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Maiorca è l’isola più grande di Spagna e vanta una scena artistica vivace, ispirata da spiagge idilliache che gareggiano in bellezza con pittoreschi villaggi annidati fra i monti della Serra de Tramuntana. È qui che Camper è stata fondata 50 anni fa.

The Walking Society Nel diciottesimo numero della rivista The Walking Society celebriamo mezzo secolo di contaminazioni fra design innovativo e artigianalità tradizionale tornando a Maiorca, il luogo d’origine di Camper. Riscopriamo l’isola attraverso lo sguardo del celebre fotografo britannico Martin Parr, che fa parte della rinomata agenzia Magnum Photos ed è considerato uno dei documentaristi più importanti dei nostri tempi in virtù dei saggi fotografici antropologici e dei ritratti satirici della moderna Inghilterra che ha realizzato.

Primavera/Estate 2025 Numero 18

A María Ángeles, arrivata a Maiorca da Jerez quando aveva 18 anni, capita spesso di essere avvicinata in spiaggia per interviste o video. Dice di esserci abituata. “È perché sono una persona estroversa.”

Biel ha studiato cinema. Passa spesso il tempo in spiaggia, in cerca di ispirazione. Che genere di film gli piacerebbe girare?

Un horror con una venatura comica, ambientato nella cattedrale di Palma di Maiorca.

Secoli fa, Maiorca era terra di pirati e valorosi guerrieri, rinomati per l’abilità nell’uso della fionda e temuti in tutto il Mediterraneo. Era patria di culture indigene, come quella talaiotica, che si è lasciata dietro misteriose strutture realizzate con pietre sovrapposte, risalenti all’età del ferro. Il territorio di Maiorca ha visto anche le occupazioni di cartaginesi, romani, musulmani ed ebrei, che ne apprezzavano la fertilità dei terreni e la posizione strategica, punto di partenza ideale per le loro spedizioni militari e commerciali.

Per gran parte del ventesimo secolo Maiorca ha vissuto un periodo di chiusura, ma oggi è tornata a essere una terra di mescolanze e contaminazioni, che ogni anno accoglie nuovi abitanti provenienti da tutto il mondo. Quasi la metà di coloro che ci vivono è nata altrove. In questo melting pot di culture, Camper è diventato uno dei brand maiorchini più emblematici degli ultimi decenni. Nel 2025 cade il 50° anniversario della fondazione dell’azienda, che avvenne nel 1975, quando Lorenzo Fluxà Roselló decise di impegnarsi a modernizzare la tradizione calzaturiera secolare che scorreva nelle vene della sua famiglia.

Tutto era cominciato con il nonno di Lorenzo, Antonio Fluxà. Nato a Inca, nel cuore di Maiorca, dove era attiva una fiorente corporazione di calzolai. Antonio si distinse da tutti gli altri, si trasferì in Inghilterra nel 1877 e imparò a usare i modelli inglesi di produzione meccanizzata, per poi fare ritorno a Inca con alcuni macchinari e aprire il proprio laboratorio. Nacque così la prima fabbrica di scarpe dell’isola, il cui successo valse ad Antonio il soprannome di “mestre”, vale a dire “maestro”.

Camper ha convogliato questa tradizione familiare in una nuova azienda, in cui ha trovato lo spazio per sperimentare con modelli pensati per la vita quotidiana. Un’azienda in cui professionisti di diversi ambiti, come la fotografia, la grafica e l’architettura, po tessero contribuire liberamente al brand con la propria creatività.

Tutto questo è avvenuto nel 1975, quando una serie di riforme e il desiderio di aprirsi al mondo ha pervaso la Spagna, che stava uscendo da 36 anni di dittatura ed era pronta ad abbracciare la democrazia. Camper (che in maiorchino significa “contadino”) si è posta l’obiettivo di esprimere il legame del brand con le sue origini e di offrire una linea di calzature comode e pratiche per tutte le occasioni.

Questa missione industriale, perseguita da cinquant’anni, ha trasformato la cittadina di Inca nel centro di gravità della produzione di calzature artigianali di Maiorca. Una tradizione che continua ad arricchire l’economia dell’isola, basata principalmente sul turismo.

Oltre sette milioni di viaggiatori fanno visita alle coste di Maiorca ogni anno. Attraversano il mare in aereo, traghetto o nave da crociera. Scoprono l’isola e i suoi villaggi pittoreschi, come

Estellencs, un borgo nella parte occidentale della catena montuosa della Serra de Tramuntana, caratterizzato da antiche strade acciottolate e cucina tradizionale.

Chi se lo può permettere arriva con imbarcazioni private, gettando l’ancora in luoghi isolati come Cala Tuent, le cui tranquille acque cristalline sono riparate dal vento grazie alle montagne ammantate di pini.

Il tempo sembra scorrere più lentamente sull’isola e l’innovazione trova spazio senza mai distaccarsi dalla tradizione. Qui l’approccio artigianale e tipicamente mediterraneo al lavoro ispira artisti e aziende come Camper. Sono luoghi idilliaci, descritti anni fa dalla scrittrice americana Gertrude Stein con una frase sibillina: “Maiorca è un paradiso. Se riesci a sopportarlo.”

Bea, 43 anni, è di Siviglia. Otto anni fa ha comprato un appartamento a Palma di Maiorca per trascorrervi le vacanze e fare visita a suo fratello, che lavora in città. “Portixol, la zona in cui vivo, è splendida!”

ROSSY DE PALMA

L’attrice almodovariana ci racconta la sua infanzia a Maiorca e i suoi obiettivi artistici e professionali. Pag. 20

MAIORCA, UNO STUDIO IDILLIACO PER GIOVANI CREATIVI

Sei artisti spiegano in che modo l’isola li ispira e cosa offre a talenti emergenti come loro Pag. 32

ACHILLES ION GABRIEL

Il direttore creativo di Camper ha trovato a Maiorca la pace e il contatto con la natura che sognava quando viveva nel suo Paese, la Finlandia. Pag. 44

LA SIESTA

Una tradizione spagnola profondamente radicata e, a volte, fortemente fraintesa. Pag. 54

ESMENT

Una tipografia, un ristorante e un forte desiderio di dimostrare le loro capacità sono gli ingredienti utilizzati da questa fondazione per l’integrazione nel mercato del lavoro di persone con disturbi dell’apprendimento. Pag. 63

MALLORQUÍ

Parlato da molti abitanti dell’isola, questo dialetto è stato tramandato nei secoli, preservandone con cura le caratteristiche che lo rendono unico. Pag. 70

LA BARAJA ESPAÑOLA

Il mazzo di carte spagnolo è vivo e vegeto e giovani e anziani non resistono a giocarci. Pag. 78

APAEMA E L’AGRICOLTURA BIOLOGICA

Il cibo biologico è sempre più popolare sull’isola, che annovera pomodori e mandorle fra le coltivazioni tradizionali. Pag. 94

ALI GUTY

L’influencer maiorchina, che ha iniziato da giovane a infrangere stereotipi, torna a New York per riprendere la carriera di modella curvy e affacciarsi su nuovi settori. Pag. 100

BIRDWATCHING

A Maiorca c’è una perla rara per chi ha la passione del birdwatching: l’avvoltoio monaco. Grazie all’impegno della fondazione FVSM, il più grande rapace d’Europa trova ancora rifugio su quest’isola del Mediterraneo. Pag. 114

ELA FIDALGO MARC BIBILONI

L’artista e il suo gallerista sottolineano l’importanza della complicità fra queste due figure per il successo dell’arte. Pag. 126

FORN DES TEATRE

La storia di una coppia che si è reinventata durante una crisi economica, riesumando ricette dal passato per riportare in vita una storica pasticceria Art Nouveau. Pag. 138

Nele è una ventiseienne tedesca arrivata a Maiorca per lavoro. Ne apprezza il clima favoloso e dedica il tempo libero a una nuova attività che ha scoperto sull’isola: la ceramica. Il suo obiettivo è creare un set da scacchi.

Alex Sobrón ha 24 anni ed è cresciuto in una famiglia creativa. Suo nonno ha fondato una casa di alta moda e sua madre era una stilista di scarpe. Alex ne ha seguito le orme nel campo della gioielleria, ed ora è proprietario di un brand.

Blanca ha 25 anni e lavora come cuoca in un hotel. Ci ha raccontato che emanciparsi economicamente a Maiorca è difficile, quindi desidera trasferirsi a Londra. La cosa che più le mancherebbe della sua isola: i panorami notturni.

La gente di Maiorca adora passeggiare sul lungomare, con il rumore delle onde in sottofondo e la brezza marina addosso. Lo fa per riflettere, per prendersi una pausa o, come Elena, per portare a spasso i propri amici a quattro zampe.

Matías viene dall’Argentina, vive in Spagna da 13 anni e a Palma da meno di uno. Non salta mai un allenamento in palestra e ama la musica elettronica. Non è ancora riuscito a farsi degli amici sull’isola.

Piero è arrivato a Maiorca quando aveva un anno. È il maggiore di quattro fratelli, l’unico nato in Ecuador. Sogna di lavorare come direttore audiovisivo restando qui: “È il luogo che conosco e che mi ispira.”

ROSSY DE PALMA

E IL SUO DESIDERIO DI VIVERE L’ARTE

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Rosa Elena García Echave ha sempre voluto che il suo vero nome non fosse riconducibile alla sua vita artistica e quindi, a inizio carriera, è diventata Rossy de Palma, in onore della sua città natale Palma di Maiorca. È una delle cosiddette “ragazze di Almodóvar”, il ristretto gruppo di attrici che compaiono ricorrentemente nelle opere dell’acclamato regista spagnolo. Ma Rossy si sente un’artista, più che un’attrice. Un giorno può recitare in un film nominato agli Oscar, come Donne sull’orlo di una crisi di nervi, quello dopo essere la protagonista assoluta del Fashion Freak Show dello stilista francese Jean Paul Gautier, che la considera la sua musa.

“Non sono un’arrivista, la carriera non è il mio obiettivo. La vedo più come una parte della mia vita”, spiega Rossy parlando del proprio lavoro. Pensa a vivere l’esperienza di creare arte più che al frutto di tale attività. Ecco perché non si fa problemi a interrompere l’intervista per scattare una foto del cielo rosa, arancione e giallo che si può ammirare da Villa Can Pirata, dove ha appena seminato il caos durante un servizio fotografico con le sue indicazioni creative su guardaroba e sfondi. Ed ecco anche perché, invece di un elenco di registi con cui desidera lavorare, ne ha uno di teatri dove vorrebbe recitare: “Li sto depennando man mano che ci riesco e vorrei davvero salire sul palco del Teatro Real, ma è riservato all’opera.” Di recente ha superato questo ostacolo con Tres mujeres solas y desesperadas, uno spettacolo composto da due opere collegate da un monologo, nel quale Rossy indossa un abito da sposa e riflette sulla fine dell’amore.

“Adesso mi interessano di più le performance, mi lasciano più libertà. Non si sa cosa succederà e si interagisce con il pubblico, si creano situazioni”, spiega. Un’altra disciplina in cui si sta cimentando è la danza, che praticava da bambina sebbene le fosse stato detto che era “troppo grossa” per fare la ballerina. “Non riesco a limitarmi a un’unica cosa. Ho bisogno di cambiare, altrimenti mi annoio e, quando mi annoio, divento insopportabile”, confessa.

SEI NATA SULL’ISOLA, MA I TUOI GENITORI NON ERANO DI

I miei genitori sono delle Asturie, nel nord della Spagna, quindi pur essendo cresciuta qui non parlavo catalano, o meglio maiorchino. Eravamo gli “stranieri”, per cui c’è un termine dispregiativo, che però io rivendico: charnegos. Ogni volta che andavo a comprare il pane, sentivo la gente che diceva: “Aquesta és filla de forasters”, questa è la figlia dei forestieri, perché venivamo dalla Spagna continentale e tutti gli anni, in estate, tornavamo nelle Asturie.

Ho appena compiuto sessant’anni e gli episodi che ti sto raccontando risalgono a quando ne avevo sei, negli anni ’70. C’era ancora quella mentalità. Oggi, invece, il quartiere in cui sono cresciuta è diventato Chinatown. Immagina cosa direbbe adesso quel panettiere che mi considerava una forestiera. Le cose sono decisamente cambiate!

Ma è vero anche che mia madre, venendo dal nord, mi diceva sempre: “Devi capire che quest’isola era un covo di pirati. Dai tempi dei fenici, in questi luoghi arrivano persone di ogni genere, quindi la gente del luogo ha sempre dovuto pensare a proteggersi.” Posso dire di avere due culture nel sangue, una grande ricchezza. Ho la regione settentrionale con il mar Cantabrico, che non è fatto per il nuoto ma per la contemplazione, e anche il Mediterraneo. Il fatto che i miei genitori vengano dal nord ma io sia nata nel Mediterraneo significa che non ho una patria, ma anche questo è bellissimo, no? È difficile per me dire di essere di un certo posto ma, se proprio devo scegliere, posso affermare di sentirmi mediterranea.

MOLTI MAIORCHINI LASCIANO L’ISOLA APPENA RAGGIUNTA

L’ETÀ ADULTA PER SCOPRIRE IL RESTO DEL MONDO. È STATO COSÌ ANCHE PER TE?

Sono partita con un celebre gruppo musicale che era stato fondato qui: Peor Impossible. Era composto da persone di origini diverse: Andalusia, molti maiorchini. Suonavo la batteria e le percussioni, facevo la corista e ballavo. Abbiamo avuto una hit estiva: Susurrando. All’epoca nessuno pensava alla fama o ai soldi. Sentivamo il bisogno di esprimerci: eravamo molto giovani, 17 o 18 anni. Facevamo i video con… mi pare si chiamasse Mark Gómez, un regista americano, e non ci costavano un soldo perché erano i primi tempi del chroma key e voleva sperimentare. Abbiamo girato quattro video che hanno avuto grande successo a Madrid e siamo stati messi sotto contratto da una grande casa discografica. A quel punto ci siamo trasferiti a Madrid. Erano gli ultimi tempi della Movida Madrileña. Ci siamo esibiti due volte nel leggendario Rock-Ola. Era l’età dell’oro della musica anni ’80 e Pedro Almodóvar era solito venire ai nostri concerti.

La nostra band era molto numerosa e versatile: proponevamo un africanorama o un medievo a ogni performance. C’era un mix di musicisti e non, insieme a persone che facevano parte del Sindicato de Diseñadores, che si trovava in Carrer Sant Feliu, e proponevano sfilate ed esibizioni sui trampoli o in maschera. Tutti eravamo inconsapevolmente molto creativi e molto divertenti.

HAI CONOSCIUTO IL REGISTA CINEMATOGRAFICO PEDRO

ALMODÓVAR

VERSO LA RECITAZIONE, PROPONENDOTI UNA PARTE IN UN SUO FILM.

No, gira questa storia secondo cui mi avrebbe scoperto in un bar, ma non è andata così. Il fatto è che eravamo squattrinati, quindi lavoravo in bar molto frequentati, in modo da poter avere un po’ di vita sociale e allo stesso tempo assicurarmi di guadagnare abbastanza per pagare l’affitto, comprare da mangiare e sopravvivere. Eravamo in nove nella band e, dopo i concerti, ci dividevamo il ricavato, quindi non navigavamo esattamente nell’oro. Pedro frequentava spesso il King Creole, il bar in stile rockabilly dove lavoravo.

Avevo pensato di andare al casting per Matador ma non mi era stato possibile, perché la band doveva esibirsi ad Alicante. E poi un giorno Pedro è arrivato al King Creole con Cossío, il suo costumista. All’epoca mi facevo i vestiti da sola perché non potevo permettermi di comprarne; tutti i componenti della band realizzavano il proprio guardaroba. Quel giorno portavo un abito molto sexy, avevo 19 anni e un gran fisico, e loro mi hanno detto: “Stiamo cercando abiti come il tuo, sexy”. Ne avevano bisogno per il personaggio di Carmen Maura nel film La legge del desiderio. Mi hanno chiesto: “Dove lo hai comprato?”

“L’ho fatto io.”

“E gli orecchini?”

“Li ho fatti io.”

In quel film, Carmen porta un sacco di orecchini fatti da me. Allora mi hanno detto: “Vorresti una parte nel film?” E io ho risposto: “Certo!”

Pedro era molto colpito dal fatto che fossi senza casa ma avessi le idee chiare sul mio futuro: a 20 anni ero molto matura. L’adolescenza l’ho vissuta molto più avanti, dai 30 ai 33 anni, ma quando ne avevo 20 ero la mamma di tutti, la persona più razionale. Era anche un’epoca in cui girava un sacco di droga, c’era l’AIDS… Per La legge del desiderio Pedro ha detto: “Non truccatela, non pettinatela, non vestitela: voglio che rimanga se stessa.”

È STATO IL TUO PRIMO FILM?

Adesso ti do uno scoop: la mia prima volta davanti a una telecamera non è stata con Pedro ma qui, a Maiorca. Giravano questo B-movie con la Miss Germania di quell’anno e Manzanita, un cantante di flamenco all’epoca famosissimo in Spagna. Le mie amiche e io ci siamo presentate per fare le comparse ma mi sono sentita dire: “Invece di stare in mezzo alla folla, tu e tu (indicando me e un’altra ragazza) interpreterete due suore.” Ci hanno vestite con due tonache; nella scena un tizio pisciava contro un albero e noi esclamavamo “Ah!”, scandalizzate. Quello è stato il mio esordio e ho anche guadagnato un po’ di più, perché non ho lavorato come comparsa in mezzo alla folla, ma ho interpretato un piccolo ruolo. Poi a Madrid ho conosciuto Pedro, che è rimasto molto soddisfatto del mio lavoro in La legge del desiderio. Mi ha chiesto: “Ti è piaciuta questa esperienza?” E io gli ho risposto: “Beh, considerando che indossavo i miei vestiti e portavo i capelli e il trucco come li porto sempre, non mi è sembrato di interpretare un personaggio.” Allora Pedro mi ha detto: “Non ti

preoccupare: nel prossimo film ti darò un personaggio che non avrà niente a che vedere con te.” Quel film sarebbe stato Donne sull’orlo di una crisi di nervi.

COSA TI PIACE DEL LAVORO CON PEDRO?

Sono famosa come attrice, ma mi sento più un’artista che un’interprete. Non ho un metodo particolare: preferisco mettere me stessa in secondo piano e lasciarmi abitare dal personaggio. Mi è molto piaciuto muovere i primi passi con Pedro perché incoraggia l’improvvisazione, non è uno di quei registi rigidi, incollati al copione. Dico sempre che non mi piace la vanità degli artisti convinti di fare qualcosa di speciale: “La mia idea” o “La mia creazione”. Penso che noi artisti siamo solo lo strumento attraverso cui l’arte si manifesta. Mio padre, per esempio, che faceva il muratore e aveva un’impresa edile, non ha mai studiato, eppure è in grado di realizzare applicazioni con piastrelle nello stile di Gaudí senza conoscere Gaudí. Come dico sempre, il cavo e la spina non sono in grado di creare l’elettricità: sono solo strumenti. Quindi più si riesce a tenere alla larga la vanità, meglio si è come strumenti.

E SECONDO TE COS’È CHE FA DIRE A PEDRO: “QUESTO È UN RUOLO PER ROSSY”? NE AVETE MAI PARLATO?

No. Però lui dice sempre: “Ascolta, c’è una parte per te.” Gli viene spontaneo. E a me piace che sia lui a chiedermelo, non è da me fare pressioni. Se non vuole chiedermelo, non voglio che me lo chieda. È come l’amore. Non facciamo l’amore se non lo desideriamo entrambi. E io voglio che tu lo desideri quanto lo desidero io, altrimenti che senso ha? Penso di avergli anche detto di no, una o due volte. Non ne sono sicura, ma almeno una volta devo aver rifiutato.

SECONDO GLI SCIENZIATI, QUANDO CI SI IMMERGE IN UN’OPERA DI FINZIONE, COME ARTISTI O ANCHE SOLO COME SPETTATORI, IL CERVELLO NON È IN GRADO DI DISTINGUERE CIÒ CHE AVVIENE NELLA FINZIONE DA CIÒ CHE AVVIENE NELLA REALTÀ. HAI PROVATO QUESTA SENSAZIONE? CI SONO DEI RUOLI CHE HANNO LASCIATO IL SEGNO SU DI TE?

Sì, alcuni ruoli mi hanno segnata, ma più per l’esperienza fuori dal set. In altre parole, rivedo un personaggio e ricordo ciò che ho vissuto nel periodo delle riprese. Ovviamente desidero che un film sia bello ma, valutandolo come esperienza umana, quell’aspetto è secondario. Perché nessuno potrà cancellare ciò che ho vissuto mentre giravamo: se c’è stato un viaggio, il gruppo di persone con cui ho lavorato, le cose che sono successe, gli aneddoti… tutto questo è vita. Sono un’artista che fa l’attrice, quindi c’è un distinguo da fare. Non sono fragile come le attrici, né sono triste se non sto girando, perché ci sono molte altre attività artistiche che mi appassionano.

È un approccio diverso. Non mi piace lavorare con persone stressate, non penso che lo stress serva a qualcosa. Ma è vero che ci sono tipi di personaggio che non interpreterei; ad esempio, persone realmente esistenti, come un’assassina che tutti conoscono.

PENSI DI TORNARE A MAIORCA?

Sì, e in tanti altri posti. Madrid è un altro luogo naturalmente accogliente con tutti, una città in cui nessuno ti chiede da dove vieni. Ma il Mediterraneo è sempre nel mio cuore, proprio come quest’isola.

“IL FATTO CHE I MIEI GENITORI VENGANO

DAL NORD DELLA SPAGNA MA IO SIA NATA

NEL MEDITERRANEO SIGNIFICA CHE NON

HO UNA PATRIA, MA ANCHE QUESTO

È BELLISSIMO, NO? È DIFFICILE PER ME

DIRE DI ESSERE DI UN CERTO POSTO MA, SE PROPRIO DEVO SCEGLIERE, POSSO AFFERMARE DI SENTIRMI MEDITERRANEA.”

MAIORCA, UNO STUDIO IDILLIACO PER GIOVANI CREATIVI

Gli artisti hanno bisogno di un luogo stimolante, che li ispiri a creare. Ma tale luogo dovrebbe anche garantire loro tutto ciò di cui necessitano per dare vita a nuove idee e ogni artista ha un concetto diverso di questo fantomatico ambiente ideale.

Lo scrittore irlandese George Bernard Shaw, autore del Pigmalione,

aveva una piccola capanna orientabile in giardino che gli consentiva di godere di scorci diversi durante la giornata, oltre che di ogni minuto di sole mentre scriveva.

Lo spagnolo Salvador Dalí, invece, sosteneva che un vero pittore è in grado di lavorare nel deserto o circondato dal “tumulto della storia”.

Molti artisti hanno trovato lo studio ideale a Maiorca. Al poeta nicaraguense Rubén Darío bastarono alcune brevi visite per mettere in moto la propria creatività e produrre numerose opere. Qui compose il poema La Cartuja, dedicato al complesso di La Cartuja de Valldemossa. Anche i suoi romanzi Isla de Oro e l’incompiuto autobiografico El Oro de

MARCELLA BARCELÓ JORDI CLOTET SALÓ MARION DE RAUCOURT JAN HORCIK THOMAS PERROTEAU SARA REGAL

Mallorca furono scritti sull’isola.

Un altro artista che trovò in Maiorca una fonte d’ispirazione è il pittore e scultore catalano Joan Miró, che vi si rifugiò dopo l’invasione nazista della Francia, dove viveva in esilio. Miró apprezzò la luce dell’isola, di cui erano originarie la famiglia di sua madre e sua moglie, Pilar Juncosa.

La definì “imbevuta di pura poesia”. Nel corso della sua vita commissionò la costruzione di tre edifici, che utilizzò per creare ed esporre le proprie opere. Uno di essi è oggi la sede della Fundación Miró Mallorca.

Vi abbiamo invitato sei artisti che hanno scelto l’isola come studio per sperimentare in diversi campi, dalla

trasformazione dei rifiuti in sculture al recupero di caratteri tipografici da vecchi manifesti. Questi sei giovani apprezzano la tranquillità e i ritmi lenti offerti da Maiorca, la cui comunità artistica accoglie i nuovi arrivati a braccia aperte.

Marcella Barceló
Marion de Raucourt
Sara Regal
Jordi Clotet Saló
Thomas Perroteau
Pelotas
Ariel
S/S 2025
Jan Horcik
Marcella Barceló
Marion de Raucourt
Sara Regal
Jordi
Clotet
Saló
Thomas Perroteau
Pelotas Ariel S/S 2025

Essendo figlia dell’artista Miquel Barceló, Marcella non ha mai temuto che l’arte non potesse darle da vivere e per questo non ha mai smesso di disegnare. I colori, le forme liquide e i riflessi dei disegni della trentaduenne li fanno sembrare usciti da un sogno. Sono stati esposti in diversi Paesi e, nel 2015, la giovane artista ha ricevuto il premio per il miglior disegno contemporaneo da parte dell’École nationale supérieure des beaux-arts di Parigi.

Una fonte inesauribile d’ispirazione?

MB Osservare il cielo che si riflette sull’acqua. La miscela di ciò che è in profondità, della superficie e di quello che ci galleggia sopra, i suoi riflessi. È una splendida sintesi del nostro mondo e della consapevolezza umana.

Cosa offre l’isola a un artista che sta muovendo i primi passi?

MB Rende più facile rifugiarsi nella solitudine e nella quiete, due fattori chiave in un laboratorio.

Il tuo materiale preferito?

MB Direi l’acqua, perché è incontrollabile.

Cosa ritrovi di maiorca nei tuoi lavori?

MB Includo sempre elementi locali, come le splendide vedute della luna piena e i tramonti ricchi di suggestione. Più dei paesaggi, però, uso i sentimenti: desideri, paure.

Quando hai capito che dedicarsi all’arte era la scelta giusta per te?

MB Non credo si tratti di qualcosa che decidi di fare. Funziona come le possessioni: non si può decidere di essere posseduti dal demonio.

JORDI CLOTET SALÓ

Le strutture metalliche che si fondono con alberi e fiori sono alcuni fra gli elementi che caratterizzano le opere di Jordi, artista trentenne nato a El Masnou, in Catalogna. Dopo aver studiato grafica a Barcellona e conseguito un master in belle arti a Londra, nel 2021 si è trasferito a Maiorca, dove si occupa di progettazione di set e scultura.

Una fonte inesauribile d’ispirazione?

JCS La natura. Sono cresciuto fra il mare e le montagne.

Cosa offre l’isola a un artista che sta muovendo i primi passi?

JCS Il tempo: qui tutto è più lento. E una cultura che non è nascosta, ma non ha raggiunto la diffusione della paella. Bisogna essere qui per conoscerla.

Il tuo materiale preferito?

JCS Il metallo, per il peso e perché mentre lo si lavora si riesce a intravedere il risultato finale. Non c’è bisogno di scaldarlo, né di usare stampi: si comincia e si finisce da soli.

Cosa ritrovi di maiorca nei tuoi lavori?

JCS La ruggine, che qui è speciale, almeno secondo me, e la natura. In questo periodo sto lavorando con resine di pino, un albero molto diffuso sull’isola, e resine chimiche, che mi ricordano il mare perché sono fortemente riflettenti.

Quando hai capito che dedicarsi all’arte era la scelta giusta per te?

JCS Non ne sono ancora sicuro. A livello professionale non è stata una gran decisione, ma dal punto di vista personale sì.

MARION DE RAUCOURT

Quando Marion si mette all’opera ha sempre in mente un oggetto di uso comune: un vaso, un piatto, un cucchiaio. Durante il processo creativo, però, le sue creazioni perdono la propria funzione e si trasformano in opere d’arte. La trentaseienne artista francese si definisce “ceramista”, pur avendo studiato moda e vinto il Camper Prize al prestigioso Festival d’Hyères. Vive a Maiorca da cinque anni con il suo partner, Thomas Perroteau.

Una fonte inesauribile d’ispirazione?

MDR L’arte popolare. Maiorca mi ispira molto con i suoi numerosi festival e le sue tradizioni.

Cosa offre l’isola a un artista che sta muovendo i primi passi?

MDR È un ottimo posto per concentrarsi e stimolare la voglia di creare. Mi sono sentita accolta con calore, a differenza di quanto mi è successo a Parigi, dove i nuovi artisti non ricevono molte attenzioni.

Il tuo materiale preferito?

MDR L’argilla. Mi piace molto il fatto che nulla si frapponga fra essa e le mani. E poi è un materiale molto sensuale.

Cosa ritrovi di maiorca nei tuoi lavori?

MDR Maiorca è presente in tutte le mie opere. Posso fare l’esempio della cattedrale: è fittamente decorata, ma anche grezza, da un certo punto di vista. È un dualismo che adoro e che infondo nelle mie opere.

Quando hai capito che dedicarsi all’arte era la scelta giusta per te?

MDR Per me è sempre stato un percorso molto spontaneo, non mi vedo fare qualcos’altro.

Marcella Barceló
Marion de Raucourt
Sara Regal
Jordi
Clotet
Saló Thomas Perroteau
Jan Horcik
Pelotas Ariel S/S 2025

Jan, 38 anni, è nato in Repubblica Ceca ed è arrivato a Maiorca nel 2016, seguendo la donna che è oggi sua moglie. La sua specialità è la tipografia, dai graffiti ai caratteri per computer. Heavyweight, l’azienda che ha fondato insieme al suo socio Filip Matějíček, crea e vende ogni genere di carattere tipografico.

Una fonte inesauribile d’ispirazione?

JH Vecchi manifesti che vedo non solo a Maiorca, ma in tutta la Spagna.

Cosa offre l’isola a un artista che sta muovendo i primi passi?

JH Soprattutto tranquillità e un ambiente eccellente per la percezione e la concentrazione. Ogni angolo è ricco di fonti di ispirazione visiva, grazie anche alla moltitudine e complessità delle diverse culture e nazionalità presenti sull’isola.

Il tuo materiale preferito?

JH Carta, matite, aerosol, computer e fotocamera.

Cosa ritrovi di maiorca nei tuoi lavori?

JH La morfologia di certi caratteri tipografici emersi sull’isola, la cui popolazione è molto creativa e lo dimostra in questo campo.

Quando hai capito che dedicarsi all’arte era la scelta giusta per te?

JH Sapevo di voler diventare un artista già da adolescente. L’illuminazione è arrivata quando ho iniziato a fare graffiti e, attraverso di essi, ho capito che l’arte ha una portata più ampia. A quel punto è nato in me un interesse per la pittura e le lettere.

THOMAS PERROTEAU

Thomas è un pittore francese che si è trasferito a Maiorca con la sua partner Marion. Nel loro studio lavorano ciascuno ai propri progetti personali, ma condividere lo spazio con lei crea dinamiche e un’atmosfera che inevitabilmente influiscono sul suo lavoro e lo modificano. L’artista trentaduenne ha studiato architettura prima di iscriversi alla rinomata scuola di arti visive di La Cambre, a Bruxelles.

Una fonte inesauribile d’ispirazione?

TP La città, con i suoi colori e la sua architettura.

Cosa offre l’isola a un artista che sta muovendo i primi passi?

TP Fa stare bene e, quando si è in armonia con il paesaggio, la natura e il clima, si sprigiona un’energia che permea il lavoro.

Il tuo materiale preferito?

TP L’acrilico. Mi piace perché si asciuga molto rapidamente, permettendomi di non interrompere il flusso creativo.

Cosa ritrovi di maiorca nei tuoi lavori?

TP I colori e il folklore dell’isola. Ne sono un esempio di dimonis (demoni, personaggi tipici di Maiorca durante le Fiestas de Sant Antoni).

Quando hai capito che dedicarsi all’arte era la scelta giusta per te?

TP Lo capisco ogni volta che collaboro con un altro artista.

SARA REGAL

Sara progetta spazi e oggetti. Questa artista trentaquattrenne viene da Viveiro, in Galizia, e lavora a Maiorca da più di sei anni. Ha studiato disegno industriale, ma presto si è resa conto che quella professione non soddisfaceva il suo desiderio di mettere in campo pratiche sostenibili, quindi ha deciso di allestire un laboratorio tutto suo per sperimentare. Il risultato si avvicina più all’arte che al disegno industriale.

Una fonte inesauribile d’ispirazione?

SR L’immondizia: ce n’è tanta e di tutti i tipi.

Cosa offre l’isola a un artista che sta muovendo i primi passi?

SR Trovo affascinante che, per motivi turistici o economici, Maiorca sia riuscita a mantenere vive le proprie tradizioni.

Il tuo materiale preferito?

SR Ero ossessionata dalla plastica, ma è un materiale poco duttile e bisogna indossare delle protezioni quando la si lavora. Adesso riciclo tessuti, ma tra un mese la mia risposta potrebbe essere diversa.

Cosa ritrovi di maiorca nei tuoi lavori?

SR I rifiuti che utilizzo sono di qui e, dal momento che ci troviamo su un’isola, i materiali sono molto caratteristici, essendo difficile trasportare i rifiuti sulla terraferma.

Quando hai capito che dedicarsi all’arte era la scelta giusta per te?

SR Ogni volta che sono nel mio studio e posso sperimentare liberamente, senza dover seguire i dettami di una qualche istituzione artistica.

ACHILLES ION GABRIEL

RACCONTA LA PACE E LA TRANQUILLITÀ CHE TROVA A MAIORCA

Il nome Achilles, che appartiene all’eroe della mitologia greca, è poco diffuso nei Paesi scandinavi. Ma, poco prima di partorire, una scultrice di monumenti funebri finlandese ha pensato che sarebbe stata la parola perfetta da scolpire un giorno sulla lapide di suo figlio non ancora nato. E quindi lo ha chiamato Achilles Ion Gabriel.

Oggi trentasettenne, Achilles ha già un’idea precisa di come sarà la sua tomba: un cubo enorme ma essenziale, riportante solo il nome di battesimo e gli anni di nascita e morte. È il genere di programmi che si fanno quando si cresce in una bottega osservando la propria madre che scolpisce lapidi. Come lei, Achilles ha la passione per il design, ma la applica a un altro settore: la moda. È il direttore creativo di Camper dal 2020 e dirige anche un brand di moda che porta il suo nome.

Dopo aver studiato design della calzatura in Finlandia, Achilles si è trasferito a Parigi nel 2009 in cerca di fortuna. Nella frenetica capitale francese ha lanciato un’etichetta di calzature e lavorato come consulente finché, nel 2019, gli è stata offerta l’occasione di trasferirsi a Maiorca e assumere le redini di CAMPERLAB. Un anno dopo è stato promosso a direttore creativo di Camper. Il suo segreto? “Bisogna fidarsi del proprio intuito e capire il mercato”, svela. Ammette una certa passione per dati e numeri, che legge sempre con largo anticipo rispetto alla creazione delle sue collezioni: al momento sta lavorando a quella per il 2026-’27. “Ma bisogna essere un po’ matti per fare una cosa del genere, perché non esistono dati sul futuro. E a volte ho paura perché, se non dovesse funzionare, sarebbe colpa mia - spiega -, ma devo dire che finora le cose sono andate molto bene. Non ci prendo sempre, in ogni caso, quindi sto aspettando il grande fiasco”, aggiunge ridendo.

Nella tranquillità di Maiorca, Achilles ha trovato l’ambiente perfetto per fare ciò che ama: lavorare. E ha acquisito così tanta fiducia da affermare di essere in grado di disegnare una scarpa in due minuti. “Adesso mi faranno lavorare ancora di più!”, scherza, con il senso dell’umorismo che pervade tutta l’intervista.

VIENI DALLA FINLANDIA, CHE È NOTA PER LE SAUNE, I PAESAGGI INNEVATI, L’AURORA BOREALE E PER ESSERE IN VETTA ALLA CLASSIFICA MONDIALE DEI PAESI PIÙ FELICI DEL MONDO. COSA NE PENSI?

Mi stupisce a volte, perché l’inverno è molto buio e in automatico uno si chiede: “OK, come fate a essere così felici?” Ma va detto che la società e il governo sono molto efficienti e probabilmente questo fa sì che le persone non siano troppo stressate dall’arrivare a fine mese. È un Paese piccolo, quindi è facile tenere le cose sotto controllo. Credo che la Finlandia sia uno di quei posti in cui bisogna impegnarsi a fondo per essere completamente isolati dalla società. Là è facile vivere una vita normale, perché l’istruzione è gratis, i sussidi in caso di disoccupazione sono buoni e quindi non ci si stressa troppo per le condizioni economiche. E immagino che le persone poco stressate siano felici (ride). Sono originario di Rovaniemi, in piena Lapponia, dalle parti di Babbo Natale. È sopra il circolo polare artico, quindi fa molto freddo. Mi ricordo che, quando la temperatura scendeva sotto i -30 °C, potevamo stare a casa da scuola.

QUINDI TI TOCCAVA ANDARCI A -20 °C?

A -20 °C sì, ci toccava. Quando il termometro indicava -40 °C, stare all’aperto era doloroso. Ma in Finlandia non avevo preoccupazioni: le esigenze fondamentali sono facili da soddisfare e, già quando studi, ricevi denaro dal governo. È anche una questione di atteggiamento. I finlandesi sono molto sarcastici. Rodrigo, il mio assistente personale, sa che scherzo un sacco. Per me è tutto uno scherzo (ride).

A PARIGI HAI PROVATO LA VITA IN UNA GRANDE CITTÀ, PRIMA DI TRASFERIRTI A MAIORCA E ASSUMERE IL RUOLO DI DIRETTORE CREATIVO DI CAMPER. È STATO FACILE PASSARE DA PARIGI ALLE BALEARI?

Sono vissuto a Parigi per dieci anni, un periodo piuttosto lungo. Ho avuto più difficoltà ad adattarmi alla capitale francese che a Maiorca. È vero però che sono arrivato qui durante la pandemia. Stare da solo mi piace molto e qui vivo in campagna, lontano da tutto e tutti. Non ho mai abitato a Palma. Apprezzo la pace e la tranquillità. L’aspetto più scioccante forse è stato trasferirmi qui senza conoscere nessuno. Tutti i miei amici sono ancora a Parigi, a Helsinki, in Finlandia, o da qualche altra parte del mondo. Ma quando sono qui a Maiorca di solito mi limito a lavorare. Non vedo molta gente. E comunque per me la solitudine non è una cosa triste. Viaggiamo tantissimo, passiamo la vita a viaggiare; quando arrivo qui mi dico: “Un po’ di pace! Finalmente!”

L’ISOLA È FAMOSA PER LE GIORNATE DI SOLE, LE SPIAGGE IDILLIACHE E LE CITTADINE PITTORESCHE. PARLACI DELLA TUA ROUTINE.

Di solito lavoro, poi continuo a lavorare. Lavoro, dormo, poi lavoro, lavoro, passo la notte in bianco e lavoro un altro po’ (ride). Sto cercando di concedermi un po’ più di relax, ma qui è facilissimo lavorare, con tutta la tranquillità che c’è.

Non esistono distrazioni. Lo so, sembra una noia mortale! D’estate, però, nuoto molto nella mia piscina. Fino a qualche giorno fa nuotavo ancora ma adesso, a novembre, mi sembra troppo freddo. È venuta a trovarmi dalla Finlandia la mia migliore amica, si è messa a nuotare in piscina e le ho detto: “Fa freddissimo qui fuori, cosa fai?” Lei mi ha risposto: “Questo in Finlandia è considerato caldo.” E io: “Sì, ma io non sono più tanto finlandese.” (ride).

QUAL È LA PRIMA COSA A CUI HAI PENSATO QUANDO HAI RICEVUTO L’OFFERTA DI CAMPER?

Quando mi hanno chiesto di lavorare per loro mi sono detto: “Che bello, accetto!” E anche se il brand ha una storia fantastica, mi sembra che adesso riceva un po’ più attenzioni e se ne parli molto. Prima che fossi assunto non era così. La prima cosa che ho disegnato è stato lo stivale Traktori. Volevo creare qualcosa di molto maiorchino e ho pensato ai contadini, ma con l’approccio più surreale possibile, visto che non sono di qui. Non sono neanche spagnolo, quindi non potevo che affidarmi alla filosofia di questo Paese. E allora ho optato per l’approccio surreale alle scarpe dei contadini maiorchini. È stata la mia interpretazione di un modello che un contadino potrebbe indossare. Solo che i contadini non lo indossano. Lo proponiamo in tutti i colori e tutte le texture.

CONOSCI MOLTO BENE LA STORIA E L’ARCHIVIO DEL BRAND. QUALE MOMENTO CHIAVE O MODELLO DI CALZATURA TI ISPIRA DI PIÙ?

Probabilmente dipende dalla stagione, perché a volte mi ispiro all’archivio. Penso che dipenda dalla mia idea di Camper: non ho nessuna intenzione di modificarne il DNA. Modificare il brand, ovviamente, è un altro paio di maniche. Sento di essere il custode del DNA di Camper e che è compito mio proteggerne la tradizione, ma allo stesso tempo so di dover essere innovativo e proporre un’evoluzione. È per questo che a volte torno all’archivio e rivisito dei modelli: “OK, come posso riproporre questa scarpa in un modo nuovo per il 2026-’27?”

E non ho problemi di ego, quindi mi sta benissimo ripescare qualcosa dal passato. Non ho bisogno di creare modelli nuovi al 100%, perché li considero tali anche se cerco ispirazione nell’archivio e penso: “Rifacciamo questa scarpa in modo completamente diverso.”

Ma mi chiedevi se c’è un modello particolarmente significativo. Dipende dalla stagione. Certo, ce ne sono di leggendari. Pelotas, per esempio, è un modello che quasi non voglio toccare, perché è fantastico. Quindi intendo proteggerlo ed evitare cambiamenti. C’è chi mi suggerisce questa o quella modifica, ma io rispondo: “No, no, no no. Questa è tradizione!”

SEI NEL SETTORE DA PIÙ DI DIECI ANNI…

Mi stai dando del vecchio? (ride). Scherzo, scherzo!

“LA

PER

PRIMA COSA

CHE HO DISEGNATO

CAMPER È STATO LO STIVALE

TRAKTORI. VOLEVO CREARE QUALCOSA

DI MOLTO MAIORCHINO E HO PENSATO

AI CONTADINI, MA CON L’APPROCCIO

PIÙ SURREALE POSSIBILE.”

CAMBIAMENTI IN TUTTO, DALL’APPROVVIGIONAMENTO

PIÙ ETICO DI MATERIE PRIME ALL’ELIMINAZIONE DEGLI

STEREOTIPI DI GENERE DAI PRODOTTI. PERSINO LA LUNGHEZZA DEI CALZINI INDOSSATI DAI MILLENNIAL È STATA MESSA IN DISCUSSIONE DALLA GEN Z. COME TI TIENI AL PASSO CON LE ASPETTATIVE DEI CLIENTI PIÙ GIOVANI SENZA METTERE IN SECONDO PIANO QUELLI STORICI?

Se si parla di sostenibilità e Better Materials, una delle mie prime iniziative, che ho sostenuto con grande, grande determinazione, è stata aumentare la percentuale di Better Materials che impieghiamo. Quando sono arrivato era più bassa e abbiamo fatto notevoli passi avanti. Lo considero un tema molto importante perché, quando si producono oggetti che vengono distribuiti nel mondo, bisogna assumersene la responsabilità. Ovviamente ci sono materiali più difficili da sostituire, soprattutto nelle scarpe, che sono diverse da cappellini e T-shirt. Le scarpe sono letteralmente a contatto col suolo. Ma abbiamo apportato innovazioni incredibili. Ho proprio messo il team ai lavori forzati (ride). E sono convinto che le aspettative non cambino poi così tanto da una generazione all’altra. Mi sono reso conto che le vecchie generazioni, a volte, sono più progressiste di quanto siamo disposti a riconoscere. E vale anche il contrario. A volte le giovani generazioni sono meno progressiste. In ogni caso, quando disegno calzature non penso mai a genere, etnia, età o ambiente d’origine. Credo che un buon modello sia adatto a chiunque. Comunque siamo stati capaci,

in qualche modo e senza pensarci, di mantenere i clienti esistenti mentre ne conquistavamo tanti di nuovi.

TORNANDO ALL’ASPETTO AMBIENTALE, VOLENDO USARE SOLO MATERIALI SOSTENIBILI, QUALE PARTE DELLA SCARPA CREA MAGGIORI DIFFICOLTÀ?

La cosa più difficile è scomporre la scarpa. Ci sono pelle e gomma, che però seguono due processi di riciclaggio diversi, quindi come si fa a separarle? Non è facile ed è in questo aspetto che siamo cresciuti con innovazioni come Tossu e ROKU, due scarpe scomponibili. Dal punto di vista del riciclaggio sono fantastiche. In ogni caso, tutto considerato, a volte l’azione più sostenibile è produrre calzature durevoli. Ad esempio, mettiamo a confronto un paio di scarpe che viene indossato per anni con uno che è sostenibile ma non durevole. A conti fatti, il paio sostenibile potrebbe essere più nocivo per l’ambiente se va ricomprato ogni sei mesi.

TORNANDO ALLA TUA VITA A MAIORCA, L’ISOLA OSPITA PERSONE MOLTO CREATIVE. ORA CHE CI VIVI DA UN PO’ DI TEMPO, COME TE LO SPIEGHI?

Si può abitare a Palma o frequentare le spiagge e vivere una vita molto intensa o, scelta che preferisco, stare in campagna e rilassarsi. Quasi tutti gli altri creativi che conosco a Maiorca vivono isolati, in campagna. Quando si è immersi nella quiete è più facile pensare e riflettere sulle cose.

È considerata una tradizione spagnola, eppure la siesta esiste in luoghi diversissimi, come la Cina, l’India e il Nordafrica. E anche se solo il 18% degli spagnoli confessa di concedersela di tanto in tanto, il pisolino del primo pomeriggio è uno degli stereotipi più diffusi su questo popolo.

La parola, in ogni caso, ebbe origine nell’antica Roma. A quei tempi il giorno era suddiviso in 12 fasce orarie, a differenza delle nostre 24 ore. Mezzogiorno era la hora sexta, il momento più caldo della giornata, quando tutte le attività si interrompevano per consentire alle persone di mangiare e riposarsi. L’evoluzione dell’aggettivo latino “sexta” ha portato all’attuale siesta.

Camilo José Cela, uno degli spagnoli che hanno vinto il Nobel per la letteratura, preferiva chiamarla “yoga iberico”. Secondo alcuni scienziati, siesta e yoga hanno benefici simili: riducono i livelli di stress, contribuiscono a migliorare la concentrazione e mitigano i fattori di rischio che conducono alle patologie croniche. Altri ricercatori sono addirittura giunti alla conclusione che i nostri corpi sono nati per fare la siesta. La durata ideale è di 26 minuti; secondo alcuni studi, prolungarla oltre quel limite può renderla controproducente.

LA SIESTA

Pur essendo così caldamente consigliata, di rado la siesta sfugge alle controversie. Nei Paesi industrializzati, in cui i ritmi di vita sono più intensi, molti la considerano un segno di pigrizia. E più di recente, le aziende che mettono a disposizione spazi in cui i dipendenti possono sdraiarsi e riposare per qualche minuto sono state accusate di imporre orari di lavoro più lunghi. Ma ci sono autori che hanno scritto libri interi per tessere le lodi del pisolino pomeridiano. Uno di essi è lo storico spagnolo Miguel Ángel Hernández che, in El don de la siesta, difende questa tradizione definendola “l’arte dell’interruzione” contro l’odierna tendenza a produrre incessantemente. In casa, in un angolo nascosto dell’ufficio o, con un po’ di fortuna, sulla sabbia di una spiaggia maiorchina, fare la siesta, o fer l’horeta, come dicono sull’isola, è un piacere da vivere senza rimorsi.

Raquel si concede la siesta perfetta: 26 minuti. Molti scienziati ritengono che contribuisca a migliorare la prontezza e l’efficienza. Dormire più a lungo, però, può causare una sensazione di stanchezza e stordimento.

A Sami Maiorca ricorda Whitley Bay, la sua città natale nel nord dell’Inghilterra. “Entrambe sono sul mare e offrono un’atmosfera rilassante. Qui posso fare le stesse cose che facevo là, ma il clima è migliore.”

In molti Paesi, il momento preferito per la siesta è dopo pranzo. E uno dei posti più apprezzati per farla è la spiaggia, dove ci si può abbronzare mentre si riposa, come ci dimostra Bea.

La siesta è una tradizione talmente radicata in Spagna che alcune imprese locali stabiliscono gli orari lavorativi tenendone conto. I dipendenti che hanno una pausa a metà giornata spesso ne approfittano per concedersi un sonnellino dove capita, come fa María.

Alex è originario di Girona, in Catalogna, e viveva a Barcellona prima di trasferirsi a Palma qualche mese fa. Gli manca la grande città, ma ama vivere circondato dalla natura. Dice che il tempo qui “scorre in modo diverso”.

Per alcuni dormire sotto le stelle è il culmine del romanticismo; altri preferiscono fare la siesta sotto il sole. Spiagge come Portixol, dove vive Nele, sono perfette per fer l’horeta, come si dice in maiorchino.
Henry Alejandro ama l’avventura e la corsa in montagna. Si è trasferito a Maiorca sei anni fa e la apprezza perché gli ricorda il Venezuela, il suo Paese d’origine: “Anche là vivevo sul mare.”

Juan Luis è arrivato a Maiorca per il servizio militare ma un bel giorno, mentre era in coda al cinema, ha conosciuto una ragazza e ha deciso di fermarsi… e sposarsi! Oggi è in pensione e dedica il tempo libero alla cura dei suoi 16 uccelli.

ESMENT

È ora di pranzo e decine di persone entrano in una mensa dai soffitti alti, all’interno di un edificio industriale della periferia di Palma di Maiorca. Si salutano allegramente e scherzano fra loro mentre si siedono ai tavoli con i loro vassoi. La scena si ripete ogni giorno in migliaia di aziende di tutta la Spagna, ma qui c’è qualcosa di speciale, perché quasi tutti i lavoratori, compresi quelli che servono il caffè e stanno alla cassa del bar, hanno una qualche forma di disabilità intellettiva.

In questo edificio, gestito dalla fondazione Esment, hanno trovato un impiego che, invece di evidenziare i loro presunti limiti, viene adattato per mettere a frutto le loro capacità.

“La fondazione è stata creata nel 1962 da genitori desiderosi di offrire ai propri figli la possibilità di godersi il tempo libero - racconta Mercè Marrero, direttrice delle comunicazioni -. Quindi inizialmente si occupava di attività ricreative, finché un genitore, proprietario di una tipografia, ha messo a disposizione un macchinario.” Quel dono ha gettato le basi per un ente che oggi serve

2.200 persone e che, oltre alla tipografia, include ristoranti, un’agenzia di collocamento, residenze con appartamenti per incoraggiare l’autonomia, centri di orientamento professionale, che permettono agli utenti di acquisire familiarità con il mondo del lavoro, e scuole in cui si insegnano competenze sia professionali sia di vita quotidiana.

Uno dei principi chiave di Esment è la presa di distanza dal concetto di beneficenza. I suoi dipendenti devono svolgere incarichi utili, che soddisfino la loro esigenza di dimostrare capacità di creare valore e contribuire all’economia.

Nella tipografia, l’attività più longeva di Esment, gli operatori raccolgono le stampe e si occupano del confezionamento, con la supervisione di un tutor. Ma la porta è sempre aperta per nuove figure professionali, come ha scoperto Gina Barrera. La ventiseienne lavora nei diversi programmi di Esment da otto anni, di cui gli ultimi tre nella tipografia, dove di recente ha potuto mettere a frutto le proprie competenze artistiche nel design di oggetti,

Non tutti sono pronti a lavorare quando entrano a far parte di Esment, che quindi offre la possibilità di maturare competenze e diventare più indipendenti in uno dei centri di formazione professionale della fondazione.

Il Café Inca ha sviluppato una clientela affezionata, grazie a piatti nutrienti e gustosi. Gli utenti di Esment lavorano sia a contatto col pubblico che in cucina, prendendo gli ordini e preparando il cibo con l’aiuto di supervisori.

come le tovaglie utilizzate in mensa. “A mia madre è piaciuta tantissimo quella che raffigura l’ensaimada”, racconta con orgoglio. Adora disegnare e i suoi primi stipendi sono finiti tutti in materiali per questa attività. “Prima avevo le tasche bucate perché mi lasciavo prendere dall’ansia, ma adesso ho imparato a risparmiare per il futuro.

Qui sto bene, perché c’è una bella atmosfera e ho un lavoro stabile”, spiega.

Gina, che preferisce non rivelare la propria disabilità, non si vede in luoghi diversi da Esment.

“Mi hanno chiesto se mi piacerebbe passare a un’altra azienda, ma ho detto di no. In un’azienda normale potrei avere problemi. Ho frequentato un centro di formazione professionale, sono andata a scuola. Non ero a mio agio. In entrambi i luoghi sono stata vittima di bullismo e mai un responsabile è intervenuto dicendo: “Ora basta!” Qui, invece, quando ho avuto problemi mi hanno aiutata. Una fondazione è diversa da un’azienda, dove si lavora e basta. In una fondazione si lavora e si aiutano le persone.”

In 20 minuti di auto arriviamo nella cittadina di Inca, dove c’è un altro centro di Esment. È un edificio di tre piani e occupa l’intero isolato con le sue ampie finestre quadrate. Ospita monolocali in cui le persone con disabilità possono vivere per conto proprio, con la sicurezza di avere a portata di mano un professionista in caso di necessità. Ma il fiore all’occhiello del centro è il ristorante Café Inca dove ogni giorno, dalle 08:30 alle 17:00, è possibile gustare piatti a base di riso, carne grigliata e dessert difficili da trovare lontano da Maiorca, come il gató, un pan di Spagna alle mandorle con una pallina di gelato allo stesso gusto.

Gli apprendisti dei corsi di Esment, come gli assistenti dei camerieri di bar e ristorante, svolgono qui il proprio stage. Se non si sentono a proprio agio con il lavoro, a dipendenti e studenti viene offerta la possibilità di cambiare ruolo, azienda o addirittura settore, piuttosto che perdere il posto nel programma. Secondo Mercè è questo che ha permesso a Esment di crescere così tanto: “Le normative rendono difficile replicare il nostro modello nel

resto del Paese. Abbiamo lavorato duro per creare un rapporto basato su fiducia, trasparenza e responsabilità con le autorità regionali e per metterle al corrente delle esigenze delle persone con disabilità intellettive e delle loro famiglie. Una è la stabilità.”

Che è proprio quello che Valentín Almirón, un talento musicale di 21 anni, ha trovato in Esment. Nel centro di formazione professionale che si trova sopra il Café Inca, mentre parla, salta e muove le mani come se stesse suonando il pianoforte. Sono le sue stereotipie, comportamenti che si

manifestano quando è nervoso e che non riesce a controllare. Attualmente si occupa del confezionamento del cioccolato venduto al ristorante; prima lavorava come guida al Museo della calzatura e dell’industria nel chiostro di Santo Domingo, sempre con il supporto di Esment. Dice che “nonostante qualche difficoltà” gli piace frequentare il centro, dove spesso porta con sé la tastiera e intrattiene i colleghi con qualche canzone. “Se non venissi qui non saprei cosa fare delle mie giornate.”

Sentirsi utili e avere un ruolo nella società è fondamentale per chiunque, in particolare per le persone con una disabilità intellettiva. La fondazione Esment si impegna a trovare lavori che rispondano a questa esigenza.

Nel corso dei secoli, alla luce delle sue dimensioni e della sua posizione strategica, Maiorca è stata abitata da varie culture, dai vandali germanici agli antichi romani. Successivamente l’isola è stata assoggettata al dominio musulmano per poco più di tre secoli, fino al 1229, quando le truppe di Giacomo I d’Aragona sbarcarono sulle sue coste e la conquistarono, privando di un rifugio i pirati musulmani che attaccavano i porti del suo regno.

Il processo di ripopolamento che seguì ha lasciato un’impronta ancora viva negli isolani di oggi: il mallorquí o maiorchino.

Lo spagnolo e il catalano sono le due lingue ufficiali di Maiorca e

del resto delle isole Baleari. Al di fuori della Catalogna, le diverse varianti del catalano sono chiamate anche con nomi regionali, come il valenciano a Valencia e il maiorchino a Maiorca.

Il catalano era la lingua della maggior parte dei coloni provenienti dal regno d’Aragona, che al tempo includeva la Catalogna. Tale idioma si radicò profondamente nell’isola ed è ora considerato una delle sue caratteristiche fondamentali.

Sebbene lo spagnolo sia la lingua più usata nelle case, fra gli amici e nei luoghi di lavoro di Maiorca, il catalano o maiorchino è presente in tutta l’isola. Le spiagge e le mete turistiche più popolari

sono spesso chiamate con i loro nomi catalani. Come Pollença, un villaggio nel nord dell’isola con strade strette e un ponte romano. O Banyalbufar, con le sue ripide terrazze e i vigneti di Malvasia. O ancora Deià, considerato uno dei villaggi maiorchini più affascinanti e caratterizzato da strade acciottolate e un’atmosfera bohémienne.

È facile sorprendersi a cercare sulla cartina luoghi che cominciano con sa, es o ses, come le spiagge di Sa Calobra, Sa Coma, Es Trenc, Es Carbó, Ses Covetes e Ses Dones. Questo è uno degli aspetti che più differenziano il maiorchino dal catalano parlato a Barcellona, in cui gli articoli determinativi sono el al maschile

e la al femminile singolare ed els al maschile e les al femminile plurale. A Maiorca, invece, sa è il femminile singolare, es è il maschile singolare e plurale e ses è il femminile plurale.

Il maiorchino ha molte altre peculiarità, come la a finale muta di certe parole o la coniugazione irregolare di determinati verbi. Uno degli aspetti più notevoli del suo ampio vocabolario è che contiene sia parole nate sul territorio sia arcaismi scomparsi da tempo nella penisola iberica.

Ecco alcuni termini da imparare prima di visitare Maiorca.

Foraster è un’altra parola utile per chi trascorre un po’ di tempo a Maiorca.

Sebbene il suo significato sia lo stesso dell’italiano “straniero”, i maiorchini spesso

la usano per indicare le persone che non solo dell’isola.

74 CAPFICO FORASTER

Capfico, cioè tuffo. Nasce dall’espressione ficar el cap dins l’aigua (mettere la testa sott’acqua).

È probabile che i nuovi amici conosciuti sull’isola chiedano se si abbia voglia di fer un capfico , o fare un tuffo, prima di correre a rinfrescarsi in mare.

DA-LI CEBES BERENAR

75 CAPFICO FORASTER

CEBES BERENAR

A proposito di insalate, quella tradizionale di Maiorca si chiama trempó e contiene pomodori, peperoni, olio, sale e, ovviamente, cipolle. Ma non va ordinata per il berenar , che a Maiorca indica la colazione o uno spuntino pomeridiano. In Catalogna, la stessa parola ha solo il secondo significato.

E da-li cebes! O, in spagnolo: “¡Ánimo!” (Dai!). La traduzione letterale dell’espressione è “Dagli cipolle!”, ma non ha niente a che vedere con la preparazione di un’insalata o un’omelette. A Maiorca si dice per incoraggiare una persona che ne ha bisogno.

Tornando al trempó , è particolarmente consigliato quando è preparato con molto esment , ovvero amore e cura. Ci sono molte versioni del piatto, il cui segreto è il condimento.

E in effetti trempó significa semplicemente condimento nel catalano di Maiorca.

Dopo aver mangiato si può essere sopraffatti dallo xubec , la sonnolenza che prende in seguito a un buon pasto. Se si cede, si rischia di dormire per tutta

l’ horabaixa (letteralmente ora bassa ).

76 XUBEC HORABAIXA DAIXONAR

TREMPÓ

XUBEC HORABAIXA DAIXONAR

La parola maiorchina più versatile, in ogni caso, è daixonar , che deriva da d’això o, in italiano, “quella cosa”. I maiorchini la utilizzano al posto di qualsiasi verbo che non conoscono o non viene loro in mente durante un discorso, un po’ come avviene per l’italiano “cosare”. Sta a chi ascolta capire a cosa si stiano riferendo!

L’espressione significa “crepuscolo” nel resto delle regioni di lingua catalana, ma a Maiorca si riferisce all’intero pomeriggio, quindi è meglio resistere al xubec per approfittare al meglio dell’ horabaixa

LA BARAJA ESPAÑOLA

BARAJA ESPAÑOLA

MAITE E MANUEL

Uno degli equivoci interculturali più curiosi si verifica quando uno spagnolo acquista carte da gioco fuori dal proprio Paese. Chiede un mazzo di carte “normale” e il negoziante non capisce cosa ci sia di anomalo in quello che gli offre. Il fatto è che, mentre nella maggior parte degli altri Paesi un mazzo è composto da 52 carte con cuori, quadri, picche e fiori, in Spagna, come in Italia, i semi sono denari, coppe, spade e bastoni. Le cosiddette carte spagnole.

Fra i giochi di carte più popolari vi sono brisca, escoba e chinchón.

Ma forse il più rappresentativo di tutti è il mus, con giocate dai nomi che sono diventati parte del lessico quotidiano spagnolo. L’espressione Lanzar un órdago (“lanciare una sfida”), ad esempio, si usa in riferimento a un’offerta o un ultimatum in cui si rischia di perdere tutto.

Giocano a carte sia i giovani all’università sia gli anziani nei bar. È il caso di tenerle a portata di mano anche se non si ama il gioco d’azzardo: si possono usare anche per prevedere il futuro.

Maribel, 74 anni, è di Palma e ogni mattina si incontra con le amiche nella spiaggia di Portixol per nuotare in mare.

“D’estate stiamo in acqua per 45 minuti, d’inverno per un quarto d’ora circa. Lo facciamo per muoverci.”

Venticinque anni fa Mercedes ha lasciato l’Argentina per stabilirsi a Palma con la sua famiglia. Oggi ha cinque nipoti e un bisnipote. “Ho la serenità di vivere vicino al mare e alle persone che amo.”

E L’AGRICOLTURA APAEMA

Maiorca non è solo spiagge di sabbia e mare blu cobalto. Le isole Baleari sono rinomate per le attrazioni turistiche, ma quasi la metà della loro superficie è terreno agricolo. Un giro in auto nell’interno di Maiorca svela un paesaggio ricco di contrasti, con campi di orzo, carrubi e verdure come pomodori e cipolle. Le mandorle sono un’altra coltura tradizionale, onnipresente nei piatti e nelle bevande della cucina isolana. Un esempio? La granita alle mandorle, apprezzatissima d’estate.

Come si può ottenere un pasto a base di prodotti locali freschi ancora più gustoso? Per molti la risposta è una sola: comprando biologico! Tutti i martedì e i sabati i maiorchini affollano la Plaza de los Patines di Palma, dove ha sede uno dei primi mercati biologici di Spagna. È stato fondato nel 2010 da alcune associazioni di agricoltori, fra cui Apaema, il consorzio dell’agricoltura biologica di Maiorca. Don

L’agricoltura biologica si basa sull’impiego di risorse e processi naturali. Punta a evitare l’uso di pesticidi e altre sostanze chimiche nei prodotti alimentari, tentando di ridurre l’impatto dell’agricoltura sull’ambiente. Apaema è stata fondata nel 2006 da agricoltori che desideravano promuovere l’agricoltura biologica. Oggi conta oltre 500 persone iscritte.

I progetti dell’associazione riguardano diversi aspetti dell’attività agricola e di allevamento. Dal noleggio sostenibile di macchinari come i biotrituratori per i rifiuti vegetali alla possibilità di utilizzare cucine industriali come S’Obrador, dove gli iscritti possono trasformare i propri prodotti in conserve o bibite confezionate e venderle con il proprio marchio.

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Un quinto dei terreni agricoli delle Baleari è già dedicato al biologico e Maiorca è l’isola in cui questo tipo di terreni è in maggiore crescita. Quando si visita Palma, quindi, non bisogna lasciarsi scappare l’opportunità di provare la versione biologica dei prodotti locali.

ALI GUTY

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Alicia Gutiérrez, Ali Guty per le migliaia di follower che vanta sui social, è seduta a tavola e sul cappello che indossa campeggia la scritta: Make your own money and marry someone funny (un invito a essere economicamente indipendenti e sposare una persona simpatica). “È la mia filosofia di vita, al momento”, commenta sorridendo. Ha centrato il primo obiettivo già da giovane. Per il secondo c’è ancora tempo. Ha 25 anni e sta lavorando per consolidare la propria carriera internazionale di modella curvy. La sua immagine è già stata utilizzata in campagne pubblicitarie di aziende come Jean Paul Gaultier e Fenty, la linea di make-up di Rihanna.

Ali ha lasciato Maiorca, dove è nata, per studiare giornalismo a Madrid, con l’obiettivo di diventare una conduttrice televisiva. “Avevo le idee chiare. Mi piaceva il mondo dell’intrattenimento, la TV. Interagire con le persone ed essere me stessa”, ricorda. Ma ha trovato un ingaggio da modella e, dopo aver conseguito la laurea, è andata lavorare a New York, una città con un vasto ecosistema di agenzie di modelle, sempre in cerca di profili nuovi, diversi ed eterogenei.

Là è passata da un lavoro all’altro e, nel frattempo, ha portato avanti i propri progetti creativi. “Contatto un fotografo, una stilista, una make-up artist, un parrucchiere e tutti insieme creiamo un’idea dal nulla. È la cosa che mi piace di più, perché i lavori commerciali sono più rigidi o meno spontanei”, spiega. Tutti i suoi progetti sono immortalati nel suo account Instagram. “Mi piacciono le situazioni in cui si creano rapporti veri, il team è molto talentuoso e c’è libertà di esprimersi, non solo istruzioni a cui una modella debba attenersi.”

Nonostante la distanza, Ali fa del suo meglio per restare in contatto con gli amici dei tempi della scuola e approfitta delle visite a Maiorca per rivederli e, allo stesso tempo, fare il pieno di ensaimadas e quelitas, i tradizionali cracker salati dell’isola. Un giorno conta di tornare “a rilassarsi” nella sua terra d’origine, dove è cresciuta in una famiglia formata da una madre dalla grande etica lavorativa, un padre muratore e una sorella di 14 anni più grande di lei, che considera una seconda madre. Nel frattempo desidera continuare a godersi l’incertezza della vita all’estero in città dai ritmi frenetici e non esclude di lasciare la Grande Mela per Parigi o qualche altra capitale della moda.

TI SENTI UN’AMBASCIATRICE DI MAIORCA?

Sì, e ne sono contenta. Soprattutto perché ultimamente è diventata un’apprezzata meta turistica. Due o tre anni fa, quando dicevo di essere di qui la gente non sapeva dove fosse. Ma ora che vivo a New York, quando rivelo le mie origini mi sento rispondere: “Wow! La adoro! È la mia destinazione preferita, sono appena tornata da lì.” Secondo me molti sono convinti che nessuno sia originario delle località turistiche o ci viva e, quando scoprono che non è così, si sorprendono.

DI CHE PARTE DI MAIORCA SEI?

Sono di Palma. Ci sono nata e cresciuta, poi mi sono trasferita a Madrid per motivi di studio a 17 anni. Mi sono iscritta alla facoltà di giornalismo e, durante il secondo anno, ho partecipato al casting di un’azienda di lingerie e sono stata selezionata. Da quel momento ho capito cosa avrei voluto fare veramente.

AVEVI GIÀ PENSATO DI FARE LA MODELLA PRIMA?

Era un desiderio che sentivo forte in me. Mi sono sempre portata dietro una fotocamera per i selfie, quindi l’idea mi stuzzicava da tempo, ma non sapevo o non pensavo di esserne in grado. Non mi sembrava una possibilità concreta. Però lo sognavo. Col tempo sono comparse sempre più modelle curvy, i cui mi rivedevo. Mi hanno profondamente ispirata: a quel punto ho capito quanto sia importante avere persone a cui guardare. Quindi, a 15 o 16 anni, ho iniziato a pensarla come una carriera possibile e poi ho continuato a vivere la mia vita fino al giorno di quel casting. Lì mi sono detta che era ciò che volevo e non mi sarei lasciata sfuggire l’occasione. E l’ho colta appieno, perché a quella campagna partecipavano tante altre ragazze e nessuna di loro è ancora una modella.

DOPO LA CAMPAGNA SONO COMINCIATE A PIOVERE OFFERTE?

No, per niente. Fra me e me pensavo che da quel momento sarebbe stato tutto più facile, ma non lo è stato. E poi sono bassa e la statura è sempre un problema.

QUANTO SEI ALTA?

Un metro e 63. Mi sono dovuta costruire un’immagine, il modo in cui volevo essere percepita nel mondo della moda, per avere una chance. Nella prima agenzia per cui ho firmato mi hanno detto: “OK. Ti daremo una possibilità. Avrai la tua occasione, vediamo come va.” Non mi hanno detto: “OK. Vogliamo te. Abbiamo un progetto per te.” Fin dall’inizio sono stata io ad avere un progetto per me stessa e, di conseguenza, sono riuscita a far sì che tutti gli altri mi vedessero in un certo modo.

IL SALTO A NEW YORK È STATO MOLTO DIFFICILE?

Quando stavo terminando gli studi sapevo che mi sarei concentrata sul mondo della moda ed ero convinta di andare all’estero, perché in Spagna ci sono poche opportunità. Pensavo a Londra, perché è più vicina ed è più facile ottenere un visto e contatti con le agenzie. Poi però ho deciso di partire col botto e magari aggiustare la mira in un secondo tempo. Da diversi anni contattavo le agenzie di New York, ricevendo solo rifiuti. Ma un giorno sono stata immortalata in una serie di foto stupende per il servizio di una rivista e questo probabilmente ha convinto qualcuno a rappresentarmi, perché è stato allora che una delle agenzie che contattavo da tempo ha accettato. Mi hanno preparato il visto, per il quale ho dovuto produrre una bella mole di documentazione,

perché dimostrare un paio di esperienze lavorative, cioè tutte quelle che avevo avuto all’epoca, non era sufficiente. Mi sono trasferita a New York nel gennaio del 2022.

TI SEMBRA CHE LÀ CI SIANO PIÙ OPPORTUNITÀ PER UNA MODELLA?

Di sicuro, al 100%. Fra le grandi capitali della moda, Londra e New York mi sembrano le più inclusive. Soprattutto la seconda. È là che ho cominciato a vedere modelle con corpi meno snelli. Non è solo una questione di brand con una maggiore varietà di taglie, ma di un maggior numero di brand specifici per taglie forti o che propongono taglie 5XL o 6XL.

Ovviamente questo avviene perché il mercato locale è notevolmente più vasto: il Paese è molto più grande e l’offerta è decisamente ampia. Ma credo anche che là sia più facile sentirsi integrati. Ancora oggi, quando lavoro in Spagna ho dei problemi: perché i vestiti non mi entrano o le aziende non producono la mia taglia, ma vogliono comunque me per una campagna dopo aver visto i miei lavori precedenti, anche se non sono in linea con i loro prodotti. Negli Stati Uniti, invece, mi capita di rado di sentirmi inadatta o nel posto sbagliato. Sono più a mio agio perché è più normale vedere modelle grandi taglie, a differenza della Spagna. Qui lavorano solo una o due ragazze.

PRIMA O POI NELLA VITA CAPITA A TUTTI DI NON SENTIRSI A PROPRIO AGIO CON IL PROPRIO CORPO. È STATO LO STESSO ANCHE PER TE?

Credo fortemente nella massima “fake it till you make it”, che ci invita a fingere di avere determinate qualità finché non le maturiamo davvero. Perché ciò che crediamo di noi stessi, che sia positivo o negativo, finisce per diventare realtà. Dopo il mio primo lavoro per il brand di lingerie ho dovuto cambiare mentalità, perché sono stata letteralmente scaraventata in TV in biancheria intima. Non potevo più tirarmi indietro.

Non so se la mia forma mentis sia effettivamente cambiata, ma ho cominciato a lavorare sull’essere me stessa, sull’accettarmi e amarmi per quella che ero, perché se ero stata selezionata fra tante ragazze significava che ero speciale e volevo sentirmi tale. Fino ad allora mi vergognavo di mostrarmi senza maglietta agli amici, ma a quel punto mi sono detta: “Basta così. Non ho più intenzione di vergognarmi, avanti tutta.” Un approccio che mi ha aiutata tantissimo a trovare fiducia in me stessa.

OGGI LA RICERCA DIMOSTRA CHE FRA LE GIOVANI

GENERAZIONI, NELLA TUA GENERAZIONE, LE OPINIONI

DI UOMINI E DONNE DIVERGONO SEMPRE PIÙ…

Sono convinta che questo sia molto legato al fatto che non sono alla continua ricerca dell’approvazione degli uomini, dal mio punto di vista il fattore che più condiziona noi donne: “Piacerò ai ragazzi?” Perché spesso ci viene richiesto di essere troppo perfette, troppo belle, troppo eleganti. Grazie al mio lavoro mi vesto in mille modi diversi, con tanti look e con tal-

mente tanto trucco che finisco per divertirmi e fregarmene dell’opinione degli altri.

… QUELLO A CUI VOLEVO ARRIVARE È LA CRITICA CHE COMPARE SEMPRE SUI PROFILI DELLE MODELLE CURVY, DI SOLITO DA PARTE DI GIOVANI UOMINI CHE LE ACCUSANO DI “PROMUOVERE” L’OBESITÀ.

È sempre lo stesso commento! E viene da persone a cui non importa niente della nostra salute e che non ne sanno nulla. C’è un sacco di gente magra che ha altri problemi. Io sono in perfetta salute, il mio tipo fisico è questo e, anche se non lo fosse, nessuno sa quale sia la mia reale situazione, cosa stia vivendo. E poi ho il diritto di esistere. In altre parole non promuovo alcunché: non dico di non fare sport, né di mangiare o non mangiare. Semplicemente esisto, faccio qualcosa che mi piace e do visibilità a persone che hanno questo tipo di fisico o si limitano a vivere la propria vita. Ci sono molti modi di guardare alla questione e ci sono posizioni estreme, ma io non ne promuovo una o un’altra. Sono solo me stessa e mi accorgo che spesso mi tocca dare spiegazioni sul perché faccia ciò che faccio o sul perché mi mostri così, semplicemente perché non ho una conformazione fisica standard.

A QUALI PROGETTI STAI LAVORANDO IN QUESTO MOMENTO?

Non lavoro da quasi un anno perché dovevo rinnovare il visto per gli Stati Uniti. Ci sono tornata appena due mesi fa. Sto riprendendo i contatti per vari progetti e campagne. Sono molto determinata a godermi l’esperienza e sto ridefinendo i miei obiettivi e desideri per il futuro perché ho appena firmato con una nuova agenzia, quindi sono in pieno rinnovamento.

E COSA VORRESTI FOSSE DIVERSO PER LA NUOVA TE?

Voglio avere la consapevolezza di fare le cose con maggiore risolutezza e non tanto per farle, che all’inizio è praticamente un obbligo: bisogna dire sì a molte richieste per poter dire no più avanti. Quindi, maggiore risolutezza e maggiore determinazione.

QUALCHE OBIETTIVO SPECIFICO?

Non parlerei ancora di obiettivi, ma ho iniziato a studiare recitazione.

IN INGLESE O IN SPAGNOLO?

Sto seguendo un corso da remoto a New York, ma è in spagnolo. Voglio gettare le basi nella mia lingua madre e poi, visto che vivo negli Stati Uniti e parlo inglese, probabilmente finirò per fare qualcosa anche là. Ma desidero che la formazione sia in spagnolo. È il mio prossimo traguardo.

BIRDWATCHING

Molti visitano Maiorca in cerca di calette idilliache e piatti deliziosi come l’arrós brut, una specialità a base di riso così ricca di brodo che, a uno sguardo distratto, potrebbe passare per una zuppa. Ma c’è un nuovo tipo di turista che si incontra sempre più di frequente sull’isola. È armato di binocolo e scarponi da trekking ed esplora gole, foreste e sentieri a piedi, con gli occhi costantemente rivolti al cielo: è l’appassionato di birdwatching.

Questa disciplina è un hobby sempre più praticato in giro per il mondo e Maiorca non fa eccezione. In luoghi come s’Albufera de Mallorca, l’area paludosa più estesa dell’isola, sorgono addirittura capanni in cui nascondersi per avvistare le più di 300 specie di volatili che passano in zona nel corso dell’anno. Ma è dall’altra parte dell’isola, sulla costa occidentale, che si trova il sacro Graal di chi fa birdwatching: l’avvoltoio monaco, il rapace più grande d’Europa. Maiorca è l’unica isola del Mediterraneo in cui è ancora possibile avvistarlo e la Serra de Tramuntana è diventata il suo ultimo rifugio da queste parti.

“In questo momento ci sono 45 coppie fertili, che producono circa 30 pulcini all’anno - spiega la biologa austriaca Evelyn Tewes, direttrice della fondazione ambientale FVSM -. Ma negli anni ’80, quando sono arrivata qui, ne era rimasta solo una.” La dottoressa Tewes si è trasferita a Maiorca dopo aver deciso di dedicare la tesi di dottorato alla conservazione dell’avvoltoio monaco. Oggi, grazie al suo lavoro e a quello della fondazione, l’estinzione di questa specie sull’isola è stata scongiurata. Oltre 100 volontari contribuiscono a monitorare le zone di nidificazione e a sensibilizzare la popolazione sulla fauna locale.

Decenni fa gli avvoltoi monaco erano cacciati dagli allevatori di Maiorca, che temevano potessero uccidere le pernici e i polli. Il retaggio di questo passato si riflette sui nidi, che qui sull’isola vengono costruiti negli anfratti delle scogliere a strapiombo sul mare piuttosto che in cima agli alberi, come nel resto d’Europa. È lì che gli avvoltoi hanno trovato riparo ed è lì che è possibile vederli volare in cerchio (un rituale di accoppiamento) o nutrire i propri pulcini.

MARC BIBILONI ELA FIDALGO

La provincia di Zamora, nel nordovest della Spagna, ospita il piccolo villaggio di Carbajales de Alba, noto per i deliziosi ricami colorati realizzati dalle donne locali. Armate di una matita da sarto, improvvisano pavoni e garofani a mano libera su scialli di Manila e mantelli da torero. Ogni estate, una bambina di Maiorca visitava il villaggio per andare a trovare la famiglia di sua madre, ma i bambini del posto non volevano giocare con lei. Soledad, sua nonna, ha risolto il problema in un batter d’occhio: “Vieni a ricamare con me.”

È così che Ela Fidalgo (1993) è stata avviata al mondo della moda, un settore in cui ha trovato subito il successo. Al terzo anno di scuola della moda ha ricevuto il premio per giovani stilisti durante la Mercedes Benz Fashion Week di Madrid, la passerella più importante di Spagna. Poco dopo è stata finalista al Festival internazionale della moda, della fotografia e degli accessori di Hyères, in Francia, trampolino di lancio per i nuovi talenti della moda europea.

Invece di corroborare la sua vocazione, però, questi successi hanno allontanato Ela da quel mondo, avvicinandola a una nuova passione: l’arte. Adesso lavora a Maiorca, dove crea opere che emergono dalla sua esperienza e formazione nella moda ma si evolvono liberamente, senza le limitazioni imposte da quel settore.

Da Marc Bibiloni (1992), fondatore e direttore dell’omonima galleria d’arte di Madrid, Ela ha imparato a rallentare e a lasciare che le sue riflessioni ed esperienze si mescolino non solo con ago e filo, ma anche con materiali e tecniche per lei nuovi. Ha prodotto mostre che hanno fatto registrare il tutto esaurito e ha trovato in Marc la lealtà incrollabile, l’empatia e l’onestà che le consentono di elevare le proprie creazioni da semplici indumenti a opere d’arte. Marc, dal canto suo ha trovato in Ela un’artista in grado di aprire le porte del proprio universo, facendogli percepire quell’“esperienza religiosa” che l’arte è per lui.

COME VI SIETE CONOSCIUTI?

EF Avevo sentito parlare di lui e avevamo amici in comune. È stato divertente perché mi ero trasferita a Maiorca per motivi personali e facevo la cameriera in un hotel. Ma un bel giorno mi sono detta: “È un peccato che qui non possano vedere tutto quello che ho fatto, una collezione così bella!” All’improvviso mi sono trovata davanti a un palazzo nel centro di Palma. Era una galleria e ho pensato: “Sarebbe incredibile fare qualcosa qui.” Sono entrata e ho visto Marc…

MB All’improvviso ho visto entrare questa ragazza con un cappello enorme. Lei per prima sembrava un’opera d’arte. La cosa divertente è che mi ha proposto un progetto, quando io le avevo già scritto su Facebook per proporgliene uno a mia volta, senza ricevere risposta.

EF Era una richiesta di messaggio, quindi non l’avevo vista.

MB E insomma arriva questa ragazza col cappello e mi dice: “Ehi, in questo momento faccio le pulizie nei bagni.” Cioè, è stato un colpo di fulmine. Sapevo già chi fosse grazie ad amici comuni, ma l’impatto del primo incontro con lei è stato da film, un film di Almodóvar, perché all’epoca lavoravo per questa galleria d’arte in centro che, come ha detto Ela, sembrava un palazzo.

Quel momento ha segnato il suo ingresso nel mondo dell’arte. Della nostra storia mi piace, oltre al bel rapporto che è nato immediatamente e al fatto che abbiamo vissuto insieme molto a lungo, che lei ha messo piede per la prima volta in una galleria d’arte grazie a me. Allo stesso tempo, io ho iniziato a capire che genere di gallerista volessi essere grazie a lei.

A PROPOSITO DI GALLERIE, IL SETTORE STA VIVENDO UN BOOM IN LUOGHI DIVERSISSIMI, COME HONG KONG O L’UGANDA. COME VA A MAIORCA?

MB Anche qui è lo stesso. Un buon indicatore, dal mio punto di vista, è che molti artisti stanno aprendo studi qui, forse perché desiderano allontanarsi dalle grandi città. La conseguenza diretta del crescente numero di artisti che lavora a Maiorca è l’apertura di gallerie d’arte. Per essere un’isoletta al centro del Mediterraneo, ciò che abbiamo da offrire è impareggiabile. Un altro aspetto da non dimenticare è che qui vivono persone provenienti da tutto il mondo, il che significa che quando allestiamo mostre non lo facciamo solo a beneficio della gente del posto, che sarebbe comunque un bene, ma anche per un pubblico internazionale che include collezionisti d’arte. Questo consente di trovare molte porte aperte anche lontano da Maiorca.

EF E poi siamo su un’isola… L’isolamento significa che le persone devono sopravvivere. In che modo? Essendo creative. Questa creatività emerge dalle tradizioni di Maiorca, dalla gastronomia all’artigianato. E ha anche portato alla nascita di una fitta rete di artisti.

MA A MAIORCA SI RIESCE A VIVERE D’ARTE?

EF La domanda non vale solo per Maiorca. È dura anche a Madrid. Essere artisti è un impegno che non finisce mai. Uno stile di vita che si sceglie. Io, ad esempio, non ho bisogno di vivere a New York per lavorare alla mia arte. Non credo in questo tipo di approccio. Forse era così nel passato, perché in Spagna eravamo più repressi a causa degli anni della dittatura. Non avevamo accesso alle informazioni come oggi, quando possiamo starcene a dipingere a Timbuctù e allo stesso tempo essere connessi con il resto del mondo. E comunque questa non è una mia responsabilità. È compito della galleria. Più sono isolata e concentrata sul mio lavoro, con onestà e umiltà, meglio è. La galleria deve prendere le mie opere, proteggerle, usarle e diffonderle.

MB Ci sono diversi tipi di artisti e tutte le prospettive sono valide. Ela è un tipo di artista che desidera finire sui libri di storia.

EF Per l’amor di Dio, non dire così! (Ride) Per favore, mi metti in imbarazzo!

MB Mi spiego meglio. Non è questione di ego. Alcuni artisti sognano di trovare posto nella storia dell’arte. Altri si accontentano di cercare un arricchimento personale attraverso le proprie creazioni. Me ne accorgo molto chiaramente e so che una galleria può supportare al meglio gli uni e gli altri.

ENTRAMBI SIETE VISSUTI LONTANO DA MAIORCA ED ENTRAMBI AVETE DECISO DI FARVI RITORNO. PERCHÉ?

MB Ho trascorso cinque anni splendidi da studente a Barcellona. Poi mi sono trasferito a Londra e, qualche tempo dopo, mi sono preso una pausa di alcuni mesi per venire a trascorrere l’estate qui a Maiorca, perché ero davvero sotto pressione. La mia vita londinese ruotava attorno al lavoro. Ero nella migliore università al mondo, ma a volte il ritmo frenetico delle grandi città ci fa dimenticare chi siamo. E quindi quell’estate sono tornato e ho deciso di restare. Ho iniziato a curiosare nelle gallerie locali e ho capito che qui avrei avuto una possibilità che, in precedenza, mi era sempre sembrata irrealizzabile: avevo la sensazione che Maiorca fosse troppo piccola per me e che non avrei mai avuto l’opportunità di vedersi concretizzare i miei sogni qui. In quel momento mi sono reso conto che invece sarebbe stato possibile. Quindi mi è bastato mettere in stand-by la mia carriera, tornare a Maiorca d’estate, scoprire le gallerie, fare conoscenza con il mondo artistico locale e, dopo qualche mese, chiamare per annunciare che non sarei più tornato. (Ride)

EF Per quanto riguarda me, avevo completato gli studi di moda e stavo per cominciare a lavorare per un’azienda di Parigi, quando a mia madre è stato diagnosticato un tumore. A quel punto ho deciso di tornare, perché la famiglia ha sempre la precedenza.

Ma provavo la sensazione di aver fallito. È stato un periodo molto difficile. Avevo appena vinto il mio primo premio, avevo creato collezioni, vivevo a Parigi, al centro di tutto (un sogno che si avverava!), lavoravo per brand come Margiela.

“AVEVO LA SENSAZIONE CHE MAIORCA FOSSE TROPPO PICCOLA PER ME E CHE NON AVREI

MAI AVUTO L’OPPORTUNITÀ DI VEDERSI

CONCRETIZZARE I MIEI SOGNI QUI. IN QUEL

MOMENTO MI SONO RESO CONTO CHE INVECE

SAREBBE STATO POSSIBILE. QUINDI MI È

BASTATO TORNARE A MAIORCA D’ESTATE,

SCOPRIRE LE GALLERIE E, DOPO QUALCHE

MESE, CHIAMARE PER ANNUNCIARE CHE

NON SAREI PIÙ TORNATO.”

MARC BIBILONI

E all’improvviso ecco che mi ritrovavo di nuovo sull’isola.

Sono arrivata a Maiorca e l’unica opportunità di lavoro che ho trovato è stata le pulizie delle camere di albergo. È stato deprimente, perché ero tornata a vivere con i miei e andava benissimo, li adoro, però sai com’è… E pulire i bagni non è un problema, ma non potevo non pensare: “Tutti questi sforzi per niente!” Non avendo finito le superiori non ho mai sostenuto gli esami per iscrivermi all’università. Quando sono arrivata a Madrid, ho trovato alloggio in una casa occupata e ho iniziato a lavorare nei locali. Sono stati dei professori universitari che mi hanno vista e mi hanno chiesto: “Ti piacerebbe studiare moda?” E io ho risposto: “Certo, ma non me lo posso permettere!” Alla fine ho ottenuto una borsa di studio. Mi sembrava un sogno, perché vengo da una famiglia umile, di gente che lavora. Non mi hanno mai fatto mancare nulla ma, quando ero bambina, guardavo su YouTube video di scuole come la Central Saint Martins di Londra o l’Accademia reale di belle arti di Anversa e piangevo. Mio padre mi diceva che non avrei mai avuto la possibilità di frequentare istituti così, nemmeno lo IED di Madrid, dove poi invece ho studiato.

TI HANNO CONFERITO UNA BORSA PER STUDIARE MODA

E HAI AVUTO SUCCESSO QUASI IMMEDIATAMENTE. CHE

SENSAZIONI HAI PROVATO?

EF Del premio Mercedes Benz non ho un gran ricordo. Forse quando ero giovane vivevo tutto troppo intensamente.

Il giorno della sfilata è stato bello, ma quello successivo non c’era nessuno a sostenermi. Alla fine ero tristissima. Sono cresciuta ammirando John Galliano, Alexander McQueen, Marc Jacobs, tutte persone arrivate dal nulla e divenute vere e proprie divinità (o almeno così le vedevo io). Non venendo da una famiglia benestante e avendo sempre dovuto lavorare sodo per cavarmela, pensavo che vincere un concorso così importante mi avrebbe cambiato la vita, ma non è stato così! Avevo illusioni e sogni, ma me li ero creati io. Forse le mie aspettative erano troppo alte: pensavo che la mia vita sarebbe cambiata, che non avrei più dovuto convivere con le ristrettezze economiche. Quando ho capito che non sarebbe andata così mi sono detta: “Non sono all’altezza, cosa posso fare di più? Come faccio a farmi notare?” Ero ipercritica c on me stessa e sono caduta in una depressione da cui non vedevo via d’uscita. Ne sono riemersa grazie a Isabel Berz, la preside della mia facoltà, che mi ha permesso di ottenere una borsa di studio. Allo IED non erano previste, ma ne hanno creata una apposta per me. La preside è venuta a prendermi a casa, è stata una dei tanti angeli che hanno accompagnato il mio cammino. Marc è stato un altro.

Hyères invece mi è piaciuto, perché c’era anche Marc. Mi sono divertita un sacco. Per quanto sia stata molto dura, perché lavoravo tutto il giorno. Ci sono stati momenti in cui tornavo a casa e piangevo sulla spalla di Marc…

MB Vivevamo già insieme.

“L’ISOLAMENTO SIGNIFICA CHE LE PERSONE DEVONO SOPRAVVIVERE. IN CHE MODO? ESSENDO

CREATIVE. QUESTA CREATIVITÀ

EMERGE DALLE TRADIZIONI DI MAIORCA, DALLA GASTRONOMIA ALL’ARTIGIANATO.

E HA ANCHE PORTATO ALLA NASCITA DI UNA

FITTA RETE DI ARTISTI.”

ELA FIDALGO

ALLORA QUANDO HAI INIZIATO A LAVORARE CON MARC ERI ANCORA UNA STILISTA, NON ERI GIÀ PASSATA ALL’ARTE?

EF No, ero anche un’artista.

MB Mi ha mostrato i disegni della collezione vincitrice del concorso nella galleria dove lavoravo, poi ha realizzato una piccola stampa, molto semplice, che ha venduto. E io commentavo sempre il suo lavoro con una frase piena di emozione: “Questi vestiti sono sculture.” Quindi le abbiamo chiesto di realizzare le sue prime opere di arte tessile su tela. Le abbiamo organizzato una mostra che è stata un enorme successo: tutte le opere sono andate vendute durante il vernissage. Poi è arrivato Hyères, che ha rappresentato una sfida perché il proprietario della galleria non voleva che partecipasse. Preferiva che si concentrasse sul suo lavoro artistico.

EF Ho detto al proprietario: “Ti prego, devo partecipare! È uno dei miei sogni.” Mi trovavo a Maiorca e avevo tempo per lavorarci. E lui mi ha risposto: “No, ce la fa una persona su mille.” Ho insistito, in lacrime: “Quella persona sono io.” E lui: “No, non sei tu.”

Quello è stato un momento chiave, perché ho capito di non voler più lavorare con quella galleria. Marc, per esempio, mi offre la sua opinione, ma non mi ha mai zittita o trattata in modo sprezzante. Dice sempre cose che infondono fiducia, non sminuisce mai.

Quindi, riassumendo, a Madrid ho avuto una brutta esperienza ma ho imparato molto su di me. Mentre a Hyères, dove sono arrivata in finale, mi sono divertita un sacco, anche se è lì che ho capito di non appartenere al mondo della moda.

MB A Hyères le hanno detto qualcosa che le ha dato da pensare: “Questo non si può produrre.” Hai visto i suoi vestiti: hanno un sacco di strati e produrli e metterli sul mercato ottenendone un profitto è impossibile. Quale mondo, allora, le avrebbe permesso di continuare a partorire quelle creazioni? Il mondo dell’arte.

A COSA STAI LAVORANDO IN QUESTO PERIODO?

EF Nella mia ultima mostra parlo di Ela ma anche di Manuela, la me bambina. Manuela è il mio vero nome. Ela è la responsabile dei seminari di mediazione a cui partecipano le persone che intendono collaborare ai progetti, con cui lavoriamo sul recupero del benessere psicologico, perché la gente adora Ela. Quando cominciamo ad andare un po’ più in profondità, lì appare Manuela. La mostra è incentrata sul dialogo fra loro due.

Essere Ela non è affatto male, ma certe volte bisogna chiuderla nell’armadio e aspettare che si calmi.

La vita dello psicoterapeuta Tomeu Arbona e dell’insegnante María José Orero è cambiata a causa della crisi finanziaria del 2008: “Eravamo rovinati.” Hanno investito il poco che era loro rimasto in un settore di cui non sapevano nulla: la pasticceria. E non hanno scelto una pasticceria qualsiasi, ma una radicalmente tradizionale.

“Ci siamo procurati libri di cucina storici, pubblicazioni fuori stampa, abbiamo parlato con cuochi in tarda età e suore di clausura”, racconta María José. Il risultato è un catalogo che riporta in vita antiche ricette maiorchine come l’ensaimada di agnello con una marmellata di zucca locale o merluzzo.

Il successo li ha portati a trasferirsi, nel 2018, nella centralissima Plaza Weyler, e non in un luogo qualsiasi: hanno infatti rilevato il vecchio Forn des Teatre, il forno del teatro, come si legge in lettere rosse su un’insegna lignea art nouveau verde e gialla risalente al 1916.

“Il nostro nome è Fornet de la Socà, ma la facciata è sotto tutela, quindi non possiamo toccarla - spiega Tomeu, parlando con ammirazione dello storico edificio -. In ogni caso non ci sogneremmo di farlo.”

FORN DES TEATRE

A fine giornata il cielo di Maiorca, come la tela di un artista, è inondato di diverse tonalità di rosa e arancione. L’isola più grande di Spagna è il paradiso degli amanti della spiaggia d’estate, ma conserva il suo fascino durante la mite stagione invernale, quando il sole non tramonta prima delle 17:30.

Negli ultimi giorni di ogni anno la neve cade sulle vette della Serra de Tramuntana, ricoprendo il Puig Mayor, la cima più alta delle Baleari. Capre selvatiche pascolano sulle pendici, osservate con sguardo attento dagli avvoltoi monaco che arrivano in volo dai loro nidi sulle scogliere della costa, in cerca di cibo. Nell’interno dell’isola, gli agricoltori, o campers, lavorano la terra con acqua estratta dai mulini a vento. Ce ne sono circa 2.300, in pietra e ferro, sparsi nel paesaggio rurale maiorchino.

Pomodori, olive e mandorle sono i frutti di questo lavoro e il cuore della gastronomia dell’isola, che è rimasta un’esclusiva locale a dispetto della globalizzazione mondiale, delizia i palati dei visitatori con i suoi sapori vivaci.

Queste qualità rendono Maiorca un paradiso che non tutti riescono a sopportare, parafrasando la celebre frase della scrittrice statunitense Gertrude Stein. Coloro che ce la fanno, però, finiscono per trovarvi un rifugio dalla vita frenetica così comune dall’altra parte del mare. Queste persone trovano forse più accurata la definizione dell’isola di un altro grande autore, l’argentino Jorge Luis Borges: “Maiorca è un luogo che somiglia alla felicità.”

Pere-Josep ha incontrato Antonia in un bar, anni dopo essere entrato per l’ultima volta al suo negozio. “Voglio essere tuo amico”, ha scritto su un biglietto. “Fino ad allora lo avevo considerato solo dal punto di vista professionaleracconta lei -. Era un buon cliente.”

Muminu, 28 anni, vuole fare cinema e teatro. È un’attrice e una dirigente nel campo dell’inclusione sociale; ama la natura e l’attività fisica. Le piace Maiorca proprio perché qui la natura è sempre a portata di mano.

madre di Adam è maiorchina e suo padre è ivoriano. Lui ha 18 anni e allena una squadra giovanile, ma sta pensando di abbandonare lo sport in favore della meccanica navale per avere opportunità lavorative “dignitose”.

Maj, 30 anni, è italomarocchina e vive a Maiorca da cinque anni. Le sue giornate iniziano praticando yoga sulla spiaggia. Le piace ricaricare le pile in riva al mare e apprezza il multiculturalismo dell’isola.

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Eduardo Vizcaíno è vissuto a Madrid, in Germania e, più di recente, a Maiorca. Fa kayak quasi tutti i giorni con gli altri soci del Real Club Náutico di Palma. “Un’ora e mezza in mare è sempre una buona idea.”

Edizione e creazione

Alla Carta Studio

Direttore creativo del brand

Achilles Ion Gabriel

Direttore del marchio

Gloria Rodríguez

Direttore artistico del marchio

Emanuela Amato

Fotografia

Martin Parr

Styling Francesca Izzi

Acconciature e trucco

Sandra Torrero

Scenografia

Dolores Llorens

Disegni

Maite y Manuel

Testi

Stefania Gozzer Arias

Produzione

Rocío Romero

Immagini a cura di © Martin Parr

Stampa

Artes Gráficas Palermo, Madrid

ISSN: 2660-8758

Deposito legale: PM 0911-2021

Stampato in Spagna

Alcudia Design S.L.U. Maiorca camper.com © Camper, 2025

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Un ringraziamento speciale a

Alex, Maj, Nele e Sami di Camper

Alex Sobrón

Ali Guty

Ana, Caty, Jordi, Pere ed Everlyn di Fundación Vida Silvestre

Apaema

Ela Fidalgo

Jan Horcik

Jordi Clotet Saló

Marc Bibiloni

Marcella Barceló

Marion de Raucourt

Mercè Marrero di Esment

Rodrigo Agudo

Rossy de Palma

Sara Regal

Teresa Tarragó

Successió Miró, Roser Salmoral

Fundació Miró Mallorca

Thomas Perroteau

Tomeu, Maria José e Adrià di Forn des Teatre

Adam, Amanda, Antonia, Bea, Biel, Blanca, Carlos, Didac, Eduardo, Elena, Inés, Jacinto, José David, Juan Luis, Henry Alejandro, María, María Ángeles, Mariamma, Maribel, Matías, Mercedes, Milo, Muminu, Nebiyat, Pere-Josep, Piero, Raquel, Ruth, Santino, Siro

Arthur Arbesser, Bonsai, Chateau Orlando, Giuglia, Jht, Lessico Familiare, Older, Paura, Plas, Studio Ventisei, Viapiave33, Archivio

La Couture, Old Mcdonald Had An Archive, Sorry Mummy, Volgari Ferraglie

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