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I nomi del futuro Stefano Ardito

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I nomi del futuro

Guido Brizio, presidente nel 1939 della “Sezione dell’Urbe” del Cai, ha firmato l’espulsione dei soci ebrei. È giusto che una ferrata del Gran Sasso lo ricordi anche oggi?

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di Stefano Ardito

Un secolo fa un alpinista di Roma cambia la storia del Gran Sasso. Si chiama Enrico Iannetta e nel 1916, da ufficiale degli alpini, è stato tra i protagonisti della conquista del Passo della Sentinella, sulle Dolomiti di Sesto. Dopo il ritorno della pace ha scoperto le pareti del Monte Morra, che diventano per decenni la “palestra” di roccia della Capitale, ed è sceso nei Meri del Soratte, degli impressionanti pozzi a cielo aperto che raggiungono i 135 metri di profondità. Il 19 luglio del 1922, con Michele Busiri, Mario Giaquinto, Raffaello Mattiangeli, Raffaele Rossi e Giulio Tavella, Iannetta compie la prima salita del Paretone, la Est della Vetta Orientale del Corno Grande, la muraglia più alta del Gran Sasso e dell’Abruzzo. È un’ascensione di difficoltà contenuta ma interminabile ed esposta. Due giorni dopo, con Busiri e Tavella, Enrico vince la parete Est del Corno Piccolo. Nel 1923, completa l’esplorazione della più bella vetta rocciosa del massiccio salendo la cresta Ovest (o delle Spalle) e l’affilata cresta Nord-est, con difficoltà fino al quarto grado. Con lui è il lombardo Aldo Bonacossa, autore della prima salita con gli sci del Corno Grande. Enrico Iannetta non ama la pubblicità, ma per gli alpinisti di Roma e del Gran Sasso è un esempio. Negli anni Venti, con le “tendopoli” della Sucai (la Sottosezione Universitaria, che ha contribuito a fondare) sale l’Ortles, il Sassolungo e altre grandi cime delle Alpi. Poi, nel 1939, Enrico lascia la Sezione di Roma del Cai, che da qualche anno è stata ribattezzata “dell’Urbe” per volere del regime. Il motivo è l’espulsione (anzi, “epurazione”) della moglie Agnese Ajò, escursionista e sciatrice di origine ebraica. Al ritorno della pace e della democrazia in Italia, il Cai non reintegra con le scuse i soci espulsi e sopravvissuti alla Shoah. Una parte di loro, come Ugo Ottolenghi di Vallepiana, decide comunque di rientrare. Altri, come Agnese Ajò e suo marito, non lo fanno.

LE “EPURAZIONI”

Conosco da anni questa triste pagina di storia grazie a Sandro Iannetta, il figlio della coppia, e l’ho raccontata più volte nei miei articoli e nei miei libri. Nello scorso gennaio, una ricerca dell’amico e collega Lorenzo Grassi, intitolata L’epurazione dei soci ebrei dalla Sezione dell’Urbe del Centro Alpinistico Italiano l’ha arricchita di molti particolari. Lorenzo parte dalla “circolare riservatissima” sulla “epurazione dei soci di razza non ariana” inviata il 5 dicembre 1938 alle Sezioni, accenna a casi celebri come quelli di Vallepiana e Sinigaglia e al cambio di nome dei rifugi dedicati a “non ariani” come il

Sotto, Enrico Iannetta in arrampicata al Morra

A destra, in senso orario, un documento che testimonia l’epurazione del socio Cai Aldo Segre; l’indicazione per la ferrata Brizio alla Sella del Brecciaio (Gran Sasso) e la tessera Cai di Agnese Ajò

Luzzati al Sorapiss, il Levi in Val di Susa e il Sonnino al Coldai. Poi si concentra su Roma, dove trova nell’archivio sezionale i documenti sull’epurazione di 9 soci. Ma la presenza di 127 soci ordinari “dimessi” e di 46 soci aggregati “non rinnovati” dimostra, secondo lui, che gli epurati sono “circa 150”. Tra loro, oltre ad Agnese Ajò, sono Giovanni Enriques, futuro fondatore della casa editrice Zanichelli, e Carlo Franchetti, al quale nel 1959 verrà dedicato un rifugio al Gran Sasso. La ricerca di Grassi, che l’allora Presidente Vincenzo Torti riceve in anteprima, e di cui scrivo a gennaio sul quotidiano romano Il Messaggero e sul sito Montagna.tv, ha il merito di riportare all’attenzione del Club alpino e dei suoi soci una pagina di storia che finora era rimasta nascosta. L’articolo di Angelo Soravia, Fabrizio Russo e Milena Manzi, e il loro intervento all’Assemblea dei Delegati di Bormio, indicano che un percorso virtuoso si è aperto.

LA FERRATA DEDICATA A BRIZIO

Tra Roma e il Gran Sasso, però, c’è un’altra questione da affrontare. Riguarda Guido Brizio, il “fervente patriota giuliano” (in realtà era nato a Pavia) che diventa nel 1939 Presidente della Sezione dell’Urbe, e che firma le espulsioni di Ajò, di Enriques e degli altri soci “non ariani”. Dopo la sua morte nel 1952, la Sezione di Roma, coadiuvata da quella dell’Aquila, costruisce e gli dedica una ferrata che collega Campo Imperatore con la Sella dei Due Corni e il Corno Piccolo, e che da qualche anno è stata restaurata dal Parco nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga. «Brizio è stato un convinto esecutore delle leggi razziali. Il nome della ferrata va cambiato», spiega Lorenzo Grassi. «Potrebbe avere un nome geografico, come “del Vallone dei Ginepri”, o essere dedicata a un altro presidente del Cai Roma come Franco Alletto. Sarebbe suggestivo dedicarla a un socio espulso nel 1939 come Agnese Ajò, oppure a lei e a suo marito Enrico Iannetta». L’autore di queste righe sa bene che sostituire i nomi, in montagna e non solo, è un passaggio traumatico e doloroso. Però il Mount McKinley è diventato Denali, e la vetta del Kilimanjaro dedicata al Kaiser Wilhelm di Germania oggi si chiama Uhuru, che significa “libertà” in Swahili. In Italia Littoria è diventata Latina, il Foro Mussolini di Roma è stato ribattezzato Foro Italico, ma l’obelisco che celebra il capo del Fascismo è ancora lì. Non so se sia giusto o meno cambiare il nome della ferrata che ricorda Guido Brizio, ma discuterne seriamente è necessario. Solo facendo questo il Gran Sasso, e il resto d’Italia, possono affrontare seriamente il futuro.

Non so se sia giusto o meno cambiare il nome della ferrata che ricorda Guido Brizio, ma discuterne è necessario

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