Bookland 2010 - Raccolta di racconti e Poesie

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AUTORI VARI

BOOKLAND 2010

& MyBook


“Bookland 2010”

Copyright © 2010 Rivista Bookland Opera pubblicata e distribuita da: & MyBook un marchio di Caravaggio Editore Casella postale 325 66054 Vasto (CH) www.andmybook.it info@andmybook.it Tutti i diritti di riproduzione, traduzione e adattamento sono riservati. Nessuna parte di questo libro può essere usata, riprodotta o diffusa senza autorizzazione scritta da parte dell’autore o dell’editore. Collana Editoriale Bookland Prima Edizione Gennaio 2010 ISBN 978-88-96096-63-5


L’aquilone e le montagne rosa Quella sera c’era qualcosa di strano. Il cielo aveva improvvisamente cominciato ad oscurarsi perdendo il turchino della giornata. Il sole se n’era andato, senza avvisare, lasciando soltanto un tepore diffuso. Poco a poco i rami degli alberi presero a dondolare vivacemente e le foglie si muovevano come ali di farfalla. L’aria soffiava ad intermittenza e si infilava tra le fronde, accarezzandone la superficie con delicatezza. Anche l’erba, che ricopriva interamente il suolo, partecipava a quella danza, muovendosi con cadenza regolare prima avanti, poi indietro, in omaggio alle onde del mare di cui pareva quasi prendere le sfumature. Arturo, seduto sul tappeto della sua stanza, era perso nella lettura del libro scovato in biblioteca: “Come costruire un aquilone”. Nutriva una vera e propria passione per questi scampoli volanti e l’idea di potersene fare uno tutto da solo l’affascinava moltissimo. Il papà gli aveva dato il suo di quando lui era bambino, una preziosa consegna di testimone, e insieme uscivano a farlo volare ogni qualvolta il vento si mostrava generoso. Quella avrebbe potuto essere una serata adatta. Anche se ad un certo punto lo scenario si fece diverso, tormentato, cupo. 3


Le nuvole grosse, arrabbiate, navigavano rapide e basse, gettando ombre inquietanti su tutto. Si alzarono raffiche che ululavano tanto forte da distogliere l’attenzione di Arturo dal libro. Scattando si precipitò alla finestra e nel vedere il preludio del finimondo si spaventò. Gli alberi si sarebbero sradicati dal suolo? La casa sarebbe volata via? Mentre si poneva queste domande la mamma entrò in camera. Lo trovò con il naso schiacciato sul vetro e le mani strette allo stipite. «Non preoccuparti» lo rassicurò «è tutto sotto controllo. Non finiremo di botto su Marte» Conosceva bene il figlio e sapeva che bastava poco perché la sua fantasia prendesse il sopravvento. Era sempre stato così e il gran tempo che passava immerso tra le pagine di fiabe e racconti non faceva che acuire tale sua caratteristica. «Questo vento fa rumore ma non è cattivo. Spazza via i pensieri negativi e alleggerisce la mente. Forse ci porterà qualche idea nuova…» «…mmh, si, secondo me porterà qualcosa… qualcosa di nuovo…» rispose pronto Arturo, convinto che da lì a poco se ne sarebbero viste delle belle. «Del resto, caro mio, tu sei venuto al mondo in una serata come questa e certamente si era trattato di una splendida, entusiasmante novità!» Così dicendo, la mamma gli scompigliò i capelli ed uscì dalla camera. Lui rimase attaccato alla finestra ancora a lungo, prese persino una sedia per guardare stando più comodo e non perdersi neanche un particolare di quella carambola cosmica. 4


Si addormentò con la testa sulle ginocchia, mentre il vento continuava a sbuffare impetuoso. *** La mattina dopo Arturo scese dal letto, dove era stato portato dal papà a sua insaputa e mentre già dormiva come un sasso, e tornò alla finestra curioso di vedere la situazione fuori. Gli alberi stavano ancora al loro posto, la casa era dritta, i fiori un po’ sconvolti e sottosopra ma sempre vivaci e multicolori. Solo il prato era ricoperto di un po’ di tutto: foglie, cartacce, rametti, petali, in una sorta di improbabile bazar. Un punto fucsia spiccava tra i rami della betulla. Cos’era? La betulla, vicina al ciglio della strada, restava parzialmente nascosta dall’ampio salice. Dunque non era facile capire di che si trattasse. Bisognava andare là. Un palloncino gonfiabile ma ormai un po’ floscio, era rimasto impigliato in quella chioma spezzando l’uniformità del suo verde. Arturo si ingegnò con la scala a pioli che usavano per raccogliere le ciliegie e si appropriò fiero di quel dono del cielo. «Sapevo che il vento qualcosa avrebbe portato!» affermò contento per l’oggetto trovato e orgoglioso delle sue percezioni. Lo teneva stretto per il filo affinché non volasse via anche se le condizioni malconce in cui versava non gli avrebbero permesso di veleggiare nuovamente. Che cosa strana, chissà da dove arrivava, chissà come mai non era scoppiato. 5


Decise che l’avrebbe conservato come un eroe sopravvissuto alla tormenta, che non l’avrebbe mai svuotato della poca aria che conteneva, lasciando che fosse esso stesso a farlo quando sarebbe giunto il momento. Ma si accorse che dentro quella membrana di gomma, c’era un foglio di carta arrotolato e fermato da uno spago sottile. A questo punto si poneva il dilemma: lasciare il palloncino così come si era presentato, conservandone l’integrità o sciogliere il nodo e curiosare avidamente dentro quel foglio? Lo teneva tra le mani passandolo da una all’altra e scrutandolo perplesso. Mise pochi istanti a capire che se lì dentro c’era un foglio, non vi era finito da solo. Qualcuno l’aveva messo perché qualcun altro lo leggesse se mai fosse arrivato ad una determinata destinazione. «Io l’ho trovato, dunque io lo leggo!» e in un baleno estrasse il pezzo di carta. Era una carta azzurra di buona qualità e di una discreta grammatura; aperta, rivelò un testo stampato, non scritto a mano, che diceva: “Oggi le montagne rosa che stanno di fronte alla mia casa, mi hanno sorriso. Non è vero che le rocce sono aride, sanno essere molto gentili. E Camilla le ringrazia.” In fondo, un indirizzo. Arturo non stava più nella pelle: quel palloncino aveva fatto un lunghissimo viaggio! Lui sapeva bene dove si trovava il paese delle montagne rosa e tra il suo e quello, in mezzo c’erano laghi e altre montagne da superare. Ma una volta tanto, non stava sognando, era tutto assolutamente vero! Corse in casa a raccontare l’accaduto ai suoi genitori che rimasero stupefatti. Il caso sapeva me6


ravigliare a volte più di una sorpresa programmata. Era evidente che a quelle parole doveva rispondere. Prese carta e penna. “Qui non ci sono montagne ma distese di prati che oggi sono piuttosto frastornati, dopo la burrascosa notte passata. Ma sono lieti di conoscere le montagne rosa. Arturo”, in calce mise il proprio indirizzo e spedì. I giorni seguenti furono segnati dall’attesa di una risposta. Con il respiro affannoso, che ricordava l’aria agitata di quella sera, Arturo correva spesso alla cassetta delle lettere sperando sempre di trovarvi qualcosa. Finalmente dopo due settimane, l’angolo di una busta spuntava dalla fessura della cassetta. Era una busta azzurra con dentro un foglio, anch’esso azzurro come l’altro, e ancora scritto a stampa. «Chissà per quale ragione non scrive a mano.» si interrogò. “Camilla si è arrampicata sulle montagne rosa. Voleva arrivare in cima per poter guardare da là i prati di Arturo. Infatti li ha visti. Sono proprio belli! Mentre era seduta sulla punta più alta, ha inspirato quanta più aria poteva e poi l’ha portata a casa, così da poter aprire i propri polmoni anche nei giorni a venire.” Arturo era emozionato e subito si mise alla scrivania. “Tieni pure un po’ di aria nei polmoni, così se un giorno verrai a trovarmi la soffierai direttamente sul mio aquilone facendolo volare molto in alto. Ne ho costruito uno, azzurro come la tua carta e con dei triangoli di stoffa che si dipartono dai 7


quattro angoli e fluttuano vivaci. È uno spettacolo!” *** I mesi si succedevano con la consueta alternanza. L’estate calda e socievole aveva lasciato il posto all’autunno multicolore e poi era arrivato l’inverno, timido, schivo. La scuola aveva riaperto i battenti e non c’era più il tempo, né il freddo lo permetteva, per giocare sotto il salice o far volare l’aquilone. Ma la corrispondenza tra Arturo e Camilla continuava, come filo prezioso di una matassa infinita. Così tessevano i loro dialoghi di bambini; un ordito di pensieri, storie, racconti che intrecciava ogni giorno la trama di una ricca amicizia. Era buffo pensare che il vento li avesse fatti conoscere sebbene per Arturo in realtà, non fosse cosa poi tanto strana. Gli pareva solo che finalmente, quello che avrebbe potuto far parte della sua fervida immaginazione, si era concretizzato. Una bella soddisfazione! E quella bambina per molti versi gli somigliava. Forse la cosa strana era questa: sentirsi in sintonia con una persona lontana e che non aveva mai neanche visto. Camilla gli aveva confessato di non avere amici “non ne trovo che mi accettino” gli aveva scritto senza spiegare e lui non aveva fatto domande. Arturo a volte con i suoi compagni si annoiava. 8


Facevano giochi che trovava inutili, dicevano cose per niente interessanti e lo guardavano sempre un po’ di traverso, solo perché aveva il coraggio di essere se stesso senza volersi a tutti i costi uniformare a modalità che non sentiva corrispondergli. Anche quando i suoi genitori lo invitavano a partecipare a quella festa o a quell’altra iniziativa, lui spesso preferiva stare solo tra le sue cose, gli pareva che il tempo passato così fosse più piacevole. L’inverno era rigido e invitava a starsene chiusi in casa. Un giorno si sentì nell’aria odore di neve e difatti, ad un certo punto i rumori si attutirono e tutto si avvolse in un mantello di ovatta. C’era qualcosa di magico in quell’atmosfera così rarefatta, sospesa. I gesti parevano essersi rallentati, i colori uniformati, la luce appiattita. «Come sarebbero con la neve le montagne rosa?» si chiese Arturo e decise che l’avrebbe domandato a Camilla. Le spedì una lunga lettera in cui le raccontava di una gita che aveva fatto con i suoi genitori proprio in montagna. Avevano preso un divertente treno rosso che saliva, saliva arrivando ai piedi del ghiacciaio. Si era trovato davanti una parete bianca che aveva riflesso la sua meraviglia. Nella busta mise anche una foto che il papà gli aveva scattato davanti al treno; sullo sfondo spiccava il ghiacciaio. “Se vuoi, mandamene una di te con le montagne rosa!» 9


Era impaziente di vedere il volto della sua cara amica. Arrivò la primavera e con lei una lettera, azzurra come al solito. Un pezzo di cielo che si staccava e ciclicamente volava da lui. L’aprì con la consueta curiosità. A stampa, come sempre, era scritto: “Ti ringrazio della foto. Dev’essere emozionante arrivare in treno quasi sul ghiacciaio. Quelle che vedi qui, sono invece le mie montagne, le montagne rosa che con la neve diventano di cristallo. Mi fanno compagnia, sono sagge e ascoltano i miei segreti. Di sera una lieve brezza ne sfiora le cime e porta là sopra i miei sogni. Potremmo scalarle insieme un giorno.” Ripose il foglio sul tavolo e tirò fuori dalla busta la fotografia. Lo stomaco gli si strinse in una morsa. Camilla giaceva a letto, immobile e intubata. Il braccio sinistro era inerte e accartocciato su se stesso. La mano destra stava sulla tastiera del computer che teneva sulle gambe e le dita, insieme a due occhi azzurrissimi e vivaci, come le sue lettere, erano l’unica cosa viva di quel corpo paralizzato. Una grande vetrata che occupava quasi per intero la parete accanto al letto si affacciava sulle montagne rosa. Ad Arturo parve di vedere che lei le osservasse sorridendo. Ma forse, questa volta si, stava sognando. “Certo amica mia, le scaleremo insieme. Porterò anche l’aquilone e da lassù lo faremo volteggiare fino a sera! Poi quando saremo stanchi ci sdraie10


remo a guardare le stelle e a farci cullare dalla luna.” La mattina seguente c’era una corrente tiepida che sollevava la polvere e solleticava il naso. «Potrei anche mettere la lettera in un palloncino fucsia e lasciarlo andare...» pensò Arturo e la mamma che intercettò il suo sguardo basso, gli disse premurosa: «Te la spedisco io tesoro, l’aria è imprevedibile e fa strani scherzi. Se lo conducesse lontano ma facendolo impigliare alla montagna sbagliata sarebbe un vero peccato, non credi?».

Di Alessandra Simona Columbaro

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Il Risveglio Liza finì di dare disposizioni alle sue colleghe e sistemò le carte sulla sua scrivania. Fuori stava piovendo, e lei si domandò quando mai avrebbe smesso: non le piaceva guidare con la pioggia. Finché la porta del grande ufficio si aprì, e il suo direttore entrò presentando i nuovi possibili clienti di cui tanto aveva parlato. Liza si voltò, scrutando il più giovane dei tre uomini appena arrivati. Osservò i lineamenti dolci del ragazzo, i suoi occhi chiari, i suoi capelli scuri, e un pensiero le contorse la mente. «Michael», sussurrò lei, lentamente, continuando a fissarlo. Il suo capo sorrise, «No Liza, ti sbagli. Lui è Eric Smith, il responsabile vendite della Starwater Enterprise». Ma lei continuò a fissare l’uomo senza ascoltare una parola, rapita dallo strano torpore della sua mente. «Mio Dio», bisbigliò Eric, così piano che nessuno poté udirlo, «Ti ricordi… Ti ricordi di me». Cominciò così. In quel pomeriggio di aprile la pioggia continuava a scendere abbondante. Nuvoloni grigi sovrastavano il cielo, e il sole non si vedeva da giorni. 12


«Devi lasciarmi stare Eric», disse dura Liza mentre l’uomo l’accompagnava per l’ennesima volta, ombrello in mano, alla macchina. «Dico sul serio. Sono già impegnata, e non ho nessuna intenzione di rovinare questa storia». Eric sorrise, mesto, gli occhi colmi di maree blu, «Non posso Liza, non capisci? Davvero, non posso lasciarti andare, non adesso che ti ho ritrovata». Liza alzò lo sguardo, stupita «Che stai dicendo?» Lui le sfiorò la guancia, dolcemente. Non l’aveva mai fatto prima. L’aveva sempre fatta annegare nei suoi sguardi, nelle sue risate e nei suoi continui inviti a pranzo, ma non aveva mai osato superare quei confini. Liza era già persa di lui ancora prima che lui la guardasse quella prima volta; e in cuor suo sapeva che allontanarsi sarebbe stata una sofferenza troppo grande da sopportare, nonostante si conoscessero da così poco tempo. Ma, diamine, Liza era già fidanzata! Felicemente fidanzata, doveva mettere un freno a tutto questo prima che si superasse il limite. Ma Eric l’aveva toccata. Oh no, non avrebbe dovuto, perché ora per Liza non c’era più via di scampo. La guancia tremò sotto le morbide dita di lui e tutto dentro la sua testa, il suo corpo, il suo stomaco si mosse in un ricordo lontano, lontanissimo. Riconobbe lune, stelle, e musica. Risate, feste, anelli, principesse e regine. Bombe, sangue, urla e occhi blu. Dolore, un assurdo, insostenibile dolore e... Michael. Liza si scostò bruscamente da quel déjà vu respirando affannosamente, gli occhi spalancati. 13


«Che diavolo mi hai fatto?», chiese lei impaurita mentre si portava la mano al cuore. Le mancava l’aria, tutto intorno a lei girava perdendo di significato, anche se in realtà tutto era rimasto immobile. La pioggia che cadeva, le macchine parcheggiate, ragazzi che tornavano a casa da scuola. Cercò di calmarsi, di cercare di trovare una spiegazione logica a ciò a cui aveva appena assistito. Forse Eric le aveva dato qualche droga prima di scendere in parcheggio? Ne sarebbe stato davvero capace? Lui la guardava. Sembrava preoccupato, confuso tanto quanto lei. «Tu ricordi tutto, vero?» bisbigliò, gli occhi blu fissi nei suoi «Tu in realtà sai già tutto, vero Reiki?». Il nome le pugnalò lo stomaco. Buffo come tutto, intorno a lei, sembrava non accorgersi di cosa le stava capitando. Ma qualcosa dentro lei esplose, come un vaso di Pandora che venne improvvisamente aperto. Reiki Reiki Reiki... Chi era Reiki? Era lei? Chi o che cosa era Reiki? La custode di uno dei cinque elementi, il fuoco per la precisione. Una delle guerriere prescelte dalla Regina Selene per proteggere il suo regno e mantenere la pace su tutto il pianeta. Una creatura di Atlantide. Lei. Liza fece un passo indietro, guardando per la prima volta l’uomo che aveva davanti. Michael. Il guerriero che custodiva la chiave del tempo. L’uomo che aveva amato per secoli prima che la malvagità degli esseri umani avesse il sopravvento su quel continente e su tutto il globo. L’uomo che aveva visto morire prima di adempiere alla sua ultima missione: salvare la principessa an14


cora in fasce teletrasportandosi in un’altra dimensione... grazie al suo sacrificio. «Reiki», mormorò lui «Non serve che ti dica niente, vero?», un sorriso mesto comparve sul suo viso «Non hai bisogno di spiegazioni». Silenzio ovunque. Qualche passante qua e là, qualche coppietta che si stringeva stretta sotto gli ombrelli colorati, pozzanghere scure sopra l’asfalto. Collegò tutti i pezzi del puzzle mai risolto della sua vita. Ecco perché si sentiva così diversa dagli altri. Una sognatrice, l’aveva descritta il suo ragazzo, ecco perché era così stralunata. Oh, nessuno di loro sapeva che la leggenda era in realtà il solo semplice passato remoto… Ed ecco perché lei si era reincarnata in un corpo di donna del presente. Perché la leggenda narrava che le guerriere sono immortali, non possono mai davvero morire; semplicemente si reincarnano in altri tempi e in altri corpi per ottenere più conoscenza e forza e sconfiggere ciò che le ha rinchiuse nell’oblio, e quindi nella distruzione del regno di Selene. E secondo la leggenda, le guerriere si sarebbero risvegliate solo quando sarebbe arrivato il momento di riprendere il loro vero posto. E Liza ebbe paura. Perché ciò significava combattere nuovamente, altro sangue e altre vittime, e soprattutto, avrebbe rischiato di vedere morire ancora i suoi cari. Oh Dio, no, non voleva ricordare, non voleva un altro scontro, non voleva i suoi poteri... che se li prendesse qualcun altro: nessun candidato? Ecco perché Michael era triste, e non felice di ritrovare la sua bella... perché sapeva che avrebbe rischiato di perderla ancora. 15


Liza si girò e cominciò a camminare sotto la pioggia battente, incurante degli sguardi curiosi dei ragazzi. «Dove vai?», chiese Eric seguendola, «Fermati Reiki! Dobbiamo parlare! Dobbiamo trovare gli altri, sicuramente ci staranno cercando!». Le afferrò il polso, «...e dobbiamo parlare di noi» aggiunse sottovoce, inchiodando i suoi occhi a quelli di lei. Liza cominciò a respirare affannosamente, mentre capiva solo ora quanto gli fossero mancati quei diamanti blu. I lineamenti di Michael erano così dolci, perfetti e reali che secondo dopo secondo realizzò di averlo sempre cercato nei suoi sogni. Le sue lacrime si confusero con la pioggia. «Lasciami andare Michael». Lui lasciò la presa, confuso «Credevo fossi felice di rivedermi. Non avevo mai immaginato il tuo risveglio così… brutto. Credevo mi amassi». «Oh, è vero. Non immagini quanto» disse lei, mentre una voragine la stava inghiottendo in ogni istante «Ma vedi... Io sto bene così. Non voglio più combattere, non voglio più affrontare maghi malvagi, né demoni. Basta sangue, Michael... l’ultima volta ne visto scorrere fin troppo». Ricordò le orde di umani impazziti che tentavano di assalire il palazzo reale. Lei, Ariel l’aria, Mory la terra, e Amy l’acqua ormai uccidevano chiunque tentasse di avvicinarsi... Tutte loro sapevano che sarebbero morte, ma sapevano anche che non potevano permettersi questo lusso finché non avessero salvato la Principessa, colei che un giorno avrebbe riportato pace, gioia e serenità sulla Terra. Reiki stessa aveva bruciato vivi migliaia di uomini. 16


Quella gente in realtà era morta nell’istante stesso in cui avevano scelto la magia nera. «Io voglio continuare ad essere una semplice umana. Voglio sentire suonare la sveglia tutte le mattine, voglio annoiarmi mentre lavoro, voglio andare in palestra, ballare, ridere, scherzare e... sposarmi, Michael. Io sto per sposarmi con un normalissimo essere umano. Lui mi ama e io sono felice con lui, mi fa sentire protetta, sicura. Non voglio buttare tutto dentro il cesso e far finta che non sia successo niente. Capisci, Michael?» Lui la guardò, torvo «Mi stai dicendo che non mi ami più?» «Io amo la mia vita» replicò lentamente Liza «Forse Anthony non sarà il mio vero grande amore, ma… Io sto bene così. Ti prego Michael...» Stava diventando tutto così difficile. Amava quell’essere più di qualsiasi altra cosa, il suo stesso fidanzato umano le sembrava una briciola in confronto, ma cosa avrebbe potuto fare? Tornare al fianco del guerriero avrebbe potuto significare solo una cosa. «Se non per me, devi tornare almeno per le altre», replicò asciutto Michael, la sua faccia era diventata pietra», la Principessa ormai si sarà svegliata e vorrà averti al suo fianco. Sei sempre stata la sua prima guardia, lo sei da secoli, non puoi sottrarti a questo. Gli occhi di Liza si gonfiarono di lacrime. Stava tradendo tutto il suo intimo con questa decisione. Ma mai, mai più avrebbe visto Michael morire. Perché sapeva che prima o poi sarebbe successo di nuovo, per quanto si sarebbero ritrovati in mille 17


altre vite ancora. Ogni morte era sempre vissuta come una lunghissima, lacerante divisione. «Non posso Michael» bisbigliò lei «Non posso». Osservò ancora i suoi occhi mare, i suoi zigomi, le sue grandi mani calde, e scappò via, lontano dal suo tesoro, lontano dal suo inferno e paradiso. Il buco nero che aveva dentro stava divorando ogni sua cellula e sentimento, pezzo per pezzo. Avrebbe lasciato il mondo marcire e cadere a brandelli; avrebbe lasciato il suo amore combattere da solo, e avrebbe lasciato a qualcun altro il compito di assistere il suo compagno mentre moriva. Corse ancora, poi, il niente. La guerra stava infuriando. Michael guardava dall’alto dell’Himalaya le Guerriere mentre assassinavano orde di demoni... esseri umani trasformati, per la precisione. In realtà i veri maghi se ne guardavano bene dal mostrarsi in campo, non sarebbero stati così stupidi da sfidare una Guerriera in piena rinascita. Ma Michael sapeva anche che era tutto inutile. Per quanto forti fossero rinate, le tre Guerriere non avrebbero mai potuto raggiungere la perfetta forza assoluta che invece avrebbero avuto in quattro. Con gli elementi incompleti, erano tutti destinati a morire... a morire per davvero questa volta, la leggenda non si sarebbe mai ripetuta se le Guerriere non fossero state assieme. Michael si chiese se non fosse colpa sua. Se avesse evitato di starle accanto, se avesse lasciato stare tutto, se avesse lasciato che Reiki ricordasse tutto da sola senza forzare niente. Poco importava se non l’amava più, Michael avrebbe continuato ad 18


amarla in silenzio, ma almeno ora non ci sarebbero stati migliaia di innocenti destinati a morte sicura. Michael, povero, piccolo, umile combattente con un unico grande compito... custodire il Tempo. E se lui per una volta, per rimediare all’irreparabile, lo manipolasse? Se facesse tornare indietro il Tempo, riportando indietro la Guerriera del Fuoco? Il Tempo era intoccabile, e solamente la Regina poteva decidere una cosa del genere. Ma Michael non vedeva alternativa, la Principessa era ancora troppo giovane per sapere cosa era bene fare. Alzò la spada verso il cielo, e cominciò a recitare l’antica preghiera, poco importava se sarebbe morto... Reiki non l’amava più. Poi un’esplosione, luce ovunque, la pietra sotto i suoi piedi si sbriciolò. Michael perse l’equilibrio, c’era nebbia dappertutto. Gli attacchi continuavano e trovò riparo solo dietro una roccia. Si toccò la spalla sanguinante. Sapeva che le Guerriere non avrebbero fatto in tempo a percepire la sua richiesta di aiuto, quindi tentò di affrettarsi con la sua preghiera… chiuse forte gli occhi, bisbigliando. Tuoni, lampi, scaglie di roccia ovunque. Un altro colpo e l’avrebbero ucciso, e lui non avrebbe fatto in tempo a salvare proprio nessuno. Cominciò a sentirsi sempre più debole, quella formula gli toglieva ogni energia, e lui ormai non ne aveva più abbastanza neanche per sollevare la spada. Ancora un colpo. Poi fiamme, calore, rosso ovunque. Si sentì sollevare velocemente da qualcosa di incredibilmente agile e aggraziato. Vedeva solo fuoco, fumo, e urla dei suoi nemici annientati. Si sentì 19


adagiare sull’erba fresca di qualche prateria, e si ritrovò a fissare gli occhi viola di Reiki. «Tu.. La formula ha funzionato... Sei qui». Gli bruciava da matti la gola. «Schh» rispose lei, accarezzandogli il viso, «Niente formula, almeno per oggi. Sono qui, e questo è quel che conta. Lascia fare a me, adesso, riposati». E scomparve un istante dopo, veloce come il vento. Michael sorrise. Il mondo era salvo... e anche la sua anima.

Di Kety Franzolin

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Nudo Cosa ci faccio qui che la chiesa è chiusa, padre? Beh, ci vorrà qualche minuto per spiegarglielo. Diciamo che è colpa di una pallina di grasso infilata nel lavoro di quel cane del mio dentista, proprio qui, tra molare e quest’altro dente che nomina sempre quando vuole spillarmi quattrini. Stavo con una biondina nel parco qua dietro, le tenevo la mano perché le faceva piacere, ma quelle dita fredde e flaccide mi facevano venire voglia di immergere tutto il braccio nell’acqua calda. In realtà ho capito tutto di noi quando mi ha detto di provare a liberare i denti con la lingua. Un colpo di genio che a me, mai, sarebbe venuto in mente. Su e giù. E il movimento a pennello; e quello da scopetta; e la trivella da rilevazioni geologiche artiche. Niente, a parte la lingua quasi sanguinante. «Altri consigli?» Lei si illuminò, convinta che dimostrarsi utile in questo genere di cose fosse fondamentale per un rapporto di coppia in via di formazione e ci metteva un tale entusiasmo nelle indicazioni da sembrare una torre di controllo ad un boeing 737 in difficoltà. «Allora prova a creare il vuoto risucchiando l’aria dall’altra parte della bocca.» Scocciato, con i muscoli delle guance indolenziti per lo sforzo, le dissi di non avere tutta la sua e21


sperienza in questo genere di cose, creare il vuoto e succhiare, intendevo. Non so spiegare bene, padre, ma questa accoppiata di cazzate sparate proprio nel momento in cui voleva essere utile, mi fece capire quanto ne avessi abbastanza. Soprattutto volevo essere lasciato in pace a lavorare di unghia per staccarmi quell’accidente di roba che mi spingeva i denti come Sansone tra le colonne del tempio, e mi scusi l’accostamento. Mi ritrovai con un vaffanculo spiaccicato in faccia a fissarla mentre si allontanava. Una volta tanto aveva detto una cosa intelligente e fatto la sola azione che si potesse accoppiare splendidamente alle sue parole. Da dietro non era poi così insopportabile, sa? Aveva qualcosa, un’aurea che per un attimo me l’ha fatta rimpiangere, padre, ma come faccio a spiegarglielo? Il culo, se mi capisce; il culo. Il suo cellulare era nella mia tasca, lo estrassi, ne tolsi la scheda SIM e la chiamai a voce alta; non camminava veloce, forse sperava di essere raggiunta. Scema. Si voltò con troppa enfasi e con un sorriso alla Monna Lisa, enigmatico e sicuro, di chi è convinta che le sue regolette per gestire i rapporti interpersonali unite a quel fondoschiena magro all inclusive, facessero sempre quadrare il cerchio. Che pena. Pensai che se avesse contato solo sull’All Inclusive, sarebbe stato meglio. Ma cosa dovevo fare, padre? Mi annoiava, sentivo di essere dominante, ma questa è una forza che impiega un attimo a diventare svantaggio, cristallizzata in fastidio, in otto cilindri imbolsiti da una perenne guida cittadina, 22


un leone erbivoro per amicizia di una capra. Allora, tanto per rendere chiara l’idea che il dominante rimane tale, soprattutto a me stesso, perché poi è un attimo a trovarsi a brucare con le gengive bucate dalle zanne e un’ulcera per lo sforzo di vomitarsi erba in bocca e ruminarla, allora, dicevo, le sventolai il cellulare da lontano e lo tirai alle mie spalle dentro al laghetto del parco e mi voltai per andarmene. Speravo facesse una scenata, invece mi stupì; alle mie spalle rimase soltanto il silenzio. Andavo con passo veloce verso l’uscita della Madonna delle Grazie, proprio qua dietro, per terminare il prima possibile quello strazio della domenica mattina al Parco, “che è più bello e non c’è nessuno” ; madonna, quasi correvo, ancora un mese e avrebbe tentato di convincermi ad abbinare le tende con il colore della carta igienica. Non sapevo cosa fare in attesa del pranzo. Avrei dovuto fare la spesa per avere la scusa della digestione, infilarmi a letto e passare il pomeriggio a dormire. Con le dita in tasca rigiravo la sua SIM, presa per farle uno scherzo, che il telefono nel lago se lo meritava, ma non sono poi tanto cattivo, molta gente ha tutta la sua vita nelle schede telefoniche e volevo fargliela avere, magari tra qualche giorno. E poi è un modo per non farsi assillare dalle telefonate riparatorie, del tipo ‘parliamone’, ‘forse siamo stati frettolosi’ o ‘rimaniamo amici’. Tutto sommato sono convinto di non essere un tipo negativo, sa? Come persona intendo. Mi mostro subito nudo come il verme che sono, ma non verme nel senso dispregiativo, verme nell’essere 23


senza difese, senza corazze, ad aspettare un po’ di umido per alzare la testa e metterla fuori, beh, con l’umido mi piace più metterla dentro, la mia testa di cazzo, se mi spiego. Dice che è un controsenso? O sono dominante o sono indifeso? No, parlavo di maschere, di atteggiamenti, di finzioni. Nudo perché la sera che quella donna mi incontrò stavo vomitando l’anima sul marciapiede dopo sei ore di aperitivo ai Navigli; mi sentivo un vuoto e un malessere che partiva dalla bocca dello stomaco e mi inzuppava la punta dei capelli. Il mio socio si era già dileguato dopo una chiamata della moglie, che in quaresima si rifiutava di dargliela, però conosceva i pettegolezzi di tutto il caseggiato anche il giorno di Pasqua. Lei mi aiutò, mi confortò ed io in cambio le vomitai in macchina mentre tentavo di raggiungerle le tette. Più nudo di così, cosa si aspettava, quella? Che fossi il padre dei suoi figli? Mai sopportate le crocerossine, precise, sorridenti e in pantofole bianche, ma cosa ne sanno di quello che un uomo ha dentro? Non mi guardi così, padre, l’assoluzione per ora non mi interessa. È che ho provato a capire tutto e a darmi delle risposte; giuste o sbagliate è ininfluente. Lei si è accorto, vero, che la gente nemmeno si pone le domande? Come su cosa? Su tutto, padre. L’unica cosa che non riesco nemmeno a provare a comprendere è Dio, di certo non l’ha fatto lui questo mondo e questa non è blasfemia, penso che neppure lei creda nella Genesi. Certo, il Big Bang, chi ha dato il via a tutto, mi dice lei; potrei anche rispondere: Dio; un’esplosione, gas che si espandono, molecole che poi si attirano e generano corpi; Dio, perché no? Ma non crede che poi se 24


ne sia fregato di dove finivano e cosa generavano, né più né meno di quanto ce ne freghiamo noi della fine che fanno i gas dopo che ci sono esplosi nel culo? Molecole che se ne vanno e ne generano di più complesse, tutto qua. Non si alzi, padre, non se ne vada, vede che sono armato? Sì, so di essere ferito e che sarebbe meglio chiamare un’ambulanza. Ma non ne ho voglia, mi sento bene a stare qua a parlare. Vede la superbia? Non è uno dei peccati mortali? Le si sono illuminati gli occhi; il prete che redime gli ultimi istanti di un balordo, che poi magari sopravvive, e l’immagine successiva è di lei, padre, che lo va a trovare in corsia all’ospedale e questi che le prende la mano e si mette a piangere puro come un bambino. Sarebbe bello, ma non credo capiterà. Forse, fossi da solo, avrei la stessa serenità. Certo, chi se l’aspettava che quella donna fosse armata? Mi ricordo il colpo alle mie spalle, il suo urlo di rabbia e la fatica che ho fatto per uscire dal parco ed arrivare sino a qua. Vede in che senso dicevo nudo, prima? Mi sono sempre mostrato esattamente come sono, invece quella donna ha sempre imbrogliato e alla fine, come vede, ha vinto lei. Chissà che contatti aveva in quel telefono. Chissà di quale gente, di che affari. Di sicuro si trova in guai grossi, adesso. Conosco il giro, sbagli una consegna, non fai una chiamata e sei fatto. Non me ne ha parlato, ha sempre finto. Beh, un sempre che non racchiude l’idea dell’eternità visto che ci siamo frequentati per un paio di settimane, ma un sempre che ci ha rovinato entrambi. Se invece di avere 25


sempre finto, avesse mai finto, saremmo stati felici, se fosse stata se stessa, avremmo sicuramente trovato quello che si cerca. Perché è assurdo, ma nell’amore ci credo anch’io, forse ne capisco anche più di lei, padre, che in teoria non dovrebbe neppure conoscerlo. Non si offenda, ma l’amore verso Dio non credo sia la stessa cosa, l’amore verso il prossimo nemmeno. L’eroe che va al patibolo e si sacrifica per gente che nemmeno conosce, ha sempre una donna davanti agli occhi. L’amore carnale, padre, l’amore carnale. I capelli di una donna che sembrano vivi quando si muovono sulle spalle. Vede, anch’io per campare ho bisogno della pistola, senza questa merda che stringo nella mano verso di lei, sarei morto altre volte. Prenda questa SIM telefonica, padre, la prenda, trovi quella donna, preghi per lei che non abbia mentito anche sul nome e gliela consegni. Mi giura che lo farà, padre?

Di Massimo Resnati

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La Lettera Celata Mi chiamo Sofia e sono un’assassina. Non che mi vanti della cosa, s’intende. È capitato. Non so dire se fosse inevitabile. Devo ammettere che non ho rimorsi, in effetti li trovo alquanto inutili. In fondo chiunque è potenzialmente un assassino. Le circostanze, l’infelicità, le coincidenze… sono tutti fattori che concorrono a far varcare il famigerato confine. Basta un passo oltre la linea e non si può più tornare indietro. Non riesco ad odiarmi per quello che ho fatto. Ma è vero anche che non sono mai riuscita ad amarmi, neanche prima di compiere quello scempio. Mia madre era un’attrice. Non rinunciò mai ad inseguire i suoi sogni ed io ne pagai il prezzo. Mi affidò ad uno zio di secondo grado quando avevo solo cinque anni. E cinque anni sono davvero pochi, anche volendo trovare giustificazioni. Non provo nulla per mia madre. Odiarne il ricordo sarebbe già ammettere che volevo il suo amore e che l’ho cercato disperatamente per molti anni, prima di arrendermi. Mi hanno avvisato del suo suicidio con un telegramma. Sette dico sette parole in tutto. Confesso che lo conservo ancora e non so neanche perché, in effetti è una cosa che non ha senso. 27


Era ancora giovane e bella mia madre quando decise di tagliarsi le vene nella vasca da bagno di un piccolo albergo di provincia. Sono cresciuta con questo zio, con mia cugina e con le donne che lui ci portava a casa obbligandoci ad essere gentili con loro. Vivevano con noi per un po’, perlopiù ignorandoci. Se ne andavano e venivano prontamente sostituite. Non c’era pericolo d’affezionarsi. Io e mia cugina Sara eravamo coetanee e passavamo quasi tutto il tempo insieme. Parlavamo poco, per quanto possa sembrare strano, e leggevamo molto. Vivevamo in una casa di campagna grande e in buona parte fatiscente, ma che racchiudeva al suo interno memorie di un passato ben diverso. Molte stanze erano state chiuse, alcune erano addirittura inagibili. La mia stanza preferita era la biblioteca. Si trovava al piano superiore eppure le pareti erano intrise di umidità e molti volumi erano andati perduti a causa delle muffe, un vero peccato. Gli scaffali erano di legno spesso e scuro, i libri erano collocati in modo casuale e disordinato. Prosa e Poesia, testi religiosi e teoremi alchemici, mappe geografiche e vecchi libri di geometria… Tutto era mescolato senza alcuna logica apparente. C’era odore d’antico nell’aria, un odore che quasi stordiva. Lo zio non ci consentiva di sostare in quella stanza, perciò di solito io e Sara sceglievamo i libri ed uscivamo in giardino a leggerli. Entrambe sedute sull’erba sprofondavamo nella lettura per diverse ore. Apparentemente non c’era comunicazione fra di noi, eppure ancora adesso ho nostalgia di quella silente compagnia. 28


Credo che mio zio fosse una brava persona. E questo lo sostengo fermamente, anche se l’ho ucciso. È che purtroppo anche le brave persone commettono errori e non sempre chi ne è vittima è disposto a passarci sopra. Io, ad esempio, sono del tutto incapace di perdonare. Mio zio amava collezionare cose. Collezionava orologi, coltelli, cravatte e monete antiche. Aveva una particolare predilezione per i coltelli. Alcuni, i più antichi, li aveva ereditati da suo nonno. Io ero affascinata dal modo in cui li guardava. Sembrava vederci cose che nessun altro poteva vedere. Una volta, quand’ero piccola, ricordo che mi disse «Sofia… non farti ingannare… anche le cose hanno un’anima!». Lì per lì pensai che stesse vaneggiando, solo molti anni dopo compresi cosa avesse voluto dirmi. A volte pensavo che amasse quei coltelli più di me o addirittura più di sua figlia Sara. Fino a quando io e lei non divenimmo adulte lui si premurò di tenerli sottochiave, all’interno di una teca trasparente, collocata nella biblioteca. A volte mi soffermavo a guardarli, cercando di individuare il mio preferito. Ho desiderato a lungo di poter impugnare quei coltelli e quello era il desiderio intenso e pericoloso che si prova nei confronti di ciò che non si può avere. Molte volte avevo chiesto allo zio di lasciarmeli toccare almeno in sua presenza, ma non me lo concedette mai. Credo che non si trattasse soltanto della paura che io potessi ferirmi. Credo ci fosse di più. Lo zio aveva con quelle antiche armi da taglio un rapporto esclusivo e privilegiato. Come avrei 29


voluto che qualcuno mi avesse amata con la stessa intensità con la quale lui si dedicava a quegli inutili oggetti… Odiavo quei coltelli, ma senza smettere di desiderarli. Tutto avvenne di notte. Una notte qualunque. Era estate ed avevamo cenato abbastanza presto, tutti e tre insieme, come del resto facevamo sempre. Mio zio era triste, da almeno un paio di giorni non sorrideva e parlava pochissimo a causa di una delusione amorosa. Terminato il pasto Sara salì in camera sua, io uscii in giardino, mentre mio zio rimase seduto continuando a sorseggiare del vino rosso. C’era una luna magnifica che avvolgeva ogni cosa con la sua luce fredda e scintillante. Mi venne voglia di leggere, così decisi di fermarmi in biblioteca per scegliere un libro. Rientrai in casa e cominciai a salire le ripide scale, in un attimo fui dentro alla stanza ed accesi la luce. Fu allora che notai con sorpresa che una macchia d’umidità sul muro si era allargata a dismisura facendo sgretolare un ampio strato di intonaco proprio accanto alla teca dei coltelli. Mentre ispezionavo il danno mi accorsi che dietro alla teca penzolava un foglio ingiallito dal tempo. Lo presi. Ah non l’avessi mai fatto! Che piega diversa avrebbero preso gli eventi se non mi fosse mai capitato fra le mani… Troppo tardi. Mi portai al centro della stanza, proprio sotto al grande lampadario. Era una lettera di mia madre. Alcune frasi erano illeggibili, ma ciò che riuscii a leggere mi bastò. Guardai la data. Un anno esatto prima della sua morte. Implorava mio zio di darle notizie di sua figlia. 30


Come aveva potuto nascondermi quella lettera? Con quale diritto aveva deciso della mia vita e forse anche di quella di mia madre? Probabilmente avrei potuto prendere in considerazione il fatto che lo zio aveva conservato quella lettera e che forse era stato combattuto sull’eventualità di mostrarmela o meno. Ma non lo feci, ignorando volutamente ogni attenuante. Corsi fuori nel giardino inondato dai raggi lunari. E lì piansi a lungo. Piansi come non avevo mai pianto prima. Poi tornai in biblioteca, mi sedetti alla vecchia scrivania intarsiata e fissai a lungo la teca. Scelsi il mio coltello preferito. Ma non per gioco, come facevo da bambina. La lama era lucida ed affilata, il manico splendidamente decorato. Impugnarlo mi diede improvvisamente un senso di onnipotenza. La casa era avvolta dal silenzio. Dormivano entrambi… Sara nel suo letto, lo zio invece era accovacciato sul piccolo divano del salotto. Buio. Solo la luce della luna che filtrava dalla finestra socchiusa. Gli posai la lettera sul petto, poi lo guardai per alcuni interminabili attimi prima di conficcargli il coltello nel cuore. Scappai fuori dalla stanza e, singhiozzando, corsi a svegliare Sara.

Di Francesca Panzacchi

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Lo Sconosciuto Che ci faccio su questo treno? Cosa mi ha spinto a varcare il pericoloso confine che separa le parole dalle azioni? Guardo fuori dal finestrino il rassicurante paesaggio emiliano: case dai camini fumanti punteggiano la campagna avvolte da una nebbia non troppo fitta. Le immagini che catturo con gli occhi scorrono via velocemente. Mi cullano, mi stordiscono. Devo percorrere soltanto poche decine di chilometri ancora e poi sarò arrivata. Ma gli attimi sembrano interminabili ore, sento il peso dell’attesa che mi opprime. Ho il cuore che mi scoppia. Mi sforzo di distogliere il pensiero da lui, cosa che mi riesce solo in parte. Le persone che ho attorno hanno l’aria assorta o incredibilmente distratta… qualcuno legge, qualcuno giocherella con il cellulare, poi c’è un tizio che mi fissa con insistenza le caviglie. Precipito di nuovo nell’abisso dei miei pensieri. Ripenso a tutte quelle missive virtuali, alla potenza che scaturiva dalle nostre parole. Tutto era avvenuto molto velocemente o forse ci eravamo soltanto fatti prendere la mano. Ho la certezza che, ad un certo punto, non so dire con esattezza quando, ciò che la nostra comunicazione aveva inaspettatamente generato abbia 32


preso il sopravvento, diventando qualcosa di più grande di noi. Devo scendere. Forse non avrei dovuto accettare questo appuntamento folle. Ho paura ma sento che non posso tornare indietro. Ho molti dubbi. Ma la mia curiosità li uccide tutti. Si aprono le porte, scendo di corsa e mi abbottono nervosamente il cappotto. Respiro la nebbia d’Ottobre. Respiro la mia incertezza. L’albergo dista poche centinaia di metri dalla stazione, tutto è stato pianificato nei minimi dettagli. Lui è bravissimo in questo. Attraverso la piccola hall e lascio il mio nome, poi inizio a salire le scale. Il corridoio è ampio ma poco illuminato, pochi passi e mi fermo davanti ad un numero metallico appeso un po’ storto. Appoggio la testa alla porta, tendendo l’orecchio. Nessun rumore. Busso due volte, la maniglia si muove, la porta ora è socchiusa. Aspetto qualche secondo, fin quando la luce del corridoio si spegne. Entro piano e chiudo la porta alle mie spalle. Vengo inghiottita dal buio. Butto lo zaino sul pavimento. Penso a cosa direbbero di me mio padre o mio fratello se sapessero dove mi trovo in questo momento. Mi mordo le labbra per non violare quel silenzio perfetto. Assaporo il buio con le gambe tremanti, attendo la sua voce che quando arriva inevitabilmente mi fa sussultare. Squarcia il silenzio, anche se è soltanto un sussurro… «Ho avuto paura che non venissi…» 33


Mentre parla si avvicina, lentamente. Ne avverto il respiro, vicino al mio viso. «Se non fossi venuta qui, l’avrei rimpianto per tutta la vita…» Riesco a dire tutto d’un fiato. E lui intanto è più vicino e con la mano sinistra chiude a chiave la porta. Mi sfiora il viso con le labbra, con lentezza disarmante. Cerca le mie mani per intrecciarle alle sue sopra alla mia testa ed intanto mi spinge contro la parete. È dolce ma risoluto, percorre il profilo del mio corpo con le mani, indugiando lungo la curva dei miei fianchi, senza lasciarmi scampo. Mi accarezza, mi studia, assapora ogni centimetro del mio collo mentre sussurra il suo desiderio al mio orecchio. Le parole prendono vita e calore. Un vortice di emozioni mi investe. Mi sciolgo in quell’abbraccio e bacio labbra che non ho mai visto. I gesti ora traducono alla perfezione l’intensità che prima apparteneva soltanto alle parole e ai pensieri. Non so più se ho paura, di certo so che voglio restare.

Di Francesca Panzacchi

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La sedia a dondolo Maria non devi comprare quella casa, Maria quella casa è maledetta, Maria in quella casa succedono cose strane. Maria non voleva sentire storie, voleva quella casa a tutti i costi: in piena campagna, tra le colline dove le coltivazioni sono attraversate da macchie di alberi. Era stanca di sentire dicerie su quella cascina: era storia, inoppugnabile, che Luciano Malpigli in quel luogo avesse ucciso per gelosia la moglie a coltellate ed avesse rincorso nello spiazzo antistante la figlia di 14 anni buttandola nel pozzo. Non si sarebbe disfatto del corpo dilaniato della moglie, ma l’avrebbe posta seduta sulla sedia a dondolo di fronte al camino per almeno tre settimane: quando la sorella del signor Malpighi arrivò in casa trovò il cadavere in avanzato stato di decomposizione, con un odore nauseabondo che sembrava essere entrato nelle mura e negli oggetti che c’erano: il signor Luciano che era seduto in terra, accanto a quello che una volta era stata sua moglie, le teneva la mano parlandole dolcemente. Dalle condizioni pietose dell’uomo sembrava che avesse passato tutto il tempo seduto lì accanto: era stato portato in prigione dove morì tre mesi dopo in circostanze misteriose, anche se la versione ufficiale parlava di suicidio. La casa fu lasciata così com’era, per anni nessuno entrò e tuttora i mobili erano gli stessi che c’erano il giorno dell’arresto 35


del signor Malpighi; nessuno rimase a viverci mai per più di tre notti ed anche i lavori per rimodernarla erano stati conclusi con difficoltà. Fin qui ordinaria cronaca di ordinaria follia domestica. Ma la leggenda prosegue: si dice che all’interno della casa succedano cose molto strane e la sedia a dondolo di tanto in tanto inizi a muoversi senza che nessuno la sfiori. Si narra di animali entrati per sbaglio nella casa che scappavano a gambe levate, come se si fossero trovati davanti un leone inferocito. Anche i pochi che avrebbero voluto comprare la cascina, avevano rinunciato dopo poco: ma Maria non credeva a tutte queste storie, pensava che fosse solo un modo escogitato dai parenti dei Malpighi che non volevano perdere una casa così. Lei si era innamorata di quella cascina venduta ad un prezzo irrisorio, era il paradiso: era l’acquisto migliore che avesse mai potuto fare, anche se di comprare non se ne parlava subito: Giampaolo Malpighi, il pronipote di Luciano, vendeva la casa ad una clausola, che era alquanto bislacca, ossia che l’acquirente vi dormisse almeno un mese prima di prendere qualche impegno irreversibile. Quando aveva comunicato a Paola, sua figlia, la sua decisione di comprare quella casa, era stata accusata di essere una incosciente, ma la ragazza sapeva da ben 34 anni che la madre non chiedeva mai niente a nessuno. Paola conosceva e credeva alle storie sulla casa perché si sa che le leggende hanno sempre un fondo di verità ed il suo sesto senso si era messo in allarme, anche se una spiegazione razionale a quel suo senso di disagio e di paura, non c’era. Sapendo che qualsiasi cosa aves36


se detto sarebbe stata usata contro di lei, l’unica soluzione che le venne in mente, fu quella di andare a trascorrere qualche notte con la madre, così avrebbe verificato di persona che la situazione fosse sotto controllo e poteva staccare la spina qualche giorno da tutto e tutti. Quando Paola comunicò a Maria la sua decisione, per un quarto d’ora si sentì dire che è per la gente come lei che esistevano quei cialtroni di maghi e guaritori, che le superstizioni sono la rovina delle civiltà e l’ancòra che non permette di progredire, e cose simili; ma Paola conosceva a menadito quei discorsi e non di rado completava le frasi della madre prima che finisse. Arrivarono alla cascina nel tardo pomeriggio di un giovedì qualunque: la casa aveva un aspetto abbastanza spettrale in controluce, con le persiane del piano superiore semiaperte che davano l’idea che da dentro qualcuno le spiasse. Un brivido scosse la giovane donna mentre apriva la porta in quanto furono accolte da un’aria che sapeva di chiuso e di morte: sembrava quasi che quel posto avesse trattenuto l’odore e l’essenza della pazzia che si era consumata quasi un secolo addietro. I mobili sapevano di vecchio e a dare il benvenuto nella casa c’era la sedia a dondolo: dietro si vedeva il divano logoro di un colore non ben definito, che probabilmente una volta doveva essere verde scuro; i mobili in legno erano scuri, dando un’aria ancora più pesante e tetra alle stanze e sparsi c’erano ancora libri, oggetti sommersi dalla polvere e perfino una foto in bianco e nero dalla quale si vedeva un giovane uomo accanto ad una donna sorridente ma con lo sguardo triste ed una ragazzina che avrà 37


avuto 12 anni: quando Paola la prese in mano, la rimise subito al suo posto, come se le scottasse toccarla; la cucina era tutta da sistemare e anche se la luce ed il gas funzionavano alla perfezione. Girando la casa aveva come l’impressione che anche quando fosse sola in una stanza, non lo fosse davvero, come se qualcuno la seguisse ovunque. Magari la donna uccisa non accetta di lasciare la casa in mano a qualcun altro stava ipotizzando Paola, mentre, appoggiata alla porta di ingresso aperta per far entrare un po’ di aria fresca, stava pigramente fumando una sigaretta, ma i suoi pensieri si interruppero con un sussulto, perché una mano le si era appoggiata alla schiena. Era solo sua madre che le diceva che il letto era pronto: «Mi hai spaventata da morire!» «Ho visto, stai tranquilla, sei troppo tesa!» «Hai ragione, scusa: sono stanca» disse coprendosi il viso con le mani. «Per me è colpa di tutte queste storie a cui credi sulla casa; certo pensare che lì» ed indicò la sedia «c’è stato per almeno tre settimane un cadavere, beh, non mi fa piacere, ma se ci fosse un fantasma per ogni morto in giro, saremmo circondati ovunque stiamo, non credi?» «Sì, è vero, però sai la suggestione gioca brutti scherzi. Ed il fatto che siamo lontane da tutto, amplifica questa percezione. Non so, ho una sensazione strana» La madre le mise il braccio intorno alla spalla e strinse con affetto: «Ti faranno bene questi giorni di ferie» «Lo penso anche io!» «Io vado a dormire, che domani ci aspetta una bella giornata, a spostare e sistemare tutti i mobili: 38


poi vediamo quelli da buttare e quelli da poter spostare nel fienile dietro: sarebbe bella come casetta per gli ospiti» Ad un trattò la porta di una delle camere da letto sbatté violentemente un paio di volte, come se un forte vento stesse spazzando via tutto: ma c’era una brezza leggerissima. Le due donne si guardarono terrorizzate: era la prima volta che Paola vedeva quello sguardo sul volto della madre. Insieme perlustrarono le camere ma tutto sembrava in ordine e le porte erano tutte aperte: Maria disse, con un tono che sembrava voler convincere più sé stessa che la figlia: «Sarà stato un rumore di assestamento delle travi: sai queste case vecchie sono soggette a rumori simili» La figlia rispose, poco convinta: «Sì, hai ragione. Vado a chiudere la porta d’ingresso e vado a letto; ‘notte mamma » «‘Notte Paola» Si avviò verso l’entrata; la casa era avvolta nel silenzio e nel buio della sera. Chiuse la porta e si girò silenziosamente, come per non svegliare i segreti e gli orrori racchiusi nei ricordi di quelle pareti: attraversando il lungo e buio corridoio che portava alla sua camera da letto, un colpo di tosse le impedì di sentire nel silenzio totale della casa, la sedia a dondolo scricchiolare. Maria stava sistemando le sue cose in casa, quando la sua attenzione venne catturata da un dolce profumo da donna. Guardandosi intorno vide una donna con gli occhi chiusi, seduta sulla sedia, davanti al camino acceso. Sembrava stesse dormendo o forse era… La luce incerta del fuoco il39


luminava l’esile corpo in una lunga veste rosa con dei fiori stampati: i lunghi capelli coprivano in parte il viso. Maria fece per avvicinarsi e come fu vicina quella donna si alzò di colpo e sembrava che il volto, il resto del corpo ed il vestito, cambiassero colore e forma, come se si stesse putrefacendo ogni istante di più sotto ai suoi occhi: Maria terrorizzata cercò di urlare ma non emise suoni; la donna col vestito rosa cercò di parlare ma prima che dalle sue labbra uscisse qualche suono Maria aprì gli occhi. Guardò la stanza, illuminata solo dalla luna e i rumori della casa così come il canto dei grilli sembravano amplificati nel buio. Dal suo letto guardava il buio soffitto, quando ad un tratto la sua attenzione fu catturata da una lucina verde che sembrava risplendere vicino al lampadario: vedeva la luce spostarsi, muovendosi senza regolarità. Guardò fuori dalla finestra per vedere quale potesse essere la fonte di quella luce verde smeraldo, quasi fluorescente. In quel momento sentì dalla stanza accanto Paola lamentarsi nel sonno così si alzò per vedere se stava bene: come la chiamò, Paola si svegliò sudata, con il viso sconvolto e per un lungo attimo non capiva dove fosse, talmente era stato reale il suo sogno. «Scusa, non volevo svegliarti. Ho urlato?» «No, a dire il vero mi ero svegliata da poco; sentivo che ti stavi agitando nel sonno, così sono venuta a vedere se stavi bene» «Sì, sto bene. È che…» sospirò «ho sognato una ragazzina, fuori da casa, con un’aria spaventata che correva verso il pozzo che c’è qui fuori e ci cadeva dentro... Mamma, ti dispiacerebbe rimanere 40


qui con me stanotte? Anche solo fino a quando non mi addormento» «Come quando eri piccola ed avevi paura dell’uomo nero?» Paola sorrise dolcemente, «Sì, come quando ero bambina» Si sdraiarono e si addormentarono abbracciate. La mattina dopo si svegliarono di buonora, sapendo che la giornata che le aspettava sarebbe stata lunga: si preparano per la colazione, sistemarono le tazze sul tavolo e mentre parlavano dei mobili da levare sentirono il rumore di qualcosa che si rompeva: le tazze sembravano essere state scaraventate con forza sul pavimento. Si guardarono e senza dire una parola, raccolsero i cocci e lasciarono stare la colazione, turbate com’erano da quello che era accaduto. A metà mattinata, Paola uscì per fare una telefonata, camminando avanti e dietro lo spiazzo principale della casa: quando finì si avvio versò casa ma si fermò perché le sembrava di aver udito una voce che chiamava aiuto. Si guardò intorno, immobile, pensando che forse si sbagliava, ma la voce continuava a sentirla: cercò di capire da dove venisse quella flebile richiesta di aiuto, sembrava provenire dal pozzo ma non poteva essere possibile; avvicinandosi la sentiva sempre più flebile e cercò di ottenere un contatto con quella che sembrava una ragazzina, ma le sue domande non ottenevano una risposta. Intanto in casa Maria stava valutando quanto pesante fosse un vecchio mobile nella stanza che avrebbe voluto far diventare uno studio, quando sentì chiamare: «Mamma, mamma vieni a vedere 41


cosa ho fatto». Si avviò verso la sua camera da letto pensando che fosse Paola e vide il letto, perfettamente rifatto (ma né lei né la figlia lo avevano fatto) con un orsacchiotto di peluche sopra e la cosa più assurda era che i mobili erano disposti in maniera diversa da come li aveva lasciati. La donna capì che forse tutte quelle dicerie non erano tali e soprattutto il perché chiunque avesse provato ad alloggiare lì se ne fosse andato senza aver ripreso le proprie cose. Senza pensarci due volte, si avviò verso l’uscita e prima che arrivasse alla porta vide la sedia a dondolo muoversi: si fermò. Non c’era nessuno seduto sopra ed una risata che sembrava provenire da lontano la raggelò. Più la risata si faceva forte, più la sedia si muoveva velocemente. Era pietrificata dal terrore, ma con uno sforzo enorme riuscì a correre fuori dalla casa, mentre sentiva dietro di sé sbattere le porte delle stanze. Quando fu fuori, si guardò intorno per cercare Paola, e la vide di spalle che guardava nel pozzo, leggermente sporta. Maria fece per chiamarla: riuscì a sentire che diceva: «Piccola, calmati che adesso andiamo a chiamare aiu…» la frase non la finì, perché come spinta da qualcuno, cadde nel profondo buco del pozzo. Al suo urlo seguì un sordo tonfo ed il silenzio. Maria non riuscì nemmeno ad urlare, rimase con la bocca spalancata come in un muto grido. Da dentro la casa i rumori cessarono di botto. La porta fece per chiudersi, poi si riaprì lentamente e tutto fu avvolto dal silenzio più totale. Vagò per due giorni, e fu ritrovata da due contadini. La donna quando li vide sgranò gli occhi come se avesse appena visto un fantasma e la boc42


ca le si aprì come per parlare ma non emise suoni: e non riuscì più ad emetterne. Nessuno seppe mai quello che fosse davvero successo in quella casa, un altro segreto che quella cascina si era portata con sé nel silenzio delle sue mura.

Di Loredana Cocchiglia

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Dolce Brezza Era una splendida mattina d’estate: intorno al lago l’erba verde smeraldo brillava sotto i caldi raggi del sole, mentre Dolce Brezza, una libellula rossa, si esibiva in esilaranti acrobazie libera nell’aria. Anche Serena era lì quel mattino e non poté fare a meno di notare quella piccola silfide ferma sull’antenna di un auto parcheggiata al confine del prato. Sembra una ballerina in equilibrio sulle punte e le sue ali i veli vibranti del vestito di seta. Pensò incantata la fanciulla. Dolce Brezza sentì il suo pensiero e vanitosa continuò i suoi abili giochi di vibranti equilibri. Mi ricorda un’antica leggenda indiana dove la creazione del cosmo avvenne per opera di una ballerina che, danzando vorticosamente sulle punte, avvolta in veli di cristallo, provocò un vento così forte da dar vita all’intero universo. Cosa sarebbe la vita senza la danza e la musica? Il canto delle cicale, delle api ebre di miele, del vento tra le foglie o tra i canneti e il dolce suono dell’acqua non è forse musica? Il respiro d’ogni creatura è canto e tutto, le foglie, gli insetti, l’erba e l’acqua si esibisce in una eterna danza. Se dovessi avere una figlia mi piacerebbe avesse la leggiadria, la grazia e la danza di questa libellula. 44


Dolce Brezza, commossa dai pensieri di Serena e dai suoi occhi verde lago, si fermò immobile. Per la prima volta qualcuno l’aveva guardata nella sua vera essenza e non semplicemente come un insetto e a Dolce Brezza piacque pensare che ad essere ciechi fossero tutti gli altri; d’altra parte era anche la prima volta che sentiva una donna pensare alla propria figlia come danza e canto e non come medico o avvocato. Se mai tu dovessi avere una figlia, pensò la libellula credendo che anche la ragazza potesse interpretare il suo pensiero, ti auguro abbia la luce e l’incanto dei tuoi occhi e la profondità del tuo cuore. Libellula volò nella mano della fanciulla e a Serena non sfiorò neanche lontanamente il pensiero di chiudere il pugno e catturarla, perché sapeva che solo lasciandola libera sarebbe stata per sempre sua. Dolce Brezza la seguì mentre si allontanava verso la voce di un uomo e guardandoli provò un pizzico di invidia verso quel giovane che portava via la sua nuova amica. Li vide nel verde teneramente abbracciati scambiarsi dolcemente la pelle e le labbra. Le mani scure e magre dell’uomo le cingevano i fianchi mentre le labbra carnose assaporavano la pelle chiara. Serena si lasciava baciare, la testa riversa all’indietro per lasciare libero il collo alla bocca di lui e lo sguardo libero di scrutare il cielo tra le foglie che vibravano al vento. Era tutto un sussulto, l’intera natura sembrava godere con i due ragazzi.

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La piccola silfide volò in alto, più in alto che poté per arrivare il più vicino possibile a Dio e con tutta se stessa gli cantò la sua preghiera. «Padre, tu che tutto puoi, ascolta la mia preghiera: vorrei avere le braccia e le mani per poter stringere ed accarezzare e grandi labbra per poter baciare. Vorrei poter amare come ama Serena, lo vorrei più di qualsiasi altra cosa». «Piccolo angelo cosa ti fa supporre che tu non possa amare?» Rispose dolcemente tuonante la voce di Dio. «Io posso amare: amo Serena e l’amore che provo per lei è qualcosa che mi gonfia il cuore e mi esplode dentro; ma non posso stringerla, né accarezzarla o baciarla, non posso sentire la sua pelle». «È vero» le rispose Dio «non puoi sentire la sua pelle proprio come lei non può sentire i tuoi pensieri. Per me sei stata sempre un’ottima figlia e non voglio precluderti nulla; vorrei solo evitare che tu rimanga vittima e prigioniera dei tuoi desideri, come spesso accade. Ti chiedo solo di pensarci bene, poi, se ancora lo vorrai, sarò pronto ad accontentarti». Dolce Brezza felice ringraziò Dio e partì alla scoperta della natura umana. Serena aveva appena diciassette anni e lui era il suo primo amore. Tante volte lo aveva sognato e molte volte aveva immaginato come sarebbe stato condividere la vita con lui. Incontrarlo era stato il realizzarsi del suo grande sogno e tutto sembrava gioire con lei, tra le sue braccia si sentiva al sicuro ed il suo cuore pienamente appagato avrebbe potuto rinunciare a qualsiasi altra cosa. Fu proprio per questa sensazione 46


di totale appagamento che velocemente e senza neanche rendersene conto cominciò a rinunciare alla propria vita. Il ragazzo le chiese in principio di allontanarsi dalle sue amiche, il tempo non sarebbe bastato per tutti e doveva essere lei, in fondo, a decidere con chi condividerlo, poi la fece riflettere sul fatto che lui era un muratore, aveva lasciato le scuole in terza media e sarebbe stato del tutto inopportuno che la sua donna si diplomasse. Tutto ciò che lui desiderava era che lei lo amasse e fosse pronta un giorno a prendersi cura di lui, dei loro figli, della loro casa. Giorno dopo giorno Serena si allontanava sempre di più dalla sua strada per diventare ciò che il suo uomo desiderava e condurre la vita che qualcun altro stava scegliendo per lei seppure in nome dell’amore. Libellula nel frattempo si inoltrò nel parco sempre più vicino alla gente. Osservò dapprima i bambini e le loro mamme, poi gli anziani e i loro figli. Ogni persona era diversa dall’altra, sembravano non aver nulla in comune al di fuori della struttura fisica. Avevano grandi occhi ed orecchie, ma non vedevano e sentivano le stesse cose. Avevano braccia e mani che non servivano solo per stringere e per carezzare, ma ognuno ne faceva un uso proprio. Vide un omone sbraitare contro suo figlio ed usargli le mani contro perché aveva macchiato d’erba l’abito della domenica. Cos’era infondo un vestito rispetto alla felicità che il gioco arrecava a quel bambino? 47


Nel suo mondo di insetto, grandi e piccini si dedicavano pienamente a ciò che facevano e facevano sempre ciò che a loro arrecava gioia fosse stato librarsi nell’aria, cibarsi o rincorrersi. Tra gli uomini solo i bambini sembravano dedicarsi pienamente alle loro attività, gli adulti sembravano essere sempre da più parti contemporaneamente. Ma il dono dell’ubiquità non era forse un’esclusiva divina? E presto per magia o per incanto si trovò a giocare con dei bambini. «L’avevo quasi presa» «Non è vero, ora l’acchiappo io» E tra il ridere di gusto di quei bimbi Dolce Brezza volteggiava in alto e poi di nuovo giù dando loro la sensazione di averla quasi catturata per poi alzarsi veloce sempre più in alto, quasi a sfiorare il cielo. D’improvviso libellula sentì il ragazzo urlare contro Serena per qualcosa che non comprendeva, l’aveva spinta e lasciata sola nel verde. Quel prato alla ragazza doveva sembrare un deserto, perché i suoi occhi erano smarriti al punto da non vedere neppure Dolce Brezza che le volava accanto. Forse qualcosa in comune gli uomini l’avevano: tutti mutavano in continuazione, chi sembrava dolce alle volte si riscopriva violento e chi era violento poteva un giorno divenire magicamente dolce. Notò che tutti si davano un gran daffare per imparare come guadagnarsi da vivere, ma nessuno insegnava loro come vivere; molti si affannavano ad accumulare nel tentativo inconsapevole di colmare il vuoto che era nei loro cuori. Chiese a Dio se tutto ciò fosse giusto, aveva capito che la verità era per metà ricerca e per metà mistero; che era nascosta profondamente nel cuo48


re di ogni uomo dove nessuno pensa mai di cercarla. Era un puzzle che piano prendeva forma e tassello dopo tassello diveniva tutto incredibilmente chiaro e dipanava la strada ad un nuovo quesito e ad una nuova risposta. In un’alba primaverile Dolce Brezza trovò la chiave di volta, il mattoncino che portato via avrebbe fatto crollare l’ultimo muro, l’ultimo baluardo che le impediva di vedere la sua verità: l’amore, l’amore universale. Cominciò così a guardare le persone che la circondavano sotto una luce diversa: riusciva a vedere in modo nitido a cosa erano dovute le differenze tra un individuo ed un altro. Ora sapeva che tutto, ogni cosa, dalla più banale alla più importante, ruotava intorno ad un unico perno: l’amore. Tutto era direttamente proporzionale al grado d’amore che le persone ricevevano e tutto direttamente proporzionale alla loro capacità di donarne. Ogni creatura, come specchio, in presenza dell’amore ne diventava il riflesso. Per la prima volta riusciva a dare al termine “amore” una connotazione diversa; ora, finalmente, Dolce Brezza riusciva a vedere l’amore e l’intero mondo attraverso un magico caleidoscopio in tutte le sue infinite, variopinte sfaccettature. Fu allora che Libellula vide Serena avvolta nel suo lungo cappotto sfrangiato, seduta sulla sabbia, persa nel grigio azzurro del mare e del cielo: sembrava non desiderasse altro che addormentarsi con la dolce ninnananna dell’acqua per non svegliarsi più o miracolosamente trasformarsi in un gabbiano. Vide una ringhiera a picco sui faraglioni, la vide salire piano sulle punte dei piedi, aprire le braccia per lasciarsi andare nel vuoto. 49


Dolce Brezza le si avvicinò in fretta e, pur consapevole che la ragazza non poteva sentirla, prese ad implorarla: «Non lo fare, l’istinto suicida è un istante di infinita stanchezza che non chiede altro che requie, se riuscirai a superare questo istante sarai salva. Guarda, guarda tutto intorno che meraviglia, guarda il mare e le onde, guarda il cielo ed i gabbiani, la mia danza, i colori, respira i profumi della vita, respirali a fondo: VIVI!» Fu un istante: Serena guardò la libellula, la sua danza, i suoi colori, ripensò ad una ballerina che diede origine al vento e a tutte le cose, pensò alla bambina che aveva in grembo. «Brava Dolce Brezza» sussurrò la voce di Dio nel vento «non solo hai capito la vera natura dell’uomo, hai scoperto la scintilla che tiene in vita l’intero mondo ed oggi hai compiuto il gesto più bello e significativo della tua vita. Dormi tranquilla, perché domani ti risveglierai bambina». Serena diede alla luce sua figlia che chiamò Celeste. Era una bimba meravigliosa con dita sottili e lunghe per poter accarezzare, la pelle di seta, due occhi enormi sul mondo, con la leggiadria di una libellula e con la capacità di percepire i pensieri ed i sogni di tutte le creature. Una creatura che per tutta la vita non chiese a Dio come avesse fatto il mondo o perché lo avesse fatto o quanto valesse, ma, semplicemente respirandolo in tutta la sua essenza, lo contemplò estasiata.

Di Donata De Bartolomeis 50


Il compar cane C’era una volta, tanti anni fa, un luogo chiamato “la preghiera” che conduceva ad un grande paese. Era un crocevia molto importante, perché era un punto dal quale doveva passare forzatamente chiunque volesse andare in quel paese, sia che venisse dal mare sia che venisse dalla montagna: insomma da lì dovevano passare tutti! Nel bosco sottostante “la preghiera” viveva il compar cane, un meticcio di mamma cane e di babbo lupo, perennemente affamato; non era un grande cacciatore e non riusciva mai a catturare le sue prede, quindi si metteva vicino all’incrocio in attesa del passaggio dei vari contadini che portavano i propri prodotti a vendere al paese. Gli altri animali del bosco lo chiamavano così perché era il loro compagno di sventure; avevano deciso, tutti assieme, di non darsi la caccia ma di sfamarsi come meglio potevano. Il compar cane, avendo sempre fame, si adattava a mangiare qualsiasi cosa, insomma, era diventato onnivoro; si acquattava dietro un grosso albero e aspettava che qualche contadino perdesse per strada, per colpa di qualche sasso un po’ più grosso capace di far sobbalzare il carro, il cibo che trasportava: frutta, pane e, nei momenti difficili, aveva mangiato la farina, persino l’involucro che la conteneva. 51


Ma ciò che lui adorava era il pesce. Sapeva che tutti i venerdì, di prima mattina, subito dopo l’alba, passava per “la preghiera” il pescivendolo. Aveva un barroccio bello capiente, rivestito di una protezione incerata che non permetteva al cibo di prendere troppa aria e, quindi, di deteriorarsi velocemente. Difficilmente, perciò, perdeva qualche pesce per strada e la volta che era successo era stato un giubilo per compar cane, che aveva ingoiato tutto intero il pesce senza sputare neanche le lische, tanto era ghiotto di quel cibo. Un giorno successe un fatto straordinario. Era un caldo venerdì di primavera, il sole iniziava a scaldare l’aria e le piante e gli animali si stavano risvegliando a quel nuovo tepore; come sempre, puntualmente, stava passando per “la preghiera” il pescivendolo. La strada sterrata ed un po’ in salita aveva fatto rallentare il somaro che trainava il carro carico di pesce; il barrocciaio si era mezzo addormentato sia per la lenta andatura sia per quell’aria nuova e soleggiata che gli stava scaldando le membra. Il compar cane però, essendo affamato, non aveva risentito affatto del tepore primaverile ma aspettava il momento buono per poter riempire la pancia, ormai vuota da qualche giorno. E fu allora che si rese conto che se non sfruttava quel momento non avrebbe mai più avuto un’occasione simile; le leggere scosse dovute ai sassi per strada avevano allentato il telone che copriva i pesci, lasciando libero un angolo sufficientemente largo per potervisi insinuare. Compar cane non si lasciò sfuggire l’occasione e, con un balzo 52


felino, sebbene fosse un cane, s’infilò dentro il barroccio. Non vi potete nemmeno immaginare la gioia del compar cane in mezzo a tutto quel ben di Dio! Pesce, pesce e ancora pesce a volontà! Mentre mangiava si strofinava su quel cibo, quasi fosse un profumo di marca, affinché gli rimanesse l’odore nelle narici e nel pelo. E mangiava. Quanto pesce ingerì quel giorno compar cane. Si sentiva la pancia piena e non ce la faceva a mandar giù più niente: nel suo stomaco non ci sarebbe potuta entrare neanche una mosca. Così, bello satollo, si appisolò su tutti quei pesci con le narici belle aperte a tal punto da non perdere neanche una minima parte di quel buon odore. Ma una scossa più consistente fece sobbalzare il carro, sbalzando fuori compar cane che, tanto era pieno, fece appena in tempo ad alzarsi per fuggire. La scossa, però, aveva svegliato anche il pescivendolo il quale, con la coda dell’occhio, vide cadere qualcosa dal suo barroccio e si accorse che il telone si era allentato, così pensò di aggiustarlo appena arrivato in paese. Ma quando vi giunse e scoperchiò il carro, lo colse lo stupore: il carretto non era più colmo di pesce, anzi, ne mancava un bel po’. «Accidenti!» pensò «devo stare più attento altrimenti il mio guadagno se ne va tutto per strada». Compar cane, intanto, se ne stava a risposo sotto ad una quercia, pieno com’era del suo cibo preferito che aveva trangugiato senza tregua. Gli altri animali gli si fecero intorno un po’ invidiosi, perché lui era riuscito a sfamarsi. 53


I giorni passarono in fretta ed il venerdì giunse velocemente. Fin dalla sera prima compar cane si era appostato dietro un albero all’incrocio de “la preghiera” in attesa dell’alba e, con essa, del pescivendolo. Ed eccolo arrivare, lemme, lemme, con il suo barroccio pieno di pesce. Anche stavolta, compar cane, colse il momento ideale e con un balzo entrò dentro il carro; mangiava e controllava, di tanto in tanto, il pescivendolo che sonnecchiava, pronto così a darsi alla fuga al momento buono. Quando si sentì bello pieno, prima di arrivare alla curva che portava al paese, silenziosamente scese dal carro. Il pescivendolo, ignaro di tutto, quando giunse al mercato ed aprì il telone per mostrare la sua merce, quasi cadde a terra dallo sbalordimento. «Oddio, devo fare qualcosa perché non è possibile che ogni volta perda tutto questo pesce. Eppure il telone era ben chiuso! Mi sa che c’è qualche animale che me lo mangia per strada. La prossima volta starò ben sveglio e controllerò!». Compar cane, nel frattempo, era diventato sicuro di sé e convinto di essere così silenzioso da riuscire, perfettamente, nella sua impresa da mariuolo; così arrivò il venerdì e, con esso, il barrocciaio con il suo carico di pesce. Compar cane non perse tempo e appena vide il pescivendolo assopito, s’infilò dentro il carro ed iniziò a mangiare il pesce. Il barrocciaio che faceva finta di dormire vide compar cane infilarsi dentro il carro; dopo il primo momento di stupore e di rabbia per tutto il pesce che quell’animale gli poteva aver mangiato, e non interessandosi affatto che quel cibo avesse contribuito a rallegrare e saziare un povero animale di54


giuno da giorni, prese il bastone che teneva con sé, a scopo di difesa, salì sopra al carro pieno di pesce ed iniziò a roteare nell’aria il bastone abbattendolo, intenzionalmente e con tutta la sua forza, sopra il povero animale che non riusciva a trovare l’uscita: arrancava al buio mentre il bastone si abbatteva su di lui senza tregua. Compar cane proprio non ce la faceva a fuggire e così decise di rimanere fermo lì a subire le percosse, se questo era il prezzo da pagare per tutto quanto aveva mangiato. «Vieni pure» pensò «qualche legnata non potrà cancellare la felicità di questa giornata!». «Brutto cagnaccio ladro e pulcioso. Adesso ti faccio sentire, a suon di bastonate, cosa vuol dire andare a rubare!». Fino a che riuscì a sopportare, compar cane, rimase lì dentro al carro poi, con uno sforzo eccezionale si sollevò, scucendo il telone e, mettendo la coda tra le gambe, si diresse verso il bosco, dentro il quale il pescivendolo lo vide dileguarsi. Gli altri animali avevano osservato tutta la scena e la volpe, avvicinandosi, gli disse: «Vedi, caro compar cane, che vuol dire rubare! Ogni volta che qualcuno ruba deve sapere bene che può raccogliere bastonate, anche se si ha molta fame!». «È vero» pensò compar cane «ma anche con qualche livido, la mia pancia ora è piena». Però stette zitto e non rispose alla volpe, perché sapeva bene che aveva ragione. Di Cosetta Movilli 55


Le notti dell’assassino Prima notte I miei piedi nudi calpestano un passo dopo l'altro la sabbia umida sotto di loro, mi volto indietro e con lo sguardo lungo la spiaggia riesco a vedere le impronte che ho lasciato fino ad una trentina di metri più indietro. Il contatto della pelle con i grani fini e freddi mi provoca qualche brivido che corre fino a metà della schiena. Il cielo sopra di me si sta facendo grigio, le nuvole ricominciano a prendere possesso dello spazio che il sole cercava di far suo dopo un temporale che poco prima ha mischiato la sua acqua con quella del mare calmo. Intorno a me nessuno, l'assenza di vita alla mia vista rende tutto così triste, il mare d'inverno mi ha sempre trasmesso un’immagine poetica ma in questa occasione trovo tutto così malinconico. All'improvviso un tenace raggio di sole che non ha rinunciato a lottare per farsi apprezzare riesce a filtrare tra le nubi e riesce a raggiungere una piccola porzione di mare che illuminata sembra più viva, l'acqua in quel punto assume un colore verde-blu che rilancia in me una speranza, è però solo un attimo, un momento dopo ci pensa un soffio di vento a ridar vigore a una nuvola che sembra arrivare dal nulla per portare tutto nuovamente alla sensazione e a quel colore cupo che mi opprime lo 56


stomaco. Il vento soffia, è caldo e misterioso, muove delicatamente i miei capelli e scuote il mare che s’increspa e offre alle mie orecchie un rumore sordo sbattendo sulla riva rompendo il silenzio tutto intorno. Cammino senza una meta, le mie gambe seguono una direzione che non ho scelto ma sento di dover percorrere anche in mancanza di un obbiettivo da raggiungere. I miei piedi disegnano forme precise, il destro è leggermente più aperto rispetto al sinistro ma entrambi avanzano vicini calpestando sabbia e conchiglie rotte che si fanno sentire sotto le piante nude. Il tempo in questo quadro surreale di cui sono protagonista non esiste, i miei passi, i miei sguardi vicini e lontani paiono fatti a rallentatore, congelati da secondi che non esistono. Ad animare lo strato di malinconia e solitudine che mi sovrasta è un immagine in lontananza, una figura, un corpo abbandonato a se stesso lambito dal mare che sembra volerne scavare le ginocchia su cui poggia con le gambe piegate e la testa leggermente in avanti in quella che pare essere una classica posizione di preghiera; mi avvicino timoroso a quella figura. Avanzo ma non mi degna di sguardi, forse sono stato solo molto silenzioso e non mi ha sentito, continuo fino ad arrivare alle sue spalle senza che mi abbia apparentemente notato. Ha sulla faccia, legata sulla nuca, una sciarpa gialla, sul davanti gli copre gli occhi. Appoggio istintivamente la mia mano destra sulla sua spalla sinistra cercando un contatto, uno scambio di calore umano che non arriva, finalmente la sua attenzione si sposta su di me, ruota leggermente la testa nella mia direzione facendomi cogliere maggiori dettagli di un volto 57


che conosco bene. Mentre cerco di realizzare quel che sta succedendo dalla bocca di mia madre escono parole che gelano il mio sangue: «Non dovresti stare qui, dovresti stare lontano dai morti». Non so che dire, cosa rispondere o cosa chiedere, ora riesco solo a sentire un profumo amato mille volte che non è però il suo ma viene da quella maledetta sciarpa, ho assaporato spesso quella fragranza da vicino ma ora non riesco a collegarla ad un volto. Le mani di mia madre si staccano dalla posizione di preghiera. «Pregavo per te figlio mio perché non mi vedessi così». «Chi ti ha ucciso mamma?». «Non lo so ragazzo, non lo so, chi l'ha fatto ha lasciato solo questa sciarpa legata sui miei occhi». Già, non ho ancora visto i suoi occhi azzurri, penso, le sciolgo delicatamente in nodo per la verità non stretto mentre lei cerca di fermarmi urlandomi di non farlo. Ormai però ho già spostato la sciarpa, i suoi occhi non ci sono più, due buchi vuoti contornati da sangue secco ne hanno preso il posto, in fondo a quei fori pensavo di vedere l'inferno. Riguardo la sciarpa, la passo tra le mani, so chi è l'assassino di mia madre, devo solo ricordarlo. Poi il rumore di una tazza che cade sul pavimento mi sveglia.

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Seconda notte Alberi alti un’infinità sovrastano il mio sguardo, il fitto intreccio di rami che sembrano lunghe braccia scheletriche sostengono un tetto di foglie verdi che non mi permettono di arrivare oltre loro a cercare il sole di un giorno reso notte dall’imponente natura della foresta in cui sto camminando. Come nell’incubo della notte precedente, i miei piedi sono nudi e a contatto con la madre terra che ciclicamente regala la vita e si riprende i corpi dei morti, è proprio un corpo quello che temo anche stavolta di dover cercare. Sulla mia testa, liane verdastre piovono dall’alto, aggrappate ai rami si strusciano viscide come serpenti sulle mie spalle. Di contro serpenti di taglie e colori svariati se ne stanno arrotolati alle estremità più basse degli alberi, seguendomi con il loro diabolico sguardo mentre percorro il sentiero verso l’immagine infernale che sanno, con certezza, mi si presenterà. Pochi secondi dopo, appena dopo aver spostato un fascio d’erba alta, si mostra a me la temuta figura nella cruda e perfida realtà; lunghi capelli biondi cadono su spalle nude sofferenti di percosse che vengono a galla con strisciate sanguinolente e profonde tanto da ostentare muscoli recisi. La mia mano parte spontanea nel cercare un contatto con quella pelle nuda e tumefatta che però ricambia con la stessa freddezza del corpo di mia madre. Il sangue che esce dalle ferite e si mescola all’umidità di quella surreale foresta è lo stesso che scorre nelle mie vene, non c’è voluto molto per capire che 59


l’assassino ha colpito ancora vicino a me, a giacere a terra è mia sorella. Mentre vorrei piangere, ma non ci riesco, il corpo inanimato riprende leggero vigore, quasi come fosse un aquilone alzato da un vento impalpabile che di lì a poco gli farà ritrovar la terra. Gli occhi azzurri e rotondi di mia sorella mi guardano, la sua bocca non può parlare, cotone rosso la riempie completamente, mentre cerco di liberarla capisco che il rosso della stoffa è dato dal colore naturale del sangue, un sola piccola parte infatti non è intrisa di esso, e lì la stoffa è gialla, ancora quella fottuttissima sciarpa, la firma dell’assassino. La bocca ora sgombra rimane priva di parole, l’assassino con ferocia inaudita ha strappato le corde vocali che penzolano tra gola e trachea. Chi ha ucciso ha voluto umiliare mia sorella togliendole la voce, strumento che con grazia incantevole usava con successo nel canto. Lilli, così come la chiamavo io, mi guarda, ora non servono parole, riesco a sentire comunque quel che vuole dire. Ha visto chi l’ha uccisa, una donna, una donna con indosso quella sciarpa gialla, ma non mi dice il nome, non vuole che arrivi a lei e non pretende che cerchi vendetta, sbaglierei mi dice, ma io ormai voglio solo quella! Bacio sulla fronte Lilli ma quel che mi rimane di lei sulle labbra è solo il sapore metallico del sangue. La pioggia è cominciata a scendere e ticchetta sulle foglie, sui rami, sui sassi, d’improvviso un tuono si abbatte a terra, i miei occhi si aprono e mi ritrovo di scatto seduto sul letto con il cuore in gola che batte a mille fuori dall’incubo. 60


Terza notte Mi muovo tra ghiaccio e neve, il bianco è l’unico colore che riesco a vedere. Il cielo non si discosta per niente dal candido della terra e l’orizzonte si fonde perfettamente con il paesaggio che sembra così ancora più immenso e sperduto dal resto del mondo. Il freddo arriva e si fa pungente, i miei arti ne risentono e faticano a muoversi, le dita delle mani si chiudono in pugni serrati per trattenere calore e stringono ancor di più mossi da rabbia e tensione... so già quello che mi aspetta. La neve sotto i miei piedi è soffice e le mie impronte rimangono impresse a terra ben visibili a tracciare un percorso inconscio. Nulla nel paesaggio desolato cattura la mia attenzione, nessuna macchia di colore mi viene in aiuto come indicazione o via di fuga dall’ennesimo incubo. Tra la semicoscienza riguardo la direzione da seguire e la certezza di quel che troverò, il mio cammino punta dritto verso uno dei tanti cumuli di neve che avallano il paesaggio monocromatico. Salgo sull’ostacolo tutt’altro che insormontabile; dalla cima, ad un paio di metri di altezza, osservo in basso verso il lato opposto a quello dal quale sono salito. Un lenzuolo pallido come la neve passerebbe inosservato se non fosse che ricopre qualcosa che lo fa spiccare dal suolo per una quarantina di centimetri. Mi avvicino per spostare in telo, ansioso come un ragazzino pronto a scartare il suo regalo di natale ma senza avere la stessa gioia, quella se n’è andata da qualche giorno, ora dentro di me è rimasto solo odio e rabbia. Mi inginocchio; se sotto al lenzuolo 61


c’è un cadavere non mi resta altro che scoprire di chi è. Non sbagliavo, stavolta è toccato ad un’amica, la mia migliore amica. Il volto di Emily asseconda il pallore del paesaggio, la pelle ha perso il suo colore sempre stato vivo di un’abbronzatura dorata e ora si ritrova ad essere bianco e freddo di morte. Il corpo è completamente nudo, lo riconosco, è lo stesso con cui ho vissuto calde notti parecchi anni fa. Emily è stata la mia penultima ragazza, la nostra storia era durata un paio di anni e quando è finita dalle sue ceneri è nata una splendida amicizia progredita nel tempo senza rimorsi o rancori per quello che è stato o sarebbe potuto essere. Ora in quest’altro luogo onirico è stesa davanti a me e il suo petto è squarciato di netto in lunghezza dallo sterno al pube, nell’apertura emerge beffardo un lembo giallo della firma del carnefice. Tiro fuori dall’addome la sciarpa che nell’uscire divarica nettamente i lembi della pelle mostrando la cavità dove dovrebbe esserci il cuore. Il cotone della sciarpa è completamente pulito, non c’è sangue e non c’è nemmeno il cuore, quel cuore che in vita batteva forte di entusiasmo gioie ed emozioni. Tutto questa felicità ora non c’è più, rimangono solo i suoi occhi smeraldini nei quali però fissandoli vedo impresso il volto di chi ha ucciso, di chi ucciderà ancora se non verrà fermato. Dalla finestra dimenticata aperta la sera prima entra aria fresca del mattino che si spinge fino a me e al sudore di un’altro incubo dal quale esco con un brivido che corre lungo la schiena.

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Quarta Notte Le mie scarpe da ginnastica nere calpestano l’asfalto regolare di una strada di campagna. Un altro incubo pare essere all’inizio in una notte di stelle poco visibili per via di lampioni che, con luce arancione illuminano le strade oscurando il cielo. Intorno a me voci, urla, note di canzoni sconosciute e versi di animali si alternano, poi si sommano creando una gran confusione. I miei passi aumentano di frequenza, prendono la forma di una corsa che insegue qualcosa o qualcuno o che forse mi porta a scappare da chissà chi. L’unica certezza in questo momento è il caos, la confusione che regna tutto intorno e dentro di me. Mi fermo, il respiro è accelerato dallo sforzo, mi mordo un labbro per cercar di tornare alla realtà, ma quel che ottengo è solo sangue che esce da esso. Lucidità e ragione sono perse per la strada, la realtà è che tutti quei rumori che sento, sono nella mia testa, dove, amplificati mi stordiscono ancora di più. Riprendo la corsa verso un obbiettivo non dichiarato. Mi sono ormai allontanato parecchio dalla strada, ora è la luna a cui manca solo un piccolo spicchio ad illuminare il campo di grano in cui sono finito. La mia faccia bagnata di pazzia si guarda intorno, le mie gambe che non si sono mai fermate ora cambiano direzione, compiono un balzo, un’altro sforzo, la fuga è finita. Il corpo dell’assassino è steso a terra e schiaccia le spighe di grano, i suoi occhi sono sbarrati e pieni di paura, non credevo che una persona capace di uccidere potesse provare paura. Le mie mani volano di getto sul suo collo con l’intento 63


di stringere più forte possibile, l’adrenalina è tanta che nemmeno mi rendo conto che tra le mani e la pelle dove di lì a poco non scorrerà più il sangue c’è di nuovo quella sciarpa gialla, sempre lì con il suo colore intenso e radioso come il sorriso sotto il quale l’ho sempre vista; ad avvolgere il collo anche quel profumo di cui le mie narici hanno avuto modo per anni di apprezzarne la fragranza. Quando le mie mani si staccano è troppo tardi per cambiare idea, l’assassino è già morto, vorrei dire “finalmente”, ma non ci riesco, vedo quel corpo senza respiro e vorrei uscire dall’incubo, nessun tuono, nessuna brezza mi sveglia e mi riporta alla realtà, semplicemente perché questa è la realtà. Ho ucciso Chiara. Lei non era un assassino, lei non aveva ucciso nessuno a me caro. La mia mente rapita da un demone ha prodotto sogni, incubi senza fondamento solo perché non accettava che la storia tra di noi fosse finita, erano passati appena quattro giorni da quel momento sufficienti ad un diavolo per trasformarla ai miei occhi in un killer senza pietà, senza cuore e senza scrupoli, lei uccideva nei miei incubi ma ero io a finire all’inferno.

Di Matteo Gozzi

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Volevo gli occhi neri La sveglia suona, sono le nove di un martedì di marzo. Lei stiracchia un braccio fuori dalle coperte e spegne la sveglia. Dopo cinque minuti il cellulare inizia a suonare e lei si chiede perché diavolo ha rimesso la sveglia se non ha niente da fare, preme il tasto stop e si gira dall’altra parte. Sono ormai passate le due del pomeriggio e lei sembra non accorgersi di come il sole entri nella sua stanza dalle fessure della serranda non chiusa bene e la tinteggi di un giallo caldo armonia. Apre gli occhi e infastidita da questa luce invadente si copre il viso con la coperta. Ormai è sveglia e anche se non ha progetti per la giornata decide di alzarsi. Un piede giù dal letto e quella terribile sensazione allo stomaco la colpisce come un deturpante schizzo d’inchiostro nero su un delicato acquerello da finire. Lo stomaco si contorce e si ribalta con capriole informi, lei guarda la luce che proietta messaggi sul pavimento, li colora di un pensiero verde che diventa chiaro quando lo bagna con una lacrima. Il telefono suona, è suo padre che ogni giorno la chiama per sapere come sta. Lei è indecisa se rispondere o meno, se ascoltare e dire le stesse parole trasparenti e inconsistenti che appena escono 65


dalla bocca diventano vapore, come una goccia d’acqua sotto il sole impietoso di un luglio rovente. Risponde. Lui dice «Ciao, come stai?». «Bene, grazie». Lei continua a fissare la lacrima sul pavimento e il sole continua ad illuminare di verde i suoi pensieri che ora affollano la stanza. «Scommetto che ti sei svegliata adesso». «Si». Ora il sole picchia un po’ più forte e sembra volersi mangiare quella lacrima che sta lì, ferma, sopra un pensiero di fantasia che ora colora tutta la stanza di un verde più intenso. «Lo riconosco dalla tua voce!». Lui ride, lei guarda come la lacrima si sta asciugando al sole senza opporre resistenza. «Allora cosa fai oggi?». «Penso niente». Tocca con le dita quel che resta della sua lacrima e percepisce l’impalpabile consistenza dei pensieri verdi e delle telefonate fatte per non dirsi niente. «Ah,bene». «Ciao babbo, ci sentiamo». «Ok, ciao, ciao». Mette giù. Le parole, come la lacrima che ora non riesce più a stringere tra le dita, evaporano e si perdono nell’aria. Quello che sente è solo vuoto, lo stomaco si è inghiottito il cuore, i polmoni, il fegato, e poi è imploso. Si alza, apre la finestra e cerca di riempire quel vuoto con la bellezza dei colori che trova fuori, in quel paesaggio che da vent’anni la aspetta lì, sempre dietro alla sua finestra. Non è abbastanza e allora inizia a fare l’elenco delle cose che non vanno in lei, nella sua famiglia, nella politica, 66


nell’economia, nel mondo e nel modo sgraziato che ha di chiudere la finestra e farsi male all’indice della mano destra, come sempre. Maledetta maniglia difettosa, pensa. Il telefono squilla. Stavolta non risponde. I pensieri non sono più verdi ma si tingono di un rosso sbiadito e svogliato. Il telefono squilla ancora, si illumina il nome ‘la friend’ e decide di rispondere. «Ei, possibile che non rispondi mai al telefono?». «Ero in bagno». «Ah, si, si e comunque come stai?». «Come sempre, tutto uguale». Tutto immobile, come gli oggetti della sua stanza, che ora si animano e galleggiano nel mare rosso sbiadito dei suoi pensieri. «Nessuna novità?». «No». Pensa di raccontarle di come il suo stomaco aveva divorato tutti i suoi organi vitali e poi era imploso, Come farà questo mondo stufo di noi, pensa, ma non glielo dice. «Cosa fai oggi? Sei impegnata?». «Devo sbrigare alcune cose». «Quali cose?». «Delle cose normali». Come riverniciare le pareti della stanza, pensa. Il rosso acquisisce intensità e prepotenza e ora domina la stanza come un predatore in agguato che aspetta il momento giusto per attaccare. Si sente minacciata dal rosso, da ogni soprammobile che la osserva e le ricorda i momenti passati, i momenti vissuti e quelli persi. «Ok, se cambi idea chiamami, io sono a casa». «Ok, non ti preoccupare». 67


«Va bene. Ciao». «Ciao». Appena posa il telefono sente crescere la voglia di richiamarla e dirle che ora c’è tutto questo rosso che invade la stanza, le invade i pensieri e fa confusione tra le idee. Chiude gli occhi e spera che il rosso sgoccioli via come un ghiacciolo nelle mani di un bambino che si ferma a guardare una farfalla durante una vacanza estiva. Riapre gli occhi e il rosso se ne è andato, tutto è tornato al suo posto con il suo carico polveroso che scandisce il passar muto del tempo. Prende una felpa che indossa scendendo le scale, apre la porta del soggiorno e sua nonna la sta aspettando seduta su una sedia di legno scuro davanti ad una stufa color blu notte invernale. «Buon giorno! Il pranzo è a caldo se hai fame». «Grazie nonna». Volevo gli occhi neri, pensa. Il primo di tutti i colori semplici è il bianco, anche se alcuni non ammettono che il bianco e il nero siano dei colori; il primo è una fonte o ricettore di colori e il secondo ne è totalmente deprivato. Leonardo da Vinci (1452-1519) IaIa Di Ilaria Dominici

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Libero Arbitrio Il fiore di loto. Un simbolo che Anna ha sempre amato e ammirato tanto. Per gli orientali significa la vita, la forza di nascere. Un fiore che emerge dal fango e vive nonostante tutto. Le piace talmente tanto che se lo è tatuato per ricordarsi ogni giorno che la vita è dura ma bisogna sopravvivere. Ora, all’ombra della sua stanza, con un silenzio inquietante che aleggia in casa se ne resta ferma e a guardare il vuoto. Che persona è? Non lo sa più. Non sa più chi è, chi era e soprattutto non vede chi sarà. In fondo, nella vita si è ciò che si scegliere di essere. Questa nuova consapevolezza, uscita all’improvviso da qualche angolo recondito della sua mente, in questi giorni le sta facendo male. È sempre stato semplice dare la colpa di ogni cosa al destino, alla vita, agli altri. La realtà purtroppo è diversa. Se ora sta come sta è solo a causa sua. Gli errori si pagano e si pagano anche belli salati nel suo caso. Resta sul letto seduta nella posizione del fiore di loto. Si rimane così, con le gambe incrociate, la schiena assolutamente diritta, si alza leggermente il mento, si chiudono gli occhi e ci si rilassa. 69


Lei gli occhi non li chiude e il mento lo tiene abbassato per concentrarsi su ciò che si rigira in mano. Due giorni fa mentre passeggiava tra i carruggi di Genova aveva scorto due ragazzi di colore che parlavano fitto e trafficavano con degli oggetti guardandosi furtivamente attorno. Uno era alto, rasato con un fisico atletico, l’altro più basso con delle treccine e anche se erano fermi lui continuava a ciondolarsi a destra e sinistra. Anna deviò il corso della sua passeggiata per cercare di passargli accanto e vedere cosa avevano in mano. Armi. Pistole per lo più piccole, da sembrare quasi giocattoli. Anna non aveva paura. Ultimamente niente le faceva paura. Tante volte mentre guidava le capitava di premere sull’acceleratore sperando che qualcuno le andasse addosso. Desiderava la morte, come si desidera la vita. Sentiva che poteva essere l'unica via d’uscita ai suoi problemi, l’unica soluzione a tutto ciò che le stava cadendo addosso nell’ultimo periodo. Quei due forse erano la risposta alle sue preghiere. Il ragazzo si fermò a un palmo dal suo naso guardandola dritta negli occhi e vedendo che non distoglieva lo sguardo si chiese se quella femmina fosse fottutamente coraggiosa, o infinitamente stupida. Le prese il braccio e la portò dietro un angolo del vicolo dove il suo socio li stava aspet70


tando e con aria minacciosa e gli occhi iniettati di sangue le chiese cosa avesse da osservare tanto. «Ne voglio una». Le parole le uscirono dalla bocca come se fosse un altro dentro di lei a pronunciarle. Ora Anna si ritrova nella sua camera con le gambe incrociate e la piccola beretta luccicante, quasi da abbagliarla, stretta fra le mani. Presto sarebbe finita. L’avrebbe puntata alla tempia e premendo il grilletto avrebbe posto fine ad ogni problema. L’avrebbero trovata dopo chissà quanto tempo, sarebbero entrati in casa e un odore di marcio avrebbe avvertito i suoi soccorritori che ormai era troppo tardi. Avrebbero trovato il suo corpo senza vita col cervello schizzato sui muri e qualcuno avrebbe vomitato accanto al suo cadavere, altri magari avrebbero pianto. Di certo nessuno avrebbe capito. Infondo cosa c’era da capire… Tutto era semplice. I debiti di suo marito da pagare, un amore finito per l’ennesima volta male. La totale e spaventosa assenza di sentimenti. Questa era la cosa che la spaventava più di tutte. Non provava nulla. Nè paura, nè stupore, nè odio, nè dolore, nè felicità. Niente! Alzò la mano destra. Era il momento. La canna della pistola premeva contro la sua tempia. Aveva sempre trovato forza per andare avanti nel sapere che comunque, nella peggiore delle ipotesi, c’era una via d’uscita. La morte. 71


Il braccio dritto, il gomito alzato la testa alta e fiera. Gli occhi spalancati. Uno... tanto nessuno mi ama Due… ho dato sempre solo dispiacer i a tutti Tre… finalmente arriverà la pace Quattro… Una luce improvvisa, come un lampo in una notte calda d’estate, illuminò la stanza e davanti ai suoi occhi si materializzò una figura nera. Non era umano. I suoi contorni non erano definiti. Era come un elemento di una foto sfocata. «Così è questo che vuoi fare? Complimenti. Hai sempre scelto la via più facile.» «Chi sei?» «Sono il tuo libero arbitrio…» «Non capisco…» «Capirai… Troppo comoda Anna. Se tutte le persone che soffrono decidessero di uccidersi il mondo sarebbe disabitato. Ognuno di noi è libero di scegliersi il suo destino, anche di decidere di togliersi la vita. Ma prima dimmi perché lo fai.» «Perché sono stanca. Non penso che qualcuno abbia diritto di giudicarmi. Ho 28 anni e gli ultimi otto li ho passati a pagare le conseguenze di un matrimonio sbagliato. A quanto pare nessuno riesce ad amarmi. Sono una calamita di problemi. Perfino io mi sono stancata di stare con me stessa. E ora vai via che la scena non sarà delle più belle…» «Calma calma… ti aspetta forse qualcuno? Spararsi ora o fra dieci minuti cosa può cambiare?. Dici che nessuno ti ama… guarda.» Lo specchio davanti al letto prese a tremare come tutto il resto della stanza ed a un certo punto 72


una serie di immagini confuse cominciarono a scorrervi dentro, poi pian piano si fecero più chiare e Anna distinse chiaramente il volto di Stefano, mentre sistemava casa, spalancava le finestre, poi il suono del citofono, lui che corre ad aprire e sulla porta lei. «Te lo ricordi? Per lui tu eri il mondo. La sua luce. Ti amava alla follia ma tu ne avevi troppa paura. Sei fuggita tu.» «Non potevo prendermi gioco di lui.» «Certo ma non dire che nessuno ti ama. Sei tu che non ti lasci amare, e Stefano è solo un esempio. Continua a guardare.» L’immagine cambiò totalmente e apparve un luogo che conosceva bene. Era l’officina dove il suo ex marito lavorava ora. Lo vide seduto su una poltrona in un angolo del capannone diviso da un separé di legno. Era ingrassato e aveva il viso stanco. Teneva una birra in una mano e nell’altra il telecomando. «Come vedi anche lui paga le conseguenze del vostro matrimonio. Non se la passa bene.» «Non capisco cosa sei venuto a fare.» «Sono qua per darti la possibilità di scegliere. Perché tu stai per toglierti la vita pensando che sia la soluzione più comoda ai tuoi problemi. Ma non è cosi. Quanti momenti felici ti saresti persa se non avessi vissuto?» «Quanti dolori mi sarei risparmiata.» «Ohhh basta con questa lagna. Guarda...» Lo specchio si illuminò di una luce fortissima rossa come si stesse specchiando il sole mentre tramonta. 73


Questa volta le immagini erano del futuro di Anna. Si vide in un’altra casa molto più piccola, su un divano stretto, da sola davanti alla tv. Si vide mentre riportava al canile Simba, il suo cagnolone, compagno di mille giorni. Si vide piangere mille lacrime. Vide sua madre puntarle il dito contro e cacciarla. Vide sua sorella voltarle le spalle. «Basta… smettila… se è questo che mi aspetta ho già scelto…» Poi sentì il pianto di un neonato e si vide su un letto d’ospedale, col volto tirato a stringere un fagottino azzurro che la guardava innamorato. Poi l’abbraccio di un uomo a entrambi di cui non riuscì a vedere in volto. Rimase zitta, con il braccio abbandonato sul letto ma l’arma ancora stretta fra le mani. «Tutti devono fare il proprio cammino. È vero che per alcuni è più semplice che per altri. Ma è vero anche che una strada più tortuosa ti aiuta ad essere più prudente e raggiungi sempre posti dai paesaggi splendidi. Io non posso scegliere per te Anna. Io posso solo mostrarti l’errore che stai per fare e dirti quante volte hai sbagliato a pensare di essere sola. Non sai quante persone al tuo funerale piangeranno e si odieranno per non esserti restati più vicini». So che non hai paura. Avverto la tua totale assenza di sentimenti. Ma tutto cambierà. Lo sai anche tu quanto in fretta la vita cambia». Anna non parlava. Restava zitta immobile. Poi d’improvviso nella stanza si aprì una porta di luce. «Decidi tu… puoi andare verso la luce, puoi attraversare quella porta, e da domani starai lassù a 74


guardare gioie e dolori degli altri. O puoi aspettare. Tanto quel posto resta sempre lì. Puoi andare avanti e scoprire il volto dell’uomo che ti renderà madre e scegliere il nome del tuo bambino». Anna si alzò dal letto. Le braccia le penzolavano ai fianchi, la pistola restava ben salda in mano. «Sono così stanca» disse scoppiando in un pianto implacabile «Lo so, ma puoi essere forte.» «Non mi va più.» «Anna ti prego rifletti… è la tua vita!» «Ma io non l’ho chiesta. Come non ho chiesto a mio marito di mentirmi e lasciarmi sul lastrico, come non ho chiesto a Stefano di amarmi tanto da farmi paura senza potermi abituare all’idea, come non ho chiesto a Michele di non darmi modo di amarlo. Come non ho mai chiesto a mia madre di preferire mia sorella. Lasciami andare, per favore… sono tanto stanca». «Quel tatuaggio significherà qualcosa?» «Io rinascerò … morendo.» «Io, Anna sono il tuo libero arbitrio.» Anna alzò il braccio destro, il gomito ben dritto, il mento alzato gli occhi spalancati e premette il grilletto gettandosi verso la porta. Il suo corpo stramazzò al suolo privo di vita e il suo cervello si spiaccicò sulla parete. La luce sparì, lo specchio si spense e Libero Arbitrio scomparve versando una lacrima.

Di Barbara Balbiano 75


22 Luglio Giornata grigia. Lo stereotipo di giornata grigia. È triste vedere il sole sconfitto dalle nuvole, è come realizzare all’improvviso che qualcosa non funziona, che potrebbe piovere da un momento all’altro. Che potrebbe non piovere mai. Il grigio, quello che ti avvolge stretto e lentamente ti invade. Quello che ti divora l’anima. Lui è in strada. Non ha difese, in questo momento, non può proteggersi e lo sa, lo sa benissimo. Si lascia attraversare dagli eventi, dal grigiore di questi attimi. Cammina in fretta e non riesce a capire se è giusto. È la voglia che lo spinge ad affrettarsi, la consapevolezza che sarà l’ultima volta lo porta invece a rallentare (l’ultima volta. Dopo tante, l’ultima volta. È difficile immaginare un’ultima volta per qualcosa che si pensava potesse non finire mai, è difficile concepire che stavolta non sarà un ciao a congedarli, che addio sarà la parola, che non ci sarà mai più un noi, che la distanza sarà incolmabile e definitiva). Ma è la voglia a prevalere, adesso, così accelera. Passi veloci e precisi – una precisione incredibile per un gesto così semplice – un avvicendarsi di movimenti identici. Guarda dritto avanti a sé. Non c’è leggerezza, in tutto questo. Ora è davanti al portone d’ingresso. Indugia sul campanello – l’ultima volta che lo suono – pensa. 76


Così aspetta un momento, come se quel gesto divenisse improvvisamente il più importante della sua vita, quasi a volere ripagare l’indifferenza con cui è stato compiuto tutte le altre volte. Adesso è fondamentale, quel piccolo tocco, fondamentale e bellissimo. Ora che ci pensa non l’aveva mai nemmeno guardato attentamente, quel campanello. Non conosce nemmeno un nome tra quelli scritti sopra e sotto quello di lei. Lui suona, lei non risponde. Sanno già tutto. E salire le scale è un altro rituale che diventa vivo e importante; ogni scalino è cuore che batte, vita che passa, e così tutto il resto, le crepe nel pavimento, la finestra del pianerottolo, aperta... quasi non sapeva esistesse. C’è molta polvere, sul davanzale. Un denso strato che fa venire voglia di scriverci qualcosa con le dita. Si ferma un momento ed osserva, per la prima volta. Non guarda, sia chiaro. Osserva. La vista è sul fiume. Sarebbe stato bellissimo passare un po’ di tempo qui, sul pianerottolo, a guardare l’acqua scorrere lenta. Insieme. D’estate. Sarebbe stato bellissimo, pensa. Arriva alla porta. É socchiusa, a dire “ti stavo aspettando”. La spalanca completamente, più lentamente del solito (l’ultima volta, anche questa è l’ultima volta) ed entra. Lei è in piedi, vicino al frigorifero, con un bicchiere d’acqua in mano. Lui la guarda e d’improvviso si accorge che forse... forse non è vero, forse è solamente un riflesso del grigiore che adesso lo dilania, ma se ne accorge, ora, che forse... forse come il campanello, le scale, la finestra ed il fiume, l’aprire la porta... che forse non ha vissuto nemmeno lei. Non come avrebbe dovu77


to. Non come in questo momento desidererebbe di aver fatto. Lei appoggia il bicchiere sul tavolo. Lui pensa che sotto la tovaglia non sa nemmeno di che colore sia, quel tavolo. Allora gli si avvicina ed alza leggermente il velo. Legno. Che stupido, avrebbe dovuto intuirlo. Un bel legno chiaro. In tutto questo tempo nemmeno una parola: prima lui la guardava col bicchiere in mano, ora lei lo vede affondare il dito nello stesso bicchiere, annegarlo nell’acqua ed avvicinarsi lentamente. Le è quasi addosso, sente i loro respiri mescolarsi... alza la mano sul suo viso, e con lo stesso dito le bagna le labbra. Morbide. Lei sente l’acqua fresca su di sé. Nemmeno una parola. Lui passa il dito ancora, ed ancora, sul giaciglio stupendo che è la sua bocca. Poi le si avvicina, timoroso, lo ha fatto un’infinità di volte ma ora è diverso, ora ha paura, ma si avvicina... lentamente, lei ha tutto il tempo di sentirlo arrivare – morirò, pensa – e finalmente si incontrano. Le sue labbra, morbide e bagnate, con quella bocca di uomo, si trovano, si sfiorano. Le mordicchia il labbro – lei lo adora – e le loro bocche si scelgono, ancora una volta, per l’ultima volta (ancora una volta per l’ultima volta ancora una volta per l’ultima volta). Le bacia il collo. Dalla base, per risalire fino all’orecchio, per morderlo, leccarlo, per farle sentire il suo respiro, e ancora a ridiscendere e sbottonarle la camicetta, unico ostacolo tra la bocca e la sua spalla, tra la bocca ed il suo seno. Ed è inutile chiedersi come in tutto questo riescano a ritrovarsi distesi sul letto, non lo sanno come ci siano riusciti, non sta smettendo di baciarla, non ha nemmeno gli occhi aperti, ma ci sono arrivati, la camicetta è 78


soltanto un ricordo, e lui è sul suo seno, a conquistarlo, con le mani e con le labbra, e poi più in basso, a leccarle il ventre e pensare che se davvero è l’ultima volta, farà in modo che non finisca mai. E toglierle la gonna, levarle l’ultimo ostacolo, è una necessità, non può più smettere di muovere la bocca su di lei, ovunque, nelle pieghe più nascoste, e dentro di lei, risalire sul suo seno per poi tornare ancora giù... lei respira fortissimo, e lui vorrebbe non smettesse mai ed allora continua, con la bocca sul suo petto e con le dita dentro di lei, fino in fondo, a svelarne ogni mistero, a smascherare ogni pudore, a disarmarla e guardare il suo viso, bellissimo... la sua bocca socchiusa. Allora è soltanto un attimo incrociare gli sguardi e capire che è il momento di essere una cosa sola, un solo corpo, una sola vita. Ora hanno bisogno di essere ancora una volta un’unica ombra, proiettata sul muro della stanza da un sole che, pallido, ha fatto capolino tra il grigio delle nubi. Dentro di lei. A viversi così intensamente da pensare che non sia possibile tutto questo (l’ultima volta... l’ultima volta), ad ansimare, e gemere, a cercare di restituirsi le cose che sono rimaste dentro, le parole non dette, i gesti a metà, le attenzioni mancate... a ridarsi tutto, in questo istante lunghissimo, fino a sentirla sussurrare “non fermarti” e sentirsi morire, dentro di lei. Fino a disintegrarsi, l’uno nell’altra. Per l’ultima volta. Poi, resta ancora il silenzio. Uno sguardo lungo come una vita, forte come un’onda che si infrange sugli scogli. E il silenzio. Un tempo indefinito. Poi le parole. Le ultime, ancora una volta. 79


«Quando parti?» «Adesso.» (Qualcuno potrebbe chiedersi il perché di tutto questo. Perché lei non possa restare, o lui non possa partire con lei. Al perché lei non potrà più tornare e perché non si potranno ritrovare. Ma non bisogna chiederlo. A volte non c’è niente da domandare, perché semplicemente non ci sono risposte. Loro sanno tutto. Dentro di loro, lo sanno. Hanno la loro domanda e la loro risposta, entrambi. Sanno che non si rivedranno mai più. Che non si sentiranno mai più. E sanno che è la cosa giusta. Uno potrebbe passarci la vita, a chiedersi il senso di tutto questo. Beh, sarebbe tempo sprecato.) Esce dall’appartamento. L’ultima volta. Stesso rituale dell’arrivo, a ritroso. Chiude la porta, la osserva a lungo. Scende le scale e si sofferma di fronte alla finestra. Guarda fuori, e poi... poi si guarda il dito. Quello con cui ha bagnato le labbra di lei. Indugia un momento, lo appoggia al davanzale. Polvere. Scende l’ultima rampa e si sofferma fuori dal portone, ad osservare il campanello. Lo accarezza col dito – ancora lo stesso – senza premerlo. Poi se ne va. Passi lenti, stavolta. Non c’è fretta. Non c’è più nessuna fretta. Lei aspetta qualche minuto in casa. Non vuole vederlo mentre si allontana. Vuole conservare per sempre l’immagine di poco prima, lui che la ama. Non che scende le scale, non che cammina verso chissà dove, ma sopra di lei. Ad amarla. La valigia è già pronta. La teneva sotto il letto. Lo guarda, quel letto, e sorride. Un sorriso amaro. 80


Prende il bagaglio ed esce. Stesso rituale di lui. Ultima volta, anche per lei. Chiude la porta, scende le scale, si sofferma alla finestra. Guarda intensamente il fiume, l’acqua scorrere lenta. Poi osserva il davanzale. Incisa nella polvere, una scritta. “Sarebbe stato bello guardarlo insieme...” Si. Sarebbe stato bellissimo.

Di Matteo Ranghetti

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Un’alba qualunque Non mi avrebbe mai concesso di incontrarla. Non dopo quanto era accaduto. Non dopo averle urlato in faccia che, per quanto mi riguarda, il confine tra una sua giustificazione ed una cazzata non esiste, o perlomeno non è percepibile. È l’alba: sempre perfettamente uguale. Sempre miracolosamente diversa. In fondo è soltanto una giostra, la giostra che si mette in moto, ed i tuoi occhi sono ciò che trasfigurano quello che vedi e lo rendono più simile a ciò che vorresti vedere. Ed io l’ho vista. Semicoperta da un bianco lenzuolo di lino, nella sua modesta stanza, mentre lo stesso sole che infiamma i miei occhi i suoi li sfiora appena, quasi una carezza, poi la luce si fa grande e le avvolge il corpo, le labbra, i denti... i suoi bellissimi denti. E in questo istante, questo lungo attimo nel quale la razionalità non conta, io sento che le devo parlare. Ora, che sono davvero me stesso. Adesso, che sono in grado di dire ciò che voglio dire. È la mia ultima occasione. Alzo il telefono. Ho fatto il numero troppe volte per poterlo dimenticare. Aspetto soltanto un momento ad interrompere la sua bella voce.. «Pronto?» «Sono io. Non riattaccare. Ti chiedo soltanto di restare perfettamente in silenzio, perché ciò che 82


dirò adesso non sarò capace di ripeterlo una seconda volta. Non abbandonarmi ora. Ora che il tuo candido viso trasfigura in gioia, ora che ciò che sei è ciò che sono, ora che l’oscurità non mi invade, e la mia anima è pura. Ora che il sole ti accarezza, proprio adesso che ti amo... Ascoltami bene, perché ciò che sto dicendo non sarò capace di ripeterlo una seconda volta. Verrò a prenderti a casa e ti porterò lo zucchero filato e faremo l’amore in una vasca di latte e ti accarezzerò finché tutte le carezze mai date diventeranno poche... Io sono ciò che ancora non ti aspetti.» Poi mi sono svegliato. Il sole grigio, alto sulla città, i rumori del traffico, mezza lattina di birra sul comodino... Un sogno. Realtà e fantasia, verità e segreti che si sfiorano, si intrecciano, si avvolgono per un istante, per poi dirsi addio. Come due amanti che si cercano e si trovano e si perdono in un unico istante, triste e dolcissimo, perfetto e reale. Ma quando il sogno svanisce e la realtà comanda ciò che resta da fare è vivere. Non sognare. Vivere. La mia ultima occasione. Alzo il telefono. Ho fatto il numero troppe volte per poterlo dimenticare. Sono confuso, vorrei aspettare soltanto un momento ad interrompere la sua bella voce.. «Pronto?» 83


«…» «Pronto, pronto, chi parla?» «…» «Pronto, chi è?» «Sono io. Non… Io volevo... Io... Come stai?» «Vaffanculo.» click. I sogni cominciano come sogni, ma non finiscono mai. Cioè, non dovrebbero.

Di Matteo Ranghetti

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L’Addio Perdonami per quello che sto per fare. Perdonami perché nonostante tutte le promesse non ti aspetterò. Ti ho incontrata il giorno in cui credevo che la mia vita dovesse finire e, in fondo, non c’era molto di più o di diverso da fare; avevo deciso di chiudere un conto con il passato e, facendolo, sapevo che quasi tutto di me sarebbe morto. Non il mio corpo, quello no. Quello doveva sopravvivere perché avesse un senso quel debito che andavo a riscuotere, perché non si perdesse nel nulla il mio gesto o qualcuno archiviasse l’accaduto sotto la lettera della follia. Non avrei mai immaginato di incontrarti così. Proprio in quella circostanza. Non pensavo che tu potessi essere quel fattore imprevedibile che avevo tante volte preventivato senza, tuttavia, saperlo chiaramente disegnare: ma di una cosa ero certo, non poteva avere il tuo volto. E credo fu questo a sconvolgere la trama e l’ordito della mia tela, a smagliare irrimediabilmente il tessuto delle mie convinzioni, delle mie priorità, delle mie certezze. Tu non lo hai mai saputo ma il nostro incontro non fu casuale. La prima volta che ti vidi fu sul promontorio di fronte alla baia, quello dove poi ho scoperto andavi ogni mattino a passeggiare. 85


Non dovevi essere là e da quel momento fui costretto a seguirti. Partisti pochi giorni dopo, due credo. Avevi la migliore delle ragioni possibili per andartene ed io ne avevo una altrettanto valida per seguirti, ovunque tu fossi andata. O fuggita. Ti piaceva l’acqua. Lo compresi subito perché nel tuo peregrinare ti fermasti in un piccolo paese che non possedeva altro se non il fiume. Un luogo insospettabile per me, ma vicinissimo a te: un luogo in cui nessuno ti avrebbe ragionevolmente cercato. Ma non era la ragione a guidarmi, per questo mi fu facile trovarti. Avevi paura? Me lo sono chiesto tante volte in questi ultimi giorni, per trovare una giustificazione a quella incomprensibile attrazione che provasti per me. Non finsi nulla. Ci avvicinammo semplicemente… tu non sembravi chiederti nulla, come se ti sentissi al sicuro in quel paese sperduto, in quella pianura che tu ami tanto e che dapprincipio mi è sembrata soltanto ostile. Il fiume, poi, lento e malinconico sotto i nostri passi, pareva essere il tuo guardiano: a volte ne percepivo la presenza quasi mostruosa e mi sorprendevo a pensare che, se avessi cercato di farti del male, lui mi avrebbe avvolto nelle sue spire acquatiche e risucchiato nel profondo dei suoi abissi limacciosi, lasciandoti salva sulla riva, come una ninfa immortale. Ti proteggeva e tu avevi nel guardarlo una venerazione che mi ingelosiva, un rapimento che non riuscivo a comprendere e che, d’altra parte, mi spingeva a protrarre questo nostro incontro che 86


nei miei progetti avrebbe dovuto essere solo un momento fugace. Tu mi parlavi, ma soprattutto ascoltavi le parole che io non riuscivo a trattenere quando ti avevo di fronte: come una malia inspiegabile, mi raccontavo, ogni giorno aggiungendo un particolare che mi sembrava rimosso ormai perfino dalla mia stessa memoria. In certi istanti avevo paura che avrei finito per confessarti ogni cosa di me, anche del giorno in cui ti avevo visto per la prima volta, sul promontorio e del freddo contabile che ero stato fino a quel momento: tanto avuto, quanto da dare. Eppure non potevo sciogliermi da quell’incantesimo che tu, giorno dopo giorno, con la languida complicità del fiume andavi allacciando e, stregato, rimandavo l’addio annunciato di ora in ora, di giorno in giorno, finché trascorse tutta l’estate. Ti lasciai partire. Non so perché. Senza fare nulla di quello che dovevo fare. Tu ogni tanto fissavi i miei occhi come se percepissi di avermi già visto, prima di quel nostro incontro che io avevo voluto con ogni mezzo, poi mi accarezzavi il viso scuotendo lievemente la testa, socchiudendo gli occhi, come se non riuscissi a ricordare. Ma fino a quando non avresti ricordato? Dovevo perderti per sempre, ma non potevo, e come in un groviglio di radici cominciavo a confondere le mie parole con le tue, i miei gesti con le tue mani ed i pensieri arrivavano soltanto fino a te senza poter divincolarsi dalla tua presenza. Ti proteggo io dalla pioggia, ti dissi un giorno. Poi lasciai che tu partissi. 87


Ti promisi di vederci a Parigi. Di nuovo acqua. Di nuovo un fiume che ti proteggeva. Per mesi decisi di non raggiungerti: volevo salvarti. Poi, ricordando i tuoi occhi fermi nei miei e quel dondolio interrogativo della testa, mi lasciai afferrare dalla paura e alla fine cedetti. Questa volta non potevo tornare indietro. Ti vidi sotto Quai de la Tournelle, accanto ai salici che ami tanto. Eri come sempre, in attesa: lo sguardo mobile che sembrava cercarmi fra la folla inesistente di un inverno freddo e senza luce, lo sguardo felice di trovarmi esattamente come ricordavi, tu dicevi bello come gli strapiombi sul mare, orridi e seducenti insieme, le mani ansiose di stringersi alle mie, la voce stanca di chi non vuole più vedermi partire. Stare con te: l’avrei fatto per tutta la vita, in quel silenzio rarefatto che tu sapevi ricreare come la più dolce delle parole, in quell’illusione che, mio malgrado, cominciavo ad avvertire come vera, in quel tuo sconvolgere tutti i ritmi dell’anima, fino ad impadronirtene come una fattucchiera. Stare con te e nient’altro, se non chiederti perdono e confessare, trovare in te una ragione per vivere. O forse per morire, io, soltanto io. Ma non potevo farlo, altrimenti a che sarebbe servito quel giorno sul promontorio? Ti chiesi di venire a stare a casa mia: forse volevo che tu ricordassi, che tu comprendessi, prima che fosse finita. Tu eri parte del mio abisso, ormai; avevi scorto le profondità terribili della mia coscienza ed ora 88


non potevi tornare indietro, conoscevi inconsciamente la verità che non dovevi sapere, ed ora avresti dovuto pagare per questo. Ma stamattina ero felice nel sentirti respirare accanto a me. Per questo non aspetterò che tu torni dalla tua solita passeggiata al Lussemburgo. Sono io l’assassino che hai intravvisto quel mattino d’estate sul promontorio: erano mie le braccia che spingevano nel vuoto quell’uomo che hai sentito urlare precipitando, erano i miei occhi fra le foglie che ti hanno trovato incapace di muoverti per la paura, erano i miei passi che sentivi dietro di te mentre correvi in cerca di aiuto. Per questo ti ho cercato, inseguito e trovato: per essere certo che non avresti avuto il tempo per ricordare il mio volto… per soffocare le parole che mi avrebbero smascherato, per ucciderti, semplicemente. L’amore non può voler dormire con la morte. Io l’ho voluto. Ma tu, forse, hai sempre saputo: quelle carezze ed il socchiudere gli occhi, dondolando la testa… Addio.

Di Cecilia Tanzi

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Opheliac [Città casuale. Primo periodo della guerra fredda] Dormo. Non dormo. Mi giro. Sogno. Mi sveglio. Sono ancora qui… Da quando l’ho conosciuta non penso ad altro. È entrata dentro di me come una freccia nel cuore della selvaggina. Mi ha preso, aperto, scuoiato. Ha fatto un banchetto con le mie interiora. Antipasto di reni, come primo lo stomaco, il fegato ha fatto da secondo… e ovviamente, come dessert, il mio cuore. L’ha stretto così forte da far uscire tutto il sangue, come si fa con un’arancia per berne il succo. Dopo l’ha addentato, o meglio dire, azzannato, con i suoi denti bianchi e felini, quasi un tripudio di bellezza e crudeltà. Non contenta di averne strappato un pezzo ha iniziato a masticarlo, chiudendo le sue fauci in modo tale che la mia carne all’interno della sua bocca urlasse. Sì, urlava. Peccato che dopo aver maciullato il tutto non abbia ingoiato il pezzo, ormai strappato, del mio cuore per farlo ancora più suo… No! L’ha sputato. Il mio muscolo vitale è stato espulso dalla sua bocca, senza chiedere alcun permesso. Il mio cuore è rimasto 90


lì, lacerato e senza vita, mentre la parte mancante giaceva per terra, masticata e sconvolta, senza più possibilità di riattaccarsi. Mi ha voluto a sé, dentro di sé, per poi gettarmi via, come si fa con un frutto troppo maturo. Ed io non dormo più, non mangio più, non bevo più, non rido più, non penso più. Vago in cerca del mio brandello di cuore perduto, ma ogni giorno si fa sempre più lontano. Anche se lo trovassi sarebbe secco, per metà decomposto, ma soprattutto impossibile da riattaccare. La sua tragica bellezza mi ha tratto a lei ed ora ne pago le conseguenze. Gli inglesi chiamano questa condizione “opheliac”, cioè ossessione. L’espressione prende il nome dal personaggio Shakesperiano Ofelia, la donna innamorata di Amleto. Il suo amore era talmente forte, talmente trascinante che la portò all’ossessione. Fu proprio il rifiuto del principe danese che la condusse alla fase terminale: il suicidio. Raisa. Questo è il nome del mio Amleto. Già, per un americano come me non è facile innamorarsi di una donna russa, figuriamoci in piena guerra fredda e soprattutto se lui è un poliziotto e lei accusata di essere una spia del governo rosso. Sì, proprio così, una spia. Qui in America tutti la conoscono come la bella e algida Louise Bates, ma io so, o meglio dire ho scoperto, che il suo vero nome è Raisa L'vovna Sokolova. Maledetto il giorno che la incontrai. Maledetto il giorno che la vidi entrare nello studio del mio superiore. Lei, alta, magra, capelli lunghi e rossi, quasi come una cascata di sangue. Bocca sensuale, occhi 91


crudeli. Prese una sigaretta e la accese. Non scorderò mai quel movimento, tanto aggraziato quanto crudele. Subito dopo alzò gli occhi e guardò fisso nei miei. Quell’attimo, quello sguardo… Nell’antichità si diceva che la Medusa riuscisse a pietrificarti con un solo sguardo, beh, Raisa c’è riuscita con molto meno. La sua voce era adatta alla sua personalità, un turbinio di fuoco ed acqua, un mostro ed una dea, una spia ed un uomo di legge. Raisa, o meglio dire Louise, negò tutto, persino la sua vera nazionalità. Nessuno si fidava di lei, tutti sapevamo stesse mentendo. Ma a me non importava. Quel semplice sguardo mi aveva paralizzato. Ero totalmente incapace di intendere e di volere. Se lei mi avesse chiesto di salvarla, io l’avrei fatto, anche davanti al mio superiore rischiando il posto e l’arresto. Per un suo cenno avrei dato la vita. L’incontro più fatale della mia esistenza, da cui Raisa non è mai uscita. Iniziai a pensarla giorno e notte, notte e giorno. I miei sensi fremevano, il mio cuore palpitava, il mio cervello si annebbiava. Solo chi ha trovato la sua Raisa può capirmi. Io e il mio superiore ci dedicammo assiduamente al suo caso, fino a scoprire il suo vero nome e la sua vera nazionalità. Irrompemmo a casa sua, senza avvertirla. Sfondammo la porta. L’appartamento era come lei, bello, solitario e freddo, ma vuoto. Completamente vuoto. Proprio come me. 92


Mi svuotai, sentii il mio cuore rompersi o cadere, non capii bene. Era scappata. In Russia, o chissà dove. Avrei voluto seguirla. Avessi saputo dove, l’avrei fatto. L’avrei trovata e confessato il mio amore. Saremmo scappati insieme travolti da una passione nata per non morire mai. Ti avrei amata, Raisa, ti avrei amata più di chiunque altro. Dopo la sua partenza non sono più riuscito a condurre una vita normale. Non sono più andato al lavoro, non mi sono più lavato, non mi sono più fatto la barba. Pensavo di morire o forse volevo morire. Pensai molto alla vicenda di Ofelia in questi giorni. Mai mi sono sentito così vicino ad un personaggio letterario. Lei si è annegata in un fiume, io volevo farlo nella vasca da bagno. Così, mentre sott’acqua, ad occhi aperti, fissando il soffitto bianco sfocato dall’acqua, aspettavo che la dolce e fredda mano della morte venisse a toccarmi, capii che avevo un’altra, forse l’ultima, possibilità. Riemersi dalla vasca come un pesce che abbocca all’amo, per la prima volta dopo molto tempo sapevo cosa fare. Ero felice, quasi. Vedevo già i begli occhi azzurri di Raisa venirmi incontro, la sua bocca carnosa sorridermi, la sua pelle bianca fare contrasto con i suoi capelli fulvi. Sognavo il suo odore, il suo profumo… Mi recai all’ufficio immigrazione, deciso a trovare la mia ossessione. Chiesi di Raisa L'vovna Sokolova. Nessuno sapeva nulla. Chiesi in tutti gli uffici, urlando come un invasato, con tanta disperazione quanta era la gioia poche ore prima.

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L’ultimo ufficio confermò la sentenza degli altri: non esisteva nessuna Raisa L'vovna Sokolova e non è mai esistita nessuna donna con quel nome. Ci aveva ingannati. Mi aveva ingannato. Questa notte è una delle tante che passo insonne per colpa sua. Penso a lei continuamente. Ho perso il lavoro, non mi lavo da non so quanto tempo ed ho la barba lunga come un rabbino. Sono così magro che stento a riconoscermi. La mia lingua è piena di tagli. Guardo fuori dalla finestra: è tutto nero, come l’abito che portava lei la prima e l’ultima, l’unica, volta che l’ho vista. Ti starebbe bene indosso questa notte, Raisa. Mi giro. La mia casa è avvolta nel buio, proprio come la mia anima. Potessi venderla al diavolo per trovarla lo farei. Ma nessuno me l’ha mai proposto. Guardo di nuovo la notte. È nera. Raisa, io ti troverò…

Di Giulia Pracucci

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Il dramma di Andreas Ileana e Sandra Qualcuno già dorme. Andreas depone la ventiquattrore e siede sulla poltrona azzurrognola. Abbassa il poggiabraccio e accomoda il corpo spigoloso; con le mani magrissime, dalla pelle secca, apre il quotidiano che gli hanno donato in cima alla scaletta; infine tenta di concentrarsi sulla pagina culturale. Fa in tempo a leggere il titolo di un articolo sui musei capitolini e gli giunge la voce baritonale del vicino dell’altra fila: «Ecco! Adesso comincia il bello. Tra poco i motori cominceranno a rullare, la hostess ci dirà come indossare la maschera, da dove tirare fuori il corpetto galleggiante… mannaggia la morte!» Andreas interrompe la lettura, chiude gli occhi, finge di essere vinto dal sonno ben prima che l’aereo si alzi in volo, e che arrivi il solito vassoio ricco di cose che non ingurgiterebbe mai, neppure se sottoposto alla minaccia di un plotone di esecuzione. Li riapre per osservare chi gli siede accanto. Indugia per qualche secondo su una signora bionda, dal décolleté vertiginoso. Lei sentendo lo sguardo si gira, gli sorride e sposta gli occhi sul cellulare che ha appena lanciato la segnalazione dell’arrivo di un sms. L’uomo guarda per un attimo verso l’altro sedile: un signore coi baffi, dalla pancia esplosiva, si slaccia la cintura dei pantaloni 95


e la riallaccia qualche buco oltre, più verso la punta; si guarda intorno, scruta attraverso l’oblò le manovre di un bus e dei facchini, chiude gli occhi e si addormenta a bocca aperta. Andreas richiude gli occhi e rivede la sagoma rotonda di Ileana, la giovane moglie. Lo ha accompagnato con la propria auto. Si sono fermati al bar e mentre lui beveva il caffè senza zucchero, impiegando lo stesso tempo, ha ingurgitato quattro cornetti, un bicchiere di latte bianco con tre cucchiaini di zucchero. Gli ha poi sorriso mostrando i denti impiastricciati di poltiglia dorata ed è quasi fuggita verso il parcheggio, facendogli ciao. L’ha vista armeggiare con la cintura, ha notato le labbra imprecare per la insufficiente lunghezza dato l’enorme stomaco, infine ha visto schizzare l’auto a razzo, con lei libera da ogni costrizione. Sa che a pranzo si vedrà con Sandra, l’amica del cuore. Poi il pensiero si sposta sulla sua condizione di malato grave e sul breve viaggio: ritornerà l’indomani. Nessuno saprà che è stato a Parigi per una visita medica, che il suo è il viaggio della speranza. Ileana e Sandra sono al solito puntuali. Nessuna preoccupazione turberà la loro cena. Non hanno obiettato alcunché quando Andreas ha comunicato l’urgenza di andare a Parigi, per rendere l’ultimo saluto a uno zio, di cui non sapevano l’esistenza. Mancano ancora più di quarantacinque minuti alla partenza, quando Andreas si alza dal sedile, prende la valigetta, chiede scusa alla vicina e si allontana nel corridoio, tra due fila di poltrone tutte occupate, lasciando alle spalle il posto vuoto e il suo attuale esiguo mondo, racchiuso tra le pareti dell’aereo. Giunto al bagno estrae dalla valiget96


ta una bottiglia di vino, la stappa e tracanna a garganella il liquido rosso, fino a che non la svuota. Attende che scenda l’ultima goccia tenendola verticale sulla bocca, con la testa riversa all’indietro. Con il dorso della mano si netta le labbra, butta la bottiglia nel cestino per la spazzatura e si riavvia al suo posto. Intanto le due siedono comodamente nei sedili posteriori del taxi, con la scorta di ben otto panini al prosciutto, pomodori e camembert. Il Cilento è lontano, ma prevedono di essere sedute ai tavoli del ristorante La stella del Calore entro le ventidue. Hanno prenotato per gustare il pesce del Tirreno, ma Ileana non vuole rinunciare al loro antipasto ricco di sapori antichi, ormai introvabili altrove e alla compagna dice: «Ho esagerato nell’ultima settimana, assaggiando tutte le specialità emiliane e non solo: i salumi di Felino, pizze di ogni tipo, gorgonzola dolce e piccante, formaggi erborinati e maturati nel vino, nell’aceto, tra erbe pregiate, nelle fossa, tutti accoppiati a composte e mieli speciali; però l’ex vicesindaco di Bologna mi ha parlato della sua terra di origine, del capicollo, del pecorino, del caprino, del caciocavallo podolico di quelle montagne. Prima di morire devo assolutamente assaggiarli». L’ultima volta che si è pesata ha visto schizzare la lancetta della bilancia sul numero centoquaranta, quello della precedente pesata, per poi superarlo e fermarsi sul centosessanta. Ha deciso di mettersi finalmente a dieta, pur essendo convinta che in fondo non mangia molto, essendo una giovane di ventiquattro anni, di cui molti passati a far nuoto agonistico. Elena e Pasquale li accolgono con sorrisi e voci melodiose. In attesa che arrivino i fusilli, 97


mangiano mozzarella di bufala, melanzane sott’olio, prosciutto tagliato al coltello, pancetta tesa, capicollo, accompagnati dal viccio, una specie di ufo farcito di mozzarella, pomodori, broccoli, salsiccia. I fusilli sono una pasta di bellezza diabolica: è il risultato dell’impasto di farina e uova arrotolato da mani antiche e sapienti intorno a un ferro o a un sottile virgulto di erbe acquatiche. Trattengono il leggerissimo sugo come fossero dotati di poteri magnetici. Pasquale, gentilissimo ma non invadente, spiega le pietanze, l’origine del nome dei pesci che degusteranno, le zone di provenienza, e serve alici di menaica marinate, sauté di capesante, cozze, vongole, cannolicchi con accanto un assaggio di risotto allo zafferano. Sopraggiunge Elena col sorriso smagliante e tanta voglia di lavorare. In mano porta un enorme vassoio di carciofi bianchi arrostiti. L’odore paradisiaco, il suo sorriso, lo sguardo allegro, fanno ritornare l’appetito. Quando si accorge che le due la guardano: «Figlia dell’acqua e della terra, la sua abbondanza si offre a chi la sospetta chiusa in un castello di avarizia. Sembra, per il suo biancore e per l’inaccessibile rifugio, una vergine greca nascosta in un velo di spade». Aggiunge: «Non spaventatevi vi regalerò questa definizione del carciofo scritta dal poeta arabo Ben al-Tolla nell’XI secolo». Mentre Elena si allontana, Pasquale si avvicina sorridente con piatti pieni di paccheri conditi con gamberetti, frutti di mare e una salsetta di pomodori datterino appena appassiti, dal colore rosa tenue e dall’odore delicato. Sulla pasta risaltano alcune foglioline verdissime e lucide di basilico e, tutto intorno, un filo di olio extra vergine d’olivo disegna 98


una striscia di verde più chiaro. Lo vede irrigidirsi, lasciar cadere i piatti dalle mani, correre verso il suo tavolo. Sposta lo sguardo su Sandra: è riversa con la testa sul tavolo, muove a scatti le mani e strabuzza gli occhi. La solleva e raccoglie il suo ultimo respiro. Ileana la osserva per una trentina di secondi, alza lo sguardo al cielo, respira per l’ultima volta e le crolla addosso facendola sparire alla vista degli altri avventori.

Di Michela Orlando

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Uno sbuffo dal profondo I – L’UOMO AL VENTO Soffiava un vento forte che sollevava in turbini una polvere rossastra, gli si infilava tra le pieghe della camicia, la cravatta scura, stretta attorno al collo, tirava violentemente picchiando contro la spalla con degli schiocchi sordi, una leggera erezione gli sfiorava la patta dei pantaloni in tela. Segnando un piccolo arco, scostò la giacca sporca con il dorso della mano per prendere una sigaretta, la portò alla bocca senza accenderla, restando immobile. Con due dita, sistemò gli occhiali tondi sul grosso naso giallo e mettendo a fuoco la vide lentamente prendere forma. Stava in piedi, inespressivo, davanti a quella casa in rovina. Pareva volere crollare su se stessa, stanca scricchiolava rumorosamente sotto i colpi del vento, un vento tale che sembrava volersela portare via tutta quanta. Se strizzava un poco gli occhi, dietro alle lenti opache poteva quasi vederlo, il lupo cattivo, che soffiava e sbuffava: «porcellino, porcellino, fammi entrare», e soffiò e sbuffò così forte che la casetta fu spazzata via. Soffiava un vento caldo di tempesta, la tempesta di tutto un secolo sulle sue ossa 100


secche. Accese la sigaretta, ma il vento la consumò svelto, assieme a tutto il resto. II – CAMBIAMENTI L’auto oscillava pesantemente sotto le scosse del vento, il cielo si faceva scuro, a tratti schizzi di pioggia fangosa bagnavano il parabrezza. Era in arrivo un grosso temporale. Mentre lanciava uno sguardo disattento fuori dalla macchina, vide quell'uomo, in piedi, appoggiato storto su un'anca; immobile, con le scarpe in mezzo alla polvere umida, fissava stanco una enorme catasta di assi sghembe e pezzi di ferro ricurvi che fuoriuscivano dalla terra bruna. Stava voltato di schiena, incastrato tra quelle macerie con un fare da blatta. Dalle maniche troppo corte della giacca sformata, sporgevano fuori i polsini della camicia. Uno sbuffo di fumo scivolò silenzioso sulla spalla sinistra dell'uomo e si disperse nell'aria calda. Quando arrivò a casa pioveva già, l'acqua batteva furiosamente sul legno del portico, in alcuni punti, lungo il percorso della grondaia arrugginita, la copertura stava marcendo, non l'aveva mai notato, pensò che avrebbe dovuto cambiarla. Si affrettò ad aprire la porta tenendo la testa bassa sulla toppa della chiave ed entrò sbuffando, con gli occhi fissi sul pavimento grigio. Un pungente odore di muffa gli invase i polmoni, un odore che non aveva mai sentito prima, rabbrividì disgustato, il fetore diventava sempre più insopportabile lungo il corridoio che portava alla camera da letto. Si 101


fermò ad osservare curioso una crepa lungo il muro, sfiorandola dolcemente con le dita ruvide. Quando spinse avanti la porta della camera la trovò nuda, distesa sul letto, dormiva poggiata sui capelli biondi, una grossa ciocca le invadeva la fronte. Si girò su un fianco, attorcigliandosi il lenzuolo in vita, il sesso imbronciato, sembrava avere un'arrogante aria di sfida. Si richiuse la porta dietro alle spalle. Ripercorse il corridoio con il volto accartocciato in un'espressione idiota, scivolando appesantito sulle mattonelle, e si abbandonò sul divano sgualcito mentre sentiva il sangue scorrere grumoso lungo le gambe. Quale segreto portava dietro agli occhi vuoti “l’uomo al vento”? Pensava raschiando con le unghie tra i folti capelli neri. Era rimasto qualcosa, come una cupa sensazione indefinita, un'immagine storta, era certo ci fosse un significato custodito avidamente nell'involucro molle di quell'uomo, ma quando cercava di metterlo a fuoco nella sua mente, di renderlo nitido, i contorni sfumavano come sciogliendosi nella pioggia sporca che picchiava ancora sulle persiane. Si premette le dita sulle tempie livide, piegando la testa pesante all'indietro. Stava andando giù, lentamente, sentiva il sapore salmastro dell'acqua marina, l'odore nauseante del pesce, dei liquami oleosi, del carburante delle grosse navi, delle loro cambuse invase dagli insetti tropicali che depongono le uova giallastre nel cartone ondulato, delle reti putrescenti lanciate dalle mani squarciate dei marinai, dei cumuli di rifiuti ammassati sulle chiatte pigre, che navigano in un incerto chiarore, delle buste di plastica perforate dal beccare furioso dei gabbiani, 102


spaventosi, che sbattono le ali macchiate di bitume. Sentiva l'odore della sconfitta, della morte, sospesa come una mucillagine secerna dalle ghiandole iridescenti di una pianta carnivora, scendergli viscoso lungo la gola raschiata dal sale. Trascinato dal ventre gonfio, annegava. Andava giù, sempre più lento, giù, giù, tra le creature degli abissi, veniva sfregiato dalle loro schiene incrostate di antichi sedimenti, un'era sopra all'altra, inutili, calcificate. Brandelli della sua carne galleggiavano, danzando. Andava giù, giù tra le loro fauci appiccicose, puzzolenti, giù giù, tra i denti bianco opaco di un vecchio pescecane, consumati, spaccati, senza tempo. Si addormentò. III – RASSEGNAZIONE Dalla porta socchiusa veniva un filo di luce che attraversava pallido il corridoio, camminava silenziosa, la polvere accumulata pigra sul pavimento, le sfiorava le piante dei piedi nudi. Si era infilata frettolosa un vestito scolorito con dei grossi fiori gialli facendolo scivolare lungo i fianchi, quando spinse la porta avanti la stoffa dipinse un dolce arabesco nell'aria. Con una mano scostò una ciocca di capelli dalla fronte bianca, portandosela lentamente dietro l'orecchio, e alzò la testa guardando dentro la stanza con gli occhi ancora appannati dal sonno. Lo vide seduto pesantemente sul divano, con la testa rivolta all'indietro. Rimase immobile a guardare quella faccia dura da russo, i capelli neri riversi sulla fronte in disordine, un respiro catra103


moso gli scuoteva il petto facendolo sembrare un grosso animale ferito, andato a cercare un rifugio su un tappeto grigio-verde di muschi nel sottobosco, tra le foglie fradice e l'odore del pelo bruciato, scaldando l'aria con un ultimo fiato acido. Gli occhi chiusi sussultavano rapidi di tanto in tanto, sognava. Gli si sedette accanto, piegando leggermente il corpo snello e portandosi il braccio dell'uomo attorno alle spalle. Si chiese quali immagini correvano dietro quelle impenetrabili palpebre scure. Si strinse forte gli occhi premendo con le punte delle dita: danzavano in cerchio l'uno dietro all'altro, danzavano con zampe porcine, le cosce grosse e la coda arricciata, danzavano guardandosi le setole dritte sul sedere tondo, danzavano piegati ad arco, riusciva a vederne appena la schiena rosa ed il filo del loro volto, danzavano i tre porcellini, danzavano assieme in un cerchio di sangue, danzavano assieme distratti, danzavano sporchi di un'incosciente indifferenza. Aprì leggermente la bocca appiccicata e con un respiro sibilò: «Haimè! Da lontano vedo il lupo arrivar, non lasciamoci pigliar», la ciocca di capelli le ricadde sulla fronte, leggera come il suo ultimo pensiero: trallallàlallà-lallà, trallallà-lallà.

Di Roberto Mannu

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Ritorni E stupisco se non è questo, quello che si chiama amore. Ovidio Poteva essere una qualsiasi stazione, eppure non le è apparsa una stazione qualsiasi. Un viaggio a ritroso, in un tempo in cui non c’è stato tempo per loro, e ha creduto di ritrovarsi esattamente lì, dove l’aveva accolta la prima volta, lì, dove non l’aveva mai lasciata andare. C’è un motivo per cui le cose accadono o meno? Chissà. Ma avvertire la magia quando la vita te l’ha sottratta svelandoti ogni volgare trucco, le è sembrata l’unica ragione possibile. Nell’incertezza del suo saluto, la testa a fare capolino da un qualsiasi bar di una qualsiasi piazza di un qualsiasi giorno, impossibile scorgere uno qualunque. Era lui. Era sempre stato lui. E lei se stessa solo nello spazio delle sue parole. Mimava l’incertezza e l’imbarazzo per combattere un’improbabile confidenza, a volte non ci si vuole arrendere così facilmente alle ragioni del cuore. Dovesse ricordare cosa le ha detto, tra le stradine del centro animate come in una prova generale 105


né troppo vicina né troppo lontana dalla prima, non ci riuscirebbe. Rammenta che le ha indicato la vetrina di un rigattiere e solo allora li ha visti insieme, vicini nel riflesso, ma non l’ha toccato per paura che potesse svanire. Fino a quel momento li aveva avvertiti esclusivamente nello sguardo dei passanti, nella curiosità allegra di altre coppie e in un confuso vociare di pensieri che le offuscava i sensi. Ha pensato di svenire, ha pensato di prenderlo in quel castello spoglio, ha pensato di pronunciare parole inutili, ha pensato ma le veniva su quel sorriso dei matti che non si può controllare, un sorriso tanto vicino alla follia quanto alla verità. E in verità assomigliava tutto ad un sempre che non è mai stato. Persino su quel letto, in albergo, riteneva plausibile lasciarlo giocare con il telecomando e riposare ogni stanchezza, del viaggio, della notte con gli amici, di una vita che ti vuole presente mentre vorresti essere altrove, benché il suo altrove fosse esattamente lì con lui. Quel suo bacio improvviso non è stato uno scatto felino con cui segnare il territorio, ma semplicemente il suo bacio per lei. Avrebbe dovuto infuocarsi di attese inattese, di ardenti e tacite promesse, di illecite gelosie, di rabbia e odio e trasporto e emozione e quant’altro infiamma solitamente la sua passione offesa. Ma un semplice bacio era tutto quello che non aveva mai avuto. «Perché mi fissi così?» le ha domandato ad occhi chiusi, ed un nodo le ha serrato la gola, come un qualcosa di indigeribile. Ha ripetuto la doman106


da, persuadendola a recitare almeno una risposta, ma lei ha aspettato che le lacrime fossero capaci di arrestarsi sulle ciglia, prima di non riuscire ugualmente a ribattere come avrebbe voluto, improvvisamente maldestra a trovare espressioni in grado di spiegargli l’emozione di quel desiderio, di una nuova voglia al di là di ogni smaniosa tentazione: l’ingordigia di lui in tutta la sua normalità. E forse ha capito o forse no, ma la stretta con cui le ha impresso il volto sulla schiena, per un momento che le è parso interminabile, le è sembrata l’unica replica plausibile e ha accolto il dolore pungente della sua barba incolta, come le stigmate di un sentimento prescelto che rinnova inevitabilmente le sue ferite. Tuttavia ha riso, quanto ha riso, di quell’allegria leggera e palpabile che colora le gite di primavera, quando non hai voglia di stare in casa né bisogno di trovare una scusa per uscire. Le è sempre piaciuto ridere di loro, delle loro piccole manie, prima di concedersi alle sue smanie. Ma non è stato sempre così, la sua perenne attesa non è stata sempre così semplice – come aspettarlo in quella stanza di rientro da un impegno, tra un libro, un vestito da indossare e la scrivania – l’ha forse ritenuta naturale, quanto il ritorno di un figlio che non si può trattenere in casa per le proprie paure, ma altrettanto inquieta. Del resto si sono appassionati alle loro inquietudini tanto che, con gli anni, non ha saputo dare altra accezione a questa parola se non la sua, fatta di mani tormentate, di manifesti silenzi, di respiri a crescere e ad 107


aprirsi sulle voragini di un sentimento privo di spazio, tempo e forma. Loro. Unicamente loro. Senza sentire mai la necessità di aggiungere altro. Ma in questo lui è più bravo. O forse l’ha solo creduto e per questo a cena le si accavallavano nervosamente gambe e pensieri e non riusciva né a tacere né a spiegare nulla, come se il loro sentimento avesse l’obbligo di rimanere disatteso e incompleto e pertanto eternamente incessante. Persino tra le lenzuola ha creduto impossibile dimostrargli, nello spazio di una notte, tutta quella sensualità negata e allora si è abbandonata nello spazio avanzato alle sue aspettative, senza però desiderare, neanche per un solo attimo, una lei migliore e diversa da quella presente lì, tra il suo odore che continuava a respirare forte, affinché rimanesse sufficientemente impresso nella memoria dell’anima per un istante indefinito di cui non ha mai misura ma ne riconosce sempre la continuità. Non avrebbe voluto addormentarsi o forse non avrebbe voluto svegliarsi mai più: un giorno lungo quanto tutto il tempo che ha all’improvviso ha avvertito nella sua mancanza. Ha continuato a spiargli il volto a seguire il suo profilo ad infilarsi nella curva di un fianco, si è allontanata offesa dal suo placido russare e risvegliata tronfia con le sue gambe addosso, è sfuggita al suo abbraccio soffocante piantando bandiera su un fianco del letto e si è destata, stanca e felice, sul suo petto. Ma già non c’era più tempo per loro. Nondimeno ha ritenuto del tutto normale allontanarsi ancora, tanto che la loro intolleranza agli 108


addii sul binario le è apparsa comica, come tutte quelle piccole contraddizioni che finiscono poi col farli abbracciare strappandosi una promessa di possibilità e all’inizio ha trovato persino carino quel suo “ci sentiamo quando torno”, da andarsene sfinita e soddisfatta verso un’altra vita. Poi, al suo primo silenzio, si è chiesta E da quando non mi tormenta in viaggio? e ha avuto una nuova paura: che potesse essere da adesso. Come bambini dispettosi ed egoisti che non cedono il loro giocattolo, nella speranza di affermarne la loro unicità, teme che possano iniziare a divertirsi quando la festa è ormai finita. Quanta presunzione nell’immaginare che non possa esistere un lui diverso da quel che conosce con gli occhi di una perenne meraviglia, un lui anonimo e uguale a tutti gli altri, a tutti quelli che hanno preso parte alla sua vita quando l’attore principale dava forfeit e allora si recitava a memoria, nell’impossibilità che le cose scivolassero via da se con la spontaneità di chi conosce i tempi ed è nato per farsi da spalla, eppure non poteva aspettarsi una recita migliore ma, dopo, in quella quotidiana e naturale confidenza che gli ha sempre riservato nella lontananza, infinito che li univa, ha pensato di camminare sulle uova, nella paura che l’assenza di quel lui così suo sarebbe stata un’amputazione peggiore di qualsiasi altra mancanza. La sottrazione di qualunque inquieta attesa. Di Mariangela Acunzo 109


L’ultimo mutuo soccorso Anni ‘60 Anna, Lina, Enrico e Marcello, quattro liceali all’esame di maturità. Dopo cinque anni di duro Liceo arrivò il giorno degli esami finali: la tanto temuta maturità. Non era un esame da poco, sei scritti e nove orali ed in più dovevano essere preparati sul programma degli ultimi tre anni, in pratica su tutto quello che avevano studiato. In quinta erano rimasti in dodici e tutti molto affiatati, ma i quattro, che sedevano due al primo banco e due al secondo, avevano cementato una solida amicizia, tanto solida, che il professore di lettere affibbiò loro il nomignolo di società del “mutuo soccorso”. Infatti se uno di loro si trovava in difficoltà, su qualche argomento, prontamente scattava, da parte degli altri, un aiuto sotto forma di suggerimento. Finite le lezioni, prepararono gli esami insieme, ospitandosi a turno nelle rispettive case e così, per un mese, mentre gli altri erano al mare, si sacrificarono in maniera disumana. Lina era, sicuramente, la più dotata del gruppo, una formidabile latinista: la migliore di tutta la scuola. Per fortuna che c’era lei, la versione di latino era un brano ostico, ma con pochi suggerimen110


ti, ben dati, mise tutti in grado di fare una buona traduzione. Arrivò il giorno atteso e temuto: quello dell’esposizione dei quadri con i risultati; con comprensibile timore e con il cuore che pulsava al massimo, si accinsero a leggere la sentenza. Un urlo, più di liberazione che di gioia: tutti e quattro promossi! Un ottimo risultato, erano i tempi in cui se zoppicavi in una materia ti rimandavano a settembre e se eri deficitario in tre, ti facevano ripetere l’anno senza tanti complimenti. La sera stessa Enrico chiamò Marcello e tutto eccitato gli disse: «Sai papà, per premio, ci offre a tutti una serata alla Bussola, quando c’è Mina, macchina ed autista; telefona a Lina che io chiamo Anna». All’epoca, la Bussola delle Focette in Versilia, era il locale più “in” d’Italia, arrivarci con tanto di macchina con autista ed in abito da sera, era certamente un evento memorabile. Lina non aveva il telefono, così Marcello chiamò la zia, che abitava accanto e che faceva la sarta, pregandola di farla venire all’apparecchio. «Ciao Lina!...» e, tutto d’un fiato, disse: «…il papà di Enrico ci offre una serata alla Bussola, quando c’è Mina!». Dopo un attimo di silenzio: «Sai non so se il mio babbo mi ci manda» e soggiunse, un po’ mestamente, «poi non saprei cosa mettermi». Sarebbe voluto sprofondare e mentalmente si dette dello stupido. Nell’euforia del momento non aveva pensato che la sua famiglia l’aveva fatta studiare con grandi sacrifici e che, comprare un abito 111


da sera con tutti gli accessori, era una spesa che non si sentiva di chiedere in casa. In un attimo gli passarono per la mente i cinque anni di liceo, gli esami fatti insieme, gli aiuti che generosamente gli aveva dato e si disse che questa volta il “mutuo soccorso” doveva funzionare anche fuori della scuola: costi quello che costi. «Senti: pensa a convincere il babbo, per il resto non ti preoccupare, in qualche maniera faremo». Chiamò Anna, Enrico aveva già messo molto, per cui era una questione che dovevano sbrigare loro due, le spiegò la situazione ed anche lei convenne che Lina doveva venire in tutte le maniere con loro. «Potrei darle un mio vestito, ma andrebbe rifatto tutto lei è molto minuta». Visto che non ci arrivava da sola, Marcello, scandendo bene il suo cognome, disse: «Nei tuoi negozi avete migliaia di metri di stoffa, non fare la tirchia!» Il messaggio era chiarissimo, tanto che rispose tra il risentito e lo scherzoso: «non vorrai alludere al fatto che sono ebrea vero?», «No, solo che sei molto oculata nelle spese… Datti da fare e non lesinare sui centimetri, ricordati che deve essere un abito lungo». In cinque anni non l’aveva mai sentita dire una parolaccia, evidentemente in tutte le cose c’è sempre una prima volta... Rimanevano da trovare una collana, la borsetta e le scarpe. Per la collana, non c’erano problemi, la sorellina di Marcello aveva ereditato dalla nonna alcuni gioielli ed essendo troppo giovane, aveva ampiamente sottovalutato il loro valore e li avrebbe prestati facilmente; aveva anche una borsetta in lamè d’argento, ma a quella teneva moltissimo. 112


«Cara sorellina!» «Che cosa vuoi», fu la sua sospettosa risposta. «Ecco…mi dovresti fare un favore... dovresti prestare a Lina una collana e… e la tua borsetta da sera». «Ah! per andare alla Bussola?» Bene bene bene, pensò il caro fratello ha bisogno di me. «Sai anch’io dovrei andare ad una festa, ma babbo, da sola, non mi ci manda... se... però mi accompagnassi tu… cambierebbe idea». Non era proprio un ricatto, ma gli assomigliava molto... Alla fine giunsero ad un’equa transazione: una parure di perle, un braccialetto d’argento e la borsetta di lamé; in cambio l’avrebbe accompagnata alla festa, sarebbe tornato a riprenderla, pur rassicurando il loro padre che sarebbe rimasto tutto il tempo con lei. Ora rimanevano le scarpe. Aveva racimolato qualche migliaia di lire da uno zio per la promozione e decise di sacrificarle in questa operazione. Presa la borsetta andò nel negozio in cui erano soliti servirsi in famiglia, pensando che uno sconto glielo avrebbero fatto. «Ciao Marcello, lo salutò il proprietario del negozio, li vuoi un bel paio di mocassini estivi?... sono appena arrivati». «No voglio un paio di sandali con il tacco alto e, tirando fuori la borsetta, di questo colore». «Sandali? Borsetta?» E ridendo: «ma guarda che strano effetto ti hanno fatto gli esami di maturità...» Beh gli dovette spiegare per filo e per segno tutta la storia e fu un bene. Prese un paio di sandali: «ecco questi dovrebbero andare bene, sono i più belli che abbia in negozio». Per essere belli erano belli, anzi bellissimi, ma, avevano un grosso difetto, costavano tre volte 113


quello che Marcello poteva spendere, anche chiedendo uno sconto, erano sempre fuori portata. Un po’ imbarazzato gli disse: «te li pago una parte subito e una parte un po’ alla volta». Sul momento rimase in silenzio, fece un bel pacchetto e, mentre glielo consegnava, bofonchiò: «io a queste condizioni non vendo. Prendi i sandali e vai. Ciao». Era stato molto generoso, il fatto che Marcello, Enrico ed Anna, con le rispettive famiglie, fossero suoi clienti avrà anche influito, ma sicuramente non era stato obbligato a farlo. Squillò il telefono e con voce gelida Anna annunciò: «Marcello, ho la stoffa, passami a prendere che la portiamo alla zia di Lina. Il tono non ammetteva repliche, se l’era presa a male per quello che le aveva detto prima». Lina e sua zia abitavano nel quartiere livornese chiamato Venezia, la parte più antica della città, un susseguirsi di ponti e canali con i caratteristici scali. Negli anni ‘60 erano ancora ben visibili i pesanti segni lasciati dall’ultima guerra, molti i palazzi distrutti e quelli danneggiati rattoppati alla meglio. Proprio in uno di questi abitava la famiglia di Lina e, mentre attendevano che sua zia aprisse la porta, Marcello chiese ad Anna di che colore fosse la stoffa. «Turchese». «Turchese?» Sarà uno scampolo che avevano in negozio, pensò. Lei intuì cosa gli passasse per la testa e soggiunse: «Non dire ad alta voce quello che stai pensando perché, altrimenti, la nostra amicizia finisce qui». Alla vista della stoffa la zia, che facendo la sarta di tessuti se ne intendeva, esclamo: «è di seta! Il turchese è il colore di moda!» Mostrandoci una ri114


vista, disse «lo faccio uguale a questo, verrà un bellissimo vestito!». Marcello non ebbe bisogno di leggere nel pensiero di Anna, quello che gli voleva dire l’aveva ben stampato a chiare lettere sul volto: «hai visto, cretino». In effetti aveva fatto le cose in grande, un tessuto molto costoso ed aveva, persino, aggiunto una bottiglietta di smalto madreperlato per unghie. Le scuse furono doverose. Marcello si attendeva qualcosa dai suoi ma, come al solito, gli avrebbero fatto un “inutile” regalo “utile”, questa volta si sbagliò: ricevette una congrua cifra di denaro. La sera dell’uscita, in casa di Lina c’era un certo fermento, gli ultimi ritocchi al trucco ed ai capelli, la zia che le sistemava il vestito, un andirivieni di amiche e parenti; tutti avevano qualcosa da dire e da suggerire. Finalmente scese, a tutte le finestre del palazzo c’era gente a guardare e a commentare ma, i più bei commenti, in vernacolo livornese, furono quelli della sua nonna: «oh mamma! com’è bella la mi’ Lina! E quella macchina è più lunga del filobusse! E poi quei du’ ragazzi vestiti come pinguini del parterre (ndr.lo zoo)…ma un è mi’a ‘arnevale...» «Zitta nonna, quello è l’abito da sera per gli uomini...» «Ah, se lo dici tu…» rispose non convinta, «Deh! Sarà… ma a me mi sembrano pinguini». Anche Enrico aveva fatto le cose in grande: tavolo per quattro in prima fila, proprio vicino al palco, dove si sarebbe esibita Mina. Venne il cameriere a prendere le ordinazioni e Marcello, anticipando tutti, con una certa noncha115


lance ordinò: ci porti una bottiglia di champagne e che sia Dom Perignon. Erano i tempi in cui James Bond furoreggiava in tutti i cinema ed era il mito dei ragazzi di allora. Si era appena allontanato il cameriere che i tre in coro gli dissero: ma che sei impazzito! Piatti e bicchieri per tutto il resto dell’estate te li lavi da solo! Ragazzi ricapitoliamo il tutto. Abbiamo fatto un’entrèe hollywoodiana, siamo arrivati con una macchina uguale a quella del presidente della repubblica, con tanto di autista in livrea, voi ragazze siete in abito da sera e noi in smoking, cioè come pinguini per dirla come sua nonna, i paparazzi fuori, non sapendo chi fossimo, nel dubbio ci hanno fatto anche le foto, siamo seduti in prima fila nel locale più famoso d’Italia per ascoltare Mina… e che volevate ordinare? una Coca Cola con quattro cannucce? Il ragionamento non faceva una grinza ma dovette mostrare loro il portafoglio ben rifornito per tranquillizzarli, poi la voce squillante di Mina riempi di allegria e spensieratezza il locale. Fu l’ultimo intervento del “mutuo soccorso”, dopo pochi mesi la “società” si sciolse tristemente. Un male incurabile aveva reciso la giovane vita di Lina e la loro sincera amicizia, offuscando, per sempre, con il dolore, i più bei ricordi di quegli anni giovanili.

Di Marcello Musumeci 116


L’ultima vittima Ho sognato di essere Dio. E mi è piaciuto. Nel buio della mia stanza sentivo il debole respiro dell’ultima vittima, che quasi cercava di non respirare, nella folle speranza che io non la sentissi, che non la scovassi, che non la uccidessi. Avanzavo nel buio della mia stanza, con passo felpato e mano ferma; già, non vi era più differenza, per me, tra lo stringere un bicchiere d’acqua e lo stringere un coltello gocciolante. Il buio era stato, quella notte, mio complice e amico. Quattro vite spezzate da una lama affilata e impassibile, vibrante e violenta. Non aveva avuto pietà grazie alla mia sete di sangue e vendetta. Inutile nascondersi, pensavo, mentre avanzavo sempre più deciso verso l’ultima persona all’interno di quella fredda casa. Lui era lì... con gli occhi spalancati nel nero imperfetto di quella casa giunta ormai all’ultimo respiro. Non riuscivo a vedere le sue lacrime, ma le sentivo. Le sentivo bene come bene sentivo il suo orrore e la sua rassegnazione. Cosa si può, in fondo, contro un Dio? E allora che sia fatta la mia volontà, così come era stata fatta fino a quel momento, quando la notte si avviava ad una sanguinosa e silenziosa fine. Il coltello era sempre fermo ma non più gocciolante; il sangue era scivolato lungo la lama fino a formare una scia che nel buio si confondeva con 117


tutto il resto, ma che con la luce del sole che di lì a poco avrebbe avuto la sventura di illuminare tutto, sarebbe stata come una piccola strada rosso scuro da cancellare per dimenticare. Ma nessuno avrebbe dimenticato di quella notte. Nessuno. Alzai la mano sinistra come in segno di saluto beffardo, così come avevo fatto anche con gli altri quattro, impassibili e silenziosi nel loro sonno che io avevo reso eterno grazie alla mia onnipotenza. Stavolta, però, la vittima sembrò ricambiare, ma subito mi resi conto del contrario: non era un saluto, ma un gesto estremo di difesa, di implorazione, una richiesta di pietà. Io, però, non avevo più pietà quella notte, più pietà per nessuno. Finalmente riuscivo a distinguere la sagoma dell’uomo che, in quel momento, cominciò a tremare. Sorrisi, e fui sicuro che quel mio sorriso ai suoi occhi sembrò quello di un pazzo. Ma io non ero un folle, tutt’altro. Ero in quel momento la persona più lucida al mondo. Lucida e spietata, che aveva avuto finalmente modo di servire la sua vendetta... Le altre vittime, le quattro, erano state in fondo un semplice antipasto. Se vogliamo, la giusta e gustosa preparazione a quell’epilogo grandioso. Del resto, il piatto forte si lascia sempre per ultimo... Il vero obiettivo di quella notte di sangue e coltelli era proprio l’ultima vittima, quella che avevo finalmente di fronte, tremante e ansimante. Lui sapeva... sapeva di essere il gran finale. «Ed ora tocca a te...», esclamai. Ora vedevo le sue lacrime, mi erano chiare.

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«Il colpevole di tutto ciò che è accaduto stanotte sei tu, non io. Lo sai, vero?», dissi ancora, e la mia voce sembrò una voce lontana ma onnipotente. Lo era. Avevo sognato, quella notte, pochi minuti prima di cominciare la mattanza nella mia ex casa, ormai. Avevo sognato di essere un Dio, onnipotente e onnipresente, spietato e beffardo. Mi ero alzato, quindi, con la voglia di essere Dio. «In questo momento sono Dio...», esclamai, ed ebbi paura persino io della mia stessa voce, fredda e divina. Sì, in quel momento ero davvero un Dio. Ero artefice e sovrano di tutto ciò che poteva accadere nel mondo, perché il mondo è soltanto uno: il proprio. Alzai la mano destra che stringeva forte il coltello, ora non più ferma e sicura. Tremava. «Un Dio non trema...», disse l’uomo di fronte a me, in un ultimo scatto d’orgoglio prima di prepararsi a soccombere sotto i miei fendenti. Quelle parole erano ciò che servivano a far sì che l’uccidessi. Prima di commettere l’errore di affondare il coltello nello specchio che davanti a me rifletteva in un buio non del tutto netto la mia immagine, riuscii a ritrovare la freddezza che mi aveva accompagnato lungo tutta quella notte d’orrore, ed a rivolgere il coltello verso la mia gola per cercare di portare a termine la missione. Un fendente... un solo colpo. Non ebbi la possibilità di sferrarne altri. Ho sognato di essere Dio. E mi è piaciuto. 119


Ho pensato di essere Dio, una volta sveglio, e ho voluto provare... Mi sono risvegliato ancora, ritrovandomi in uno squallido letto d’ospedale, con una benda al collo, un poliziotto alla porta e una famiglia in meno. Ma Dio non avrebbe mai sbagliato l’ultimo colpo, l’ultimo atto, l’ultima vittima. Sorrido adesso, pensando di non essere stato capace neanche di calarmi nei panni del Dio del mio personale Mondo. E adesso, dunque, che Dio – quello vero – abbia pietà di me.

Di Guido Pacitto

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La Mostra Passeggiavo lungo la prospettiva fluviale e fui attratto dal cancello spalancato del Museo D'Arte Moderna della mia città. La giornata assolata rendeva piacevole il bighellonare per le strade del centro, a godere della frescura che saliva dalle sponde del fiume. Varcai la soglia del cancello per curiosità e per una naturale attrazione verso le sale di un luogo a me molto caro. Raggiunsi la scalinata e guadagnai in pochi balzi il primo piano. Le porte scorrevoli favorirono il mio ingresso nell'immenso salone illuminato dal sole e dai potenti fari alogeni collocati sulle pareti modificabili. Enormi pannelli telati su ruote dividevano gli ampi spazi espositivi. Degli inservienti stavano collocando, secondo precise indicazioni topografiche e scenografiche, delle opere d'arte moderna. La mia attenzione non fu subito catturata dalle creazioni artistiche, bensì dalla mutevolezza degli ambienti e dalla luce che li riempiva. Conoscevo bene il sovrintendente, mi vide e mi sorrise come ad autorizzarmi tacitamente a restare. Quindi mi allontanai deciso a osservare in disparte il lavoro di collocazione delle statue e la geometria cangiante dei volumi ambientali. Seduto 121


su un capitello marmoreo partecipavo, ospite clandestino, all'evento culturale. La luce solare, penetrando attraverso ampi finestroni, fendeva prepotentemente, secondo una direzione obliqua, l'oscurità della sala. Sembrava esprimere una forza veemente, come se mille potenti braccia elastiche avessero sconfitto l'angusto pertugio che voleva trattenerle, facendo esplodere di luce ogni presenza in quella sala. La polvere sollevata dal lavorio sembrava un impalpabile fluido in costante, bizzarro movimento. Le opere venivano movimentate con estrema cura, spesso in presenza dei loro creatori. D'accordo col sovrintendente veniva raggiunta la collocazione ritenuta ottimale dall'artista, frutto di interpretazioni culturali e sensibilità personali difficilmente contestabili. Le opere s'imbevevano della luce solare e artificiale che ne modificava l'immobilità trasformandola in un lento e plastico costante divenire. La mutevolezza delle ombre offriva alla sensibilità dello spettatore un motivo dinamico sempre nuovo, legato alla prorompenza della luce solare e alla fusione dello spettro naturale con il gioco cromatico delle lampade. Una prospettiva, conservata per pochi minuti, consentiva l'osservazione delle opere in movimento verso il nulla. Ma non erano sole quelle statue. Le loro ombre intersecavano i plastici movimenti in una lotta infinita. Mi alzai dal mio scranno e mi diressi verso una sala già allestita. I passi risuonavano piacevolmente amplificati, trasmettendomi l'emozione ritmica di una crea122


zione estemporanea che, in quell'ambiente, non stonava affatto. Accennai qualche accelerazione che le alte pareti restituirono come un'armonia dodecafonica. La magia del museo, come sempre, mi aveva conquistato. Cinque statue, dedicate all'uomo del terzo millennio, campeggiavano nella sala deserta. Conquistai un punto d'osservazione che mi consentisse di osservarle in un colpo d'occhio. Mi concentrai sui chiari scuri e sulle ombre. Ed ecco sotto ai miei occhi che la danza ricominciava, lenta, plastica, elegante, essenziale. Sfumature di bianco e di grigio, come un gruppo laocoontico, si possedevano e, a turno, si sopraffacevano in una perenne lotta di statuari bradipi. Ero perfettamente a mio agio, l'armonia del movimento era tale da offrire allo spettatore non solo la sorpresa relativa all'interpretazione della forma ma anche l'emozione mutevole dei giochi d'ombra che la fantasia richiamava a forme note. Un animo sensibile si sarebbe compiaciuto doppiamente di quello spettacolo. Ciò che successe a me. Appagato da tanta magnificenza mi rivolsi verso l'ampio affaccio: il sole del tramonto rosseggiava sopra i tetti della cittĂ antica mentre il fiume placidamente scivolava sotto i ponti di travertino, imbevendo l'aria dell'odore del limo. Il sovrintendente mi raggiunse, un uomo sui sessant'anni, elegante, atletico e di brillante e innovativa formazione artistica. Mi chiese, per pura accademia, se avessi apprezzato i pezzi in esposizione. 123 Â


La risposta era nei miei occhi stupiti e abbagliati dallo sfavillio dei riflessi delle statue. Il messaggio di un'opera d'arte non necessariamente deve esprimere aderenza a una corrente culturale: qualunque sia il soggetto l'invito che trasmette è ricerca di libertà. E libero mi sentivo nella magica atmosfera di quelle sale al sole del tramonto, libero e, paradossalmente, scollato da ogni credo filosofico o religioso. In fondo a cosa dovevo l'appagamento che provavo, a quale originale trappola per la mente avevo offerto la mia credulità? Alla luce del sole e alle ombre. Alla felicità basta veramente poco per manifestarsi.

Di Sergio Resta

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Gli amici dell’Arca «Ci siamo? Il timone è lubrificato? Si può togliere l’ancora?» certo Leone, rispose pronto il Cavallo che già scalpitava e non vedeva l’ora di mettersi alla guida della splendida Arca. «Il cielo è limpido e non c’è nube all’orizzonte, possiamo stare tranquilli!» rassicurò la Giraffa che come ogni volta allungava il suo collo telescopico e con un solo colpo d’occhio era in grado di fornire un infallibile bollettino meteorologico. «Anche il mare promette bene, qui sotto nessuna onda malefica, solo correnti favorevoli!» tenne ad aggiungere il Delfino che aveva già fatto numerosi salti ed immersioni per controllare la situazione. Dunque tutto era pronto e il viaggio dell’Arca cominciava nel migliore dei modi. Questa volta l’impresa sarebbe stata piuttosto ardua: gli animali avevano deciso di fare un viaggio intorno al mondo. Tutte le estati si ritrovavano per navigare insieme ma mai erano arrivati a tanto. L’idea era stata di Rondine: ogni anno quando migrava da un paese all’altro pensava che le sarebbe piaciuto portare con sé anche i suoi amici. «Potremmo andare oltre i soliti confini, il mondo è tanto grande, perché non vederlo tutto?» pensò, e quando ne parlò agli altri animali durante il Con125


vegno del Solstizio di primavera la sua proposta fu accettata di buon grado. Così, ultimati i necessari preparativi, salparono. Il viaggio si preannunciava speciale, per l’itinerario ma anche perché quella volta c’erano tutti, ma proprio tutti. Persino la Coccinella che, impegnata com’era a portare fortuna a destra e a manca, spesso si era presentata al molo in ritardo, quando ormai l’Arca era piccola e lontana. Ognuno aveva un compito preciso, il Leone sorvegliava saggio su di loro e si faceva dare consigli dall’Elefante che con le sue grandi orecchie sapeva ascoltarlo attentamente e con pazienza. «Mi pare di vedere un velo di tristezza negli occhi di Mamma Scimmia, tu che dici?» «È vero caro Leone, ma da quando i suoi gemelli si sono persi nella giungla non si dà pace. Erano due vispi e curiosi scimmiotti che un giorno hanno deciso di giocare a saltare da un albero all’altro fino a che si sono talmente allontanati da non riuscire a trovare la strada del ritorno. Tutta la giungla si è mobilitata senza ottenere alcun risultato. Sono svegli e capaci, sicuramente sapranno cavarsela ma lei da allora non è più la stessa…» «Povera Scimmia, potrei affidarle i giovani Leprotti, camminano appena e lei occupandosi di loro si sentirà utile.» «Bravo! Bella idea Leone!» Il Leone era buono. Nonostante l’espressione a volte severa e il carattere forte cercava sempre di mettersi nei panni dell’altro e di comprenderlo; per questo era stimato e rispettato. Non per tutti era facile seguire le sue direttive, c’era chi, testone come lui, faticava a scendere a compromessi. Era il caso della Tigre. Voleva avere 126


sempre l’ultima parola ed era convinta la ragione fosse dalla sua parte ma poi quando il Leone, deciso diceva «Si fa come dico io!», in cuor suo sapeva che poteva fidarsi. Sull’Arca le cose procedevano pacifiche e ciascuno si dava un gran daffare affinché tutto filasse liscio. Dopo un paio di settimane di mare aperto, arrivarono a costeggiare una grande striscia di terraferma. «Finalmente! Non vedevo l’ora di sgranchirmi le gambe e conoscere un po’ di gente.» esclamò la Zebra che col suo sorriso magnetico e il mantello psichedelico faceva sempre colpo su chi incontrava. Attraccarono e cantando in coro “Zampe, zoccoli o due ali, stiamo insieme allegramente, un bel gruppo di animali, non ci ferma proprio niente!” scesero dall’Arca dirigendosi verso il centro abitato. La Farfalla faceva strada e insieme formavano una gran bella squadra. Il paese, Sospiro, non era vicino come credevano e dovettero camminare a lungo prima di arrivarvi. Ma avevano tutti buone zampe o buone ali e la curiosità di scoprire volti nuovi era così forte da non far sentire la fatica. Quando entrarono nel villaggio una cosa balzò immediata ai loro occhi: in quel paese non c’erano colori. Solo due tinte ricoprivano ogni cosa, il grigio e il nero. Le case non si distinguevano l’una dall’altra, formavano un unico muro uniforme e i prati circostanti, scuri come l’ebano, erano aridi e spogli. «Ma dove siamo finiti? Sembra d’essere caduti nell’ombra più tetra!» «È vero, che desolazio127


ne e poi è estate e qui non c’è neanche un albero, non un fiore!» Gli animali non si capacitavano d’essere capitati in un posto così cupo e tra loro prese subito piede un forte malcontento. «Scusate ma per me la cosa più strana è che non c’è neanche una persona, le case sono arredate ma vuote, dove sono gli abitanti?» domandò con apprensione e inquietudine il Gabbiano esploratore. Effettivamente le strade erano deserte e dalle abitazioni non arrivava alcun rumore. Sembrava un paese fantasma. «Si, è davvero molto strano… Facciamo un giro d’esplorazione per capire meglio cosa sta succedendo…» disse saggio il Leone toccandosi la criniera, gesto che accompagnava sempre le sue riflessioni. Così si sparpagliarono battendo a tappeto l’intero villaggio ma non c’era anima viva. «Tranne noi, qui non c’è neanche mezzo animale!» Si fermarono per tre giorni e tre notti cercando una risposta alle loro domande e sperando che prima o poi qualcuno arrivasse. Ma niente, non succedeva niente. Per fortuna la luna piena dava luce a quel nero diffuso e di giorno un pallido sole rischiarava l’immenso grigiore. Convennero, rassegnati, che era giunto il momento di andarsene visto che la situazione non cambiava. Tornarono sui loro passi in silenzio, questa volta nessuno aveva voglia di cantare. Ma ad un certo punto, di colpo, il Serpente strisciante urlò: «Sento qualcosa! Sento delle strane vibrazioni sotto la mia pancia, ecco si, qui vicino a questo grosso faggio!» Le sue parole richiamarono l’attenzione di tutti anche di chi era già piuttosto avanti. In un baleno 128


si ritrovarono intorno al faggio, senza fiatare, immobili per scorgere anche il minimo segnale. Era vero: lì sotto c’era qualcosa che faceva sussultare lievemente la zona e sembrava quasi di sentire anche dei rumori. «Dobbiamo spostare il faggio!» affermò deciso il Leone. «Spostare il faggio? Ma avrà duecento anni ed è grosso come una montagna, non ce la faremo mai…» «Siamo o non siamo un gruppo? Forza, insieme ci riusciremo!» Formarono due lunghe file, una pronta a spingere, l’altra a tirare, ma non appena toccarono il grande albero questi si spostò. Non pesava affatto, anzi, percuotendo il tronco scoprirono che risuonava come fosse vuoto. A ben guardare, l’intero albero aveva qualcosa di strano, le foglie, la corteccia, i rami. «Ma è finto!» esclamarono all’unisono e avevano ragione, il faggio era perfetto e proprio questa perfezione li aveva tratti in inganno. Il tronco era slittato lateralmente lasciando a terra delle false radici e lì sotto, nel centro, c’era un profondo buco, tanto profondo da non poterne vedere neanche la fine. «Ohh!» rimasero tutti sbigottiti e sempre più disorientati. Dove portava quel pozzo buio e senza fondo? In un attimo si creò una gran confusione, molti rimasero impressionati e in preda alla paura c’era chi voleva darsela a gambe levate; chi aveva le ali cominciò a sbatterle rapidamente e chi era più piccolo di una noce si nascose immediatamente dietro arbusti e fili d’erba. Il Leone e il buon Elefante, invitarono gli animali a mantenere la calma. «Non agitatevi così! Scopriremo di cosa si tratta e dal momento che 129


siamo in tanti e uniti, non potrà succederci niente. Dobbiamo trovare un modo per entrare in questo buco e vedere che c’è là sotto.» «Mi sembra evidente sia arrivato il nostro momento.» disse senza scomporsi la Tartaruga rivolgendosi alla Lucertola, al Lombrico, alla Lumaca e a tutti gli altri piccoli amici. «In effetti ha ragione… solo loro possono entrare in quel cunicolo…» disse l’Ippopotamo un po’ amareggiato. «Noi staremo qui fuori ad aspettarvi con le orecchie incollate per terra pronti a darvi il nostro aiuto nel caso ce ne fosse bisogno!» replicarono decisi gli altri grossi quadrupedi. Così gli audaci partirono per la loro spedizione calandosi nel sottosuolo. Scendi, scivola, striscia, dopo un bel po’ finalmente il viaggio volse al termine: il pozzo si slargava aprendosi su uno scenario inaspettato e meraviglioso. Case colorate, aiuole dai fiori dipinti, alberi di cartone e di legno ricoperti dei più invitanti frutti di stoffa. Ovunque ti giravi, sembrava d’essere in mezzo all’arcobaleno. Lì sotto c’era anche un sacco di gente! Parevano essere tutti di buon umore e quando videro arrivare quel nutrito gruppo di animali li accolsero con uno scrosciante applauso e grandi sorrisi. I bambini non stavano più nella pelle: «Finalmente degli animali!» Da parte loro, Tartaruga e compagnia furono lusingati da tanto calore ma non capivano dove fossero capitati. «Per mille lucciole, ma… qui c’è una città sotterranea!» «Si cari animali, questa è la nostra città.» disse calmo l’uomo dalla barba e i capelli bianchi come la neve. «Perché siete qui sotto?» «È una lunga storia… se volete possiamo raccontarvela.» «Certo, vi ascolteremo con attenzione.» 130


Si sedettero all’ombra disegnata di un ciliegio di cartoncino e il vecchio prese a raccontare. «Un tempo vivevamo a Sospiro, un villaggio tanto bello che chiunque vi arrivasse non poteva fare a meno di sospirare alla vista di quello spettacolo incantevole. I profumi dei fiori si confondevano con quelli dei frutti, i colori delle case spiccavano nel cielo azzurro come macchie di tempera sulla tavolozza di un pittore. Le nostre giornate passavano liete e in armonia fino a quando da un certo giorno in poi diventammo il bersaglio di un malvagio gruppo di briganti che scoperta la bellezza di Sospiro e soprattutto la nostra serenità, per invidia, decisero di toglierci ogni cosa. Cominciarono a privarci di ciò che era nelle case, poi saccheggiarono le strade, portarono via tutti gli animali e bruciarono le coltivazioni. Ma non erano mai contenti, questo non bastava. Con il passaparola fecero sapere ad altri cattivi come loro che qui c’era gente felice da rendere triste, così sistematicamente ogni mese arrivavano per farci del male. Trattavano in malo modo gli anziani, facevano lavorare duramente i bambini e urlavano dando ordini a tutti. La nostra vita era diventata un inferno, eravamo paralizzati dalla paura sia quando quei tremendi individui camminavano per le nostre strade sia quando non si trovavano qui e non sapevamo quando sarebbero tornati. Ci sorprendevano sempre di notte senza darci la possibilità di reagire in modo efficace. L’ultima volta si sono portati via persino i colori e a quel punto abbiamo deciso che era troppo e che il mese successivo non ci avrebbero più trovati. L’unica soluzione era costruire una città sotterranea che ci proteggesse dalle loro angherie permet131


tendoci di ritrovare la pace e la voglia di vivere. Dunque, ecco qui il nostro nuovo villaggio.» «È bellissimo ma… manca qualcosa di prezioso!» affermò sicura la Lucertola. «Manca il sole che scalda i vostri cuori!» «Sono d’accordo» si associò il Riccio «e poi non si può vivere nascondendosi.» disse ancora mentre gli aculei gli si rizzavano nervosamente sul dorso. «Non abbiamo alternative, cari animali, ne abbiamo passate troppe, adesso vogliamo stare in pace e solo qui ci è possibile.» rispose rassegnato il vecchio. «Venite con noi sulla superficie, altri amici ci aspettano e insieme vi aiuteremo, coraggio, fidatevi!» dissero a gran voce gli animali. Nonostante si fossero ormai abituati a vivere lì sotto, gli abitanti di Sospiro erano molto desiderosi di vedere nuovamente la luce, sentire il calore del sole e le carezze del vento. Anche se con timore, accettarono e decisero che sarebbero risaliti verso l’esterno. La scalata fu segnata da un entusiasmo generale, c’era davvero la speranza di potersi riappropriare della libertà perduta. Nel momento in cui animali e persone si trovarono insieme accanto a quel faggio finto che tanto bene aveva custodito un così grande segreto, l’emozione fu forte. Trascorsero la notte a raccontarsi, conoscersi e studiare un piano per permettere agli abitanti di Sospiro di riprendersi la loro vita e per punire i briganti quando fossero tornati alla carica. Il Leone aveva un’idea… «Partiremo tutti sulla nostra Arca, continuando insieme il viaggio che avevamo cominciato. Verrete con noi, vedere un po’ di mondo dopo settimane costretti sotto terra non potrà che 132


farvi bene.» «E i briganti?» domandò spaventato un bambino. «I briganti se la dovranno vedere con… nuvole e mare!» «Certo saremo felici di riservare loro uno speciale benvenuto… Potete contare su di noi, daremo sfogo a ciò che di meglio sappiamo fare!» tuonarono le nuvole dal cielo supportate dalla voce di grosse onde che facevano loro da eco. Così animali e persone salirono sull’Arca, il Cavallo si mise nuovamente al timone e finalmente presero il largo. Quando distavano ormai parecchie miglia dalla terraferma, la Giraffa annunciò loro che dall’alto vedeva un nutrito gruppo di malvagi che si dirigeva verso Sospiro. Prontamente il cielo si oscurò sulle teste di quei farabutti, divenne nero come il carbone e le nuvole presero a soffiare tanto forte da sollevarli da terra come fossero marionette. Il mare si increspò e le sue acque arrabbiate toccarono quelle del cielo in una confusione di gocce giganti. I briganti vennero sbalzati da ogni parte, le loro urla disperate erano schiacciate dalla furia del vento che non dava tregua e che, complice di un diluvio senza precedenti, li divorò in un solo boccone. Di loro non si ebbe mai più alcuna notizia. Intanto l’Arca navigava pacificava dalla parte opposta del mare. Gli animali ripresero a cantare a squarciagola e gli abitanti di Sospiro si guardavano intorno con curiosità infinita, catturando con gli occhi quanti più colori potevano per riportarli un giorno nel loro piccolo villaggio. Di Alessandra Simona Columbaro 133


Conto alla rovescia TRE – Tristezza, paura, speranza La valigia era pronta. Aveva riposto con ordine le poche cose che poteva portare con sé. «Questo» pensava «potrà essere di buon auspicio per il viaggio che dovrò affrontare.» Insieme a delle buone scarpe e a qualche camicia, chiuse nella valigia anche le emozioni che si alternavano dentro di lui, in una danza senza fine. La tristezza per quello che stava lasciando, la paura di un futuro sconosciuto, la speranza di riuscire a cavarsela. Le spinse dentro con forza, cacciandole sotto tutto il resto, quasi a volerle allontanare da sé. Nithanda sapeva che non aveva alternative, doveva partire. «Il tuo nome ti porterà fortuna caro nipote» gli diceva fiduciosa la nonna, ricordandogli che la “stella” è luminosa e schiarisce il cammino. Nithanda voleva crederle, anche se sapeva bene che portare un nome felice non bastava: all’età di due anni dovette salutare il padre che partì come stava per fare lui ora. Lasciò fuori dalla valigia certi ricordi pesanti, pensieri che erano d’ingombro.

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Quando scese la luce del tramonto e la nave cominciò a scaldare i motori, il cuore prese a battergli forte. Il momento era arrivato. Si imbarcò senza voltarsi per nascondere le lacrime che continuarono a rigargli il volto ancora a lungo. Solo quando la terra ferma sparì all’orizzonte, Nithanda riuscì ad addormentarsi. DUE – Forza, pazienza Era strano trovarsi in mezzo all’immensità dell’Oceano che si confondeva con quella del cielo. Intorno non c’erano riferimenti con cui misurare lo scorrere del tempo e la velocità dello spostamento. Sembrava di essere sempre nello stesso punto e che il tempo non passasse mai. Il profumo della sua terra, lo scrosciare delle cascate, lo sguardo intenso di sua madre restavano impressi dentro di lui dandogli la forza per affrontare la nuova vita. I pensieri più diversi attraversavano la sua mente, tornava al passato, alle corse fatte da bambino, alla festa del villaggio. «Ora cosa ne sarà di me?», si domandava senza sapersi dare una risposta. Ci voleva pazienza, la pazienza di chi si mette nelle mani del proprio destino. Ma non era solo, c’era chi lo aveva preceduto in quest’avventura e lo aspettava dall’altra parte del mare. 135


Le onde sbattevano sulle pareti della nave con forza, il sole scaldava la pelle. Quando si alzò un vento deciso, insistente, Nithanda si accucciò in un angolo tenendo le ginocchia al petto e chiudendosi su se stesso. Un bambino gli si avvicinò chiedendogli il suo nome. Si sedette vicino a lui e provò anch’egli a tenere le ginocchia al petto, quella strana posizione lo divertiva. «Mi chiamo Nithanda.» «Raccontami una storia.» disse il piccolo con curiosità. Allora Nithanda cominciò con la fiaba del “Pappagallo intelligente”. Il suo nuovo amico ascoltava rapito quelle parole e rimase immobile per tutto il tempo del racconto. Quando la storia finì, subito arrivò una nuova richiesta: «Raccontamene un’altra.» Ma non fece in tempo a chiedere che la mamma si avvicinò loro: «Non disturbare questo giovane, lascia che si riposi!» Nithanda la rassicurò dicendole che non l’aveva affatto disturbato, anzi era stato un piacere distrarsi parlando un poco con qualcuno. La donna dunque lo invitò a seguirla in fondo al ponte, dove l’aspettavano il marito ed altri due piccoli bambini. Continuarono il viaggio insieme, condividendo il cibo che avevano con sé e i sogni nascosti nel loro cuore.

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UNO – Accoglienza Quando, dopo giorni, la nave attraccò, Nithanda e la famiglia con cui aveva trascorso quel tempo di passaggio tra due vite si salutarono stringendosi in un prezioso abbraccio. Era come se si conoscessero da sempre e, sebbene le loro strade si dividessero, si trovavano ora di fronte allo stesso, ignoto futuro. Il porto era affollato e caotico, in fondo ai capannoni che fungevano da magazzino per la merce partiva una strada che si dirigeva verso la città. Nithanda si avviò in quella direzione, tenendo in una mano la valigia e nell’altra il foglio su cui aveva scritto l’indirizzo di chi l’avrebbe ospitato. Dovette camminare a lungo ma le sue giovani gambe non erano stanche. Uscito dalla città, arrivò nel paese ai piedi della collina prima che si facesse sera. Lo accolsero con affetto, questo fu il dono più bello e quando aprì la valigia riuscì a non essere travolto dalla paura che aveva nascosto sotto tutto il resto. Cenarono intorno ad un tavolo apparecchiato con semplicità. I bambini erano vivaci e con le loro voci spezzavano il delicato silenzio, contenitore di parole inespresse. Passò quella notte e le successive in un piccolo letto di fortuna. I giorni seguenti volarono, come mai si sarebbe immaginato. 137


Era curioso e a volte un poco impaziente, sentiva la spinta ad andare avanti, a non arrendersi. Doveva trovare lavoro. Si rivolse ai proprietari di alcune fabbriche, tornò al porto, andò fino ai magazzini generali. Per il momento nessuno aveva bisogno di lui. Nithanda non voleva perdersi d’animo. Pensava al padre e cercava l’ombra delle sue impronte per ripercorrerle, per sentirsi accompagnato in quel nuovo e difficile cammino. ZERO - ? L’aria salmastra pungeva il naso e la calura estiva aveva passato la staffetta al freddo dell’inverno. Nithanda non aveva certezze, non poteva fare progetti. Viveva nel presente e il domani restava un interrogativo senza risposta. Mentre intorno a lui tutti correvano per prepararsi al Natale che stava per arrivare, il suo cuore era sospeso in una dimensione senza tempo. Non era più là, nella sua terra, ma non si sentiva ancora parte del paese in cui era giunto. Le luci sfavillanti sugli abeti colorati illuminavano ad intermittenza l’intrecciarsi confuso delle sue riflessioni. Quante volte ancora l’alba sarebbe stata per lui inizio di una giornata senza contorni? Tornava con la mente alla favola del “Pappagallo intelligente” e un sorriso accennato gli accarezzava il viso: «Se un piccolo pennuto ha trovato il 138


modo di sopravvivere alla siccità, forse anche io ce la posso fare…» si consolava Nithanda incoraggiandosi da solo. Il ritmo delle giornate e dei suoi pensieri era scandito dallo scambio tra il sole e la luna che si stringevano la mano affettuosamente. Di sera lui usciva nel prato antistante la casa e guardava il cielo cercando tra le stelle la “sua” stella, Nithanda, quella che come diceva la nonna, avrebbe illuminato il suo cammino.

Di Alessandra Simona Columbaro

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Le tre imprese di Claretta I In una valle verde e soleggiata, chiusa tra due file di monti aguzzi, c’era, tanti anni or sono, un minuscolo paese di contadini: venti casette in tutto, disposte ordinatamente intorno all’unica piazza lastricata di pietra bianca. Per la verità le case erano ventuno, solo che la ventunesima era un po’ discosta dalle altre. Si trovava infatti ai margini del bosco, ai piedi di un larice centenario e, a ben guardare, si sarebbe detta piuttosto un magazzino o un ricovero per le mucche. Vi abitava una famiglia di contadini, madre, padre e tre figlioletti, poveri, ma così poveri che, quando andava bene, mangiavano ogni due giorni. Mentre i genitori erano impegnati nel lavoro dei campi Claretta, la bimba più grande, si prendeva cura dei fratellini. Li conduceva nel bosco, insegnando loro a distinguere ogni specie di fungo commestibile e di erba medicamentosa; quando faceva brutto tempo, li intratteneva presso il focolare con storie meravigliose di re, regine e cavalieri intrepidi. 140


I suoi racconti avvincenti riuscivano a distogliere i fratellini dalla fame e dagli stenti al punto che, cullati dalla voce della sorella maggiore, essi si addormentavano dimentichi della cena che avevano saltato. Ma Claretta nel profondo provava una gran pena; così ogni sera saliva in soffitta a guardare il cielo e affidava ad una stella i suoi sospiri. «Quanto ancora potremo andare avanti a questo modo?» si domandava sfiduciata, mentre la prima neve imbiancava gli alberi, i campi e i tetti rossi delle case. Un giorno accadde però qualcosa di sensazionale. Claretta era scesa al fiume a fare il bucato. China sulle ginocchia, spazzolava con energia una maglia di lana grezza quando un uccellino con le piume striate di azzurro, posatosi sulla sua spalla, le sussurrò in un orecchio, per due volte: «Corri al lago Claretta, ma fai in fretta» Quindi, volò verso il ramo più alto di un abete rinsecchito. Un uccello che parla non è cosa che si veda tutti i giorni. Perciò Claretta non ci pensò su nemmeno un istante e cominciò a correre a rotta di collo. Raggiunta che ebbe la radura dove il fiume si allargava in un grande specchio d’acqua, il volto paonazzo e le trecce disfatte, ella udì un grido d’aiuto levarsi proprio dal centro del lago: si tuffò così com’era vestita e con poche, vigorose bracciate, andò e tornò indietro, tenendo stretto a sé un bimbo intirizzito e gocciolante. Questi era l’unico figliolo del mugnaio il quale, in segno di riconoscenza per l’avvenuto salvatag141


gio, offrì a Claretta, da allora e per sempre, pane, farina, orzo e crusca. II Felice di sapere che i suoi fratellini non avrebbero più sofferto la fame, ciò non di meno Claretta era angustiata nel vedere come fossero consunti i loro vestiti, che avevano più buchi che stoffa. «L’inverno è alle porte, la casa è piena di spifferi e la legna comincia a scarseggiare», sospirava sconsolata. Ma ecco sopraggiungere di nuovo l’uccellino. Accadde un pomeriggio di fine novembre, un pomeriggio talmente gelido che persino il vecchio larice davanti alla casa sembrava contorcersi per il freddo. L’uccellino ticchettò col becco sulla finestra della cucina, dove Claretta era intenta a rimestare una zuppa di cavoli. La bimba aprì la finestra e cercò di afferrarlo. Ma quello sfuggì alla presa e andò ad appollaiarsi su un tegame appeso al muro. «Stanotte arriva il lupo, Berto ha bisogno d’aiuto!» cinguettò tutto d’un fiato. Poi infilò la finestra e scomparve fulmineo nella boscaglia scura. Claretta sapeva che Berto, il pastore, avrebbe dato qualsiasi cosa per catturare il lupo famelico che insidiava le greggi. Così quella sera, dopo aver messo a letto i fratellini, si recò a casa del pastore come le aveva rac142


comandato l’uccellino. Un po’ le tremavano le gambe, ma era sicura del fatto suo. «E così tu vorresti catturare il lupo? Questa si che è bella!» Il pastore sorrise incredulo e i suoi quattro denti d’oro brillarono nel buio; erano mesi che allestiva trappole di ogni sorta per catturare quella bestiaccia più furba d’un diavolo ed ora una ragazzina smilza, alta quanto un soldo di cacio, parlava come se ce l’avesse già in pugno. Nonostante ciò decise di darle fiducia. Le pecore furono messe al sicuro nell’ovile mentre Claretta, ricoperta del vello del più profumato degli agnellini, col cuore in gola rimase ad attendere nel recinto. Com’è come non è, il lupo sanguinario venne catturato e il pastore Berto, in segno di gratitudine, offrì a Claretta, da allora e per sempre, lana per confezionare vesti e coperte oltre che, s’intende, latte e formaggi. III Di lì a poco un’alluvione si abbatté su tutti i villaggi della regione, danneggiando irrimediabilmente le coltivazioni e provocando la morte di gran parte del bestiame. Al pensiero che i raccolti dell’anno a venire non sarebbero giunti a maturazione, Claretta non si dava pace. Ma, come sempre, ciò che le premeva di più era nascondere la sua preoccupazione ai fratellini, affinché continuassero a giocare spensierati. 143


Una notte che non riusciva a prendere sonno, Claretta avvertì un tocco lieve sulla fronte: era ancora l’uccellino! «Al mercato Claretta, siediti e aspetta!» le disse in un soffio, prima di volare via attraverso una crepa nel muro. «Che cosa mai dovrò fare questa volta?» si domandò la bimba, assai confusa. L’indomani mattina, senza dir nulla a nessuno, Claretta raggiunse il grande mercato che si teneva in fondo alla valle. Una volta arrivata, sedette sul muro di cinta di un giardino ed attese. Dopo qualche istante, un bimbo le si fece innanzi piangendo. «Non trovo più la mamma» gemette, buttandole le braccia al collo. Claretta pensò all’unica cosa che sapeva fare davvero bene: raccontare storie. E così cominciò a narrare una, due, dieci fiabe, che ebbero l’effetto di rasserenare il piccino fino a che la madre non fu giunta a riprenderlo. Intanto, intorno a lei si era formato un capannello di curiosi, piccoli e grandi; pur di ascoltarla, i venditori avevano lasciato incustoditi i loro banchi. Ad un certo punto, non senza fatica, la carrozza del re si fece largo attraverso la folla che aveva circondato la bambina. Il re in persona rimase rapito dalle storie di Claretta, che continuava a narrare per il puro piacere di intrattenere i presenti, ignara che tra questi ve ne fosse uno sì illustre. «Che compagna di giochi straordinaria sarebbe per il mio Giacomo!» pensò il sovrano. 144


Gli è che il Re aveva un figliolo della stessa età di Claretta, sempre scontroso ed annoiato perché circondato dal troppo: troppi regali, troppe ricchezze, troppe cose superflue ne avevano spento la fantasia, rendendolo apatico e privo di sogni. Pertanto, il re le chiese di trasferirsi a Corte. Avrebbe voluto accettare, Claretta, ma un pensiero la trattenne. Il re intuì e subito aggiunse: «Voi e la vostra famiglia, naturalmente, e sarete accolti con tutti gli onori!». Da allora sono trascorsi cent’anni e nessuno ha più abitato nella casetta ai margini del bosco: ma nel paese di Venticase (che oggi di case ne ha dieci volte tante) non c’è bambino che non conosca la storia di Claretta, che nei racconti degli anziani si conclude sempre così: ...e vinse la paura Claretta, coraggiosa. Allor che fu sicura di premi ne ebbe a iosa!

Di Laura Muscarà

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La fenice e altre poesie La Fenice Un luogo di lode dell’Infinito intercapedine assoluta di interezza tra le piccole miserie immature e vaghe monotone e assurde, a volte impreviste voci suadenti come canti di sirene Le dolcezze rivelate dal tempo ignaro dall’amore fugace ma benevolo sono tracce di mistero orme spalancate verso l’abisso orme spalancate verso la luce. La fenice risorge dalle ceneri: è possibile abbracciare l’insieme. Fra le entità spirituali e le sensuali fra le temporali e le eterne oceani primordiali di saggezza, al centro del cosmo sintesi e opposti: un cuore inquieto e un cuore che ama.

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Distanti … vedo cieli infuocati inabissarsi oltre l’orizzonte dei miei pensieri e io vagabondo solitario mi aggiro tra gli abissi dell’amore sommerso dalle onde impetuose nuoto in compagnia di sirene e tritoni ammaliato da voci e dal nettare d’amore come sempre mi aggiro desolato per le correnti i flutti sbattono contro i battiti del cuore e della vita non riesco a vedere la luce distante… Fragilità Sento la fragilità dell’uomo il senso delle cose che cambia la sicurezza del passato svanire lontano con il tramonto che appassisce. Sento la fragilità dell’uomo camminare ancora insieme al desiderio di felicità. Insieme. In questo deserto di solitudine sopra il male sopra il bene la vita è alchimia, complesso intreccio di errori e perdoni. 147


Sento la fragilità dell’uomo camminare ancora insieme al desiderio di felicità. Insieme.

Di Giuseppe Marino

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Empatia e altre poesie EMPATIA Ostile alla solitudine, maschera il suo viso nei meandri di un amore intenso ma costrittivo, con la spensierata necessità che nasconde nel sorriso delle sue burla. ADDIO Il sensuale profumo del vento, il sole fiammeggiante al tramonto, una fresca rosa appassita... La confusione, il treno dell’addio, un avido consiglio e nella mente, il solo ricordo di una risposta. 149


MUSICA La mia mente.. libera al solo triste e malinconico suono della mia anima. Sinfonia che risuona come eco, voci lontane che invocano perdono e una dolce melodia che risuona continuamente nel mio cuore. IO E TE Non te ne andare… pazzo di gelosia e irrimediabilmente solo. “Le nostre anime si rincontreranno un giorno, legate dal suono di un’onda di ricordi”. Osserva le mie gote arrossate. Stringi le mie mani, bacia le mie lacrime, ridi il nostro amore.

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SOFFIO DI VENTO Il cielo si rattrista tra le spumose nuvole grigie, uno stormo di uccelli si allontana in volo e gli alberi oscillano in un unico ritmo. Leggero e flebile mi attraversi, e ti allontani sussurrandomi melodie all’orecchio. Accarezzi freddo i miei capelli, gelandomi il viso colmo di lacrime. Un attimo ancora di silenzio, nell’attesa del prossimo soffio di vento.

Di Giulia Boccanera

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Il bosco della paura Sofia si trovava fuori casa per la solita passeggiata con l’inseparabile schnauzer di nome Jack; avevano l’abitudine di camminare un po’ insieme tutti i giorni, era diventata una passeggiata di rito, se per un qualche motivo non si poteva fare mancava a tutti e due. Ad un certo punto si sentì un urlo provenire dal bosco; la prima tentazione di Sofia fu quella di chiamare qualcuno e andare a vedere cosa fosse successo, ma Jack, da sempre curioso, iniziò ad abbaiare e a tirare in direzione del grido. Dopo qualche minuto di corsa nel bosco arrivarono ad una radura dove si fermarono, Sofia in preda al terrore, perché vide il corpo di una donna sdraiato, e a lato una macchia di sangue. Avvicinandosi si accorse che era una ragazza giovane, dall’apparente età di 20 anni, ed era ancora viva! Non sapeva cosa fare, il cellulare in quella posizione non aveva segnale, occorreva assolutamente chiamare soccorso. Il respiro della ragazza non era troppo affannoso, il cuore sembrava battesse regolarmente, il sangue proveniva da una ferita alla testa, che ad un primo esame non era troppo profonda. Sofia prese subito la decisione di lasciare la ragazza insieme a Jack mentre andava a cercare aiuto. Dopo un tempo che a lei sembrò interminabile 152


arrivò a Ripoli, una borgata di case sull’Appennino bolognese. Davanti all’unico bar c’erano i soliti pensionati che giocavano a carte, era estate e quindi erano nello spazio all’aperto, lì finalmente poteva chiedere soccorso. «Aiuto, ho bisogno di aiuto, c’è una ragazza ferita nel bosco a un paio di chilometri da qui, l’ho lasciata lì con il mio cane, ma bisogna andarla a prendere!» Berto, il più anziano del gruppo, fu il primo a risponderle: «Dimmi ragazza, ma ce la facciamo noi? Non è meglio chiamare un’ambulanza?» «Non è ferita gravemente, è meglio chiamare il pronto soccorso, ma finché non arriveranno passerà troppo tempo, portiamola qua, fra un’ora sarà buio, sbrighiamoci, per favore almeno tre persone saranno necessarie, potete venire?» «Vengo io» disse Berto, uno dei giocatori, e a quel punto anche altri due del gruppo si alzarono dando la propria disponibilità. «Prendiamo la mia macchina» disse Berto, è parcheggiata qua di fronte. Salirono tutti e quattro sulla 4x4 di Berto e si avviarono verso l’imbocco del bosco che gli aveva segnalato Sofia, nel frattempo però il barista chiamava il pronto soccorso per far arrivare all’uscita del bosco un’ambulanza. Sofia, Berto e gli altri correvano, dopo aver parcheggiato l’auto, avevano paura che calasse il buio; man mano che si avvicinavano al punto dove aveva lasciato Jack e la ragazza aveva sempre più timore di non saper ritrovare il posto esatto o che addirittura fossero spariti sia il cane che la ragazza. 153


Ad un certo punto si sentirono dei latrati, Sofia iniziò a correre seguita dai non più giovanissimi accompagnatori e dopo circa due minuti arrivarono dove c’era Jack che abbaiava forsennatamente contro un uomo che impugnava un grosso coltello con il quale stava cercando di neutralizzare il cane. Erano stati proprio stupidi a non portarsi dietro nessun attrezzo per difendersi da eventuali aggressori, però erano in quattro, d’accordo non tutti molto giovani, ma numericamente erano superiori. Quando l’uomo li vide arrivare cercò di scappare, ma Jack si lanciò all’inseguimento e arrivandogli a portata di denti, gli afferrò un lembo dei pantaloni. L’uomo cercava, scalciando, di liberarsi del cane, ma questo rallentò la sua corsa, infatti Sofia lo aveva già raggiunto, seguita a ruota dai tre giocatori di carte. Riuscirono ad immobilizzarlo e a prendergli il coltello. Lo riportarono quindi indietro fino a dove c’era ancora la ragazza, che nel frattempo si era seduta e stava cercando di rialzarsi in piedi, senza grossi risultati. Quando li vide arrivare con l’uomo trattenuto da Berto e i suoi amici iniziò a tremare. «Accidenti a te, ti farò fuori prima o poi» disse l’uomo rivolgendosi alla ragazza ferita. «Non credo proprio mio caro, lo apostrofò Sofia, anzi ti conviene raccontarci perché la vorresti uccidere, ma forse è meglio che tu lo racconti alla Polizia.» «No, ve lo racconterò io, disse la ragazza ferita; mi chiamo Elena e quest’uomo mi ha rapito per chiedere un riscatto alla mia famiglia, prima è di154


ventato mio amico, poi mi ha fatto innamorare di lui, finché non ha pensato bene di inscenare questo rapimento che doveva finire con la mia uccisione, in modo che non potessi raccontare chi era stato a rapirmi. Mi ha portata qui da Milano, dove vivo con la mia famiglia, tre giorni fa, mi ha fatto camminare bendata per i boschi per ore finché non siamo arrivati al suo nascondiglio che si trova qua vicino, è un posto dove c’è un tratto di strada pavimentato con pietre romane…» «Ma è la vecchia Flaminia militare di epoca romana, conosco le persone che l’hanno scoperta 20 anni fa, è vicina a Monghidoro, non è poi tanto vicino, per quanto tempo hai camminato per arrivare fin qui?» le chiese Berto. «È da questa mattina che sto camminando, all’inizio pensavo che non mi trovasse, poi oggi pomeriggio mi ha raggiunta, è riuscito a trovare le mie tracce nel bosco, quando ho sentito dei passi in lontananza mi è preso il panico, ho iniziato a correre, quindi ho fatto rumore, gli ho servito io praticamente il piatto caldo, mi è arrivato dietro in pochissimo tempo, ho iniziato ad urlare ma lui sembrava pazzo, voleva uccidermi con il pugnale, però è stato disturbato dai rumori che hanno fatto la ragazza con il suo cane, ha fatto solo in tempo a ferirmi non tanto gravemente, io sono svenuta alla vista del sangue e lui è fuggito.» «Andiamo, ce la fai a camminare Elena? Dobbiamo arrivare alla strada dove dovrebbe già esserci l’ambulanza che ci aspetta. Berto, ce la fate a portare anche il nostro rapitore?»

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«Certo, e se non viene con le buone gli sguinzagliamo dietro Jack, che lo sta già guardando in cagnesco.» Faceva già quasi buio quando arrivarono al posteggio della Panda, un’ambulanza stava arrivando e si fermò vedendoli sbracciarsi. «Ci hanno segnalato un ferito in questa località, disse l’autista dell’ambulanza.» «È questa ragazza, è ferita, ci sembra, in modo non grave; il suo aggressore, che è questo ragazzo, l’ha inseguita con un coltello e le ha procurato alcuni tagli. Lui l’aveva rapita, ma lei è riuscita a scappare, bisognerebbe chiamare la Polizia.» «Ci penso io, nell’ambulanza abbiamo la radio collegata con il 112, disse l’autista.» «Arriverà al più presto una pattuglia, sono in autostrada vicino a Rioveggio, massimo tra mezz’ora dovrebbero essere qui; qualcuno di voi vuole venire per accompagnare la ragazza al pronto soccorso?» «Potrei venire io», disse Sofia, «però devo caricare anche il mio cane, non posso lasciarlo solo.» «Non può salire dietro, lo carichiamo in cabina, il problema sarà in ospedale, non credo che lo facciano entrare.» «Va bene, intanto andiamo poi vedremo quando siamo là; Ciao Berto, restate voi qua fino all’arrivo della Polizia?» «Non c’è problema, vai tranquilla Sofia, e in bocca al lupo Elena.» «Dammi il tuo numero di cellulare Berto, ti richiamo per sentire com’è andata, poi forse la Polizia dovrà interrogare anche me.» 156


Berto diede il suo numero di telefono a Sofia, quindi si salutarono con l’accordo di risentirsi per le novità. Quando l’ambulanza arrivò in ospedale a Castiglione dei Pepoli i medici del pronto soccorso riscontrarono solo lievi ferite, anche le radiografie confermarono l’assenza di altri problemi; Elena volle avvisare immediatamente la sua famiglia, suo padre e sua madre le dissero che sarebbero partiti immediatamente per Bologna, sarebbero arrivati nella notte, ma tanto Elena sarebbe stata tenuta ricoverata in osservazione fino all’indomani, in attesa anche che la Polizia venisse ad interrogarla. Sofia era rimasta nell’atrio con Jack in attesa di notizie; prima telefonò Berto per passarle l’agente Pagliasecca che le disse di non uscire dall’ospedale, sarebbe venuta una macchina a prenderla per portarla al commissariato per le domande di rito. Mentre aspettava fece il punto della situazione e si ritenne soddisfatta da come erano andate le cose, grazie al suo cane aveva contribuito a salvare quella ragazza che forse avrebbe potuto morire se lasciata nelle mani di quel ragazzo. Arrivò la macchina della Polizia e si ritrovò al commissariato insieme a Berto, i giocatori di carte e il rapitore di Elena che era crollato, stava piangendo e raccontando la sua versione dei fatti. Era disperato per dei debiti di gioco che aveva contratto, per caso aveva conosciuto Elena, si era fatta strada nella sua mente l’idea del rapimento per chiedere un riscatto, sapeva che il padre di Elena stava bene economicamente, era proprietario di una piccola azienda che produceva sanitari; la 157


cifra che avrebbe chiesto non era altissima, gli serviva solamente per chiudere con i suoi aguzzini che erano arrivati a minacciarlo. Alla fine dell’interrogatorio erano già le 2 di notte, si salutarono tutti sfiniti, tranne Romeo il rapitore, gli altri se ne tornarono a casa. La mattina dopo Sofia andò in ospedale per vedere come stava Elena, che la accolse entusiasta di presentarla ai suoi genitori: «Questa è la mia salvatrice, ma dove hai lasciato il tuo cane? In fondo è merito suo se sono qui con così poche ferite.» «Non potevo portarlo in ospedale, ti aspetto a casa mia per salutarlo quando ti dimetteranno, poi tornerò a trovarti a Milano, adesso vado a vedere se Berto e gli altri stanno esagerando con i loro amici al bar su quanto è successo ieri, sai per questi piccoli paesi un avvenimento come questo può far parlare per mesi!» Sofia salutò tutti con la promessa di rivedersi presto, prese la macchina e andò a Ripoli a vedere cosa stava succedendo al bar “Quattro gatti”; trovò Berto che stava tenendo un comizio davanti ad una folla estremamente incuriosita e orgogliosa di avere partecipato con un suo compaesano alla liberazione della ragazza rapita e all’arresto del suo rapitore. Quando Berto vide Sofia chiese a tutti di restare in silenzio e la presentò come compagna del loro salvataggio e fece un annuncio a tutti: «Devo dirvi che insieme a Poldo (il gestore del bar), abbiamo deciso di cambiare il nome, dal prossimo mese sull’insegna ci sarà – BAR Quattro gatti e un cane.» 158


Risero tutti e dopo i brindisi di rito si salutarono con la promessa che la prossima volta sarebbe andato anche Jack, visto che aveva una citazione sull’insegna dell’esercizio commerciale più frequentato del paese.

Di Angela Lipparini

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