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La montagna e il clima | I primi segnali che non abbiamo compreso
Dal tragico evento della Marmolada al crollo del ghiacciaio sul Monviso, avvenuto più di trent’anni fa. Due eventi a confronto, tra passato e presente, e gli avvisi inascoltati che annunciavano la crisi climatica
di Claudio Smiraglia*
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Non vi sono stati molti segnali premonitori: la formazione e l’allargamento di un crepaccio trasversale e l’incremento di acqua di fusione alla base del piccolo ghiacciaio sospeso. Poi il crollo improvviso e il boato. La valanga di ghiaccio, neve, acqua e detriti si inabissa velocissima lungo il ripido versante sottostante. Gli alpinisti presenti nel piccolo rifugio hanno l’impressione di una scossa di terremoto... No, non è il drammatico 3 luglio 2022 della Marmolada, quando il crollo parziale del ghiacciaio (circa 65.000 metri cubi) interferisce con la presenza antropica e segna la tragica sorte di ben undici alpinisti.
PARALLELISMI
Il riferimento è invece al 6 luglio 1989, quando sul versante nord del Monviso parte del Ghiacciaio Superiore di Coolidge (circa 250.000 metri cubi) si scolla dal ripido basamento roccioso che lo ospita e precipita a valle; la valanga di ghiaccio e detriti che ne consegue si espande fino al sottostante Lago Chiaretto, invadendo anche il frequentatissimo sentiero che porta al Rifugio Quintino Sella. È tarda sera, la zona è deserta, nessuno sta percorrendo il sentiero. Se si confrontano le immagini riprese subito dopo i due eventi si osservano somiglianze impressionanti. La falesia di ghiaccio residua presenta una morfologia molto simile: una parete di ghiaccio verticale segnata dalle foliazioni concave, questo nonostante la morfologia che ospitava i due piccoli ghiacciai fosse alquanto diversa, soprattutto per quanto riguarda l’inclinazione.
LE CAUSE
Gli esperti sono pressoché concordi nell’individuare le cause dell’evento della Marmolada: costanti alte temperature in quota, accumulo di acqua allo stato liquido al contatto fra ghiacciaio e letto roccioso che ne riduce l’attrito. Per il Monviso le motivazioni non sono molto diverse, all’acqua di fusione si è aggiunta quella delle intense piogge. Più differenziate, soprattutto fra i “meno esperti”, sono le posizioni sulla prevedibilità dell’evento, sulla possibilità o necessità di un monitoraggio esteso, sull’esigenza di chiusure degli itinerari alpinistici.
AVVISI INASCOLTATI
L’evento del Monviso di un trentennio fa appare oggi come il primo avvertimento, il primo segnale, dopo la piccola fase di espansione degli anni Sessanta-Ottanta del secolo scorso, di un sistema ambientale, quello della criosfera, in netta crisi come conseguenza e come sintomo, e ormai anche come simbolo, dell’altra crisi che stiamo vivendo, quella climatica (è appena il caso di ricordare che l’incremento della temperatura sulle Alpi di circa 2°C dopo la Piccola Età Glaciale ha comportato la perdita di oltre la metà delle superfici glaciali preesistenti). È tuttavia stato un segnale che non abbiamo colto, soprattutto non abbiamo colto le capacità di auto-rinforzo del fenomeno, da cui l’accelerazione della crisi dei ghiacciai negli ultimissimi decenni. In attesa di tecniche di mitigazione, almeno della crisi climatica (di applicazione speriamo non improbabile, ma certo non immediata), non ci resta che l’adattamento ai nuovi ritmi dell’evoluzione delle montagne. È un processo di attenzione alla sempre più mutevole attualità della montagna, un processo di conoscenza e di divulgazione, di cui il Cai non può non farsi voce guida.
Foto: Il Ghiacciaio Superiore di Coolidge al Monviso, pochi giorni dopo il crollo del luglio 1989 (foto R. Tibaldi)
* È stato docente dell’Università degli studi di Milano e Presidente del Comitato glaciologico italiano e del Comitato scientifico centrale del Cai