L’ a r t e
d e l
m i
s c h i a r e
L’ibrido architettonico tra significati ed effetti urbani
Camilla Vertua 1
L’arte di mischiare: l’ibrido architettonico tra significati ed effetti
Relatore: Prof. Andrea Di Giovanni
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...il disordine della partecipazione non è un fenomeno destrutturato e casuale. Al contrario è fondato su sistemi di valori e modi di comportamento assai più articolati e flessibili di quelli su cui si fonda l’ordine. L’architettura raramente ha prodotto eventi complessi perchè, ottenebrata dalla sua vocazione per l’ordine, non ha mai penetrato la logica del disordine. Anche quando si è intensamente occupata degli uomini, è stato per convertirli all’ordine. (...) il disordine, a differenza dell’ordine, non si progetta. Chi ha tentato di farlo, ha progettato un disordinato ordine, cioè ancora un ordine. Infatti la vera questione non è quella di riprodurre gli aspetti esteriori del disordine, ma di stabilire le condizioni per cui il disordine possa liberamente manifestarsi. Giancarlo De Carlo, ‘L’architettura della partecipazione’
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Abstract In una città sempre più caratterizzata da flussi di persone, di spazi e confini1, gli edifici ibridi, per la loro costitutiva polivalenza, possono farsi all’interno della maglia urbana nuovo tessuto costituente, a collegamento di lembi diversi di popolazioni, culture o morfologie, tra loro eterogenee, a conformarsi, insomma, come delle sorta di ecotoni2. Il concetto di ibridazione, in questo senso, va oltre il mero mescolamento di programmi funzionali diversi che albergano in uno stesso spazio, andando a coinvolgere anche temi come la combinazione tra spazio pubblico e servizi e tra città e architettura urbana, e acquisendo in tal modo un significato olistico. Diversi sono i fattori che in particolare portano l’attenzione a questa nuova tipologia architettonica: da una parte, la scarsità di suolo e il suo alto valore, sia economico che ambientale, spingono a densificare all’interno di grandi complessi spazi pensati per più funzioni; Dall’altra, dato il fenomeno della shrinking city e, dunque, di quella modalità di sviluppo urbano che tuttavia comporta una contrazione della popolazione in alcune aree centrali della città, si cerca, proprio attraverso la concentrazione di più usi in uno stesso luogo, di azionare una sorta di energia centripeta, a riattivazione di un lembo urbano ben più esteso dell’edificio stesso. Date tali premesse, dunque, l’elaborato si pone come obiettivo l’indagine di queste nuove architetture urbane, non tanto allo scopo di soffermarsi sulla loro definizione tipologica, quanto più sull’effetto a lungo termine che queste producono rispetto all’intorno in cui si collocano, cercando di comprendere se possano davvero trasformare dinamiche cittadine consolidate, o definirle se incerte, se presentino dei caratteri comuni e ripetibili a livello di localizzazione, dimensione, funzioni, e se producano da parte della popolazione una risposta
1 Parag Khanna, https://www.ted.com/talks/parag_khanna_how_megacities_are_changing_the_map_of_the_ world?language=it, febbraio 2016 2 “Ecotono: dal greco oikos, (casa, ambiente) e tonos (tensione), è un ambiente di transizione tra due ecosistemi, e più in generale tra due ambienti omogenei. Gli ecotoni contengono specie proprie delle comunità confinanti e specie esclusive dell’area ecotonale stessa, e quindi possiedono un’elevata biodiversità e ricchezza. Queste sue peculiarità rendono l’ecotono indispensabile poiché proprio attraverso queste strutture avviene il collegamento fra ambienti molto diversi tra loro.” (Cassandra Cozza in “Urban Hybridization” (2012), p. 248, (a cura di) Fabrizio Zanni) 5
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univoca o differente a seconda del contesto, definendo dunque se tali megastrutture possano davvero farsi collegamento tra flussi o meno, rendendosi parte costituente del paesaggio urbano o presentandosi come elemento autonomo ed estraneo per la loro eccezionalitĂ funzionale e dimensionale.
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Indice 1. Introduzione 2. La dimensione dell’ibrido 2.1. Una dimensione ancora indefinita 2.2. L’ibrido nella contemporaneità
3. Preparazione all’indagine 3.1 L’individuazione dei casi studio 3.2 Le fasi di analisi: tra problematiche e chiarimenti
4. I casi studio 4.1 Entrepot MacDonald, Studio OMA . Inquadramento progettuale . L’Entrepot MacDonald . Percezioni dalla realtà . Commenti e considerazioni 4.2 Docks de Paris, Jakob + Macfarlane . Inquadramento progettuale . I Docks de Paris . Percezioni dalla realtà . Commenti e considerazioni 4.3 De Rotterdam, Studio Oma . Inquadramento progettuale . Il De Rotterdam . Percezioni dalla realtà . Commenti e considerazioni
5. Considerazioni e conclusioni . Come si crea un edificio ibrido? . Edificio o città
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Introduzione Spiegazione degli scopi della tesi: realizzazione di un’indagine sia teorica che empirica volta a stabilire delle considerazioni rispetto al reale funzionamento dell’ibrido urbano rispetto al suo intorno.
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Gare du Nord, Parigi 11
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Uno sfondo, alcune questioni Ci confrontiamo oggi con una città in cui difficile è la constatazione di elementi puri, che si codifica come una sorta di palinsesto, ricca di sovrapposizioni, raschiature e aggiunte, dove la teoria urbanistica dello zoning della prima metà del ‘900 è stata oggi superata definendo la spinta e la vittoria del mescolamento tra utilizzi, utenti e ritmi diversi. Una
città in cui la differenza si fa allo stesso tempo potenzialità e problematicità, sia da un punto di vista spaziale che sociale; si definiscono tessuti urbani frammentati, dispersi
nel territorio o divisi da possenti infrastrutture che, se da una parte permettono la connessioni tra aree urbane tra loro distanti, dall’altra interrompono, spesso bruscamente, un dialogo di prossimità. Allo stesso modo, si va consolidando un meccanismo relazionale tra persone basato sulla “vicinanza di spirito” piuttosto che su quella spaziale, come tradizionalmente inteso in un’ottica di vicinato, per l’appunto, sconvolto oggi dalle evanescenti dinamiche imposte dalla definizione di una società liquida, per cui “l’esperienza individuale e le relazioni sociali (sono) segnate da caratteristiche e strutture che si vanno decomponendo e ricomponendo rapidamente, in modo vacillante e incerto, fluido e volatile”1. In tale contesto si delinea sempre più diffusamente la definizione di un “loro” rispetto ad un “noi” introverso e meno propenso, rispetto al passato, all’apertura ad una dimensione pubblica, in alcuni casi percepita attraverso un senso di paura, che contraddistingue così il primo approccio con il diverso.
A fronte di questa situazione, alcuni luoghi per via di diversi fattori si rendono cerniera, a definire un nuovo tratto di urbanità in cui questo miscuglio si fa soluzione omogenea e acquisisce valore olistico, rendendosi altro: ibrido.
Gli spazi ibridi possono declinarsi in modi diversi, farsi piega, poro o spugna2, a seconda del loro ruolo rispetto all’intorno di cui fanno parte e dei meccanismi di reciprocità che ne Zygmun Bauman, (1999), “Modernità liquida”, Laterza & Figli S.p.a., Roma “Il concetto di “piega” e l’atto compositivo del “piegare” si riferiscono e modificano i concetti di suolo e di superficie. La superficie fra (…) testo e contesto, tra figura e sfondo vengono cancellate a favore di un’architettura come “piega del suolo”, precisamente di un suolo che assume qualità urbane ed architettoniche. (…) Il concetto di poro (…) è connotato dalla presenza simultanea di temporalità e usi sociali differenziati. Esso (…) è forse avvicinabile all’”ombelico” thomiano come nucleo che riscatta il ruolo depressivo e di instabilità nel sistema urbano del “vuoto urbano”.
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regolano l’interrelazione. La tesi, in particolare, si concentra sugli effetti urbani e sociali provocati dalla presenza in un determinato contesto di un ibrido architettonico, allo scopo di comprendere se il carattere per l’appunto ibrido di queste mega-strutture sia davvero garanzia e sinonimo di “centralità urbana”, come sembrerebbe essere permeato dalla letteratura corrente a riguardo. A fronte di un’ampia retorica che si è concentrata sull’ibrido come strumento rigeneratore in una città in perenne contrazione demografica, infatti, sembrerebbe mancare una documentazione che provi davvero, a distanza di alcuni anni dalla loro realizzazione, quali siano gli effetti reali di questi edifici. A tal proposito, questo elaborato non si pone
l’obiettivo di fornire delle risposte certe, ma di osservare davvero da vicino queste esperienze, ambiguamente urbane, e i loro effetti, affacciandosi a quella che si potrebbe definire come un’analisi urbanistica di un progetto architettonico.
Una indagine, alcune mosse L’elaborato, dunque, dopo aver sviluppato una prima parte introduttiva in cui si tratta il significato nel passato e nella contemporaneità dell’edificio ibrido, tipologicamente derivato da una continua rinegoziazione dello spazio pubblico, si concentra sull’indagine vera e propria dei suoi effetti, delineata da due momenti di studio. Una prima ricerca teorica, focalizzata sul ridisegno dei casi studio individuati e sulla trattazione delle conoscenze preliminari dell’area urbana su cui si innestano, offre una solida base di saperi sedimentati, utile allo sviluppo del successivo stadio dell’investigazione, che si concretizza con un momento di sopralluogo. In questa seconda fase, infatti, si attua il passaggio da un’osservazione fatta “attraverso uno spioncino” ad una visione complessiva e completa del fenomeno, che coinvolga tutti i cinque sensi e che si integri con la prima attraverso la restituzione di tutte quelle valutazioni che solo l’esperienza può sollevare.
Il concetto di “spugna urbana” è definito da Scheffler come un habitable differential space-frame mentre da un punto di vista sociologico la “porosità urbana” può essere definita come “una forma spazio-temporale”. (Zanni, 2012, pp.17-20)
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Si tenta in tal modo di comprendere se queste “nuove” architetture urbane possano davvero trasformare dinamiche cittadine consolidate, o definirle se incerte, se producano da parte della popolazione una risposta univoca o differente a seconda del contesto, se si rendano parte costituente del paesaggio urbano o si presentino come elemento autonomo ed estraneo per la loro eccezionalità funzionale e dimensionale, tentando di capire così se si rendano realtà attrattive per più utenze o piuttosto ghetto di emarginati o, ancora, se scadano in delle sorte di gated community speculative e funzionali, che escludono parte della cittadinanza dai loro recinti.
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La dimensione dell’ibrido Si presenta l’evoluzione dell’ibrido architettonico nella storia: tra tradizione ed evoluzione ed i significati che nella città europea contemporanea questo assume, andando così ad introdurre i motivi dell’analisi.
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La ville Spatiale. Yona Friedman, “Spatial City Principle” (1960), tratto da Fosco Lucarelli, Studio-socks.com, 17 luglio 2011
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In genetica l’ibridazione è il processo di unione di diverse varietà o specie di organismi, ossia la combinazione di due o più cose diverse per ottenere uno specifico risultato. Mentre nel passato, architettonicamente parlando, questo concetto s’è sempre concretizzato nell’accostamento di diverse funzioni all’interno di uno stesso ambito spaziale, (si pensi ad esempio al sistema delle “case-negozio” o a monumenti storici come “Ponte Vecchio” a Firenze), l’edificio ibrido, in quanto tipologia a sé, non conosce alcuna definizione fino alla seconda metà del XX secolo, quando l’aumento del valore del terreno e la conseguente volontà di trarne il massimo profitto, unitamente ad alcuni sviluppi tecnologici, quali l’utilizzo delle strutture in ferro e l’invenzione dell’ascensore, portano alla determinazione di una ricerca, mirata al tema dell’ibridazione architettonica. Nel corso degli ultimi anni, ad esito di un sentire comune per cui alla complessità caratterizzante le dinamiche della vita odierna si possa adeguatamente rispondere solo con l’ulteriore complessità dei programmi funzionali, l’edificio ibrido torna in voga, assumendo in tal contesto un certo valore iconico.
Nell’indeterminatezza tipologica che lo contraddistingue, priva di veri e propri confini a delimitare un “dentro” rispetto ad un esterno, così come nella sua vaghezza e potenzialità funzionale, si vanno a scorgere, infatti, le sembianze di una città che, a ripresa dell’attuale, si fa sistematicamente frammentaria e frattale, a costruzione di un luogo “where everything is always inside, with no outside”.1
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Wim Nijenhuis, “City frontiers and their disappeareance”, Architectural design (3-4), 1994, pp. 13-17
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Il tema dell’ibridazione urbana non è una novità; oggetto di dibattito in ambito architettonico ed urbanistico, soprattutto nel corso del ’900, si tratta di un tema riscontrabile già nella dimensione architettonico-funzionale del foro romano, (si veda, a tal proposito, il paragrafo del terzo capitolo dedicato al concetto di “centralità”). Per qualsiasi forma esso assuma o in qualsiasi epoca in cui emerga si potrebbe, tuttavia, constatare il persistere di un tema, in particolare: la stretta connessione tra densità, valore della terra e sovrapposizione di funzioni. Concetto, questo, specificatamente collegato alla presenza o meno di confini stabili, a designazione di un interno rispetto ad un esterno, di un’area “costretta”, e dunque più portata alla sovrapposizione di elementi diversi, rispetto ad una estesa. Proprio la scomparsa, nella nostra cultura, delle frontiere, gioca un ruolo importante. “Modernity was characterised by the sistematic demolition of strongholds and the increasing dysfunctionality of fortresses, city walls and city gates.”2 A partire dallo scivolamento della città al di fuori delle delimitazioni murarie, infatti, inizia lo sviluppo della metropoli moderna europea, formata da una serie di strutture programmatiche indipendenti, disseminate nel territorio e dislocate su aree meno costose rispetto a quelle disponibili all’interno del precedente sistema, che, poiché vincolato, non agevola certo la disponibilità dei singoli terreni. A fronte di questa situazione, si potrebbe dire che la pianificazione urbanistica abbia legittimato la sua stessa esistenza proprio attraverso la ricerca di una forma ormai perduta. A tal proposito, nell’arco della seconda metà del ‘900 emerge un costante dibattito sulla valutazione del concetto di ibridazione urbana, se questo sia da ricercare o, al contrario, da ripudiare in quanto metodo “amalgatore” di funzioni e, dunque, fautore di ambiguità. Emblematica, al riguardo, la testimonianza di Le Corbusier, promotore, come ogni membro del Movimento Moderno, del metodo pianificatorio basato sulla teoria dello zoning, secondo la quale ad ogni ambito funzionale ne 2
Ibidem
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2.1. Una dimensione ancora indefinita corrisponda specificatamente uno spaziale. Egli scrive qualche anno dopo la sua visita a New York: “Il caos delle città del XIX e del XX secolo ha contraffatto lo stile di vita ‘dell’uomo di città’. Il metodo pianificatorio a soluzione di questo problema è conosciuto in Inghilterra col termine Zoning, in Francia Zonage. In effetti, comunque, la determinazione di precise zone specializzate, corrispondenti alle complesse funzioni della città, ancora sono oggetto di indagine.”3 Un metodo, questo, tuttavia, che già a partire dagli anni ’60 conosce una notevole critica da parte del mondo architettonico; esemplare, a tal proposito, quella di Giancarlo De Carlo, che afferma come questo non sia che “fautore di una distinzione autoritaria delle attività, nata per il controllo del valore dei suoli più che per le motivazioni igieniche affermate.”4 Secondo De Carlo, “la consonanza tra Movimento Moderno e “zoning” nasceva da un equivoco sul principio di chiarezza”: la divisione netta delle funzioni sembrava ai modernisti il mezzo migliore per ottenere la massima chiarezza delle forme urbane, da cui, in ottemperanza al dogma, sarebbe scaturito l’equilibrio sociale. De Carlo, tuttavia, afferma: “(...) la “chiarezza” non è in se stessa una virtù e tanto meno ha capacità esorcizzanti nei confronti dei contenuti che esprime. Non c’è nulla di più chiaro di una catena di montaggio, di un’ordinanza di polizia e di una dichiarazione di guerra”4. Applicata a una cosa complessa
come il sistema di relazioni e di conflitti della vita urbana, la chiarezza non sarebbe potuta che diventare un elemento repressivo, a cui De Carlo va ad opporre un’architettura della partecipazione, che consenta di recuperare la critica e il dissenso, il disordine e i conflitti che inevitabilmente l’uso della città impone. Non si tratta, d’altro canto, di un’opinione particolarmente rivoluzionaria se si pensa che nell’antichità già Aristotele s’era schierato contro l’eccessiva omologazione funzionale dell’ideale di città mostrato da Platone ne “La Repubblica”5, ma che, tuttavia, in quegli anni, e a fronte della costruzione Le Corbusier, “Concerning Town Planning” (1948), Architectural Press, Londra Giancarlo De Carlo, “L’architettura della partecipazione” (2015), (a cura di) Sara Marini, Collana Habitat, Quodlibet 5 Riprendendo dall’interpretazione di Proclo della critica inferta da Aristotele contro la città di Platone, il fatto di unificare eccessivamente la città comporta l’annientamento dell’autosufficienza che essa deve mantenere. Secondo Aristotele, chiarisce Proclo, se ciò che è in misura minore un’unità è più autosufficiente, come appunto una città rispetto a una famiglia e una famiglia rispetto a un singolo uomo, ne consegue che, in modo inversamente proporzionale, quanto maggiore è l’unità tanto minore in essa sarà l’autosufficienza. 3 4
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prima delle suburbs e poi delle cosiddette gated community, segna un punto di svolta. Si sperimenta, in questo periodo, una sorta di “sogno ibrido”, in cui quest’ultimo diventa, per l’appunto, strumento compositivo di nuove utopie, in cui l’architettura dell’ibridazione si rende vero e proprio “tappeto urbano”, (si pensi, ad esempio, ai progetti elaborati nel corso del 1964, non a caso definito da Paolo Soleri Mega year). Nel 1985 finalmente Joseph Fenton ne conia dunque una definizione che ne individui le peculiarità come singolo oggetto architettonico, delineando l’edificio ibrido come quella struttura in cui “i singoli programmi si relazionano tra loro e iniziano a condividere intensità”6, segnandone la distanza dagli
edifici mixed use e dai social condenser7, e mettendo soprattutto in evidenza il potenziale dell’ibrido come strumento “per occuparsi della complessità della città del XX secolo”8. Anche oggi si assiste a un ritorno dell’ibrido come oggetto di attenzione da parte della cultura architettonica (cfr. la serie monografica apparsa sulla rivista spagnola “a+t” nel 2008). “Rispetto a Fenton, però, il termine viene declinato in modo nuovo, per definire enti urbani che non sono né il blocco, né il grattacielo e, in questo senso, acquisisce anche un significato più pregnante rispetto ai processi trasformativi che caratterizzano la contemporaneità.”9 Non si tratta più, dunque, di un oggetto che vada ad essere valutato da un punto di vista tipologico: al contrario, proprio il fatto di non essere tipologicamente determinato lo rende in potenza infinito, e la sua valutazione va ad essere legittimata solo attraverso l’osservazione degli effetti che innesca.
Una sorta, dunque, di affermazione della superiorità di un unicum eterogeneo, rispetto al singolo. 6 J. Fenton, Hybrid Buildings, cit., p. 7. 7 La struttura del social condenser viene sviluppata nell’ambito dell’Unione Sovietica, in un periodo di forte disponibilità territoriale e di urgente necessità abitativa. Allo scopo di influenzare il comportamento sociale dei suoi abitanti, il social condenser presentava degli spazi comunitari, come cucine, cantine o lavanderie. Le principali differenze rispetto all’edificio ibrido consistono nel fatto che gli spazi comuni non siano a disposizione di un vasto pubblico ma solamente degli abitanti del complesso; Inoltre, questo deriva da volontà sociali e non speculative, come al contrario accade nel 24
2.2. L’ibrido nella contemporaneità Certamente la ripresa oggi dell’ibridazione in architettura fa parte di una tendenza globale che investe non solo il tema architettonico, ma tutta quanta la società e la modernità. Generalmente definita attraverso il concetto, infatti, di “società liquida”, ci troviamo in un periodo in cui la sola convinzione vigente sembrerebbe essere quella per cui “il cambiamento è l’unica cosa permanente e per cui l’incertezza è l’unica certezza”10. Una realtà dominata principalmente da una
dimensione temporale, a superamento di quella spaziale: “the regime of decision, anticipation and action, information, power and speed is a regime of time”11. In questo contesto culturale, dunque, l’architettura dell’incerto, dell’ambiguo, dell’urbano e non urbano, dell’architettonico e non architettonico, funge da risposta ad un contesto cittadino che, a sua volta, risente dello stesso clima culturale e che non a caso si palesa come un magma di flussi, a mescolamento di condizioni locali e globali. Assistiamo come ad una “città metastatica”11, un
intero labile e mobile che cambia nel tempo, sviluppandosi in un orizzonte potenzialmente infinito. La stessa urbanità si
rende a questo punto ibrida, stratificata nella compresenza di complessi produttivi e ludici, di diversità sociali ed etniche, di aperture e connessioni al territorio circostante e alla dimensione continentale. Si potrebbe dire che si sia verificata negli ultimi anni come una trasformazione del cosiddetto “paradigma urbano” o “di ordine superiore”12, probabilmente legato all’obsolescenza della città tradizionale, a sua volta connessa al nuovo ruolo di nodi economici che le città assumono in un contesto globalizzato. Se, infatti, il modello di gestione della prima si “reggeva sulla sua struttura economica e produttiva, sulla relativa omogeneità della sua composizione sociale e sulla presenza di un potere politico concentrato, di forma oligarchica”13, oggi è sempre più difficile vedere la città come il risultato di un processo di tipo lineare, [dal momento] che sono proprio l’instabilità dei regimi di accumulazione economica e i ritmi accelerati delle trasformazioni a imporre
caso dell’edificio ibrido. La differenza principale, invece, rispetto al complesso Mixed-use è la diversa interazione che intercorre fra le funzioni che lo compongono: in tal caso, esse sono solo accostate reciprocamente, senza che vi sia una vera e propria integrazione. (“Hybrid Building III”, a+t, Primavera-Estate 2009) 8 Vd. nota 6 9 Paolo Vitali, “Ibridi. Enti urbani di nuova generazione a funzioni complesse. Nuove tipologie e spazi ibridi” in “Urban Hybridization” pp. 303- 331, (a cura di) F. Zanni (2012), Maggioli Editore, Milano 25
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una maggiore attenzione per le condizioni variabili delle nuove strutture urbane e a mettere in dubbio le strategie tradizionali di costruzione della città.” In un contesto urbano, dunque, “non percettibile dai sensi in quanto insieme, privato di strutture gerarchizzate, suscettibile di essere percorso in tutti i sensi”14, il tentativo da parte dell’urbanistica di governarne la coerenza complessiva va ad essere centrale. A tal proposito, si attua, dunque, un’azione urbana che si conforma attraverso un processo di ricucitura, (sostitutiva rispetto al metodo di “pianificazione cascata “tipico del XX secolo), in cui gli spazi generalmente ibridi vanno ad assumere un ruolo centrale e in cui i vuoti si rendono ombelichi di possibilità. Tra queste,
emerge anche quella dell’ibrido architettonico, costruito da nuovo o a partire da mega-strutture ormai obsolete a cui, così, si cerca di dare nuova vita.15 Non di secondaria importanza, il ruolo di immagine che queste possono assumere in un contesto tale per cui le città, snodi di flussi economici mondiali, come già precedentemente accennato, si trovano in uno stato di perenne competizione reciproca, persino a superamento della dimensione statale.16
Zygmunt Bauman (1999), “Modernità liquida”, Edizioni Laterza vd. nota 1, p. 16 12 Cassandra Cozza, “Il ruolo dell’Urban Hybridization nelle trasformazioni urbane” in “Urban Hybridization”, (a cura di) F. Zanni (2012), Maggioli Editore, Milano 13 vd. nota 9 14 Andre’ Corboz (1998a), “L’ipercittà”, in “Ordine sparso. Saggi sull’arte, il metodo , la città e il territorio, a cura di P. Viganò, Franco Angeli, Milano 10 11
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A tal proposito, esemplificativo è il “Documento Direttore del Progetto Passante” del 1984 varato dal Comune di Milano, ad inaugurazione dell’era dei ‘progetti speciali’ come alternativa alla pianificazione comprehensive del Piano regolatore vigente, causa di inerzie procedurali e scarsa incisività nel generare qualità insediativa nei processi di trasformazione. 16 Emblematica la dichiarazione successiva alla Brexit da parte del sindaco di Londra Sadiq Khan, che all’epoca affermò: “[Londra] era e resterà sempre aperta all’Europa e al mondo e si sentirà sempre parte della famiglia europea”). 15
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3.
Preparazione all’indagine Si va a definire il metodo di scelta dei casi studio individuati e il conseguente svolgimento dell’indagine effettuata su di essi, suddivisa in due fasi: la prima teorica, la seconda empirica.
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Ridisegno schematico e personalizzato della planimetria di Rotterdam, Museo Boijmans, Rotterdam 31
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Confrontarsi con il vero e proprio processo di indagine ha comportato un ampio salto in avanti rispetto alla prima fase di ricerca più speculativa e generale sull’argomento “ibrido”. Si è trattato infatti di realizzare quel travagliato passaggio da una dimensione di ricerca prettamente astratta e teoretica, basata sulla letteratura corrente a riguardo, che implica una presa di coscienza quasi aprioristica delle nozioni trasmesse, ad una, al contrario, giocata in prima persona, non fondata su una letteratura consolidata ma ancora vaga e poco trattata. La constatazione, infatti, della mancanza di dati specifici per la realizzazione dell’indagine ha condotto allo sviluppo di una
vera e propria investigazione personale, che si basasse in primo luogo su un lavoro di ridisegno dei casi studio interessati e del loro intorno, così da comprenderne parzialmente le caratteristiche, e, successivamente, su una fase di sopralluogo, in modo tale da osservare e meglio comprendere tutto quel substrato argilloso, su cui si conformano delle tracce volatili, comunemente chiamato “esperienza”.
Il valore di tale indagine non risiede, perciò, nella determinazione di conclusioni assolutiste e sempre valide, la cui ricerca sarebbe stata probabilmente vana in un territorio, com’è quello della città contemporanea europea, da qualche decennio in un costante stato di crisi, nel senso etimologico del termine1, quanto più su quello che, parafrasando De Andrè, è il “valore del viaggio, viaggiare”, osservare, percepire, per poi riportare delle impressioni, in questo caso mirate ad uno scopo particolare, ossia all’apertura di un processo di riflessione dialettica sulla questione degli effetti dell’edificio ibrido nel suo intorno. Si avvia così la ricerca.
1 Il termine deriva dal verbo greco krino “distinguere, giudicare”, da cui il termine “crinale”. Si usa, in particolare, ad indicare un periodo di incertezza, in cui non si sa quale direzione prendere. (“Il nuovo etimologico, Zanichelli)
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L’individuazione dei casi studio è stata dettata in primo luogo dalla loro localizzazione geografica: la necessità, infatti, di dover effettuare un’indagine che comportasse anche un’incursione sul campo ha conseguentemente portato all’esclusione di tutti quei progetti localizzati in Oriente o negli Stati Uniti, (luoghi in cui, inoltre, gli ibridi architettonici assumono valenze diverse rispetto a quelle che son proprie dell’ibrido nella città storica europea). La scelta è stata condotta partendo dalla lista di edifici ibridi proposti dalla rivista spagnola “a+t” nel corso della serie dedicata all’argomento, intitolata Hybrids I-II-III. A questo punto la selezione dei singoli casi è stata dettata dalla presenza, o meno, per ciascun progetto illustrato, di 8 variabili, la cui definizione è emersa da un lento e attento lavoro di sintesi, volto a riassumere e a specificare tutte le peculiarità dalla letteratura corrente assunte a fautrici, almeno in via teorica, del carattere ibrido dell’edificio. Secondo la logica del ragionamento, più caratteristiche, tra queste che si vanno a specificare, presenta una struttura, più questa è ibrida.
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3.1 L’individuazione dei casi studio La scala del progetto rispetto all’intorno In Hybrid II queste strutture sono definite come super-buildings, super-blocks, megastructures o Building-as-a-city2, “urban monsters of a new and generous breed” (descrizione degli architetti j. Ferrier e P. Gazeau riguardo al loro progetto di trasformazione dello stadio Marcel Saupin a Nantes). Il ragionamento, che potrebbe sembrare banale ma non scontato, segue la logica per cui l’insieme di più funzioni in un unico complesso implica un’aumento della scala di quest’ultimo, che si configura, dunque, attraverso la sovrapposizione di più piani, negli ibridi verticali, o nell’addizione di più sezioni in quelli orizzontali. Tale mixité dovrebbe portare, in questo modo, alla
realizzazione di dinamiche urbane all’interno dell’edificio stesso, quasi a formare una sorta di cittadella, spazialmente più o meno collegata al suo intorno. Susan Komossa, a tal proposito, nel suo saggio sugli edifici ibridi, afferma come essi si pongano come “extremely condensed urban blocks”.3
La densità dell’area Teoricamente, gli edifici ibridi funzionano in un contesto urbano ben consolidato e denso, nel quale il complesso si rende suolo di contaminazione tra realtà disparate. Fu Rem Koolhaas il primo ad individuare nel corso del suo studio su New York4, il potenziale che si cela dietro alla densità urbana per lo sviluppo dell’ibrido architettonico; Rafael Luna, a tal proposito, riassume efficacemente la questione, affermando come un vero edificio ibrido “exploits the conditions of
congestion to generate new forms of social interaction” 5.
“Hybrid II”, a+t, p.25 Susan Komossa, “Researching and designing GREAT: the extremely condensed hybrid urban blocks”, AE... Revista Lusofona de Arquitectura e Educacao (5), 2011 4 Rem Koolhaas, “Delirious New York. Un manifesto retroattivo per Manhattan”, Mondadori Electa, 2001, Milano 5 Rafael Luna, “A flexible infra-architectural system for a Hybrid Shanghai”, MIT, 2010 2 3
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La diversità funzionale Secondo gli autori di Hybrid II, la personalità dell’ibrido dipende dalla complessità, dalla varietà e dalla diversità dei programmi che ospita e si basa sul mescolamento di funzioni inaspettate:
“The hybrid building looks for unexpected, unpredictable, intimate relationships, encourages coexistence and it’s conscious that unprogrammed situations are the keys to its own future”6.
Inoltre, a differenza del social condenser, come viene meglio esemplificato nella parte introduttiva del terzo numero della serie a+t: Hybrid, in cui le funzioni in esso integrate sono rivolte solo all’utenza residente all’interno del complesso, l’edificio ibrido, indirizza tali programmi all’intera urbanità. La reciproca scala delle funzioni Sebbene la messa a sistema di più funzioni in un unico complesso imponga che questo risulti di grande scala, non è detto che le funzioni stesse che ne fanno parte debbano essere di ampio respiro; si preferisce, al contrario, che vi sia un equilibrio tra funzioni rivolte ad una sola tipologia di utente, (come ad esempio, potrebbero essere un cinema o una piscina), e programmi che possano attrarre più tipologie di utenza, (come negozi specializzati di vario tipo). A tal proposito, Jan Gehl nel saggio, “The city at an Eye Level”7, afferma come un condensatore di funzioni di più piccola scala abbia maggiori possibilità di generare un vibrante ed eterogeneo incontro
rispetto ad un altro che all’opposto ne ospiti solo una ma di maggiori dimensioni.
“Hybrid II”, a+t, p.23 Jan Gehl, Lotte Johansen Kaefer & Solvejg Reigstad, “Close encounters with buildings” in “The city at an Eye Level. Second and extended version”, Meredith Glasser, Mattijs van ‘t hoff, Hans Karssenberg, Jeroen Laven (a cura di), Eburon, Rotterdam 2012
6 7
36
L’integrazione funzionale Perché un edificio sia ibrido è necessario che le funzioni che ospita vadano ad essere integrate tra loro, scopo raggiungibile sia in termini spaziali che visivi. E’ questa la principale distinzione che li contraddistingue dai cosiddetti mixed-use, in cui si propone una mixitè funzionale, che tuttavia non si presenta come un solo ed unico organismo che possa rivelare le sue potenzialità olistiche. Nell’edificio ibrido, inoltre, la sfera pubblica e quella privata si mescolano, come in una sorta di diaframma permeabile.
La flessibilità Una delle caratteristiche del progetto dell’ibrido architettonico dovrebbe essere una potenziale polivalenza, esperibile nel suo utilizzo nell’arco della giornata, così come nel suo arco di vita. Non solo gli spazi che ne fanno parte, infatti, dovrebbero
assecondare utilizzi diversi nel corso del breve periodo, a seconda dei programmi progettati, (Hybrid II parla a proposito del ritmo funzionale di tali edifici come di full-time buildings, poiché si suppone che siano sempre in qualche modo attivi)8, ma dovrebbero essere anche pronti a rispondere alle necessità informali imposte dal contesto e variabili nell’arco del lungo periodo. A tal proposito Rem Koolhaas afferma come “a building has at least two lives - the one imagined by its maker and the life it lives afterward- and they are never the same.”9
vd. nota 2 Paul Fraioli, “The Invention and Reinvention of the city: interviene with Rem Koolhaas”, Journal of International Affairs 65 (2012)
8 9
37
L’arte di mischiare: l’ibrido architettonico tra significati ed effetti
Le connessioni verticali L’accessibilità alle connessioni verticali dell’ibrido permette la sua integrazione col contesto urbano. In particolare, questa categoria è strettamente collegata all’ultima, riguardante la presenza di spazi condensatori e di incontro. Quando queste sorte di piazze coperte si configurano ai piani più alti di un edificio è necessario, per far si che questi funzionino, che siano connessi con l’esterno. Per tale motivo, le connessioni verticali promuovono integrazione, elevando la sfera pubblica dal piano terra ai piani più alti del complesso: “Vertical
connections such as elevators and stairs make it possible for building users to find their destination in the city within the city, which is the hybrid building”.10
Gli spazi di raccolta integrati Generalmente in ambito urbano, la presenza di uno spazio di incontro porta ad una realtà civica viva e vibrante.11 Dal momento che l’ibrido si pone come una sorta di cittadella, integrata col contesto urbano in cui si innette, questa sfera
di socialità dovrebbe penetrare al suo interno, “estendendo il dominio pubblico in verticale ed orizzontale, collegandolo con quello esterno”. 12
“The hybrid goes beyond the domain of architecture and enters the realm of urban planning.”13
Vd. nota 3 Cecilia Benites, Clare Lyster, Emily Abruzzo e Alexander Briseno (a cura di), “Regarding Public space”, 306090 Architecture Journal 9, 2005 12 Vd. nota 9 13 Vd. nota 2 10 11
38
Un ulteriore fattore, che s’è rivelato necessariamente influente nella scelta di ciascun progetto, è stata la rispettiva localizzazione all’interno di determinati ambiti urbani: si aveva la volontà di considerare il comportamento dell’ibrido e delle relazioni che stringe con le aree a lui prossime sia in ambito consolidato che periferico, cercando di comprenderne
eventuali differenze.
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L’arte di mischiare: l’ibrido architettonico tra significati ed effetti
Torre SyV - Rubio & Alvarez Sala Madrid Docks de Paris - Jakob+MacFarlane Parigi Trasformazione dello Stadio di Marcel Saupin - FGP(u), Nantes Toni Areal - EM2N Zurigo
Torre Velasca - BBPR Milano
Barbican - Chamberlin, Powell & Bonn, Arup Londra
Brunswick Center - Patrick Hodgkinson Londra Ihme Zentrum - Helmut Kloss, Peter Kolb & Partners Hannover Saint Jakob Turm - Herzog & de Meuron Basilea KX200 - Allford Hall Monaghan Morris Londra I casi listati seguono lo stesso ordine presentato nelle riviste “a+t. Hybrids I-II-III�
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41
L’arte di mischiare: l’ibrido architettonico tra significati ed effetti
flessibilita’
connessioni verticali
spazi di raccolta
scale delle funzioni
integrazione funzionale
diversita’ funzionale
densita’
scala urbana
36 apartments and medical centre Hamonic + Mason , Pantin Youth Housing, Nursery and Occupational Center- Blanca Lleò, Barcellona
Block II - Block Architects Nantes Housing, Offices and Retail Building in Avenida Lisboa - Goncalo Byrne Arquitectos, Evora
Pontsteiger - arons en gelauff architecten Amsterdam
Market Hall - MVRDV Rotterdam Situla Complex - bevk perovic arhitekti Lubiana
Porta Fira Towers - ITO AA, b720 Arquitectos L’Hospitalet de Llobregat De Rotterdam - OMA Rotterdam Trasformazione dell’ Entrepot Macdonald - OMA Parigi
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L’arte di mischiare: l’ibrido architettonico tra significati ed effetti
flessibilita’
connessioni verticali
spazi di raccolta
scale delle funzioni
integrazione funzionale
diversita’ funzionale
densita’
scala urbana
Al termine di questo processo, in particolare, emergono i casi: - Trasformazione dell’ Entrepot Macdonald, dello studio OMA, Parigi. - Docks de Paris, dello studio Jakob+MacFarlane, Parigi; - De Rotterdam, dello studio OMA, Rotterdam;
Interessante notare, a tal proposito, come i casi studio individuati appartengano a due municipalità in particolare, ossia a Parigi e a Rotterdam. Premesso che non c’è stata nessuna volontà aprioristica rispetto al risultato, emerso infatti dalla strategia decisionale suddetta, non risulta tuttavia un caso che il processo di selezione abbia condotto a questo esito. Si tratta, infatti, di due città che hanno puntato molto, seppur per motivi e in momenti diversi, sulla definizione e sulla costruzione di ibridi urbani. Rotterdam già nel 1992 presenta un piano urbanistico volto alla generazione di una città che sia viva 24 ore su 24, con la realizzazione dell’urbanità verticale del masterplan per Wilhelminapier, disegnato da Sir Norman Foster. Si apre in tal modo un’epoca di forte rinnovamento urbano, che investe anche l’area centrale della città, con la costruzione di edifici di rilevanza mondiale dal punto di vista architettonico come la Timmerhuis, disegnata da OMA, il Markthal, di MVRDV, o il complesso multifunzionale Calypso di William Alsop, proponendo così una nuova identità culturale. A Parigi, invece, risulta emblematica la promulgazione nel 2016 del concorso Reinventer Paris, che già nel 2017 conosce una seconda edizione, segno di una volontà di reinvenzione degli spazi della capitale francese allo scopo di meglio intercettare le nuove esigenze del vivere contemporaneo. In quel caso si chiede ad architetti provenienti da tutto il mondo, infatti, di pensare a degli “edifici compositi, innovativi in termini di utilizzo, flessibili ed intelligenti”14,così da realizzare spazi che più propriamente si sappiano conformare ad un nuovo stile di vita urbana, che esige “la presenza di spazi condivisi, di co-working, di spazi innovativi adatti alle nuove modalità di compravendita, come temporary shops o fablab.”15 14 15
Da http://www.reinventer.paris/2015-2016/en/home/ Ibidem
44
Su ognuno dei casi studio precedentemente individuati si vanno ora a condurre due tipologie di analisi, a cui si è accennato nel corso dell’introduzione all’elaborato, condotte in due momenti diversi, al fine di indagare i casi studio e l’urbanità in cui si inseriscono prima da un punto di vista puramente oggettivo, poi sensibile e personale. Una prima indagine teorica indaga, dunque, i progetti e il loro intorno da un punto di vista funzionale, contestuale, morfo-tipologico; una seconda fase di studio empirica si concretizza, invece, attraverso un’esperienza diretta sul luogo. Le informazioni apprese durante i due momenti di studio sono state integrate nel corso della stesura finale dell’elaborato attraverso un attento lavoro di sintesi definitiva, così da evitare la restituzione di semplici frammenti nozionistici, allo scopo di coadiuvare una trattazione conforme e coerente, che allo stesso tempo desse prova della complessità dell’argomento.
45
L’arte di mischiare: l’ibrido architettonico tra significati ed effetti
Di particolare rilievo per l’analisi di ciascun caso studio è stata la definizione del termine “intorno”: in questo caso, si è trattato principalmente della definizione di un rapporto di scala, che si
è constatato, infine, essere variabile a seconda del progetto trattato. Si è evidenziato, infatti, come la potenza centrifuga
di ciascun ibrido architettonico varii a seconda di una serie di fattori contestuali, che non possono essere omologati. Si pensi, per esempio, alla presenza di determinate infrastrutture, che siano queste naturali o artificiali, o di ulteriori poli centrifughi/ centripeti nell’arco di una distanza, per esempio, percorribile a piedi; Si tratta, dunque, di un tema collegato sia alla questione dell’accessibilità sia alla presenza di altri fattori funzionali che possono deviare una serie di flussi, interrompendo in tal modo il carattere centrico dell’edificio. Si introduce, in questo modo, un ulteriore concetto che si ritiene sia il caso chiarire prima dell’inizio della trattazione mirata dei casi: il concetto, così spesso inflazionato parlando di edifici ibridi, di “centralità”. Riprendendo brevemente il termine da un punto di vista storico, sia come congegno tipologico che come luogo identitario, si può affermare che il concetto di “centralità” si sia conformato nella città storica attraverso due filoni, entrambi fondati sulla densificazione e sulla concentrazione urbana. “Il primo è sintetizzato nel Foro, luogo dello scambio in cui si concentra la funzione direzionale della società e del territorio”16, tipologicamente riconducibile ad un vuoto circondato da una bordatura; il secondo “è rappresentato dai grandi organismi architettonici unitari condensatori di funzioni, attività, usi e significati assimilabili alla stessa idea di città”17: si pensi a tal proposito a basiliche, chiese, ai municipi dell’età comunale o agli ospedali dell’800. In quest’ultimo caso, da cui deriva oggi la tipologia dei cosiddetti “spazi ibridi”, lo spazio centrico assume sia una natura introversa che estroversa, quale caratteristica della sua ambivalenza aggregativa, essendo, da una parte, chiuso
rispetto all’esterno da confini, che si presentino come vera e Paolo Strina, “Il Significato di centralità. Tecniche di densificazione dello spazio costruito”, FA Magazine, 30, novembre-dicembre 2014 17 Ibidem 16
46
3.2 Le fasi dell’analisi tra problematiche e chiarimenti
propria delimitazione o come semplici tracciati facilmente superabili; dall’altra, aperto in quanto attraversato dallo spazio pubblico, che assume qui un ruolo transcalare. Il suo “essere centrale” dipende dalla capacità dell’edificio di rimanere “al passo” con le modificazioni dell’intorno con cui si relaziona: “Soltanto a partire da questa ossatura (la città) la centralità può essere regolata per restare coerente al proprio ruolo nello sviluppo e nella contrazione, nella trasformazione e nella conservazione della sua compagine”18, sicché questa
risulta tanto più efficace quanto più è in grado innescare relazioni a scale diverse col suo intorno, di cui coglie le peculiarità, attraverso un rapporto gerarchico tra servizio e attrazione. Oggi, i problemi compositivi della città contemporanea, sviluppatasi attraverso una logica additiva, con cui si susseguono i diversi episodi insediativi, inibiscono la formazione di vere e proprie centralità locali nei territori della colonizzazione residenziale. Si vanno a formare in questi luoghi delle Bigness che si affermano progressivamente quali “capisaldi dell’organizzazione territoriale e riferimento per un numero crescente di pratiche sociali: contenitori commerciali e shopping mall, cittadelle del commercio e del loisir, recapiti e terminali della mobilità… sembrano caricarsi di valenze molteplici e assumere il ruolo di nuovi cores effettivi della città contemporanea.”19 A questo punto, una nuova sfida si impone al mondo sia architettonico che urbanistico, ossia l’accettazione proattiva di questi luoghi, attraverso una loro reimmersione nel territorio, che sviluppi spazi e servizi per la vita in pubblico maggiormente performanti, attraverso una riprogettazione dei rapporti tra spazi costruiti ed aperti, un ampliamento delle funzionalità di questi ultimi, una maggior articolazione con gli insediamenti circostanti. Da qui, per
l’appunto, il crescente interesse per la dimensione dell’edificio ibrido, come complesso multifunzionale che sappia tuttavia integrare ed integrarsi con l’ambito urbano che interessa.
Guido Canella, “La diffusione del centro” , “Zodiac”, n.13, Milano, 1995 Andrea Di Giovanni, “Spazi Comuni. Progetto urbanistico e vita in pubblico nella città contemporanea” (2010), Carocci Editori, Roma 18 19
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L’arte di mischiare: l’ibrido architettonico tra significati ed effetti
Per far sì che tale scopo si realizzi, si indicano di seguito in modo schematico delle proprietà che sono state utili alla valutazione del carattere centrico di un luogo e che hanno accompagnato quelle sensazioni celate dalla carta e che solo l’esperienza diretta ha potuto dispiegare, delineando così le considerazioni valutative di ciascun caso studio. Accessibilita’ Intesa rispetto all’intorno più prossimo dell’edificio, verificabile attraverso la constatazione della maggior apertura o chiusura dell’edificio stesso rispetto all’esterno. L’accessibilità influenza
l’attrattività del luogo.
Multiscalarita’ Si definisce con questo termine la possibilità dell’ibrido di essere raggiunto da diverse tipologie di utenti per via della prossimità di sistemi infrastrutturali, pedonali, viari. Attrattivita’ in termini di servizi La centralità “deve avere la proprietà di offrire beni e servizi ad una popolazione esterna”.20
Scena
“La centralità deve poggiare anche sull’immagine, il benessere e il piacere visuale. E’ un carattere che si realizza
attraverso la qualità dell’architettura, dello spazio pubblico e del paesaggio.”21 Rapporti coi bordi del tessuto pre-esistente Proporzione degli spazi
Da https://www.arturbain.fr/arturbain/vocabulaire/francais/fiches/centralite/fiche_interactive/impression/intit. pdf, definizione di Walter Christaller, in “Teoria dei luoghi centrali”, 1933 21 Da https://www.arturbain.fr/arturbain/vocabulaire/francais/fiches/centralite/fiche_interactive/impression/intit. pdf, definizione di J.C. Gallety 20
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Che cosa definisce un ibrido tale?
Caratteristiche dell’ibrido
Entrepot Macdonald OMA
Docks de Paris JAKOB + MACFARLANE
De Rotterdam OMA
Gli effetti sull’intorno
Analisi empirica sul luogo
Analisi territoriale e tipologica
. Servizi . Popolazione .Trasporti...
. Sopralluogo . Interviste
. Accessi . Spazi pubblici . Funzioni...
Considerazioni conclusive Schema riassuntivo sullo svolgimento dell’indagine. In arancio, gli strumenti serviti a definirne le fasi.
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L’arte di mischiare: l’ibrido architettonico tra significati ed effetti
Tali proprietà, e di conseguenza la realizzazione della centralità, vanno a loro volta ad essere influenzate da alcuni semplici suggerimenti architettonici quali l’assenza di lunghe distanze all’interno del complesso e di muri di separazione tra ambiti, da una distribuzione delle funzioni su più livelli tra loro in contatto frontale, prediligendo nell’ambito una percorrenza lenta piuttosto che veloce.
50
Inibitori d’incontro
Suggerimenti d’incontro
Muri
No muri
Lunghe distanze
Brevi distanze
Alta velocità
Bassa velocità
Livelli non connessi
Livelli in connessione
Di spalle
Di fronte
Jan Gehl, “Life Between Buildings”, urbanrefine.blogspot.com
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L’arte di mischiare: l’ibrido architettonico tra significati ed effetti
52
4.
I casi studio Si presentano ora singolarmente i casi studio individuati. Per ognuno si definiscono gli obiettivi originari del progetto e l’ambito in cui si localizzano, sia in termini urbanistici che demografici, attraverso alcuni elaborati grafici di ridisegno per ciscun caso. Si riportano, inoltre, le impressioni ricavate durante la fase di sopralluogo e le fonti raccolte, per poi giungere per ognuno ad alcune considerazioni conclusive.
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L’arte di mischiare: l’ibrido architettonico tra significati ed effetti
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4.1
L’Entrepot Macdonald Studio OMA - Parigi
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L’arte di mischiare: l’ibrido architettonico tra significati ed effetti
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Localizzazione L’Entrepot Macdonald si inserisce all’estremo nord est del 19° arrondisement, in corrispondenza della circonvallazione periferica di Parigi, al confine con la banlieu di Aubervilliers. “La conurbazione metropolitana qui sorta, ha nel corso del tempo visto un frenetico stratificarsi di usi e infrastrutture. L’ottocento vi colloca industrie chimiche e manifatturiere per la presenza di scali ferroviari e del canale navigabile di SaintDenis, il novecento le infrastrutture della grande viabilità di collegamento tra il nord della Francia e la capitale, infine negli anni sessanta grands ensambles residenziali andranno a densificare la fascia di piccoli borghi compresa tra Parigi e le villes nouvelles, congestionando ulteriormente la già sterminata banlieue parigina.”1
Si tratta perciò di un territorio fortemente frammentato ed etnograficamente vario, segnato da una fitta rete di infrastrutture che, pur avvicinando il quartiere alle aree più centrali della città, provoca un’interruzione dialettica tra le parti più prossime. Confini, questi, che si insinuano anche nel sentire comune degli abitanti stessi, i quali, da quanto emerge da un’indagine sulla stampa locale, percepiscono quell’anello di cemento, costituito dalla circonvallazione, per l’appunto, come delle sorte di colonne d’Ercole, varcate le quali “le probabilità di aggressione o violenza crescono del 300%”2. Non è un caso, dunque, che l’intervento, facente parte di un più ampio programma di rinnovamento urbano, disegnato dall’architetto Dusapin Leclerc e volto a promuovere una maggior integrazione tra periferie e città consolidata con la costruzione di una serie di centralità puntuali, si ponga come ago e filo rispetto a quei lembi di città che nel corso del tempo sono andati sempre più logorandosi e disperdendosi, realizzando quell’ambigua situazione per cui una condizione Personalmente, entrare ad Aubervilliers è stato come varcare una soglia di un territorio a cui non si appartiene: il fatto di 1 2
Giovanni Chiaramonte, Giuseppe Marinone, “The evolving european city”, McGill Queens University, 2015 Katarzyna Piasecka, “Meet My Hood”, Cafe Babel, 5 ottobre 2015
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L’arte di mischiare: l’ibrido architettonico tra significati ed effetti
di prossimità spaziale corrisponde tuttavia ad uno stato di differenziazione sociale.
La presenza della circonvallazione periferica tra il 19° arrondisement e Aubervilliers, si innesta, infatti, come una profonda crepa, non solo spaziale: per rendersene conto basta
dare un’occhiata ai dati relativi a ciascuna area. Da questi emerge, di fatto, come, sebbene l’incidenza di popolazione straniera sia particolarmente forte sia all’interno del 19° arrondisement che nella municipalità di Aubervilliers, (entrambe le aree risultano, infatti, prime per percentuale di popolazione straniera rispetto ai due ambiti amministrativi di cui fanno parte, ossia rispettivamente Parigi e Saint-Denis) queste non appaiano tuttavia tra loro omogenee. La percentuale straniera presente nel 19° arrondisement rispetto alla sua popolazione totale, in realtà, non risulta minimamente comparabile a quella di Aubervilliers, dove la densità demografica cala drasticamente, a fronte però della duplicazione della percentuale immigrata.3 La presenza della preponderante componente straniera rispetto a quella parigina provoca qui fenomeni di reciproca ghettizzazione, per cui, se da una parte i parigini scorgono Aubervilliers, (così come la maggior parte delle banlieues di Saint Denis), come attraverso un filtro di pericolo, soprattutto dopo i fatti terroristici avvenuti negli ultimi anni, dall’altra anche gli abitanti stessi di Aubervilliers sembrano innalzare come un muro di esclusione rispetto a tutto ciò che indichi un “loro” rispetto ad un “noi”.
Aubervilliers3 Popolazione totale (2014): 80.273 Età media (Anni): 34,2 60
52,9%
47,1%
40
37,0%
20
0
Maschi Femmine Stranieri
19° Arrondisement3 Popolazione totale (2014): 187.156 Età media (Anni): 37,7 60 47,7%
52,3%
40
20
18,0%
0
Maschi Femmine Stranieri Parigi3 Popolazione totale (2014): 2.220.445 Età media (Anni): 39,5 60 47%
53%
40
20
0 3
14,6%
Maschi Femmine Stranieri
https://ugeo.urbistat.com/AdminStat/en/fr/demografia/dati-sintesi/paris-5e-arrondissement/75105/4
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essere una ragazza, sola e per di più bianca non ha sicuramente aiutato: a differenza di quanto accaduto in altri luoghi centrali sia a Parigi che a Rotterdam, non ho subito nessun tipo di molestia verbale, ma è stato chiaro che costituissi un episodio di diversità e che per questo attirassi le occhiate stupite e indagatrici degli abitanti del quartiere. A tale distinzione sociale corrisponde d’altro canto una distinzione funzionale, come emerso attraverso l’analisi a riguardo nell’intorno dell’intervento, da cui scaturisce una destinazione prettamente industriale per l’area di Aubervilliers, in contrapposizione al carattere principalmente residenziale che contraddistingue l’area strettamente urbana, nella quale si inseriscono anche particolari attrazioni culturali sovralocali, (come la Citè des sciences et de la industrie o la Grande Halle) e il più grande parco della città, il parco de La Villette. Tuttavia, sebbene il sopralluogo abbia permesso la constatazione di un universo di precarietà e informalità ormai legittimata, costituito da vere e proprie tendopoli congegnate al di sopra dei marciapiedi, già a partire dal 2008 si segnala un programma di rinnovamento urbano per Aubervilliers volto a “résorber l’habitat insalubre, diversifier l’offre de logements, renover l’habitat social, offrir des espaces et des equipements publique de qualité, développer l’offre commerciale dans le quartier”4, di cui penso si possano iniziare ad assodare gli effetti, come mostrano sia la presenza di piccoli esercizi commerciali costituìtesi all’interno delle ex fabbriche, sia l’esistenza di nuovi e ampi spazi pubblici, che ad oggi sembrerebbero tuttavia essere ancora sotto utilizzati.
Da http://www.plainecommune.fr/en/les-projets/renovation-urbaine-anru/aubervilliers/villette-quatre-chemins/#. W1iOg7ZabEZ
4
59
L’arte di mischiare: l’ibrido architettonico tra significati ed effetti
Contesto urbano
Le s Docks de Paris, centro congressi Centro commerciale Le Milenaire Boulevard Peripherique Port de Aubervilliers Complesso sportivo Le Five Parigi Stazione di Rosa Parks
1 km Parc de La Villette
2 km
60
Trasporti
M
Fronte Populaire
La Courneuve 8 mai 1945 M
Aubervilliers - Pantin - Quatre Chemins t3b
t3b
M
t3b
Porte de la chapelle
t3b
R
M
Rosa Parks M
Corentin Cariou
M
Mairie d’Issy
Porte de la Villette
M
Marx Dormoy
Bobigny - Pablo Picasso M Porte de Pantin
Crimée
M
M
Riquet M
M
Stalingrad
Laumiere
Ourcq
Place d’Italie
aree residenziali aree residenziali aree industriali aree industriali funzioni ad importanza sovralocale funzioni ad importanza sovralocale aree residuali aree residuali aree verdi pubbliche aree verdi pubbliche
ale fiume Senna fiume Senna
binari ferroviari
di importanza sovralocale funzioni ad funzioni ad importanza sovralocale aree verdi pubbliche aree verdi pubbliche binari ferroviari binari ferroviari fiume Senna fiume Senna vie ad alta percorrenza vie ad alta percorrenza strade urbane principali strade urbane principali
T3b t3b
binari ferroviari binari ferroviari
fermate tramviaria 3b vie adlinea alta percorrenza vie ad alta percorrenza
R M
strade urbane principali stradeRER urbane principali fermate
fermate metropolitana
vie ad alta percorrenza
Dati ricavati https://www.google.it/maps stradedaurbane principali
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L’arte di mischiare: l’ibrido architettonico tra significati ed effetti
Percorrenze
31 minuti 31 minuti
1 h e 13 min
40 minuti
1 ora e 13 minuti
40 minuti 0
30
Tempistiche per arrivare in centro a Parigi (Notre Dame)
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345 m Queen Mary 2 507 m Fiat Lingotto, Torino 617 m Entrepot Macdonald, Parigi
L’Entrepot Macdonald Concentrandosi ora più da vicino sul caso studio considerato, questo riguarda il rinnovamento di un’enorme megastruttura costruita dall’architetto Marcel Forest nel 1970 per volere di uno dei reparti merci della SNFC, (le ferrovie francesi). Il complesso, alto 16 m, si estende per una superficie di 617 m, caratteristica che gli è valsa il titolo di edificio più esteso in tutta Parigi, “paragonabile per dimensioni ai complessi di Corviale e del Karl Marx-Hof.”5
Nell’ambito sopra delineato, la trasformazione dell’Entrepot fa parte di un più ampio programma urbanistico di rinnovamento Corviale, Roma che attraverso piccole azioni chirurgiche tenta di strutturare 1.100 m l’indistinto tessuto urbano, spesso anonimo o incompiuto, della periferia nord est di Parigi, realizzando diverse relazioni Karl Marx-Hof, Vienna tra le parti e ripristinando la continuità fisica tra le componenti morfologiche e tipologiche contestuali, dandole nuova vita. Adattamento grafico da a+t“Hybrid Sicuramente importante in quest’ambito di rigenerazione è stata l’apertura di una nuova stazione della RER nel 2006, III”, p. 246 collocata proprio a ridosso dell’ambito di intervento, fatto che conferisce al complesso un ruolo ed una posizione strategici, rendendolo “multiscalare” a livello urbano. 980 m
5
“Hybrid III”, a+t, p.242
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L’arte di mischiare: l’ibrido architettonico tra significati ed effetti
Da un punto di vista più propriamente architettonico, il progetto di trasformazione sull’Entrepot prevede due principali modalità d’azione: un primo gesto di rottura, attraverso cui si ricerca una maggior dialettica relazionale con l’intorno urbano dell’edificio, e un successivo momento di aggiunta, con la sovrapposizione di un ulteriore livello sulla struttura Stato originario della struttura pre-esistente, ad aumentare l’altezza del complesso e ad implementarne la superficie totale. I due fronti dell’edificio sono trattati in modo diverso: quello a sud va ad essere interrotto ritmicamente dalla presenza di feritoie che permettono l’ingresso della luce all’interno del complesso, mentre la facciata nord risulta completamente impermeabile, sebbene sia figurativamente resa dinamica dalla personalità che ciascun blocco, inserito all’interno dello scheletro presistente, conforma. Per la realizzazione del progetto, infatti, OMA si fa coordinatore di 13 grandi studi di architettura, così che da un punto di vista scenico ed estetico il complesso si rende piuttosto “eclettico”, andando ad unire Aggiunta del piano interrato per il parcheggio richiesto e di un ulteriore piano linguaggi diversi. All’interno della struttura il progetto prevede la realizzazione superiore di un giardino centrale, ad oggi ancora in fase di costruzione, mentre spazi per uffici e cellule per start-up si articolano attorno ad una serie di cortili, così da poterne definire la configurazione a seconda delle esigenze. Al piano terra dell’area uffici si va inoltre ad inserire un asilo, mentre altri servizi pubblici, come un college, una scuola ed un complesso sportivo trovano spazio all’angolo nord est della struttura; un Perforazione della struttura parcheggio di 1300 posti occupa, invece, i piani interrati. La peculiarità del progetto è data dal passaggio, all’interno della struttura stessa, di una linea tramviaria, che vuole favorire Adattamento grafico da a+t“Hybrid quell’integrazione edificio-urbanità ricercata dai progettisti: III”, p. 247 “The strategy of the master plan is to take advantage of the urban, structural and building regulation boundaries and to play with the client’s and city’s desires in order to interact between restriction and innovation.”6 6
“Hybrid III”, a+t, p.249
64
Funzioni dell’Entrepot Macdonald 0,3 %
0%
0%
0%
6,7 %
15 %
20 %
22 %
residenza parcheggio
36 %
agenzia di viaggio, ufficio postale centro commerciale Le Parks college Suzanne Lacore
65
100%
100%
100 %
centre social et cultural Rosa Parks; SEMAVIP
L’arte di mischiare: l’ibrido architettonico tra significati ed effetti
spazio pubblico aperto
terrazza pubblica (non realizzata)
Sezione longitudinale complesso centre social et cultural Rosa Parks; SEMAVIP
centro commerciale Le Parks
parcheggio
college Suzanne Lacore
agenzia di viaggio, ufficio postale
residenza
Adattamento grafico da a+t“Hybrid III�, pp. 242-243
66
Percezioni dalla realtà Raggiungo l’Entrepot dal parco de La Villette, costeggiando la linea tramviaria e la Senna. Sono circa le 9.30 del mattino, alcune persone in abito formale e alcuni genitori coi loro passeggini mi accompagnano nel tragitto. Intorno, gruppi di torri residenziali, che coi loro balconi come conformati a mo’ di tetris sembrerebbero aspirare ad una qualche originalità architettonica, e grandi edifici per uffici dai colori sgargianti. All’interno di questo panorama, l’Entrepot trova una sua collocazione di scala e di forma, in un territorio architettonicamente e spazialmente indefinito, periferico, principalmente conurbatore di flussi. Il suo prospetto in alluminio si rende visibile già a qualche centinaio di metri al lato dell’orizzonte e pian piano si apre alla vista solo di scorcio, enfatizzando così la sua predominante lunghezza e il susseguirsi di parti architettoniche differenti. Non sembra essere molto frequentato: due o tre persone davanti a me, poi nulla. Vedo la scuola per l’infanzia e quella superiore, sicuramente molto più frequentate durante il periodo scolastico, la palestra a fianco, nelle cui vetrine si scorge la presenza di alcune cyclette o tapis roulant in azione. Entro all’interno di una prima interruzione del lungo fronte continuo che conduce al lato opposto del complesso, una sorta di primo piccolo gate che, attraverso la sua costellazione di negozi avrebbe dovuto fungere da ingresso all’estesa area verde, lunga quanto l’intero complesso. La realtà è molto diversa dalle aspettative: le vetrine e gli spazi che queste
precludono sono ad oggi vuoti; l’ampia area verde ancora in costruzione, (in quest’ultimo caso, i lavori sono iniziati solo
a maggio 2018). La situazione non cambia per quasi tutta la prima metà del complesso: vetrine vuote, lavori in corso, poche persone all’intorno, soprattutto addetti ai lavori. Man mano, tuttavia, che ci si approssima all’uscita della stazione di Rosa Parks, collocata in corrispondenza di quella grande frattura, della larghezza di 18 m, a collegamento di un fronte con l’altro, la situazione muta, rendendosi più viva:
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L’arte di mischiare: l’ibrido architettonico tra significati ed effetti
sciami di persone ritmicamente attraversano l’ingresso centrale del complesso, a seconda dell’arrivo del treno.
Una vera e propria area di passaggio, per lo più obbligato, come sembrerebbero dimostrare anche i servizi all’intorno, costituiti principalmente da bar take-away e piccole caffetterie con qualche tavolo all’esterno. E’ qui, in corrispondenza di questo vero e proprio snodo urbano, che si ha l’inserimento all’interno del complesso della linea tramviaria, che prosegue, successivamente, verso il lato opposto rispetto a quello da cui sono arrivata. Io stessa seguo quella direzione e pian piano si torna ad una condizione di estrema tranquillità, come in una situazione di disorientamento: in questo caso sono presenti degli esercizi commerciali, ma all’intorno regna quel senso di vuoto che si potrebbe provare percorrendo una via interna di un outlet durante un normale giorno feriale al mattino presto. Ritorno, dunque, sul fronte strada: non c’è dubbio che il traffico e l’affaccio all’urbanità rendano il piano terra di questo grande blocco più vivo e apparentemente integrato, in una condizione di interdipendenza rispetto agli edifici pre esistenti sul lato opposto. A questo punto, decido di proseguire verso Aubervilliers per verificare direttamente quale sia la relazione tra i due ambiti urbani tra i quali l’Entrepot si pone. Attraverso, dunque, il boulevard Macdonald e successivamente un ponte che supera il Boulevard Peripherique. Approdo così ad Aubervilliers ed effettivamente già dopo qualche metro l’immagine del territorio cambia: non si tratta più della Parigi stereotipata a cui tutti pensiamo: è, questa, un’area più indefinita, frammentata, caratterizzata dal traffico, da grandi complessi industriali e residenziali di scarso valore estetico, sparsi in un ambito che sembrerebbe come dimenticato o che non si vuole vedere, in cui prendono forma vere e proprie tendopoli o campi nomadi. Le vie sono piuttosto sporche, i fronti strada occupati da piccoli negozi etnici o da grandi industrie. Percorro indisturbata per un certo tratto la strada principale del quartiere fino a che non entro all’interno di
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un’area che mi sembra diversa morfologicamente, priva di traffico e più tranquilla. Si tratta di quel territorio investito dal progetto di rinnovamento urbano già presentato nel 2008, a cui ho accennato precedentemente: ad oggi questo risulta completamente costruito: esercizi commerciali si sono insediati all’interno degli ex capannoni industriali e il tutto si articola attorno ad uno spazio pubblico centrale, nel quale si configura anche un orto urbano. Quando lo attraverso, l’ambito risulta particolarmente desolato: sono l’unica all’interno di quell’area, e persino i negozianti sembrano guardarmi straniti. Sbuco, in prossimità del centro commerciale, in corrispondenza di una grande piazza, che sembrerebbe essere di recente costruzione, sui cui lati affacciano alte torri residenziali ancora in fase di edificazione. Prendo da qui la metro di Front Populaire e concludo così il mio sopralluogo.
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Front Populaire 10
9
8 7 Port de Aubervilliers
2 6 Stazione di Rosa Parks
4-5
3
1 Parc de La Villette
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1 Vista della Senna dal Parco de La Villette. L’Entrepot non è ancora visibile.
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2 L’Entrepot Macdonald. Lato Boulevard Peripherique.
3 Avviso dei lavori in corso per la realizzazione del giardino.
4 Stato attuale dell’Entrepot. Lato ferrovia.
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5 Locali vuoti sul lato ferrovia.
6 Ingresso dall’Entrepot alla stazione di Rosa Parks.
L’arte di mischiare: l’ibrido architettonico tra significati ed effetti
7 Boulevard Peripherique
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8 Tendopoli all’ingresso di Aubervilliers.
9 Orti urbani all’interno dell’area di rinnovamento urbano.
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10 Fermata di Front Populaire.
L’arte di mischiare: l’ibrido architettonico tra significati ed effetti
Commenti e conclusioni Cercare di comprendere le dinamiche dell’Entrepot non è stato semplice, a partire dall’impossibilità di instaurare uno scambio diretto con le persone del posto per via della mancanza di una lingua comune. Di conseguenza, le conclusioni che ho potuto trarre dal mio viaggio sono derivate dall’esperienza di sopralluogo, che s’è svolta in due momenti diversi, in modo tale da poter osservare il funzionamento del complesso in giorni ed orari differenti, e dalla testimonianza di poche persone con cui è stato possibile comunicare. In via definitiva, credo che l’Entrepot, più che come edificio
ibrido, trovi significato in dipendenza della stazione di Rosa Parks, come una sorta di snodo di collegamento. Una sorta
di enorme gate, che, tuttavia, proprio nella sua vastità trova degli ostacoli per la sua completa realizzazione in continuità con la dimensione urbana, il che è manifestato anche dalla presenza di diversi locali ad oggi ancora vuoti agli estremi del complesso stesso. Una sorta di muraglia, dunque, piuttosto che un’apertura, che definisce e rimarca concretamente, così, quel confine già segnato dal Boulevard Peripherique che le scorre a poca distanza. Di certo il complesso si fa più efficace sul lato strada, dove il maggior traffico, non solo viario, ma anche di persone, rende le singole parti dell’Entrepot più vive ed attive. Non è un caso che accenni a “singole parti” del complesso, senza dunque andarlo a considerare come intero olistico: la notevole lunghezza della struttura, infatti, implica una perdita della sua totale lettura, a favore al contrario di una comprensione per singoli ambiti distinti. In generale,
dunque, credo si possa affermare che l’Entrepot, seppur inglobando nella sua stessa struttura il sistema dei trasporti pubblici, seppur essendo, dunque, multiscalare, non vada a realizzare quella sintesi tra funzioni diverse che si dovrebbe ottenere dal dialogo tra le diverse attività. A tal proposito,
si potrebbe, inoltre, dire che in esso si possano andare a classificare due tipologie di funzioni, di “serie A” e di “serie B”, tra loro in rapporto completamente adialettico: le prime,
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infatti, che affacciano all’esterno del complesso, risultano particolarmente avvantaggiate rispetto a quelle interne, che, al contrario, non sono segnalate all’esterno da alcun tipo di avviso a livello visivo e che devono oggi affrontare la questione dei lavori relativi alla costituzione del lungo parco interno, (non credo sia un caso che i locali qui posti siano infatti in gran parte vuoti). A proposito, infine, del parco, oggi in fase di costruzione, credo che la sua presenza potrebbe avere un ruolo attrattivo effettivamente per le persone del quartiere, che, in questo, potrebbero usufruire di uno spazio verde più vicino rispetto a quello offerto dal parco de La Villette, per cui è necessario percorrere un tragitto notevole sulle sponde della Senna. D’altro canto, mi chiedo anche se quest’area erbosa, dato il territorio in cui l’Entrepot si trova, (a tal proposito si vedano le foto relative, scattate intorno alla stazione di Rosa Parks), e lo stato di parziale abbandono in cui verte oggi lo stesso Entrepot, non diventi a lungo andare, se non presidiato adeguatamente, un luogo di ghettizzazione.
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L’arte di mischiare: l’ibrido architettonico tra significati ed effetti
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Vista del fronte dell’Entrepot scattata dalla parte opposta del Boulevard Peripherique. Il lungo complesso si presenta come una grande muraglia, varcabile solo in determinati punti. 79
L’arte di mischiare: l’ibrido architettonico tra significati ed effetti
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Nelle pagine seguenti si passa all’analisi del secondo caso studio, ancora una volta localizzato a Parigi, ma in un’area completamente diversa della città, ben più centrale della prima, andando ad osservare se si possano trarre le stesse conclusioni scaturite dall’indagine sul primo caso studio o se, al contrario, fattori quali la posizione nel tessuto urbano e una diversa destinazione funzionale possano davvero influire sull’efficacia del complesso.
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4.2
Les Docks de Paris Jakob + MacFarlane
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L’arte di mischiare: l’ibrido architettonico tra significati ed effetti
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Localizzazione Il caso studio considerato si trova, come suddetto, ancora una volta a Parigi, ma in questo caso nel 13esimo arrondisement, nella parte opposta della città rispetto a quella analizzata precedentemente, nel sud della capitale parigina, sulla cosiddetta Rive Gauche. Si tratta di un distretto prettamente
T
residenziale dove è presente il più grande quartiere cinese, la Chinatown parigina, costellata da numerosi negozi e ristoranti asiatici. Un distretto, questo, particolarmente
13° arrondisement 1 Popolazione totale (2014): 182.318 Età media (Anni): 40,2 60 53,1% 46,9% 40
20
0
13,9%
Maschi Femmine Stranieri
Parigi 1 Popolazione totale (2014): 2.220.445 Età media (Anni): 39,5 60 47%
popoloso e demograficamente denso, con una percentuale straniera del 13% rispetto a quella totale.1 Ex quartiere industriale, il 13esimo ad oggi non risulta essere di particolare interesse da un punto di vista turistico, sebbene negli anni ’90 la riqualificazione ed il riutilizzo di alcuni edifici storici, come le Manufacture des Gobelins, e l’apertura della Bibliothèque nationale de France, o di François Mitterrand, una tra le più grandi d’Europa, abbiano comportato una sua positiva trasformazione: rapidamente, infatti, l’area ha attirato l’attenzione della città, con la conseguente apertura sia del cinema MK2 sia delle gallerie d’arte e di design, spuntate in rue Louise Weiss e dintorni. Il progetto dei Les Docks Cité de la mode et du Design si inserisce, per l’appunto, all’interno di questo generale intervento di riqualificazione dell’area e diventa, a sua volta, punto di partenza per il rilancio di quella parte di argine della Senna.
53%
40
20
0
1
14,6%
Maschi Femmine Stranieri
Da https://ugeo.urbistat.com/AdminStat/en/fr/demografia/dati-sintesi/paris-5e-arrondissement/75105/4
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Contesto urbano
Giardino botanico
Gare du Nord
Museo di storia naturale Gare dAusterlitz
Stadio Salpetriere 0,5 km
Ospedale universitario
Piscina Josephine Baker
1 km
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Trasporti
Bobigny - Pablo Picasso
M
b
b
Quai de la Rapée
b
b
T
b
b
b b b
M R
Gare du Nord b
Gare d’Austerlitz
b
b
M
b b
M
Saint Marcel
M
b b
Place d’Italie
b
Bercy
Quai de la Gare M
Chevaleret
b
Charles de Gaulles-Etoile
funzioni ad di importanza sovralocale aree residenziali funzioni ad importanza sovralocale aree residenziali funzioni ad importanza sovralocale aree residenziali aree verdi pubbliche aree industriali aree verdi pubbliche aree industriali terziario funzioni ad importanza sovralocale aree pubbliche funzioni ad importanza sovralocale binariverdi ferroviari aree industriali fiume Senna funzioni ad importanza sovralocale binari ferroviari fiume Senna aree residuali fiume Senna binari ferroviari aree residuali funzioni adpubbliche importanza sovralocale aree residuali aree verdi fiume verdi pubbliche vie ad Senna alta percorrenza vie ad alta percorrenza aree verdi pubbliche vie ad alta percorrenza binari ferroviari aree pubbliche fiumeverdi Senna strade urbane principali centri ospedalieri strade urbane principali vie ad alta percorrenza fiume Senna strade urbane principali centri ospedalieri strade urbane principali
T3b T
R M b
Stazione treni binari ferroviari binari ferroviari binari ferroviari vie ad alta percorrenza fermate RER vie ad alta percorrenza vie ad alta percorrenza strade urbane principali strade urbane principali strade urbane principali fermate metropolitana
fermate autobus
Dati ricavati da https://www.google.it/maps
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Percorrenze
31 minuti 12 minuti
1 h 28 e 13 min minuti
4024 minuti minuti 0
30
Tempistiche per arrivare in centro a Parigi (Notre Dame)
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Docks de Paris Ex capannone industriale costruito nel 1907 da Georges Morin-Goustiaux e molto ammirato dallo stesso Le Corbusier, l’imponente struttura va ad essere trasformata dagli architetti Jakob + MacFarlane, studio di architettura con sede, per l’appunto, a Parigi, attraverso l’aggiunta sul prospetto di un elemento verde, (come il colore delle acque della Senna), canale di circolazione e collegamento tra i diversi piani del complesso, vero protagonista dell’intervento stesso. “Utilizzata originariamente a deposito dei beni che venivano trasportati lungo il corso della Senna su chiatte, per poi essere trasferite per mezzo di treni o carri”2, la struttura rappresenta la prima costruzione in cemento armato della città. “Il blocco, a tre piani, contava quattro padiglioni, ognuno dei quali con una campata da 10 m di larghezza e quattro da 7,5 m. A livello del Quai d’Austerlitz, tali campate (da 10 e 7,5 m) erano accessibili dalla strada e possedevano un’altezza più significativa, approssimativamente di 1,5 m, allo scopo di facilitare il trasporto, la gestione e la consegna delle merci.”3 Il progetto di Jakob + MacFarlane nasce in occasione di una gara organizzata nel 2005 dal Comune di Parigi al fine di riqualificare il complesso suddetto e ne va volutamente a rivelare lo scheletro in cemento. La nuova copertura, composta da una struttura leggera in acciaio e vetro, definita plug-over è stata studiata per proteggere la costruzione esistente e le nuove funzionalità. “L’idea è quella di creare un nuovo involucro esterno che protegga la struttura esistente in calcestruzzo e in grado di costituire, al tempo stesso, un nuovo elemento in cui inserire percorsi per la circolazione pedonale ed altre funzioni aggiuntive”4: il “condotto” di circolazione nasce dunque
dalla deformazione sistematica del modulo della costruzione preesistente: utilizzando il concetto di arborescenza, il nuovo elemento “spunta” da quello vecchio come un ramo da un albero, collegando i piani inferiori ad un tetto panoramico, costituito da una pavimentazione in legno e erba, da cui si “Hybrid II”, a+t, p. 76 Redazione di “ConstructItalia. Il portale delle costruzioni in acciaio”, “I Docks de Paris, Centro della moda e del design” 4 Ibidem 2 3
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L’arte di mischiare: l’ibrido architettonico tra significati ed effetti
gode il panorama della città, prolungando così le suggestive passeggiate sulla riva della Senna ed elevandole ad un livello superiore. Di notte, l’illuminazione del complesso, firmata Yann Kersalé, anima la struttura attraverso un gioco di luci e di alternanze. Da un punto di vista funzionale, i Docks de Paris, chiamato anche Cité de la Mode et du Design, ospita il cosiddetto IFM, Institut Francais de la Mode, diverse gallerie per esposizioni temporanee di moda o di opere di artisti emergenti, atelier, due centri di ristorazione ed un locale notturno. Questo presenta, inoltre, una programmazione espositiva diversificata per temi a seconda delle stagioni: in primavera si hanno dunque eventi relativi alla fotografia di moda, d’estate esposizioni partecipative ed interattive a tema, d’inverno la scoperta di un paese attraverso la sua cultura.
90
0%
0%
0% 0%
Funzioni de Les Docks de Paris
17,3 %
30,5 %
52,2 %
IFM galerie d’actualité; atelier; grand foyer
100% 100%
100 %
nuit fauves; DAD; wanderlust; café Oz rooftop; debonair café; garage
Adattamento grafico da a+t“Hybrid II”, pp. 70-71
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L’arte di mischiare: l’ibrido architettonico tra significati ed effetti
Sezione longitudinale complesso nuit fauves; DAD; wanderlust; café Oz rooftop; debonair café; garage
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galerie d’actualité; atelier; grand foyer
IFM
Percezioni dalla realtà Arrivo al complesso dalla Gare de Lyon, sulla riva opposta della Senna. Attraverso una strada ad alta percorrenza e, dunque, il ponte Charles de Gaulle, da cui vedo, nella sua totalità, il complesso. Le foto visibili in internet o sulle riviste del settore non rendono l’effetto di quella sorta di efflorescenza che emerge dalla rigidità formale della struttura in calcestruzzo: sembra che sia esattamente quello il suo posto, perfettamente studiato ed equilibrato, di spicco ma non di troppo. Intorno ad esso, i puliti argini della Senna, sui quali, a quell’ora del mattino, sono circa le 11.30 quando arrivo sul posto, alcune persone, probabilmente in pausa pranzo, sfidando il caldo cocente della giornata, fanno jogging. La struttura si apre completamente rispetto al piano terra attraverso una scala in legno che si appoggia sulla pavimentazione dell’argine stesso; a chiusura di questa, nessuna porta da aprire, nessuna soglia da attraversare. Una volta salita, di fronte a
me, grandi vetrate delimitano una vasta sala che sembrerebbe essere predisposta a mo’ di laboratorio, ricolma di tavoli su cui stuoie di tessuti colorati e busti di manichini sono riposti in modo confuso e caotico: si tratta probabilmente degli spazi ad uso dell’Istituto di Moda, vuoti, ormai, per via del termine dell’anno scolastico. Continuo a percorrere il primo piano della struttura, coperto dal solaio del piano superiore, aperto sulle campate laterali che danno sulla Senna, a destra, ancora, gli spazi dell’IFM. A circa metà del complesso, sulla destra, all’interno di una delle sale espositive, ha luogo una piccola mostra gratuita di capi d’alta moda di collezioni degli anni passati: alcune persone, poche, camminano lentamente osservando ogni singola creazione. Dopo una breve visita, dunque, proseguo ancora, fino ad arrivare all’estremo opposto rispetto a quello da cui sono entrata al primo piano: qui, di fronte ad un locale di ristorazione, chiuso al momento del mio arrivo, sono posti alcuni tavoli, a quell’ora vuoti. Decido di salire, dunque, alla terrazza del complesso, attraversando, così, quello snodo di passaggio dai tubolari verdi. La sensazione è
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L’arte di mischiare: l’ibrido architettonico tra significati ed effetti
particolare: la luce passante attraverso le vetrate puntinate di verde che rivestono quello spazio deambulatorio realizza un particolare gioco di luci che separa questo spazio dai piani che collega. Sulla grande terrazza diversi piccoli bar, a mo’ di chiringuito, si dispongono a conformazione dello spazio. Al centro, lingue erbose si sollevano dal piano del terreno. Intorno a me, alcuni addetti ai lavori puliscono e sistemano in preparazione di un evento che si terrà la sera stessa. Una volta scesa, i tavoli, prima vuoti, sono ora occupati da diversi gruppi di persone in pausa pranzo. Mi affaccio ancora una volta per chiedere se il ristorante sia aperto: la risposta mi stupisce: il ristorante aprirà più tardi, di sera: quelle persone hanno comprato il pranzo altrove, per poi consumarlo lì, sulle rive della Senna, ad un tavolo. Poco più avanti, assisto nuovamente ad una scena simile: due ragazze, sedute sul pavimento all’ombra, stanno per addentare i loro panini, come sui gradini di una piazza pubblica.
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9 8
Pianta secondo piano
Pianta primo piano
5 7
6
3 4 2
Pianta piano terra
1 Pianta a livello dell’acqua
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L’arte di mischiare: l’ibrido architettonico tra significati ed effetti
Vista de La CitĂŠ de la Mode et du Design dal ponte Charles de Gaulle.
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1 Vista dell’ingresso alla CitÊ de la Mode et du Design.
2 Corridoio del piano terra della CitĂŠ.
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3 Pannello illustrativo del programma funzionale del complesso.
L’arte di mischiare: l’ibrido architettonico tra significati ed effetti
4 Vista dall’interno del piano terra verso la Senna.
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5 La scala d’ingresso si eleva direttamente dalla banchina sulla Senna.
6 Vista all’interno del canale di distribuzione.
7 Terrazza del piano terra.
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8 Terrazza dell’ultimo piano, utilizzato solo durante le ore serali.
9 Lingue erbose sulla terrazza dell’ultimo piano.
L’arte di mischiare: l’ibrido architettonico tra significati ed effetti
Commenti e conclusioni Ancora una volta, la mancanza di una lingua comune s’è dimostrata d’ostacolo e non mi è stato possibile fare interviste, per cui la mia opinione finale sul luogo è stata definita dalla fase di sopralluogo. Credo di poter affermare con certezza che questo sia stato l’unico tra i casi studio visitati che mi abbia stupito positivamente: data la destinazione degli spazi principali del complesso, ad uso, per l’appunto, dell’Istituto Francese di Moda, (un’istituzione, dunque, attiva solamente durante alcuni periodi dell’anno), mi sarei aspettata un grande edificio completamente desolato e vuoto, trattato come un qualsiasi oggetto posto in un contesto qualsiasi. La presenza degli eventi, tuttavia, la completa esemplificazione del programma funzionale articolato all’interno della struttura tramite appositi pannelli illustrativi, mi hanno fatto comprendere l’effettiva volontà di realizzare uno spazio davvero sempre attivo ed aperto, messaggio che, mi sembra, sia stato ben recepito da parte della popolazione stessa. L’utilizzo del complesso, infatti, anche attraverso funzioni considerate meno formali e comunque leggermente scostate rispetto agli usi definiti da progetto, mostrano, a mio avviso, una presa di coscienza da parte della cittadinanza all’intorno, dell’appartenenza di quel luogo: si realizza una sorta di “proprietà condivisa”, di tutti,
che non va ad implicare quell’indifferenza per cui se qualcosa è di tutti, allora è anche di nessuno. Da una parte, dunque,
un utilizzo rispettoso ed informale da parte delle persone, dall’altro una “cessione” di una porzione di controllo da parte di chi amministra il complesso stesso: uno scambio reciproco, che va infine a realizzare un presidio costante. Da un punto di vista architettonico, il complesso aiuta e coadiuva questo tipo di utilizzo: non solo la struttura sembra porsi ad una dimensione multiscalare per via della presenza delle vicine stazioni ferroviarie, sia della Gare de Lyon che della Gare d’Austerlitz, ma questo risulta anche totalmente accessibile. Non si ha la necessità di “entrare” nel complesso per farne già parte: la mancanza di una vera e propria soglia evita la
100
distinzione tra un interno ed un esterno, andando dunque a realizzare una vera e propria continuità urbana. E’ qui, in
particolare, che l’edificio davvero si compie in quanto piega del suolo urbano. Credo di poter affermare, dunque, che il complesso in questo caso si conformi davvero come una centralità, un punto di riferimento per molte persone che in questo vedono una possibilità di approdo costante.
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L’arte di mischiare: l’ibrido architettonico tra significati ed effetti
Esempio di utilizzo informale del luogo. 102
Due casi, dunque, tra loro completamente diversi, che aprono a due scenari opposti, seppur localizzati nella stessa città europea, erede di uno stesso passato. Fa riflettere, a questo punto, la loro diversa collocazione urbana: da una parte l’Entrepot, in ambito periferico, poco definito da un punto di vista identitario ed architettonico, di confine; dall’altro i Docks de Paris, situato in un luogo ben più centrale e consolidato, in fase di crescita e trasformazione. Ulteriore spunto di riflessione, la loro destinazione funzionale e la scala delle funzioni in essi insediate. Credo che, infatti, la presenza di una funzione forte ed eccezionale, come quella proposta dall’IFM abbia un’incidenza positiva sul completo funzionamento dei Docks, al contrario di quanto constatato nell’Entrepot, in cui non si nota una funzione predominante e centrale rispetto alle altre, come al contrario si dovrebbe verificare in un modello di organizzazione funzionale gerarchico. Il sopralluogo si sposta a questo punto a Rotterdam, allo scopo di osservare da vicino anche il terzo ed ultimo caso studio individuato: il De Rotterdam. Si cerca di capire, se l’appartanenza ad un differente contesto urbano con un passato molto diverso, possa influire anche sul significato dell’edificio stesso in quanto ibrido.
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L’arte di mischiare: l’ibrido architettonico tra significati ed effetti
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4.3
De Rotterdam Studio OMA - Rotterdam
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Rotterdam 1 Popolazione totale (2015): 629.606 Età media (Anni): 38,7 60 49,1% 40
50,9% 43,2%
20
Maschi
Femmine Stranieri
Localizzazione Rotterdam si differenzia in parte dalle altre città europee, per via della sua storia e della sua identità portuale. A partire dai tragici bombardamenti avvenuti durante la fine della Seconda Guerra Mondiale, che l’hanno quasi completamente rasa al suolo, Rotterdam ha sempre dimostrato di sapersi reinventare e rinnovare a seconda delle esigenze. Una predisposizione a guardare oltre e sempre al futuro che anche oggi sembra essere centrale nelle sue politiche urbane. La volontà di rendersi da un lato economicamente competitiva a livello globale, e di rivaleggiare dall’altro il ruolo principale, sia turistico che politico, acquisito col tempo dalla vicina Amsterdam, hanno portato Rotterdam, infatti, all’attuazione di una sorta di “politica di prestigio” che trova particolare espressione in ambito architettonico. Non è un caso che alcuni tra i più grandi studi di architettura abbiano qui le loro sedi: la volontà di sperimentazione coadiuvata dalla città stessa, la disponibilità di ampi spazi e la mancanza di un ampio passato storico architettonico permettono infatti la costruzione di grandi strutture dalle forme nuove e bizzarre, espressione e firma di ciascun architetto nel territorio. Da un punto di vista
demografico, Rotterdam conta una popolazione di sole 634 660 persone, (Parigi, al contrario, già nel 2014 ne annovera 2,220,445 solo per l’area dell’Ile de France), dei quali circa il 50% sono stranieri.1
Da https://www.citypopulation.de/php/netherlands-zuidholland.php?cityid=2002 e https://ugeo.urbistat.com/AdminStat/it/nl/demografia/dati-sintesi/rotterdam/23055877/4?Export=2&MasterType=1 1
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L’arte di mischiare: l’ibrido architettonico tra significati ed effetti
In particolare, il caso studio individuato si trova in un’area primariamente nota per l’eccezionalità, soprattutto in termini dimensionali, delle sue architetture. Un’area di rappresentanza, potremmo dire, il corrispettivo, chiaramente a scala minore, della city londinese, che, attraverso i suoi grattacieli, realizza gran parte dello skyline della città. Si tratta del Kop Van Zuid, originariamente molo di attracco e sede degli uffici dell’Holland American Line, compagnia navale che trasportò merci e migliaia di migranti negli Stati Uniti dalla fine dell’Ottocento agli anni ’70. Già a partire dal 1986 quest’area conosce un processo di rinnovamento volto a renderla un nuovo pezzo di città sempre aperta, costellata da “nuovi teatri, gallerie d’arte, hotel e residenze per giovani imprenditori”2, collegata alla restante parte dell’abitato dall’iconico Erasmusbrug, come una sorta di nuovo centro urbano, che ne sia replica sulla sponda opposta del Mosa. “Un progetto che all’epoca sollevò molte polemiche ma che già subito dopo la costruzione dei primi grattacieli guadagnò il soprannome di Manhattan sulla Mosa.”3
Oggi questa parte di città va ad essere meta di chi vi lavora e vi abita e di turisti attirati dalla presenza di queste vertiginose architetture, in contrasto e dialogo con alcune preesistenze, testimoni del passato portuale ed industriale dell’area.
Manuela Martorelli, “Ritratti di città. Rotterdam, aperta 24 ore su 24” in “Città e territorio, Mosaico”, “Il giornale dell’architettura.com” (2015) 3 Ibidem 2
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Contesto urbano
Nieuwe Luxor Theater Cruise Terminal Rotterdam
Floating Pavilion
Nederlands Fotomuseum Cinema LantarenVenstern Hotel New York
0,5 km
1 km
110
Trasporti
Den Haag Centraal
M t
t
Leuvehaven t
t t M
t
Wilhelminaplein
t t M
Rijnhaven
M
Slinge
di importanza sovralocale funzioni ad aree residenziali funzioni ad importanza sovralocale aree residenziali funzioni ad importanza sovralocale aree residenziali aree verdi pubbliche aree industriali aree verdi pubbliche aree industriali terziario funzioni ad importanza sovralocale aree pubbliche funzioni ad importanza sovralocale binariverdi ferroviari aree industriali fiume Senna funzioni ad importanza sovralocale binari ferroviari fiume Senna aree residuali fiume Senna binari ferroviari aree residuali funzioni adpubbliche importanza sovralocale Mosa aree residuali aree verdi fiume verdi pubbliche vie ad Senna alta percorrenza vie ad alta percorrenza aree verdi pubbliche vie ad alta percorrenza binari ferroviari aree pubbliche parcheggi fiumeverdi Senna strade urbane principali centri ospedalieri strade urbane principali vie ad alta percorrenza fiume Senna strade urbane principali Dati ricavati da https://www.google.it/maps centri ospedalieri strade urbane principali
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T3b t
R M
binari ferroviari binari ferroviari binari ferroviari vie ad altatram percorrenza Stazione
vie ad alta percorrenza vie ad alta percorrenza strade urbane principali fermate traghetto strade urbane principali strade urbane principali
fermate metropolitana
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Percorrenze
31 minuti 10 minuti
1 h e 13 min
22 minuti
5 minuti
40 minuti 0
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Tempistiche per arrivare in centro a Rotterdam (fermata della metro di Beurs)
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De Rotterdam Il De Rotterdam fa appunto parte del piano urbano suddetto e si propone come complesso multifunzionale, sebbene privo di attività culturali ad uso pubblico, le cui torri ospitano uffici, hotel, appartamenti di lusso, sale congressi, ristoranti e un grande parcheggio, “creating a bustling vertical city that
is active 24 hours a day. (…) This mixed usage will enable the Wilhelminapier, (una parte dell’area di Kop Van Zuid), to develop into a genuine city center location, with a host of facilities ensuring that something is happening at all times.”4
I diversi programmi funzionali sono raggruppati per blocchi su un’area di 155,000 m2 con un’altezza di 150 m e la sinergia tra gli usi differenti è coadiuvata dall’intreccio tra utenti diversi, che possono usufruire di servizi comuni: gli uffici possono contare infatti sugli spazi conferenze dell’hotel e dei suoi servizi, così come sulle aree fitness del complesso residenziale. Il piano terra, invece, si apre al pubblico attraverso l’inserimento di alcune attività di ristorazione, interconesse alle funzioni precedentemente descritte, da un punto di vista spaziale, attraverso una grande hall, che si rende snodo pubblico per qualsiasi utente dell’edificio. Il nome del complesso è volto, inoltre, a richiamare il passato marittimo dell’area: così si chiamava, infatti, una delle compagnie navali che effettuavano la traversata dell’Atlantico con destinazione Stati Uniti.
4
“Hybrid III”, a+t, p. 227
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0%
0%
1,2 % 2,3 %
0%
Funzioni del De Rotterdam
15,5 %
15,5 %
21,6 %
43,9 %
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100%
100% Adattamento grafico da a+t“Hybrid III�, pp. 225-226
100 %
Sezione longitudinale complesso
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residenza
hotel Nhow
parcheggio
ristorante HMB; Aqua Asia Club
Motion 10, azienda informatica
palestra (non realizzata)
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Percezioni dalla realtà Sono le 9 del mattino di un lunedì di luglio quando vado a visitare il De Rotterdam. Il mio alloggio si trova dalla parte opposta dalla città ma decido di raggiungere il caso studio a piedi. Percorro la strada principale della città, la Coolsingel, al momento in parte occupata da alcuni lavori di sistemazione che sembra termineranno intorno al 2020, con la costruzione di un parco centrale e un maggior spazio all’uso pedonale. Dopo qualche tempo da lontano inizio a scorgere il famoso Erasmusbrug, che con i suoi alti piloni e la sua possente e allo stesso tempo leggera verticalità annuncia l’ingresso all’ex area portuale e, dunque, anche al De Rotterdam. Man mano la visuale si fa più ampia e finalmente eccolo, in tutta la sua maestosità, il colosso di OMA. Senza alcun dubbio il grattacielo colpisce per le sue dimensioni e la sua mole: non si tratta semplicemente della sua altezza, ma anche e soprattutto della sua paradossale orizzontalità, ancor più enfatizzata dallo scostamento dei singoli blocchi: un gesto normalmente attuato su un piano orizzontale, che qui, al contrario, trova espressione sulla verticale. Procedo dunque e attraverso il ponte, piuttosto trafficato durante le prime ore del mattino, (a Rotterdam la giornata lavorativa inizia alle 10 del mattino e in alcuni casi finisce alle 21, per via della lunga durata estiva del dì), moltissime biciclette mi affiancano sulla pista ciclabile che percorre la totalità del ponte e prosegue all’interno del distretto. Intorno, il panorama è senza dubbio impressionante e, man mano che si procede verso il termine dell’Erasmusbrug la disparità di scala tra quella umana e quella degli edifici all’intorno si fa sempre più sentire nella sua incombenza.
Dopo aver superato il KPN Telecom di Renzo Piano, raggiungo finalmente il De Rotterdam. Il porticato che collega la lunga fila di edifici che, come il De Rotterdam, si affacciano sulla Mosa, è occupato da alcuni lavoratori, chi cammina, chi sosta in un momento di pausa, tutti vestiti in modo formale, non vedo alcun turista nei paraggi; mi sento in qualche modo fuori luogo. Dall’altra parte della strada, una vecchia preesistenza,
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che ancora mantiene le fattezze delle industrie prima presenti nell’area portuale, ospita il museo della fotografia, di lunedì, come molti altre attrazioni culturali della città, chiuso. Entro, un pò titubante, all’interno del colosso di OMA: mi trovo nella grande hall, dalla stampa presentata come snodo principale per tutte le attività presenti nel complesso. Effettivamente tutte le attività si affacciano su di esso, ma questa risulta quasi vuota: soltanto due persone sono sedute su alcuni divanetti posti a lato della stanza. Sulla destra una rampa di scale mobili conduce ai piani superiori. Sempre con una certa titubanza, incerta sulla possibilità di poter effettivamente salire ai piani superiori pur essendo una completa estranea, percorro la rampa, fino al sesto piano, dove questa termina in corrispondenza di un deambulatorio che precede uno dei ristoranti di lusso presenti all’interno del complesso, dopo aver attraversato due piani di parcheggio ed uno di ingresso ad un piano dell’hotel Nhow. A quel punto, scendo di nuovo. L’ultima tappa del mio sopralluogo è, dunque, la banchina esterna che si protende sulla Mosa di fronte al complesso. Piccoli gruppi di persone, sedute su alcune panchine chiacchierano nel vento: il panorama completamente aperto di fronte a me, dietro l’immensità del De Rotterdam, in tutta la sua magnificenza e iconicità.
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1 Erasmusbrug
2
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KPN Telecom
10 Wilhelminaplein
4 5-6-7-8 9
11 Floating Pavilion
Nederlands Fotomuseum
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1 Vista dell’Erasmusbrug, oltrepassato il quale si raggiunge il quartiere di Wilhelminaplein.
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2 Vista del De Rotterdam e del KPN Telecom building di Renzo Piano.
3 La banchina non risulta ad oggi accessibile dal KPN per via dei lavori ancora in corso.
4 Portico antistante il De Rotterdam, vuoto durante le ore di metĂ mattina.
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5 Gli eleganti interni della hall del De Rotterdam.
6 Vista dall’alto di uno dei due ristoranti presenti al piano terra del complesso.
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7 Uno dei parcheggi ai piani superiori del De Rotterdam, vuoto.
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8 Indicazione funzionale dei piani al sesto piano dell’edificio, l’ultimo a cui sia possibile accedere per gli esterni.
9 Contrasto tra la recente struttura del De Rotterdam ed un edificio storico.
10 La recente stazione della metropolitana di Wilhelminaplein.
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11 Floating Pavilion: una delle architetture di spicco del quartiere.
12 Le banchine che costeggiano il fiume Mosa.
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Nei giorni successivi ho realizzato alcune brevi interviste e ho chiesto ad alcune persone, sparse in tutta Rotterdam, di realizzare una mappa schematica della città in cui segnassero i luoghi a loro avviso iconici ed identitari che oggi la contraddistinguono, allo scopo di capire se, senza che io dessi loro alcun suggerimento, tra questi inserissero anche il De Rotterdam, per l’appunto. Mi ha colpita come quasi tutti disegnassero per prima cosa il Markhtal, (MVRDV), successivamente l’Erasmusbrug, dunque il De Rotterdam e la Centraal Station, (Benthem Crouwel Architects, MVSA Architects, West 8). Il tutto posto a sistema da due elementi connettori fondamentali: il fiume Mosa e la strada principale Coolsingel. Ne riporto alcune qui di seguito.
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Commenti e conclusioni Dopo la mia visita al De Rotterdam ho scritto ad una compagnia che organizza delle visite guidate all’interno dell’edificio per gruppi ristretti di persone. Sebbene per i giorni da me indicati non ci fosse ormai alcuna disponibilità, ho avuto, tuttavia, la possibilità di fare alcune domande, a cui la compagnia ha gentilmente risposto. Come precedentemente intuito, il De Rotterdam, al contrario di quanto presentato dalla stampa e dallo stesso studio OMA, non mantiene alcuna relazione con l’esterno, sviluppando le funzioni ospitate all’interno di confini chiusi: più che una città verticale, una cittadella arroccata e poco raggiungibile, piuttosto intrusiva. “In my opinion its not really opening up to it’s surroundings. Also, the first floor contains lobby’s and a few restaurants. There is a connection with the outside world but not a big one.”5
Credo che valga, inoltre, la pena fare un accenno alla questione dell’utenza: il fatto che il De Rotterdam sia per lo più occupato da uffici e dall’hotel stellato Nhow rende l’atmosfera piuttosto formale e studiata. Un clima volutamente elegante, come si può intuire dagli arredi piuttosto minimali e di pregio o dai materiali di rivestimento utilizzati, che tuttavia porta all’implicita esclusione di una parte della popolazione, anche solo di passaggio. Il fatto di essere tanto grande e colossale, tuttavia, sembrerebbe renderlo uno dei simboli iconici della città stessa. Come riportato dalla stessa compagnia, la sua costruzione non ha modificato l’identità della città, già conosciuta come “Città dell’Architettura”, ma senza dubbio “De Rotterdam is like a really big, impressive and startling eye catcher.”6 Credo, dunque, di poter affermare con certezza che il De Rotterdam non si realizzi come centralità in quanto edificio ibrido, ma a livello iconico, per via della sua grandezza e del suo stagliarsi sulla riva del Mosa come una sorta di biglietto da visita del nuovo quartiere del Kop Von Zuid e di tutte le pregevoli architetture che su questo lembo di terra si insediano. 5 6
Lonneke Bakkeren, Account manager and business developer “De Rotterdam Tours” Ibidem
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Una centralità simbolica, dunque, piuttosto che funzionale, atta ad una vista privilegiata dall’esterno piuttosto che dall’interno, multiscalare ma per lo più inaccessibile.
Tale ruolo credo si conformi perfettamente al contesto in cui si inserisce: in una città in così forte e rapida crescita com’è Rotterdam, che solo negli ultimi anni sta attirando l’attenzione della stampa internazionale per via della sua nuova identità di spicco, (il New York Times la annovera già nel 2014 tra i 52 posti da scoprire per quell’anno7), in questo modo imponendosi a capitale dell’architettura, il De Rotterdam assume un valore simbolico, volutamente di impatto, in totale coerenza rispetto alla politica di prestigio della città, di cui s’è già precedentemente parlato.
7
Redazione del New York Times/Travel, “52 Places to Go in 2014”
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Piano terra del De Rotterdam, scattata dalla banchina, sul lato del fiume Mosa. L’edificio, persino al piano terra, si dimostra completamente introverso.
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Termina così anche la seconda fase di analisi. E’ ora di tornare.
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5.
Considerazioni finali In base all’analisi condotta sui singoli casi studio, si cercano di tracciare delle considerazioni a carattere più generale, che possano essere a loro volta spunto di ulteriori riflessioni a riguardo.
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Al termine della ricerca due sono state le principali considerazioni a cui sono giunta, forse forti, ma elaborate senza alcun intento provocatorio, determinate spontaneamente, ma non in modo semplice, soprattutto a partire dall’esperienza di sopralluogo avvenuta nella seconda fase di analisi. Queste si pongono a premessa rispetto alla ricerca delle risposte alle domande poste a punto di partenza dell’indagine. Come suddetto, non si ha la presunzione di affermare in poche righe delle conclusioni assolutiste, ma piuttosto di sollevare dei quesiti, delle domande, delle riflessioni su un argomento, per l’appunto, che effettivamente negli ultimi anni ha assunto un ruolo centrale all’interno della discussione sul fare architettonico in un ambito urbano frammentato e frattale.
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Come si crea un edificio ibrido Durante la fase di sopralluogo ho avuto modo di osservare da vicino non solo il funzionamento dei casi studio sopra riportati, ma anche di altri edifici, più o meno pubblicati, che mi hanno portata a riflettere sulla questione alla base di tutto il lavoro sviluppato: il concetto stesso di edificio ibrido. S’è parlato fin qui, infatti, di progetto di un “edificio ibrido”, quando lo stesso aggettivo “ibrido”, tuttavia, indica un corpo che si rende progressivamente altro, il che necessita di un certo margine di temporalità, e dunque di utilizzo, che la subitaneità della realizzazione non può coadiuvare. In poche parole, un edificio, attraverso tutti gli stratagemmi architettonici evidenziati nei primi capitoli, può essere potenzialmente ibrido, ma non “finalmente” ibrido. Un edificio “potenzialmente ibrido” va
infatti a possedere un margine di eccezionalità che lo rende “urbano”, in quanto si può prestare a farsi strumento dell’Urbs, della cittadinanza stessa, che lo può andare a reinventare a seconda delle sue esigenze, sulla base di elementi fondamentali strutturati e determinati. L’edificio che oggi viene definito
ibrido, dunque, è più propriamente quello che in sé sviluppa dei suggerimenti architettonici e funzionali che lo possono portare ad una completa e reale ibridazione col suo intorno, attraverso un progetto che inizia con il disegno dell’architetto, prosegue con la definizione di un programma funzionale e termina con una partecipazione attiva della popolazione.
Chiaramente, per ognuna di queste fasi è vincolante la collocazione dell’intervento, che ne definisce sia la morfologia, sia l’inserimento delle funzioni, da cui ci si aspetta una determinata reazione da parte della cittadinanza. A tal proposito già s’è affermato come i tre progetti scelti si andassero volutamente a conformare in tre ambiti urbani differenti: in un ambito marginale ed indefinito per quanto riguarda l’Entrepot; centrale ma indefinito per il De Rotterdam; in una condizione centrale e definita per quanto concerne Les Docks de Paris. Probabilmente proprio il maggior consolidamento dell’ambito urbano su cui va a collocarsi quest’ultimo ha portato
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anche ad una miglior definizione nel contesto del suo ruolo funzionale, che lo ha reso effettivamente nuova centralità per il suo intorno. Tra i casi studio considerati, infatti, il progetto di Jakob + MacFarlane sembrerebbe essere l’unico che davvero si rende centralità, con la costituzione di un suo più proprio intorno, constatazione, questa, che introduce un ulteriore ragionamento sull’intorno stesso e, dunque, la seconda parte delle conclusioni. Edificio o città Il sopralluogo mi ha portata a riflettere sulla differenza tra “intorno di un edificio” e il “fare intorno” proprio dell’edificio stesso: nel primo caso il progetto ha un ruolo passivo e subordinato, nel secondo, al contrario, acquisisce un ruolo attivo e di primaria importanza. Perché si faccia centralità è necessario, dunque, che il progetto conformi un suo intorno, inteso come area sulla quale esso ha degli effetti da un punto di vista funzionale e sociale.
Nel caso dell’Entrepot, la vera centralità sembrerebbe essere la stazione di Rosa Parks: emblematico il fatto che dalle interviste sia emerso come tutti gli intervistati conoscessero la stazione e all’incirca la sua collocazione, ma nessuno riconoscesse l’Entrepot per nome. Non è l’edificio come luogo di loisirs o come ambito di sosta ad essere, dunque, attrattivo, quanto più la connessione con la stazione, a cui, malgrado il disequilibrio dimensionale, questo risulta subordinato. Il De Rotterdam, invece, assume un ruolo ambiguo e duplice nell’ambito urbano: non si tratta di una centralità funzionale o sociale: è chiuso rispetto all’esterno, non permette l’ingresso del pubblico e si potrebbe dire essere un luogo accessibile solo ai pochi che o vi lavorano o hanno il piacere di soggiornare in un hotel di lusso, il che non permette la definizione di un intorno più ampio di quanto non sia il pezzo di banchina collocata in prossimità del ristorante al piano terra. Tuttavia, esso si rende comunque, per via della sua forza dimensionale e formale, un’icona urbana, in cui la maggior parte dei cittadini di Rotterdam, come dimostrato
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anche dallo studio effettuato con il ridisegno delle mappe da parte di alcuni di essi, si riconosce. Si potrebbe dire, dunque, che in questo caso questo faccia parte a sua volta di un intorno più ampio che si codifica col complesso degli edifici del Kop Van Zuid, rispetto ad un ben più forte centro cittadino, costituito dal Rotterdam Hall e dal Markthal. Quello che dunque è principalmente emerso dall’indagine è che prima di tutto, prima ancora di capire quali siano gli effetti di un ibrido nelle sue circostanze spaziali, è necessario comprendere davvero se l’oggetto, per l’appunto definito ibrido, sia davvero tale, tenendo, inoltre, in considerazione, come la grande scala
di un edificio non vada necessariamente a coincidere con l’attivazione di una forza centrifuga a renderlo catalizzatore rispetto al contesto in cui si pone. Questo non implica l’affermazione dell’inesistenza dell’ibrido:
edifici come i Docks de Paris risultano efficaci e funzionali, rispettando tutti quelli che sono i caratteri che definiscono l’ibrido da un punto di vista architettonico; questi si configurano, infine, come un tetto, un elemento di protezione pur nello spazio esterno della città. All’interno di un’urbanità aperta e dispersiva, un oggetto, quindi, di cui si sente l’appartenenza, che coadiuva un sentimento nell’uso di rispetto e cautela, che non prescinde il contesto (come già suddetto, il luogo influenza necessariamente l’utilizzo: lo stesso complesso probabilmente non potrebbe funzionare al posto dell’Entrepot). Ognuno dei tre edifici individuati, dunque, come per via del principio di azione e reazione, determina degli effetti, ma questi non vanno sempre necessariamente ad avere delle implicazioni sull’ambito urbano. L’unico, in realtà, per cui si possano constatare è, per l’appunto, i Docks de Paris, che ha forza sufficiente a determinare nuove abitudini, nuovi utilizzi, che si pone in modo attivo rispetto al contesto di cui è parte, proponendosi come novità, che sembra offra l’occasione di portare a compimento usi ancora esplicitamente inespressi ma
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già presenti nelle abitudini del quartiere. In questo caso, dunque, trovo che sì, vada a definire effettivamente delle dinamiche cittadine incerte, facendosi polo identitario di un quartiere che sta pian piano trovando una sua più chiara ridefinizione nel contesto parigino come non solo China Town ma anche come punto di partenza di artisti emergenti, in qualsiasi campo, aprendosi a qualsiasi tipo di utenza. Il De Rotterdam, come già precedentemente accennato, data la sua figura colossale, determina degli effetti che potremmo definire “visivi” piuttosto che urbani: non ha implicazioni sull’intorno, dal momento che la sua completa mancanza di apertura rispetto all’esterno lo porta ad una totale introversione, che non concerne una dimensione, per l’appunto, urbana. La sua immagine, tuttavia, colpisce e si rende iconica nello skyline cittadino, tanto da essere da tutti identificato e riconosciuto, (sebbene pochi ne conoscano il nome). Un edificio, insomma, in completa coerenza con la teoria di Koolhaas per cui “l’architettura è in fondo una forma di pubblicità”.1 “Si tratta di una pubblicità molto pregnante perché lavora su grandi dimensioni ed è presente nel quotidiano delle persone, quindi si imprime nel loro immaginario".2 Gli effetti dell’Entrepot credo siano invece i più complicati da definire. La sua presenza nel territorio risulta come ininfluente al momento, poiché non sembrerebbe apportare nessun cambiamento nelle dinamiche di utilizzo del luogo, né da un punto di vista positivo né negativo. Ad oggi, la mancanza di una vera integrazione funzionale tra le diverse attività insediate e la presenza dei numerosi locali ancora inutilizzati, sembrerebbero renderlo come un blocco edilizio, che cerca di contraddistinguersi dal resto dell’edificato attraverso alcuni estri architettonici, privo, tuttavia, di un anima vitale, freddo e duro nella sua immobilità. Si torna ancora una volta, così, all’importanza, per l’appunto, di una rilettura d’uso da parte della popolazione di ciascun 1 2
Davide Vargas (a cura di), “Conversazione con Giancarlo De Carlo”, “archimagazine.com”, Milano, 19 aprile 2002 Ibidem
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edificio, secondo una chiave di lettura che riprende quel "contatto con gli esseri umani",3 di cui lo stesso De Carlo parla. Esistono delle istruzioni di montaggio di un edificio, dei pezzi base a configurazione di uno scheletro, a cui altri più piccoli sono subordinati e tuttavia interscambiabili, riconfigurabili, mobili. Un processo di ibridazione che si attua così, come in biologia, attraverso la partecipazione di tutta quanta l'urbanità, non solo fatta di elementi quali strade, prati, stazioni, panchine e quant’altro, ma anche e soprattutto, di persone che in un‘architettura si incontrano, intrecciano rapporti, usano lo spazio e ne vengono influenzati, stabilendo con quest'ultimo una dialettica "partecipativa". L'architetto può provvedere al
corpo, la popolazione che lo vive ne determina l'anima. Una sfida, quella dell’ibrido, per il mondo architettonico, chiamato oggi dunque a ripensare ad una configurazione funzionale ed architettonica dell’edificio che si rende centralità, come allo stesso modo, ma a scala maggiore, si fece negli anni ’60 attraverso il passaggio, nel campo dell’urbanistica, tra città dello zoning e città “soluzione omogenea" di contributi diversi e tra loro distanti, mettendo in pratica e sviluppando ancora una volta la complicata arte del mischiare. Solo in questo modo, solo attraverso l'apertura verso l'esterno dell'edificio ed il ruolo attivo delle persone nel suo funzionamento, l'architettura può farsi città.
3 4
Giancarlo De Carlo, “L’Architettura della partecipazione” (2015), Quodlibet Habitat, Macerata Vd. nota 1
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“L’architetto autentico, il quale veramente concepisce lo spazio, dialoga continuamente tra interno e esterno, anzi non fa differenza fra esterno e interno, non fa differenza tra lo spazio costruito e lo spazio oltre il costruito, che non vi appartiene in senso economico ma appartiene in senso generale, figurativo e ambientale a tutti.” 4 Giancarlo De Carlo, ‘L’architettura della partecipazione’
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