DOMENICA 13 NOVEMBRE 2011
26 LA LETTURA CORRIERE DELLA SERA
Caratteri Le classifiche dei libri
Trionfo globale (dagli Stati Uniti alla Francia) per la vita di Jobs In Italia vince Fabio Volo, ma nel formato digitale comanda Faletti La pagella
di Antonio D’Orrico
Stephen King 22-11-1963 Sperling & Kupfer
Top 10
ebook di Alessia Rastelli
voto
10 1
King «divorzia» e torna il Re
(1)
D
(2)
a tempo Stephen King non era più lui. I fan non lo avrebbero ammesso nemmeno sotto tortura (se no che fan sarebbero?), ma i suoi libri non erano più belli come una volta. Secondo alcuni, la crisi dello scrittore risaliva al 1999 quando fu investito, durante la quotidiana passeggiata della salute, da un furgoncino guidato da uno schizzato. L’incidente fu interpretato dallo scrittore come un avvertimento del destino e gli ingenerò grande inquietudine. Secondo me, la crisi preesisteva. Sui motivi c’era solo da sbizzarrirsi. C’è chi diceva: «Troppi soldi, troppo successo». Vale a dire (secondo l’abbastanza spregevole motto di Steve Jobs) che King non aveva più fame. Altri sostenevano che non aveva più sete (nel senso che aveva smesso di bere e gli si era prosciugata l’ispirazione). Personalmente, propendevo per la pista coniugale. La moglie di King, Tabitha, ha sempre preteso di essere scrittrice anche lei. In nome delle pari opportunità e delle quote rosa letterarie, Lo scrittore deve avere talmente stressato il povero Stephen King Stephen da fargli venire un paralizzante senso di colpa in merito al portentoso talento di cui madre natura lo ha dotato. Insomma, sembravano ormai al game over. E, invece, no. Qualsiasi cosa sia accaduta in questi anni di crisi ha smesso di accadere nel momento in cui King, ripescando un’idea di quando era sconosciuto, ha scritto 22-11-1963, il giorno in cui Lee Oswald uccise John Fitzgerald Kennedy a Dallas, la data spartiacque dopo la quale l’America non è più stata la stessa. King immagina che un tranquillo professore di letteratura scopra, per caso, la possibilità di viaggiare nel tempo e decida di impedire l’attentato. Sarà l’inizio di un incubo. Quello che lo aspetta è una ri-creazione del mondo. Dopo tante stupende storie diaboliche, Stephen King ha scritto il più divino dei suoi romanzi. © RIPRODUZIONE RISERVATA
S
100
2 62
S
3 45
40
Federico Rampini Alla mia sinistra. Lettera aperta... Mondadori, e 18
4
(-)
N
5 (4)
5
40
6 N
39
Feltrinelli, e 14
34
Giorgio Faletti Tre atti e due tempi Einaudi, e 12
7 (-)
N
8
Sophie Kinsella Ho il tuo numero
(-)
N
32
Mondadori, e 19,50
27
Alessandro D’Avenia Cose che nessuno sa Mondadori, e 19
24
Marcello Simoni Il mercante di libri maledetti Newton Compton, e 9,90
9 (-)
N
10 (6)
La recensione dei lettori
Andrea Camilleri La setta degli angeli Sellerio, e 14 Alessandro Baricco Mr Gwyn
(-)
5
Ironia e segreti dell’editoria A pochi cent
Walter Isaacson Steve Jobs Mondadori, e 20 Gianrico Carofiglio Il silenzio dell’onda Rizzoli, e 19
(3)
S
Fabio Volo Le prime luci del mattino Mondadori, e 19
Ivanoe Privitera, 29 anni, papirologo Università di Oxford ha letto «Mr Gwyn» di Alessandro Baricco
Il rituale complesso di Baricco, Mr Gwyn
«M
entre camminava per Regent’s Park — lungo un viale che sempre sceglieva, tra i tanti — Jasper Gwyn ebbe d’un tratto la limpida sensazione che quanto faceva ogni giorno per guadagnarsi da vivere non era più adatto a lui». Mr Gwyn, protagonista dell’omonimo romanzo di Alessandro Baricco (Feltrinelli, pagine 158, e 14), è uno scrittore di quarantatré anni che decide di porre fine alla sua carriera. Tuttavia, preda di un senso di vuoto, intraprende l’insolita attività di «scrivere ritratti». Allestisce, cioè, una sorta di atelier in cui, non solo con la scrittura, ma soprattutto con il linguaggio del corpo, con la luce e con la musica, tenta di restituire ai suoi
modelli la conoscenza di se stessi e della realtà che li circonda. Ritrarre è come «riportare a casa» qualcuno, «non siamo personaggi, siamo storie», sostiene il protagonista. Il periodare è breve, i dialoghi essenziali. Di capitolo in capitolo, frasi identiche si ripetono ad ogni ritratto, come a scandirne il complesso rituale. Un effetto che accompagna il lettore fino alle ultime pagine, quando a svelarsi sarà la stessa «storia» dell’enigmatico Mr Gwyn. © RIPRODUZIONE RISERVATA
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Non solo carta. Scesi in campo i grandi editori, con giganti come Apple che aprono le porte ai loro titoli, cresce in Italia il mercato degli ebook. Lo seguiremo proponendo ogni settimana una classifica delle vendite delle singole librerie. Iniziamo da BookRepublic, negozio online di titoli digitali. In vetta, da Faletti a Carofiglio, gli stessi nomi forti della carta. Subito sotto, però, percepiamo che il sistema è nuovo. Al sesto posto, I ferri dell’editore di Sandro Ferri, pamphlet a 79 centesimi sulla pubblicazione digitale. Una sorpresa in apparenza, comprensibile però se si pensa che un lettore di ebook e cliente sul web, possa essere più sensibile a temi tecnologici. Al settimo posto, un’altra singolarità: Perché le donne sposano gli opossum di Rossella Calabrò, ironico saggio a 2,99 euro dell’editore al femminile (e solo digitale) Emma Books. Come per Ferri, a favore ci sono il prezzo basso, una buona promozione sui social network e il sistema di protezione digitale, che nell’ebook della Calabrò è «leggero» (Social Drm, simile a un ex libris), per Ferri è assente. Pur volti a contrastare la pirateria, infatti, i software per controllare i diritti digitali possono finire per rendere la fruizione più macchinosa, scoraggiando l’acquisto. ehibook.corriere.it © RIPRODUZIONE RISERVATA
La classifica Giorgio Faletti 1 100 Tre atti e due tempi Einaudi, e 6,99 ePub con Adobe DRM 2 96 Alessandro Baricco Mr Gwyn Feltrinelli, e 9,99 ePub con Adobe DRM 3 91
Camilla Läckberg Lo scalpellino Marsilio, e 11,99 ePub con Adobe DRM
4 78
Walter Isaacson Steve Jobs Mondadori, e 12,99 ePub con Adobe DRM
5 77 Gianrico Carofiglio Il silenzio dell’onda Rizzoli, e 13,99 ePub con Adobe DRM (31 ottobre-6 novembre)
Narrativa italiana
1
(1) S 100
Fabio Volo Le prime luci del mattino Mondadori, e 19
Si conferma il terzetto di testa: Volo davanti a Carofiglio e Camilleri. Subito dietro entrano tre importanti novità: Baricco con la storia di uno scrittore; Faletti, che «tradisce» Dalai per Einaudi, con un romanzo breve ambientato nel mondo del calcio e D’Avenia che torna a raccontare il mondo degli adolescenti; per lui due titoli tra i primi dieci.
(2) S 45 2 Gianrico Carofiglio Il silenzio dell’onda Rizzoli, e 19
(3) S 40 3 Andrea Camilleri La setta degli angeli Sellerio, e 14
Narrativa straniera
1
(-) N 32
Sophie Kinsella Ho il tuo numero Mondadori, e 19,50
Due new entry ai primi due posti: Sophie Kinsella e Michael Connelly. Per l’autrice di I love shopping una storia di amore, anelli e cellulari; per il giallista un serial killer che firma i delitti con versi di Edgar Allan Poe. La novità di maggior rilievo è, però, l’ingresso del romanzo postumo e incompiuto di David Foster Wallace.
(-) N 19 2 Michael Connelly L’uomo di paglia Piemme, e 19,90
(2)518 3 Paulo Coelho Aleph Bompiani, e 18,50
Saggistica
1
(1) S 62 Walter Isaacson Steve Jobs
(-) N 40 2 Federico Rampini
Mondadori, e 20
Mondadori, e 18
Sul gradino più alto la vita del fondatore di Apple raccontata dal biografo ufficiale Isaacson. Tre novità firmate da giornalisti nei primi dieci: Rampini (sulle idee di sinistra), Vespa (sull’amore) e De Gregorio (sul tabù della morte). In evidenza la storia vera del soldato Danis Avey, oggi 92enne, che nel 1944 chiese di essere internato ad Auschwitz.
Alla mia sinistra
(2)519 3 Vito Mancuso Io e Dio. Una guida dei perplessi Garzanti, e 18,60
Varia
1
(1) S 21
Benedetta Parodi I menù di Benedetta Rizzoli, e 15,90
(2) S 17 2 Pierre Dukan La dieta Dukan Sperling & Kupfer, e 16
Ragazzi
1
(1) S 16
Rick Riordan La battaglia del labirinto Mondadori, e 17
(2) S 7 2 Antoine de Saint-Exupéry Il piccolo principe Bompiani, e 7,90
Stati Uniti 1 Walter Isaacson
2 Nora Roberts
3 David Baldacci
Steve Jobs: a biography
The next always
Zero day
Simon & Schuster, $ 35
Berkley, $ 16
Grand Central Publishing, $ 27,99
DOMENICA 13 NOVEMBRE 2011
CORRIERE DELLA SERA LA LETTURA 27
Legenda
{
(2) posizione precedente
1 in salita 5 in discesa
S R N
stabile rientro novità
100 titolo più venduto (gli altri in proporzione)
Le raccolte di versi che sognano la visibilità Saranno 3 mila e 500, e forse più, i libri di poesia pubblicati entro il 2011. Si parla di titoli «ufficiali», ma è noto che molti altri sfuggano ad ogni rilevazione, perché — come spesso accade —, più che dati alla luce, tanti libri di poesia vengono pubblicati alla
Il numero di Giuliano Vigini
macchia. In ogni caso, gran parte di ciò che si produce ogni anno in questo ambito resta «invisibile» e acquistare ciò che non si vede è un’impresa disperata anche per i più volenterosi. Per il mercato su cui si può contare, dunque, un’offerta di titoli così alta sembra
eccessiva, anche se — almeno a giudicare dalle numerose e interessanti novità annunciate per i prossimi mesi (Bur, Mondadori, Einaudi, Interlinea, Passigli...) —, non pochi editori mostrano fiducia nella possibilità di ottenere buoni risultati.
(Elaborazione a cura di Nielsen Bookscan. Dati relativi alla settimana dal 31-10-2011 al 6-11-2011)
4
(-) N 39
Alessandro Baricco Mr Gwyn
(-) N 27 6 8 (4)524 Alessandro D’Avenia Erri De Luca
(11)111 10 12 (10)59 Alessandro D’Avenia Donato Carrisi
(13)57 (14) S 7 16 14 Michele Murgia Roberto Costantini
(-) N 6 18 Donato Carrisi
Il tribunale delle anime
Tu sei il male
Accabadora
Il suggeritore
Andrea Molesini Non tutti i bastardi sono di Vienna
Longanesi, e 18,60
Marsilio, e 22
Einaudi, e 13
TEA, e 13
Sellerio, e 14
Feltrinelli, e 14
Mondadori, e 19
(-) N 34 5 Giorgio Faletti
(5)524 7 Marcello Simoni
(6)512 9 Sveva Casati
(9)59 11 Stefano Benni
(7)58 13 15 (12)57 Maurizio De Giovanni Elena Ferrante
(8)57 17 Aldo Cazzullo
(19) S 6 19 Fabio Volo
Tre atti e due tempi
Il mercante di libri maledetti Newton Compton, e 9,90
Modignani Un amore di marito Sperling & Kupfer, e 11,90
Bar sport
L’amica geniale
La mia anima è ovunque tu sia
Il tempo che vorrei
Feltrinelli, e 7
Per mano mia. Il Natale del commissario Ricciardi Einaudi, e 18
E/O, e 18
Mondadori, e 17
Mondadori, e 13
Einaudi, e 12
4
(-) N 9 10 David F. Wallace
(15)18 12 Alan Bennett
(-) N 8 14 Philip Roth
(9)57 16 Nicolas Barreau
Il linguaggio segreto dei fiori
Awakened
Il re pallido
Due storie sporche
La mia vita di uomo
Mondadori, e 19
Garzanti, e 18,60
Nord, e 16,50
Einaudi, e 21
Adelphi, e 16
Einaudi, e 20
Gli ingredienti segreti dell’amore Feltrinelli, e 15
5
(11)19 (7) S 10 7 9 Carlos Ruiz Zafón David Nicholls
(10)58 11 Marcela Serrano
(12)58 13 Ken Follett
(8)57 17 (5)57 15 Lisa J. Smith Jeffrey Eugenides
Il principe della nebbia
Un giorno
Dieci donne
La trama del matrimonio
Mondadori, e 19
Neri Pozza, e 18
Feltrinelli, e 18
La caduta dei giganti. The century trilogy Mondadori, e 15
(10)119 (-) N 15 4 6 D. Avey R. Broomby Bruno Vespa
(3)511 8 Giampaolo Pansa
(4)58 10 Andrea Gallo
Auschwitz. Ero il numero 220543 Newton Compton, e 9,90
Questo amore
Poco o niente. Eravamo poveri. Torneremo poveri Rizzoli, e 20
Il Vangelo di un utopista
(5) S 18 5 M. Simoncelli P. Beltramo Diobò che bello!
(1)514
George R.R. Martin I guerrieri del ghiaccio
(3)512
Melissa Hill Un regalo da Tiffany
(4)510 6 8 (6)510 Vanessa Diffenbaugh P. Cast K. Cast
20 (18)56
Bianca come il latte, rossa come il sangue Mondadori, e 13
I pesci non chiudono gli occhi Feltrinelli, e 12
Cose che nessuno sa
18 (17)56
Clara Sánchez Il profumo delle foglie di limone Garzanti, e 18,60
(14)56 20 Irène Némirovsky Il signore delle anime Adelphi, e 18
(19) S 6 19 Camilla Läckberg Lo scalpellino
Mondadori, e 20
Mezzanotte. Il diario del vampiro Newton Compton, e 12,90
(17)17 12 Enzo Bianchi
(13)56 14 Corrado Augias
(-) N 6 16 Pino Aprile
(12)56 18 Antonio Caprarica
Perché avete paura?
I segreti del Vaticano
Terroni
La classe non è acqua
Conor Grennan Sette fiori di senape
Aliberti, e 9,90
Mondadori, e 16
Mondadori, e 13
Piemme, e 13
Sperling & Kupfer, e 19
Piemme, e 9,90
(-) N 14 7 9 (9) S 9 Concita De Gregorio Pino Aprile
(18)17 11 Giovanni Floris
(-) N 7 13 Fabri Fibra
(16)16 15 G. Stella S. Rizzo
(7)56 17 Andrea Gallo
(6)55 19 Michela Marzano
Giù al Sud. Perché i terroni salveranno l’Italia Piemme, e 19,50
Decapitati
Dietrologia. I soldi non finiscono mai
Licenziare i padreterni
Se non ora, adesso
Volevo essere una farfalla
Mondadori, e 16
Così è la vita. Imparare a dirsi addio Einaudi, e 14,50
Rizzoli, e 18
Rizzoli, e 16
Rizzoli, e 9
Chiarelettere, e 14
Mondadori, e 17,50
(-) N 16 3 C. Warwick
(-) N 13 4 Paolo Fox
(3)58 5 Alessandro Siani
(6) S 6 6 Antonella Clerici
(7) S 5 7 Pierre Dukan
8
(-) N 5 9 Rhonda Byrne
(-) N 5 10 Stefano Bartezzaghi
C. Balivo Tutti quanti abbiamo un angelo Rizzoli, e 17
L’oroscopo 2012
Le ricette di casa Clerici Rizzoli, e 9,90
Le ricette della dieta Dukan Sperling & Kupfer, e 16
The secret
Cairo, e 10
Non si direbbe che sei napoletano Mondadori, e 13,90
Macro, e 18,60
Come dire. Galateo della comunicazione Mondadori, e 17
(4)16 3 Geronimo Stilton
(-) N 5 4 Tea Stilton
(-) N 5 5 Luigi Garlando
(-) N 4 6 Claudia Gray
(3)54 7 AA.VV.
(7)54 9 Geronimo Stilton
(6)53 10 M. Hack G. Ranzini
Settimo viaggio nel regno della fantasia Piemme, e 23,50
La regina del sonno
Girone di ritorno
Afterlife
Appuntamento... col mistero!
Piemme, e 18,50
Piemme, e 11
Mondadori, e 17
Il mio primo dizionario. Nuovo MIOT Giunti Junior, e 9,90
Tutto comincia dalle stelle Sperling & Kupfer, e 16
Newton Compton, e 9,90
Mondadori, e 19,50
(-) N 5
Enrico Brignano Sono romano ma non è colpa mia Rizzoli, e 19,90
8
(-) N 4
Cassandra Clare Shadowhunters. Città degli angeli caduti Mondadori, e 17
Piemme, e 15,50
Marsilio, e 19
20 (-) N 5
(Elaborazione a cura del «Corriere della Sera»)
Inghilterra
Francia
Spagna
1
2 Josephine Cox
3 Walter Isaacson
1 Walter Isaacson
2 Camilla Läckberg
3 Stéphane Hessel
1 Patrick Rothfuss
2 3 Arturo Pérez-Reverte Walter Isaacson
Guinness World Records 2012
Midnight
Steve Jobs
Cyanure
Indignez-vous!
Guinness, £ 20
Harper, £ 7,99
Steve Jobs: the esclusive biography Little, Brown, £ 25
JC Lattès, e 25
Actes Sud, e 16,80
Indigène, e 3
El temor de un hombre sabio Plaza & Janes, e 24,90
Las aventuras del capitan Alatriste VII Alfaguara, e 19,50
Steve Jobs. La biografia Debate, e 23,90
28 LA LETTURA CORRIERE DELLA SERA
DOMENICA 13 NOVEMBRE 2011
CORRIERE DELLA SERA LA LETTURA 29
DOMENICA 13 NOVEMBRE 2011
IMMAGINI di Arturo Carlo Quintavalle
RRR
Sempre di più vincono le regole del marketing: nascono così copertine-poster belle ma infedeli
Arte imballata. Il fascino indiscreto del catalogo
L
e copertine dei cataloghi? Imballaggi, carrozzerie dell’arte. Ma sono loro, le copertine, e la loro grafica, il loro formato, a stabilire nuovi modelli, a segnare la distanza fra presente e passato. Chiunque viaggi per mostre oggi sa bene che la tappa al book shop è quasi obbligata e tutti, proprio tutti si fermano a guardare il catalogo. Enormi pile si levano dal suolo e le copertine sono il manifesto, immagini pensate per il consenso del pubblico. Nelle grandi mostre, solo 5 o 10 anni fa, un visitatore su 20 comprava il
Sguardi
volume, adesso forse uno su 50. Troppo poco. Rispetto al passato la funzione delle mostre è cambiata. Le poche, bellissime degli anni 30 e del primo dopoguerra, proponevano novità critiche, avevano cataloghi in ottavo, poche illustrazioni in bianco e nero, schede delle opere e lunghi saggi. Adesso il formato di ogni mostra che si rispetti è in quarto, copertina sempre a colori con immagini che molte volte sono dettagli scelti per avere un rapporto 1:1 col viso di chi guarda; quanto ai testi poco importa, basta l’imballaggio e
il nome, quello che tutti conoscono dai banchi del liceo. Fate attenzione: quasi tutte le copertine hanno impianti grafici analoghi, le distingui solo dal marchio della editrice, così le confondi quindi come i manifesti delle strade. Nei book shop la gente sfoglia le foto a colori dei cataloghi, belle ma quasi sempre infedeli, come diceva Benedetto Croce delle traduzioni. Una consolazione: l'Italia è senza dubbio il polo mondiale della produzione di libri d’arte. © RIPRODUZIONE RISERVATA
Risate al buio di Francesco Cevasco
Arte, fotografia, architettura, design, mercato
{
I soliti idioti, meglio su YouTube Non fatevi, anzi non facciamoci ingannare, noi genitori, dal più brutto film dalla fine del fascismo ad oggi. Guardate invece I soliti idioti tra i 253 episodi di Mtv o su YouTube. È da piangere dal ridere. Oppure dal dolore: in quegli sketch della non-cultura con cui tanta tv e molto cinema (italiani) ci perseguitano, scoprirete lo specchio in cui si riflette il mondo (reale) e vivono i nostri figli. O i figli dei signori della porta accanto.
Robert Hughes, Jean Clair e gli altri: ecco chi preferisce la tradizione all’avanguardia
Gli s-contemporanei di VINCENZO TRIONE
C
ome chiamarli? Indignados, per servirci di un termine molto in uso. Oppure, per riprendere un concetto, declinato negli anni Settanta in chiave sociologica, da Georges Elgozy, «mécontemporaines». Ovvero, «s-contemporanei». Sono critici, ma anche filosofi e scrittori. Hanno sensibilità non sempre contigue. E, tuttavia, sono legati da tante assonanze. La loro utopia: sgombrare i paesaggi dell’arte contemporanea da false credenze e da effimeri miti. Rifiutano un’arte che non è più in grado di inventare mondi possibili, ma ricorre a stratagemmi tesi a suscitare uno stupore immediato, rispetta le regole del mercato, non si fonda su una sapienza tecnica, ostenta indifferenza per il saper fare. Gli s-contemporanei non aderiscono ai fenomeni: si mettono di lato rispetto alle oscillazioni delle mode. Riscoprono il valore dell’irritazione estetica (ed etica). Vogliono iscrivere dentro una cornice colta la sempre più diffusa insofferenza nei confronti di tanti eccessi dell’arte di oggi. A differenza di quanto era accaduto nei secoli scorsi, infatti, nella nostra epoca si è determinata una drammatica scissione tra il gusto del pubblico e l’esperienza delle post-avanguardie. È stato trasgredito il principio di piacere: spesso, siamo portati a considerare «accettabili» opere che non apprezziamo, mentre siamo «costretti» a reputare prive di forza creazioni che ci affascinano. Esempi del «disgusto» attuale: Damien Hirst e Jeff Koons. Modello per una rinascita: Lucian Freud, abile nel coniugare la tradizione storico-artistica con un istinto de-figurativo. Questo involontario movimento non ha ancora stilato un manifesto. Esistono, piuttosto, giudizi, rilievi. E intersezioni segrete. Tra i padri della nouvelle vague, Robert Hughes. Che, da anni, in interventi giornalistici e in pamphlet (La cultura del piagnisteo e Nothing if Not Critical), sta conducendo una battaglia contro la «nuova arte (…) talmente malfatta che solo il contesto — la sua presenza in un museo — suggerisce che (…) abbia intenti estetici». La sfida è: affermare un elitarismo basato sul talento e l’immaginazione. Sottrarsi alla «frenetica voracità» che tende a emarginare personalità impegnate in una ricerca consegnata a «classica reticenza» e a meditativa lentezza. Discernere ciò che ha qualità da ciò che non ne ha: distinguere le «aquile» dai «tacchini». Di questo malessere si è fatto testimone Alain Finkielkraut, il quale, nel 1992, ha dedicato un libro al concetto di s-contemporaneità, soffermandosi, in particolare, su Charles Peguy, uno scrittore rigorosamente moderno e perdutamente antimoderno, attratto dal Nuovo senza mai cancellare le impronte dell’Antico. Sulla scia di Peguy, Finkielkraut, all’inizio del Duemila, ha tenuto un ciclo di lezioni (raccolte in Noi, i moderni, tradotto da Lindau), in cui, muovendo da una confessione di Barthes («D’improvviso, il fatto di non essere moderno mi è diventato indifferente»), ha proposto la distinzione tra chi è «moderno» e chi «sopravvissuto». Il primo sente la storia come un peso, vede nel presente un campo di guerra, vuole liberarsi della memoria, corre veloce. Ferito dalla perdita, invece, il «sopravvissuto» guarda dietro di sé, custodisce la nostalgia per ciò che non c’è più, insegue il passato ma sa di non poterlo più abitare. Ecco chi sono gli s-contemporanei: «sopravvissuti». Che credono ancora in un pensiero forte. Sono voci isolate che gridano nel deserto. Non rivoluzionari, ma ribelli, potremmo dire con Claudio Magris. Amano l’ordine, ma sanno che l’ordine stesso è diventato fragile: perciò, dinanzi a un’inaccettabile violazione di valori sacri, reagiscono con violenza.
I critici che avanzano con lo sguardo al passato. Spaventati dal «mai detto»
Dall’alto: «For the Love of God» di Damien Hirst e «La Pietà» di Jan Fabre esposta a Venezia nel 2011
Si pensi alle analisi disperate di Jean «Baloon dog» Clair (di cui è uscita, da Abscondita, la ri- di Jeff Koons stampa di La responsabilità dell’artista). a Versailles. A Alle interpretazioni visionarie di Paul Viri- destra, dall’alto: lio (L’arte dell’accecamento, edito da Cor- i critici Robert tina). E, soprattutto, alle riflessioni di Hughes, Alain Marc Fumaroli, in Parigi-New York e ritor- Finkielkraut e no (Adelphi). La rabbia, qui, è filtrata da Marc Fumaroli maestria affabulatoria. Siamo di fronte a un felice esempio di saggismo, in cui la soggettività dell’autore — che predilige le divagazioni erudite — si salda con l’indignazione del pamphlettista. Con un andamento non assertivo ma argomentativo, Fumaroli si serve di varie occasioni espositive per ragionare intorno ad alcuni casi critici. Recuperando suggestioni baudelairiane, si mostra severo nei confronti delle opere senz’anima, meccaniche, «warholiane». Parla dell’«atonia» della nostra epoca. Descrive il sistema dell’arte come un circo Barnum, asservito «alla pubblicità e al grande commercio di lusso». Un’entità «promossa e consumata da un ristretto club mondiale», con «artisti inventati» e opere destinate a un successo rapido ma non duraturo. Si tratta di creazioni che si autodistruggeranno come le immagini televisive. Cosa fare, in questo abisso? Non ci resta che turarci il naso quando attraversiamo mostre «oscene», come quelle di Andres Serrano, di Nan Goldin, di Cindy Sherman. Intollerabili, per Fumaroli, anche il monumentalismo disneyano di Koons. Gli animali imbalsamati di Hirst. E i «divertimenti» di Fabre, che sono stati ospitati dentro un tempio laico come il Louvre. Una vergogna, per lo studioso francese. Perché non si possono contaminare i capolavori della Scuola del Nord con le provocazioni di un «plasticatore», che assembla «escrescenze di un surrealismo ricotto». Sequenze di sguardi su un’imminente catastrofe, senza redenzioni possibili. Ma chi sono davvero gli s-contemporanei? Neo-moralisti. Apocalittici del nostro tempo. Forse, inconsapevoli eredi di Pier Paolo Pasolini. Autori di «scritti corsari» talvolta irritanti. I loro sono esercizi di critica, che rivelano passione e astuzia. Requisitorie prive di ironia, caratterizzate da tonalità livide. I mécontemporaines propongono discorsi radicali che poggiano su nitide architetture ideologiche, evitando compromessi e mediazioni. Sorretti dall’angoscia per le aggressioni dello star system contro quel meraviglioso oggetto d’amo-
re che è l’arte, sfidano gli avanguardismi patinati. Eppure, permangono tante miopie. Gli s-contemporanei colgono solo le opacità. In alcuni momenti, rischiano di cadere in un conformismo reazionario. Auspicano riprese, ritorni, restando ingabbiati dentro una nostalgia che paralizza. Leggono il presente con gli occhi rivolti al passato. Tendono a demonizzare i «soliti noti» (Hirst, Koons), celebrando i continuatori della tradizione (Freud). Sembra sfuggire loro la bruciante bellezza del lavoro di chi, non senza difficoltà, prova ancora, come ha scritto Milan Kundera, a «cercare il mai detto». © RIPRODUZIONE RISERVATA
52011
In questo numero: Roger Scruton, Zygmunt Bauman, Richard Sennett Idee circa il mondo in cui vogliamo vivere E articoli di: M. Fumaroli|P. Gilbert|H.B. Gerl-Falkovitz L. Campiglio|T. Verdon|F. Branciaroli L. Scaraffia|G.Vigini|A. Berardinelli A. Giordano|R. Morozzo della Rocca In vendita nelle principali librerie http://rivista.vitaepensiero.it/ – abbonamenti 02 72342310
DOMENICA 13 NOVEMBRE 2011
30 LA LETTURA CORRIERE DELLA SERA
Dispute
Sguardi Le mostre Contaminazioni
di Alessandro Beretta
{
Polanski e quel titolo snob sul Dio del massacro Per i cinefili digiuni di trailer è stata una disputa piuttosto ardua: «Come si pronuncia il titolo dell’ultimo Polanski?». Carnage è tratto dalla pièce Il dio del massacro (Adelphi, pagine 91, e 9) di Yasmina Reza.
Alla Fondazione Ragghianti di Lucca una retrospettiva sui rapporti cromatici nell’opera di Luigi Veronesi
C’è del colore nelle note musicali di SEBASTIANO GRASSO
L
uigi Veronesi (1908-1998) aveva un fascino straordinario che incantava l’interlocutore. Una vita intensa e lunga; e una grandissima curiosità. Questo vecchietto dal cuore di un ragazzo se n’è andato a 90 anni, con un compasso in mano mentre tracciava un cerchio dentro un altro cerchio appoggiato su un quadrato. Ultimo tocco? Una piramide-rettangolo chiara, su fondo nero e grigio. Ed ecco una delle sue Costruzioni in movimento. Musica di Eric Satie. Musica non come sottofondo per creare un’atmosfera che potesse aiutarlo a creare, bensì per trovare una scala musicale che corrispondesse a quella dei colori. È stata questa la grande scoperta, la sua idea geniale. Punto di partenza, «il rapporto altezza fra nota e nota e altezza fra colore e colore». Una ricerca durata settant’anni. «La musica di Bach è tutto un numero», diceva. Così che l’equazione colore-musica diventava uguale a musica-numero. Ecco perché il pittore, fotografo, scenografo, costumista, creatore di marionette Veronesi era anche un musicista («Suoni e colori obbediscono a leggi quasi uguali»). Da qui, scelte razionali. L’emozione? Veniva dopo. Scenografo e creatore di marionette, s’è detto. Per anni il regno di Veronesi è stato il teatro di Gianni e Cosetta Colla. Gli permetteva di verificare in uno «spazio reale», le ricerche fatte contemporaneamente in pittura e fotografia, aveva spiegato a Piero Quaglino. La fotografia gli aveva fatto «capire che la scena non doveva essere dipinta, ma costruita
i L’omaggio La mostra: «Ritmi visivi. Luigi Veronesi nell’astrattismo europeo» resta aperta fino all’8/1/2012 alla Fondazione Ragghianti di Lucca. Info: tel. 0583 46 72 05 A destra: «Senza titolo» (1975, particolare). Sopra: Veronesi (1908-1998) fotografato nel suo studio a Milano
con la luce che diventava così un vero e proprio elemento plastico». Veronesi si rifaceva a Moholy-Nagy (che, già nel ’21, studiava la relazione luce-movimento e, negli anni Trenta, utilizzava foto, metallo, vetro, materiali vari) e a Vantongerloo, che aveva realizzato la prima opera fondata su schemi geometrici e formule matematiche. Proprio sullo scandaglio del rapporto colori-musica verte la mostra di Lucca Ritmi visivi. Veronesi nell’astrattismo europeo, curata da Bolpagni, Di Brino e Savettieri. Dipinti, collages, disegni e grafiche, oltre a 45 lavori di
«visualizzazioni cromatiche della musica»: Bach (Arte della fuga), Webern (Variazioni), Satie (Seconda sarabanda) e Skrjabin (Vers la flamme). Un’occasione persa, tre anni fa, da Milano — ricorda Caramel in catalogo — per il centenario della nascita dell’artista. Lucca espone anche alcune opere di Kandinsky, Klee, Moholy-Nagy, Vantongerloo, Albers, Léger, Lissitsky: punti di riferimento di Veronesi, anche se con differenze che coinvolgevano musicisti come Schönberg e Skrjabin. Lo stesso Kandinsky non superò mai una certa idea di arbitrarietà nella correlazio-
Titolo francese: Le Dieu du carnage, ma il film in originale è God of Carnage. Dovrebbe pronunciarsi all’inglese, dunque, ma è così snob dirlo alla francese. Nel dubbio, intanto, il libro è arrivato alla terza edizione.
ne suono-colore quando, nel 1912, pubblicò Il suono giallo. Pensavano che fosse una questione di intuito e di emozioni? Veronesi, invece, cercava le basi scientifiche. Presentati anche sette film (1940-1985) che l’artista milanese riteneva «pittura in movimento»: quello del 1940 venne proiettato allora nella Galleria del Milione del capoluogo lombardo. Un film dipinto a mano che entusiasmò Leonardo Sinisgalli. «Per un anno di seguito, un’ora al giorno — scrisse su Primato l’ingegnere-poeta — Veronesi ha segnato sulla pellicola i suoi punti, i suoi cerchi, le sue linee, senza impazzire. Il film può far pensare al lavoro di un carcerato ingegnoso, alle tavole di geometria (...), ma può far venire in mente anche la musica». Veronesi comincia come figurativo (punti di riferimento: Carrà e Modigliani). E tale rimane sino ai 22 anni. Poi, nel ’30, dopo avere visto Kandinsky e Klee alla Biennale di Venezia, si dà all’astrattismo. L’esperienza parigina — maturata nell’arco di un decennio, anche se brevi periodi alternati — gli fa inventare il fotogramma («Non è una vera fotografia, ma la registrazione della forma, della trasparenza e delle ombre di un oggetto»), che riversa nella pittura. Verso il 1950 comincia la sua ricerca cromatica e sonora, ma non riesce ad andare avanti. Nel ’60, mentre insegna all’università di Venezia, comincia a usare un particolare spettrometro che misurava esattamente la lunghezza d’onda di un colore: il re era un blu di una certa onda; il do, viola; il mi, verde; il fa, giallo; il sol, arancione; il la, rosso; il si, rosso intenso. Veronesi si accorge che la stessa operazione poteva avvenire col suono. E i suoi colori invasero la tastiera di un pianoforte. © RIPRODUZIONE RISERVATA
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DOMENICA 13 NOVEMBRE 2011
CORRIERE DELLA SERA LA LETTURA 31
Tributi
Sguardi Le mostre Paralleli
di Matteo Persivale
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Omaggio a Pauline Kael, il supercritico Usa Dal 1968 al ’91 ha terrorizzato i grandi del cinema sul «New Yorker» (fu paladina di Bertolucci, Altman, e De Palma, avversaria di Kubrick, Allen e Antonioni). Pauline Kael (1919-2001),
il critico americano più influente, nel decennale della morte riceve l’omaggio del salotto buono: una raccolta di recensioni pubblicata dalla Library of America e una biografia di Brian Kellow.
L’artista che ha indagato le tenebre del corpo umano per dipingere il movimento Citando Baudelaire: la materia graziosa e terribile si anima e si abbellisce
Degas, il primo esploratore della danza di JOHN BERGER
C
osa c’è nelle pieghe? Nelle pieghe dei costumi e dei corpi delle ballerine disegnate e dipinte da Degas? A suscitare questo interrogativo è la mostra Degas e la danza: immaginando il movimento (titolo originale Degas and the ballett: picturing the movement), in corso fino all’11 dicembre alla Royal Academy of Arts di Londra. Nel sontuoso catalogo vi è una citazione da Baudelaire: «La danza è la poesia delle braccia e delle gambe, è la materia graziosa e terribile che si anima e si abbellisce attraverso il movimento». Spesso, nelle composizioni di Degas in cui sono raffigurate più danzatrici, i passi, le posture e i gesti delle ballerine hanno la formalità quasi geometrica delle lettere di un qualche alfabeto, mentre i loro corpi e le loro teste, che formano quelle lettere, sono recalcitranti, sinuosi e individuali. «La danza è la poesia delle braccia e delle gambe...». Degas era ossessionato dall’arte della danza classica perché gli diceva qualcosa sulla condizione umana in generale. Non era un ballettomane alla ricerca di un mondo alternativo in cui evadere. La danza gli offriva uno schermo sul quale poteva scoprire, dopo molta ricerca, alcuni segreti umani. L’esposizione londinese rivela efficacemente il parallelismo tra l’opera originalissima di Degas, lo sviluppo della fotografia, l’invenzione della macchina da presa e le nuove scoperte scientifiche (dovute alla fotografia e al cinema) riguardanti le sequenze con cui il corpo umano e quello animale si muovono e agiscono. Il galoppo di un cavallo, il volo di un uccello, eccetera. Senza dubbio Degas era incuriosito da queste innovazioni e se ne servì, ma a mio parere quel che lo ossessionava era più prossimo a ciò che ossessionava Michelangelo o Mantegna. Tutti e tre erano affascinati dall’attitudine umana al martirio. Tutti e tre si domandavano se non fosse proprio quell’inclinazione a definire il genere umano. La qualità umana che Degas ammirava di più era la resistenza. Avviciniamoci. Disegno dopo disegno, pastello dopo pastello, dipinto dopo dipinto, i contorni delle sue figure danzanti diventano, a un certo punto, cupamente insistenti, intricate, brumose. Può succedere attorno a un gomito, un calcagno, un’ascella, al muscolo di un polpaccio, alla collottola. In quel punto l’immagine si fa scura e quella tenebra non ha niente a che vedere con nessuna ragionevole ombra. È in primo luogo frutto del continuo
i A Londra «Degas and the ballett: picturing the movement», Londra, Royal Academy of Arts, fino all’11/12/2011, (Biglietto intero, £ 15.50; www.royalacademy.org.uk; Info: tel. +44 844 20 90 051 Catalogo RA Edition, pp. 278, £ 27.95 (£ 40 con CD) La mostra L’esposizione londinese propone circa 85 pezzi (tra pitture, sculture, disegni e fotografie) con l’intenzione di analizzare in particolare il legame tra l’artista francese (Parigi, 1834-1917) e la danza con le ballerine viste «come puro effetto di movimento e di colore ad esempio negli spogliatoi»
correggere, modificare e di nuovo correggere la disposizione precisa dell’arto, della mano o dell’orecchio in questione da parte dell’artista. La matita o il pennello annota, ritocca, annota un’altra volta con maggior enfasi il contorno che avanza o che arretra di un corpo in perenne movimento, e la velocità è cruciale. Eppure queste «oscurità» fanno pensare anche all’oscurità di pieghe o fenditure; acquistano una funzione espressiva tutta loro. Di cosa si tratta? Avviciniamoci ancora di più. La ballerina classica controlla e muove il suo intero, indivisibile corpo, ma i suoi movimenti più plateali riguardano le braccia e le gambe, alle quali possiamo pensare come a un paio di gambe e un paio di braccia. Due coppie che condividono lo stesso tronco. Nella vita di tutti i giorni le due coppie e il busto vivono e agiscono affiancati, condiscendenti, contigui, uniti da un’energia centripeta. Tuttavia, per contrasto, nella danza classica le coppie sono separate, l’energia del corpo è spesso centrifuga e ogni centimetro quadro di carne diventa tesa da una sorta di solitudine. Le pieghe o fenditure scure di queste immagini esprimono la solitudine avvertita da un segmento di arto o del torso che, quando non è impegnato nel ballo, è abituato alla compagnia, a essere toccato da altre parti del corpo, ma quando danza è costretto a cavarsela da solo. Le oscurità esprimono il dolore di una simile disconnessione e la resistenza necessaria a colmarla con l’immaginazione. Donde la grazia e la crudezza cui Baudelaire si riferiva dicendo «graziosa e terribi-
Alla Beyeler di Basilea
Louise Bourgeois: dialoghi sul trauma di RACHELE FERRARIO
U
na delle ultime opere di Louise Bourgeois è una trama di linee, incise su una sequenza di fogli di carta, che s’intreccia all’infinito. À l’infini è appunto il titolo della mostra alla Fondazione Beyeler di Basilea, che la Bourgeois ha concepito prima di andarsene, a 99 anni, nel maggio del 2010 (fino all’1/1/2012, www.fondationbeyeler.ch). I suoi lavori sono esposti accanto a quelli dei suoi compagni di strada degli anni di Parigi, Léger, «il mio maestro», e Giacometti, «un uomo dal carattere difficile». Le sue sculture dialogano con le tele di Bacon: «Guardare i suoi quadri mi rende viva — diceva la Bourgeois —. La sua opera è uno dei più grandi omaggi alla donna». Oggi il suo gigantesco ragno, Maman, dedicato alla madre tessitrice, è un’icona e lei è un personaggio indiscusso dell’arte contemporanea. Eppure questa donna minuta, di cui Mapplethorpe ha lasciato uno scatto famoso, ha aspettato a lungo prima d’essere riconosciuta. Nel frattempo, lei ha messo in scena il tabù del sesso e della famiglia. E del suo trauma privato ha fatto un racconto universale. © RIPRODUZIONE RISERVATA
le». Adesso osserva- Da sinistra: Edgar te gli studi di danza- Degas, «Le danse trici durante una bre- grecque» (1885-90); ve pausa, in partico- particolare lare quelli che Degas della sequenza realizzò nell’ultimo fotografica di periodo di vita. So- Edward Muybridge, no tra le immagini «Woman Dancing» più paradisiache (1884-86); Edgar che io conosca, ep- Degas, «The Little pure sono tutt’altro Dancer» (1881) che un Giardino dell’Eden. Forse erano la ricompensa immaginata da Degas. In pausa, gli arti delle ballerine si riuniscono. Un braccio riposa lungo tutta l’estensione di una gamba. Una mano ritrova un piede per toccarlo, le dita della prima in perfetta armonia con quelle del secondo. Le loro molteplici solitudini sono per un istante cessate. Un mento riposa su un ginocchio. La contiguità è beatamente ristabilita. Spesso i loro occhi sono semichiusi e i volti paiono distaccati come se rievocassero una trascendenza. La trascendenza che stanno ricordando è ciò a cui mira l’arte della danza: che l’intero, tormentato corpo della ballerina diventi una cosa sola con la musica. Quel che lascia stupefatti è che le immagini di Degas siano riuscite a rendere questa esperienza silenziosamente. Con le pieghe, ma senza suono. (traduzione di Maria Nadotti) © RIPRODUZIONE RISERVATA
Allestimento Rigore scientifico Catalogo
32 LA LETTURA CORRIERE DELLA SERA
DOMENICA 13 NOVEMBRE 2011
Va’ pensiero
Sguardi Disegni
di Armando Torno
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Riscoprire l’egoismo come amore di sé Claude-Adrien Helvétius (1715-1771), studiò dai gesuiti e fu un ricco appaltatore generale delle finanze. Materialista, si convinse che l’egoismo e l’amore di sé sono gli unici moventi delle nostre azioni. Sotto la direzione
di Gerhardt Stenger, comincia la nuova edizione critica delle sue opere presso Honoré Champion con il trattato postumo De l’Homme (pagine 672, e 145). Si potrebbe tradurre anche in Italia. Tutto e finalmente.
Sperimentazioni
Il trucco non c’è. Ma si vede Macchie d’inchiostro, cerchiolini di fumo, linee astratte che sembrano pizzi Ileana Florescu esplora come vediamo al buio. E ci svela la grazia della magia di ALDO BUSI
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alter Benjamin ha posto la questione della transitorietà e serialità delle immagini. Come fa l’arte a contare nell’era della produzione di massa se persino la sua più riposta aura può essere duplicata premendo un tasto, abbassata all’effimero luccichio degli schermi sempre accesi dei nostri computer, dei nostri lettori di ebook, dei nostri cellulari? Qui con le domande non si finirebbe più. Perciò è tanto più confortante che Ileana Florescu a ognuna ribatta con domande di suo pugno: nella radiosa, quieta intensità della sua nuova mostra, i suoi primissimi gesti interrogativi sono esplicitati dall’antico e semplice strumento duale di calamo e pergamena, interconnessi nell’ineffabile, compulsivo bisogno di segnalare con un graffito. Secondo Matisse, «disegnare è circoscrivere una linea attorno a un’idea»: Florescu le linee le mette dentro le idee o subito accanto e, certo, anche tutt’intorno, ma non le chiude nell’improbabile perfezione di un cerchio. Per lei i confini restano aperti, e le certezze decifrabili solo su una tabula rasa. «Disegnare — secondo Florescu —, è un processo di divagazioni, stati d’animo, di oscillazioni nervose, pensieri a ragnatela, incroci che non consentono di tornare indietro per rifarsi, sentieri, nodi, sommovimenti tellurici nel tracciato dei sismografi. È un modo per dare tregua alla mente, proprio come fa il pescatore rammendando le sue reti». Nei suoi numerosi blocchi da disegno, l’artista ha ricamato una dote di pizzi fisiologici non riscontrabili in natura a occhio nudo, ricorrenti astrazioni (astrazioni per modo di dire): increspature d’acqua, tempeste in una secca, macchie d’inchiostro nemmeno fossero test orfici, ar-
RRR
Tiromancino
Kapoor multiculturale Cos’è il multiculturalismo conformista? È questo: l’artista Anish Kapoor realizza un’installazione flop a Venezia (fumo che non sale) e una a Milano (braccio che non gira). Il risultato? Critici che lo celebrano come espressione di «un mondo aperto e multiculturale». E, per lui, nuove commesse. Pierluigi Panza
i La mostra «Ileana Florescu. Lunatiche» si inaugura giovedì 17 novembre alle ore 18.30 alla galleria «Il Ponte Contemporaneo» di Roma (via Giovanni da Castel Bolognese 81, interno 3) e resterà aperta fino al 14/1/2012 (Catalogo Carlo Cambi, Info: tel 06 68 80 1351) Le immagini L’esposizione presenta lavori dell’artista realizzati con diverse tecniche: chine, fotografie digitali, disegni. Sopra: «China Fotogenica V» (particolare); a destra: «Lunatiche»
Chevy Stevens
terie, cerchiolini di fumo, bolle d’aria, calendari raschiati sui muri di prigioni, chicchi di grano, treccine di capelli, scorciatoie di montagna, nodi, per l’appunto, sgorbi, linee di cosmica energia primordiale — «implodere/esplodere — ha scritto Ileana, non a caso —, come i pensieri». Florescu è conosciuta principalmente come fotografa e, per la prima volta, con le Lunatiche accompagna tale espressione, la più riconosciuta della sua opera, all’interno della sofisticata conversazione con la sua attività più privata: il disegno. In alcuni dei suoi lavori, immagini fotografiche differenti sono fuse insieme, come se due fossero un unicum senza soluzione di continuità: immagini differenti sovrapposte, disegni che fanno il paio con fotografie. Nella lingua inglese, lunatic suggerisce l’idea di pazzia, di uno stato patologicamente grave; si pensava che i lunatici andassero letteralmente fuori di testa se colpiti dai raggi della luna, ma in italiano la luna è fisicamente meno aggressiva, più chiacchierina, il lunatico altro non è che uno un po’ instabile di carattere, un innocuo pazzerellone. Le emozioni cambiano a secondo delle fasi della luna, vediamo il mondo sotto un’altra luce se è quella cangiante di un cielo truccato a notte. Sia nei disegni che nelle fotografie, Florescu esplora a piccolo punto co-
RRR Realtà e illusione L’artista rivitalizza il nostro senso di stupore e meraviglia, il nostro bisogno di incertezze sonanti
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SHANE STEVENS
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IO TI TROVERÒ
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«Spietata e inquietante. Una lettura che coinvolge oltre ogni limite».
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me vediamo al buio, come cambiano gli oggetti, compresi quelli delle nostre pulsazioni esposte ai cicli lunari. Qual è il dritto? E il rovescio? Che cosa viene prima? E dopo, da ultimo? Ecco un proliferare di domande man mano che ci spostiamo da un lavoro all’altro: quello lì, per esempio, è un disegno o una fotografia? E là: là c’è una pellicola o un digitale? Mi arrischio: nero un istante fa e adesso... Bianco! E viceversa. E quell’immagine... È nella sua incontaminata illibatezza o una manipolazione della verginità? Va da sé, che domande simili valgano il fiato che costano. Ansel Adams dice che «non si prendono le fotografie, si fanno». Qui non c’è cosa che non sia toccata e fatta, mai semplicemente presa (per non dire scattata), e ogni cosa muta: le onde ormai spente a battigia in rimasugli di alghe, il nero in bianco, il posticcio della trama nella stabilità dell’ordito, e la copia nell’originale. E questi mutamenti, questa questione di alterare i confini, di alterare le etichette date, è la solida base di partenza verso gli iridescenti territori di caccia di Florescu: l’incerta linea di demarcazione tra brughiera e mare, nel velo lunare, dalla sabbia della sua amata Sardegna alle spiagge di scogli del Maine a lei familiari. Florescu rende omaggio alla naturale prestidigitazione della luce costiera, dell’acqua, della sabbia e del vento, impiegando il sapiente inganno alla luce del sole del suo forsennato pennino posseduto dal fuoco, fatuo e fatale, del fare fotografia, con la sua stampa e la sua sottile manipolazione computerizzata. Il trucco che si vede non c’è. Lei assembla tecniche convogliate alla resa dell’immagine rifiutandosi di dare la priorità a una tecnica rispetto a un’altra, a un modus operandi rispetto a un altro, rifiutandoci così anche il modesto conforto di riconoscere, scegliere e valutare un originale contrapponendolo a una riproduzione. Nelle Lunatiche non c’è pittura, non c’è colore, qui tutto è nero e bianco — perché, infine, niente è meno nero e meno bianco del bianco e del nero. Günter Grass ha scritto che «ogni forma d’arte è accusa, rivelazione, passione. È una lotta all’ultimo sangue tra il nerofumo e il foglio bianco». Florescu è l’innamorata senza tempo, mica il lottatore all’ultimo gong e Lunatiche è una celebrazione di tecniche calate, e celate, nell’armonia. Il trucco dell’arte sta nel far apparire la grazia della magia. L’artista rivitalizza il nostro senso di stupore e meraviglia, il nostro bisogno di incertezze sonanti, ripristina l’integrità dell’illusione. I trucchi, il tran-tran del mestiere, il materiale e la sua messa in opera, tutto sfoca mentre ci concentriamo sulla forma e l’equilibrio, la sagoma e l’ombra — e l’imprevista agnizione. Nessuna forma artistica ha la meglio sull’altra, e tanto meno alcun materiale. Anche l’artista può, ogni volta, cogliersi di sorpresa.
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DOMENICA 13 NOVEMBRE 2011
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CORRIERE DELLA SERA LA LETTURA 33
Qual è l’opera che ha cambiato la mia vita? rassegna culturale ideata da Massimiliano Finazzer Flory Lunedì 28 novembre 2011 ore 18.00 Interviene Giorgio Forattini Letture teatrali da “L’idiota” di Fëdor Dostoevskij con Patrizia Zappa Mulas Lunedì 12 dicembre 2011 ore 18.00 Interviene Achille Bonito Oliva Proiezione di sequenze dal film Otello di Orson Welles (1952) Letture teatrali da “Otello” di William Shakespeare con Massimiliano Finazzer Flory Lunedì 16 gennaio 2012 ore 18.00 Interviene Remo Bodei Proiezione di sequenze dal film Pollock di Ed Harris, USA, 2000 Letture teatrali da “La tempesta” di Shakespeare con Giuliana Lojodice Lunedì 13 febbraio 2012 ore 18.00 Interviene Quirino Principe Letture teatrali da “Esercizi di stile” di Raymond Queneau con Massimiliano Finazzer Flory
Lunedì 26 marzo 2012 ore 18.00 Interviene Armando Massarenti Letture teatrali tratte da testi di Jorge Luis Borges con Massimiliano Finazzer Flory Lunedì 16 aprile 2012 ore 18.00 Interviene Massimo Cacciari Letture teatrali tratte da testi di Rainer Maria Rilke con Massimiliano Finazzer Flory Lunedì 14 maggio 2012 ore 18.00 Interviene Ernesto Galli della Loggia Proiezione di sequenze dal film C’era una volta in America di Sergio Leone, Italia/Usa, 1984 Letture teatrali da “Cassandra da Euripide a Christa Wolf ” con Elisabetta Pozzi intervengono gli storici dell’arte Anna Lo Bianco e Michele Di Monte in ogni incontro performances di danza contemporanea con Michela Lucenti e l’ensemble dei danzatori di Balletto Civile
Durante la rassegna verranno ricordati gli anniversari di: Jackson Pollock, John Cage, Blaise Pascal, Amerigo Vespucci Ingresso libero fino ad esaurimento posti Per informazioni: www.giocodellotto.it | www.finazzerflory.it Tel. 392 8159509 Galleria Nazionale di Arte Antica, Palazzo Barberini - Via della Quattro Fontane, 13 - Roma
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34 LA LETTURA CORRIERE DELLA SERA
Passo falso
Sguardi I movimenti Bellezza e marketing
di Paolo Fallai
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Soprintendenze a piedi, qualcun altro usa l’auto blu «Che problema c’è? Andate in tram». È quello che si sono sentiti dire negli ultimi mesi funzionari, dirigenti, assistenti delle Soprintendenze italiane a cui il Ministero dei beni e delle attività culturali non fornisce
Perché al giorno d’oggi bisogna essere disposti ad accettare forme creative di avanguardia che ieri ci sembravano aliene
auto e ha tolto i rimborsi benzina. Mentre il personale delle soprintendenze, a partire da Roma, è ridotto alla metà. E magari per verificare i danni di ispezioni che non si fanno più, c’è qualcuno che usa l’auto blu.
Calendario
GENOVA
di GILLO DORFLES
VAN GOGH E IL VIAGGIO DI GAUGUIN Invito al viaggio. Non come semplice esplorazione geografica o spostamento fisico, ma (piuttosto) come avventura interiore. Un’ottantina le tappe, quanti sono i capolavori esposti (XIX-XX secolo). Soste obbligate: i quaranta Van Gogh e un raro Gauguin (Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?) che il Museo di Boston presta per la seconda volta all’Europa. Palazzo Ducale Fino al 15 aprile 2012 Tel. 010 55 74 004, www.lineadombra.it
M
olte delle più recenti manifestazioni dell’arte contemporanea, dall’«arte povera» italiana alla ormai antica epopea della Pop, sino alle molteplici versioni dell’arte concettuale, alle installazioni, alla transavanguardia, alle performance, hanno presentato opere che non rispondono più a quelle costanti che ancora le «avanguardie storiche» seguivano. Oggi assistiamo a delle brusche virate: dal figurativo all’astratto (e viceversa) dal concettuale al dozzinale, dal pri-
Elogio di una stagione «venale» che ama il nuovo anche se è brutto vato al «mercato». Il che non significa né disprezzo né sottovalutazione di quanto l’arte odierna ci offre, ma piuttosto necessita di una valutazione dei rapporti tra creazione artistica e situazione socioeconomica, che appare più diretta (e più pericolosa) rispetto all’immediato passato. Ho detto «pericolosa» senza affatto voler svalutare la qualità di molte realizzazioni contemporanee; anzi con la stessa parola «valore» si dovrebbe tener conto non solo del valore estetico, ma di quello economico: il che purtroppo avviene soprattutto a favore del secondo. In altre parole: difficilmente possiamo scindere la valutazione di un grande maestro contemporaneo da quella che è la sua quotazione sul mercato, che ovviamente dipende dal genere dei rapporti odierni tra marketing e attività artistica. Il che non significa che l’opera debba sempre corrispondere alla sua valorizzazione «venale» (che potrà emergere anche solo «postuma»: con scarsa soddisfazione dell’artista!). Il che significa oltretutto che l’alone (o vogliamo addirittura definirla alla Benjamin «l’aura») del capolavoro può esistere anche se «sporcata» dai «denari» di qualche «Giuda artistico». Non vorrei che si giudicasse il mio discorso come eccessivamente banale e antiestetico, ma è soltanto la volontà di
Dall’alto: Vanessa Beecroft, performance «VB48» (2001); Maurizio Cattelan, «La Nona Ora» (1999); Anish Kapoor, particolare dell’installazione «Widow» (2005)
chiarezza che mi spinge a tener conto di alcuni dati che un tempo non erano palesi: basterebbero le recenti mostre di «arte povera» a imporre una visione dell’arte che non è mai stata applicata in passato. Questo fatto, se da un lato può condurre a facili equivoci circa il limite entro cui considerare lo «status» di un’opera; dall’altro, ci permette di apprezzare alcune situazioni e alcuni fenomeni che mai prima d’oggi erano entrati nell’universo artistico, e di tener conto che, non solo un determinato materiale «improprio», ma l’idea che ne è stata alla base, può essere la vera discriminante per la valutazione d’una creazione originale. Ma, al di là di momenti estremi, di trovate assurde, di stratagemmi aleatori, continuano per fortuna, e continueranno, a popolare l’universo artistico moltissime opere dove il linguaggio non è criptico
CONEGLIANO VENETO (TV)
senza essere desueto. Basterebbero solo i nomi di un Kiefer e di un Chillida, di un Kapoor e di un Pomodoro, ma anche quelli di un Cattelan e di una Vanessa Beecroft e, perché no, di una Cindy Sherman e di una Bourgeois (e ho fatto a bella posta nomi arcinoti), per dirci che esiste una continuità artistica anche quando alcune improvvise obnubilazioni — peraltro feconde — intervengono ad oscurarla temporaneamente. Credo che al giorno d’oggi dovremmo essere pronti ad accettare numerose forme creative che ieri ci sembravano aliene; mentre dobbiamo essere altrettanto pronti a biasimare tutto ciò che di stantio e di obsoleto si tende a riproporre. E questa posizione ci convince che la nostra «stagione» attuale è forse più «robusta» di molte di quelle (del passato) che non seppero «liberarsi» in tempo delle scorie ormai desuete. Certo alle volte il «nuovo» può non essere «piacevole» (già Vasari ce lo insegnava a proposito del gotico); e, del pari, il «piacevole» può non essere «nuovo»; sicché dovremo imparare ad accettare le nuove correnti artistiche anche se non sempre sono edonistiche e, del pari, a rifiutare tutto quanto è obsoleto ed entropizzato, anche se ha l’apparenza del gradevole.
BERNARDO BELLOTTO Maestri (Bellotto e Canaletto) e nomi da scoprire (Carlevarijs e Marieschi) per celebrare l’età d’oro del vedutismo veneziano, «il fenomeno artistico più innovativo e caratterizzante dell'arte europea del XVIII». Al centro di tutto, Bellotto, nipote-allievo del Canaletto (era figlio di una sorella) e pittore al servizio delle maggiori corti europee. Palazzo Sarcinelli Fino al 15 aprile 2012 Tel. 800 77 50 83
ROMA LEONARDO E MICHELANGELO La pratica di cantiere per Michelangelo, l’ottica per Leonardo: sessantasei disegni (davvero splendidi) per certificare l’essenza di due geni, le loro passioni ma anche i loro hobby. Tutto in due collezioni uniche: Biblioteca Ambrosiana di Milano e Fondazione Casa Buonarroti di Firenze. Musei Capitolini Fino al 12 febbraio 2012 Tel. 06 06 08, www.museicapitolini.org
© RIPRODUZIONE RISERVATA
a cura di Stefano Bucci
All’asta Gli arredi in stile impero dell’abitazione romana del grande studioso
Sapegno, la collezione di un letterato In vendita anche 36 piatti di porcellana con le uniformi borboniche di GIOVANNA POLETTI
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l catalogo si apre con poche righe, tratte da Le Côté de Guermantes. Descrivono con affascinante precisione un ambiente neoclassico dove nulla è lasciato al caso, dove tutto non solo è corretto ma anche perfetto, dove ogni dettaglio ha il suo riferimento storico e dove, in ultimo, sembra aggirarsi il padrone di casa. Se Alessandro Porro ha voluto scomodare Proust per introdurre il
catalogo di una vendita all’asta, è dunque scusato: parole migliori non si potevano trovare per presentare l’incanto che, martedì, disperderà gli arredi dell’abitazione romana di Natalino Sapegno (1901-1990), uno tra i più illustri storici della Letteratura italiana del Novecento. Accademico dei Lincei, autore di fondamentali contributi sui poeti del Duecento e del Trecento, Sapegno è conosciuto dal
grande pubblico per il suo commento alla Divina Commedia e per l’indispensabile Compendio su cui hanno studiato generazioni di studenti. Meno noto è forse il fatto che la sua casa romana in Piazza del Gesù, tutta rigorosamente arredata in stile Impero, è stata crocevia di artisti e intellettuali come Giovanni Macchia, Pietro Gobetti, Carlo Levi, Moravia, Pasolini, De Chirico, Guttuso e tanti
La casa romana di Sapegno: gli arredi vanno all’asta a Milano, martedì 15 novembre (ore 18). Info: www.porroartconsulting.it
altri. Un cenacolo privilegiato che si ritrovava in un ambiente unico, quasi museale, in cui la sua straordinaria collezione di arredi neoclassici si fondeva con apparente semplicità. Complice di questa raccolta, fu la moglie Mariella che, negli anni Sessanta e Settanta, grazie anche ai preziosi consigli di Mario Praz, acquistò con competenza pezzi italiani e francesi. I 125 lotti che saranno battuti all’asta a Milano da Porro & C., comprendono dipinti, arredi, sculture, ceramiche e oggetti. Tra i mobili ricordiamo un guéridon in bronzo dorato con piano in porcellana di Sèvres (40/50mila e),
un’elegante commode à vantaux in piuma di mogano dell’ambito di Jacob Freres (25/30mila e) e un’immensa libreria Impero in mogano (40/60mila e). Tra le pitture, due dipinti a olio di Luigi Ademollo (40/50mila e), un inedito Ritratto dello zar Nicola I bambino, realizzato nel 1802 da Pietro Labruzzi (40/50mila e), due splendide tempere siglate da Vanvitelli (70/80mila e) e un imponente ciclo di papiers peints panoramiques che, in sette pannelli dipinti da J. J. Deltil nel 1818, rappresenta l’animata Bataille d’Heliopolis (40/50mila e). Tra i tanti oggetti, il servizio di 36
piatti in porcellana francese, decorato a Napoli nel 1830 da Raffaele Giovane, con le uniformi dell’esercito borbonico (20/25mila e). Infine, è curioso considerare che, nonostante si tratti di un’asta con una provenienza unica, supportata da un’omogeneità qualitativa e stilistica davvero singolare, il totale stimato della vendita si aggira attorno al milione di euro: una cifra molto inferiore al record stabilito lunedì scorso a New York da un dipinto astratto di Twombly del 2006, battuto per 9 milioni di dollari. © RIPRODUZIONE RISERVATA
CORRIERE DELLA SERA LA LETTURA 35
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Make up
Sguardi Il protagonista
di Gianna Fregonara
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L’estetica contemporanea alla prova dello straccio Un’addetta alle pulizie del Museo Ostwall di Dortmund ha pulito la macchia di pioggia secca sul fondo del catino nell’opera di Martin Kippenberger (1953-1997) «Quando comincia a gocciolare dal soffitto», come se si trattasse
di sporco accumulatosi durante l’esposizione. Il museo s’è scusato con il proprietario della scultura, valutata 800 mila euro. Resta da capire se l’energica signora «rovinando» l’opera ne ha diminuito il valore o l’ha aumentato.
È una delle star dell’arte di oggi. Ossessionato dalla memoria, più o meno collettiva Il suo laboratorio parigino è pieno di manichini colorati, scaffali di alluminio e croci
Boltanski: io, eterno sopravvissuto PARIGI — «Dovete sapere che siete filmati», sono le sue prime parole, che spiegherà meglio più tardi. Ci siamo appena imbattuti in Christian Boltanski a pochi metri dal suo atelier, un grande sacco nero in mano, la figura imponente e l’abituale giubbotto che emergono dalla nebbia di un pomeriggio autunnale. Non è un’installazione, siamo in anticipo e una delle più grandi star dell’arte contemporanea deve gettare la spazzatura. Malakoff, la torre di Sebastopoli conquistata dai francesi nella guerra di Crimea dà il nome al sobborgo a Sud di Parigi: Boltanski, figlio di un medico ebreo ucraino e di madre corsa, lavora qui. Ci accompagna in fretta al suo laboratorio: al piano terra, manichini fatti di sacchi a pelo colorati, scaffali di alluminio appesi al muro come quadri, numeri fatti con il nastro adesivo e croci. Saliamo di sopra, dove ci attende un cartello con la scritta a grossi caratteri neri «1907-1989». «È il ritratto che ho fatto a mia madre — spiega l’artista —. La data di nascita e di morte. Tutta la sua vita è quel trattino in mezzo». Boltanski è ossessionato dalla vita e dalla morte, «dalle tre o quattro domande che tutti gli uomini si fanno dalla notte dei tempi», dice. Giornalista e fotografo, siamo filmati con lui e diventiamo orgogliosamente parte di un progetto artistico perché le telecamere riprendono l’atelier e i suoi occupanti 24 ore al giorno, tutti i giorni, da un anno e fino alla morte di Boltanski. Le immagini arrivano in diretta in Tasmania, al Mona (Museum of Old and New Art) fondato dal collezionista australiano David Walsh, che paga all’artista 2.500 dollari al mese per esporre The life of C. B.. In termini economici un buon affare, soprattutto se — come ha scommesso Walsh — Boltanski morirà entro otto anni dall’inizio del contratto. «Ne è già passato uno e mi sento bene — dice ridendo l’artista 66enne —. Io e il mio tasmaniano abbiamo uno strano rapporto. Il museo riguarda Eros e Thanatos, il suo sogno è vedermi morire in diretta. È un uomo di intelligenza eccezionale, che ha fatto fortuna con il gioco perché ha una capacità di calcolo superiore ai computer; non può più entrare nei casinò ma ormai si è arricchito. Certo queste telecamere non trasmettono poi granché, ma mi sembrava un’idea interessante. E perché avesse un si-
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Tiromancino
La lezione di «Paris Photo» Si chiude oggi «Paris Photo» con grande successo: nuova sede (Grand Palais) e tutta la città invasa di foto in mostre istituzionali e gallerie. Milano risponde (era ora) con «Mia» (Milan Image Art Fair) in assoluta solitudine. Un appello a Boeri, a Provincia e Regione. Per favore, non perdiamo ancora una volta l’occasione di credere alla cultura dell’immagine. Gianluigi Colin
i L’artista Christian Boltanski è nato a Parigi il 6 settembre 1944. Fratello del sociologo Luc Boltanski, ha iniziato a dipingere molto giovane, attorno al 1958, senza una vera formazione artistica tradizionale, dedicandosi «con assiduità ossessiva al tema della memoria, privata e collettiva», a cominciare dalla Shoah: i teatrini delle «Ombre» (1984), i «Monuments» (1986), le «Riserve» (1990) Installazioni Sotto, dall’alto, «No man’s land» (New York, 2010), e «Chance», l’installazione di Boltanski che occupa il Padiglione francese della 54esima Biennale d’arte di Venezia (fino al 27/11/2012) visibile anche sul web, www.boltanski-chance.com
DANILO DE MARCO
dal nostro corrispondente STEFANO MONTEFIORI
«Faccio filmare la mia morte in diretta Per oltrepassare i confini della vita»
gnificato bisognava realizzarla davvero. Questa sarà la mia ultima opera d’arte: mostrerò il corpo decaduto, contro la modernità che espelle la vecchiaia dal suo orizzonte». Christian Boltanski, autore tra l’altro della toccante installazione al museo per la Memoria di Ustica di Bologna, lavora sempre attorno al tema dell’assenza. Perché questa lotta perduta in partenza contro la fine? «È qualcosa che mi tocca profondamente, come molti credo. Sono nato nel 1944, mio padre è sfuggito ai nazisti, i nostri parenti e amici hanno tutti qualcuno scomparso nei lager. Io non dovevo neppure nascere, i miei genitori hanno pensato all’aborto. Mio padre era ebreo e per salvarsi dalle retate a Parigi si era nascosto sotto il pavimento di casa, mia madre diceva in giro che avevano divorziato e che se n’era andato. Invece lui stava lì sotto, e quando lei rimase incinta fu davvero un guaio». Nonostante le difficoltà il piccolo Christian è venuto al mondo, ed è diventato un uomo gentile e di ottimo umore, che adora irrompere in risate aperte. «La vita mi piace moltissimo, forse per questo non mi rassegno al fatto che è effimera. Mi sento io stesso un sopravvissuto e talvolta ne ho un po’ vergogna, come capita a tanti scampati alla Shoah». Come forma di inutile ma commovente ribellione contro l’oblio e l’ingiustizia della morte, dal 2005 Boltanski registra la musica del cuore umano. Ha raccolto i battiti di oltre 45 mila persone di tutto il mondo, ed espone l’opera Les Archives du Coeur nell’isola giapponese di Ejima. «Il progetto continua. Per molti l’isola è diventata un luogo di pellegrinaggio, vanno lì ad ascoltare il cuore di una persona cara». A Boltanski è stato affidato il Padiglione francese all’ultima Biennale di Venezia, dove espone ancora in
questi giorni l’installazione Chance che mescola decine di fotografie di neonati, tratte da un quotidiano polacco, con immagini prese dalla pagina dei necrologi di un giornale svizzero. «Evoco il caso, l’altro grande tema della mia opera. Siamo sette miliardi di persone uniche, che sarebbero diverse se i nostri genitori avessero fatto l’amore anche solo un attimo prima o dopo. Ciò che io sono dipende totalmente da un miliardesimo di secondo. Lei può uscire di qui e farsi investire da un’auto, oppure salvarsi, questione di mille coincidenze. È affascinante». Fortuna che Boltanski ha un sorriso simpatico. E uno humor che rende leggera una chiacchierata simile. Le croci alle pareti? «Sono l’abbozzo di un’opera, vedremo se la diventeranno mai. Non sono cattolico in senso stretto ma mi sento vicino alla religione. Forse c’è anche una punta di superstizione infantile, quelle croci mi fanno stare bene, mi rassicurano». La prossima opera di Christian Boltanski è una serie di brevi filmati di un minuto o due — «cartoline della mia vita» — che entro un paio di mesi invierà a chi si abbona per 10 euro al mese al suo servizio Internet. «Per una volta voglio escludere totalmente il mercato dell’arte, che ha preso ormai proporzio-
RRR Maestri «Guernica» è immensa anche perché Picasso si ispirò alle foto in bianco e nero; quando usò il colore fu meno convincente
ni ridicole. Anche io faccio parte del sistema e ne ho tratto vantaggio, ma ora è giusto tentare altre strade. I ricchi si improvvisano tutti collezionisti ma non hanno la formazione per capire, comprano Jeff Koons perché è piacevole e colorato, come un oggetto di arredamento. Io stimo moltissimo Koons e pure Maurizio Cattelan, sono artisti profondi. Ma non mi piace questo modo di comprare un pezzo celebre per sentirsi parte di un club. L’arte ha senso se pone le grandi questioni, non può limitarsi alla decorazione d’interni. I collezionisti che ho conosciuto nella mia giovinezza seguivano l’artista per tutta la vita, frequentavano il suo atelier, come fecero gli Stein con Matisse, Cézanne e Picasso. Oggi si comprano opere d’arte contemporanea come si gioca in Borsa. Allora faccio come i Radiohead, scavalco il sistema e mi rivolgo direttamente agli appassionati veri». L’arte per Boltanski ha — almeno indirettamente — un valore politico, etico. «Per questo ammiro il coraggio di Ai Weiwei, che pubblicate sulla vostra copertina in manette: affronta una questione gigantesca come la libertà. Per raggiungere vette artistiche talvolta è utile il distacco, Guernica è immensa anche grazie al fatto che Picasso si ispirò alle foto in bianco e nero viste sui giornali; quando invece usò il colore per la guerra di Corea, fu meno convincente. Ma l’impegno di Ai Weiwei è importante in sé». Ultima domanda, prima dei saluti: signor Boltanski, lei ha paura della morte? «In questo momento mi pare proprio di no. Ma temo di mentire. Al momento della verità farò come quella principessa sul patibolo, durante la Rivoluzione francese. Guardava il sole e gridava "Ancora un minuto, ancora un minuto!"». © RIPRODUZIONE RISERVATA
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36 LA LETTURA CORRIERE DELLA SERA
Percorsi Storie, racconti, biografie, inchieste
Graphic novel di Igort
L’autore Igor Tuveri, in arte Igort, è nato a Cagliari 53 anni fa. I suoi romanzi a fumetti sono pubblicati in 15 Paesi. Trasferitosi ventenne a Bologna, ha vissuto per anni a Parigi prima di ristabilirsi nella sua città natale. Il suo ultimo reportage disegnato, «Quaderni russi. La guerra dimenticata del Caucaso» (Mondadori, pp. 176, e 18), è appena uscito in libreria.
Il sollievo
delle anatre
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CORRIERE DELLA SERA LA LETTURA 37
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L’incubo della malattia, la strada stretta dell’intervento chirurgico. Ma in un Paese povero, dove la sanità è un affare e il conto lo paga il paziente, la diagnosi può cambiare a seconda dell’interesse del medico. E il prezzo di una vita umana può rivelarsi molto basso
38 LA LETTURA CORRIERE DELLA SERA
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Luci a Mezzogiorno
Percorsi La data
di Giovanni Russo
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Aprile cambia musica e abbandona il vittimismo Nel bestseller Terroni, Pino Aprile accusava il Nord d’aver colonizzato il Sud con le stragi: il Mezzogiorno era vittima, e le sue miserie dipendevano non dalle sue incapacità, ma da come l’Unità d’Italia si era compiuta. Nel nuovo
libro Giù nel Sud. Perché i terroni salveranno l’Italia, Aprile ha deposto il vittimismo e vede proprio nel Sud le prospettive di una rinascita italiana, anche economica. Da parte dell’autore di Terroni è un segnale importante.
Dopo la battaglia più sanguinosa della Guerra civile, Abramo Lincoln torna sul campo per la missione più difficile: convincere i parenti delle vittime della necessità di quel sacrificio. Quelle dieci frasi rifondarono lo spirito del Nuovo Mondo
19.11.1863 Il discorso di Gettysburg
I DUE MINUTI CHE INVENTARONO L’AMERICA di MARCO MISSIROLI
Q
uando Abramo Lincoln arrivò al cimitero di Gettysburg, quel 19 novembre 1863, chiese di stare solo. Il responsabile delle guardie alla sicurezza insistette che era meglio di no, Lincoln lo ignorò e cominciò a percorrere i cinquanta passi che lo separavano dal palco allestito per la commemorazione. Era un sentiero tra due file di croci, Lincoln ne contò sedici da una parte e sedici dall’altra. Poi si fermò, si tolse il cappello, guardò oltre gli alberi e il cordone di uomini che teneva lontana la folla. C’erano politici e governatori, soprattutto vedove, genitori senza più figli, orfani di quei padri morti nella battaglia di Gettysburg avvenuta a luglio. Il bilancio era stato di cinquantunomila caduti. Il prezzo più alto dall’inizio della Guerra di secessione americana. In pochi erano lì per protesta, la maggior parte per il suo discorso. Infilò una mano in tasca e tirò fuori il testo dell’orazione, lo rimise via. Non l’aveva letto a nessuno. Né alla moglie o ai consiglieri più fidati, né a John Nicolay e John Hay, i suoi assistenti personali che si erano premurati di avvertirlo che Edward Everett, ex segretario di Stato americano, avrebbe parlato per due ore. Per il Presidente era consigliabile superare quel tempo. Lincoln aveva impiegato una notte a scrivere la bozza, l’aveva finita poco prima di essere avvisato che alla commemorazione del cimitero ci sarebbero stati molti familiari dei caduti. Così il Presidente si era fermato, un atti-
mo, poi aveva stracciato gli appunti del discorso. Si era alzato in piedi e aveva pensato a William Fallace Lincoln, il suo terzogenito. Willie era un figlio silenzioso, aveva questo sguardo placido, nessun lamento di troppo. Era il più fragile dei suoi quattro eredi, a undici anni si era ammalato di tifo. Quando era morto, l’anno prima, lui si era chiuso in casa per quattro giorni e per quattro giorni non era riuscito a fare il Presidente degli Stati Uniti d’America. Pensò a Willie, e alle madri, e ai padri, che non vedevano tornare i loro ragazzi dalle battaglie come quella di Gettysburg. I discorsi coronano le abbondanze, aggravano la mancanza. Riprese il sentiero, fece i passi che rimanevano e si guardò le scarpe e il cappello tra le dita, non lo indossò finché superò l’ultima croce. Al di là di una quercia secolare c’era il nugolo di persone e una fila di bandiere che delimitava il campo. Rallentò e si fece raggiungere dalle
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RRR Tensione Il sindaco gli disse che aveva a disposizione quanto tempo desiderasse. Il Presidente ringraziò e si toccò la barba, come ogni volta prima di cominciare a parlarle
Il documento Sopra: il testo del discorso di Lincoln a Gettysburg, in Pennsylvania, il 19 novembre 1863. Nella foto grande: lavori di pulizia alla statua del Lincoln Memorial a Washington (Corbis)
guardie, lo circondarono, con loro si inoltrò tra la calca. Sentì la gente, era un unico mormorio che finì appena lui arrivò sul palco. Salutò i governatori di sette Stati, il sindaco di Gettysburg e molte altre facce che non ricordava o che non guardò bene. Edward Everett si stava già rivolgendo alla folla, dopo sarebbe toccato a lui. Lincoln prese posto, di tutte le volte che aveva parlato in pubblico, da Presidente adesso, da politico prima, da avvocato sempre, questa era l’unica che si ricordasse in cui non poteva riprendere in mano gli appunti dell’orazione. Le mani gli sudavano. Le premette al cappotto, poi sfilò comunque il suo testo. Un foglio piegato in quattro. Scoppiò un applauso e quando l’applauso finì ascoltò la voce di un uomo tra il pubblico, «Chi ci ridarà i nostri figli?». Accanto a lui c’era una donna più giovane, avanzò e riuscì a farsi largo di poco, disse qualcosa che nessuno sentì. Era un fuscello, i capelli carbone raccolti in una cuffia da contadina, aveva questi occhi che faticava a tenere alti. Il Presidente la fissò, assomigliava a sua madre. Appena l’ex segretario di stato Everett finì il suo discorso, Lincoln lanciò un gesto d’intesa a John Nicolay e John Hay, i suoi assistenti in prima fila. Lo avevano informato che l’intervento dell’ex segretario di Stato sarebbe durato due ore. Avevano sbagliato, in difetto, di appena venticinque minuti. La folla che aveva atteso tutto quel tempo si accalcò all’improvviso e gli uomini della sicurezza dovettero stringersi per contenerla. Il Presidente guardò l’orologio, erano le quattro meno cinque di un pomeriggio di novembre. Si sistemò al centro del palco, il sindaco di Gettysburg gli disse che aveva a disposizione quanto tempo desiderasse. Lincoln ringraziò e si toccò la barba, come ogni volta prima di cominciare a parlare. Poi parlò: Or sono diciassette lustri e un anno che i nostri avi costruirono, su questo continente, una nuova nazione, concepita nella Libertà, e votata al principio che tutti gli uomini sono creati uguali. Fu accompagnato da un primo applauso, lui proseguì senza fermarsi. E da un secondo applauso, dopo che recitò il paragrafo successivo del discorso. Gli applausi tornarono ancora, e ancora. Per quattro volte. La folla tacque, di colpo, quando Lincoln scandì il brano della sua orazione che rimaneva. Per quelle cinque righe, pronunciate senza fatica, il Presidente fece tre passi avanti e smise di guardare un volto qualunque della sua gente. Fissò la donna con i capelli carbone. Era ancora lì, nello stesso punto e con gli stessi occhi bassi. Si rivolse a lei: Che da questi morti onorati ci venga un’accresciuta devozione a quella causa per la quale essi diedero, della devozione, l’ultima piena misura; che noi qui solennemente si prometta che questi morti non sono morti invano; che questa nazione, guidata da Dio, abbia una rinascita di libertà; e che l’idea di un governo di popolo, dal popolo, per il popolo, non abbia a perire dalla terra. Quando Abramo Lincoln finì, era la donna a guardarlo. Il miglior discorso che la storia americana, e una madre del suo popolo, avrebbe ricordato per sempre era di appena dieci frasi. Durava due minuti. © RIPRODUZIONE RISERVATA
CORRIERE DELLA SERA LA LETTURA 39
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Percorsi La biografia Idealista anarchico presunto traditore
Beni confusionali di Paolo Conti
Hugo Sonnenschein: bohémien della Rivoluzione, vittima (in)colpevole del Novecento di CLAUDIO MAGRIS
RRR Vita da romanzo Le accuse contro di lui non sono mai state chiarite. Però il doppio gioco si addice a quegli anni terribili, che furono un cabaret trasgressivo, libertario e depravato
Ci vogliono un principe (Urbano Sforza Barberini Colonna) e una grande attrice, Franca Valeri, per spiegare in un documento che no, non si può realizzare una discarica a Corcolle, lembo intatto dell’Agro Romano
tra Roma e Tivoli, straordinario bene paesaggistico. Renata Polverini, Regione Lazio, e Gianni Alemanno, Campidoglio, non lo capiscono da soli. Urge ripasso del Codice dei Beni culturali.
Il mistero dello scrittore mitteleuropeo (1889-1953), incarnazione dell’Ebreo errante. Ammiratore del giovane Mussolini, protagonista dell’effimera Vienna sovversiva, giurava di frequentare Lenin e Trotzkij. Sopravvisse ad Auschwitz, morì poco dopo in un carcere comunista, condannato per collaborazionismo
Sonka
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Il principe e la grande attrice difendono il paesaggio
ggi, facendomi la barba, mi sono guardato nello specchio e mi sono spaventato. Non sembro Ahasvero?» È il nome dell’Ebreo errante, condannato secondo la leggenda ad errare sempre e a non poter mai morire. Maledizione a doppio taglio, perché indica pure l’indomabile vitalità dell’ebraismo, la sua riottosa resistenza che neanche le più terribili persecuzioni sono riuscite ad annientare. A riconoscersi in Ahasvero, in questo caso, è un personaggio che ha vissuto la più spaventosa di quelle persecuzioni, la Shoah. Un personaggio veramente esistito, uno scrittore e poeta che ha partecipato alle grandi lotte, speranze e orrende tragedie del Novecento, restandone vittima; che nonostante tutto è sempre rimasto un vagabondo bohémien e un impenitente donnaiolo, un attore che recita la propria vita e la contraffà senza troppi scrupoli. Ora Hugo Sonnenschein detto Sonka — questo è il suo nome — è divenuto protagonista di un romanzo, Hugo, scritto da un autore céco, Jirí Kamen, che a sua volta, ricostruendo e immaginando le sue rocambolesche peripezie, mescola realtà e possibilità della vita di Sonka, ciò che essa è stata e ciò che essa avrebbe potuto essere. Sonka è soprattutto l’anarchico scrittore ebreo tedesco nato in Moravia, il militante bolscevico deportato e sopravvissuto ad Auschwitz e morto nelle prigioni comuniste cecoslovacche nel 1953 perché accusato di collaborazionismo con i nazisti, accusa improbabile ma non inequivocabilmente smontata. La sua vita picaresca di artista vagabondo, attivista politico e libertino inizia a Gaya, la cittadina della Moravia orientale in cui egli nasce nel 1889, e che è un piccolo crogiolo mitteleuropeo di culture e di popoli — moravi, slovacchi, cechi, ebrei, austriaci, zingari — con i suoi scontri nazionali fra tedeschi e slavi che finiscono spesso in po-
nin, Stalin e Trotzkij; finisce — questo sì senz’ombra di dubbio — ad Auschwitz, addetto alla farmacia sotto il controllo di Mengele, e a Mirov nelle carceri staliniane. Schizza ritratti di rivoluzionari politici e sociali quali Bakunin o di artisti rivoluzionari quali Erich Mühsam, con i quali si identifica mimeticamente, ma non senza l’autoironia dell’istrione che non può prendersi sul serio anche se crede appassionatamente a grandi idee di libertà e giustizia, senza peraltro permettere che la loro serietà ostacoli il suo giocoso, inaffidabile e imprevedibile erotismo, sale della sua vita. Tutto ciò, osserva Peter Demetz, uno dei grandi testimoni dell’affascinante e drammatica Mitteleuropa praghese, si traduce in una sanguigna varietà linguistica.
Il funambolismo zingaresco s’intreccia, in un cortocircuito ad alto voltaggio, alla grandezza dell’utopia rivoluzionaria e al grigiore ideologico e autoritario del socialismo reale. L’accusa di collaborazionismo è probabilmente falsa, sostiene uno dei più agguerriti studiosi di Sonnenschein, Jürgen Serke, ma — aggiunge un altro suo interprete competente, Pavel Kosatík — non è mai stata veramente chiarita. Il tradimento del resto è una delle tragiche chiavi di quei tragici anni totalitari, in cui spesso l’eroico ma anche mortificante sacrificio di sé per la libertà e la giustizia di tutti trapassa facilmente nel sacrificio degli altri. Sono soprattutto i sistemi che annunciano — che incarnano o pretendono di incarnare — la verità a generare e ad esigere il tradimento, anche come sacrificio morale; la delazione può far male al cuore del delatore, ma la Causa è più importante del suo cuore. Nell’abiezione del tradimento può insinuarsi una contorta componente di sacrificio religioso. Il tradimento implica spesso la necessità del doppio gioco, che si inizia forse con un preciso progetto politico ma può facilmente diventare fine a se stesso, una perversa art pour l’art in cui si finisce per non raccapezzarsi più e non ricordare più di chi si è o si vuol essere al servizio. Può anche darsi che grom, in violenze antisemite. Sonka ha rievocato sug- il doppio gioco seducesse Sonka e il suo gusto del tragestivamente — anche falsificandola — questa infan- vestimento inteso quale arte di vivere, quasi una body zia, ora rinarrata nel romanzo di Kamen, che ho letto art; l’immoralità del doppio gioco è anche una difesa nella versione tedesca. Il romanzo è costruito in forma dall’eroico ma tirannico moralismo delle grandi caudi una lettera che Sonka scrive dal carcere comunista se. Se non si può essere un santo, non resta che fare di Mirov in Moravia — dove è stato effettivamente con- l’avventuriero, l’unica altra possibilità di vita a suo modannato a vent’anni per (presunto) collaborazionismo do autentica. — al segretario generale del Partito comunista cecosloIl doppio gioco si addice a quegli anni terribili, creavacco Rudolf Slánsky, giustiziato nel 1952 con l’accusa tivi e gigioneschi. Si addice ai Leviatani, ai regimi totadi sionismo e di essere un agente dell’imperialismo. litari d’ogni genere, che hanno bisogno di spie e delatori, come alla guerra spietata e necessariamente totale, in cui spionaggio e tradimento sono armi non meno potenti delle bombe e sono usati cinicamente da Nella finzione romanzesca della lettera (che forse allu- tutti; si addice a chi persegue fini abietti e a chi persede ad una da lui scritta realmente al segretario del parti- gue o crede di perseguire una liberazione dell’umanito) Sonka narra la sua errabonda ed estrosa esistenza tà, per la quale sembra lecito calpestare ogni morale e come se questa — con le sue piroette, le sue sofferenze i sentimenti personali più appassionati. Il tradimento e i suoi trucchi — bastasse a giustificarlo; come se la si addice pure a quel cabaret trasgressivo, libertario e vita in sé, il suo nomade e anarchico scorrere, trovasse depravato che era la Storia di quegli anni — anni di la propria giustificazione nella fedeltà al proprio demo- sperimentazione artistica e sessuale e insieme di repressione culturale e sessuale, di sballo e di ferrei catene, senza bisogno di sottoporsi ad alcun giudizio. Sonka esagera, dilata, mescola le carte; ha sempre chismi. In quegli anni è balenata ed è stata deturpata molti assi nella manica, ma alcuni di essi sono certa- un’esigenza di salvezza dell’umanità; il suo fallimento mente autentici. Rievoca la visita di Rodin, il grande è una ferita ancora aperta, una rovina da cui bisognerà scultore francese, nella sua città natale, invitato dai pa- ripartire. Sonka è una piccola comparsa in quella battrioti cèchi ad ammirare una processione contadina in taglia di Gog e Magog che era anche un perverso e sancostume tradizionale, una festa cui partecipa pure egli guinoso Varietà. Quando si tradisce, si tradisce anche stesso adolescente travestito da donna, se stessi: tradire un amante, un amico, con un precoce gusto della mistificazio- Protagonisti un’idea, un Paese significa negare e perne. Da giovane si infatua per il Mussolini di un secolo dere una parte di sé. Non ha tradito il ancora socialista, nell’effimera Vienna ri- Sopra: il disegno di Egon patto con Sonka il suo amico anarchico voluzionaria del 1918-19 fa parte della Schiele (1917) che ritrae Michal Mares: i due, nel carcere di Mi«Guardia Rossa» comandata da un famorov, si erano promessi che, quando uno so scrittore praghese tedesco, Egon Hugo Sonnenschein, (Art fosse morto, l’altro si sarebbe curato delErwin Kisch; va in missione oscuramente gallery di Tel Aviv, foto dal sito egon-schiele.net). la sua sepoltura ed è stato Mares a farlo segreta a Mosca in occasione di una riuper lui. nione della Terza Internazionale; riferi- Sotto: Benito Mussolini, sce o millanta rapporti personali con Le- ammirato da Sonnenschein © RIPRODUZIONE RISERVATA quando era dirigente del Psi; Vladimir Lenin, che «Sonka» conosceva di persona, o almeno così raccontava; alcuni ufficiali delle SS (da sinistra: Josef Mengele, che Sonnenschein incontrò quando era prigioniero ad Auschwitz, Rudolf Höss, comandante del campo di sterminio, e Josef Kramer, capo di Birkenau); Rudolf Slánsky, segretario del Partito comunista cecoslovacco, con la figlia, pochi giorni prima dell’arresto
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40 LA LETTURA CORRIERE DELLA SERA
Percorsi L’officina Un tempo era visto come un’arte minore, all’ombra del romanzo. Poi arrivò la scoperta di Gogol: alla verità bastano poche pagine
Come scrivo un racconto I
di WILLIAM TREVOR
L’autore William Trevor, 83 anni, è nato a Mitchelstown, nella provincia irlandese, ma vive in Inghilterra dagli anni Cinquanta. È considerato il più importante scrittore vivente di racconti in lingua inglese. Il suo romanzo più conosciuto, «Il viaggio di Felicia», è del 1994. Le sue opere sono pubblicate in Italia da Guanda.
l racconto era visto un tempo come un’arte minore, che veniva riconosciuta, ma si era lontani da attribuirle quella «forma peculiare, particolarmente difficile per lo scrittore» di cui parlava V. S. Pritchett. Pritchett continuava affermando che in questo breve genere di narrazione c’è un senso di «estraneità» che riflette bene «l’ansia e l’irrequietezza della vita moderna». Le radici popolari del racconto non facevano affatto supporre un futuro di questo genere, non vi erano attese di verità presentate in modo differente o di esiti sospesi, che sarebbero diventati la caratteristica distintiva di un nuovo tipo di narrativa. Continuando a evolversi lentamente, il racconto è sopravvissuto a lungo e con difficoltà all’ombra del romanzo. I due generi non erano in conflitto, anzi il loro contrasto arricchiva entrambi, perché l’uno prendeva qualcosa dall’altro. Ma non si poteva ancora dire, come oggi, che mentre il romanzo mostra tutto, il racconto si limita al minimo indispensabile. Sarebbe stato Gogol a scoprirlo. «Siamo tutti venuti fuori dal cappotto di Gogol», diceva Turgenev, e anche se alludeva soprattutto agli scrittori russi di racconti, la sua osservazione vale ovunque si scrivano storie. Narrando di Akakij Akakievic e della sua ricerca del cappotto rubato, Gogol creò qualcosa che in letteratura era ancora sconosciuto. The Lonely Voice, il classico studio di Frank O’Connor su questo genere, cita Il cappotto come il primo esempio di racconto che rompe con quel che lui chiama «l’arte pubblica» del raccontar storie. Il miserabile impiegatuccio di Gogol, continuamente preso in giro e insultato perché è una nullità, non riesce a sollevarsi da una meschinità che gli diventa intollerabile quando spende tutti i suoi soldi per sostituire il cappotto liso con uno nuovo, per poi vederselo quasi immediatamente rubare. È tutto qui, ma in quello sfavorevole incidente, e nelle circostanze fatali che ne derivano, Gogol sapeva esserci una verità degna di essere indagata. Sapeva istintivamente che non era materia per un romanzo, che un pathos di maggior lunghezza sarebbe ap-
parso forzato e che il vigore del racconto ne sarebbe stato indebolito. Solo la brevità avrebbe potuto offrire l’immediatezza necessaria a comunicare quel che Gogol voleva dire e, con Il cappotto, diede al racconto una forma che prima non esisteva. Gli conferì un’identità e fissò il carattere che poi ha sempre mantenuto.
Se il racconto di Gogol è una pietra miliare, lo è anche The Lonely Voice. Le intuizioni di O’Connor non sono solo teorie accademiche, ma anche il risultato della sua lunga esperienza di scrittore che ha prodotto molti esempi in questa forma, a loro volta assai lodati. O’Connor fa notare, nel racconto moderno, l’assenza di eroi, il ricorrente tema della solitudine, la presenza di figure di ribelli «che vagano ai margini della società», e la costante consapevolezza della solitudine umana. Dietro la solidità delle sue opinioni si avverte a volte un’esitazione, una rassicurante incertezza nell’introdurre una nota di cautela: l’innovazione di Gogol, chiaramente riflessa nelle storie di Frank O’Connor, poteva ancora risultare inquietante all’inizio degli anni Sessanta, quando The Lonely Voice fu scritto. Meno di dieci anni dopo, Elizabeth Taylor — scrittrice di romanzi e racconti — non ebbe dubbi sul fatto che Gogol avesse dato inizio a un genere che era diventato parte integrante della letteratura moderna. Scrisse di come fos-
se naturale, nello scrivere romanzi, «progettare la trama», e paragonò quel processo alla limitazione e compressione del racconto. «Credo — dichiarò con sicurezza —, che i racconti scaturiscano da un momento di ispirazione... che siano scritti velocemente, calati in un’unica atmosfera e in uno stesso umore come un dipinto di Van Gogh». Per lei era importante sentire che un racconto le «colpiva» la mente all’improvviso, una prefigurazione assai più sintetica di quella di un romanzo. Ricordava di aver visto una volta da un autobus un giovane caraibico correre nella pioggia e di essersi chiesta dove stesse andando e perché stesse correndo e chi fosse. La curiosità come sempre funziona: molto tempo dopo scrisse il racconto. Quando fui attratto per la prima volta da un racconto dovevo avere forse quattro anni. La mia immaginazione fu colpita dalle tristi vicende da cortile della piccola gallina rossa e dalle meraviglie delle storie di fate: storie e realtà infantile si mescolavano. Con il tempo si separarono, mentre il mondo quotidiano delle piccole città irlandesi di Cork e Tipperary diveniva più concreto. La noia della scuo-
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Quando fui attratto per la prima volta da quest’arte avevo forse quattro anni. La mia immaginazione fu colpita dalle tristi vicende da cortile della piccola gallina rossa e dalle meraviglie delle storie di fate: fiabe e realtà infantile si mescolavano. Con il tempo si separarono, mentre il mondo diveniva più concreto
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CORRIERE DELLA SERA LA LETTURA 41
Platea e galleria di Maurizio Porro
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Raccontare Proust al cinema (che lui non amava) Non basta un flashback per fare «recherche» al cinema (snobbato da Marcel). Servono intermittenze del cuore, sovrapposizioni spazio-temporali (i migliori Losey o Resnais), vedi il saggio Alla ricerca del cinema
proustiano di Olla. In Il mio domani di Marina Spada c’è un ripensamento dell’Io attraverso il vedere: Proust e Monet, sostiene Giuliana Giulietti, sono i più begli occhi del XX secolo: le loro sono morti bianche sul lavoro.
ting in Middle Age la signora da Tanka, già signora Spire, deve incontrarsi con un uomo che non conosce, ma quando lo vede apparire in una stazione, dove si erano dati appuntamento, si accorge che il suo aspetto non le piace. Era là, vicino al chiosco dei tabacchi, puntuale e in attesa; il volto emaciato, magro, sui cinquant’anni... Il capo quasi tutto calvo, biancastro e tenero come una palla di grasso. Aveva gli occhi tristi, come quelli di un cucciolo di retriever che conosceva da bambina... Il signor Mileson, a sua volta, non è particolarmente ben impressionato dalla signora da Tanka. Nessuno dei due cerca di nascondere la reciproca antipatia, ma decidono ugualmente di fare il viaggio che avevano programmato e di passare una notte insieme. Il legame che li unisce è artificiale, un’occasione che offre alla signora da Tanka il mezzo per ottenere le prove per un divorzio e permette al signor Mileson di guadagnare cinque sterline. Si guardano freddamente, senza simpatia né rispetto, con sospetto, spesso con avversione. Prima di separarsi, però, vi è un istante di emozione che, in seguito, si ripresenterà per entrambi. In Lovers of their Time c’è di nuovo un incontro tra sconosciuti. Andando di tanto in tanto a comprare qualcosa da lei alla farmacia Green, Norman era arrivato alla conclusione che fosse piuttosto leggerina e pensò che, se fosse mai andato a prendere un drink con lei nel vicino Drummer Boy, la cosa sarebbe potuta facilmente finire in un abbraccio per strada. Immaginò le sue labbra color corallo, simili a due piccole salsicce ma più soffici, premute contro i suoi baffi e la sua bocca breve. Immaginò il calore della mano di lei nella sua. Malgrado tutto, lei era un po’ irreale: era là per essere desiderata, per brillare eroticamente nell’atmosfera inebriante del Drummer Boy, perché si fantasticasse di accenderle una sigaretta.
la era alleviata dal viaggio romantico di Diarmuid e Grainne, dalla saga della razzia di vacche di Cooley e dalle imprese di Cúchulainn. Per secoli queste storie hanno allietato la vita di campagna irlandese. Raccontate intorno ai camini delle grandi case e delle capanne, con il tempo furono trascritte dai monaci cristiani, per poi essere di nuovo tramandate a voce dalle generazioni successive. I narratori erano abili attori. Viaggiavano in lungo e in largo, portando con loro le notizie degli ultimi avvenimenti e le loro storie turbolente. Poi cominciarono a essere sempre di meno, fin quando scomparvero del tutto, ma si lasciarono dietro un’influenza duratura: nelle zone rurali ancor oggi racconti e aneddoti spesso ravvivano la comunicazione e sono un modo naturale per esprimere un’opinione. Alcuni vecchi ricordano ancora le occasioni sociali in cui sentirono per la prima volta raccontare di uomini e luoghi stregati, di amori fatali e di donne con il dono della preveggenza. I giovani inventano le loro storie. Lo facevo anch’io. Il primo dei temi che dovevo scrivere ogni settimana quando ero a scuola, era un racconto; e fu poi sempre così. Ma divenni uno scultore, non uno scrittore, e per sedici anni mi guadagnai faticosamente la vita intagliando il legno. La povertà mi seguiva come un’ombra, che prese infine il sopravvento e, nel 1960, senza saper nulla di commercio, senza una particolare abilità e con molta confusione in testa, mi ritrovai a passare le domeniche dietro a una scrivania nel corridoio di un ufficio, cercando di comporre degli slogan pubblicitari per tubi di metallo, sherry britannico e pollo. Non ero bravo, ma avevo una macchina per scrivere e tanto tempo a disposizione. Mi misi di nuovo a scrivere storie. Ero venuto in Inghilterra, che conoscevo solo da Greyfriars e dalle ragazze di Chalet School, dai romanzi polizie-
In A Bit on the Side quel primo incontro appartiene già al passato: da allora ce ne sono stati molti altri. Nel caffè giapponese la aiutò a togliersi il soprabito che aveva ancora una leggera traccia di profumo... Dal tavolino a cui sempre sedevano, dallo stesso lato in modo da poter vedere la strada dove gli impiegati stavano cominciando a passare frettolosi, lei lo osservò mentre si tastava la tasca della giacca per assicurarsi che ci fossero le sigarette e l’accendino. Quella mattina c’era qualcosa di diverso; attraversando Chiltern Street aveva sentito, solo per un istante, che la loro relazione amorosa non era più quella del giorno prima... «Tutto bene?», chiese. «Tutto bene?». Non fece trapelare ansia nel tono della voce; non era necessario, perché avrebbe dovuto esserlo? Conosceva la suscettibilità dell’amore: era quasi sempre assurda. «Certamente», rispose lui, poi arrivò il loro caffè, il croissant per lui, la cameriera giapponese sorridente. «Certamente», ripeté, spezzando in due il croissant. Che siano alimentate dall’amore o dominate dall’ostilità, le relazioni umane, quando le isoliamo, sono quasi dei racconti in sé. Presentate come il dettaglio di un disegno più ampio, possono perdere una parte della loro forza, un poco della loro essenza. Da sole sono tutto. (Traduzione di Maria Sepa)
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schi, da Dickens e dalle sorelle Brontë. L’Inghilterra era straordinaria. I suoi formalismi erano una continua fonte di sorpresa al pari della sua tranquilla eccentricità, delle segrete passioni, dello humour. Le storie che battevo su una Remington scassata nel corridoio di un ufficio di Londra erano tutte ambientate in Inghilterra, e scaturivano dalla curiosità per un mondo che non mi era familiare. Con il tempo arrivai a capire che la narrativa — breve o lunga che sia — non ha regole o guide precise, che la creazione è una faccenda privata, quasi segreta, a cui spesso si arriva in modi misteriosi. Capii che un’idea per un racconto — che poteva avere origine da un’osservazione sentita per caso in un caffè affollato o da un incidente per strada, da una notizia di giornale o da nulla in particolare — è un inizio senza nessuna garanzia di avere uno svolgimento e una fine, e neppure di essere seguito da un’altra frase. Imparai che fare cambiamenti — anche estesi — non è sempre segno di irrequietezza, ma fa semplicemente parte del processo creativo, ed è anche fonte d’ispirazione.
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Le mie storie sono spesso variazioni su un tema: è una delle caratteristiche di questa forma. Di una relazione umana si può scrivere in molti modi, dato che presenta molti aspetti e inflessioni. La sua breve o lunga durata può essere attraversata da tutte le emozioni possibili. O da nessuna. Ecco come si sviluppano alcuni miei racconti. In A Mee-
Con il passare degli anni arrivai a capire che la narrativa, breve o lunga che sia, non ha regole o guide precise, che la creazione è una faccenda privata, quasi segreta, a cui spesso si arriva in modi misteriosi
Elliott Erwitt, «California 1955», dal volume «Snaps» (Contrasto) che raccoglie l’opera del fotografo americano di origine russa nato a Parigi nel 1928
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per ogni viaggio
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In poche parole Istruzioni per l’uso Come nasce un racconto? Quali tecniche e quali segreti permettono di racchiudere in poche pagine una forza letteraria anche superiore a quella di un romanzo? Sono i temi centrali affrontati da questo testo inedito in Italia di William Trevor, grande maestro della «short story». Sono appena tornate in libreria, edite da Guanda, due importanti raccolte di racconti firmati da Trevor: «Uomini d’Irlanda» (pagine 197, e 11) e «Gli scapoli delle colline» (pagine 187, e 11)
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Percorsi Ricordi d’autore I libri della mia vita
Viva Liala di Roberta Scorranese
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Maggie O’ Farrell: tanto pathos, ma niente patetismi Due donne, due destini e, in mezzo, 50 anni di differenza. La Londra del secondo dopoguerra (Soho, Bacon e Freud) e quella di oggi (Starbucks, scandali, traffico). Ma niente foglie di limone, amori allo zenzero,
nessuna lezione di cioccolato. La mano che teneva la mia (Guanda) di Maggie O’ Farrell è un romanzo «femmina», non «femminile». La Austen senza gli svenimenti di Marianne Dashwood. Pathos, non patetismi.
La scrittrice di «Acciaio» racconta la sua storia d’amore con la lettura: dalla poesia, scoperta grazie a Pascoli, all’impegno politico, acceso da «Furore» di Steinbeck. Su tutto domina la magia dell’immedesimazione Perché è leggere, più ancora che scrivere, a rendere davvero immortali
FU COSÌ CHE DIVENNI ANNA KARENINA di SILVIA AVALLONE
i Silvia Avallone Poetessa e scrittrice «under trenta» Nata a Biella nel 1984, vive a Bologna dove si è laureata in filosofia. La sua raccolta di poesie «Il libro dei vent’anni» (Edizioni della Meridiana), ha vinto il premio Alfonso Gatto nel 2008. Il suo primo romanzo, «Acciaio» (Rizzoli, 2010), è stato un caso editoriale e ha ottenuto numerosi premi tra cui il Campiello Opera Prima, il Flaiano e il Fregene
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l mio primo sentimento di bambina nei confronti dei libri fu un miscuglio di gelosia e spirito di competizione. A una certa ora del pomeriggio vedevo mia madre sprofondare nel divano con un libro aperto sulle ginocchia, e non c’era più verso di attirare la sua attenzione. Restavo esclusa da quella specie d’incantesimo che invano tentavo con ogni capriccio di rompere. Non capivo come potesse diventare così assente, infastidita dal citofono e dalle telefonate. Mi convinsi che nei libri ci fosse qualcosa di diabolico. E il diabolico attrae. La rivoluzione accadde un pomeriggio, imparando a memoria una poesia di Pascoli, Novembre. La ripetevo affacciata a una finestra che dava su un orto dietro la casa. Era una giornata invernale e luminosa, come quella descritta dal poeta un secolo prima. Di colpo mi accorsi che gli orti della poesia stavano ingaggiando una lotta con quello reale. L’aria che «gemmea» tra le parole aggiungeva qualcosa a quella del mio pomeriggio. E «l’estate fredda dei morti» scoccava come una rivelazione non sulla pagina, ma sul vetro della mia finestra. Con i primi romanzi scoprii che tutte le cose vietate potevo farle dentro i libri, potevo diventare un eroe o un farabutto, Raskolnikov o Anna Karenina; in ogni caso, mi facevo più grande, immedesimandomi acquistavo poteri sconosciuti. La vita nell’altrove delle pagine era straordinariamente più interessante, piena ed esatta della mia. E il bello era che il libro, una volta chiuso, non finiva. Continuava a tessere la sua trama nella memoria, modificava la mia vista, il mio udito, il
mio tatto. Cominciai a interessarmi alle pagine di politica dei quotidiani dopo aver letto Furore di Steinbeck: l’ingiustizia che avevano patito i mezzadri dell’Oklahoma espropriati delle loro terre era diventata la stessa ingiustizia che dovevo sconfiggere anch’io. Fu Pasolini a farmi stringere amicizia con i ragazzi che fumavano in sella a motorini senza casco e non volevano proprio saperne della scuola. Il mondo si svelava attraverso i libri che illuminavano i bar, le piazze, le persone. Mi guidavano a esplorare i luoghi meno raccomandabili, a combattere l’ipocrisia e l’indifferenza. Le borgate di oggi, immerse nella luce radiosa che Pasolini ne aveva estratto ieri. Da Nord a Sud ho ritrovato i bagliori vivi di Le ceneri di Gramsci. Ogni balordo, ogni donna perduta, ogni sconfitto
Una lettrice sprofondata in un’amaca sospesa tra due grattacieli: immagine dell’illustratore norvegese Bjorn Rune Lie (Ikon Images/Corbis)
RRR Modelli Fu Pasolini a farmi stringere amicizia coi ragazzi che fumavano in sella a motorini e non andavano a scuola. Le sue opere mi guidavano a esplorare i luoghi meno raccomandabili
Dall’alto in senso orario: quattro grandi narratori capaci di far «entrare» il lettore nei loro romanzi: Fëdor Dostoevskij (1821-1881), Lev Tolstoj (1828-1910), Truman Capote (1924-1984) e John Steinbeck (1902-1968)
che conoscevo tra le pagine di un libro, diventava un caro amico per il quale costruire una società migliore. Dietro ogni volto, fosse anche il più sfigurato, immaginavo in ogni dettaglio la storia che lo aveva condotto a quel punto: fino alla macchinetta del videopoker avviata all’infinito, fino allo sguardo disilluso da una panchina di fronte alla stazione. Perché «la vita non serve a vincere», come dice in modo disarmante un personaggio secondario di Le correzioni di Franzen. I libri non mi hanno mai rivelato a cosa serva davvero, ma mi hanno insegnato che anche quella degli altri mi riguarda. I romanzi che più ho amato, come A sangue freddo di Truman Capote e La Storia di Elsa Morante, hanno scatenato un autentico putiferio. Nel 1966 un’intera nazione aspettava con ansia le puntate sul «New Yorker» per continuare a leggere la storia che Capote aveva estratto dalle cronache quotidiane di provincia. La storia vera di un assassinio atroce. Ma la verità nel romanzo di Capote non coincide con la cronaca dei fatti, non è un concetto o un’informazione. Si chiude il libro e si resta con il mistero intatto: non si possiede niente. Lo sguardo però ha cambiato direzione. Truman Capote è andato ad assistere all’impiccagione di due feroci «nessuno», e Perry E. Smith e Richard E. Hickock sono stati salvati. Non dalla legge, ma dalla lettura. Il loro tempo non è più quello di una vita soltanto, ma d’intere generazioni. Ho amato i libri che hanno indignato, scandalizzato, e che oggi sono diventati classici. Li ho amati perché leggerli è stato, e continua a essere, un passo in più verso la democrazia. Crooks, il garzone di colore di Uomini e topi, a un certo punto dice a un altro emarginato: «I libri non servono a niente. A un uomo occorre qualcuno... che gli sta accanto». Come dargli torto? I libri non hanno mai fornito armi o soluzioni, la loro compagnia è simile a quella dei fantasmi. Ti spiattellano davanti gli stessi problemi che ti pone la vita. Magari centuplicati, e con maggiore ferocia. Eppure qualcosa di nuovo accade. Nella lettura non s’incontrano soltanto personaggi, epoche, paesaggi. Nascosto in un punto buio e minuscolo del testo, quasi in una buca a grandezza di formica, c’è un’altra persona. Qualcuno per cui talvolta proviamo, anche senza conoscerlo, un’infinita vicinanza. Penso a un poeta russo pochissimo tradotto. Si chiama Boris Ryžyj, è nato in una regione degli Urali nel 1974, e nel 2001 si è impiccato nella sua casa. In una poesia, scritta in una camera forse d’ospedale, la vita gli appare da una nebbia, e lui cerca di sollevarsi dal letto perché vuole guardarla negli occhi. «Guardarla, mettermi a piangere, / e non morire mai». Questo verso finale e sospeso, sussurrato ai suoi lettori prima di fare l’esatto contrario, ci fa sentire nudi. «Non morire mai»; è una frase quasi impronunciabile. Ma in qualche modo, in una pur minuscola misura, la nostra lettura ha esaudito il suo desiderio. Ciascun lettore, nel silenzio della sua stanza o nel fragore di un vagone del treno, ha desiderato la stessa cosa. © RIPRODUZIONE RISERVATA
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44 LA LETTURA CORRIERE DELLA SERA
Percorsi Reportage per immagini
Mondine d’Africa
Viaggio a Zanzibar
Le raccoglitrici di alghe nell’oceano Fotografie di DANILO DE MARCO
Testo di ERRI DE LUCA
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enso alle mondine sui campi allagati del riso. Fazzoletto in testa a protezione del sole e degli insetti, gambe in acqua tutto il giorno a togliere erbacce intorno alla delicata piantina in crescita. Lavoravano un’ora in più degli uomini, pagate di meno. Erano braccianti di acqua dolce. Il genio contadino della specie umana ha piantato ovunque. Adesso imparo che anche il mare è lavorato a campo. Donne di Zanzibar, l’isola degli schiavi e delle spezie, davanti alla costa della Tanzania, piantano e coltivano alghe nell’Oceano Indiano. Le loro gambe se ne stanno a mollo nel salmastro lungo l’arco del giorno, i loro corpi trascinano a riva i sacchi del raccolto. Le alghe essiccate al sole perdono quasi tutto il loro peso, che è venduto a secco. Buffo il progresso del mondo, che scopre il valore commerciale di uno dei più antichi organismi viventi della terra. L’alga fu così diffusa, da procurare in una remota era geologica perfino glaciazioni. Oggi se ne estraggono qualità per prodotti di bellezza. Oggi le alghe gonfiano i guadagni dell’industria cosmetica, che sfrutta la lusinga dell’eterna giovinezza. Allisciano l’epidermide di chi si può permettere l’acquisto della specialità a spese della pelle corrosa di un numero segreto e sconosciuto di donne contadine dell’Oceano. Parlano la lingua swahili della costa orientale del continente Africa, che imparai mezza vita fa durante un periodo di lavoro gratuito in un villaggio della Tanzania. Ricordo che chiamano il mare «bahari», il cielo «angani», la terra «ardhi». Il verbo amare si dice «kupenda», Dio è «Mungu». Ho in testa, conficcate da qualche parte della nuca, le risate delle donne che venivano al pozzo, sopra il quale una pala a vento procurava nel tubo il vuoto per risucchiare in superficie l’acqua. Riempivano le anfore, le giare, i vasi, i recipienti vari, venendo da lontano. Poi si accovacciavano a terra, facendosi posare dalle altre il carico sul panno arrotolato della testa. Si sollevavano poi dritte e leggere, avviandosi scalze verso il loro ritorno. Ridevano d’allegria per il dono dell’acqua procurata da noi, pallidi spaesati della specie assai varia e assortita degli umani. Il corpo delle donne era servo dell’acqua, della terra, degli uomini, dei figli. Era capace di reggere il peso del mondo in perfetto equilibrio sulla testa senza perderne una goccia. Ora ritrovo quei corpi nelle inquadrature del buon vagabondo Danilo De Marco. Lui non ruba scatti, non scippa la forma di un corpo senza il permesso e l’invito. Prima di usare la sua vecchia reflex da pellicola, sta da pellegrino accanto alla sua tappa, consumando il lento intervallo di ogni accoglienza. La sua premura mi riporta a un mio tempo di vita severa, esposta al sole dei 7 gradi di latitudine a sud dell’Equatore, spiccicando sillabe di lingua swahili. Per rimborso a sera masticavo un piatto di farina di manioca, dei legumi e piccole banane dolcissime, inguaiate dall’insidia dell’ameba e delle dissenterie. Allora era al governo della vita il verbo condividere, che non arriva a fare parti uguali, ma vuole avvicinarsi a quel traguardo estremo. Perciò stanno piantate sotto la superficie dei miei sensi, le risate delle donne dei villaggi al pozzo, i loro denti musicali più dei tasti del pianoforte. Nel bagagliaio delle felicità ritrovo l’eleganza pura dell’anfora che ondeggia a ritmo di milonga sopra i corpi delle donne, come un loro leggero copricapo. Ritorna mentre scrivo, la grazia del loro portamento che nessuna indossatrice al mondo potrà pareggiare. © RIPRODUZIONE RISERVATA
L’acqua e i volti Sguardi, volti, gesti dalle coste di Zanzibar. Qui le donne dei villaggi raccolgono le alghe come un tempo le mondine raccoglievano il riso. Una fila di arbusti segna il confine tra il mare e l’entroterra. Quando la marea scende, le donne entrano in acqua. Escono solo dopo molte ore, trascinando a riva sacchi pesanti e cordoni di alghe bagnate, che poi restano appese per ore sotto il sole. Una volta seccate, le alghe vengono vendute per pochi dollari, e usate come materia prima nella cosmesi e nella cucina orientale
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CORRIERE DELLA SERA LA LETTURA 45
Manipolazioni di Enrico Mannucci
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Il ritorno dei pellerossa contro gli alieni Riappare un saggio celebre della cultura americana: Il ritorno del pellerossa (Guanda) di Leslie Fiedler, su come in libri e film gli indiani siano inesorabilmente «altri», da sterminare. Ed è uscito da poco al cinema
Cowboys & Aliens. Qui, gli indiani son parte della disperata resistenza umana. «Noi abbiamo un vantaggio: loro ci sottovalutano», dice degli alieni l'eroina. Potevano finir peggio: reclutati contro ulteriori minacce.
L’autore Danilo De Marco è fotografo indipendente e vive tra Parigi e il Friuli. Collabora con i più importanti quotidiani italiani e stranieri. Ha partecipato a molte esposizioni fotografiche e scritto libri che raccontano soprattutto le «R/Esistenze» dei popoli del mondo privati dei loro diritti e ingiustamente sottomessi alla legge del più forte. Da otto anni si sta occupando di un lavoro fotografico sui volti dei partigiani europei
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Il genio contadino dell’uomo ha seminato e piantato ovunque. Compreso nelle acque salate davanti all’isola degli schiavi e delle spezie. Per lavorare un prodotto devastante e suggestivo, capace di provocare glaciazioni e oggi di gonfiare i guadagni dell’industria cosmetica
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46 LA LETTURA CORRIERE DELLA SERA
Percorsi Patrimonio italiano Beni culturali da difendere
Il litorale domizio della Campania, celebrato da Goethe e Dickens per la sua bellezza è stato deturpato e sfregiato dai nuovi barbari con uno sviluppo edilizio selvaggio Eppure qui trascorse i suoi ultimi giorni l’eroe che aveva sconfitto Annibale
di GIAN ANTONIO STELLA
I vandali di Scipione Sterpi e poltiglia di cemento abusivo nel buen retiro del generale romano
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accontano che nel 1343 Francesco Petrarca fu costretto a fermarsi, mentre cercava di raggiungere la leggendaria tomba di Scipione l’Africano, perché l’antica via era stata inghiottita dalla selva. Se invece ci provasse adesso, magari scendendo lungo la stupenda via Domitiana voluta e lastricata dall’imperatore Domiziano sul tracciato dell’ancora più antica via Appia, sbatterebbe sul muro di cinta di una casa. Costruita più o meno abusivamente proprio lì, a poche decine di metri da Liternum. Nel più totale disprezzo per la storia, per la nobiltà del basolato romano rimasto qua e là miracolosamente integro, per la memoria di quello che forse è stato il più grande comandante militare di ogni epoca. Il grande poeta aretino amava come nessun altro il trionfatore della battaglia di Zama. E gli dedicò quello che considerava, a dispetto perfino del Canzoniere, il suo capolavoro in latino rimasto incompiuto, Africa, così amato dai contemporanei da fargli guadagnare un’immensa fama e l’incoronazione in Campidoglio. E Goffredo Mameli collocò l’Africano nel cuore stesso dell’inno nazionale: «Fratelli d’Italia / l’Italia s’è desta / dell’elmo di Scipio / s’è cinta la testa».
Eppure l’Italia ha consentito lo stupro del «buen retiro» in cui Scipione, sentendosi tradito da Roma, aveva deciso di passare gli ultimi anni di vita. Certo, tutto il litorale domizio è stato stravolto. Quando ci passavano, i viaggiatori del Grand Tour restavano incantati. «S’aprì innanzi ai nostri occhi una bella pianura», scriveva nel 1786 Johann Wolfgang Goethe, innamorato di quella Campania Felix dai profili morbidi e dagli orti lussureggianti. Mezzo secolo dopo Charles Dickens, scosso dalla tappa a Fondi («Un immondo canale di fango e di rifiuti serpeggia lungo il mezzo della squallida via, alimentato da sconci rivoletti che colano da povere case. Non esiste porta o finestra o imposta in tutto l’abitato; non un tetto, un muro, un palo, un pilastro che non sia rovinato, sgangherato e fradicio») restò abbagliato dalla bellezza di quel-
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Il Lago Patria si trova a nord di Pozzuoli: è un ammasso di casette, pergolati, condomini e ristorantoni Tutti orrendi
la «strada piana che si allunga in mezzo a viti tenute a tralci che paiono festoni tirati da un albero all’altro».
Oggi il Lago Patria sul quale si affaccia l’omonima contrada, a nord di Pozzuoli, è un ammasso di casette orrende, pergolati orrendi, condomini orrendi solcati da un delirio di strade e stradine e aborti di superstrade a quattro corsie e ristorantoni simil-Hollywood e pasticcerie neoclassiche e bar da due ettari ornati da insegne spropositate. Una poltiglia di cemento che, nel totale disinteresse per le regole, ha ingoiato tutta la costa e gli stessi ricordi di Edoardo Bennato: «A Licola, sotto la canicola / si giocava a rugby, / tutti i giovedì, / e al limite, di un caldo più dell’Africa / io contavo i palpiti, / del tuo cuore!...». Siamo a un tiro di schioppo (o meglio: un tiro di bazooka e di kalashnikov) da Giugliano e Casal di Principe, terre di camorra e della Gomorra di Roberto Saviano, che tra il Garigliano e il Lago Patria, per trent’anni hanno «assorbito tonnellate di rifiuti, tossici e ordinari». Publio Cornelio Scipione arrivò qui nel 184 a.C. Deluso, amareggiato, roso dalla convinzione di essere stato tradito da quella Roma che aveva salvato da Annibale e aveva contribuito come nessun altro a rendere Eterna. Aveva vinto lui la Seconda guerra punica che, come racconta Montanelli nella sua Storia di Roma, avrebbe segnato «per secoli e secoli le sorti del Mediterraneo e dell’Europa occidentale, perché (…) diede a Roma la Spagna, il Nord Africa, il dominio sul mare e la ricchezza». Il prezzo dello scontro con i cartaginesi era stato pesantissimo: «In tutto erano rimasti sul campo trecentomila uomini, che costituivano il fior fiore dell’agricoltura e dell’esercito. Quattrocento città erano andate distrutte. La metà delle fattorie saccheggiate, specie nell’Italia del Sud, che appunto da allora non si è mai completamente ripresa». Era un idolo, Publio Cornelio Scipione. Nato nel 235 a.C., figlio e nipote di due generali, Pu-
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CORRIERE DELLA SERA LA LETTURA 47
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Martedì 15, ore 18 Sala Buzzati
Giovedì 17, ore 17 Sala Montanelli
«Cattolici e partecipazione politica in Italia — Democrazia Cristiana: cinquant’anni alla guida del Paese». Sul tema, sono previsti gli interventi di Luca Diotallevi, Agostino Giovagnoli, Maurilio Guasco; coordina Antonio Carioti.
«Luigi Albertini nella storia d’Italia 1871-1941 — Albertini giornalista». Saluto di Ferruccio de Bortoli, presiede Piergaetano Marchetti, introduce Fulvio Cammarano. Con Paolo Mieli, Simona Colarizi ed Enrico Decleva.
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blio il Vecchio e Cneo, morti in guerra contro Annibale, gettato nella mischia già a 17 anni nella battaglia contro i cartaginesi sul Ticino, salutato come un eroe già dopo la disfatta di Canne per avere portato in salvo i legionari superstiti, proconsole in Spagna a 24 anni, console a 30, scrive Montanelli che aveva tutto per piacere: «Era bello. Era eloquente. Portava un grande nome. Godeva fama di pio, cortese e giusto. Non intraprendeva nulla, né di pubblico né di privato, senza prima chiedere il parere degli dèi, raccogliendosi a pregare nel tempio. E per di più era riuscito a farsi considerare dai suoi compatrioti fortunato, cioè "raccomandatissimo" dal cielo». Prese Cartagena in Spagna che pareva imprendibile, buttò fuori i cartaginesi dalla penisola iberica, portò la guerra in Africa a casa del nemico tessendo preziose alleanze, vinse la battaglia epocale di Zama, a sud di Cartagine, con una botta di genio, sventando la carica degli elefanti terrorizzandoli con un fracasso di trombe e urla e tamburi, costrinse Annibale alla resa, tornò in patria, fu rieletto console, si ritirò a vita privata e si ributtò poi nella guerra per aiutare il fratello Lucio nella prima campagna in Asia contro Antioco III di Siria, vinse, tornò carico di gloria. Fu lì che la sua storia di trionfi si inceppò. Catone, convinto che i trattati conclusi con Annibale, Filippo V di Macedonia e Antioco III fossero stati troppo generosi, gli chiese conto dei soldi ottenuti come bottino di guerra. Dice Montanelli che «era una domanda perfettamente legittima, ma che sorprese Roma perché revocava in dubbio la correttezza del trionfatore di Zama, che in realtà era superiore a ogni sospetto. Non si capisce bene cosa spingesse a quel passo Catone, che non poteva certamente ignorare l’integrità dell’Africano e la sua immensa popolarità. Forse egli volle semplicemente ristabilire il principio, che stava cadendo in disuso, che i generali, quali che fossero il loro nome e i loro meriti, questi rendiconti li dovevano». Scrive Tito Livio: «Per far ottenere ad Antioco una pace a migliori condizioni, Scipione avrebbe ricevuto seimila libbre d’oro e quattrocentottanta d’argento più di quanto aveva versato all’erario... Questa è la somma che tramandano sia stata addebitata allo stesso Publio Scipione, che avrebbe fatto portare dal fratello Lucio il libro dei conti e, sotto gli occhi del Senato, lo avrebbe stracciato con le sue stesse mani, perché mentre lui aveva versato all’erario duecento milioni, gli si chiedeva conto di quattro milioni». Come osavano mettere in dubbio il suo onore? Mandato Catone a spasso, preparò i bagagli, raccolse un po’ di fedelissimi e si ritirò quaggiù, tra i canneti palustri che allora circondavano Liternum. Che doveva essere bella ma piuttosto inospitale se, come ricorda Patrizia Lonz nella tesi di laurea La riqualificazione turistico-culturale del litorale domizio, era considerata «ignobilis vicus». Narra la leggenda che, lasciandosi l’Urbe alle spalle per l’ultima volta, mormorasse Alcune immagini del sito dove sorgeva la villa di Scipione, ora abbandonato all’incuria. Servizio fotografico di Salvatore Di Vilio
La biografia
Il condottiero invincibile che cadde in disgrazia
Publio Cornelio Scipione detto l’Africano (235-183 a.C.) fu un protagonista della Seconda guerra punica. A soli 24 anni, nel 211 a.C., fu inviato in Spagna, dove prese in mano la situazione e liquidò la presenza cartaginese. Eletto console nel 205, l’anno successivo guidò un’audace spedizione in Africa, costringendo il comandante cartaginese Annibale a lasciare l’Italia. La resa dei conti tra le due superpotenze dell’Antichità avvenne a Zama, il 18 ottobre del 202 a.C. L’armata romana, agli ordini di Scipione, prevalse su quella cartaginese, guidata da Annibale. Da quel momento l’egemonia di Roma sul Mediterraneo non fu più in discussione e venne poi consolidata dallo stesso Scipione nella guerra contro il re Antioco III di Siria. In seguito però il condottiero cadde in disgrazia e preferì ritirarsi nella villa di Liternum, dove morì a 52 anni. Nella foto: un particolare del busto di Scipione l’Africano, risalente al I secolo d. C., conservato presso il Museo archeologico nazionale di Napoli.
amaro: «Ingrata patria, non avrai le mie ossa!» E così fu. Dove quelle ossa siano esattamente, però, non lo sa nessuno. Le cercò inutilmente, tra gli altri, all’inizio dell’Ottocento, anche François René de Chateaubriand: «Sono andato a Patria, l’antica Literno, non ho trovato la tomba ma ho vagato tra le rovine della casa che il più grande e più amabile degli uomini abitava in esilio». Un secolo abbondante più tardi il «Mattino di Napoli» del 20 maggio del 1934 spiegava che gli scavi archeologici incoraggiati dal Duce sotto la guida del grande Amedeo Maiuri avevano portato alla scoperta «sotto una folta boscaglia e cumuli di macerie» di una basilica, un teatro, un tempio, un Capitolium, statue imperiali… Liternum! L’emozione per la scoperta, però, racconta Antonio Cangiano in un libro in uscita dal titolo Non solo Pompei, è di breve durata. Nel 1960 «il comitato promotore dei Giochi del Mediterraneo che si disputano quell’anno a Napoli sceglie proprio l’area a cavallo del foro dell’antica Liternum per impiantare un nuovo edificio. Sui terreni al di sotto dei quali insisteva l’antica colonia romana, e dove si presume si conservino ancora i resti di gran parte delle abitazioni civili — domus e botteghe — vennero realizzate le strutture di un moderno villaggio olimpico, destinato ad ospitare gli atleti della nazionale jugoslava. Oggi quel villaggio è divenuto un parco privato; all’incirca 400 anime che vivono su una nuova probabile "Pompei"».
Le rovine abbandonate Circondate da una palizzata, accudite dalla Pro Loco e da volontari, le rovine di Liternum sono lì abbandonate in mezzo allo sfascio. Due bambini si avventurano tra gli sterpi. Raccontano che il nonno dieci anni fa «è morto qui», proprio vicino ai resti della basilica, «ucciso da un toro impazzito». Mostrano una grande urna scura: «Scipione l’Africano sta là». Spiegano gli archeologi che no, non è così, che quella specie di sarcofago di pietra fu portato qui, per quel che se ne sa, da Maiuri. Forse perché Mussolini voleva che i balilla condotti a rendere omaggio avessero qualcosa davanti cui mettersi sull’attenti e stendere il braccio nel saluto romano. Vai a sapere… Guardando oltre il canneto il lago, sulla sinistra, in fondo a una fila di case abusive di rara bruttezza dove si è esercitata la fantasia perversa di geometri e manovali in un allucinato incastro di balconi e terrazzini, balaustre e comignoli, scalette e tettoie, si vedono degli archi. Sopra, hanno piazzato lo scheletro osceno di una villa fuorilegge, bloccata a metà lavori dal soprassalto di qualche giudice o qualche vigile urbano fino ad allora assai distratto. Seneca sì, fece in tempo a vederlo, il «buen retiro» di Scipione. Ne scrive nelle Epistulae Morales ad Lucilium: «Ti scrivo mentre me ne sto in riposo proprio nella villa di Scipione l’Africano, dopo aver reso onore al suo spirito e all’ara che, immagino, è il sepolcro di un così grande uomo. Sono convinto che la sua anima è ritornata in cielo, sua origine, non perché comandò grandi eserciti (...) ma per la sua straordinaria moderazione e il suo amore di patria». Dice la storia che l’antica Liternum fu spazzata via nel 455, da Genserico e dai suoi vandali. Brutta gente, scrisse qualche anno dopo Vittore Vitense: «Scatenavano da ogni parte i loro battaglioni blasfemi contro la bellezza di quella terra fiorente, imperversavano distruggendo ogni cosa, annientando ogni cosa con il fuoco e con l’assassinio. Non risparmiarono neppure gli alberi da frutto, perché nessuno di quelli che avevano trovato rifugio nelle grotte, nei dirupi o in nascondigli di altro genere potesse sopravvivere al loro passaggio…». Eppure, a guardare come è oggi Liternum, ti viene in mente Antonio Cederna: i veri vandali «sono quei nostri contemporanei, divenuti legione dopo l’ultima guerra, i quali, per turpe avidità di denaro, per ignoranza, volgarità d’animo o semplice bestialità, vanno riducendo in polvere le testimonianze del nostro passato».
Una copertina un artista
Il coraggio di Ai Weiwei In Cina il suo nome è più prudente non pronunciarlo. «Il figlio del poeta Ai Qing», azzarda qualcuno. È così: Ai Weiwei discende da uno dei più considerati poeti cinesi del Novecento. Ed è giusto: l’intreccio di pratica artistica e impegno etico di Weiwei, classe 1957, ha forse origine negli anni feroci in cui, bambino, vedeva il padre condannato a pulire cessi in Xinjiang, terra desolata. Ai Weiwei ha studiato all’Accademia del cinema ma a 24 anni si è immerso in un’intensa bohème a New York fino al ’93. Poi l’ascesa nell’arte. Opere che recuperano pezzi d’antico, scarti dalla modernizzazione cinese. Un sottofondo di furore contro le costrizioni del potere. Quindi il Nido d’Uccello, stadio per Olimpiadi nelle quali non si riconobbe. E campagne: contro la censura del web o per censire i bimbi morti nel terremoto del 2008 per scuole malfatte. Alla fine, detenuto 81 giorni senza processo, con accuse non formali d’evasione fiscale. La storia non è finita.
Marco Del Corona
Supplemento al Corriere della Sera del 13 novembre 2011 - Anno 1 - N. 1 Direttore responsabile Condirettore Vicedirettori
Supplemento a cura della Redazione Cultura
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Circondate da una palizzata, le rovine della città sono abbandonate in mezzo allo sfascio. Due bambini mostrano un’urna scura: «Scipione l’Africano sta là». Spiegano gli archeologi che non è così, quella specie di sarcofago di pietra fu portato qui sotto il fascismo
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Ferruccio de Bortoli Luciano Fontana Antonio Macaluso Daniele Manca Giangiacomo Schiavi Barbara Stefanelli Antonio Troiano Paolo Beltramin Stefano Bucci Antonio Carioti Serena Danna Dario Fertilio Cinzia Fiori Luca Mastrantonio Pierluigi Panza Pierenrico Ratto Cristina Taglietti Gianluigi Colin
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48 LA LETTURA CORRIERE DELLA SERA
DOMENICA 13 NOVEMBRE 2011