Montagne360 | Settembre 2020

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NOMI COMUNI DI MONTAGNA A cura di Bruno Tecci e Franco Tosolini Illustrazioni di Luca Pettarelli

1 – Cresta Normali parole che tra le vette assumono significati speciali. Come sella, terrazzo, camino – e molte altre – che nella prima definizione d’un dizionario hanno un certo senso, mentre in una relazione, guida o mappa di montagna ne acquistano un altro. Molto più pieno per chi le vette le ama e le frequenta. Tutto da scoprire per chi si sta avvicinando a esse. Questo processo, quando ci si trova lì nelle Terre alte, è per tutti istantaneo: da semplici vocaboli su carta i termini mutano in sensazioni ed esperienze vive. E a quel punto le altre comuni accezioni svaniscono.

Bruno Tecci, narratore per passione, comunicatore di mestiere. Istruttore sezionale del Cai di Corsico (Mi). Autore di Patagonio e la Compagnia dei Randagi del Sud (Rrose Sélavy) e di Montagne da favola (Einaudi Ragazzi). Franco Tosolini, ricercatore e divulgatore storico. Istruttore regionale di alpinismo del Cai della Lombardia. È autore e coautore di saggi e libri tra cui La strategia del gatto (Eclettica). Luca Pettarelli, illustratore e allenatore di karate. Con le sue pitture a olio ha collaborato al volume Montagna (Rizzoli). Nel 2016 è stato selezionato alla Bologna Children’s Book Fair.

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A

prendo il dizionario alla voce cresta non veniamo trasportati subito su ripidi pendii montani. Siamo obbligati, piuttosto, a fare una tappa intermedia in cascina. Qui vive il primo titolare della definizione in questione. Eccolo, al centro di un’ampia e assolata aia pianeggiante. Tronfio e con quell’aria di sfida tipica di certi padroni di casa non troppo inclini alle visite. Solo i barbigli che porta appesi sotto

sfarzo. Da lassù appare affilata come la lama del coltello d’un gigante. Avete mai provato a camminare sulla lama di un coltello? Facendo su e giù per i dentini? Mentre il gigante soffia addosso a noi microscopici esserini, con tutto il fiato che ha in corpo? Be’, è di sicuro emozionante, ma anche tanto pericoloso. Alla parola cresta, le prime immagini che mi vengono in mente riguardano la nostra

al becco oscillano impercettibilmente a favor di brezza; per il resto è completamente immobile che ci guarda come in un film western prima del duello... Bene: è lui, il gallo, il detentore privilegiato della parola cresta; tutti gli altri vengon dopo. Infatti... Cresta: escrescenza rossa e carnosa, dalla forma dentellata, che campeggia sulla testa dei gallinacei. E poi – aggiunge sempre il vocabolario – sul capo o sul dorso di certi rettili o pesci, ma pure di alcuni uccelli sotto forma d’una infilata di piume. In senso figurato abbassar la cresta ha a che fare con l’umiliazione. Mentre, al contrario, alzarla è sinonimo di superbia, baldanza, boria: basta fissare negli occhi il nostro gallo per averne un’idea. Anche in montagna, la cresta, è un luogo superbo. Per bellezza e ampiezza. A cui è meglio avvicinarsi con la propria, di cresta, abbassata. Perché è il regno del vento e i sudditi è bene che s’inchinino onde evitare di ricever la sua ira in piena faccia, o peggio ancora d’esser respinti giù per il pendio per il quale sono giunti. Immaginiamola: è una linea dentellata – proprio com’è dentellata quella in testa al gallo – lungo cui si congiungono due opposti versanti d’un monte prima di toccare insieme il cielo. In cresta la testa può girare, perché a destra e a sinistra c’è il vuoto e sotto ai piedi uno spazio risicato. Occorre rimanere concentrati sui propri passi, mettendoli precisi uno davanti all’altro: destro, sinistro, destro, sinistro, destr... E per contemplare il paesaggio è meglio fermarsi, a volte sedersi, a volte addirittura a cavalcioni. A quel punto si ha modo di osservare anche lei, la cresta, in tutto il suo puntuto

“tentata” salita al Monte Bianco. Verso mezzanotte lasciamo il Rifugio Gonella. La temperatura è di poco sopra lo zero: fa decisamente caldo. Siamo preoccupati per i tanti crepacci che dovremo attraversare: E se un ponte di neve non fosse abbastanza ghiacciato e cedesse? Meglio non pensarci. Risaliamo nella più completa oscurità tutto il ghiacciaio del Dôme. Solo le luci delle torce davanti a noi. L’aria è ferma, indossiamo giusto un pile per non sudare. Teniamo un buon ritmo: siamo quattro cordate, un gruppetto affiatato di dieci amici. Tutto va bene. Ma alle tre e mezza circa, sbucando in cresta ottocento metri più in alto, ogni cosa cambia. Dal versante francese un furioso vendo gelido ci investe. La temperatura precipita e noi, in pochi attimi, congeliamo. Cerchiamo un anfratto tra le rocce lassù per poterci vestire maggiormente, ma non si trova. Ravanando negli zaini, al buio, frustati dall’aria, arrangiamo qualche strato e proseguiamo: proprio non si può star fermi. L’attenzione è massima. Sappiamo, anche se non vediamo nulla, che la cresta è finissima e i due baratri ai suoi lati, infiniti. Non ci può essere errore nonostante la bufera ci investa di lato e minacci il nostro equilibrio a ogni passo. Percorriamo il tratto in trance. Al ritorno dalla Capanna Vallot, qualche ora più tardi, dopo “non” aver conquistato la cima a causa del freddo e dell’ulteriore peggioramento meteo, guardiamo, alla luce del giorno, la cresta della notte: è spaventosa e magnetica. E ognuno di noi pensa: Com’è possibile che sia riuscito a passar di lì? Davvero devo farlo di nuovo? ▲ B.T.


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