Kazia

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L’amore è la fondamentale e nativa vocazione di ogni essere umano.

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PROLOGO

L

a casa scoppiava di luci. Tutta addobbata a festa. La cucina emanava deliziosi profumi. Sulle mensole, nei vasi di ceramica giaggioli, begonie e grappoli di

campanule ostentavano i loro affascinanti colori. Kazia, nel suo migliore vestito, girava per la casa come se fosse ubriaca. Fece un salto in cucina per dare un piccolo assaggio al barszcz, la zuppa di barbabietole tipica della regione, o al kapusniak, una pietanza di verza, per poi infilare un dito nel forno e assicurarsi della giusta lievitazione

della babka, un dolce simile al panettone.

Subito dopo, fece un altro salto nella sala per controllare se la legna ardesse nella bella stufa di maiolica smaltata, se ogni oggetto luccicasse, se tutte le candele dritte nel candelabro fossero pronte a essere accese. Un ultimo sguardo pieno di tenerezza fu rivolto alla loro vecchia poltrona, ora messa a nuovo e ornata da variopinti cuscini confezionati da lei stessa. Kazia si sentì soddisfatta dell’aspetto degno di quell’avvenimento così speciale. Quella serata dell’ottobre 1988 la donna sessantaseienne attendeva l’arrivo di Ewa, la sua “bambina” che tornava da lei dopo ventiquattro lunghissimi anni portando con sé la figlia. Le ultime ore di attesa le sembravano più lunghe di 2


tutti quegli anni trascorsi. Esausta, si buttò a sedere proprio sulla loro poltrona: la cara, vecchia amica che in quei lontani tempi era servita da lettino, da fasciatoio, da tavolino, da posa giocattoli, da nascondiglio durante i giochi, da spalla per le sue lacrime e pure da vittima dei suoi pugni di rabbia. Il muto testimone delle loro vicende. «Che tempi, Gesù Maria!» Davanti agli occhi di Kazia iniziarono a dipanarsi, limpide come al cinema, le scene del passato.

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ANNI 1931-1939

«M

amma, potrei non portare le bestie al pascolo? Devo presentarmi a scuola. La maestra mi ha avvertita che, se farò tante

assenze, non imparerò mai niente.» All’alba di una mattina di settembre la piccola Kazia, appena finito di mungere le mucche, si rivolse quasi piangendo alla madre Stasia dicendole ciò. La donna, alta e robusta, stava mettendo il solito fazzoletto bianco sui suoi biondi capelli, allacciandolo sotto il mento com’era consuetudine di tutte le contadine. Alzò gli occhi, che da grigio chiaro divennero scuri d’indignazione, e le rispose: «E chi porta le mucche a pascolare? Le mucche senza cibo ci daranno poi del latte? Io devo raccogliere le mele e le pere e fare del burro, oltre a…» La donna, forse stanca di ripetere cose che la figlioletta conosceva a memoria, allungò le braccia indicando la grande stufa con appresso una pila di legna e un pentolone sul fuoco, in un angolo il cesto di roba da lavare nel fiume, le galline che si radunavano sulla soglia della porta e fuori il grosso pastore tedesco Burek in compagnia di due gattini. Non c’era bisogno di indicare l’isba, la 4


stanzetta matrimoniale dove la nonna Tereza, per fortuna ancora in ottime condizioni fisiche e mentali, filava la lana e accudiva l’ultima nata Helena. Nome per il quale ognuno in famiglia aveva trovato un proprio vezzeggiativo: Helcia, Helka, Helunia. Beata nella sua culla, la bambina dormiva tranquillamente svegliandosi soltanto per reclamare il suo diritto di succhiare il latte materno. «E sai» riprese la mamma «papà e Adam stanno riparando il carro di fretta e poi prepareranno il cavallo, perché come al solito andranno al mercato in città a vendere i nostri pochi prodotti.» «Mi compreranno le scarpe? Mamma, i campi dopo la mietitura sono diventati tutti delle stoppie pungenti e mi fanno male ai piedi…» Povera Stasia: avrebbe voluto stringere al petto la sua bambina di soli nove anni anche se già alta, di bell’aspetto e sano, promettendole quell’accessorio necessario. Invece, con la voce più dura alla quale riuscì a costringere le sue corde vocali, esclamò: «Guarda, guarda la nostra signorina. Ha paura di pungersi i suoi nobili piedini. Io alla tua età non osavo neppure sognare le scarpe. Andavamo a messa a turno e mettevamo le scarpe uno dell’altro senza badare alle misure. In inverno le nostre gambe e le nostre mani soffrivano di geloni tali che non sparivano facilmente.» “Guarda le mie mani” avrebbe potuto aggiungere. Ma provò pietà per i suoi fratelli e la provò allo stesso modo per sua figlia. «Ascolta, Kazia. Se le mucche daranno abbastanza latte, se le pecore avranno molta lana, se le galline saranno 5


prodighe e se tutto si venderà bene a Cracovia, allora per l’inverno ti compreremo un bel paio di scarpe. Contenta?» «Che cosa vuol dire prodighe?» chiese la piccola, come sempre desiderosa di capire tutto. «Vuol dire generose. Vuol dire che faranno molte uova» le spiegò Stasia. Lei stessa aveva imparato quella parola da Adam, il suo primo figlio maschio ora sedicenne. Alcuni anni prima, la loro famiglia si trovava ancora in discrete condizioni economiche tanto da poter offrire al primogenito la possibilità di acquisire una certa istruzione. Dopo le elementari fatte nel paese di Bronowice, il ragazzo aveva frequentato la scuola di avviamento professionale a Cracovia. Il loro Adam! Ne sapeva di cose! Stasia, suo marito Janek e i nonni erano orgogliosi di lui. Lo ascoltavano quando parlava e cercavano di apprendere qualcosa da quel ragazzo erudito. A Kazia e ai suoi fratelli erano rimasti solo due nonni: Tereza, la madre di Stasia, e Lech il suocero purtroppo non più autosufficiente. Al contrario degli altri anziani, i loro nonni non avevano mai pensato che per un contadino andare a scuola fosse uno spreco di tempo. Stasia, fiera di avere saputo spiegare alla figlioletta il significato di quella parola, le domandò: «Te la ricorderai?» Kazia, soddisfatta della spiegazione, ripeté fra sé: Prodighe generose. E sorridendo alla madre rispose: «Sì, sì. Non dimenticherò una parola così importante, mamma. Ti ringrazio della promessa. Parlerò con le 6


galline, con le mucche e le convincerò a essere prodighe.» Scoppiarono entrambe a ridere. Improvvisamente

dalla

stanzetta

arrivò

un

pianto

disperato e ne uscì nonna Tereza, chiamando Stasia a gran voce: «Stasia, svelta! Sembra che questa piccina stia morendo di fame. Che polmoni! Intanto io vado nel fienile a prendere le uova, così stamattina Janek e Adam faranno in tempo a portarle al mercato, evitando di ingannare i clienti nell’assicurarli che sono freschi del giorno quando invece non lo sono.» La nonna si ricordava i tempi in cui da giovane aveva dovuto inventare qualche bugia riguardo ai suoi prodotti, non sempre perfetti a causa delle troppe piogge o della prolungata siccità, o ancora delle altre catastrofi che troppo spesso colpivano la povera gente. Crearsi una buona clientela non era mai stato facile, perché era necessario superare la minacciosa rivalità degli altri contadini che gremivano l’enorme piazza dell’antica città di Cracovia con i loro sacchi, bidoni, ceste e recipienti più o meno voluminosi. «Kazia, hai già munto le mucche? Prenditi un pezzo di pagnotta con formaggio e va’ al pascolo vicino ai Rudecki, perché a settembre l’erba laggiù è più buona.» «Sì, nonna. Grazie della colazione, sto già pregustandola con il formaggio fatto da te, che sei una specialista. L’altro giorno l’ho fatto assaggiare a Marek, che mi ha detto: “Fortunata te, che hai una nonna così. La mia non sa fare niente”. Povero Marek!» Forse la nonna di Marek non sa fare il formaggio, ma non 7


sbaglia quando parla, non dice più “buona” ma, come insegna la maestra, “migliore”. Però, non cambierei la mia nonna con nessuno pensò Kazia fra sé. La

bambina

schioccò

due

bacioni

sulle

guance

abbronzate dell’anziana donna, che la ripagò con una patta sul fondoschiena spronandola ad andare. «Vai, bambina! Il sole si è alzato già da un po’.» Kazia andò rapida nella stalla e chiamò le tre mucche: «Blondynka, Szatynka[1]! Si va!» Burek, seguendo il gruppo di capre, apparve senza essere chiamato e salutò la padroncina con le sue rudi carezze, quasi buttandola per terra leccandole le gambe e le mani. «Burek, non vedi che porto il vestitino appena lavato? Qui l’aia è sporca, giocheremo più tardi sul prato. Poi farai il bravo, guarderai che le bestie non si allontanino così io potrò ripassare l’alfabeto e le addizioni.» Non voglio che Marek pensi che io sia buona solo a fare la pastorella, perciò devo applicarmi da sola. E se non capisco qualche cosa, mi aiuterà Klelia, la mia migliore amica. Purtroppo, posso frequentare la scuola soltanto in inverno. Però, non sono sicura che le scarpe dell’anno scorso non siano troppo piccole. Adam le aggiusterà, quello sa fare di tutto, e un giorno le userà Helena rifletté sempre fra sé. «Dove conduci le mucche stamattina?» Quella voce familiare interruppe i suoi pensieri. «Oh, buongiorno signora Rudecki! Benedetto sia il Signore» replicò la bambina con il consueto saluto dei contadini. «La nonna mi ha consigliato il prato che costeggia i vostri da questa parte del ruscello.» 8


«Non ti preoccupare se le tue mucche sconfinano. Oggi le nostre rimarranno nelle stalle, perché Jozef non sta molto bene. Gli anni iniziano a pesargli e non ce la fa più a rimanere fuori tutto il giorno. E Marek, ora che sono cominciate le scuole, resta a Cracovia da mia madre. Corri, corri, altrimenti le mucche ti scappano!» «Burek,

Burek!

Sbrigati,

dietro

alla

Brunetka!

Ci

fermiamo qui. Buongiorno, signora Rudecki.» «Il Signore sia con te, cara!» In ogni saluto si menzionava sempre il Signore o la Madonna. Kazia avrebbe voluto chiedere alla signora: “Marek tornerà a casa domenica, oppure dovrà rimanere in città per studiare?”. Ma non osò farlo: il suo affetto per il ragazzo si nascondeva nel suo cuore come un uccellino neonato si nasconde nel proprio nido. I genitori di Marek avevano uno stalliere, un giardiniere e un garzone per accudire la loro fattoria molto estesa. C’erano tanti campi fertili e prati variopinti; c’erano molte bestie, un prolifico orto e un giardino colmo di bellissime piante profumate. Marek era felice quando tornava al villaggio e poteva dedicarsi ai lavori campagnoli. Per Kazia andare con lui al pascolo era uno spasso. Allegro e scherzoso, faceva divertire la piccola Kazia, più giovane di lui di cinque anni. Marek ha compiuto già quattordici anni e frequenta il ginnasio. Che cosa vorrà dire una scuola con un nome così strano?

Si chiedeva ogni tanto. E si vergognava a

chiederglielo direttamente. La bambina osservò le mucche che brucavano l’erba, 9


ogni

tanto

alzando

la

testa

e

muggendo

forse

di

contentezza per tutto quel ben di Dio davanti a loro. Intanto, il cane correva verso di lei con una pigna in bocca per giocare come gli aveva promesso. «Ci divertiamo cinque minuti e poi mangiamo. Ti do un pezzo del mio pane, anche se a dire il vero dovresti stare un po’ a digiuno perché ingrassi troppo, e poi mi lasci in pace.» Kazia si sedette sul tronco di una quercia, perché l’erba brillava ancora di rugiada mattutina, e cominciò a buttare la pigna che si perdeva nei cespugli nei quali Burek la ripescava

con

dell’adorata

facilità

e

la

padroncina.

rimetteva

Entrambe

nelle

manine

divorarono

la

colazione, quietarono la sete nel vicino ruscello e si rinfrescarono mani e piedi. Poi Kazia si sdraiò sull’erba, che nel frattempo si era asciugata sotto i caldi raggi di sole. La campana della vecchia chiesa, con i suoi dodici melodiosi rintocchi, invitava la gente alla preghiera e a un breve riposo. “Settembre dimostrò

d’oro”,

quell’anno

così di

battezzato

essersi

dai

pienamente

polacchi, meritato

l’appellativo: all’aurora i fili dorati del sole giocavano sulle cime delle colline, sugli alti rami degli aceri e delle betulle, e scintillavano sui tetti di paglia delle casupole. Gli usignoli cantavano allegri insieme alle allodole, mentre alle rondini dispiaceva volare verso climi più caldi. Poi la palla nel cielo azzurro diventava più ardente, scaldando la terra e le sue creature, e pian piano si abbassava verso i lontani monti per sparire infine, tutta di porpora, dietro l’orizzonte. Kazia percepiva istintivamente quelle fasi della 10


giornata: anche a lei veniva voglia di cantare, di godersi il calore non esagerato del sole, sentendo una strana nostalgia nel guardare quel cerchio di fuoco diminuire e abbandonare la natura che sembrava rattristarsi. Burek, stranamente, intuiva il momento del ritorno e saltava attorno alle mucche e alle capre, le spingeva verso il ruscello dove si abbeveravano mentre Kazia infilava nel sacchetto il suo prezioso quaderno, ripetendo a voce bassa: «Palma, palme; grillo, grilli; poeta, poet… e… Eh, no… Non mi sembra giusto. Forse, poeti? Stasera, appena tornerà dal mercato, lo chiederò a Adam.» Avvicinandosi alla sua casa dapprima Kazia osservò il fumo srotolarsi dal camino, segno che si stava preparando la cena, e poi gioì come sempre alla vista della casetta: corrispondeva ai disegni degli scolari in cui tentano di ritrarre le proprie dimore. Era tutta costruita di travi rotonde in legno, l’una sopra l’altra, con il tetto spiovente coperto di paglia, la porta bassa tinta di verde color dei prati a primavera e due finestrelle con vasi di vivaci gerani sui davanzali. Passando vicino all’alto melo, vide la scala di legno a pioli appoggiata a un robusto ramo e sotto un cesto colmo di quel succoso frutto. La madre, vicina al pozzo, stava attingendo dell’acqua nel secchio e l’altro recipiente era già pieno. «Mamma, porto io questo secchio a casa.» «No, è troppo pesante per te. Prendi invece alcune mele dal cesto e mettile in tavola. La raccolta è stata buona, così possiamo permetterci di mangiarne qualcuna.» Kazia non si fece ripetere l’invito e riempì il grembiule di mele che, belle rotonde, le sorridevano con le loro gote 11


rossastre. Mentre Burek sollecitava le bestie a entrare nella stalla, lei si precipitò verso la porta di casa che trovò tutta spalancata per far uscire il fumo provocato dalla legna accesa nella stufa. Kazia posò le mele e prese la piccolina dalle

braccia

della

nonna,

permettendole

così

di

apparecchiare la tavola in modo più agevole. Helka, che si succhiava il pollice guardandosi intorno con i suoi occhi blu scuro uguali a quelli del papà, riceveva i baci di sua sorella con la naturalezza di chi se li aspetta e se li merita. La nonna scorse le mele ed esclamò tutta contenta: «Ah, che lusso oggi! Le mele! Bene, grattugerò un pezzetto per Helcia, la frutta le fa bene. Kazia, assaggia la kasza. È una specie di polenta, fatta anche con cereali. Ci aggiungi un po’ di sale, se necessario, qualche goccia d’acqua e girala ancora un pochino. Dovrebbe essere pronta. A momenti, tuo padre sarà qui con tuo fratello Adam e avranno una fame da lupi.» Kazia la ubbidì, poi tornò al pozzo, riempì il secchiello d’acqua e si lavò la faccia e le mani. “Bisogna

sedersi

a

tavola

con

le

mani

pulite”,

raccomandava la maestra. Si asciugò con un pezzo di tela appeso all’albero vicino e rientrò in casa. In cucina tagliò in larghe fette la grossa pagnotta di segale, anch’essa sublime opera della nonna, mettendone in bocca un bel pezzo. «Imparerò mai a fare del pane così delizioso? Oh Madonna, perdonami… Mangio senza avere fatto il segno della croce.» Lo fece subito, poi girò lo sguardo intorno al minuscolo locale, centro della casa, da lei molto amato. Vicino alla 12


stufa, un’apertura nel muro mostrava uno sgabuzzino con un letto molto alto perché, sopra a un duro pagliericcio coperto con un ruvido lenzuolo di lino, c’era un piumone gonfio di piume d’oca e, nella testata, c’erano due cuscini anch’essi imbottiti con le stesse piume. Dopo che in quel letto, in cui prima avevano dormito la nonna e Stefek, era nata Helena si era trasferita Kazia, mandando il fratello tredicenne nel granaio fino a quel momento il regno di Adam. Sopra il letto era appeso un crocefisso con Gesù: le sembrava

che

le

ammiccasse,

assicurandola

che

le

sofferenze patite sulla croce gli erano state donate da Dio, Suo Padre, perciò da lui accettate con serenità. Nella stanzetta trovavano posto con difficoltà un armadietto, un tavolino e una sedia. Kazia s’impegnava per tenere la “nostra cameretta”, come la chiamavano lei e la nonna, pulita e in ordine. «Burek, via di qui! Guarda le tue zampe piene di fango!» sgridò il suo pupillo. Burek ne sembrò offeso: abbassò la coda e andò a sedersi vicino alla stufa in cucina. Appoggiato all’altro muro della cucina c’era un tavolo con intorno una panca sulla quale, a momenti, si sarebbe seduta tutta la famiglia per consumare insieme la cena preparata con passione da Stasia. La mamma che, come si diceva, con poco sapeva inventare un piatto gustoso. Naturalmente, niente capricci. «Ringraziamo il Signore per quello che nella Sua bontà ci regala.» Quella era la consueta preghiera prima di cominciare a consumare il pasto. 13


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