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Alpinismo | Tutti i sogni di Viktor Frankl

È stato il fondatore della logoterapia. Ma oltre a essere uno dei più grandi psichiatri della sua epoca, Frankl è stato un alpinista appassionato. Ecco il ritratto di una vita straordinaria

di Marco Dalla Torre

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«L’ alpinismo è stato la mia grande passione fino all’ottantesimo anno di vita». È la sorprendente affermazione di Viktor Emil Frankl (1905-1997). Lui è - e sarà - ricordato non certo per le sue scalate, ma come uno dei più eminenti psichiatri del Ventesimo secolo. Eppure teneva in modo davvero speciale alla sua attività di alpinista. Nato a Vienna Ω di lì a poco la capitale mondiale della psicoterapia Ω per tutte le superiori tenne una corrispondenza epistolare con Sigmund Freud. Iscrittosi poi alla facoltà di medicina, divenne allievo di Alfred Adler. Ben presto però si rese conto che l’idea di uomo dei suoi maestri, di cui pur riconosceva la grandezza, era riduttiva. Diede vita alla “logoterapia”, la terza scuola viennese di psicoterapia dopo la psicanalisi freudiana e la psicologia individuale di Adler. Per tutta la vita approfondirà e diffonderà questo sistema terapeutico, che davvero ha “riumanizzato” la psichiatria. Oggi le Società di logoterapia sono diffuse in tutto il mondo. In un’epoca di spersonalizzazione, Frankl individua l’origine di un numero sempre maggiore di nevrosi nell’incapacità di trovare un significato pieno alla propria vita. È fermamente convinto che l’essere umano, più che dal bisogno, è mosso dal desiderio di significato. Una “vita significativa” è una vita ricca di compiti; dove il compito è un appello alla nostra capacità di rispondere a un problema che la vita ci pone, nella convinzione di poterlo risolvere. È proprio in una vita così che l’uomo può sperimentare la sua libertà, in quanto si riconosce libero di agire facendo perno sulle sue risorse, anche se ciò «comporta uno sforzo e proprio perché comporta uno sforzo».

PSICOLOGO NEI LAGER

Ogni vita ha senso, anche nelle situazioni più estreme o dolorose. Di questo Frankl fu costretto a fare esperienza diretta. Di famiglia e di fede ebraica, tra il 1942 e il 1945 peregrinò per i campi di sterminio nazisti, sperimentando in sé e nei suoi compagni la verità delle sue intuizioni. Tornato a Vienna apprese con sgomento che tutta la sua famiglia, compresa la giovane moglie, era stata sterminata. In nove giorni scrisse Uno psicologo nei lager, che il filosofo Gabriel Marcel definì «una testimonianza, non diciamo unica, ma di qualità eccezionale, e al cui cospetto molte altre appaiono solo aneddotiche». A 75 anni di distanza l’eco di questo libro è tutt’altro che spenta: tradotto in 33 lingue, solo negli Stati Uniti ha venduto più di 10 milioni di copie. Gordon W. Allport, docente di psicologia ad Harvard (dove anche Frankl insegnava come visiting professor), lo giudica «un gioiello di narrativa», focalizzato «sul più profondo dei problemi umani». Dopo la liberazione, Frankl è stato per 25 anni primario del dipartimento di neurologia del Policlinico di Vienna; fu chiamato a tenere conferenze in centinaia di università e gli sono state conferite ben 29 lauree honoris causa; ha pubblicato 32 libri, oltre a numerosissimi studi.

OLTRE LA VERTIGINE

Anche per questo è sorprendente come, in una vita così densa, l’alpinismo gli sia stato tanto caro. Tutto era iniziato quasi per caso: a 17 anni accompagnò un amico alla parete Mizzi Langer, una cava abbandonata alle porte di Vienna, per fargli sicurezza dall’alto. Si rese conto di soffrire di vertigini e, anziché demordere, scelse di superarle. Si iscrisse alla sezione Donauland, che in quegli anni accoglieva quasi tutti gli alpinisti di origine ebraica. Qui conobbe Rudolf Reif, che divenne suo mentore e con il quale ottenne il brevetto di guida alpina. Dopo l’Anschluss l’alpinismo fu formalmente proibito agli ebrei. «Quando per un anno non potei fare scalate perché dovevo portare la stella di David, sognavo di scalare montagne. E quando il mio amico Hubert Gsur mi convinse e osai arrampicarmi sulla Hohe Wand senza la stella di David, non potei fare a meno di baciare letteralmente la roccia, mentre ci arrampicavamo sulla parete». Quando il pericolo della deportazione si fece sempre più concreto, scrisse uno dei suoi testi fondamentali, Logoterapia e analisi esistenziale, nella speranza che almeno gli sopravvivessero le sue intuizioni. All’inizio del calvario, cucì il manoscritto nella fodera del cappotto, ma gli fu presto sottratto. «Al mio arrivo ad Auschwitz dovetti gettare via ogni cosa; gli abiti e i miei ultimi averi, fra cui la cosa di cui andavo più fiero, ossia il distintivo del Club Alpino Donauland, che mi accreditava come guida alpina». L’amatissima Elly, che aveva sposato nel 1947, condivideva la sua passione. Riferendosi al primissimo dopoguerra, ha affermato: «Penso che senza l’arrampicata Viktor non sarebbe sopravvissuto. Per lui è stata indispensabile, dopo tutto quello che aveva vissuto. Era bello vedere che era di nuovo in grado di ridere, di gioire per qualcosa. In montagna si trasformava, diventava un altro. Era felice, tornava a essere semplicemente Viktor». Negli anni Cinquanta, forte di una situazione professionale ed economica più stabile, gli è possibile viaggiare ben oltre le montagne vicine a Vienna. Comincia a essere chiamato in molte università dei cinque continenti. Ancora Elly racconta che quando gli proponevano una conferenza, decideva in base a criteri molto semplici: «Il compenso che riceveva per una conferenza, il giorno dopo lo metteva nelle mani di una guida alpina. Non importava dove ci trovassimo, c’erano sempre montagne raggiungibili, ed è sulla base di questo criterio che Viktor ha sempre scelto dove andare a parlare». Arrampicò in Sud Africa, in concomitanza con una relazione ufficiale all’Università di Stellenbosch e il presidente del Club Alpino sudafricano volle fargli da compagno di cordata. In occasione di uno degli oltre 100 viaggi negli USA si trovò per caso a essere il primo “allievo” della Scuola di roccia della Yosemite Valley, appena inaugurata.

APERTI ALLA TRASCENDENZA

Seppe compensare la diminuzione delle forze fisiche, dovuta all’età, con l’esperienza e la tecnica. «Non trovo nulla di male nell’invecchiare». Viktor non ha mai azzardato difficoltà eccessive, consapevole che altra era la sua missione nel mondo e anche che non aveva il tempo per un allenamento costante. Un sogno irrealizzato: «Cosa voglio di più? Posso dirlo con molta precisione: mi sarebbe piaciuto essere il primo a scalare una vetta. Una volta fui invitato dal mio compagno di cordata Rudolf Reif a una scalata mai tentata prima; non potei però accettare, poiché non potevo prendermi vacanze dall’ospedale». Nel 1987, a 82 anni, fu invitato a tenere un discorso in occasione dei 125 anni del Club Alpino Austriaco. «Quando noi, i più vecchi tra noi, noi che abbiamo superato la soglia del nono decennio, guardiamo indietro alle esperienze che ci hanno donato montagne, pareti e creste, allora potremmo sentire il cuore pesante; ma queste parole di un poeta ci consolano: “Ciò che hai vissuto nessuna forza al mondo può sottrartelo”...». L’amico e collega Giambattista Torello ha detto di lui: «Viktor Frankl resterà nella storia della psichiatria come terapeuta del “male del secolo XX”, come strenuo difensore della libertà umana contro ogni cieco determinismo scientifico-naturale, come splendido fenomenologo dell’amore, come ottimista scopritore dell’essere umano aperto alla Trascendenza».

Frankl sulle Alpi nel 1960 (foto pinterest.dk)

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