Natòmi - Manfredi Damasco

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Manfredi Damasco

Casini Editore


Š 2010 Valter Casini Edizioni www.casinieditore.com ISBN 978-88-7905-170-5


A Noemi



C’era una volta, in un paese non molto lontano, una bimba di sette anni di nome Natòmi. Aveva dei capelli corti nero corvino che s’intonavano alle scarpette dello stesso colore. Amava la marmellata ai frutti rossi, con la quale macchiava regolarmente il colletto bianco del suo vestitino nero. E trascorreva la maggior parte dei pomeriggi a disegnare, subito dopo aver fatto i compiti. Era insomma una bimba come tante, in apparenza. Eppure, da che aveva memoria, la gente l’aveva sempre trattata con un certo distacco. I suoi zii non le avevano mai regalato nemmeno un biscotto e nessuno la faceva passare avanti, nelle file in cartoleria. Una volta, al luna park, le avevano persino fatto pagare il biglietto per adulti, invece che quello ridotto per i bimbi sotto i dieci anni!


Natòmi non capiva perché il mondo avesse questo strano rapporto con lei. Certo, si era chiesta quale potesse esserne l’origine, ma aveva fatto solo vaghe supposizioni. Forse i suoi capelli nero corvino, sebbene intonati alle scarpette e al vestitino, la rendevano un po’ tetra. O forse la sua postura furtiva e timida suggeriva diffidenza. Fatto sta che raramente la gente si dimostrava subito gentile, con lei: per fare amicizia Natòmi aveva sempre bisogno di molto tempo e della pazienza altrui. Ma in fondo le andava bene così. Non amava i luoghi affollati e meno che mai le feste, e non trovava divertente chiacchierare tanto per dar aria alla bocca. Né aveva mai capito che senso avesse parlare in gruppo, quando già era difficile ottenere l’attenzione di una sola persona. Lei preferiva decisamente avere pochi amici, vederli uno alla volta e avere con loro conversazioni garbate. Quest’approccio, per altro, le permetteva di avere un’infinità di tempo libero per cucire nuovi vestiti alla sua bambola, il che certamente era più gratificante che ascoltare pettegolezzi.




Un giorno, però, le capitò qualcosa che, molto indirettamente, le avrebbe a poco a poco imposto di cambiare la sua vita. Fu qualcosa di casuale, ma rivoluzionario. Da quell’istante in poi, volente o nolente, Natòmi avrebbe dovuto rimettere in discussione tutta la sua esistenza, i ritmi e le abitudini. Le cose andarono più o meno così. Mentre andava a scuola, le capitò di fare amicizia in modo veloce e spontaneo. Fu, come ormai dovrebbe essere chiaro, una dinamica davvero insolita per lei. Basti pensare che le fu sufficiente un solo sguardo per intendersi col cane randagio che le aveva tagliato la strada. Il quadrupede le si avvicinò scodinzolando, con un sorrisone che nessuno sconosciuto le aveva mai dedicato prima di allora. E, nonostante di


solito fosse molto riservata, Natòmi capì subito che sarebbero diventati amici. Lei lo chiamò Eròl, per quanto probabilmente Eròl non fosse interessato ad avere un nome. Dopo qualche coccola e carezza i due si spostarono subito in direzione del parco, senza dir nulla: sapevano entrambi che quello era il posto ideale in cui potevano divertirsi due spiriti liberi come loro. Quel mattino giocarono con grande affiatamento. Natòmi lanciava un bastoncino di legno il più lontano possibile ed Eròl glielo riportava con grande gioia. Oppure, più semplicemente, si rincorrevano a turno, facendo delle finte per disorientarsi a vicenda. Non era certo un’interazione originale tra esseri umani e cani, ma entrambi lo fecero con l’entusiasmo che si vede solo nei film, come se avessero inventato loro quel tipo di gioco.


Come dice qualcuno, però, ogni medaglia ha il suo rovescio, il che significa, più o meno, che molto spesso le cose buone ne portano anche di cattive. I due nuovi amici, infatti, si rincorsero e divertirono per un’ora intera, il che sicuramente è un bene. Ma è anche vero che, in questo modo, Natòmi arrivò in ritardo a lezione. Il che, come tutti concorderanno, è indubbiamente un male. Giunta davanti all’edificio, Natòmi salutò Eròl ed entrò timorosa. Attraversò lentamente il lungo corridoio, scrutando con attenzione i cartelloni disegnati dalle classi passate, esaminandone ogni elemento e leggendone ogni scritta, che si trattasse di un cartellone sul regno vegetale o di uno di ripasso sulla geografia mondia-


le: nonostante fosse già in netto ritardo, Natòmi stava facendo di tutto pur di perder tempo. Alla fine di questa lentissima passeggiata, si fermò nei pressi dei bagni. Quindi, in ansia per il rimprovero che l’aspettava, sostò altri cinque minuti davanti alla porta dell’aula, indecisa se ricevere silenziosamente la punizione o inventarsi una scusa pazzesca. Avrebbe potuto dire che era stata rapita dagli alieni ma liberata dopo un’ora, quando i mostriciattoli avevano scoperto che non era il presidente degli Stati Uniti d’America. Oppure avrebbe potuto sostenere che, nel tentativo di inseguire un coniglio bianco, era caduta in un tronco cavo che l’aveva trasportata in un’altra dimensione. Ma non ebbe nemmeno il tempo di inventarsi bugie. Con grande sorpresa, infatti, quando riuscì a varcare la soglia dell’aula dopo essersi armata di coraggio, la maestra non la rimproverò affatto. Anzi, si limitò a sorriderle con indifferenza e, senza nemmeno interrompere la spiegazione, le fece cenno con la mano di non disturbare e di andare a sedersi al proprio posto. Natòmi andò a occupare il solito banchetto in prima fila, quello vicino alla finestra, l’unico banchetto singolo dell’aula. Da questa postazione fissò la maestra a lungo, aspettandosi una sgridata che non arrivò mai. Si sentì quasi delu-


sa. Sapeva benissimo che non c’è niente di peggio di una persona arrabbiata che non manifesta la sua ira, così come sapeva che se la mamma non la rimproverava per una marachella era perché la considerava più grave del solito: è dei silenzi immusoniti che bisogna aver paura, non delle sgridate, che alla fine permettono a chi è arrabbiato con noi di sfogarsi e di dimenticarsi poi del motivo. Ecco perché alla prima pausa, quella per i dieci minuti di lettura individuale, e dopo aver fatto tutto questo complesso ragionamento, Natòmi si avvicinò alla cattedra e reclamò timidamente una spiegazione. — Signora maestra, posso chiederle perché non mi ha rimproverato per il ritardo? — Piccola mia, vuoi dirmi che preferisci essere punita invece che scamparla senza che ti metta una nota di demerito sul registro? — No, ovviamente non dico questo! Anche perché ho delle ottime scuse per il mio ritardo. — Sono sicura che le hai. Per questo ho lasciato correre. — E non vuole sentirle, le mie scuse? — Natòmi, ti prego, non abusare della mia pazienza. Ringrazia che ti creda sulla fiducia e non parliamone più. Ora torna a sedere e leggi anche tu il testo di oggi, perché potrei fare qualche domandina anche a te!


Natòmi serrò le labbra e tornò al suo banchetto singolo. La maestra era stata fastidiosamente ottusa, restia a qualsiasi forma di dialogo. E dato che quella non–reazione non le piaceva proprio, per un attimo Natòmi pensò di vendicarsi combinando qualche marachella. Ad esempio, avrebbe potuto afferrare uno dei rospi dello stagno dietro la scuola e liberarlo sotto la cattedra, scatenando lo scompiglio generale. Oppure avrebbe potuto sbattere il cancellino contro la lavagna, creando una tale nube di polvere di gesso che la maestra avrebbe tossito per mesi. Certo, erano bravate che non aveva mai fatto, ma l’umiliazione subita la faceva sentire capace di questo e altro. E in oltre il fatto che, a fine lettura, la maestra non le aveva rivolto neppure una domanda sembrò proprio un complotto per farla sentire una nullità. Eppure, alla fine, chissà perché, la bimba si limitò a fare spallucce e a seguire sul libro la noiosissima lezione di storia sulle attività commerciali dei Fenici.






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Casini Editore Via del Porto fluviale, 9/A – 00154 Roma www.casinieditore.com info@casinieditore.com Illustrazioni di Manfredi Damasco Finito di stampare nel mese di agosto 2010 Stampato per Casini Editore dalla Arti Grafiche la Moderna – Roma




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