacere non potrà che essere maggiore, si sarà quanto meno provocata una reazione, si sarà almeno corrugata qualche fronte che stava stiracchiata a prendere il sole. Quello che davvero ci preme è avvicinare all’arte, rendendola una pietanza, sì raffinata, ma accessibile ai più. Ma sia ben chiaro, è prima di tutto per noi che stiamo facendo tutto questo, non siamo apostoli di nessuno, eccetto che di noi stessi.
Lucia Grassiccia, Valentina Redi
Redazione: Valentina Redi direttrice responsabile e responsabile di produzione Lucia Grassiccia direttrice responsabile ed editor capo Fabio Amenta responsabile web Elisa Raciti redattore Marco Agosta redattore Umberto Spampinato coresponsabile di produzione Hanno collaborato: Giuseppe Asaro Rosanna Barbagallo Francesco Bologna Giorgia Di Carlo Gabriele Grillo Ilaria La Magna Simona Marano Max Maugeri Vincenzo Orsini Fabrizio Spucches Grafica di: Bentivegna Federica Giuffrida Fabrizia
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Uguali = Diversi
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Raccattati
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Inkspinster, la promessa… zitella Menomale che c›è JIK
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09 Il nomade, il folk e la tastiera
Recensioni film e libri
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Abbiamo acchiappato un Topolos:
intervista al matte painter della Pixar
il lavoro di Ari Versluis e Ellie Uyttenbroek
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Concorsi
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Il Futurismo non fu una vacanza
ti ta at cc ra Come può uno scoglio arginare il mare? Beh, se può una bottiglia di carta... Contiene con efficacia qualsiasi liquido ed ha pure un tappo innovativo che fa invidia alla comune cugina in plastica. 100% riciclabile per un usa e getta senza pensieri!
360°Paper
Molti lo conoscono come anime, ma il fumetto è meno leggero di quello che vi ha fatto credere MTV! Dei 10 volumi, solo il primo è stato animato; il resto è una critica oscena sulla società giapponese, repressione sessuale, l’inutilità della scuola...e molto altro, riservato ad un pubblico senza tabù!
Golden
Dalla Polonia con furore, latino furore, il regista e video artista Zbig Rybczynski coglie, come dire, la palla al balzo. Nel 1980 un esilarante “Tango” conquista l’Oscar per il miglior corto di animazione. Nel frattempo, da allora ad oggi, qualcuno ha tentato di pronunciare il nome dell’autore.
Tango
boy
The Chirping A 50 anni dalla scomparsa di uno dei punti di riferimento maggiori del rock ‘n’ roll americano ricordiamo Buddy holly, morto in un incidente aereo a soli 22 anni. Lui e la sua band in The Chirping Crickets.
Crickets 05
Amami
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Francese, surreale e magica commedia di Yann Samuell (2003). I giochi proibiti di due bambini, Julien e Sophie, e una scatola porta caramelle per sfidarsi a fare le cose più folli, fino a diventare adulti, fino alla perversione. “Giochi o non giochi?”
hai coraggio
Esibizionismo da social network sì, ma a base di sana cultura. Potrete finalmente mostrare al mondo gli scaffali della vostra libreria, anche se solo virtualmente. Recensirete, troverete utenti con gusti simili ai vostri e potrete persino catalogare nel dettaglio i vostri volumi.
anobii.com In una borsa come questa, tra portafogli e cellulare, non ci si stupirebbe di trovare ruspa e martello pneumatico. Il materiale è quello che sembra, il classico nastro da “lavori in corso”, ma a metterci le mani (e l’estro!) è il designer David Shock.
Urban Bag
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Come non notare i riferimenti ai grandi classici. Il suo aspetto, la sua dolcezza fanno di Wall-e l’E.T. del nuovo millennio (anche se Johnny5, dal film Cortocircuito sembra averlo anticipato). Il grande e rosso obbiettivo di “Auto” sembra il cugino di HAL, l’avvenieristico computer di bordo di 2001: Odissea nello spazio. Solo distratte ispirazioni o veri e propri tributi alla storia della fantascienza? Ci siamo persi qualche altroriferimento?
Io e Adrew Stanton siamo cresciuti con ognuno di questi film. Credo anche che ci siano molti riferimenti da altri film. Siamo tutti amanti dei film di fantascienza, è normale che sia un mix. Jhonny 5... non direi. In molti guardando le sue ruote pensano che Wall-E sia ispirato a lui, ma in realtà non ci siamo rifatti ad altro che ad un binocolo e ad una scatola. Come ho detto prima, siamo tutti influenzati da questi film perché fanno parte della nostra infanzia, credo che ognuno di noi sia condizionato da ciò che ci colpisce da bambini. Ben Burtt, ad esempio, il sound designer di Wall-e, è lo stesso di Star Wars, quindi possiamo dire che c’è anche un po’ di Star Wars in questo film.
Gli splendidi titoli di coda sembrano raccontare una rinascita. Geroglifici egizi, arte greco-romana, impressionismo, Van Gogh e in conclusione la computer art. Sembra che adesso tocchi a voi narrare il nostro tempo.
Jim Capobianco, che si era occupato in passato dei titoli di coda di Ratatouille, ha fatto uno splendido lavoro. Ho dovuto vedere i titoli di coda due volte per capire che si trattasse del futuro, di come l’uomo può sopravvivere. Credo che sia stato un ottimo modo per mettere insieme i problemi dell’umanità, ricordando alle persone la propria storia attraverso l’arte. Sì, mi è piaciuto e penso sia un ottimo lavoro di digital piantino.
Un film come questo dimostra come sia possibile trasmettere un messaggio costruttivo e puro strappando una risata senza alcuna volgarità. Qual è il segreto di questo sognante e raffinato stile Pixar?
Il discorso è che Andrew non voleva creare un film partendo da un messaggio fisso. Questo perché quando siamo cresciuti noi, eravamo tartassati da film pieni di messaggi, per la maggior parte politici. Un esempio è Il pianeta delle scimmie, che principalmente ammonisce l’uomo, avvertendolo che di questo passo si arriverà all’autodistruzione. Andrew aveva bisogno di avere tutti gli uomini fuori dai piedi per poter avere Wall-E da solo sulla terra, e man mano che faceva il film si rendeva sempre più conto di quanto fosse interessante l’idea di questo robottino rimasto solo sulla terra ad accumulare in ordine tutta la spazzatura che gli esseri umani avevano creato e lasciato dietro di sé per non aver riciclato. La terra viene ormai vista come un pianeta- spazzatura. Inoltre Andrew non voleva fare un film per l’ambiente, ma un film che rilassasse gli spettatori. Mandando così un messaggio indiretto verso ogni persona che vedesse il film ad interpretazione aperta. Ad esempio un mio amico mi ha detto che lui ha interpretato il film come un messaggio rivolto ai genitori, di non lasciare i figli pulire il giardino da soli.
Come riuscite a sembrare sempre così divertiti lì negli studios?
Credo che la Pixar sia il miglior studio in cui lavorare. Hanno a cuore gli impiegati, le storie sono interessanti, è perfetto insomma. Anche noi abbiamo le nostre giornate no, ma è molto incoraggiante lavorare su film che piacciono al pubblico, piacciono ai bambini, ai genitori, perfino a me.
Qual è il personaggio sul quale è stato più divertente lavorare fino a questo momento?
Il mio ruolo riguardava principalmente gli scenari, ma amo Wall-E per la sua semplicità. Sembra quasi che non si renda conto di essere solo fin quando non s’innamora di Eve.
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«La felicità è un cucciolo caldo». E chi l’avrebbe mai detto che un aforisma sì commovente, partorito dalla genialità indiscussa di un Charles M. Schulz, potesse essere dissacrato dalla fantasia traboccante di una ribelle della Nona Arte... Inkspinster: battuta mordace, alquanto logorroica ma non di quel tanto cianciare di cui sono pieni molti sottoprodotti in ambito fumettistico. La mocciosa ha sempre da dire la cosa giusta al momento giusto, con occhietti che guardano il mondo con un pizzico di cinismo e la gratuità di una bambina. Tante cose l’accomunano ad una piccola della sua età: l’amore per i cuccioli, ai quali non risparmia però torture di ogni sorta; l’affetto per un ragazzino, che rifiuta i suoi reiterati corteggiamenti. Sembra una cuginetta italiana di Mercoledì o una sorella del depresso Vincent di Burton. Che cosa significherà mai quel nome così cacofonico che Deco (Elisabetta Decontardi) le ha appioppato? La sua traduzione è
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zitella d’inchiostro, scarabocchio che si aggira per le vignette a sciorinare anche la sua sguaiatezza, un formato 4x2 che lascia sorpresi per la sua originalità e il suo ordine. Nulla è casuale, ogni dettaglio è minuziosamente curato, in uno stile ottocentesco con un gusto nel riempire di fitti ghirigori, di terminazioni ovoidali i tratti. Pennino ed inchiostro, una scelta che consente l’estemporaneità e la velocità d’esecuzione. Le ispirazioni si rintracciano in superficie: Tim Burton, Roman Dirge, sono evidenti. Che dire di più? Lasciatevi invitare a sbirciare le elucubrazioni di una bambina linguacciuta. Ilaria La Magna
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Se con il solo battito delle ciglia potessimo registrare ogni nostra esperienza visiva non dovremmo preoccuparci di cellulari scarichi, fotocamere smarrite o videocamere ingombranti... beh, proprio nell’era in cui possediamo i più svariati mezzi per immortalare i nostri momenti, non siamo ancora arrivati a tanto. Non parleremo quindi di sofisticati microchip da impiantare nel nostro nervo ottico, capaci di trasformare gli impulsi elettrici in byte da custodire gelosamente in memorie fisiche incorporate in appendici fisiologiche, ma di un oggetto che memorizza la nostra esperienza sensoriale quotidiana fornendocene una traccia multimediale. Un guanto multiuso, da non sfruttare in caso di urgenze casalinghe (piatti sporchi inclusi), ma da indossare quando quell’insensata voglia di tecnologia ci prendedal profondo. Proprio quando ci va di
premere il tasto rec della nostra vita, che sia co- sparsa di moti, suoni, visioni o stati febbrili, poco importa, il guanto è in grado di rilevare movimenti, catturare rumori ed immagini (girando perfino dei video), misurare gradi centigradi. Selezionando l’impostazione “Auto mode” è il dispositivo a scegliere cosa e come registrare, mentre in “Manual mode” la decisione spetta solo alla posizione delle nostre dita. Tramite connessione WiFi è poi possibile scaricare i dati nel computer, e col software li si può raccogliere ed organizzare in vari modi creando un variegatissimo diario personale da poter condividere in rete, partecipando così ad un processo creativo che sfrutta una nuova forma di comunicazione. è solo un progetto di tesi, a completamento di un percorso formativo all’ISIA di Roma, che segue la filosofia di Achille Castiglioni secondo cui “non si progettano prodotti bensì com- portamenti” o un prototipo che presto vedremo concretizzarsi nel mercato tecnologico? Valeria Fuso è la neo-designer in questione, che ha scelto di offrire una prospettiva differente da cui guardare il mondo. Simona Matina
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Visto che in pochi, infine e al solito, conservano quel po’ di curiosità che serve a chiedersi perché. Oltre a lasciarci un’effigie per le attuali monete da venti centesimi, qualcosa devono aver fatto, questi futuristi, se nel 2009 hanno smosso tanto gli animi degli appassionati d’arte. Giusto per cominciare non era il solo pubblico a cui urlavano la loro rivolta. Perché il Futurismo intendeva travolgere, secondo i suoi principi, molte sfere del pensiero umano. Dunque non solo pittura, scultura, architettura, ma anche letteratura, teatro, musica, cinema, politica, perfino il lessico, in qualche caso. Se oggi gira voce sulla xenofobia o su un vago nazionalismo italiani, facciano riflettere il quisibeve, il pranzoalsole, il peralzarsi, il traidue, sostituiti ai meglio noti bar, pic-nic,
dessert, sandwich, per portare qualche esempio che oggi procura sorrisi. Ma forse il legame più profondo fra il 1909 e l’anno che stiamo vivendo è individuabile in un valore in particolare: la velocità. Questo mito, perché tale si può considerare, è per i nostri tempi un elemento imprescindibile. Non si parla d’altro che di velocità: collegamenti ADSL veloci, treni ad alta velocità, auto che scambiano le strade per piste da F1... e sbrighiamoci, in ogni occasione, o non riusciremo mai a portare a termine i nostri compiti. Il mondo non è mai stato tanto veloce quanto lo è adesso, e quanto ancora spera di diventare, ma non accenna a premere sul freno.Super. È diventato un punto verso il quale propendere, super tutto. Non ce ne abbiano Nietzsche, Dostoevskij e D’Annunzio, che a lungo hanno dibattuto sull’esistenza del libero arbitrio e sui valori dell’individualismo, ma di superuomini oggi ce ne sbattono in faccia uno al minuto.
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I luoghi privilegiati: la poltrona del cinema e quella di casa, dove comodamente divoriamo i comics. Basta ricordare, e doverosamente, i più celebri supereroi in calzamaglia, come quelli editi dall’americana DC, Superman e Batman. Queste fanzine, tutt’ora in commercio, sono tra le più vendute nel mondo. Al battesimo di Superman nessuno si è spremuto le meningi per trovare un nome che designi altro dall’essere, appunto, una creatura dalle sembianze umane dotata di sensi che oltrepassano i limiti della natura. Super forza, super velocità.
SUPER 15
FUTUR È in fondo ciò che galleggia nelle speranze dell’uomo odierno, pronto a biasimare ogni suo limite. Da questi fumetti sono stati prodotti numerosi film, alcuni dei quali molto recenti. Talvolta queste pellicole prendono spunto anche da altre appartenenti al passato. Qualcuno ricorda il nome della città in cui Clark Kant barra Superman vive e opera? Metropolis. Mica bazzecole. Da essa non si diversifica troppo Gotham City, città del cugino Batman. Ora, potrebbe essere un caso, ma Metropolis (oltre a intitolare un quadro di George Grosz del 1916) è anche il titolo di uno dei più grandi film muti mai girati, per mano di un certo Fritz Lang, fra i capostipiti dell’Espressionismo tedesco. E a vederlo sembra un concentrato di tutti gli ideali futuristi in movimento: macchine, industrie, guerra, architetture e ambientazioni più o meno futuribili. Anche se quello di Lang poteva sembrare un monito lanciato ai posteri sui rischi di un cieco amore per la meccanizzazione, monito che a
quanto pare in pochi hanno raccolto. I Queen, però, ne hanno raccolto qualche fotogramma, usato nel montaggio del videoclip di Radio ga ga, se qualcuno desiderasse un antipasto del film. Restando in ambito più tradizionalmente artistico, sebbene parlando di Futurismo sia indelicato, se non pericoloso, accostare il termine “tradizione” a quello di “arte”, certo nel contemporaneo i riferimenti a questa corrente si inseguono. Lo sguardo potrebbe facilmente cadere su ciò che succedeva negli anni Cinquanta e Sessanta, quando al diffondersi della Pop Art corrispondeva la nascita e la maturazione di movimenti altrettanto validi come il Minimalismo, l’Optical Art, Fluxus. Nell’organizzazione di quest’ultimo, l’architetto lettone George Maciunas contemplò parecchio il concetto di indeterminazione, di caso, esattamente come John Cage, maestro musicista che ispirò il gruppo. E fino ad allora la sola avanguardia (che, oltretutto, fu anche la prima del Novecento) che
in ciò li aveva anticipati era stata proprio il Futurismo. Fluxus ne ereditò anche la multimedialità, lo straripamento di ogni forma d’arte in tutte le altre. E bisognerebbe chiudere gli occhi e tapparsi le orecchie per non trovare alcuna connessione fra l’intonarumori di Russolo e le performance di Phil Corner, che si esibisce demolendo un pianoforte, in cui il solo suono a essere percepito è quello prodotto dal martello e dalle seghe. C’è poi l’Arte Cinetica, o Optical, che nutrendo forte interesse per i meccanismi
ISMO scientifici da cui scaturisce il movimento, la dinamicità, ha fatto tesoro degli studi portati a termine dai futuristi, altrettanto attenti al modificarsi dei volumi nello spazio. La freddezza della pittura si fa più estrema, il sentimento e l’emozione scompaiono per lasciare spazio solo a un gesto pittorico meccanico. Forse è proprio questa stessa freddezza, la tentazione di identificarsi con la moderna città industriale e l’analisi del dialogo delle opere con lo spazio che condiziona il modo di fare arte all’epoca del Minimalismo, che dagli anni Sessanta a tutt’oggi è una delle correnti dominanti, con le sue gigantesche, basilari e asettiche forme geometriche. Proprio il sostegno per la modernità, forse, ha preso per mano i futuristi e li ha condotti a impegnarsi anche nella comunicazione grafica e pubblicitaria. Questa richiede tutto ciò che essi propugnavano: velocità, sintesi, esibizione, oltre che una reazione da parte dello spettatore.
Come dimenticare i manifesti creati da Depero per Campari, Strega, Saccardo? Potremmo dire che fu il primo artista che osò parificare il livello tra un quadro e un manifesto pubblicitario, il primo a riconoscere negli industriali i nuovi committenti delle opere, sostituti di signori ed ecclesiastici. Insomma uno dei motivi per cui il Futurismo è ancora così sentito è la sua attualità paradossalmente costante, l’averci infilato due dita nelle orbite e aperto meglio gli occhi per farci smettere di guardare solo dietro le nostre nuche, quando il presente è altrettanto critico e ben più famelico. Lucia Grassiccia
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il folk a r e i t s a t e la
di Elisa
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Beirut. Progetto solista del precoce e poliedrico ventitreenne messicano Zach Condon. Che il ragazzo abbia viaggiato è ciò che più emerge dai suoi lavori. A 17 anni molla la scuola per l’Europa e la attraversa in lungo e largo. Per capire dove si sia fermato basta ascoltare i suoi pezzi, è lì che imprime i suoi vagabondaggi. Nei Balcani con “Gulag Orkestar”, a Parigi con “The Flying Club Cup”. Il collettivo Beirut ha pubblicato due Ep che vanno acquistati insieme. Il primo: “The March Of The Zapotec”. Condon è approdato in Messico. E’ supportato dalla Jimenez Band, banda funeraria parrocchiale. Le sei tracce sono caratterizzate da strumenti a fiato sospiranti che compongono tristi ballate. Un coro di suoni che vibrano insieme in un’impressione di folklore familiare e allo stesso tempo maestoso. La tipica atmosfera colorata che nasconde una profonda inquietudine, un’ironica tristezza.
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n o d n o C h c a Z Il secondo Ep: “holland”. La tastiera prende il sopravvento, la musica pulsa in dolci beat, la voce si trascina melodiosamente. Forse la somma delle parti risulta stucchevole. Certo è però che il cambio di prospettiva si dimostra spiazzante e sorge un confronto con il primo Ep.
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Si spera, dunque, in una nuova ricerca di folklore musicale che rinnovi lo stile dei Beirut, ma che non lo neghi; in una nuova cartolina firmata... Beirut.
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1975 Gran Bretagna Drammatico Stanley Kubric
Persona 1966 Svezia Drammatico Ingmar Bergman
Pi Greco 1998 Stati Uniti Thriller Darren Aronofsky
Fahrenheit 451 1966 Gran Bretagna Fantascienza Francois, Truffaut
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RECENSIONI
Barry Lyndon
Ci sono registi e Registi come ci sono film e Film. Kubrick è uno dei registi con tutte le lettere maiuscole, nonché fotografo e sceneggiatore; un maestro che ha lasciato una produzione di bellezza e importanza indubbia, sebbene concisa (13 film più qualche documentario). Di tutti i suoi film però ce n’è uno che è rimasto sempre in penombra, su cui si sono sentiti aneddoti divertenti ma che pochi cinofili hanno visto: Barry Lyndon (1975). Tratto dal romanzo di w. M. Thackeray, vincitore di 4 premi oscar, è puro cinema. Per realizzare questo film, tra lo storico e il drammatico con tratti ironici, si è servito di tutta la sua conoscienza in fatto di cinema. Le riprese sono avvenute esclusivamente con la luce naturale, o comunque di candele o elementi scenici, e ciò implicò la sperimentazione di particolari lenti Zeiss progettate per la NASA e di nuove macchine da presa della Panavision. Forse non esiste una scena al chiaro di luna bella come quella presente in questo film. Da vedere. Talvolta apprezzato per i pregi tecnici (notevole la fotografia di Sven Nykvist) e per la profondità delle tematiche, talaltra accusato di caos narrativo e di un inutile intellettualismo, Persona (1966) resta una delle pellicole più intriganti di Ingmar Bergman e probabilmente la più sperimentale. Il prologo del film non può che confermare quanto appena detto: sei minuti di fotogrammi semisilenziosi e inquietanti (era presente in origine anche l’immagine di un pene in erezione, naturalmente censurata). Un’attrice teatrale durante una rappresentazione si chiude improvvisamente in un mutismo che non dipende da un blocco psichico ma solo dalla sua volontà. Le viene affidata un’infermiera, dalla personalità più fragile, che per compensare al silenzio di Elisabeth finisce per raccontarsi completamente. Sebbene molto diverse, tra le due nasce un legame profondo e complesso che le porta a una quasi identificazione. Straordinaria l’interpretazione di Andersson e Liv Ullmann.
Un brillante matematico, fermamente convinto che tutta la natura possa essere ricondotta ad un modello logico, cerca uno schema capace di prevedere gli esiti della borsa con rigore scientifico. Le sue ricerche sono però interrotte da incontrollabili emicranie che lo perseguitano dall’età di sei anni, finché un giorno il suo supercomputer va in tilt dopo aver stampato una sequenza casuale. La risposta che Max cerca da una vita è lì, minacciata da una multinazionale e da un gruppo di Ebrei studiosi della Cabala. È questa la trama di Pi Greco, film di Darren Aronofsky del ‘98 girato in un bianco e nero fortemente contrastato, a simboleggiare il leitmotiv del film, il contrasto fra ordine e caos. Colpisce l’attenzione ai particolari: il gioco del go con le sue partite imprevedibili, le allucinazioni di Max durante i suoi mal di testa, i primi piani sconvolgenti e un finale problematico e aperto fanno di questa pellicola un capolavoro del cinema indipendente, sicuramente da vedere. “Li riduciamo in cenere e poi bruciamo la cenere!”. È il motto del corpo dei pompieri di Fahrenheit 451, film girato da François Truffaut nel 1966 e tratto dal romanzo omonimo (Gli anni della Fenice il titolo italiano) di Ray Bradbury. Non una pellicola eccellente, ma un sicuro omaggio dell’autore nei confronti della letteratura, della prosa specialmente, sua predilezione. Nella visione futura di una società sotto costante controllo, in cui le casalinghe anelano e hanno un ruolo nella commedia della Grande Famiglia e ciò che sembra un quotidiano è in realtà solo una serie di immagini, la memoria abbandona le menti umane. “Basta tenerli occupati, è questo l’importante” recita il primo fra i pompieri, i quali piuttosto che di idranti sono armati di lanciafiamme. Le parole stampate, unico mezzo per trasmettere la conoscenza umana, finiscono per ac- cartocciarsi lentamente, per sparire dal mondo. Montag, resosi conto di tutto ciò, cerca una soluzione, che troverà nei pazienti uomini-libro.
“Teresa e Lorenzo sono due esseri bestiali e null’altro. In questi due bruti ho voluto seguire, a passo a passo, il sordo travaglio delle passioni, gli impulsi dell’istinto ...”. Il racconto di come l’animo forzatamente addormentato dell’una esplode in tutta la sua selvaggia brutalità alla vista dell’altro. Le estreme conseguenze delle azioni che si rivolgono loro contro, trasformando un tentativo di egoista ricerca della felicità in desiderio di annullamento. “In Teresa Raquin ho voluto studiare indoli, non caratteri.”. Così scrisse Emile Zola nella prefazione alla seconda edizione del romanzo, difendendosi nei confronti della critica del suo tempo, che considerò l’opera orrida, scandalosa e di scarsa qualità. Visto sotto questa luce è più facile apprezzare Teresa Raquin, che non venne più considerata “pozza di fango e di sangue” ma “ammirevole autopsia del rimorso”(De Gouncourt). Da qui in poi Zola verrà ritenuto lo scrittore che analizzò i corpi vivi come “i chirurghi fanno con i cadaveri”. Con il successo di Twilight si è re-innescato il fenomeno del vampirismo: librerie, cineteche, pagine web... tutto invaso dai vampiri! Non c’è dubbio che questo, ancora oggi brulicante, germinatoio ha dato vita a tante “opere” di dubbio gusto, che malgrado tutto ne alimentano il mercato: forse ricche di fantasia ma non di spessore. La faccenda più strana è che una delle prime opere (seconda solo a Carmilla di Le Fanu), e senz’altro più interessante, è stata eclissata: Dracula di Bram Stoker. Libro scritto in maniera quasi scientifica, ricco di descrizioni storiche e geografiche, avvincente malgrado sia passato più di un secolo dalla sua stesura. Anche Coppola ne apprezzò il valore, realizzando la trasposizione cinematografica nel ‘92. Un classico da gustare, spesso punto di riferimento per i lavori vampireschi, fino ai più recenti. Capita talvolta, però, che i padri siano migliori dei figli.
Lo spazio non è mai sembrato così immenso visto da queste pagine. La saga della Fondazione appartiene al padre di tutte le fantascienze, Isaac Asimov, ma paradossalmente non soddisferà il vostro immaginario e le vostre aspettati- ve, le aggirerà e vi mostrerà la galassia giudicandovi come l’infinitesimale cellula di un organismo immenso. Un lungo viaggio, tutt’altro che “allucinante”, anzi lucido e freddo, che durerà più di mezzo millennio alla ricerca del senso del brulicare umano. Nonostante Fondazione e Terra sia un libro che “si regge benissimo da solo” dare una sbirciatina ai quattro volumi che lo precedono non sarebbe di cattivo gusto. In questo modo i cinque romanzi si assicureranno certamente uno degli scaffali migliori della vostra libreria e segneranno la vostra visione delle cose vita natural durante. Sorprendente! Forse basterebbe questo aggettivo a descrivere quest’opera. Al di là del titolo, molto romantico ed evocativo, sta infatti un romanzo rivoluzionario, unico nel suo genere, che stravolge il concetto classico di libro: protagonista è il lettore, tema principale il piacere di leggere (e scrivere) libri. Esatto, non avete letto male. Il protagonista è proprio il lettore, che comincia a leggere dieci romanzi ma, per una serie di “incidenti”, non riesce a completarne uno. Quasi non sembra più Calvino, ma realmente dieci mani differenti come differenti sono i temi narrati, che cambiano genere ad una velocità quasi disarmante; unico filo conduttore sono il lettore e una storia d’amore che emerge tra le burrascose vicende. Con chi?! Ma ovviamente con la lettrice! Il risultato è un’opera moderna che coinvolge in prima persona il fruitore: in quello che l’arte contemporanea cerca ormai di fare da tempo, Calvino è riuscito egregiamente!
Teresa Raquin Emile Zola Einaudi Romanzo (drammatico)
Dracula Bram Stocker Newton Compton Romanzo (gotico)
Fondazione e terra Isaac Asimov Mondadori Fantascienza
Se una notte d'inverno un viaggiatore Italo Calvino Einaudi Romanzo
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Progetto a cura di: Bentivegna Federica e Giuffrida Fabrizia