Five Nights at Freddy's. The twisted ones

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THE TWISTED ONES


Scott Cawthon e Kira Breed-Wrisley Five Nights at Freddy’s - The Twisted Ones Traduzione di Maria Bastanzetti Copyright © 2017 Scott Cawthon © 2017 Editrice Il Castoro Srl viale Andrea Doria 7, 20124 Milano www.castoro-on-line.it info@castoro-on-line.it All rights reserved. Published by arrangement with Scholastic Inc., 557 Broadway, New York, NY 10012, USA. Photo of TV static © Klikk/Dreamstime

ISBN 978-88-6966-254-6


scott cawthon - kira breed-wrisley

Traduzione di Maria Bastanzetti





Capitolo uno

«n

on fidatevi dei vostri occhi.» La professoressa Treadwell camminava avanti e indietro sul palco dell’auditorium. I suoi passi erano lenti e regolari, e avevano un effetto quasi

ipnotico. «I vostri occhi vi ingannano ogni giorno riempiendo per voi gli spazi vuoti in un mondo di sovraccarico sensoriale.» Un’immagine geometrica piuttosto confusa apparve sullo schermo in tela alle sue spalle. «E quando dico “sovraccarico sensoriale” è proprio di questo che sto parlando, letteralmente. In ogni momento i vostri sensi ricevono molte più informazioni di quante possano elaborarne contemporaneamente e il cervello è costretto a scegliere quali segnali tenere in considerazione e quali no. Lo fa basandosi sull’esperienza pregressa e sulle vostre aspettative riguardo ciò che è normale. Ciò che ci è già familiare è ciò che possiamo, perlopiù, ignorare. L’olfatto ne è un ottimo esempio: il vostro naso smette di percepire un 1


odore dopo averlo sentito per un po’. E direi che potete essere grati di questo fenomeno… anche se dipende molto dalle abitudini del vostro compagno di stanza.» La classe ridacchiò come da copione, ma tornò silenziosa quando un altro disegno multicolore apparve di colpo sullo schermo. La professoressa accennò un sorriso e proseguì: «La vostra mente crea il movimento anche quando non c’è. Inserisce colori e traiettorie basati su ciò che avete visto in precedenza e calcola cosa dovreste vedere poi». Una terza immagine scorse sullo schermo. «Se la vostra mente non si comportasse in questo modo, allora anche una semplice passeggiata all’aperto e la vista di un albero consumerebbero tutta la vostra energia mentale, lasciandovi privi di risorse per qualsiasi altra attività. Per facilitarvi le cose, la vostra mente provvede a riempire gli spazi di quell’albero con foglie e rami.» Un centinaio di matite si misero a scribacchiare contemporaneamente, facendo risuonare la sala conferenze di un rumore simile allo zampettare di un branco di topi in fuga. «Per questo la prima volta che entrate in una casa provate per un attimo una sensazione di smarrimento. La vostra mente sta lavorando più del solito. Deve disegnare e assimilare una mappa del pavimento e archiviare un inventario di immagini a cui attingere in seguito, in modo da non costringervi ogni volta a quel faticosissimo rilevamento di dati. Quando rientrerete nella stessa casa saprete già dove vi trovate.» «Charlie!» Una voce pressante, vicinissima all’orecchio, bisbigliò il suo nome. La ragazza continuò a scrivere, con gli 2


occhi fissi sullo schermo della sala conferenze. Mentre parlava, la professoressa Treadwell allungò il passo. Non stava ferma un attimo e di tanto in tanto puntava il dito verso lo schermo, per chiarire meglio a cosa si riferiva. Era come se si lasciasse alle spalle le parole mentre la mente correva avanti. Già alla seconda lezione Charlie si era resa conto che la professoressa a volte interrompeva una frase a metà per concluderne un’altra, del tutto diversa. Sembrava quasi scremare il discorso dentro la testa, pescando le parole qua e là. La maggior parte degli studenti del corso di robotica lo trovava esasperante, invece a Charlie piaceva. Seguire quelle lezioni era come ricomporre i pezzi di un puzzle. L’immagine sullo schermo cambiò di nuovo, mostrando un assortimento di parti meccaniche e il diagramma di un occhio. «Questo è ciò che dovrete ricreare.» La professoressa Treadwell indietreggiò di un passo e si voltò, per guardare l’immagine insieme ai suoi studenti. «L’intelligenza artificiale fondamentale è tutta basata sul controllo sensoriale. Non avrete a che fare con una mente in grado di distinguere da sé le informazioni utili da quelle inutili. Dovrete progettare programmi capaci di individuare le forme di base, scartando al contempo ciò che è ininfluente. Dovrete fare per i vostri robot ciò che la mente fa per voi: creare un archivio di informazioni semplificato e organizzato che si basi soltanto su ciò che risulta rilevante. E adesso cominciamo col dare un’occhiata a qualche esempio di riconoscimento di forme di base.» «Charlie», bisbigliò di nuovo la voce, e la ragazza agitò con impazienza la matita verso la figura che le sbirciava da sopra la 3


spalla – ovvero il suo amico Arty – cercando di allontanarlo, come si fa con una mosca molesta. Il gesto le fece perdere un secondo prezioso, costringendola a restare indietro di mezzo passo rispetto alla docente, e la ragazza si affrettò a rimettersi in pari. Non voleva perdersi una riga, una parola. Il foglio che aveva davanti era coperto di formule, appunti ai margini, schizzi e schemi vari. Voleva prendere nota di tutto e contemporaneamente: non solo la parte matematica, ma anche qualsiasi cosa gliela richiamasse alla mente. Se fosse riuscita a collegare nuove informazioni ad altre già in suo possesso avrebbe memorizzato tutto con maggiore facilità. Era affamata di ogni briciola di quella conoscenza, sempre attentissima e pronta a coglierne nuovi bocconi come un cane in attesa sotto il tavolo da pranzo del suo padrone. Un ragazzo seduto in una delle prime file alzò la mano per fare una domanda, e Charlie ebbe un piccolo moto d’impazienza. Così l’intera classe sarebbe rimasta bloccata, in attesa che la Treadwell rispiegasse un concetto semplice. La ragazza lasciò vagare la mente, scarabocchiando disegnini sui margini del foglio con aria assente. John sarebbe arrivato di lì a… – diede un’occhiata distratta all’orologio – … a un’ora. Gli ho detto che forse un giorno o l’altro ci saremmo rivisti. E immagino che quel giorno sia oggi. La sua telefonata era giunta del tutto inattesa. «È solo che passo da quelle parti…», le aveva detto, e Charlie non si era nemmeno presa il disturbo di chiedergli come facesse a sapere dove si trovava. Ovvio che lo sapeva. E non c’era ragione di non 4


incontrarlo, così lei si era scoperta al contempo emozionata e preoccupata all’idea. In quel momento, mentre tracciava meccanicamente una serie di rettangoli sul fondo della pagina, ebbe un tuffo al cuore, un piccolo spasmo nervoso. Le sembrava passata una vita dall’ultima volta che l’aveva visto. Ogni tanto aveva l’impressione che fosse stato solo il giorno prima, come se l’anno trascorso in realtà non fosse esistito. Invece era volato e per Charlie era cambiato tutto ancora una volta. I sogni erano cominciati a maggio, la notte del suo diciottesimo compleanno. Charlie era abituata agli incubi. I momenti peggiori del suo passato tornavano a galla come un reflusso di bile, sotto forma di contorte versioni di memorie già fin troppo terribili per ricordarle. La mattina lei spingeva tutto nei meandri più reconditi della mente, sigillando ogni fessura, conscia che i suoi ricordi avrebbero rotto i sigilli solo con l’arrivo del buio. Ma quei sogni erano diversi. Quando si svegliava era fisicamente esausta: non soltanto stanca, ma indebolita, con i muscoli doloranti. Aveva le mani rigide e indolenzite, come se le avesse tenute strette a pugno per ore. Quei nuovi sogni non si presentavano ogni notte, ma quando succedeva interrompevano i soliti incubi e prendevano il sopravvento. E ogni volta, che corresse urlando per mettersi in salvo o che vagasse senza meta in un bizzarro guazzabuglio dei posti dov’era stata nel corso della settimana… ogni volta, tutt’a un tratto, lei lo sentiva: Sammy, il suo gemello perduto, era vicino. Charlie sapeva che lui c’era come c’era lei, e, qualunque fosse il sogno, tutto – persone, luoghi, luci e suoni – si spegneva, 5


spariva, e lei si ritrovava nel buio a cercarlo, chiamando il suo nome. Lui non rispondeva mai. Charlie cadeva in ginocchio e si faceva strada nell’oscurità, carponi, lasciandosi guidare dalla presenza di Sammy finché non raggiungeva una barriera liscia e fredda, di metallo. Non la vedeva, ma ci picchiava forte un pugno e ne sentiva il rimbombo. «Sammy?», chiamava, colpendo con più forza. Si alzava e provava ad allungarsi per capire se sarebbe riuscita a scalare la superficie levigata, che però era troppo alta. Charlie batteva i pugni contro la barriera fino a farsi male e urlava il nome del fratello a squarciagola, poi si accasciava a terra e restava appoggiata al metallo, premendo la guancia contro la superficie fredda, nella speranza di sentire un bisbiglio dall’altra parte. Lui era lì, ne era certa, come se Sammy fosse una vera e propria parte di lei. In quei sogni sapeva che suo fratello era presente. Ma il peggio era quando, da sveglia, sapeva che invece non c’era. Nel mese di agosto Charlie e sua zia Jen avevano litigato per la prima volta. Erano sempre state troppo distanti per litigare sul serio. Charlie non aveva mai sentito davvero il bisogno di ribellarsi, perché Jen per lei non rappresentava una vera autorità. E Jen non prendeva mai sul personale il comportamento della nipote, né cercava di impedirle di fare nulla, purché fosse al sicuro e non corresse rischi. Il giorno in cui Charlie era andata a vivere da lei, a sette anni, zia Jen le aveva detto chiaramente che non intendeva sostituirsi ai suoi genitori. Ormai Charlie era grande abbastanza da capire che per Jen quello era stato un gesto di rispetto, un modo per rassicurare la nipote 6


che suo padre non sarebbe mai stato dimenticato, e che lei sarebbe sempre rimasta la sua bambina. Ma all’epoca le era parso un avvertimento. Non aspettarti che io faccia il genitore. Non aspettarti amore da me. E Charlie non si era aspettata niente. Jen aveva sempre avuto cura di lei. A Charlie non erano mai mancati cibo e vestiti e zia Jen le aveva insegnato a cucinare, a occuparsi della casa, a gestire i suoi soldi, e perfino ad aggiustare la macchina. Devi essere indipendente, Charlie. Devi sapere come fare a prenderti cura di te stessa. Tu devi essere più forte di… A quel punto si interrompeva sempre, ma Charlie sapeva come finiva quella frase. ... di tuo padre. La ragazza scrollò bruscamente la testa, cercando di scacciare quei pensieri. «Cosa c’è?», le chiese Arty, accanto a lei. «No, niente», mormorò Charlie, facendo correre la matita sempre lungo le stesse linee, su, a destra, giù, a sinistra, con la mina che man mano si arrotondava e lasciava un tratto sempre più spesso. Quando Charlie aveva detto a Jen che pensava di tornare a Hurricane, sua zia era impallidita di colpo e l’aveva guardata, inespressiva. «E perché lo faresti?», le aveva chiesto, con una strana calma nella voce. Il cuore di Charlie aveva accelerato i battiti. Perché è lì che l’ho perso. Perché ho più bisogno di lui che di te. Il pensiero di tornare l’assillava da mesi, facendosi sempre più forte con il passare delle settimane. Poi un mattino si era svegliata e aveva preso la sua decisione: era definitiva, e stava lì, nella sua mente, solida e inamovibile. 7


«Jessica andrà al college al St George», aveva detto alla zia. «E inizia con il semestre estivo, quindi potrò stare da lei mentre sarò lì. Voglio rivedere la casa. Ci sono ancora tante cose che non capisco. E per me è... davvero importante», aveva concluso con un filo di voce, farfugliando quando gli occhi di Jen – di un azzurro scuro che ricordava il marmo – si erano fissati su di lei. Per un lungo momento Jen non le aveva risposto, poi aveva detto semplicemente: «No». Perché no?, avrebbe probabilmente esclamato Charlie un tempo. L’altra volta mi hai lasciato andare. Ma dopo quello che era successo l’anno prima, quando lei, Jessica e gli altri erano tornati da Freddy’s e avevano scoperto l’orrenda verità che si nascondeva dietro gli omicidi avvenuti nella vecchia pizzeria di suo padre, le cose tra loro erano cambiate. Charlie era cambiata. Infatti stavolta aveva sostenuto lo sguardo di Jen, risoluta. «Io ci vado», aveva detto, cercando di impedire alla propria voce di tremare. A quel punto tutto era esploso. Charlie non sapeva chi si fosse messa a urlare per prima, ma di sicuro lei aveva gridato fino a sgolarsi, rinfacciando alla zia ogni singolo dispiacere che le aveva dato, ogni dolore che non aveva saputo risparmiarle. Jen le aveva gridato di rimando che la sua intenzione era stata sempre e solo quella di prendersi cura di Charlie, che aveva fatto del proprio meglio, e aveva snocciolato parole rassicuranti che chissà perché a lei sembravano stillare veleno. «Io ci vado!», aveva ripetuto la ragazza, in un tono che non 8


ammetteva repliche. Si era avviata verso la porta, ma Jen l’aveva presa per un braccio, strattonandola con violenza. Charlie era inciampata e sarebbe caduta se non si fosse aggrappata al tavolo della cucina. Jen, scioccata, aveva lasciato ricadere la mano. C’era stato un momento di pesantissimo silenzio, dopodiché la ragazza se n’era andata. Aveva riempito una borsa in fretta e furia, con la sensazione di essersi staccata in qualche modo dalla realtà per entrare in un impossibile, divergente mondo parallelo. Infine era salita in macchina ed era partita. Non aveva avvertito nessuno che se ne stava andando. Non aveva amicizie particolarmente strette e non c’era nessuno a cui dovesse dare spiegazioni. Mentre viaggiava verso Hurricane aveva pensato di andare dritta a casa di suo padre e di restarci per qualche giorno, finché Jessica non fosse arrivata al campus. Ma quando era giunta nei pressi della città, qualcosa l’aveva trattenuta. Non posso, si era detta. Ma non posso nemmeno tornare indietro. Perciò aveva fatto inversione e si era diretta al St George, dove aveva dormito in macchina per una settimana. Solo dopo aver bussato, quando Jessica le aveva aperto la porta e l’aveva guardata esterrefatta, Charlie si era resa conto di non aver mai accennato del suo progetto all’amica, dalla quale dipendeva tutto. Così le aveva raccontato ogni cosa e Jessica, pur con una certa esitazione, si era offerta di ospitarla. Charlie aveva dormito sul pavimento per il resto dell’estate, e con l’avvicinarsi del semestre autunnale Jessica non le aveva chiesto di andarsene. «È bello avere qui qualcuno che mi conosce», le aveva 9


detto e, con un gesto che non era da lei, Charlie l’aveva abbracciata. La scuola non era mai stata l’interesse principale di Charlie. Se l’era sempre cavata, riuscendo spesso a ottenere voti alti. Però non si era mai posta davvero il problema di quali materie le piacessero o meno, anche se le era capitato, ogni tanto, che un insegnante riuscisse a risvegliare in lei uno sprazzo di interesse per un anno. Charlie non aveva idea di cosa avrebbe fatto alla fine dell’estate, ma un giorno, sfogliando distrattamente l’elenco dei corsi sulla Guida dello studente di Jessica, aveva visto il programma del corso avanzato di robotica: in quel momento qualcosa le era scattato dentro e un tassello del puzzle era andato al suo posto. Il St George era uno dei college a cui era stata ammessa, alcuni mesi prima, benché non avesse mai avuto davvero intenzione di frequentarne nessuno. Tuttavia si era precipitata in segreteria e aveva perorato la propria causa finché l’impiegata non aveva accettato la sua iscrizione, nonostante il termine massimo fosse stato superato da mesi. Ho ancora tanto da imparare. E le cose che voleva imparare erano molto, molto specifiche. Certo, prima che per lei avesse senso frequentare un corso di robotica doveva apprendere molte altre nozioni. La matematica era sempre stata chiarissima, funzionale, una specie di gioco per lei: bastava eseguire il procedimento richiesto per ottenere la soluzione. Ma non era mai stato un gioco troppo interessante. Era divertente imparare qualcosa di nuovo, ma poi le toccava continuare a farlo per settimane o mesi, annoian10


dosi a morte. Alle superiori era sempre stato così. Ma durante la prima lezione di calcolo, al college, era successo qualcosa. Era stato come se per anni lei non avesse fatto che accatastare mattoni, una fila dopo l’altra, costretta a lavorare lentamente e vedendo solo la malta e la cazzuola che aveva in mano. Poi, all’improvviso, qualcuno le aveva fatto fare un passo indietro e le aveva detto: «Ecco, guarda, hai costruito questo castello. Ora puoi entrare a giocare!». «Molto bene, per oggi è tutto», disse alla fine la professoressa Treadwell. Charlie abbassò gli occhi sul foglio e si rese conto di non aver smesso un attimo di muovere la matita. Aveva tracciato una serie di linee scure attraverso la pagina, sui margini e sul banco. Cancellò i segni con la manica, uno po’ a malincuore, poi aprì gli anelli del raccoglitore per infilarci gli appunti. Arty si sporse da sopra la sua spalla e lei si affrettò a richiudere tutto, ma il ragazzo era comunque riuscito a dare un’occhiata. «Cos’è quella roba? Un codice segreto? Arte astratta?» «No, solo matematica», rispose Charlie, un po’ sbrigativa, mettendo il quaderno nella borsa. Arty era bello e impacciato al tempo stesso. Aveva un viso dolce, occhi scuri e una massa di capelli castani dai ricci che sembravano avere vita propria. Frequentava tre dei quattro corsi di Charlie e la seguiva praticamente ovunque fin dall’inizio del semestre, come un cagnolino randagio. Con sua grande sorpresa, Charlie si era resa conto che in realtà non le dava affatto fastidio. Mentre usciva dall’auditorium, Arty prese il posto che ormai gli era abituale, accanto a lei. «Allora, hai deciso riguardo al progetto?», le chiese. 11


«Progetto?» Charlie aveva un vago ricordo di qualcosa che il ragazzo voleva realizzare insieme a lei. Arty le rivolse un piccolo cenno col capo, in attesa che facesse mente locale. «Hai presente? Dobbiamo mettere in piedi un esperimento per chimica… Pensavo che avremmo potuto lavorarci insieme. Sì, insomma, con il tuo cervello e la mia faccia…» Non concluse la frase, sfoderando un gran sorriso. «Sì, be’… sarebbe… Scusa, devo vedere una persona», si interruppe Charlie. «Ma se non vedi mai nessuno!», obiettò Arty, sorpreso, arrossendo subito dopo che le parole gli furono uscite di bocca. «Scusa, non è questo che intendevo. Non che siano affari miei ma… chi sarebbe?» E le sorrise di nuovo. «John», rispose Charlie senza stare a pensarci. Per un attimo Arty sembrò mortificato, ma si riprese in fretta. «Certo, sì. John. Bravo ragazzo», disse in tono scherzoso. Inarcò le sopracciglia, invitandola a fornire altri dettagli, ma lei non reagì. «Non sapevo che fossi… sì, voglio dire, che avessi un... be’, bene.» L’espressione di Arty virò su una maschera di cauta neutralità. Charlie lo guardò con aria strana. Non era sua intenzione lasciargli intendere che lei e John erano una coppia, ma non sapeva come correggerlo. Non poteva spiegare che rapporto ci fosse tra loro senza raccontare ad Arty ben più di quanto volesse. Camminarono in silenzio per qualche minuto, attraverso il chiostro principale, un cortile interno quadrangolare con 12


un piccolo spiazzo erboso circondato da edifici di cemento e mattoni a vista. «Allora, John è un ragazzo della tua città?», le chiese alla fine Arty. «La mia città è a mezz’ora da qui. Questo posto è più che altro un’estensione dell’abitato», precisò Charlie. «Comunque sì, John è di Hurricane.» Arty esitò, poi le si avvicinò di più, guardandosi intorno come per assicurarsi che nessuno ascoltasse quella conversazione. «C’è una cosa che volevo chiederti da tanto…», disse. Charlie gli rivolse uno sguardo estenuato. Non farmi domande su quello che è successo. «Sì, lo so, di sicuro te lo chiedono tutti di continuo, ma dai… non puoi farmene una colpa se sono curioso. Comunque, quella storia degli omicidi da queste parti è un po’ come una leggenda metropolitana. Voglio dire, non solo qui, in realtà. Ovunque. Freddy Fazbear’s Pizza…» «Piantala.» Il viso di Charlie si fece di colpo immobile, impietrito. Aveva la netta sensazione che per muovere anche solo un muscolo, assumendo una qualsiasi espressione, le servisse un’arcana capacità che non possedeva più. Anche il volto di Arty era cambiato. Il suo sorriso spigliato si era spento e lui aveva un’aria quasi impaurita. Charlie si morse il labbro inferiore, ordinando alla bocca di muoversi. «Ero una bambina quand’è successo», disse poi, con un filo di voce. Arty annuì con un cenno rapido e quasi lezioso. Charlie si costrinse a sorridere. «Devo vedermi con Jessica», mentì. Devo 13


allontanarmi da te. Arty annuì di nuovo, muovendo la testa come uno di quei pupazzetti che si tengono sul cruscotto della macchina. Lei girò i tacchi e si diresse verso il dormitorio, senza voltarsi indietro. Charlie sbatté le palpebre nel sole. Si sentiva aggredita da lampi di ciò che era successo l’anno prima da Freddy’s, brandelli di memoria le ghermivano i vestiti con fredde dita metalliche. L’uncino che calava dall’alto, pronto a colpire… e nessuna via di fuga. Una figura in agguato dietro il palco. Pelliccia sintetica rossa, infeltrita, che nascondeva le ossa metalliche della creatura assassina. Lei in ginocchio, al buio, sul freddo pavimento di piastrelle del bagno, e poi… quell’enorme occhio di plastica che sbirciava attraverso la fessura, il miasma caldo del fiato senza vita che le finiva dritto in faccia. E l’altro ricordo, quello più vecchio: il pensiero che la faceva soffrire in un modo che non aveva parole per descrivere, un dolore che la riempiva come se le fosse stato saldato nelle ossa. Lei e Sammy, l’altra sua metà, il suo fratello gemello, stavano giocando tranquilli nel familiare calore dello sgabuzzino dei costumi. A un tratto, sulla soglia, era apparso quell’essere, e li guardava dall’alto. Poi Sammy era scomparso e il mondo era finito per la prima volta. Charlie si ritrovò davanti alla porta del dormitorio, quasi senza sapere come ci fosse arrivata. Prese lentamente le chiavi dalla tasca ed entrò in camera. Le luci erano spente, Jessica era ancora a lezione. Charlie si chiuse la porta alle spalle, controllò due volte il chiavistello e si appoggiò con la schiena contro il battente. Fece un profondo sospiro. È tutto finito. Si raddrizzò con un gesto deciso e accese di scatto la luce, riempiendo la stanza di un bagliore quasi fastidioso. La sveglia sul comodino 14


la informò che mancava ancora un’ora all’arrivo di John, tempo che avrebbe impiegato lavorando al suo progetto. Charlie e Jessica avevano diviso la camera con una striscia di nastro adesivo di carta subito dopo la prima settimana di convivenza. Jessica l’aveva suggerito quasi per scherzo, dicendo che l’aveva visto fare in un film, ma Charlie aveva accettato con un gran sorriso e l’aveva aiutata a prendere le misure. Sapeva che l’amica non vedeva l’ora di tenere il suo disordine lontano da sé. Il risultato era una stanza in versione “prima e dopo” che avrebbe potuto essere la foto pubblicitaria di un servizio di pulizie a domicilio o di un’arma nucleare, a seconda del lato da cui la si guardava. Sulla scrivania di Charlie c’era una federa che copriva due forme indistinte. La ragazza si avvicinò e la tolse, piegandola poi con cura prima di posarla sulla sedia. Osservò il progetto a cui stava lavorando. «Ciao», disse piano. Due facce meccaniche erano sostenute da altrettante strutture metalliche e fissate a un’asse. Avevano fattezze indefinite, come se fossero vecchie statue consumate dalla pioggia, o nuove sculture abbozzate nella creta e ancora incompiute. Erano fatte di plastica malleabile e sul retro, al posto del cranio e della nuca, c’erano grovigli di telai, microchip e cavi di ogni genere. Charlie si chinò sulle sue opere e ne scrutò ogni millimetro, controllando che tutto fosse come l’aveva lasciato. Fece scattare un piccolo interruttore nero e alcune lucine lampeggiarono, mentre le minuscole ventole di raffreddamento entravano in azione. 15


Non si mossero, ma qualcosa cambiò. Le fattezze indefinite assunsero un’espressione. Gli occhi ciechi non si rivolsero verso Charlie: si scambiarono uno sguardo. Tu, disse il primo. Le labbra si mossero come per articolare la sillaba, ma non si separarono. Non erano fatte per aprirsi. Io, replicò il secondo, riproducendo il medesimo movimento, accennato e trattenuto. Tu sei, riprese il primo. Sono?, fece il secondo. Charlie li osservava, premendosi una mano sulla bocca e trattenendo il fiato, nel timore di disturbarli. Aspettò, ma a quanto pareva avevano finito, e ora si limitavano a guardarsi a vicenda. Non sono in grado di vedere niente, ricordò la ragazza a se stessa. Poi li spense e fece ruotare l’asse, per avere sotto gli occhi la parte posteriore delle teste. Allungò una mano all’interno e sistemò un cavetto. Nella serratura della porta fu infilata una chiave e Charlie trasalì. Afferrò in fretta la federa e la gettò sulle facce, proprio mentre Jessica entrava in camera. L’amica si soffermò sulla soglia con un sorriso che le illuminava il volto. «Cos’era quella roba?», chiese. «Cosa?», domandò Charlie, di rimando. «Dai, guarda che lo so che stavi lavorando a quell’affare che non mi permetti mai di vedere.» Mollò lo zaino sul pavimento, poi si lasciò cadere sul letto di schiena, con aria tragica. «Comunque, ti informo che sono esausta!», annunciò. Charlie rise e Jessica si tirò su. «Ehi, vieni un po’ qui», le disse. «Mi spieghi cosa c’è in ballo fra te e John?» 16


Charlie si sedette sul proprio letto, di fronte a Jessica. Benché avessero stili di vita molto diversi, le piaceva vivere con l’amica. Jessica era allegra e affettuosa, e anche se la disinvoltura con cui si rapportava al mondo la intimidiva un po’, Charlie ormai si sentiva parte di quel mondo. Forse essere amica di Jessica comportava anche il fatto di assorbire un po’ della sua fiducia in se stessa. «Non l’ho ancora visto. Devo uscire tra…», diede una sbirciata all’orologio al di sopra della spalla di Jessica, «… un quarto d’ora esatto». «Sei agitata?» Charlie alzò le spalle. «Forse sì, un po’», rispose. Jessica rise. «Non ne sei sicura?» «Okay, sono agitata», ammise lei. «È che è passato tanto tempo.» «Non così tanto, in realtà», puntualizzò Jessica. Poi si fece pensierosa. «Anche se in fondo è tanto davvero. È tutto così diverso da com’era l’ultima volta che l’abbiamo visto.» Charlie si schiarì la voce. «Allora, sul serio vuoi vedere il mio progetto?», chiese all’amica, lei per prima sorpresa da quella domanda. «Sì!», esclamò Jessica, saltando su dal letto come una molla. Seguì Charlie alla scrivania. La ragazza fece scattare l’interruttore e tolse la federa con uno svolazzo da prestigiatore. Jessica trattenne il fiato e involontariamente indietreggiò di un passo. «Ma che cos’è?», domandò, con voce cauta. Charlie non fece in tempo a risponderle che la prima faccia parlò. «Me», disse. 17


E allora lo vide. Era li`, al limitare del boschetto, una figura deforme, curva nell’oscurita`. Charlie resto` impietrita,consapevole di essere sola.

non perdere il primo libro della serie!


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