Il Coniglio Indecente

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IL CONIGLIO INDECENTE di Gianna Danielis

Scritti dal 2008 al 2009


Il Coniglio indecente Copyright © 2009 Gianna Danielis Tutti i diritti di riproduzione, traduzione e adattamento sono riservati. Nessuna parte di questo libro può essere usata, riprodotta o diffusa senza autorizzazione scritta da parte dell’autore. Il Coniglio Indecente by Gianna Danielis is licensed under a Creative Commons Attribuzione‐Non commerciale‐Non opere derivate 2.5 Italia License. Questo libro è curato da AgenziaLetteraria.Net


DAL LIBRO DEI RICORDI 1. L'ARMENO L'armeno dal cappello a larghe falde viveva in una lussuosa villa affetta da incipiente cancrena. Un lusso dannunziano il suo, in cui il molle prevaleva su tutte le forme e l'antico tendeva a trapassare. Le essenze che invadevano gli ambienti mescolavano profumi di incensi orientali con un sottile ma invasivo odore di bestia, un odore acre, come l'avrebbe definito qualcuno. Coltivava nei vasi da geranio resti di corpi che alimentava con i suoi torbidi umori. Vasi contaminati dalla sua lussuria, per quella peccaminosa cura che a loro riservava. Portava simultaneamente dieci anelli di enorme misura e complessa fattura e, mai e poi mai, avrebbe tolto gli occhiali scuri, se non per gli estremi rimedi dei casi estremi. Aveva un rugginoso baule colmo di capelli femminili fluenti, recuperati nei luoghi e modi piu` impensabili. Erano la sua compagnia nelle notti insonni, quando li appoggiava sul corpo nudo per ritrovare, almeno nei pensieri, una pulzella di zucchero candito da corrompere per gradi. Si nutriva solo di carne cruda e in particolare prediligeva i pasti che la sua orrida coltivazione in vaso gli offriva. Godeva in particolare nell'assaporare la verginitĂ di quelle sa1Â Â


cre vulve ottenute con sommo impegno e industria. Indossava solo abiti larghi che, cedendo al movimento, gli accarezzavano il corpo goloso. Morbidi cachemire per assaporare quelle furtive dolcezze che non aveva mai ricevuto. Tzaiz, giurando come ad ogni tramonto che la sua vita sarebbe cambiata, si avviò nella sua camera dove teneva il ritratto di lei, la sua adorata, la migliore, l'ideale. Entrò quasi in punta di piedi per non disturbare, accese le due candele candide che stavano sotto la cornice e la luce mostro' un'icona di cui si vedeva solo il fondo di legno marcio, che Tzaiz, commosso, adorò. Tutto ciò si svolgeva nel massimo segreto e nell'ala nord della villa, luogo favorito dalle ombre e in cui le amanite trovavano il loro nutrimento. Ovviamente, l'accesso a quella parte della villa era precluso a ciascuno. Domenica, ore nove del mattino, lido di Venezia, anno del signore 1950. Tzaiz il chimico non poteva mancare al suo solito appuntamento con l'edicola; occorreva perciò prepararsi per un'apparizione perfetta. Nel suo laboratorio le ampolle fumanti erano pronte con il liquido atto alla sua trasformazione. Da mostro a ideale: questo sarebbe stato il passaggio. Ansioso bevve il contenuto della fiala e, immediatamente, ecco l'uomo bestia perdere i connotati paurosi della sua animalità, a partire dall'eccesso di pelo, per non parlare della grossolanità dei tratti, e divenire un anziano signore per bene con un cappello a larghe falde e un bianco impermeabile alla Bogart. La bambina ugualmente corse all'edicola e i due vi giunsero simultaneamen2


te, non sapevano che un lapsus sarebbe divenuto il protagonista del loro incontro. L'uomo guardò la bambina, gli sembrò fatta di zucchero candito; le sue mani allora, prese da un impulso irresistibile, aprirono l'impermeabile e la bimba vide qualcosa di inspiegabile che nello sguardo demoniaco di lui non trovò risposta. Ciò divenne esca di racconto, uno tra i tanti, che, per quanto imprecisi e trasfigurati dal sogno, partecipò alla traccia della vita di quella donna nei cui occhi nulla riusciva a spegnere la luce dell'incanto.

2. PADRE La ricerca del padre iniziò prima che compissi i cinque anni… anche se non ho mai considerato il tempo come misura, ma come strappo, come violenza, come traversata di istanti i più inconiugabili tra loro. Accade, ora come allora, che io non senta di avere età, né di averne mai avuta una. Procedo con un passo cadenzato da un ritmo artistico, tale che un passo differisca sempre dal successivo. Così ogni cronologia svanisce e ciò che resta è parte dell'esperienza. Un'esperienza non fondante, ma elemento costitutivo di un sogno, sulla cui traccia si arabesca la scrittura del giorno. Dunque, non avevo ancora compiuto i miei primi cinque anni che, con decisione, uscii dalla casa della nonna, sbattendo la porta, quasi a chiudere con un passato iniquo 3


con cui non volevo più avere a che fare. Stavo andando al mio primo appuntamento con un uomo: un magro straccivendolo dai baffetti assurdi e l'aria furba di un bagatto dei bassifondi. Con questo non voglio assolutamente dire che fui ingannata, no, assolutamente. Io sentivo di essere attratta da mete immancabili, anche se non sempre avevo chiaro in mente ciò che facevo e non ammettevo ostacoli di alcun genere sul mio percorso. Mi avviai dunque verso vicolo dello Schioppettino, zona “OFF LIMITS” nel '46, ed io, pur non sapendo leggere le targhe delle vie, ricordavo perfettamente dove il mio uomo mi stava aspettando. Qui avrei trovato il mio magro “S. Giuseppe”, misera rappresentazione di quartiere del buon ladrone, del coatto ante-litteram che, “a modo suo“ li amava, i bambini. Spesso lo incrociavo lungo la via. L'uomo mi lambiva con parole suadenti, raccontando di giocattoli e caramelle. Alludeva a qualcosa di un piacere inaudito per cui non riusciva a trovare parole, ma che tutto il suo essere esprimeva in maniera inequivocabile; io, pur essendo così piccola, ne rimasi contagiata, tanto che sentivo una strana eccitazione mentre mi avviavo verso la casa di quest'uomo dalla moto rossa. Passai saltellando davanti a Gelindo, il calzolaio che, come al solito, si stuzzicava i denti con i chiodi più fini. Lui si che era un bravo “Geppetto”. Data una rapida occhiata, traversai la strada, e mi trovai dinnanzi al negozio delle sorprese della signora Maria del latte. Mi fermai un attimo; sospirai guardando quei misteriosi pacchetti che occhieg4


giavano dal cestino. Un gatto nero di colpo mi passò tra le gambe tramortendomi di paura. Giunsi finalmente alla casa rosata, la stradina sembrava deserta, senza bussare aprii la porta di legno e mi trovai all'improvviso in un buio imbarazzante ma fresco e odoroso di muffa... Se fosse stata la casa di Alice, avrei trovato sui ripidi scalini di legno, sotto cui le scolopendre giocavano a rimpiattino, un biglietto con su scritto “sali”. La casa sembrava disabitata: non un volto, non un suono. Decisa, per l'età che avevo, salii su per le scale. All'improvviso, lo ricordo come fosse accaduto poco fa, vidi sulla destra una camera matrimoniale con un letto ricoperto da broccato, di quelli che tuttora amo usare in teatro. Di fronte al letto, all'impiedi, l'originale straccivendolo muoveva a ritmo sempre più serrato qualcosa che sembrava appartenergli ma che io non conoscevo. Concitato, mi chiese di salire sul letto senza le mutandine e di fare delle capriole per lui. Percepii immediatamente che avrei dovuto usare tutta la mia intelligenza per uscire senza danno dalla situazione. Vi sembrerà strano che una bimba di quattro anni faccia le capriole in perfetto silenzio, senza scomporsi, tanto da mantenere nel gioco il massimo rigore possibile. Finalmente l'uomo produsse un liquido bianco che cadde sul mitico copriletto. “Che cos'è?” “Latte”, rispose lui serio. Poi mi si sedette accanto e mi confidò che amava giocare anche con i suoi bimbi allo stesso modo. Capii che era meglio andarmene da lì con calma apparen5


te. Lui non poteva essere il mio babbo. Il mio babbo era un poeta e volava in alto sopra la cima degli alberi per spolverare le stelle cadenti. Tornai a casa di mia nonna e, da quella volta, ancora adesso cerco di svolgere la nodosa matassa di questo particolare ricordo. Forse solo ora ci sono riuscita. Dopo questo evento, io iniziai ad assumere strani comportamenti. Ma a nessuno importò di chiedermi come mai... o forse temevano di scoprire una verità troppo imbarazzante per l'epoca. Così tutti chiusero un occhio, azionarono la valigetta giradischi per i 78 giri in vinile e la loro vita continuò a giri di tango e mazurka.

3. LA ROJA Ero sicuramente una delle monelle più piccole del quartiere, ma ben accetta per la mia banana bionda e per gli incantati occhi azzurri, ereditati dalle nonne. A scadenze ineguali, l'acqua della roggia, che costeggiava la strada di casa mia, veniva fermata a monte. Apparivano così materiali luccicanti di varia natura: tappi di bottiglia, aggeggi salvatisi dalle immondizie per puro caso e che ora splendevano per una nuova dignità grazie alle tracce di acqua fresca. Capitava ai più fortunati di trovare a volte dei piccoli tesori da barattare con le sorprese della ''Sgnaufe'', una sorta di donna che sembrava un barbagianni a causa 6


dei suoi capelli grigi, costantemente arruffati, che le circondavano la fronte come l'aureola di un santantonio. Stava appollaiata sul suo sgabello, accentuando la gobba e la postura della civetta che monta la guardia alle proprie prede e gracchiava in friulano delle cose incomprensibili per il suo labbro e palato leporini. Questo libro di bruttezze, questo scorcio di orrido, questo emblema di ribrezzi, questa aggressione sistematica a qualsiasi rappresentanza del bello, questa specie di strega delle fiabe si divertiva a fare baratti con questi ragazzini sudati e sporchi. All'interessato non rimaneva che scappare poi a velocità sostenuta in modo da non dividere con quella ciurma l'amato bottino. Mi divertiva fare la monella con i maschi, rispetto ai quali mi sono sempre sentita più vicina; una specie di maschia che odiava le smancerie e le ipocrisie femminili, tanto da non sopportare quelle femminucce che giocavano già alle signore, facendone il verso e strascicando i piedi nelle scarpe della mamma. Io preferivo stare seduta sui gradini di legno di una vecchia scala a contare quanti mondi ruotavano all'interno di un raggio di sole carico di polvere, con i loro satelliti e le varie stelle.

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DAL TACCUINO DEI VIAGGI 4. VENEZIA L'anziano geometra prese dall'antica cassaforte, ricoperta da borchie arrugginite, lo scrigno porta-gioie. L'aprì e vide un'argentea sardina che, facendogli l'occhiolino, spiccò un salto e, gridando uno “swuischhh” di felicità, si rituffò nel “canal grande” che passava giusto lì sotto. Sulla tenda del salotto un paguro rise a crepapelle, mentre cercava la via del mare tra un ricamo e un altro. Una medusa nella vasca da bagno sorprese la moglie del geometra mentre faceva un pediluvio. Alla donna mancò il fiato per emettere un urlo e si limitò a sospirare un “ohibò!” con una certa “pruderie”. La cuoca trovava negli angoli più muschiosi della cucina capannelli di vongole, indaffarate a provare una canzone d'amore, da cantare a “cappella”, all'isola delle zitelle, domenica dopo la S. Messa. Sul lampadario della camera una murena era ancora impegnata, con una lampadina in bocca, a illuminare lo spazio che odorava un po' di “freschino”. Era stata messa in cassa integrazione, ma prestava ugualmente il suo servizio di otto ore a causa del suo inguaribile stakanovismo. Nel salotto “della festa”, due aragoste gemelle e un po' miopi, vestite con un'eleganza lievemente retrò, commentavano l'ultimo reality 8


della Rai e starnutivano in due fazzoletti di eguale fattura e trina, che sventolavano a mo' di bandiere sulle loro lunghe aste da cavalieri corazzati medievali. Al piano primo un polipo, seduto tranquillamente a tavola, fumava il sigaro e attendeva che la cuoca gli servisse la prima colazione. Sulle mura scivolose, alcune alghe sonnecchianti denunciavano la permanenza in fondo al mare di quell'antica dimora degli “Scarpa” da almeno quindici giorni. Ormai l'acqua alta a Venezia aveva raggiunto limiti inaspettati, ai quali i pazienti abitanti un po' alla volta si erano adeguati. Capitava così che, all'improvviso, la città sparisse sott'acqua; appena qualche campanile più alto rimaneva scoperto e se ne riusciva a sentire il tocco delle campane, giusto in tempo per mettersi la tuta sub festiva e andare a glorificare il Signore per tanta grazia. La Madonna intanto si adornava i capelli con una stella marina, in attesa che un gruppo di lucciole, ben selezionate, arrivasse con un volo charter, ad illuminarle la virginea fronte.

5. PIRANO E' possibile che i gabbiani spuntino dalla terra come bucaneve e spicchino il volo scrollandosi di dosso grumi di terra viva...? A ben vedere, forse non è terra la traccia che lasciano, ma resti di parole stanche e seppellite da un esigente poeta innamorato dell'inedito. Aggrappata al suo canto 9


mi innalzo incontro a nubi leggere... Una piuma sul gomito, lesa e sberciata, e il verso un po' stonato, non mi impediscono una vigorosa spinta verso i territori dell'invenzione. In questo luogo non ci sono limiti al dire. Suuuuu... viaaaaaaa...!!! Intanto le mamme, leccandosi le dita, cuociono crème caramel. Non la mia, ovviamente! Troppo impegnata a imbrigliarsi il seno. Gli sguardi dei vecchi la imbarazzano; ed è cosi che il suo fiore è cresciuto in una scatola buia sognando l'infinito. Io, che ho assaggiato quel seno, fui amata e odiata per tutta la vita. Così la piuma sberciata. Così, seppure zigzagando, volo lo stesso e ancora seppellisco tesori sotto cocci di bottiglia. Ma ci sono i rabberciatori di piume: hanno seguito corsi speciali sulle topiche della psiche e hanno un' aria distinta. Una nuvola li insegue ogni tanto. Pare infatti che talora cedano a sogni incestuosi con “impazienti” inquieti e insoddisfatti di sé, alla ricerca di accettazioni totali. Ho volato sopra Pirano e ho visto nei suoi orti coltivare madrepore, conservare alghe sotto spirito e cavallucci marini impagliati sopra i caminetti per bene del centro. Alcune conchiglie galleggiano ancora sull'acqua della pasta, messa a bollire in ritardo. Le insegne dei bar del centro, alla sera, si illuminano ancora al fuoco delle candele. Le sottogonne a passeggio cancellano le tracce di sabbia e trite conchiglie che Nettuno, distratto, passando, ha smarrito assieme ad antiche parole d'amore. Al bar “Goldoni”, non visti, leccano ancora i fondi delle tazze di cioccolata i viveurs, trascurando i severi baicoli. 10


Tra poco sorgerà il sole e, diradate le ombre, nel fresco mattino, andrò alla fiera delle erbe selvatiche a comprare cesti di calendule e ortiche. Lì incontrerò i dispensatori d'amore dai petti ansanti che, in nome di Eros e incoronati di pampini, mi inviteranno a danzare con loro; ricorderò quando, menade, ero preda di visioni tumultuose e passioni brucianti. Ricordo quando consumavo il mio pianto guardando “Vacanze romane” e sognavo castelli di vaniglia su torte matrimoniali. E invece mi sono sposata in piedi, come al “self service”, privata dell'abito bianco, spaventata da uno sconosciuto dallo sguardo di gomma che masticava foglie di follia. Adagiato nel mio letto per un contratto con diritto di possesso. Marito di nobile famiglia: conti, visconti, nobili patrizi, carrozze e cavalli e i sospiri di cannella di mia suocera che gemeva, nella sua casa scorticata, per aver perduto tutto e anche questo... mentre le cicale, ignare, battevano gli aedi per quel frinire sempre inedito del loro arcaico canto.

6. DOTTOR PARKINSON Inanellata di poesia mi innalzai nuda fino alla luna, come una gazza gentile, la fronte incoronata di spine. Lontano, sulla terra ghiacciata, giaceva un cilicio che portava il mio nome. Giaceva come un amante abbandonato e io, sciolta dal suo abbraccio, assaporavo il gusto del volo appoggian11


domi al gracchiare dei corvi, i capelli scomposti dal gioco d'amore col vento. Una “vergine di Norimberga” decapitata, esponeva cinicamente i suoi ferri e, ghignando paziente, attendeva il mio ritorno tra le sue braccia carnefici. Aveva dalla sua quel famoso morbo che dal dottor Parkinson era stato scoperto a nutrirsi di cervelli... Ogni due ore circa fischiava la fine della ricreazione e il ritorno negli orpelli della mia tortura era inevitabile. Da qui, dalla mia scomoda trincea, mandavo messaggi al mondo. L'impasse non poteva averla vinta: dovevo dimostrarmelo ciascuna volta. Ed era proprio per questo che in quel difficile momento mi costringevo a scrivere... scrivere... scrivere... Messaggi d'arte in cui la forma la vinceva sul contenuto. Cosa di grande poteva avere un'agnostica da comunicare al mondo intero, se non gli equilibrismi di un funambolo?

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AMICI CARI 7. L'ASSASSINO DI CINGHIALI Covava la “sua” morte l'assassino di cinghiali. Covava uova nere. Covava la sua furia, con una voce suadente, che evocava paesi lontani, lì dove la morte è ancora una chance di felicità. Covava la sua “morte” immerso in noiose trame sociali, in molli divani e obnubilati templi, con l'obbligo del “savoir faire”. Si nutriva della “sua” carne e del “suo” sangue, inchiodato alla croce di Tanato. Espulso dagli inferi, dove era stato assunto come precario messaggero di morte, di nascosto da tutti posava, come Orco, per i ritratti dei libri per bambini 13


e per i diari delle vergini, assetate di lussuria... Nelle tane fremevano i cinghiali, a zannate spolpavano la terra, si leccavano le recenti ferite digrignando tra il muco e il pianto i potenti incisivi, cercavano i piccoli e le femmine dalla corsa stentata che, genuflessi dall'eccesso dei cani, avevano perduto la via del ritorno. Domenica pomeriggio, l'arena lo aspetta, i picadores fremono per l'azione incipiente, lo sguardo di Sauro è ora corvino... Sale la sua febbre e quella dei cani che si azzuffano per conquistare per primi l'uscita. Tra poco ci sarà la feria del sangue, tra poco l'uomo tracimerà dal noioso tocco gentile della castrante routine 14


e ritroverà la dimensione dell'ancestrale forza perduta, dell'amministrazione del bene e del male, della vita e della morte. Tra poco Sauro abbraccerà quel rischio che traccia il confine tra il vivere e il sopravvivere e, bruciate le ciabatte, sarà il re della macchia tra cespugli di rovi e di erba spina.

8. MAX (LO ZIO MASSIMO) E' quando vaghi senza più la traccia di un mito, unica certezza lo smarrimento, è proprio allora che la sua voce calda e avvolgente ti riporta al covo della ragione. Ed è grazie a quel suono così caro e riparatore che allora puoi abbandonarti a quel limpido specchio d'acqua che vibra col frinire delle cicale... così, nuda, a godere delle insistenti e liquide carezze. L'abbraccio dell'acqua è sì totale da sembrare materno. Un giorno, perso nell'infinità degli altri diciottomilacinquecentoventuno della mia esistenza, quando l'illusoria pienezza si smaschera e quel muschioso rifugio segreto 15


comincia a perdere il posticcio nome di Eden e riprende le sembianze di un “fottuto” giardino sgangherato e scomposto da irridenti gramigne, allora, il suo inaspettato arrivo, la sua fresca ironia, mi fanno rimpiangere gli abbracci che mai gli ho dato. Le sue braccia già colme non li avrebbero mai ricevuti. E poi che se ne sarebbe fatto di un'altra Giocasta, quando la prima stava ancora penzolando da una corda coniata di fresco? Oggi la mia libera e scalpitante passione ha investito la sua immagine che, titubante, mi viene incontro... Mi bastano le sue allegre parole, il suo fresco profumo delle terre di Irlanda; e poi venga pure l'amnesia a resettare lo schermo della memoria. Tra un inciampo e un volo scriverò ancora: di tutto e di niente.

9. FULVIA Vomitata dai fumi dell'esaltazione nell'occorrenza del vivere, ti ho incontrata con quel tuo leggero sorriso arrivato fresco fresco da Piccadilly Circus, col tuo fare un po' dandy, rubato con un corredo di abiti ad Oscar Wilde e a Peter Pan, conte di York, nella sua boutique dell'isola che non c'è. Ed è proprio col tuo passo leggero, dalle buffe tirate clownesche, con i capelli biondi mossi da Zefiro, che giochi con lo sguardo ammirato di chi soggiace al tuo fascino. 16


Davanti al rischio che l'avventura esige, arretri nelle trincee dell'usuale, per poi godere con gioia delle scoperte che attonita incontri, ancora ridendo degli infantili timori che hai già accantonato. Consapevole che anche uno straccio, su di te, diviene un manto regale, allora lo accompagni con uno scettro di cartapesta. Hai adottato da poco un certo Arturo, che chiami “Turi”, pronto ad uccidere per gelosia chi osi sfiorarti. Trattasi di uno zwergschnauzer (schnauzer nano), nobile figlio di Ronaldo e Nausicaa. A questo pelo ambulante, dallo sguardo così umano, manca l'espressione tenorile poichè la parola, seppure tedesca, la bestia l'ha imparata leggendo Thomas Mann. E la usa benissimo, battendo in quanto a cultura generale il suo diciassettenne fratellastro Edoardo che, studente di liceo, è ormai annoiato dalle angustie delle tabelline, distratto, mai come ora, dai profumi della vita. Non così la sua sorellastra Valeria che della cultura sta attraversando con gloria le avversità. Così scorrono le nostre vite, cara Fulvia, da ventidue anni, una accanto all'altra, intersecandosi le nostre ore tra una risata e un sospiro, tutelate dalla certezza di un affetto senza origine e senza fine. A questo punto, come si suol dire, una domanda sorge spontanea: siamo sicuri che basti la clownerie per andare oltre la scena, anche se con l' aiuto di un simpatico fischio? Del resto, se con una risata Dio è morto, perché con un fi17


schio non potremmo noi corrodere le sbarre delle nostre presunte prigioni?

10. FULVIA - SECONDA VERSIONE Ti offro una mosca usata e tu, triste, mi rispondi che ne hai abbastanza delle tue. Così, come un'apocalisse, in uno straripante boato, tutto il nostro clownesco e menzognero mercanteggiare cede alla nostra inutile e perfida sofferenza. E' in questi momenti imprecisi che il telefono mi ustiona le mani, tanto che ucciderei Meucci e Bell, dopo lente torture al suono di occupato! Ma perché attendere di meritare la felicità quando il figlio dell'arrotino ci sta aspettando in una non meglio precisata “capanna essudatoria” (smarrita nei meandri delle gramigne)? Faremmo una esperienza sessuale marxista, materialista e poco epicurea, nel rispetto della collettività, mettendo a morte l'individualismo, figlio degenere della società capitalista, che chiama incestuoso l'amore non condiviso con la massa! Si, perchè la proprietà ha da essere abolita... A proposito, io non ti avevo imprestato un preservativo di rara fattura? Quando hai finito di usarlo, me lo renderesti? E non ti serve a nulla protestare contro chi, arricchitosi nella Moldavia del nord, incurante del tuo sentire, introduce nella tua vita indifesa elementi pericolosamente pro18


vocatori, atti ad avviarti a quella carriera che fa, senza remore né pudori, della strada la tua scena! “Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtude e conoscenza.”

11. ENZA Viene dalla Thailandia con un gorgheggio, a stupire gli usignoli, per cantare le lodi del Signore. “Io ti chiamerei Azzurra: vedo che il tuo sguardo è azzurro, che le tue parole sanno di cielo, che ti fai sfogliare come un libro aperto, carico di doni”. I profeti, suoi fratelli, con Martino il riformatore, sono la pietra su cui Enza edifica la propria fede. Parla d'amore e io sento in quelle parole un'assonanza inedita: siamo sorelle. Con esso condiremo le magre zolle della terra, per nutrire gli affamati. Tra le canne del campo un agile fauno si nasconde a flautare la sua melodia. Lei ascolta curiosa, mentre Zeus, dall'alto, si annuncia urtando le nuvole con tuoni incendiari. Le rane nello stagno gracidano indifferenti... ”Che il potere di Zeus sia pure”, pensa Enza, “io che me ne farei?”. Abbraccia il suo Luigi e sa, che tra le sue mani, stringe l'universo intero! 19


12. LUIGI Portato dal vento della sera, giunge Luigi alla mia porta, col suo profumo di Trinacria, col suo passo lieve e pensoso, guidato dal ritmo ineguale del cuore. Nel taschino cela parole d'amore, fabbricate nell'officina del Cristo per gli uomini di poca fede. S'infervora, Luigi. Si accalora. Un guerriero della parola... un Saulo dell'amore. Acceso da inestinguibile sete, fruga tra le pieghe dell'umano per trovare le tracce del divino. Nell'arte trova riassunte le cose del cielo e della terra, sulle quali sta assiso “L'AUTORE” di ciascuna meraviglia. Enza è la sua donna, che egli vanta a corona del suo cuore. E' entrato nella nostra vita come un fresco ruscello, come un bimbo, affamato ancora di stupore.

13. KA KA KARTOFEN & Co Avanzava gagliardo cavalcando una grassa scrofa rosa, uguale a Eulalia sua madre, per gli amici “Kartofen”. Che curioso edipismo, il suo! Si consumava tutto nel denigrare la femminilità e, al pensiero di “Obbedisci troia”, esigeva moglie e figlie da soma, piegabili ai suoi desideri inconsulti. Gli capitava spesso di addormentarsi, abbracciato ad una reliquia materna: le scarpe con dei vertiginosi tacchi 20


rosso ciliegia, indispensabili per misurare l'idoneità delle schiave che si proponevano all'ambìto ruolo di assistenti al suo nobile soglio. Il suo instabile umore lo rendeva in ogni caso incontentabile. Si esibiva così in performance da quattro soldi in cui esprimeva tutto ciò che la tradizione degli antichi bordelli aveva tramandato per via orale. La pulzella, designata al suo talamo da un crudele destino, si forniva di occhiali dallo stesso salumaio di cui lui era il fornitore di scrofe. Ed è forse proprio grazie al prosciutto attraverso il quale essa lo intravide che esclamò estatica al loro fatidico incontro: “Ah, come dev'essere buono!” e, non contenta, aggiunse: “Com'è elegante!”; vestiva infatti alla marinaretta. La di lui insegnante di “bon ton” era stata la madre, l'eccellente Kartofen, che aveva coniato un più efficace volgare di quello dantesco, ma con radici nella bassa friulana. Ed era proprio grazie a ciò che la si poteva sentire, a distanze interstellari, gorgheggiare tra il ribollir dei tini: “Vien qua che te lo tajo! Purcit, ke ka... l'è cjase meeee!” (Vieni qua che te lo taglio! Porco, questa qui è casa miaaaaa!). Avanzava, sfruttando i suoi depositi di gas naturale, con una curiosa camminata a sbuffi che, come il piede di Attila, distruggeva tutto al suo passaggio, causa le mefitiche sostanze che da lei esalavano. Voi non ci crederete, ma questo fascio di bellezza, questa somma di grazie, questa tenera cotica, questo ammaliante porto per marinai con lo scorbuto, questa parrucca per mummie, questo profumo di scarto dei pozzi neri, era stata anche amata e si era per21


fino riprodotta. Ciò grazie ad un uomo che di umano aveva conservato ben poco: un sigaro mai acceso che pendeva dal suo labbro inferiore, come un fallo colpito irrimediabilmente da “eiaculazione precoce”. A furia di non prendere posizione, ormai era diventato del tutto simile ad una macchia d'olio. Segno di riconoscimento un'appendice oscura: il sigaro. Nei rari momenti in cui era costretto da Kartofen ad abbandonare l'autarchia per soddisfare il suo famelico desiderio, giunto all'acme, suonava il basso tuba. Questa famiglia aveva un che di “mannaro”, che nessuna ricerca genealogica era riuscita a spiegare. Ad ogni plenilunio, infatti, si riunivano tutti in una discarica, invocando con vigorosi “bau” la luna piena, mentre il naso di Kartofen, obnubilato da un blob di setole nere, si smarriva fiutando l'aere, ripensando con nostalgia alla giovinezza perduta quando, ancora impubere, era stata eletta “Miss dammela subito, ché no go tempo.” Il riandare al tempo passato commuoveva a tal punto quella parvenza di donna, quel riassunto di orrori, quel breviario di infamie, quel catalogo di incubi nonché concentrato di fetori, che dagli occhi talora le spuntava, timidamente, un rancida lacrima di colesterolo.

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14. DELL'AMOR CORTESE Colto da pensieri incendiari e, temendo irreparabili autocombustioni, tentava l'ibernazione degli impulsi in gelide scatole di indifferenza. Si guardava allo specchio e si chiedeva se mai il megaghiaccaio “Perito Moreno” avesse potuto invadere il mondo, lui compreso, congelando così ogni questione, anche la più scottante. Mai, per quanto lo desiderasse, si sarebbe potuto abbandonare ai sogni. Tentava così di rientrare nella realtà esibendosi in salti "immortali". Capitava, talora, che nel bel mezzo di un salto rimanesse sospeso sul baratro del presente. A volte, tra una piroetta e un'altra, tentava la cancellazione di questi pensieri (gomma marca “Rimozione” della ditta Sigmund Freud di Vienna). Fu così che un giorno incontrò un soggetto aleatorio, di non ben chiara provenienza, forse siderea. Era completamente glabra e nei suoi occhi si leggevano favole inespresse di dubbio e terrore. Constatò che veniva dal paese degli gnomi e che era impastata della stessa poesia del bosco che non si esauriva mai. I suoi occhi emettevano raggi lunari che sorvolavano sull'ordinarietà del giorno. Sembrava radicata a terra contro la propria volontà. Talora, invece, dava l'impressione di poter levitare da un momento all'altro; la si poteva vedere viaggiare attraverso nuvole e arcobaleni, mescolando i colori del cielo . Teneva nascosta nella tasca destra dei larghi pantaloni alla zuava una piccola ma 23


rumorosa compagnia di soldatini, completata da spingarde, pistolette, bombarde, dinamite, mitragliette. Capitava a volte che i componenti di questa compagnia entrassero in conflitto tra loro e iniziassero delle piccole guerre che le sfondavano le tasche, per non parlare del fondo dei pantaloni. Esso, per quanto rinforzato, a volte cedeva. Lui fu sedotto da codesto coacervo di conflitti in miniatura e dal suo fascino. Lei gli aveva conquistato l'anima e fu così che, dopo qualche tempo, egli si ritrovò nelle tasche di lei come comandante di quella strepitosa compagnia.

15. IL MUSICISTA (Sabino) Principe dei bagatti, manipola con eleganza, integrandole ad arte, le cose del cielo e della terra. Ne fa delle orchidee musicali che sembrano fuggite dalle magiche giungle di Rousseau, il Doganiere, ed io, lusingata dalle sue fusa dal sapore giaguaro, mi abbandono nelle sue amache di cioccolato fondente soggiogata dalla fantasia di divenire cibo d'amore. Col suo colpo d'occhio corsaro rapina all'universo mondo tutto ciò che occorre al suo inventare: dal canto delle stelle, al pulsare spaventoso di quel magma infuocato che corrode, rinnovandolo, il centro della terra. Non ammette il banale, il ripetitivo, l'usuale e scruta il fare dell'altro per scriverne l'eventuale distanza o la travolgente comunione. 24


Non siede mai sulla stessa sedia, né guarda mai lo stesso cielo; ciascuna cosa che gli riservi delle sorprese lo coglie felicemente impreparato. Sedotto dall'inedito, gioca l'ostacolo come opportunità per la vittoria.

16. ELENA

Eri fatta di fiori di lavanda, e il tuo profumo addolciva i miei ricordi sognati quel tanto per immaginare di averli vissuti veramente. Tu, Elena, seduta sulla tua raffinatezza, con l'abito appena un pò consunto, tanto da far pensare a feste vissute pacatamente, tra le gioie di uno scrigno un pò kitsch, fatto con le conchiglie del mare, che racchiude quella famosa collana di perle vere che ti regalò tuo marito. Fuori piove, ma delicatamente, per non far soffrire il verde. Il lontano suono di una fisarmonica prende per mano i convitati e li induce ad una danza greca, magari un sirtaki. Tu, dolce, ti muovi con il tuo sguardo tenero e geniale, scavi con lo sguardo tra le pieghe dei pensieri e scopri il bello del mondo... che non è altro che il riflesso del tuo sguardo. Porti con te quel filo di conchiglie che racchiude il suono del mare e dei gabbiani. Qualcuno ride della nostra ingenuità, che ci vede amiche traversare per mano, nella nebbia dei navigli, quella difficoltà del vivere che sottolinea in fondo l'urgenza del bello nella vita. 25


17. GLI INTELLETTUALI, L'ORGASMO E LA MAIONESE Alle 00.06 di ogni sera, prima di coricarsi, l'uomo penetrava in quel suo personale utero di piombo tramite una sensuale fessura blindata. I passi in numero di sessantanove, che percorreva per giungervi dalla sua camera, simulavano quelli di un apprensivo tangueiro e rientravano nei suoi consueti rituali notturni. Allo scopo traeva, da un sacchetto di consunto pelo di ratto, una rugginosa chiave che gli apriva quell'angusto caveau in cui alla sera depositava il proprio cervello. Operazione non facile, viste le pressanti istanze animali che lo dilaniavano sotto il suo abito gessato, ereditato dal padre. Complicava il tutto la viscosità dell'organo che, una volta scivolato a terra, si esibiva in imbarazzanti lamenti in dialetto lucano. Accanto ad esso, conservati come feticci, gli abitini di pizzo e merletto con i quali sua madre lo vestiva per godere della sua bimba mai nata. Quando, preso dalla nostalgia, tentava inutilmente di indossarli, non gli rimaneva che consolarsi con gli abiti da “passeggio” anni '70 di sua madre, di un eclatante stile “leopardato”. Anche gli angeli dei focolari covavano oscuri contrasti. L'uomo, inoltre, non avrebbe mai toccato le lenzuola se prima non avesse imprigionato il suo pene in un sacchetto per surgelati. Il suo naso si era fatto bandiera dei suoi residui tormenti sessuali, tramite una rete di vezzosa couperose. Cura: ogni se26


ra applicazione di filtri ancora gocciolanti di camomilla coltivata con mezzi naturali. Una volta indossati gli occhiali di pezza nera e infilatosi i tappi nelle orecchie, la sua compagna poteva, dopo avergli legate le mani, continuare la sua ricerca sui punti erotici inusuali degli intellettuali dediti alla sublimazione. Non si spiegava la donna come mai la couperose di suo marito fosse potuta emergere dai baratri dell'inconscio fino al naso. Come era potuto accadere tutto questo? Quale nuovo sacrilegio era stato commesso a Tebe? La donna ebbe un sussulto, si controllò e vide una macchia di peste sotto la sua natica sinistra. Un alito ghiacciato invase la casa, che tremò di sgomento. Il professore, ignaro del dramma in atto, ripassava intanto mentalmente: “L'analisi delle contraddizioni insite nella sessualità degli pterodattili incontinenti”. Si trovò così a constatare per la prima volta che l'orso Yoghi assomigliava molto a sua nonna, a parte il fatto che egli era molto più glabro. Un'ombra passò minacciosa sul suo volto e la macchia che ornava il corpo di sua moglie, duplicandosi all'improvviso, disse con una voce da crosta: “Si trovi il colpevole!” “Chi ha parlato?”, invocò l'uomo, e il cumulo di libri che teneva sul comodino divenne sospettoso. La moglie imbarazzata guardò la crosta e con l'indice sulle labbra cercò di zittirla, promettendole un giro nella più lussuosa piscina della città. Intanto, la donna aveva scoperto un nuovo punto erotico inusuale in suo marito: si trattava di radi depositi di sebo che l'uomo celava sotto le a27


scelle. Bastava solleticarli con un po' di maionese e le eccitazioni dell'uomo avrebbero potuto raggiungere livelli preoccupanti. Tirava un forte vento e il cane non c'era, mentre il mondo girava sul suo asse, un po' schiacciato ai poli... La donna, affranta, consultò il calendario di Frate Indovino. Domani sarebbe piovuto. Un urlo improvviso squarciò il silenzio della notte: una goccia di maionese aveva adescato un grumo di sebo del professore, strappandogli inaspettatamente un fulminante e tragico orgasmo.

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IL DIVINO E ALTRE MITOLOGIE 18. L'ESPOSTO Era l'orfano più solo che si fosse mai visto e forse non era neppure un orfano. Si trattava probabilmente di uno dei tanti “esposti”, abbandonati alla nascita. La sua era una solitudine che coltivava con assiduità e questo nonostante provasse un amore panteistico per tutte le cose. Curiosamente, ciò che amava più fare era osservare da lontano le persone e, pur avendo la fama di essere incredibilmente buono, passava il tempo tranciando giudizi su ciascuno, mettendo quindi in imbarazzo quelli dai comportamenti più originali e i più timidi. Ciò per un innato bisogno di conoscenza, la quale, per divenire un sapere fondato, aveva le sue esigenze. Tra queste, l'analisi dei dati e la loro classificazione (si era dotato di classificatori universali) e sistematizzazione. Ovviamente aveva previsto una certa quantità di varianti. Le varianti non previste, ossia le variabili, erano da lui (come d'uso) considerate anomalie, follia, cose contro natura, peccati. Di conseguenza, e per fare meno fatica, nel più assoluto silenzio e in forma del tutto telepatica, trasmetteva ordini e regole assolutamente dogmatiche e, mentre all'inizio sembrava tra29


scurare gli scarsi risultati che otteneva, col tempo si mise a concepire pene sempre più severe, fino a programmare vere e proprie sevizie, ovvero l'inferno. La cosa più curiosa è che, nonostante ambisse ad essere il capo spirituale di più stati teocratici, era sicuramente ateo. Suggeriva agli eletti verità diverse a seconda delle coordinate geografiche. Provocava così discussioni, polemiche tra uno stato e l'altro che, esasperandosi, divenivano foriere di lotte fratricide, guerre, diaspore e olocausti. In fondo, che gli sarebbe costato andare nei più famosi talk-show tipo David Letterman, chiarire finalmente le cose, dire finalmente la verità? Troppo comodo per gli umani! E poi, il potere assoluto non si afferma proprio sull'altrui ignoranza e impossibilità quindi di esercitare uno spirito critico? Così Dio si mise i tappi nelle orecchie per non sentire le solite lamentele e ingiurie... Incenerì la casta dei teologi e si fece una bella dormitina.

19. OSCILLAZIONI Lei più volte aveva sognato di fare la stilita, proprio come quelli della Cappadocia. Così, solo per stravolgere la sua visione del mondo, che, a furia di sentirsi osservato e temendo altresì di essere impunemente giudicato, un giorno diede in ismanie così da farsi prendere da oscillazioni tanto 30


ampie quanto pericolose. Il rischio era grave: la Cina avrebbe potuto rovesciarsi da un momento all'altro, con un notevole danno per Ciù en Lai... la apprendista cuoca in gravi difficoltà con gli “involtini primavera”, per non parlare delle nuvolette di drago, propellente mostruoso e fetido, sempre più difficile da reperire. I calabroni volavano a pancia in su, perché anche loro volevano esercitare un ruolo eversivo sul divenire e, d'altra parte, non c'era più religione, dato che i catechismi, essendosi rovesciati i banchi dell'oratorio, trapassando l'aereo spazio, ormai erano divenuti cose dell'altro mondo. Del resto, se il mondo rischiava la degradazione ad “immondo”, asfissiato dalle sue stesse scorie, lei non si trovava in una situazione migliore. Sarebbe sopravvissuta a quel delicato e ormai indispensabile intervento al cervello? E, come sarebbe cambiata la sua personalità? Un depliant iperspecialistico informava che sarebbe stata più disinibita, visto che il punto dell'intervento da sollecitare era proprio l'ipotalamo. La cosa, se da un lato sembrava divertirla, dall'altro la preoccupava non poco, vista la considerevole dose di animalità con cui doveva fare i conti molto, troppo spesso. Non per niente il suo era un mondo popolato di mannari: rospi mannari (maleducati che non rispondevano al saluto... E' vero!!!), lucciole mannare (ne aveva un condominio in giardino e lasciavano peli dappertutto), attori mannari che mangiavano Shakespeare con le mani sporche di fondamento e 31


madri mannare defunte che le mandavano peli dall'aldilà a perpetua memoria. La sua cura consisteva in un medicinale eccitante che, come una maledizione, interveniva a peggiorare la situazione: LA LEVODOPA. Era così eccitante a volte da esaltare ogni contatto, tanto da rendere imbarazzante perfino quello con la morbida sedia del computer. Suo marito, del resto, era dedito ad un particolare misticismo che lo rendeva del tutto indifferente alle sue esaltazioni. E venne finalmente un giorno in cui si trovò in un solenne letto a due piazze. Vestita di tessuto leopardato, un uomo stava in piedi davanti a lei ed esigeva, prima di coricarsi, la garanzia che lei non gli avrebbe toccato un pelo (che fosse mannaro anche lui?). Lei giurò sulla Sacra Bibbia e furono uno accanto all'altra in quel silenzio che a volte precede le tempeste. I piedi di lei erano di ghiaccio e fu così che la spudorata chiese all'uomo di riscaldarglieli; poi avrebbe dormito senza chiedere altro alla dura vita. L'uomo, in un silenzio in cui metaforici ululati aspettavano solo un ciak per esibirsi, accettò. Poi fu la volta delle mani e qui lui si accorse di non aver giurato nulla su nessun sacro testo e lei fu investita da un tornado che la memoria tuttora fatica a contenere. La donna finalmente non ebbe bisogno del suo contorto immaginario per godere, le bastarono gli occhi di lui che la possedettero fino alle più profonde fibre dell'anima. Per 32


una volta era stato amore, per una volta si era dimenticata di se stessa e aveva rinnegato l'universo mondo intero.

20. INGRID Ingrid non nacque secondo l'uso: il vento Borea, infatti, che feconda le cavalle quando si attardano in mare al tramonto, folgorato dalla bellezza di questa bimba accoccolata sulla schiuma delle onde, la sospinse delicatamente fino alla spiaggia dorata di Tropea, perché gli umani potessero prendersene cura e goderne. Qui la raccolsero delle floride balie che giocavano a rimpiattino tra le piante selvatiche. I loro corpi nudi riflettevano il rosa del cielo e i loro seni turgidi sgocciolavano latte e miele sulla riarsa terra. Saziata che fu, Ingrid sorrise al sole che, intesa la volontà della piccola dea, obbedì lasciando anzitempo il sidereo spazio all'umida notte affinché lenisse l'arsura dei muschi e dei giaggioli. Belve curiose si affacciarono da quella foresta, che era stata il loro lussureggiante giardino dell'Eden e, attonite, osservarono quella curiosa variazione. La mano rugosa interruppe la scrittura del vecchio diario e, rivolta al computer, aprì la posta elettronica. Nemmeno oggi Ingrid gli aveva scritto: lente lacrime gli rigarono il volto. Nemmeno nel giorno del loro anniversario si era ricordata di lui!!! L'uomo pianse e sentì che il bisogno di 33


piangere covava dentro di lui da molto tempo. E quelle pesanti tende di velluto verde scuro, che opprimevano i vetri polverosi, attutivano l'impatto della vista con quello straziante teatro. Tra i protagonisti di questa triste scena, oltre al vecchio e al suo dolore, c'erano anche i reperti di Ingrid che Koock consevava ben etichettati e con cura maniacale in speciali contenitori di vetro. Si volse a guardare lo scaffale della sua libreria, su cui essi erano esposti , distinti da etichette ingiallite. In uno c'erano tre gocce di sudore distillate in una notte di piacere; in un altro, settantasei lacrime per le prove di un doloroso addio. C'erano perfino i ritagli delle sue unghie laccate di viola ed, in altri, immonde escrezioni la cui vista avrebbe potuto far inorridire qualcuno, ma non lui, Koock, il suo primo e forse ultimo adoratore. Osservò i vasi con una lieve speranza in petto: oggi era il 50° anniversario della loro conoscenza. Chissà se il reperto 145 avrebbe replicato ancora una volta l'inusuale miracolo. Si sollevò con fatica e andò verso la libreria. Il reperto era in fermento. Dal suo fondo di polvere grigia filtravano frammenti di una luce verde che, riflessa da uno smeraldo che vi giaceva, sfiorò ogni angolo, ogni pertugio. Toccò ciascuna piastrella e asse della casa e colpì anche il vecchio cervello di Koock che rimase attonito a guardare se stesso: l'ologramma si sarebbe riformato? Ma quando il processo fu giunto quasi al termine e iniziavano ad apparire i piedi di Ingrid, un gesto maldestro del 34


vecchio fece cadere il vaso che andò in frantumi ed il suo contenuto si volatilizzò nell'ambiente. L'uomo portò le mani al cuore, la sua bocca si spalancò ed emise un urlo sovrumano, dalle frequenze così alte che risultò muto. Un urlo che durò un'infinità e che lasciò l'uomo senza più ragione. Un'autoambulanza, chiamata da un vicino premuroso, venne in suo soccorso, ma di lui non rimase che un'aura, poco individuabile dai moderni mezzi scientifici. Il vento Borea, che passava da quelle parti, vide quell'aura che aveva saputo tanto amare e così non poté fare a meno di prenderla e portarla con sé. La depositò così sulla spiaggia di Tropea, dove Ingrid la raccolse come un fiore.

21. IL TEMPO C'era una volta il tempo. C'era quello in scatola, quello accoccolato comodamente sulla sabbia, quello che, disteso sull'acqua canterina, ne godeva le fresche carezze. Si divertiva a intonare la stessa sua canzone, dando così un ritmo di battuta ineguagliabile, anche se le possibilità canore della sorgente erano proprio superiori alle sue. Ed eccoci allora al tempo stonato dell'invidia, del gorgheggiare in cui l'acqua era estremamente abile. Inimitabile. Il tempo iniziò a perdere il tempo, qualche umano ebbe degli attacchi cardiaci, altri approfittarono per inventare nuovi ritmi e nuove musiche, dalle battute diverse. I passi 35


dei danzatori non erano più prevedibili e sorpresero gli spettatori che si appoggiavano alla ripetizione del gesto. Aveva assunto tre Moire, di bianco vestite e, pagandole al nero, le usava per amministrare ingiustamente la vita degli uomini. I suoi sacerdoti, dopo apnee atroci causate da Atropo, morivano chiedendo maggior rispetto per la cronologia. Giovani pin-up entravano e uscivano dalla scena, trasportando vassoi con coppe di pioggia illuminata ancora dalle tracce dei fulmini di Zeus. Una giovanissima checca attraversò la scena, sculettando a memoria della bellissima Marilyn; le sue labbra erano rosso fuoco e un neo le palpitava appena sotto il labbro inferiore destro. Trascinava una scia di profumo, su cui giocavano a fare gli scivoloni i putti rinascimentali fuggiti dalle basiliche in rivolta contro i venditori di indulgenze.

22. PHOSPHORO I due viaggiavano ormai da più ore in quel deserto di sale abbacinante. Un oscuro lacchè guidava la loro auto e non aveva dato loro spiegazioni su cosa fosse quello strano pacco che li divideva e che forse li avrebbe divisi per sempre. Lei lo sollevò e vide che sopra c'era scritto qualcosa: Alla mia bambina, sotto l'albero del piacere Paradiso Terrestre. 36


In alcuni flash, fuoriusciti dalle strette fessure dell'involucro del pacco, lei vide scorrere frammenti di volti e di corpi che non era sicura di conoscere. Il suo compagno guardava annoiato quanto stava accadendo e si distrasse col suo cellulare, che trovava molto più interessante. Lei golosamente scartò quel pacco e si ritrovò tra le mani un intero microcosmo racchiuso in un cubo di plexiglas. Inquieta, si mise a scrutarne ogni angolo. Osservava quel microtraffico che faticava a svolgersi in quello spazio angusto. In esso, i suoi abitanti si chiedevano come mai la loro vita si dovesse svolgere proprio in quella cubica prigione. Intanto al suo compagno di viaggio si stavano sbiancando capelli e baffi, mentre faceva progetti di spicco nel settore dell'editoria. Il viaggio in quell'auto durava ormai da una decina d'anni, giorno più giorno meno. Ma proprio lì, in quel cubo, oppresso da alti condomini, immaginò di ritrovare il suo più caro amico, quello delle conversazioni luterane, scomparso mentre faceva ricerche sulle radici quadrate dello zero. Ebbe una stretta al cuore e sul cubo cadde qualche lacrima, che spaventò terribilmente gli abitanti degli ultimi piani che tentarono di correre ai ripari. In uno di questi, una mansarda per la precisione, stava ancora assopito un certo Phosphoro. Non si era accorto che la “Notte” era in ritardo e che, per andarsene, aspettava proprio lui, ancora steso tra le lenzuola di raso grigio-perla. Il mondo si sarebbe alzato quando lui finalmente avrebbe deciso di accendere l'aurora. La grazia del suo corpo nudo, avvolto da una 37


seducente nube di capelli corvini, si manifestò in tutta la sua portata quando egli, ancora assonnato, si affacciò sul mondo e, dopo aver sorseggiato il suo solito caffè solubile, si abbandonò nell'aperto cielo a volubili volteggi sulle onde di una rapsodia di Rachmaninoff. Il “Buio”, invidioso, accartocciò la luna e le stelle ancora accese di passione per lui che era destinato al trono di principe degli angeli, ma ancora non lo sapeva. Viaggiava così nell'aereo spazio di quel cubo il volatile Phosphoro e la sua scia era una scia di luce dorata che annunciava l'alba. L'auto ne assunse i riflessi e per un attimo i viaggiatori credettero di trovarsi in Paradiso. La donna si sentì sola, abbracciò per un attimo il cubo e chiese al suo compagno di viaggio se avesse una sigaretta da offrirle. Lui tacque e, forse preso dai propri sogni, ordinò all'autista di fermarsi e scese in quel mondo di sale in cui,dopo alcuni istanti, svanì. Dato il via all'aurora Phosphoro dopo un po', annoiato, preferì andarsene a fare una passeggiatina. “Ma perché Dio riserva solo a sé stesso i frutti dell'albero della conoscenza del bene e del male”, si chiese. Arrivato che fu dinanzi all'entrata del Paradiso Terrestre, tentò di convincere gli arcangeli di guardia a lasciarlo entrare. Il “NO” che gli fu opposto gli marcì il cuore. Immediatamente un nauseante odore sulfureo cominciò ad esalare dalle sue narici e gli occhi assunsero una particolare sfumatura gialla. Il bianco delle ali si incrinò ed egli temette di essere osservato. In effetti la donna che lo aveva intravisto, lo stava studiando con grande interesse. Aveva 38


infatti notato che questo curioso essere volante era senza ombra e che bastava un suo sguardo per farle provare emozioni a lei ignote fino a quel giorno. Aprì il finestrino della macchina, le mancava il respiro. Il demone intanto radunò il suo esercito di angeli e li introdusse ai vantaggi di un sapere fondato, colonna portante di ciascuna istituzione. Disse loro che aveva scoperto la fonte della sapienza che Dio riservava egoisticamente per sé. Si trattava dell'albero della conoscenza del bene e del male, che si trovava nel Paradiso Terrestre. Propose loro di accaparrarselo, ma qualcuno, temendo il potere di Dio, disse che in fondo un'enciclopedia a rate poteva bastare. Pochi, ma baldanzosi, si aggregarono al contestatore e, dopo alcune riunioni carbonare, partirono alla conquista del paradiso. La donna affacciata al finestrino urlò il nome di Adamo, suo marito, ma nessuno rispose. Forse era andato a curarsi quel forte dolore alle costole e poi stava aspettando che Dio creasse altri uomini per esprimere finalmente le proprie tendenze gay. Phosphoro e gli altri seicentosessantasei partirono all'attacco dei tre Arcangeli guardiani ma quelli, estratte le loro spade di fuoco, li annientarono, mentre Dio nello stesso istante creò un inferno incendiario per accogliere i vinti. Loro compito sarebbe stato, d'ora in poi, quello di fare da contrapposizione a Dio stesso: di portare la fame, le malattie, il dolore, l'odio, la guerra e la morte. Ed ecco ora precipitare i sulfurei mostri, perché tali erano diventati, verso 39


l'inferno perenne. La donna sentì un fragore fortissimo e sobbalzò... Proveniva proprio dall'interno del cubo quel suono disperato, guardò e vide che l' angelo nero batteva con entrambi i pugni sui vetri di quella prigione, implorando una via di fuga, lontano dalla predestinazione di Dio, che così l'aveva creato, pur sapendo che sarebbe finito all'inferno. Lei allora prese un piccolo scalpello e praticò un foro nel cubo. Egli, per poterlo attraversare, si trasformò in serpente e, giunto che ne fu al di fuori, spalancò le sue fauci, sporse la sua lingua biforcuta e l'auto si trasformò in un giardino lussureggiante, copia del paradiso terrestre, con al centro una specie di albero del bene e del male. Il serpente ne colse una mela di marzapane e la donò alla donna, mettendola in guardia contro l'apporto calorico. Lei lo baciò sulla bocca ed egli si trasformò in un gaudente chauffeur dal volto umano.

23. DEL SACRIFICIO Viveva in un tabernacolo, credendosi fatto della carne e del sangue di Cristo. Ai suoi fedeli si sarebbe dato volentieri in pasto, se fosse stato certo della risurrezione. Aveva studiato il catechismo dai preti e, divenuto esperto teologo, suoi erano ormai i meccanismi dell'imperialismo dello spirito. Anonimo, amava collocarsi nella galleria dei miti, nutrimento indispensabile per quei simpatici campanili40


smi religiosi causa di contese, risse o addirittura guerre per stabilire qual'era il vero Dio, la vera religione. E, immaginandosi oggetto di tanto interesse, si sentiva stimato e amato. Di notte, quando tutti dormivano, usciva da quell'angusto rifugio e, non visto, si aggirava per i quartieri malfamati della città in cerca di qualche Maddalena. Tra le molte, nessuna era disposta a fargli credito e a sopportare l'orrendo fetore che lo distingueva. Così, molto rapidamente, lo scansavano. Ma un giorno, un obliquo giorno autunnale, mentre se ne stava tornando più triste che mai al suo altare, vide uscire dalla nebbiolina leggera una fanciulla dalle parvenze angeliche. Lui le si buttò ai piedi e pianse tutti i dolori del mondo. Lei lo accarezzò e lo portò con sè nella sua graziosa casetta. Qui lo lavò, lo vestì, lo rifocillò. Lui era felice, l'avrebbe voluta sposare, ma ecco venire l'angelo del Signore che gli mandava a chiedere di dimostrare il suo amore per lui, sacrificandogliela. Fu qui che egli, incredulo, chiese a Dio e all'angelo il perché di tanta crudeltà. Ma le voci, che sicuramente venivano dal cielo, nel moltiplicarsi si facevano più imperiose. Su tutte una ripeteva: “Le vie del Signore sono infinite”. Il prescelto dal Signore chiamò allora a sé la siderea fanciulla, si inginocchiarono e pregarono. Lui prese la Bibbia e le lesse del sacrificio di Abramo. Poi la informò che lei era stata scelta dal Signore come agnello sacrificale. Lei allora, sorridendo, gli porse i polsi. Lui piangendo glieli legò. Memore quindi dell'obbedienza di Abramo, prese un'ascia e la 41


uccise, dopo averla benedetta. Piangendo e cantando lodi al Signore, se ne andò con l'ascia insanguinata verso il suo tabernacolo. Un barbone però, più disgraziato di lui, ne aveva rubato quei quattro cartoni che lo componevano. Crollò così sulle ginocchia e chiese a Dio il dono di prenderlo con sè, visto che lui ormai aveva già dato tutto, e a dimostrazione di ciò sollevò l'ascia insanguinata verso il cielo. Un angelo, vestito da poliziotto, lo ammanettò e lo portò via. Lui sorrise contento. Se ne andò così nella gloria, immaginando di essere il rinato Giobbe di un rifondato testamento.

24. LA LUPA Affamata, e non solo d'amore, la lupa si aggirava tra i resti carbonizzati della foresta pietrificata e, con passi leggeri, lambiva le macchie di luce lunare, quando ebbe la sensazione che un'ombra la seguisse da un po'. A scanso di equivoci e per non correre rischi, con un'agilità inaspettata, balzò dentro un fosso muschioso. In quell'umida e accogliente morbidezza, pensò che il suo corpo non solo conservava una certa agilità, ma che ancora avrebbe potuto godere e forse anche figliare. Sentì che una rete la stava sollevando di peso. Con grande sforzo riuscì a scorgere chi l'aveva irretita: un uomo, sommariamente vestito, con un copricapo di pelliccia, denti 42


canini aguzzi e una pelle coperta da un pelo morbido e fitto. Egli odorava di bestia e questo rassicurò la lupa che, lasciandosi cullare dall'ondeggiante camminata del cacciatore, un po' alla volta si acquietò. La mano dell'uomo inaspettatamente la accarezzò; del resto, la sua pelliccia aveva sempre acceso le attenzioni particolari di chi la incontrava. Giunsero a una pineta in riva al mare e qui la lupa fece conoscenza con il salmastro e con quella enorme massa d'acqua che gli umani chiamano mare. L'uomo appoggiò la lupa su un crinale di sabbia da cui uscì un enorme granchio dal muso scontroso che la guardò sdegnato. Incredibile, il granchio all'improvviso sollevò una zampetta e pisciò sopra ad un lichene per avvertirla che quello era il suo territorio!!! Il viaggio di ritorno, così lungo, servì all'uomo per addomesticare l'animale. Presero così ad andare a caccia assieme. Lei recuperava le vittime che lui colpiva con l'arco poi, seduta accanto a lui, godeva dei bocconi che lui le regalava. Ogni tanto, saziati e soddisfatti, si guardavano negli occhi e si dimenticavano di essere di diversa razza. Talora anzi la comunicazione era così intensa da non potersi spiegare. I due spesso dormivano accoccolati uno accanto all'altro, quasi a fuggire la straziante solitudine. Intanto il loro lungo viaggio stava giungendo al termine. Giunsero quindi a meta: una consunta e umida palafitta costruita dall'uomo sulla riva di un fiume. Con una spallata l'uomo ne aprì la porta, entrò, si guardò attorno e vide la somma di tutti quegli anni di solitudine. Si fece coraggio e invitò la 43


lupa a prendere possesso di quella reggia. Lei, titubante, con timidi passi andò a posarsi ai suoi piedi. L'uomo la accarezzò. Lei si strusciò sulle sue gambe e alle carezze di lui seguirono le leccate di lei e, senza avvedersene, si trovarono ad amarsi. Passarono i mesi e così, quando i frutti maturarono, la lupa partorì due gemelli. L'uomo costruì un cestello di vimini e vi appoggiò le due creature, che abbandonò fiduciosamente sulle acque materne del Tevere. Li raccolse una contadina che li allevò con i nomi di Olomor e Omer. Essi, una volta divenuti adulti, fecero la gloria di Amor, città che col tempo divenne una delle sette meraviglie del mondo.

25. LA MORTE A ciascuno la sua morte. La mia è una dolce e graziosa vedova inglese, un po' avanti negli anni, ma ancora seducente, di un'eleganza un po' retrò. Viene spesso a spiarmi ultimamente... così... tanto per farsi conoscere, un po' alla volta. Si apposta dietro un vetro appannato dal vapore e mi bisbiglia una tenera poesia d'amore. Badate bene che ha un carattere molto, ma molto indipendente, ed essendo molto richiesta, si fa desiderare parecchio. A volte arriva per il tè, accompagnata da un'aria marzolina e semina resti di brina sui ripiani del salotto, il quale assume così un aspetto fatato. Porta con sé le carte da gioco 44


per una partita a rubamazzetto o a tresette con il morto... Non accetta facilmente le sconfitte e se perde, assume un colorito scheletrico e poi minaccia tutti brandendo un'orribile falce, rivelando così le sue origini contadine. Talora, la notte, ho la sensazione che voglia accalappiarmi: si avvicina e tenta su di me un'espirazione bocca a bocca. Allora urlo con tutta me stessa e così mi trovo accanto al letto i miei cari spaventati. “Che cos'hai?”, mi chiedono, e io ancora ansante: “Ah niente, è venuta la morte e mi ha baciato sulla bocca... mi ha strappato il cuore!”

26. REPARTO ORTOPEDIA Può una vecchietta che ami l'heavy metal, Mozart e la sperimentazione teatrale trovare in un civile ospedale un insieme umano disposto a curarla con quella sollecitudine utile alla resurrezione? All'alba, infatti, io già issavo la bandiera sul bordo del mio letto invocando la pietas dei buoni samaritani di passaggio. La “giungla ortopedica” sembrava un circo a tre piste: un'avvolgente primario, l'assistente Bello, quell'altro alla tenente Colombo, il dubbioso cronico e... il pazzo. C'erano poi gli infermieri che ti soccorrevano facendoti l'occhiolino dall'alto delle loro forti spalle tatuate. C'era Crudelia de Mon che si introduceva ora in un corpo, ora in un altro delle gentili infermiere per esercitare il suo sadismo. Io, imprigionata nella mia “vergine di 45


Norimberga”, mi chiedevo quando mai sarebbe terminata quella feria, in cui, trasformata in totem, ero costretta dalle necessità ad ossequiare i particolari tabù di circostanza. I genitali erano solo organi escretori e i corpi vibranti degli infermieri, a cui aggrapparsi per non cadere dal letto, erano solo generosi bastioni. Protagonista indiscussa era sempre l'ironia, ottimo solvente per ogni imbarazzo. Così nell'aria chimica dell'ospedale sparivano tra le facezie: le ansie, le paure notturne e i desideri inconfessabili. Eravamo tutti consegnati a una galera di parole, da cui la poesia cercava di trarmi per una fantomatica evasione. Tra tutti, un infermiere, Marco, mi portava col carrello delle lavande le parole dei poeti. Esse diventavano lima e corda per evadere verso cieli più alti. Parole taumaturgiche che riparavano le piaghe dell'anima. Ed è così che egli mi lavava con l'acqua di Rimbaud, dalle reminiscenze selvatiche. Bastava poco per perdersi nelle giungle del "doganiere" o negli affreschi dei Carracci, tra lupi mannari tardorinascimentali. E l'ospedale, moderno “Golem”, ancora tracima dai soffitti i blob di morte e di dolore. I suoi sospiri, che incrinano i cementi, sono il fremito colmo di minacciose ingiurie contro chi lo costringe alla catena in tristi ruoli di dolore. Quel sibilo che a volte trancia le notti più cupe è la sua minaccia per i miscredenti e i detrattori della scienza... Si salvi chi può!!!

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* vergine di Norimberga (bambola di ferro nel cui interno chiodato si chiudevano ermeticamente le persone da torturare) 27. GENNAIO Può accadere in una fredda giornata di gennaio, quando il cielo fila e annoda lana grigia, che una donna senza amore tenti una felicità, seppure fittizia, cedendo inaspettatamente alle tentazioni dell'alcool e dei tranquillanti? E fu così che, presa da un fare inusuale, essa proclamò per se stessa una carriera di felicità. Iniziò bevendo un aspro vino bianco (non l'aveva mai amato il vino e tanto meno quello bianco), accompagnandolo con pastiglie di tranquillanti mentre, abbandonata in una comoda poltrona, rideva a crepapelle. Sola in casa. Smarrita nella memoria dei suoi fallimenti, la trovarono ancora sussultante di risate, ma cadente di sonno. La trasportarono a letto. Lì, la mattina seguente, un demone si impossessò di lei; la videro improvvisare una sorta di “pizzica“, danzando disperatamente tra le lenzuola sfatte, cercando l'aria da respirare che aveva perduto. La sentirono fare testamento con urla inaudite, finché cadde in coma sul letto. Ed è a questo punto che avvenne il fatto inspiegabile ai vivi, in un tempo non tempo, in cui non c'era un prima e un dopo, nè alcun tipo di emozione, ma la totalità delle cose 47


che si fondevano perfettamente nei loro aspetti più contraddittori, in una condizione in cui il corpo non c'era ma esisteva una identità precisa: lei era la tale e nessun'altra. Si trovò fatta di luce, nella luce, in un luogo dove c'era solo luce, ed era questo che contava e nient'altro. All'improvviso la vita si annunciò con un curioso formicolio ai polpastrelli. Sentì la voce di un barelliere dire a sua madre: “ Doveva chiamarci prima, poteva essere morta!”. Così fu costretta a vivere, ma il ricordo della “grande luce” rimase vivo in lei, come una meta che la sta aspettando, una meta inumana... di gioia piena.

28. VERGINITA' Io non persi la mia verginità ma la offrii in dono al mio orribile amante a cui la vecchiaia ha ora addolcito i lineamenti. Forse affinati col coltello, da una crudele strega. E non posso dimenticare quella lunga passeggiata in riva al mare in cui il silenzio rischiava di divenire il prologo di una tragedia. Mentre camminavo mi chiedevo disperatamente a cosa erano serviti tutti quegli anni di rinunce per mantenere perfetta la verginità, se ora che ero stata sverginata non si era prodotta la classica prova: la macchia di sangue. Senza di quella, come avrei potuto convincere il mio fidanzato che io ero proprio vergine, ma vergine, assolutamente vergine? 48


Tornati nell'albergo dove lui dava lezioni di materie scientifiche, corsi in camera e, sedendomi sul letto, mi tolsi gli slip, ed ecco generosa fluire la macchia che tutti volevamo, il segno del sangue, il prezzo del ricatto, il costo della carne: un tot al chilo. E vissero così: lui consolandosi con la masticazione di metaforiche foglie di coca, lo sguardo perso in un vuoto che pareva riempirsi all'improvviso di incubi. Eccolo quindi trasformarsi improvvisamente in un sadico. Non appena gli ultimi ospiti se ne erano andati, ecco che il nucleo nero, il blob, iniziava il suo tragitto in uscita in cerca della sua preda. Ovviamente il ruolo di preda era riservato a me, una preda annientata dallo spavento che non riusciva a trarre dalle sue mani sudate un agognato gesto di vendetta. Mi sarebbe piaciuto scambiare i ruoli per una volta, provare il brivido del sentirsi padroni di una creatura umana; chissà se sarei riuscita a conquistarne il cuore!

29. LA FAMIGLIA GROPIUS Entrò nella stanza e perfino i mobili non scricchiolarono più, i tarli infatti tacquero davanti a tanta bellezza. Teneva nella mano destra un fulmine d'acciaio, come i suoi occhi che lo riflettevano e nella sinistra un rotolone di carta da progetti ingiallita dal tempo. Chiamò il suo robot giappo49


nese con un battere di mani, il suo aspetto era alquanto curioso, era la copia precisa di un famoso attore americano (con annessi organi del piacere che statisticamente, la ditta lo garantiva, erano in grado di assolvere a qualsiasi richiesta). Così lei si sedette sulla sedia della Bauhaus che lui le propose. Fattala accomodare, la liberò da quell'esasperante reggicalze che dalla mattina le arrossava la delicata pelle del ventre. Emerse così la noiosa irritazione che da un po' di tempo la tormentava. Brad chiuse gli occhi e sperimentò le proprie capacità olfattive. Lei lo colpì delicatamente con un calcio sul mento... quel tanto per ricordargli che era lei la padrona. Lei certo non assomigliava alla tenera Manon, la madre, che conservava i disegni del nonno Gropius con la riservatezza e la gioia di chi sa di possedere un tesoro. Per lei non erano che carta da collages per i suoi raffinati esperimenti. Manon sembrava un'anziana signora spagnola e amava assaporare ogni tanto le musiche che le aveva dedicato il suo ex primo marito, Gustav Mahler. Era stato lui a introdurre i robot in casa, dopo il suo ultimo viaggio in Giappone, tanto che il più anziano di tutti (anche i robots vanno soggetti a curiose forme di invecchiamento) di nome Marius, stava incanutendo. Il fatto che in fondo fosse un bravo scrivano, lo rendeva particolarmente gradito alla donna che ne approfittava per farsi annotare gli appunti per i suoi racconti inediti. Provava un sottile piacere quando quest'uomo-giocattolo veniva colto di sorpresa ad eccitarsi 50


davanti alla sua immagine. Si consumava dal desiderio quando la osservava addentare le fragole che le sanguinavano dall'angolo della bocca verso un petto ancora invitante. Le due macchine avevano imparato anche a consolarle...Infilandosi tra le loro lenzuola, se necessario! A tratti, però, divenivano malinconici e gli orecchi più raffinati udivano il loro canto dirigersi verso mondi inarrivabili per i comuni mortali, che, a questo punto va detto, pagavano cara la loro normalità.

30. LA MATRIARCA Nacque in una notte senza stelle e senza vento, in una grotta primigenia, in cui stalattiti e stalagmiti si contendevano il raro spazio libero. Al centro, illuminato da un raggio di sole, scordato lì dal custode della luce e covato dal serpente Ofione, giaceva l'uovo universale da cui, tra poco, sarebbe emerso l'universo intero. La grotta ebbe un fremito ed ecco affacciarsi da una crepa di quell'uovo planetario una creatura che racchiudeva in sé tutte le bellezze e tutte le meraviglie possibili. Costei non era altri che la “matriarca”. Aperti gli occhi e dato uno sguardo al mondo attonito, capì subito che ne avrebbe fatto del suo fascino. Questa prima femmina aveva in sé tutto il bagaglio delle meraviglie dell'universo intero. 51


Dalle sue mani scorreva verso terra l'acqua dei fiumi e, perché no, anche quella delle pozzanghere. Tra i suoi capelli ricciuti stavano accoccolate numerose varietà di uccelli. Dalle pieghe del molle peplo fuoriusciva l'acqua del mare e le goccioline della nebbia che orlava le vele degli antichi piroscafi; dal petto generoso provenivano le antiche montagne, dal sesso le inesplorate caverne. Insomma, era il riassunto delle grazie, della leggiadria, dell'armonia e della proporzione, dell'avvenenza e della grazia. Cantava e la sua voce era il compendio di tutte le melodie che l'essere umano avesse mai scritto. Vi si poteva sentire anche l'eco del canto delle sirene, i velluti della voce di Circe e il frinire delle cicale in estate... Lui, perduta la ragione, non sapeva di essere il “re sacro“, ma lo scoprì ben presto quando, abbandonatosi tra le sue braccia, immediatamente dopo la copula, venne divorato e ucciso.

Fine

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Indice Dal Libro dei Ricordi, 1 Dal Taccuino dei Viaggi, 8 Amici Cari, 13 Il Divino e Altre Mitologie, 29

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