Š 2010 Valter Casini Edizioni www.casinieditore.com ISBN: 978-88-7905-155-2
SIN Un destino glorioso
Martin Blackmore
Casini Editore
01
La fisso senza dire una parola, per non so quanti secondi. Poi, finalmente, la tipa della reception mi porge i maledetti incartamenti e, snervata dalla mia lentezza, li ripone sul bancone. Ma io non riesco nemmeno a toccarli. Sono come paralizzato. Lei storce il naso. Al che sento un brivido tra le cosce. Il gelo mi sfiora i reni e in un secondo è alla nuca, dietro le orecchie. Le spalle hanno uno spasmo e credo che sto per vomitare in faccia alla stronza. Poi per fortuna mi riprendo, torno in me, e riesco a inventarmi un ghigno per risponderle. Quindi afferro questa fottuta carpetta gialla, biascico un addio e abbandono questo posto per sempre. Per strada ripenso a quello che ho fatto e a quello che non ho fatto, agli errori, decisamente troppi, e alle cose che ho perso. Ripenso a quelle voci e a quegli echi. Ma non c’è tempo di mettere ogni cosa a suo posto. Sono già davanti casa. Apro la porta e la prima cosa che il mio sguardo incontra è un viso sorridente. È bello tornare e trovare qualcuno che ti aspetta, anche se non è una persona in carne e ossa, anche se è solo il gigante con la faccia da gnomo del primo vinile dei Gentle Giant. Gli dico: — Ehi, ciao tesoro, sono tornato. Lui non risponde e diventa serio. Per prima cosa vuoto il cestino di metallo dai fogli appallottolati che conteneva. Poi lo rimetto a suo posto. Quindi apro lo Zippo e lascio che un’avida fiammata cominci lentamente a
divorare la fottuta carpetta gialla. La getto nel cestino ancora infuocata. La fisso ardere per qualche minuto. Il suo odore è buono e, per quanto debole, ne sento il calore sulle braccia. Quindi mi verso un whisky, ma sono costretto a sputarlo un attimo dopo. Non mi credevo capace di comprare roba così scadente! Io bevo solo Talisker, o al massimo Bushmill. Deve averlo comprato quel tossico di Ozzy. Tossico e anche morto di fame, lo stronzo. Appena lo vedo gliene dico quattro, cazzo! Può annaffiarci le piante con ’sto schifo. Però, a pensarci meglio, in questo istante ho proprio bisogno di un drink. Quindi, in mancanza di altro, diluisco questo whisky scadente con acqua e ghiaccio. Il bicchiere suda e si fonde con la polvere del tavolo di vetro: qui nessuno pulisce da anni. Sprofondo nella poltrona, beato. Sorrido, vedo il riflesso del mio sorriso sullo schermo spento. Qualcosa del mio viso non mi convince, smetto di sorridere. Il ronzio del frigorifero è sonoro, un drone ipnotico che predomina su tutti quegli altri rumori che, solitamente, permeano qualsiasi costruzione umana, come spifferi o gocciolii. Forse Ozzy è in casa, ma forse quello che sento sono solo gli scricchiolii di eterno assestamento delle travi marce, perché non escludo che durante la mia assenza il coinquilino possa anche essere morto. Magari di overdose, che banalità. Poi Ozzy spunta da sotto la madia, ha un topo rantolante in bocca. Mi guarda come per chiedermi che deve farsene di quel topo e lo chiede proprio a me che odio chi non è in grado di prendere una decisione. Sì, lui mi fissa e d’altronde potrebbe stare così per ore, come tutti i maledettissimi e pazientissimi gatti! Alla fine gli dico di levarsi dalle palle, perché ho bisogno di silenzio per riuscire a scindere il passato dal presente.
02
Andiamo con ordine. Cominciamo dall’inizio. Certo, non è il modo più originale di cominciare, ma d’altronde non sono mai stato molto interessato a essere originale. Quindi, ’fanculo, sì, io comincio dall’inizio, o almeno da quello che per me è stato l’inizio di tutto, il momento nel quale ho intrapreso il mio cammino. È il 1988. Sono a scuola. Ho solo diciassette anni, eppure ne ho già le tasche piene della vita. Non che abbia vissuto particolari traumi o peripezie, ma mi sento stufo e spossato come se tutto il vissuto, fino a quel momento, l’avessi trovato privo di logica. Per questo non sono proprio quel che si dice un tipo solare. Ho pochi amici, perché i coetanei mi sembrano marmaglia e non mi va di cagarli. E quei pochi amici che ho non sono compagni di classe e abitano tutti fuori città, motivo per cui li vedo davvero di rado. Sì, si può dire che sono un solitario. Ma non un solitario di quelli incompresi e tristi o di quelli auto-commiseranti che passano le giornate sulla spiaggia d’inverno a scrivere poesie sull’amore ideale che non si può realizzare. No, tutt’altro. Io sono piuttosto una di quelle persone che si emarginano intenzionalmente e che vivono bene la propria autonomia. Sono felice di parlare con voi, di non sprecare fiato e formalità con tutti per amore di una “buona educazione” che per me è pura ipocrisia, o paura delle reazioni altrui. E poi sto con una ragazza, Bianca, che è una gran figa, quindi non sono certo uno sfigato.
La ricreazione la trascorro comunque da solo, la maggior parte delle volte. Deambulo senza meta nel cortile, sempre affollato da questa marmaglia informe, priva di interessi, gente destinata a dimenticare la propria passione, se mai ne ha avuta una. Ma il peso della mia passione è troppo perché io conviva con loro. Ogni volta che – per errore – comincio a parlare con loro della mia passione, ecco, finisce che mi incazzo. Detesto quella loro espressione beota mentre mi ascoltano. Non sanno mai che dire quando azzardo a parlare di musica con loro. Due o tre nomi, le cose più banali, gli album più banali, e comunque ascoltati senza piglio. Io dopo un poco devo andarmene o gli spaccherei il cranio. E le cose procedono in questo modo per i primi tre anni di studi liceali. Poi, un giorno, capita qualcosa di inusuale, persino imbarazzante a raccontarla. Il fatto è che vedo ’sto tipo e che a pelle l’impressione è ottima. È vestito come un testa di cazzo, questo è vero, ma – a parte il look – non posso negare che si staglia sulla massa. Deve aver vissuto, il tipo, non è uno dei pischelli che affollano la mia scuola. Lo si capisce da come gesticola, da come tratta la gente, da come si muove negli spazi. Ha vissuto il tipo, ne sono certo, deve averne vissute di esperienze. Dev’essere persino morto e risorto. Nel suo sguardo si legge il superamento di Dio. E nelle sue mani la prontezza a reagire. Lo vedo spesso solo, come me d’altronde. Ma lo vedo altrettanto spesso in compagnia. E la gente con lui è felice, divertita, appassionata. Con lui si divertono, è evidente. Dev’essere “simpatico”, nonostante il suo look da becchino. Ma d’altronde è anche la nuova moda. O forse sono io che sono già vecchio. In ogni caso decido di soddisfare la mia curiosità, di capire se ci ho visto giusto, di capire se il mio intuito funziona. E, per quanto mi irriti l’idea di cominciare a parlare così dal nulla, mi metto in testa che voglio conoscerlo. In questo istante lui sta fumando in disparte, quindi decido di approfittarne e gli vado incontro. Ma quando gli leggo quel nome ridicolo sulla maglietta la prima cosa che scappa di dire è: — Ramones? Non hai l’aspetto di un punk.
— Non sono un punk — mi risponde impassibile. — Ascolto i Ramones, ma non sono un punk. Ascolto un milione di cose, io. — Allora indossa una maglietta con scritto un milione di cose, ma non Ramones, ti prego. Mi scruta e non risponde nulla. La mia battuta è divertente quanto irritante, eppure lui né ride né si indispone. Ciò che è certo è che non ha paura di me. Avevo ragione, dev’essere morto e risorto. Mi scruta e non ha paura di me, ma non vuole nemmeno rispondere alla mia provocazione. Questo è il punto. Dopo qualche secondo di silenzio aggiunge solo: — Non è una cattiva idea, secondo me dovresti fare il pubblicitario, da grande. E lo dice con un tono meccanico, determinato, fiacco. Dopodiché si alza lentamente dalla panchina e se ne va, senza salutare. Osservo la sua camminata sghemba, e so per certo che se adesso mi scagliassi contro di lui per pugnalarlo alle spalle, ecco, sono certo che lo stronzo avrebbe la prontezza di colpirmi per primo. Perché ora so di aver visto giusto su di lui. È un tipo in gamba e i tipi in gamba sono rari, quando li vedi li riconosci subito.
03
Mi capita di fissare Bianca e di non riconoscerla. Succede ogni volta che non la sento cantare da troppo tempo, e per troppo tempo intendo anche due ore, e per cantare intendo anche canticchiare, o fischiettare. È come se a un tratto vedessi il suo viso come sarà tra trenta, quaranta, a volte cinquant’anni. Una vecchia, una ragnatela di rughe, la caricatura di un essere umano giovane. Non riesco a togliermi quest’allucinazione dalla retina e per un attimo non la riconosco più. Anzi, ne sono quasi disgustato, la trovo repellente. E smetto di amarla, improvvisamente, la dimentico. Poi, fortunatamente, Bianca ricomincia a cantare. E lì ogni volta è un brivido. La camicia bianca le asseconda il diaframma. Il vento le culla la voce. Le fronde degli alberi oscillano al rallentatore. E mi sembra che la natura le sia riconoscente almeno quanto lo sono io. La sua voce non è perfetta. Tecnicamente è discreta, ma non è perfetta. Il timbro è caldo, blues, a volte rauco. I suoi acuti non sempre sono intonati e se l’arrangiamento è difficile nelle improvvisazioni sbaglia pure qualche scala. Ma c’è qualcosa che un critico musicale non conoscerà mai, ed è l’empatia che permea la musica al di là delle registrazioni in studio e della storia. L’empatia è la vera musica. Parlo di quando qualcuno canta per te, guardandoti negli occhi o fingendo distrazione, o portandoti in un posto appartato per sussurrarti un pezzo che ha scritto per te o una canzone che amate entrambi. Ecco, tutto questo non può
essere catalogato, né paragonato. In questo senso la più grande produzione musicale dell’uomo riguarda i rapporti intimi. La più grande produzione musicale dell’uomo non è mai stata registrata, per fortuna. Quando ascolto Bianca so per certo che è lei, so perché me ne sono innamorato. I pezzi che facciamo insieme sono quelli di Joni Mitchell, Joan Baez, Janis Joplin, Nico, Patti Smith, ma anche di Bob Dylan o dei Rolling Stones. Io l’accompagno con la mia Martin, e il più delle volte mi impegno a rendere gli arrangiamenti in modo fedele, coinvolto, anche se questa non è certo la musica che amo di più. La rispetto, ma non è la mia strada. Eppure in quegli istanti è irrilevante. Bianca canta e tutto il resto diventa irrilevante. I suoi lunghi capelli chiari diventano un pentagramma. Lo vedo chiaramente, disegnato nell’aria. I suoi occhi profondi, il naso e le labbra arroganti diventano note. Posso scriverle su di lei, sul suo corpo desiderabile. Il suo corpo è poesia. Ma, se devo essere sincero, è quando interpreta Jim Morrison che mi viene duro all’istante.
04
Io credo che se, nella vita, hai la fortuna di ritrovarti ad avere una passione, una qualsiasi, allora devi seguirla a ogni costo. E che sia la più grande della cazzate è irrilevante. C’è tanta gente che si appassiona a cazzate, a me fanno un po’ pena, però almeno la loro vita ha un senso, li preferisco a chi non ha alcun interesse. Se poi la tua è una passione di tutto rispetto, allora devi obbligatoriamente, tassativamente seguirla. Parlo di fotografia, pittura, teatro o quel che vuoi, ma soprattutto della musica, indubbiamente la più grande arte di tutte. E forse la più ardua. In miliardi ci provano, in miliardi cadono sul campo di guerra durante il tragitto. Ma è un bene, è giusto, è così che deve essere: è la legge del più forte, del più potente. L’importante è non mollare finché hai sangue nelle vene! Eppure la maggior parte delle persone molla prima del tempo, magari perché prima o poi arriva uno stronzo a dirgli che è roba da idealisti, aspirare al gotha della storia della musica. E la maggior parte delle persone, che d’altronde è composta da sfigati, insicuri e falliti, gli crede, a questo stronzo, che magari va in giro a scoglionare gli altri unicamente perché a suo tempo ha fallito anche lui. Ma se lo stesso stronzo provasse a fare a me questo discorso, io lo stenderei con un pugno e lo prenderei a calci nelle palle fino a fargliele sputare e poi ancora, fino a fargli cambiare sesso. Sono disposto a qualsiasi sacrificio per il rock, figurarsi se mi creo problemi a pestare chi vuole intralciarmi. Perché per me il rock non è una semplice passione, ma è molto di più: il rock è
espressione, denuncia, rivolta, violenza, gioia, sesso e sangue. Il rock è la voce migliore che l’uomo abbia mai avuto dall’inizio della sua stupida storia. Che sia blues, rhythm’n’blues, rock’n’roll, hard rock, Prog, heavy metal, è irrilevante. Da sempre il rock parla all’uomo dell’uomo, guidandolo e illuminandolo come nessuna religione ha saputo fare. Anzi, direi che il rock è un’anti-religione, perché così come le religioni non fanno altro che castrarti, con mille regole morali del cazzo, il rock ti vuole vivo, peccatore, il rock vuole il meglio per te. Il rock è l’unico Dio che ci ama davvero. Era il 1983 quando il rock divenne il mio culto. Ricordo perfettamente quei giorni, quel giorno nello specifico, quel 15 maggio del 1983. Affibbiandomi allo Zio, i miei mi stavano facendo un regalo enorme, anche se indirettamente. Avevo undici anni ed ero ancora un pischello, non sapevo molto della vita, e anche fisicamente non ero molto sviluppato: avrei fatto un salto di qualità un paio d’anni dopo, recuperando in altezza e durezza quella mia infanzia da potenziale sfigato. Ai tempi ascoltavo i Led Zeppelin. Uno dei miei pezzi preferiti era Friends. Ma, come ho già detto, ero ancora l’embrione di me stesso. Quando misi piede nel regno dello Zio la mia mente si aprì. Ricordo una chiara sensazione di vertigine, dal basso della mia altezza, rivolta alle cime di quelle librerie. Quello sbarellato dello Zio aveva una collezione di vinili sterminata, roba da record. Tutto catalogato in ordine cronologico e poi alfabetico, registrazioni rare, cassette private raccattate chissà dove: un vero museo. Già dai primi giorni fui calamitato dal salone. Il resto della casa non m’interessava, era come se non esistesse. Ci avrei mangiato, dormito e pisciato nel salone, se lo Zio me l’avesse consentito. Me ne stavo là, su quel grande tappeto che al tatto era soffice quanto sporco, e ascoltavo di tutto, per ore e ore. Già da allora, senza una vera coscienza, il mio approccio divenne a poco a poco metodico, finalizzato, e non un discorso di
puro intrattenimento. Già allora, senza una vera coscienza, stavo preparando le fondamenta per dar sfogo alla mia passione. Ancora oggi, anche se la mia ricerca si è spinta ben oltre la collezione dello Zio, ho a disposizione il suo immenso archivio storico. E ne sono felice, perché fu questo il privilegio, fu il poter toccare con mano l’albero genealogico del rock, già da piccolo, dandomi la certezza che ne sarei diventato la prossima foglia.
05
Mio Zio dice che Robert Wyatt ha ucciso il rock nel 1974. Innanzitutto, io non credo che Rock Bottom sia un disco rock. Con tutto il rispetto, credo che Wyatt al massimo abbia fatto fuori le proprie gambe, e magari qualche neurone, ma di certo non il rock. Anche perché in quegli anni, grazie a gente come gli Iron Butterfly, i Black Sabbath e i Judas Priest, in quegli stessi anni nasceva il metal. E dal ’74 a oggi sono nati Rainbow, AC/DC, Iron Maiden, Motörhead, Def Leppard e Black Flag! E ancora oggi, a quattordici anni dal volo di Wyatt da quel terzo piano, i Mötley Crüe ti sparano una bomba come Girls, Girls, Girls. E mentre molte band storiche scaricano ancora decibel a tutta potenza, nascono gruppi come i Soundgarden che, a prescindere dai gusti, testimoniano che il metal è vivo e vegeto. Tra i nuovi arrivati, trovo che neanche i Blind Guardian di Battalions of Fear siano male, anche se non mi convince il cantante, sarà perché sono tedeschi. E poi ci sono i Metallica, cazzo, con quel capolavoro di Master of Puppets. Certo, è trash e speed, e qualcuno storce il naso, ma è comunque metal. Così come, pur citando Alice Cooper, sono trash anche gli Anthrax. E anche i Melvins, perché no, con un altro Osbourne a metà tra i Black Sabbath e i Black Flag. In ogni caso, dico, questa è musica adulta e, di certo, tutt’altro che postuma. Ora, con tutto questo movimento, come si fa a dire che il rock è morto? Forse sono morti il progressive e la psichedelica, nel senso che hanno dato quel che potevano dare. Ma se mio Zio non ha orecchie per quello che è nato dopo il ’74, se mio Zio
preferisce annaffiare gigli bianchi sui suoi vinili di Gong, Caravan e compagnia bella, beh, insomma, saranno anche cazzi suoi. Insomma, voglio dire, c’è modo e modo di seguire la propria passione. Se seguirla significa fare come lo Zio, no, a questo punto non so più se sia un bene. Essere così fanatici, ottusi, chiusi alle novità, no, questo decisamente non è un bene. Bisogna sempre essere pronti ad approfondire, a esplorare, a ingoiare tappandosi il naso, se è il caso. Bisogna assaggiare tutto, prima di vomitarlo. Io – ad esempio – credo che lo ascolterei pure il punk, la parte più dura del punk, quello insomma imparentato al metal, magari tramite i Venom. Sì, potrei persino ascoltarlo il punk, se non mi stessero sulle palle i punk. Nichilisti, arroganti e noiosi, i punk ti guardano sempre con distacco. So che pensano che della musica sia importante solo la rabbia sociale e che gli arrangiamenti siano tempo perso. Anche per questo non li capisco, né mi piacciono, io che amo le strutture melodiche e armoniche, io che amo la musica potente ma complessa. Eppure, anche se il tipo con la maglietta dei Ramones è molto vicino a questo stereotipo del punk, in qualche modo, a pelle, l’impressione è ottima. Il tipo mi incuriosisce e non posso farci niente.
06
Guardo la sua camminata sghemba, dicevo, e so che se mi dovessi scagliare contro di lui per pugnalarlo alle spalle avrebbe la prontezza di colpirmi per primo. So di aver visto giusto su di lui. Dev’essere morto e risorto. Per questo, per evitare di avere uno zombie nella schiera dei miei nemici, il giorno dopo torno da lui e mi presento. Dice di chiamarsi Excel. Io non riesco a trattenermi e chiedo quello che chiederebbe chiunque. Gli chiedo se quando sua madre ha deciso il suo nome era per caso ubriaca o drogata, la poveretta. Lui mi tratta come un pischello. Anche stavolta non ride nonostante la mia battuta, secondo me, sia più che buona. No, lui non ride. Dice che suona il basso in un gruppo hardcore da quando aveva tredici anni e che quello, nell’ambiente, è il suo stage name. Forse crede che questo lo legittimi a presentarsi come Excel anche negli ambienti pubblici, dove secondo me dovrebbe essere illegale presentarsi con un nome inventato. Excel, dico, ma stiamo scherzando? Nemmeno somiglia a un nome, al massimo può essere il titolo per un videogioco! Eppure non voglio fare polemica, voglio essere simpatico, cerco la sua amicizia, anche se a denti stretti. — Guns N’Roses? Un altro dei tuoi gruppi punk del cazzo? — rido, ma non risulto simpatico. — Davvero non hai nulla di meglio da fare che leggere le mie
magliette? Non ti puoi permettere un libro? Se vuoi ti presto qualcosa, che so, un abbecedario? O magari ti basterebbe fare un giro, a leggere i cartelloni pubblicitari. O magari i cartelli stradali, forse è ancora meno impegnativo. È lì che mi immobilizzo a guardarlo. Excel ha detto tutto ciò che ha detto senza prendere fiato, scandendo velocemente le parole, ottenendo un effetto violento, come un’onda d’urto di parole. Qualcosa che non credo saprei fare, essere violento a parole, senza essere volgare. Fatto sta che mi ha spiazzato. E dallo stomaco mi risale come vomito, dolciastro e verde, una frase terrificante come: — Hai ragione. Ti chiedo scusa. In quell’istante sento le budella che si intorcinano. Spasmi al ventre. Tremo. Ho crampi su tutto il corpo. In sedici anni non avevo mai chiesto scusa prima, a nessuno. E meno che mai pronunciato quella frase assurda, «Hai ragione». A quel punto sento il profondo desiderio di ucciderlo. Lui e il suo soprannome del cazzo. Lui e le sue magliette punk. Lui e l’audiocassetta dei Guns N’Roses che mi sta porgendo in quest’istante. Eppure, nonostante non ascolti punk, io, nonostante il mio desiderio sia quello di afferrare l’audiocassetta e sbriciolarla sotto le mie scarpe, non so che mi succede, ma gliela strappo di mano, me la infilo in tasca e vado via senza aggiungere altro.
07
Quando Bianca smette di cantare ho sempre paura. Temo che il suo viso si trasformi in quello di una vecchia, in una ragnatela di rughe, nella caricatura di un viso giovane. Perché va detto che è bellissima Bianca, va detto che di lei non amo solo la voce. Di lei amo gli occhi e le labbra, i capelli sempre profumati e il collo lungo. Ma anche il seno turgido e i capezzoli chiari, le sue cosce tornite e il suo culo da concorso. Ma anche l’arroganza, la soverchieria, la durezza e la dolcezza, e ogni altra cosa. Insomma, tutto in lei è perfetto. Non ne cambierei una virgola. E ammiro la sua passione per la fotografia, per Tina Modotti in particolare. Non che me ne freghi molto della fotografia, ma ammiro che Bianca segua la sua passione, la stimo per questo. E poi, in qualche modo, riesce sempre a stupirmi, come quella volta che mi ha regalato il singolo di 2 Minutes to Midnight degli Iron Maiden. Lei gli Iron Maiden non li aveva mai voluti ascoltare, proprio non li digerisce, anche perché in realtà non ne capisce molto di heavy metal, in genere. Eppure, è andata a beccare proprio la mia canzone preferita dei Maiden. Non so come abbia fatto. È stato allora che ho capito che Bianca è sempre molto attenta a ciò che dico, ai nomi che faccio, a prescindere dal suo livello d’interesse. Questa premura mi lusinga, mi fa felice, è una cosa davvero gratificante sapere che la persona con cui stai è sempre attenta alle tue parole. È una cosa che io non sono minimamente in grado di fare quando parla lei.
E comunque. Nel singolo c’erano anche Rainbow’s Gold, una cover dei Beckett, un gruppo progressive talmente sconosciuto che non ce l’ha manco lo Zio, e l’inedito Mission from Arry, una conversazione tra McBrain, Harris e Dickinson. Insomma, roba curiosa, roba tosta che non avevo, e quindi, che mi fece proprio felice, cazzo! Insomma, Bianca non è una ragazza come se ne trovano tante. Eppure sono certo che se diventasse muta scapperei da lei. — Ti piacciono? — mi chiede. — Toccale, ti prego. — Sono più vellutate del solito. — È una carta speciale, si chiama politenata. Ha una vita breve, tende all’autodistruzione. Basta un po’ d’umidità e queste foto si creperanno. — E qual è il vantaggio, allora? Torna alla carta normale, no? — Non durerebbero comunque in eterno. Ogni cosa deve morire. Prima o dopo che importa? Sbuffo, come ogni volta che Bianca fa la filosofa e tenta di deprimermi. Ogni tanto penso che se diventasse muta scapperei da lei, questo è vero. Ma ogni tanto penso anche che dovrebbe aprire bocca solo per cantare. O al massimo per amarmi.
08
Lo so da me che ogni cosa finisce. Non ho bisogno che sia Bianca a dirmelo. I miei si sono separati nel 1982. Avevo undici anni. Da che avevo memoria, non hanno mai smesso di litigare. Quando mi spiegarono il senso della parola “divorzio” non ci rimasi male. Anzi, mi chiesi perché avessero perso tutto quel tempo a urlare. Avevano entrambi un amante. Questo ovviamente io l’ho capito anni dopo. Quando mi capitò di beccare mio padre, proprio a casa nostra, “abbracciato” a un’altra signora, più alta di mia madre, credo più giovane, e di guardarlo dieci minuti mentre le lisciava le gambe, prima di essere sgamato; insomma quella volta il disgusto fu accecante, ma al contempo non avevo idea del significato di quella cosa. Sapevo che faceva schifo, ma per assurdo pensai che fosse uno schifo normale, che succedeva in tutte le famiglie, una cosa che alla mia età non avevo il diritto di criticare e che avrei dovuto fare anche io da grande. Non lo pensai ovviamente con la parola “tradimento”, ero ancora troppo piccolo: per me era solo la necessaria cattiveria che ogni uomo deve dosare nella propria esistenza. Curiosamente questa cosa non mi fece sviluppare alcun rancore nei confronti di papà, perché, come ho detto, anche mia madre aveva un amante, il che creava un certo equilibrio nelle parti. E sapevo che anche mia madre aveva un amante perché sì, non potrei giurarci, ma ho sempre avuto in mente un offuscato ricordo di mia madre in ginocchio davanti a un tizio. E non gli stava lucidando le scarpe.
Ma di questi siparietti erotici mi importò, e mi importa, poco e nulla. Non credo di aver subito alcun trauma. Ai tempi, come ho detto, metabolizzai il tutto in silenzio, con una sorta di stoicismo che forse avevo innato. Il problema vero fu piuttosto che entrambi gli amanti dei miei avevano già un figlio, il che significò che per me non c’era più spazio. E fu così che mamma e papà furono costretti ad affibbiarmi allo Zio. Ma alla fine nemmeno questa rivoluzione familiare comportò traumi, bensì un sacco di vantaggi. Sono capitato bene, devo ammetterlo. Lo Zio è la persona più calma del mondo. Ricordo bene di quella volta che gli è caduto un vasetto con un geranio sul piede e lui non ha fatto una grinza, non s’è incazzato. Certo, era un vaso piccolo, però gli è proprio esploso sull’alluce: ricordo un sacco di sangue, ma niente urla, solo parole a bassa voce che non ho capito, che forse ai tempi ancora non conoscevo. Forse dipende dal fatto che gli cadono spesso gli oggetti di mano, quindi forse ormai ci ha fatto il callo, nel vero senso della parola. Lo Zio si infervora soltanto una volta ogni tre mesi, quando viene a trovarlo un suo caro amico. È un tipo grassoccio, con dei grossi occhiali di tartaruga e un lurido gilet di camoscio su camicia a quadrettini. Questo simpatico sfigato si presenta alla porta puntualmente, ogni tre mesi, come se avesse un appuntamento regolare con lo Zio. Si siede su uno dei due divani, sempre lo stesso, mi accarezza la testa senza dir nulla, si rolla del tabacco e prende un sospiro nostalgico. Poi comincia a parlare con lo Zio. E non finiscono più! Discutono per ore, discutono per stabilire se è meglio, non so in base a quale criterio, Red dei King Crimson o Blonde on Blonde di Bob Dylan, se Cat food sia la versione jazz di Come Together, se il rock psichedelico l’abbiano partorito i 13th Floor Elevators o i Grateful Dead, e così via all’infinito. Ritornano regolarmente al tentativo di tracciare una distinzione tra generi e sottogeneri, di decidere chi abbia influenzato chi e chi abbia usato per la prima volta quel determinato effetto, o la sega musicale o il theremin. Parlano tanto di musica da non interessar-
sene più. Sono fossilizzati, confinati a più di dieci anni fa. Non capiranno mai che nel 1974 Wyatt non ha ucciso un bel niente. Guardo lo Zio infervorarsi col suo amico. In qualche modo, anche se sono dei fossili, li ammiro. Anche loro seguono la propria passione e per me questa è una cosa sacra. Se poi ricevessero la grazia di aprire gli occhi e scoprire Judas Priest, Iron Maiden, Motörhead o Mötley Crüe, allora sarebbero davvero in gamba. Non dico che dovrebbero avvicinarsi al trash o allo speed, ma almeno scoprire che tra il ’70 e l’80 la tecnica chitarristica, ma anche la tecnica in generale, ha scoperto i suoi esecutori più sublimi. Lode a Hendrix, ma come si fa a non aver mai ascoltato Eddie Van Halen? Se lo Zio e il suo amico sfigato esplorassero almeno fino agli anni ’80, dico! Magari diventerebbero grandi critici musicali. Magari metterebbero su una bella cover band di pezzi dei loro tempi, ma con qualche influenza più recente, attuale. Anche perché, da quel poco che ho sentito, mi sembra che le dita dello Zio sappiano correre sulla testiera di una chitarra. O potrebbero quantomeno fruttare la loro conoscenza per rimorchiare qualche disperata, dato che sono entrambi single. Ma purtroppo per loro, sono così ottusi che non andranno da nessuna parte.
appendice
Estratto di SiN, Graphic Novel Nightburst, dall’album Memory Lapse, Starlight Machine – 1990
Continua...
A novembre in libreria.
I libri cambiano il mondo
Casini Editore
Nightburst
Starlight Machine Memory Lapse: Beyond the Mistery of Time SiN
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Casini Editore via del Porto Fluviale, 9/a – 00154 Roma www.casinieditore.com info@casinieditore.com Finito di stampare nel mese di febbraio 2010 Stampato per Casini Editore dalla Arti Grafiche La Moderna – Roma
«Faccio un sogno ricorrente. Sono sulla torre più alta del palazzo imperiale del Re Cremisi. È così alta che trafigge le nuvole. Le pietre che la compongono sono rosse, blu e viola. E tra queste pietre scivolano lucertole di un verde acceso. Il cielo è buio e senza stelle, ma il palazzo è così luminoso che sembra giorno.»
18,00 euro ISBN: 978-88-7905-155-2
9
788879 051552
Casini Editore www.casinieditore.com info@casinieditore.com