Specchio d'acqua

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A tutti i pionieri e alle loro famiglie che con forza e coraggio hanno reso l’Agro pontino fertile e abitabile.



PROLOGO Nonno Mario indossa la sua divisa da soldato e porta ai piedi un paio di stivali di cuoio consumati dalle disavventure della guerra. Vigila sul vecchio podere da una fotografia che qualcuno ha appeso sul pianerottolo. Nell’immagine del nonno si riassumono le disav‐ venture della guerra, le fatiche della bonifica e l’or‐ goglio di una terra fertile e rigogliosa. Questa storia comincia proprio con la sua fatica, un impegno che a un certo momento è sembrato inutile, perché con la scomparsa del patriarca la sua famiglia, un tempo patriarcale, operosa e collabora‐ tiva, ha rischiato di sgretolarsi e di lasciarsi sopraf‐ fare dall’egoismo. Ma quel nonno che chiamava Disola «luce dei miei occhi» ha insegnato in pochi anni alla nipote come aggirare questo pericolo: con il giusto senso del passato, con una memoria che guarda sempre avanti. Perché è proprio nella trama dei ricordi che si riannodano giorno dopo giorno, senza fretta, si‐ lenziosamente, i fili del futuro, del presente e del passato, e che le cose prima oscure diventano più chiare, anche se ci vogliono molto tempo e molti sforzi. E al centro dei ricordi, nel loro cuore, ci sono i nomi di ogni persona, che sono la vera prova del le‐ 7


game tra diverse generazioni: un filo capace di con‐ tinuare anche al di là del tempo e della morte. Di‐ sola sa che è per questo che ogni componente della sua famiglia possiede ancora oggi un soprannome e che i nomi degli avi vengono passati di generazione in generazione: e i più cari sono proprio quelli delle persone che già da vive sono state capaci di farci da angeli custodi, come la bisnonna, che portava lo stesso nome di Disola ma che tutti chiamavano af‐ fettuosamente Angelina, o come nonno Mario, chia‐ mato da tutti Pico per il suo più grande pregio: la sua formidabile memoria.

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MARIO Nel 1927 i Consorzi di Bonifica dell’Opera Nazio‐ nale Combattenti iniziano il prosciugamento delle Paludi pontine, parte di un vasto piano di coloniz‐ zazione della zona voluto dal regime di Mussolini. La bonifica idraulica viene effettuata mediante una rete di canali e collettori e con l’impiego di pompe idrovore a sollevamento meccanico, per convogliare le acque in punti prestabiliti. Squadre di operai muniti di falci e con indosso lunghi stivali hanno il compito di pulire i canali lungo la riva, mentre il letto del fiume viene dragato da imbarca‐ zioni munite di lame per tagliare le erbacce. Ogni area di pertinenza dei Consorzi viene con‐ trollata attentamente – canali, argini, frangivento – e una volta che il terreno è stato avviato all’attività agricola un fattore inviato dai Consorzi controlla at‐ tentamente ogni settore assegnato. Il suo compito è seguire il lavoro dei contadini e far rispettare pre‐ cise regole. I controlli sono severi e non è consen‐ tito instaurare rapporti amichevoli e confidenziali con i dirigenti del regime: guai a farsi anche solo sfuggire una mucca al pascolo sugli argini… A seguito della bonifica molte famiglie dell’Italia settentrionale e meridionale si trasferiscono nel 9


centro Italia. Le terre prosciugate, divise in appez‐ zamenti di circa quindici‐diciotto ettari con an‐ nesse abitazioni e contrassegnate da un numero ci‐ vico, vengono assegnate alle famiglie che ne fanno richiesta. A destra della via Appia sono collocate le famiglie provenienti dal settentrione, soprannomi‐ nate «polentone» dai meridionali; questi ultimi, chiamati a loro volta «terroni», occupano la parte sinistra. Per completare il quadro dei titoli ironici che le famiglie si scambiano a seconda della loro origine, le famiglie che già occupavano la zona sono chiamate dai settentrionali «marocchine». Una col‐ lezione di epiteti che spinge l’Opera Nazionale Com‐ battenti a cercare di evitare scintille, gelosie e di‐ scordie tra le famiglie: per questo ogni podere dell’Opera Nazionale Combattenti è stato pensato per ospitare un solo gruppo familiare. Eppure, come vedremo, tra le famiglie non mancherà mai veramente la solidarietà, specialmente negli anni più bui – quelli della guerra e della terribile occupa‐ zione tedesca. Anche la famiglia Bengasi, dopo molti, moltissimi ripensamenti, si trasferisce dal ferrarese nell’Agro pontino, viaggiando su un camion preso a nolo. Sul camion caricano poche masserizie e gli effetti per‐ sonali strettamente necessari. Hanno tutti quanti le toppe ai pantaloni. La famiglia è composta da Mario, il capostipite, dalla moglie Angela e da cinque figli, due maschi e tre femmine: non essendo una famiglia fra le più nu‐ 10


merose, inizialmente spetta loro un podere di mo‐ deste dimensioni. La sistemazione dei Bengasi, tut‐ tavia, non è ancora definitiva. Rimangono in questo primo podere per un anno e mezzo, fino a quando, grazie al buon rapporto che si è creato con gli ispet‐ tori del Commissariato Immigrazione Interna, la fa‐ miglia ottiene la possibilità di trasferirsi in una zona più fertile e in un alloggio più confortevole. Mario ha fatto presente al Consorzio che non tutto il terreno a loro assegnato è stato ancora com‐ pletamente prosciugato e bonificato. Per questo viene deciso di tracciare un fosso profondo in pen‐ denza che attraversa tutta la campagna e si allarga sempre più a mano a mano che raggiunge il canale di confine. In questo modo vi si fanno defluire le ac‐ que. A metà del grande fosso viene posizionato un tubo in cemento coperto di terra per consentire di raggiungere quell’appezzamento di terreno che al‐ trimenti, a causa del fossato, rimarrebbe isolato e improduttivo. Al centro dei tre poderi limitrofi viene poi costruita una grande fontana, e davanti a casa si scava un pozzo di circa trenta metri con la relativa pompa: proprio il pozzo e la fontana sono i primi ricordi di Disola, che si rivede bambina da‐ vanti a casa, intenta a scoprire i primi segni della sua passione per l’acqua e per lo scorrere di tutte le cose… Come tutti i bambini nei primi anni di vita, Disola esplora lo spazio che la circonda, così che anni dopo potrà navigare con la mente tra stanze e corridoi, rivedendo i colori e risentendo ogni singolo odore di casa. Quello più forte per il suo naso di bambina 11


veniva dalle pillole giallo‐verdastre di chinino, che la mamma conservava copiose nel comodino della sua stanza. Il chinino doveva proteggere dalla ma‐ laria, una delle peggiori piaghe della zona: l’in‐ gresso della famigerata zanzara anofele, portatrice della malattia, era impedito dalle zanzariere che ri‐ coprivano le finestre e da una piccola costruzione in muratura che proteggeva il portoncino d’ingresso. Ma la piccola Disola scopriva ogni giorno dettagli nuovi della casa: il cucinone al piano terra e le tre stanze che servivano da magazzini; il portico per la rimessa di attrezzature agricole e la stalla, che fa‐ ceva corpo con l’abitazione ma ne era separata tra‐ mite una porta morta; la scala interna che portava al primo piano, dove vi erano quattro stanze da letto… e poi a breve distanza dalla casa il fienile, il forno, i porcili, il gabinetto, il pollaio, i due vasconi per abbeverare il bestiame, la concimaia, la piccio‐ naia… Dopo anni di riflessioni e dubbi sul da farsi, i Bengasi sono ora più che soddisfatti. Si impegnano nel duro lavoro dei campi, ma conservano la gioia di vivere e la disposizione a divertirsi che li ha sem‐ pre contraddistinti. Fin da giovani, infatti, Mario e sua moglie amavano sfruttare il poco tempo libero che avevano a disposizione recandosi in Romagna, dove stava già fiorendo il mondo delle orchestrine popolari e delle sale da ballo: e anche ora che hanno figli e qualche anno in più si impegnano perché tra le nuove costruzioni sia inserito anche un piccolo locale di ritrovo per le famiglie. Così il sabato sera i 12


giovani e i più grandi si incontrano tutti insieme in amicizia, fanno musica e danzano; agli anziani in‐ vece piace soprattutto andare nelle osterie per fare qualche partitina a carte. Giocano alla passatella: ognuno dei due giocatori deve pronunciare a voce alta due numeri da zero a dieci e indicarli con le dita di una mano. Chi indovina per primo la somma dei due numeri appena pronunciati ha diritto a un bic‐ chiere di vino che sarà pagato dall’avversario. Il vin‐ citore potrà bere il bicchiere di vino, e allora si dice che “fa olmo”, oppure lo può passare a un compa‐ gno che siede al tavolo o allo stesso avversario: ecco perché il gioco è chiamato con quel nome. E a volte succede che qualcuno ritorni a casa ubriaco per aver fatto più volte olmo, oppure perché gli hanno offerto troppo da bere. D’inverno i vicini di casa, a turno, si ritrovano nelle stalle. Non è un luogo molto accogliente, ma è caldo. «Vado a filò» dicono prima di uscire, e pas‐ sano alcune ore spensierate in compagnia. Si rac‐ contano barzellette, storielle, ricordano vecchie di‐ savventure, ma condividono gioie e preoccupa‐ zioni. Mario sa che qualcuno andrà a filò anche a casa sua e si preoccupa di pulire per bene la stalla e di strigliare le sue giovenche. Vuole fare bella fi‐ gura.

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