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Racconti sotterranei | Quando la montagna decide per noi

Intervista a Michelangelo Frammartino, regista del film Il buco, Green Drop Award 2021 all’ultima Mostra del cinema di Venezia per il racconto dell’esplorazione, nel 1961, dell’Abisso del Bifurto

di Luca Calzolari - foto di Natalino Russo

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«Il buio è stato cruciale. Primo perché è esattamente quello che ci ha condotto nel Bifurto, è la ragione per cui siamo andati lì dentro. E poi perché mi ha permesso di non dirigere le persone, di raccontare un’esperienza diretta, non mediata dagli attori». A parlare è Michelangelo Frammartino, classe 1968, regista di uno dei film più apprezzati alla 78a edizione della Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, Il buco, vincitore del premio speciale Green Drop Award. Il film racconta l’esplorazione dell’Abisso del Bifurto, in Calabria, avvenuta nel 1961 da parte di un gruppo di giovani speleologi piemontesi.

Che cosa ha comportato essere immersi nel buio?

Frammartino con Nicola e Antonio Lanza, due interpreti del film

«La cosa più importante è stato l’indebolimento dello “sguardo” dell’autore, della figura del regista, a favore del rafforzamento della realtà. È una cosa a cui lavoro da molto, la decostruzione della figura del regista. E lì viene un po’ meno, perché gli speleologi, con la loro luce frontale, esercitano uno sguardo più potente di quello del regista».

E questo cosa comporta?

«Che le scene si devono accogliere, più che immaginare».

Tecnicamente quali sono state le difficoltà maggiori?

«Lo sforzo maggiore è stato trasportare il materiale, soprattutto quello audio. E poi il fatto che Renato Berta (il direttore della fotografia, ndr) non potesse scendere in grotta ci ha costretti a portare con una fibra ottica le immagini al suo schermo. Questo ha significato tanta fatica e tanto tempo. Dopo sei settimane eravamo distrutti».

Ci sono state anche opportunità non previste?

«La mancanza di lucidità produce sorprese a volte felici. Nel nostro caso la sorpresa è stata la bellezza del materiale sonoro, grazie al lavoro di Simone Olivero e Paolo Benvenuti (i fonici, ndr). Devo dire che, nonostante la fatica enorme legata alla distribuzione dei microfoni nella grotta, il suono ha inciso sulla scelta narrativa. Perché occhio e orecchio, in grotta, fanno due lavori diversi e i suoni sono più democratici, lasciano la libertà di immaginare, come direbbe Gobetti…».

Poca luce, difficoltà di movimento, costrizioni logistiche: come si compensano, dal punto di vista registico, questi ostacoli?

«Non vanno compensati: ci si costringe proprio per ridurre la propria libertà. Sono ostacoli importanti e noi siamo andati lì sotto proprio alla ricerca di costrizione, per far sì che la montagna decidesse per noi, per far sì che la montagna avesse voce in capitolo nella regia».

Lei è speleologo e probabilmente si muoveva in un ambiente famigliare, ma qualcuno ha preso confidenza con le grotte durante la lavorazione del film? E si è appassionato?

«Sono orgoglioso quando mi dicono che sono uno speleologo, lo sono diventato durante i sopralluoghi fatti per il film, che sono durati qualche anno. È stata dura, perché il Bifurto è un abisso molto verticale e i pozzi mi hanno sempre fatto paura. Mi ha anche emozionato che qualcuno abbia preso confidenza con la speleologia proprio grazie al film. Penso a Davide Lonigro (assistente alla macchina, ndr), che è venuto per curiosità al corso di 1° livello e che poi è rimasto colpito da questo mondo sotterraneo. E lo dico perché abbiamo un debito con Davide, che è stato fondamentale per il film».

Gli attori che tipo di difficoltà hanno avuto?

«Per questioni di sicurezza cercavamo di proteggere gli interpreti, che erano gli ultimi a scendere in grotta (quando la troupe era già al lavoro da molte ore) e i primi a uscirne. Quindi la troupe era sfinita e gli interpreti erano freschi. D’altra parte non volevamo una recitazione drammatica, volevamo “presentare” una vicenda, non “rappresentarla”. Credo molto nell’esperienza, nella potenza di un film che racconta quello che sta accadendo».

Il film è stato molto apprezzato, e premiato: qual è a suo parere il suo punto di forza?

«Temevamo molto Venezia e ci ha colpito trovare rispetto, dappertutto. C’è chi lo ha amato, certo, ma anche chi non lo ha amato gli ha riservato rispetto, e questo è stato importante, per noi. Per rispondere direi che il suo punto di forza è “l’immersività”, perché il buio è fondamentale, al cinema. Il cinema cos’è? In fondo è un gruppo di persone sprofondato nel buio, esattamente come nel film. E in tutti e due i casi ci si trova davvero dentro a un’esplorazione»

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