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IN MOSTRA AL MANN LE ANNERITE SCAGLIE DI AULO PEDICINI

Il 25 aprile è la Festa della Liberazione dal Nazifascismo. Lo sappiamo, che c’entra con Aulo Pedicini, il MANN e tutto il resto?, obietterete certo a fior di labbra. C’entra, c’entra. Perché proprio per celebrare degnamente il 25 aprile quest’anno ho deciso di rendere omaggio alla Cultura e all’Arte, entrambe potentissime armi di libertà, in grado di salvarci dalla vera schiavitù in cui l’ignoranza sprofonda gli incauti che si lasciano incantare dalle sue morbose e ferali sirene. Come gesto concreto di resistenza al dilagare dell’Orrida, ho deciso quindi di tornare a far visita al MANN, nelle cui sale di tanto in tanto ho bisogno di perdermi nell’incanto della bellezza e nella vertigine ipnotica e voluttuosa della sindrome di Stendhal. E per rendere ancor più incisivo il mio personalissimo atto di partigiana resistenza, ho deciso di non andarci con il treno dello Stato. Ah, che soddisfazione! Alla biglietteria saluto l’impiegata con un Buona Festa della Liberazione e lei mi ricambia entusiasta, aggiungendo un sorriso e un’occhiata d’intesa che rivela quanto come me sia legata al senso profondo di questa data e quanto come me sia preoccupata per i pericolosi tentativi di riscrittura apocrifa di un passato che dovremmo indagare e conoscere come e meglio delle nostre tasche. Ad ogni buon conto, con lei siamo almeno in due a tenere gli occhi aperti. È un inizio incoraggiante. Entrare nell’immenso magnifico salone d’ingresso del Museo e impattare nel colpo d’occhio che regale è tutt’uno con l’improvviso capogiro che voglio attribuire alla cervicale per non essere troppo pindarica e celebrativa, ma non sto nella pelle all’idea di rivedere quelli che considero i miei antenati diretti: gli antichi egizi, (la cui sezione peraltro, rimasta chiusa a lungo è stata da poco riaperta), quindi mi fiondo per le scale che portano al seminterrato che li ospitava l’ultima volta che sono venuta a salutarli. Al termine della discesa, tuttavia, non mi accoglie il busto dello scriba che fa da addetto al ricevimento degli ospiti, ma una serie di istallazioni e immagini che con hanno assolutamente nulla di egizio. Dopo un breve attimo di spiazzamento per quello che considero un tradimento della memoria di cui forse dovrei preoccuparmi, mi accorgo di un gruppetto di giovani (che meraviglia i ragazzi al museo!) che fa corona intorno ad un personaggio singolare che ha nell’aspetto, nei gesti, nel tono affabulante della voce il fascino ieratico dell’artista. È Aulo Pedicini, artista sannita visionario e poliedrico, la cui produzione ha attraversato i decenni, dagli anni Sessanta ad oggi, esplo- rando percorsi e suggestioni di forme, colori, materia nella ricerca incessante di chiavi espressive e comunicative sempre più efficaci nel trasferire agli altri la sua visione dell’arte e della realtà. Scultore, pittore, performer, grafico, incisore, decoratore di tessuti, Pedicini, nato a Foglianise (BN) e diplomatosi in scultura all’Accademia di Belle Arti di Napoli, approccia l’arte con stile immediato e informale fino agli anni Settanta, quando decide di utilizzare la sua pratica scultorea per indagare il consumo, l’oggetto, lo scarto in quanto a possibilità assemblativa e a denuncia di allarme sociale. Sono gli anni della Quadriennale di Roma (1975), della XXXVII Biennale di Venezia (1976), del Festival Dada (1979) a Los Angeles. Negli stessi anni ha grande risonanza Il Malato, performance di fortissimo impatto che realizza presso l’ospedale psichiatrico Frullone di Napoli e che presenta alla Biennale di Venezia nel 1976. Con il passare degli anni, lo scultore che è in lui sente forte il richiamo della nobiltà del bronzo e delle sculture di grandi dimensioni. Saranno allora i corpi femminili ad accogliere classicità lirica e suggestioni metafisiche, come era stato per le incisioni giovanili e in seguito le carte. Firma opere presenti in diversi musei e istituzioni pubbliche in Italia e nel mondo e al MANN resta fino al 26 giugno con un suggestivo percorso che si snoda attraverso quadri, collages, pannelli, foto, sculture e che già nel titolo Annerite Scaglie rivela essere composto da frammenti rimasti in balia della polvere del tempo e dell’oblio per essere restituiti a nuova vita. Sono oggetti ritrovati nello studio dell’autore, oggetti sparsi per ogni angolo, oggetti raccolti per strada che per la società dei consumi sarebbero destinati all’abbandono, alla dismissione, alla discarica, diventano per l’autore la metafora dell’uomo stesso che nella società tecnologica avanzata è ridotto ad oggetto, avvolto nella plastica, chiuso in scatole di plexiglass, costretto a vivere in gabbia e uccidere se stesso. Se l’uomo è oggetto, la sua rappresentazione non può che essere oggettuale, sembra essere la conclusione dell’artista. Ma mai saltare alle conclusioni quando le domande si possono porre a colui che le Annerite Scaglie le ha pensate, realizzate, raccolte, organizzate in modo da allestirne una mostra dall’impatto emotivo davvero potente. Soprattutto, poi, se è la Festa della Liberazione!

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Maestro Pedicini, oggi che senso ha fare arte e qual è quello della sua arte? Certamente la mia arte oggi non può essere un’arte antica o di passaggio. Ogni artista racconta il percorso della sua vita. Tutto comunque è molto difficile, sia per i materiali che per i contenuti. Farsi leggere fino in fondo diventa caotico perché il concetto mentale dell’artista non è solo quello della materia e del contenuto, ma anche quello del fare. Io utilizzo tecniche e materiali diversi, sono un ricercatore ed ogni volta esprimo i contenuti che mi stanno a cuore. Non è facile dire cosa cerco: cerco la libertà espressiva, quello che posso fare lo faccio.

Non devo essere legato a qualcosa. Parlavo con dei ragazzi poc’anzi (quando l’ho adocchiato ndr) del periodo fascista in cui gli artisti venivano condannati. Hitler ce l’aveva specialmente con gli esponenti della scuola della Bauhaus, che erano ritenuti oppositori del potere e dovevano scappare dall’Europa per non essere arrestati. Io per prima cosa amo la libertà e la ricerca. Ecco perché questa mostra è stata documentata attraverso un percorso ben preciso, quello delle mie sculture in bronzo che rappresentano il mito della bellezza dell’antica Grecia.

Le altre sculture sono ricordi degli anni ’60, come Il Trono che è composto da una sedia, da una camicia rossa e da fogli di plastica che reggono la sedia. È un trono tremolante ed è giusto del 1966, che poi tutto è stato annullato realmente e politicamente. Una scultura in bronzo come Storia di un amore, invece, con una gamba e con un panneggio, con una lastra sotto e un fazzoletto poggiato sulla lastra, rappresenta la distruzione. Quando volevano che la donna fosse solo una donna oggetto io l’ho venerato questo “oggetto”, l’ho fatto diventare l’amore della mia vita.

Ci mostri le altre opere, maestro, così chi verrà a visitare la mostra potrà intenderne il significato che lei ha voluto dare ad esse.

La progressione in questo grande occhio, non a caso, è una progressione ottenuta all’interno di uno spazio delimitato. Questa teoria nasce proprio dalla scuola della Bauhaus: si può partire da una sfera, da un punto, da una linea e man mano si costruisce all’interno di questo spazio, secondo un equilibrio di forme, fino ad arrivare all’opera definitiva.

La sua arte è espressione di resistenza e di libertà. Quanto è importante che il senso della libertà e dell’umanità attraverso l’arte? E quanto può l’arte arginare la deriva di disumanità che percorre il nostro tempo?

Cosa dire… avere la libertà è molto difficile. Anche per noi artisti, che abbiamo bisogno di collezionisti e di musei che ci accolgono. Deve pensare che questo percorso dell’oggetto nella scatola, di questo spazio chiuso come l’ho definito io, non è stato accettato a suo tempo e io ho cambiato binario, ho cambiato registro perché tanto lo capivo solamente io. Restava quindi solo la fotografia?

Perché riproducendo la realtà era più accettabile?

È chiaro che era più accettabile.

Oggi l’arte deve ancora essere accettabile, o è accettata?

Hmmm… mi mette davanti a un muro. È molto duro dare una risposta…secondo me, non è accettata.

Quanto ha a che fare il 25 aprile, la liberazione dal nazifascismo con l’arte che è liberazione dell’anima?

Eh, bella ciao! Bella ciao. Io sono qui. Ho sempre cantato questa canzone an- che mentre lavoro, nella mia libertà infinita per l’amore per l’arte.

Quindi l’arte è resistenza ed esistenza. Sinceramente io non accetto mai un lavoro di committenza se non c’è la libertà, anche se vengo ben pagato.

Ai giovani artisti e ai giovani in generale, per avvicinarli alla potenza dell’arte, cosa vuole dire?

Di amare l’arte con il cuore e soffrire con il cuore per lavorare.

Mi dica degli scarti, di tutti quei pezzi di carta chiusi in quel cubo di plexiglass.

È il negativo delle opere pittoriche. Di quei collages. Nella scatola ce n’è una parte, ma io lo posso riempire quel cubo, che diventa a sua volta un’opera. Quello che uno scarta cos’è?

È il positivo o il negativo. Simili ma opposti. Sono complementari l’opera e lo scarto. La sedia che compone il trono, è stata presa non a caso all’angolo di una strada dov’era abbandonata, perché era lo scarto di una società consumistica ed è diventata per me un linguaggio, un contenuto, un’opera, una storia. Perché quella sedia per me ha una storia, non scritta da me: aveva già una storia quando è stata buttata all’angolo del palazzo.

…chissà chi ci è seduto, quanto è durata… quindi simboleggia la precarietà del potere? Il messaggio è “stia attento chi detiene il potere”. È un monito il suo maestro!?

Ah, ah, ah! A me non importa più. Io voglio solo essere libero e se non sono al museo del Novecento, ma qui al MANN, ospite di Paolo Giulierini che è un grande direttore, è proprio perché non ho mai bussato alla porta di nessuno. Bravo, Maestro. così si fa. Viva l’arte. Viva la libertà.

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