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Nomi comuni di montagna
1 – Cresta
Normali parole che tra le vette assumono significati speciali. Come sella, terrazzo, camino – e molte altre – che nella prima definizione d’un dizionario hanno un certo senso, mentre in una relazione, guida o mappa di montagna ne acquistano un altro. Molto più pieno per chi le vette le ama e le frequenta. Tutto da scoprire per chi si sta avvicinando a esse. Questo processo, quando ci si trova lì nelle Terre alte, è per tutti istantaneo: da semplici vocaboli su carta i termini mutano in sensazioni ed esperienze vive. E a quel punto le altre comuni accezioni svaniscono.
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Bruno Tecci, narratore per passione, comunicatore di mestiere. Istruttore sezionale del Cai di Corsico (Mi). Autore di Patagonio e la Compagnia dei Randagi del Sud (Rrose Sélavy) e di Montagne da favola (Einaudi Ragazzi).
Franco Tosolini, ricercatore e divulgatore storico. Istruttore regionale di alpinismo del Cai della Lombardia. È autore e coautore di saggi e libri tra cui La strategia del gatto (Eclettica).
Luca Pettarelli, illustratore e allenatore di karate. Con le sue pitture a olio ha collaborato al volume Montagna (Rizzoli). Nel 2016 è stato selezionato alla Bologna Children’s Book Fair. A prendo il dizionario alla voce cresta non veniamo trasportati subito su ripidi pendii montani. Siamo obbligati, piuttosto, a fare una tappa intermedia in cascina. Qui vive il primo titolare della definizione in questione. Eccolo, al centro di un’ampia e assolata aia pianeggiante. Tronfio e con quell’aria di sfida tipica di certi padroni di casa non troppo inclini alle visite. Solo i barbigli che porta appesi sotto al becco oscillano impercettibilmente a favor di brezza; per il resto è completamente immobile che ci guarda come in un film western prima del duello... Bene: è lui, il gallo, il detentore privilegiato della parola cresta; tutti gli altri vengon dopo. Infatti... Cresta: escrescenza rossa e carnosa, dalla forma dentellata, che campeggia sulla testa dei gallinacei. E poi – aggiunge sempre il vocabolario – sul capo o sul dorso di certi rettili o pesci, ma pure di alcuni uccelli sotto forma d’una infilata di piume. In senso figurato abbassar la cresta ha a che fare con l’umiliazione. Mentre, al contrario, alzarla è sinonimo di superbia, baldanza, boria: basta fissare negli occhi il nostro gallo per averne un’idea. Anche in montagna, la cresta, è un luogo superbo. Per bellezza e ampiezza. A cui è meglio avvicinarsi con la propria, di cresta, abbassata. Perché è il regno del vento e i sudditi è bene che s’inchinino onde evitare di ricever la sua ira in piena faccia, o peggio ancora d’esser respinti giù per il pendio per il quale sono giunti. Immaginiamola: è una linea dentellata – proprio com’è dentellata quella in testa al gallo – lungo cui si congiungono due opposti versanti d’un monte prima di toccare insieme il cielo. In cresta la testa può girare, perché a destra e a sinistra c’è il vuoto e sotto ai piedi uno spazio risicato. Occorre rimanere concentrati sui propri passi, mettendoli precisi uno davanti all’altro: destro, sinistro, destro, sinistro, destr... E per contemplare il paesaggio è meglio fermarsi, a volte sedersi, a volte addirittura a cavalcioni. A quel punto si ha modo di osservare anche lei, la cresta, in tutto il suo puntuto sfarzo. Da lassù appare affilata come la lama del coltello d’un gigante. Avete mai provato a camminare sulla lama di un coltello? Facendo su e giù per i dentini? Mentre il gigante soffia addosso a noi microscopici esserini, con tutto il fiato che ha in corpo? Be’, è di sicuro emozionante, ma anche tanto pericoloso. Alla parola cresta, le prime immagini che mi vengono in mente riguardano la nostra “tentata” salita al Monte Bianco. Verso mezzanotte lasciamo il Rifugio Gonella. La temperatura è di poco sopra lo zero: fa decisamente caldo. Siamo preoccupati per i tanti crepacci che dovremo attraversare: E se un ponte di neve non fosse abbastanza ghiacciato e cedesse? Meglio non pensarci. Risaliamo nella più completa oscurità tutto il ghiacciaio del Dôme. Solo le luci delle torce davanti a noi. L’aria è ferma, indossiamo giusto un pile per non sudare. Teniamo un buon ritmo: siamo quattro cordate, un gruppetto affiatato di dieci amici. Tutto va bene. Ma alle tre e mezza circa, sbucando in cresta ottocento metri più in alto, ogni cosa cambia. Dal versante francese un furioso vendo gelido ci investe. La temperatura precipita e noi, in pochi attimi, congeliamo. Cerchiamo un anfratto tra le rocce lassù per poterci vestire maggiormente, ma non si trova. Ravanando negli zaini, al buio, frustati dall’aria, arrangiamo qualche strato e proseguiamo: proprio non si può star fermi. L’attenzione è massima. Sappiamo, anche se non vediamo nulla, che la cresta è finissima e i due baratri ai suoi lati, infiniti. Non ci può essere errore nonostante la bufera ci investa di lato e minacci il nostro equilibrio a ogni passo. Percorriamo il tratto in trance. Al ritorno dalla Capanna Vallot, qualche ora più tardi, dopo “non” aver conquistato la cima a causa del freddo e dell’ulteriore peggioramento meteo, guardiamo, alla luce del giorno, la cresta della notte: è spaventosa e magnetica. E ognuno di noi pensa: Com’è possibile che sia riuscito a passar di lì? Davvero devo farlo di nuovo? ▲ B.T.