Quota 848 - raccolta di racconti

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Nicola Adorni

QUOTA 848


Quota 848

Copyright Š 2009 Nicola Adorni

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E-mail: dallisotto@yahoo.it


FARD Fabian si sedette sulla panchina alla fermata dell’autobus. Il faro rotante dell’aeroporto di Orly spandeva la sua luce nelle ultime ore della notte, ma per quanto l’alba potesse essere vicina, il ragazzo era certo che neppure quel giorno avrebbe visto il sole. Ipnotizzato dalla luce e ancora troppo assonnato, osservava il cartellone delle linee pubbliche della compagnia Ile-Metrò; mancavano cinque minuti ancora, all’arrivo del suo mezzo. Appoggiò la testa all’indietro e chiuse gli occhi aspettando il suono del potente clacson. Non era raro per un parigino vivere senza sole per due settimane – il Nord della Francia era sovente assediato, in quei mesi autunnali, dalle perturbazioni atlantiche; la cosa strana era però la totale assenza di pioggia, sebbene il cielo fosse plumbeo e minaccioso come un clochard ubriaco. Durante gli ultimi giorni, cumuli neri proveniente da Nord si erano ammassati. Il vento li aveva sospinti veloci sul cuore della città, per poi alla sera farli fuggire insoddisfatti verso la Borgogna, e nonostante su Parigi non piovesse, la Senna era gonfia e torbida delle acque raccolte nel suo percorso, perché a Sud-Est pioveva ormai ininterrottamente dalla fine dell’estate. Fabian controllò la chiusura della valigetta, poi la strinse al petto cercando di ripararsi dalla brezza fredda che si insinuava nella vetusta costruzione in lamiera.


Aprendo gli occhi guardò l’anziana signora accanto a lui, e la ragazza in piedi che sembrava intenta a leggere gli orari degli autobus. La signora emanava una nube di acqua di colonia da discount, era truccata come una matrioska e non sembrava avere nessun motivo per andare in centro città alle 6:30 del mattino. La ragazza invece aveva dei lunghissimi capelli nero corvino, un piumino fuori moda e una gonna rossa a frange, che le arrivava appena al ginocchio – qualche refolo più forte si divertiva a sollevarla quel tanto da mostrare un collant nero smagliato e ben poco sensuale. Non ebbe il tempo di valutare quanto potesse essere carina, perché i fari del pullman aprirono un varco nel buio del solito lunedì mattina. Meccanicamente si sedette al suo posto, sopra le ruote posteriori sulla destra del pullman, lasciandosi avvolgere da un leggero sonno, senza curarsi di essere osservato con insistenza dalla brunetta della fermata. Al capolinea di Port d’Ivry, la siccità parigina si interruppe. Le prime gocce di pioggia sottile si rincorrevano tra gli sbuffi di vento; il sole sembrava aver abbandonato il Sistema Solare anche per quella mattina, nascosto dietro quelli che Fabian ritenne anni luce di nuvole nere. Il colpo di clacson del mezzo che ripartiva lo svegliò definitivamente, giusto in tempo per notare lo sguardo fugace della ragazza verso di lui, a metà tra l’indagatore e l’ammiccante. Lui formulò le prime ipotesi ragionevoli che gli vennero in mente: potevano essere stati compagni d’asilo un milione di anni prima, o lei era fortemente miope e guardava tutti in quel modo ebete, o aveva una bella macchia di senape sull’impermeabile nero – possibilità non remota, vista la cena take-away della sera precedente. La vide muoversi verso le scale 4


che conducevano alla linea 7 del metrò, distante solo duecento metri. Si avviò anche lui, a passo lento. Quel giorno doveva fermarsi in molte agenzie sparse in ogni angolo della città; collaborava da alcuni anni con gestori di immobili, piccole imprese di amministrazione di condomini che avevano troppi palazzi in gestione e poco personale per redigere tutti gli atti in tempo. Lui collaborava a domicilio, stilava i rapporti mensili di contabilità e saltuariamente presiedeva le riunioni tra gli abitanti del palazzo – una cosa pericolosa e mal pagata quanto la legione straniera, come ripeteva ai suoi amici. Collaborava con trentacinque imprese, ma solo con quattro o cinque poteva dirsi veramente in rapporti di fiducia. Sbrigava anche commissioni burocratiche e legali, faceva da intermediario con gli abitanti e con gli enti locali – il lavoro sporco che nessun capo d’impresa ormai faceva più da anni. A Parigi c’erano quasi mille compagnie di gestione d’immobili, e tutte ricorrevano alle prestazioni di galoppini come Fabian. In ogni sua collaborazione, lui aveva sempre posto un’unica condizione, ovvero che gli incarichi fossero tutti entro il raggio della metropolitana, o del RER – il treno suburbano – il che comunque estendeva il suo raggio d’azione ad un’area vastissima che escludeva solo alcuni sobborghi periferici. «Io ho circa trecento uffici, trecentouno ad essere precisi» aveva detto una volta ad un’incredula telefonista di call center che voleva rintracciarlo «Camera mia è la sede principale, e tutte le trecento stazioni metro di Parigi sono le succursali». Mentre sorrideva ripensando a quell’occasione, si accorse che la pioggia aveva iniziato a cadere a grosse gocce irregolari, e che il cielo, da un momento all’altro, 5


avrebbe rovesciato un nubifragio con tanto di saette e tuoni che incombevano da Est. Saltellò verso la fermata della metro infilandosi la valigetta con i documenti sotto l’impermeabile; dette un rapido sguardo ai suoi abiti per controllare la presenza fastidiosa di macchie, senza farsi troppo notare, quasi avesse calpestato un escremento di animale. Il primo fulmine cadde talmente vicino da far scattare gli allarmi delle auto parcheggiate lungo il boulevard, e poi – come in una spontanea coreografia da musical – un nugolo di ombrelli sbucò in strada quando la pioggia assunse le sembianze di una cascata alpina. La stazione di Port d’Ivry era una tra le più antiche di Parigi ed una tra le pochissime rimaste con l’arco d’accesso in elegante ferro battuto stile liberty. A differenza di molte altre città, a Parigi le fermate della metropolitana non erano identificate da segnali luminosi o cartelli bene in vista – certo, il ricamo floreale di Port d’Ivry avrebbe mal sopportato un moderno cartello insignificante e privo di poetica armonia; meno artistico, ma senza dubbio più utile, era il venditore indiano di giornali appollaiato all’inizio della scala mobile. «Come fa qualcuno a sostenere che tutte le razze sono ugualmente intelligenti» pensò cercando nel portamonete gli spiccioli per il giornale «Buonuomo, si metta al riparo sotto la galleria» suggerì infilando Le Monde sotto l’impermeabile. Nella corsa aveva superato la brunetta con le calze smagliate, che solo adesso arrivava dietro a lui coprendosi la testa con la borsetta. «Al mio paese» sorrise l’indiano «… piove sei mesi l’anno senza mai smettere… sentirei nostalgia se non mi bagnassi mai!». 6


Fabian gli sorrise e si voltò verso le scale, ma in quell’istante un lampo di luce avvolse tutto. Un fulmine si abbatté sull’arco di ferro battuto, scaricando la sua furia sulle colonnine in marmo che lo sorreggevano. Il fortissimo fragore scaraventò a terra Fabian, che scivolando in avanti sui gradini, si trovò a terra assieme alla ragazza del pullman, in una curiosa posizione da film hard. «Mi perdoni signorina» balbettò ancora scosso, ma più che altro visibilmente imbarazzato «Il tuono… lo spostamento d’aria… sono scivolato sulle scale bagnate». Prima ancora di rispondere, la ragazza si era infilata sotto la galleria evitando i rovesci di pioggia che si erano fatti molto violenti. Sorrise aggiustandosi la gonna rossa. «Non si preoccupi, è caduto anche l’indiano lassù» poi accorgendosi della loro età non dissimile aggiunse «Spero tu non ti sia fatto male piuttosto…». «Non è nulla, un semplice scivolone» in effetti l’impermeabile sembrava non essersi neanche sporcato. Adesso poteva vederla in tutta la sua figura. Dietro un naso un po’ aquilino e un paio di occhiali desueti, si celavano due occhi verde mare, grandi e timidi, accompagnati da labbra sottili arricchite da un lucidalabbra da adolescente. Ripresosi, s’incamminò in direzione dei treni; non erano passati più di trenta secondi dalla caduta ma gli sembrarono ore, e il lavoro lo attendeva. La ragazza si mosse subito dietro di lui, con gli occhi bassi, quasi lo seguisse. «Possiamo fare un po’ di strada assieme» gettò nel vuoto Fabian, chiedendosi dove potesse mai andare la ragazza «Magari fare due chiacchiere non ci farà male, 7


dopo lo spavento di quel fulmine… Ha colpito la stazione proprio mentre passavamo. Direi che siamo stati anche fortunati». «Io vado al Louvre… lavoro lì» lasciò cadere vaga «Strano che non ci siamo mai visti prima, faccio sempre questa linea». «Anche io, ma ad orari variabili. Sai, faccio il galoppino part-time per alcuni amministratori di immobili. A dire il vero dovrei anche studiare…» Si sedettero su una panchina aspettando la metro. La stazione era semi-deserta. «Ho sempre invidiato chi riesce a studiare e lavorare. A me è sempre sembrato troppo impegnativo fare sia l’uno sia l’altro, perché mi rimane sempre pochissimo tempo libero». Alle loro spalle un’enorme reclame della Sony mostrava due ragazzi che giocavano ad una consolle su un prato alpino. Non capendone il significato, Fabian tornò alla conversazione: «In effetti “tempo libero” è un’espressione per me caduta in disuso. Se escludi il venerdì e il sabato sera… Il problema è che del lavoro non posso fare a meno, e alla fine dedico più tempo a quello che allo studio. La laurea è ben lontana». Salirono sul treno deserto, sedendosi uno dinanzi all’altro; solo le coppie si sedevano a fianco sulla metro. Lei coprì con cura le calze smagliate, accennandogli un sorriso quasi di scusa per quel particolare poco femminile. «A volte esco troppo di fretta al mattino» disse piano, rossa sulle guance «Dove scenderai?» «Mmm… devo fare dei bei giri oggi. In teoria potrei scendere anche subito, a Place d’Italie» la osservò cercando un velo di delusione sul suo viso «ma preferisco 8


passarci al ritorno, arrivo a Chatelet» il treno prese velocità «Comunque anche io esco troppo spesso di fretta. Solo per riuscire a dormire quei pochi minuti in più, salto anche la colazione… come oggi. L’unica cosa che non salto mai è la rasatura» ma passandosi la mano su una guancia, avvertì la fastidiosa presenza di un’ispida barbetta. Lei sorrise, sentendosi sollevata dalla comune disattenzione. «Beh quest’oggi anche tu allora dormivi più del solito» senza avvedersi dello smarrimento di Fabian che cercava di specchiarsi nel vetro del treno in corsa. «Non capisco…» oscillando la testa qua e là verso l’esterno «Eppure mi sono rasato come al solito». «Aspetta, prendi questo» lei estrasse dalla borsetta una piccola trousse munita di uno specchio sporco di fard. «Grazie, temevo di essermi rasato male» disse «invece non mi sono rasato affatto questa mattina e pare che neppure ieri mi sia rasato, a quanto vedo. Impossibile». Passarono Place d’Italie e Maison Blanche senza che nessuno salisse sulla loro carrozza; pur scambiandosi qualche sorriso, i due rimasero in silenzio osservando i pochi presenti sulle banchine delle stazioni. «Cosa fai di preciso al Louvre?» chiese Fabian ancora incapace di capire come potesse avere la barba così lunga. «Sono… inserviente» rispose con un filo di voce. «Temo che il fulmine di prima ci abbia un po’ scosso… Sai quante volte mi faccio la barba, ma non ci siamo detti neppure il nome… io sono Fabian». «Succede, solo quando si invecchia si fa caso a certe formalità» sorrise sicura stavolta «Io sono Consuelo» 9


accorgendosi subito di aver usato un accento che ne tradiva la provenienza. «Non è certo un nome francese, anche se scommetto che nessuno l’ha mai pronunciato come hai appena fatto tu…» «Infatti. Sorrido sempre quando mi sento chiamare “Consuelò”. Mia madre è spagnola, molto… troppo legata alle sue tradizioni… ma comunque a me piace il mio nome». Fabian si trattenne dal chiedere del padre. Si erano appena incontrati cadendole addosso, un altro rovinoso scivolone sarebbe stato fatale. A Place d’Italie salirono molte persone, variegate come solo le metropoli sapevano offrire: le guardarono, avvedendosi che erano tutte fradice di pioggia. A fianco a loro sedette una donna di colore che avrebbe potuto tranquillamente occupare due seggiolini, e un uomo sui sessant’anni, con un impermeabile ed una borsa consunta di pelle, tenuta gelosamente sulle ginocchia. Gettandole uno sguardo, Fabian provò a coinvolgere Consuelo nel suo abituale gioco mattutino: indovinare il mestiere di coloro che si sedevano al suo fianco. Era un gioco sempre senza alcun vincitore – e senza neppure la soddisfazione di conoscere le risposte corrette – ma lo divertiva, gli scioglieva “i muscoli” della fantasia. La sua mente formulò subito un’ipotesi ardita: medico; di getto, il particolare della borsa in pelle lo aveva indirizzato là. Consuelo lo guardò in tralice cercando di intuire i pensieri dell’altro. Senza esitare allora aprì la cartellina che teneva ancora sotto l’impermeabile e scrisse su un foglietto le regole del gioco, passandolo alla ragazza.

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Consuelo rise sommessamente: «È proprio dura la vita di pendolare. Guarda cosa non si fa per passare il tempo» e scrisse la sua risposta in stampatello. «Ferramenta?!» esclamò Fabian leggendo, senza curarsi che tutta la carrozza potesse udirlo. «Incredibile… io avrei detto medico!» e rise assieme alla ragazza mentre la voce metallica annunciava la stazione di Gobelins. «E chissà cosa avresti detto di me se non ci fossimo mai conosciuti?!» Lui allora la soppesò con finta aria da detective: «Elementare Watson, inserviente al Louvre!» e risero assieme, mentre il medico/ferramenta colse l’attimo di distrazione dei due per guardare le gambe della ragazza. «Scommetto che sei amante della musica… anzi, che sei un musicista!» Smise di grattarsi pensieroso la barba fuori misura: «Musicista? No, no… mi piace molto ascoltarla ma non ho mai saputo suonare nulla. Non devo proprio avere orecchio, ma come mai ti davo quest’impressione?» «Ho un amico che suona la chitarra e il basso, è un appassionato, sta sempre a suonare… e porta le unghie come le tue, anche se alla sola mano destra». «Le unghie come le mie?» e subito si guardò le mani rimanendo per un attimo senza parole «Io me le mangio quando sono nervoso…» ma la frase sfumò nel clangore della metro. Le sue unghie erano talmente lunghe che nessuno avrebbe creduto che ne fosse un vorace mangiatore. Erano lunghe, pulite e ben curate, e solo adesso si accorgeva il fastidio passandole sull’impermeabile. «Allora sei a dieta da un pezzo, Fabian» rise Consuelo non avvertendo il disagio misto a panico sul volto del ragazzo «Sei un tipo strano, mi fai ridere, direi che 11


sei l’opposto di quel che racconti. Magari adesso scopro che non sei un galoppino, ma il proprietario di tutta la Defense!» «Io non capisco proprio...» accennò, ma lei osservandone lo stupore, continuò a ridere, certa ormai di avere davanti un perfetto squinternato «Ti garantisco che non ho mai avuto le unghie lunghe a questo modo. So che non è una bella cosa mangiarle, ma anche tenerle così… insomma…» «Sono molto ben curate invece, complimenti», a metà tra il serio e l’ironico. Fabian rimase con lo sguardo fuori dal finestrino, senza però accorgersi di aver oltrepassato altre due stazioni. Ogni tanto osservava il riflesso di Consuelo nel vetro, ma non era in grado di staccare la concentrazione dal pensiero di ciò che potesse essere accaduto quella mattina. Posso aver dimenticato di radermi – pensò – ma questa barba pare di due giorni – si accarezzò le guance – anzi, direi anche tre, e ieri mi sono pure tagliato sotto il mento… e le unghie in questo modo? Curioso che abbia sempre voluto smettere di mangiarle, ma così sono un po’ troppo lunghe... «Ti sei addormentato come sul pullman?» «Come? Scusa, dicevi qualcosa?» «Eri così brillante fino a cinque minuti fa, adesso sembri assente… ho detto qualcosa di male?» e abbassò appena il capo, sinceramente dispiaciuta. Giunsero a Jussieu; la stazione che Fabian associava al kebab più buono di Parigi. Pochi attimi prima ne avrebbe volentieri parlato con la ragazza, ma adesso si sentiva rapito da un’indagine a ritroso nei ricordi delle abluzioni dei giorni precedenti. 12


«Questa cosa della barba mi lascia perplesso. Mi viene da pensare» provando a riderci un poco «che sto invecchiando alla svelta, se dimentico certe cose». «Ma dai, cosa vuoi che sia. A me ad esempio piacciono gli uomini con le unghie curate e un po’ di barbetta non sta male, ti fa più ragazzino» e sorrise muovendo le labbra a formare un angolo malizioso, che Fabian neppure notò. «La barba incolta quando si tengono pubbliche relazioni non fa buona impressione… e comunque sono un ragazzino» sforzandosi di sembrare sereno. «Sul pullman non l’avevo notato, ma adesso che ti guardo bene, invece, hai un portamento da ragazzo in carriera con quei capelli grigi così ben distribuiti. Sei fortunato, molto meglio i capelli grigi che perderli del tutto» concluse quasi seria, senza accorgersi che Fabian stava diventando grigio anche in volto alle sue parole. «Scusa, dammi di nuovo lo specchio, per favore». In quella sorta di trance, lui si sforzava ancora di mantenere un contegno. Si erano conosciuti da un quarto d’ora e non poteva scendere a confidenze eccessive pur avvertendo uno spontaneo feeling. Fabian si girò tra le mani lo specchietto da trousse cercando la miglior luce possibile. Ma il pennello intriso di fard balzò fuori, finalmente libero, precipitando sulla sua camicia bianca. «Accidenti, anche questa!» osservando la macchia beige. «Mi dispiace, che stupida. Dio che stupida che sono!» «Che colpe hai tu? Pazienza, È la cosa meno grave, adesso». Neppure si preoccupava più di mascherare la tensione che ormai lo attanagliava. 13


«Qualcos’altro non va?» «Direi di sì…» ma si stava già specchiando, diventando più bianco dei suoi capelli. «Non ho mai avuto, fino a questa mattina, neppure un capello bianco. Cosa accidenti mi sta succedendo!» e si alzò di scatto, lasciando cadere lo specchietto sulla gonna della ragazza. L’anziana di colore che sedeva al suo fianco si voltò spaventata; senza capire la situazione bofonchiò «Calma, non litigate…» in un tipico francese coloniale. Il convoglio rallentò bruscamente iniziando la discesa sotto la Senna, facendo barcollare Fabian che si stava dirigendo verso il vetro a specchio in fondo al vagone, senza curarsi troppo delle buone maniere per evitare i presenti. Consuelo invece rimase seduta, prima guardandolo, poi specchiandosi a sua volta per ritoccare il rimmel sulle ciglia. «Magari fosse solo un litigio…» ma le parole furono bruciate dallo stridio dei freni che annunciava SullyMorland. Fabian giunse velocemente in coda alla carrozza, e lo specchio che aveva sempre ritenuto un orpello inutile, dentro ad un treno, gli regalò un brivido. Era vero: aveva molti capelli grigi, la barba di almeno tre giorni e il volto solcato da piccole rughe intorno agli occhi, gonfi testimoni di notti insonni. Si voltò incredulo verso Consuelo, inciampando nel tentativo di contrastare la partenza del treno. «Quando mi hai incontrato avevo questa faccia da nottambulo incallito?» La domanda tradiva sgomento, e la ragazza smise di truccarsi e di sorridere, balbettando qualcosa in risposta: «Non so, non ti ho visto bene sino a quando siamo saliti, fuori la luce era pessima e non è che ti squadrassi 14


da tempo… Fabian, ma non ti senti bene? Hai una cera orribile». «Devo scendere alla prossima» con un tono incerto tra la domanda e la richiesta tacita di aiuto. Si piegò per raccogliere l’impermeabile e la cartellina scivolati a terra, e una fitta alla schiena gli bloccò il respiro mentre anche le mani erano contratte e dolenti. «Calma, Fabian… sarà solo un piccolo malessere, siediti. O preferisci che scenda e ti accompagni?» Erano due perfetti estranei, ma la domanda fece pensare all’anziana signora che fossero intimi come marito e moglie. «Dia retta alla sua sposa, bel giovane» Fabian si voltò cupo come le nubi del mattino «Vedrà che con un buon caffè si sentirà meglio». «Meglio un c…» ma si trattenne «Devo scendere, subito!» non osava specchiarsi oltre nei finestrini. Consuelo si alzò sentendo il convoglio frenare di nuovo. «Dai, ti accompagno» ma stavolta balbettò valutando il ritardo certo a lavoro. «No, farai tardi. Io cambio binario e torno a letto, al diavolo il lavoro oggi» aspettando solo che le porte si aprissero mentre le gambe gli tremavano dalla paura. Il metrò si fermò. «Domani, o appena starai meglio, ci rivediamo e magari andiamo a prendere un caffè assieme. Mi dispiace davvero che tu non ti senta in forma questa mattina…» ma Fabian si precipitò fuori sbattendo il piede sul piccolo scalino che lo separava dalla banchina. Neppure prestò attenzione a Consuelo che salutava dal finestrino. Il pensiero scivolò sulle sue mani che stringevano la cartellina, mentre qualcuno, più frettolo15


so di lui, lo spintonava. Le dita gonfie e pallide gli facevano male. «Come è possibile? Ho le mani e il viso di un muratore settantenne… venti minuti fa stavo benissimo». Studenti e pendolari gli passavano attorno quasi senza notarlo, e i pochi sguardi che riceveva erano di disapprovazione per la sua fastidiosa immobilità sulla banchina. «Non esiste una malattia con questi sintomi. E’ come se stessi invecchiando alla velocità della luce. Mi sento stanco morto e la sensazione continua a crescere…» Come un fiume di lava, la mente di Fabian si paralizzò, agitandosi in forme bizzarre nei suoi fluidi sommersi. «Sarà il virus di ebola, o vaiolo o chissà che morbo sconosciuto…» scattò in avanti su uno spintone e decise di andare al binario di ritorno salendo dalle scale mobili «Ma da chi le avrei prese queste malattie, a Parigi?» capiva da sé quanto fosse improbabile. Si aggrappò al corrimano in gomma che risaliva veloce. «… un attacco terroristico… come a Tokyo…magari è Sarin, antrace, gas nervino, ma solo io?! Tutti gli altri mi sembrano in perfetta forma» senza accorgersene gli si disegnò un sorriso sulle labbra. La scala mobile terminò dove lui si aspettava di trovare un corpo speciale dell’esercito in tenuta anticontaminazione, predisposta contro un attacco batteriologico, ma il fiume in piena di persone si divideva davanti a lui. Si diresse dapprima deciso verso sinistra, al binario di ritorno, poi fermò i propri passi e voltandosi, guardò la scala che saliva verso la strada. 16


«Sono invecchiato di cinquant’anni in mezz’ora» le gambe ormai gli cedevano «Magari adesso a Parigi si gira in astronave» e puntò verso la scala in marmo da cui non scendeva quasi nessuno. Una sferzata di aria fredda lo colpì in pieno; grosse gocce di pioggia si abbatterono su di lui che risaliva quanto più veloce possibile. Giunto in cima alla rampa, ebbe appena il tempo di vedere una danza di ombrelli che si aprivano, un venditore di giornali indiano e un’esile figura che gli passava accanto scendendo rapida. «Consuelo! Ma cosa…?» fece per scendere le scale dietro a lei, quando una saetta si infranse sopra di lui sull’arco antico in ferro battuto. La luce e il boato lo scaraventarono disteso lungo i gradini, travolgendo la ragazza mora dalla gonna rossa a frange. «Oh mamma mia, si è fatto male?!» esclamò alzandosi e guardandolo impaurita. Lui non avvertiva nessun dolore davvero intenso e rispose: «Consuelo, che ci fai qui? Come hai fatto a salire e scendere…?» ma l’espressione stupita e impaurita della moretta fece sfumare le sue parole. Vedendolo immobile a terra la giovane si piegò verso di lui «Aspetta che ti aiuto ad alzarti… ma io non mi chiamo Consuelo» ed aggiunse «Devi avermi scambiata per un’altra. Il mio nome è Lucille». «Lucille? Ma se siamo appena stati sulla metro…» il suo sguardo roteò tutt’attorno «Ma dove diavolo siamo?» Non avvertiva neppure la pioggia battente. La ragazza sorrise pensando avesse battuto la testa: «Siamo a Port d’Ivry! Eri sul mio pullman da Orly, non ricordi?» sorrise appena, dimenticando anche lei la pioggia. 17


«Port d’Ivry?!» lui si guardò le mani da ventenne e se le passò sulle guance glabre «Ma allora sto bene! Oddio, ma cosa diavolo è successo? Sto bene adesso!» quasi urlando. L’altra si allontanò temendo di essere colpita dalle sue braccia impazzite di gioia. «Bene… hai fatto una bella caduta… Sei fortunato ad essertela cavata senza neppure un graffio!» e sorrise di nuovo guardandolo «Ti sei macchiato la camicia cadendo, però…» «La camicia?» era completamente frastornato «Cadendo? Consuelo ma cosa è successo?» «Non sono Consuelo, mi chiamo Lucille» continuando a ridere di quel ragazzo bislacco «Per me non ti sei macchiato cadendo, sai che sembra senape?» il suo volto si illuminò «Anzi no, la tua ragazza ti ha dipinto di fard!» e ridendo della sua stessa battuta lo trascinò per un braccio al riparo dalla pioggia.

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FLASHBACK Bzz bzz: «Stai attento! Sei quasi alla curva quattro!» gracchiò la radio nel casco. «Lo vedo, non preoccuparti, comunque mi arrivi molto strappato». Bzz bzz: «Ho detto attento alla quattro!». Il rombo della Viper 8000 coprì quell’ultimo gracchiare fastidioso. Il bolide entrò in curva con la consueta spavalderia, le ruote fischiarono come un treno a vapore, in una nuvola di gomma bruciata. Bzz bzz.Il fruscio riprese: «Arie, diciotto alla fine, ancora una curva così e ti pulirai il culo con la sabbia». «Stronzate! Sanno dire solo stronzate, chissà se hanno mai guidato un mostro come questo». Bzz bzz: «Arie, ricevuto?» «Certo Dan, dimmi solo le cose importanti. A quant’è Van Dyke?» Bzz bzz.. «Due e due, la sospensione anteriore destra sta cedendo leggermente, attento!» «È un’ora che me ne sono accorto, dimmi solo quando mancano tre secondi alla rottura!» «Quel ragazzo è scemo, ma chi si crede di essere?» poi aprendo la radio «Avrai un doppiato tra poco, non distrarti!» I doppiati che lo precedevano erano due, in lotta furibonda tra loro.


«Troppo deboli per noi!» pensò stringendo la leva del cambio. L’auto che lo precedeva tirò al massimo la frenata, sollevando una nebbia biancastra. «Deboli forse, ma certamente troppi anche per voi, cavaliere, preparatevi a morire da cane, in guardia!». Si vide mentre estraeva la spada stringendola con la mano destra, ma non era la voce della radio, quella che sentiva, e non era nulla che avesse vissuto realmente. Solo un sussurro. La nuvola si diradò e vide nello specchietto che Van Dyke lo aveva raggiunto. «Devi pensare prima a chi ti sta davanti» glielo ripeteva sempre suo padre nelle prime gare. Stavolta fu l’altra auto a sollevare una nuvola bianca. «Siete circondato non vedete? Siamo tre contro uno». Bzz bzz: «Arie stai dormendo? Sbarazzati di quei due o Van Dyke ti infilzerà come un pollo!» Premette a fondo il pedale del gas; la Viper balenò in avanti giungendo addosso ai doppiati, ma anche la Lumina di Van Dyke era ormai nei suoi scarichi. «Adesso o mai più!» al termine di un rettilineo tirò sino all’ultimo, provando a infilarsi all’interno dei duellanti. «Molto patetico cavaliere, ma così siete proprio spacciato». Bzz bzz: «Cazzo, Arie che fai?» Le due voci si mischiarono nella sua mente confusa. Il pilota che lo precedeva non si accorse del suo attacco e tentò la stessa manovra di sorpasso. «Bell’affondo, ma la mia parata vi renderà un bersaglio facilissimo, consideratevi già morto!» 20


Sentì lo stridio metallico delle lamiere che si urtavano, come il cozzare di spade in un duello. L’auto rossa lo colpì a oltre duecento chilometri orari, e fu a quel punto che la sospensione esplose facendolo volare in un testacoda incontrollato. Il corpo sbilanciato dall’attacco sbagliato ruotò su se stesso, e con gli occhi annebbiati, vide lo spadaccino alle sue spalle affondargli la lama nel petto. La Lumina di Van Dyke lo centrò in pieno sfondando la sua fiancata come carta velina, producendo una tempesta di vetri e scintille che seppellì i due piloti in un abbraccio di lamiere. «Il fato è compiuto, cavaliere. La vostra insolenza è stata punita, e sarò ben lieto di occuparmi io di madame Giselle...» Riuscì a vedere per un attimo il suo corpo steso nel bosco nebbioso, con la camicia intrisa di sangue; poi si sentì risucchiare verso l’oscurità. Attraverso il fumo nero di olio bruciato, guardò i resti della Viper 8000, irriconoscibile nella sua smorfia metallica di dolore. «Van Dyke ha avuto una gran fortuna, si è fermato a un metro dal muro...» C’erano quelli dell’ambulanza, i pompieri, gli ispettori di gara. C’era anche Dan, o almeno gli pareva. «Non posso crederci» lo sentì dire debolmente «Cazzo se era giovane...» le parole sfumarono nel vuoto, mentre lui veniva tirato via da una mano misteriosa. … «Liucka? Liucka dove sei?» Sentiva le coltri accanto a lui ancora calde, ma la giovane moglie non c’era. 21


«Liucka?» chiamò più forte «Sei giù in cucina?» Alioshina, quello era il vero nome della ragazza, anche se non l’aveva mai chiamata in quel modo – troppo serio, pure troppo lungo – Liucka era molto più affettuoso. «Micha, cerca di riposare, sono troppe notti che dormi poco» la calda voce giungeva effettivamente dal piano inferiore. La loro dacia era molto graziosa, ma di piccole dimensioni. Era una tra le ultime del paese, Darillissov, un piccolo borgo di ottanta anime adagiato sui pendii degli Urali Occidentali. Erano nati entrambi lì, vi erano cresciuti e si erano sposati seguendo una logica forzata – essendo gli unici due nati tra il 2020 e il 2030. Il loro amore però era genuino; né Michail né Alioshina avevano mai pensato di andare a cercare fortuna e amore altrove. Lui guardò attraverso la finestra con le imposte aperte. Era notte piena, tutta la valle sembrava avvolta nel silenzio più totale. Sapeva che non ci sarebbe riuscito, ma provò ugualmente a sedersi sul letto: il perfido morbo che lo consumava lo sospinse all’indietro con violenza. Aveva appena ventotto anni, ma una forma di degenerazione cellulare ereditaria lo stava divorando velocemente da mesi. All’inizio si era trattato di disturbi saltuari allo stomaco e alla vescica, poi lentamente tutto il suo corpo si era abbandonato al male – che i dottori ritenevano tanto raro quanto incurabile. Da circa un mese non riusciva più ad alzarsi dal letto. «Non cercare di sforzarti, amore. Cerca di dormire un poco». Liucka si sdraiò nuovamente accanto a lui stringendogli una mano. La sua fede era forte, ma anche lei si era rassegnata a perdere l’unico bene della sua vita – 22


questione di mesi, di giorni forse. Guardò la radiosveglia. Impossibile, era solo mezzanotte, ma al ragazzo sembrava che fosse buio da una vita. Guardò l’orologio dell’armata rossa, pilota di elicotteri di classe 1. Sorrise al ricordo. Il Mil Mi 42 era stato il suo cucciolo preferito, dopo Liucka naturalmente. Il quadrante brillava ancora, ma le lancette erano ferme sulla mezzanotte e dieci. «La mia forza vitale sta spegnendosi» pensò mentre una fitta di dolore gli saliva dalle viscere «Anche il mio orologio se ne andrà con me». Il riscaldamento a metano funzionava a dovere, eppure lui aveva la sensazione che la casa fosse gelida. «Capitano, quella che vuol fare è una manovra suicida!» «Non possiamo fare altrimenti, sergente Kiefer. I russi stanno per tagliarci fuori dai rinforzi!» Si sentì scuotere da qualcosa che non riusciva a capire. «Micha! Micha! Finalmente! Ti ho chiamato dieci volte, stavi delirando». «Scusa, era un brutto sogno, un terribile incubo, cerca di dormire anche tu». «Va bene, ma sta tranquillo». «Liucka?» «Dimmi amore» «Grazie... di tutto». La ragazza sorrise nascondendo le lacrime. «Non è nostro dovere buttarci in pasto alle linee russe, è solo una sciocchezza che pagheremo con la vita». «Non crederà che io sia felice di morire in questa landa ghiacciata lontano migliaia di chilometri da casa 23


mia? Ma se abbiamo una sola possibilità di salvare l’avamposto, beh io la tenterò!» I primi colpi dei carri nemici iniziarono a fischiare intorno a loro. Stavano prendendo la mira, in poco tempo li avrebbero spazzati via. «Capitano, abbiamo tre carri armati efficienti e dieci a mezzo servizio, più quindici cingolati leggeri che in questa neve affondano come massi. I russi hanno solo settanta carri pesanti e duecento cannoni da traino. Io ordinerò una dignitosa ritirata ai miei uomini!» Una cannonata a pochi metri dal campo gli fece riaprire gli occhi. «Liucka?» «Dimmi, non riesci a dormire?» «Siamo mai stati in inverno in una cittadina chiamata Gorky?» «Gorky? No. Se non sbaglio, è vicina a Kiev...» «Non saprei, eppure mi ricorda qualcosa, qualcosa che ha a che fare con la guerra...» «Gorky è stato uno dei primi avamposti tedeschi riconquistati dai nostri soldati, nel ‘43 o ’44, mi pare». «Sì, deve essere certamente così. Penso tu abbia ragione… ma ora proviamo a dormire un poco». Sentiva le dita dei piedi vicine al congelamento. I primi carri russi apparvero all’orizzonte. «Moriremo qui da eroi, non cederemo di un millimetro». Un colpo fece esplodere in una fiammata la casamatta accanto alla loro. «Ci ha condotti al massacro, lei è un pazzo!» sentirono il sibilo mortale del colpo che si avvicinava, poi fu il nulla. «Noooo!» era madido di sudore, era riuscito ad alzarsi a sedere sul letto con uno sforzo enorme. 24


«Che è successo, Micha? Hai gridato come un pazzo!» «Non lo so, non capisco, è come se avessi vissuto la morte di qualcun altro. È stato terribile». «Vado a prepararti qualcosa di caldo, anzi vado a chiamare il dottore». Lui la guardò scivolare snella verso le scale. Lei era tutto, sapeva che non lo avrebbe mai lasciato, neppure dinnanzi alla morte. Si appoggiò a fatica al cuscino, osservando la notte oltre la finestra serrata; i pensieri confusi tra incubi e dolori reali. Da un anfratto profondo della mente, un muggito lieve ma continuo, accompagnò le palpebre che cedevano alla stanchezza. «Buffo, sembra un motore a elica» sorrise alle sue incerte parole, cercando di aguzzare l’udito alla ricerca di quel suono «Pare un vecchio quadrimotore, ma è impossibile, neppure in Africa li useranno più». Il rumore crebbe divenendo sempre più cupo e più vicino. Puntando con forza le braccia sul letto, si appoggiò al cuscino cercando di aprire gli occhi. Adesso era il ruggito bestiale di un leone, proprio alle sue spalle. Bzz bzz: «Arie stai attento alla curva quattro!» La ferocia della Viper 8000 copriva anche la radio nel suo casco. «Lo so, Dan, sta calmo». Avanti a lui due doppiati lottavano senza esclusione di colpi; tra poco avrebbe dovuto superarli. Dov’era? Che cosa stava sognando ancora? Guardò la sua sveglia digitale:mezzanotte. «Ancora mezzanotte. Si è fermata… eppure quell’aereo l’ho sentito, l’ho sentito…» 25


Bzz bzz: «Arie, che cazzo fai? Stai dormendo? Supera quei due, Van Dyke ti ha raggiunto». «Quello è pazzo» gridò alla radio «Merda mi ha chiuso, dannazione...» Si udì il sibilo mortale della Lumina di Van Dyke che lo speronava a duecento chilometri orari. Il fragore di vetri e scintille lo svegliò del tutto. Guardò nell’angolo più buio della camera: lo scintillio della lama era stato fulmineo. Si sentì improvvisamente leggerissimo. Il dolore era scomparso. Guardò verso il basso, verso il suo letto. Liucka era sdraiata sopra di lui, poteva sentirne il pianto e avvertire ancora la sua carezza tra i capelli. Poi chiuse gli occhi e sentì una mano calda e avvolgente trascinarlo indietro.

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