THE FOURTH CLOSET
Scott Cawthon e Kira Breed-Wrisley Five Nights at Freddy’s - The Fourth Closet Traduzione di Maria Bastanzetti Copyright © 2018 Scott Cawthon © 2018 Editrice Il Castoro Srl viale Andrea Doria 7, 20124 Milano www.castoro-on-line.it info@castoro-on-line.it All rights reserved. Published by arrangement with Scholastic Inc., 557 Broadway, New York, NY 10012, USA. Photo of TV static © Klikk/Dreamstime
ISBN 978-88-6966-373-4
scott cawthon - kira breed-wrisley
Traduzione di Maria Bastanzetti
Capitolo uno
«c
harlie!» John arrancò a fatica in mezzo ai calcinacci fino al punto in cui solo un attimo prima c’era lei, tossendo per la polvere sollevata dall’esplosione. Le macerie gli sdrucciolavano sotto i piedi. Il ragazzo inciampò in un blocco di cemento e solo per un pelo non cadde. Si aggrappò all’ultimo istante alla superficie malridotta, graffiandosi le mani, ma riuscendo a ritrovare l’equilibrio. Arrivò dove voleva, nel posto in cui prima c’era lei… ne percepiva la presenza, lì sotto. Afferrò un enorme blocco di cemento e provò a spostarlo con tutta la forza che aveva. Riuscì a smuoverlo dalla cima del mucchio e a rovesciarlo. Il tonfo fu così forte che la terra sotto i piedi di John tremò. Sopra la sua testa, una trave d’acciaio scricchiolò, ondeggiando in equilibrio precario. «Charlie!» John gridò di nuovo il suo nome mentre spostava l’ennesimo masso. «Charlie, sto arrivando!» Annaspava in cerca d’aria, rimuovendo le macerie della casa con una forza che gli veniva dalla disperazione e dall’adrenalina che gli scorreva nelle 1
vene, e che si stava esaurendo. Il ragazzo strinse i denti e continuò, cercando di fare più in fretta. Il masso seguente gli scivolò dalle dita e quando abbassò lo sguardo si rese conto, stupito, che le sue mani lasciavano macchie di sangue ovunque toccassero. Si ripulì i palmi sui jeans e riprovò. Stavolta il blocco di cemento spezzato si mosse. Lo bilanciò appoggiandoselo sulle cosce e lo portò a tre passi di distanza, poi lo lasciò cadere su un altro mucchio di detriti. Il masso piombò rumorosamente su calcinacci, pietre spezzate e vetri in frantumi, causando una piccola frana. E a quel punto, sotto il rumore dell’ennesimo crollo, la sentì mormorare: «… John…». «Charlie…» Il suo cuore smise di battere quando bisbigliò il suo nome, e di nuovo le macerie gli sdrucciolarono sotto i piedi. Stavolta il ragazzo cadde, all’indietro, e batté pesantemente la schiena. Il colpo gli svuotò i polmoni da tutta l’aria. Annaspò per inspirare, ma i polmoni erano inutili. Poi, a poco a poco, sentì che si riaprivano e riprese a respirare. Si mise seduto, con la testa che gli girava, e vide ciò che il crollo aveva portato alla luce: si trovava nella piccola camera nascosta nella vecchia casa di Charlie. Davanti a lui c’era una parete metallica, liscia, al centro della quale si intravedeva una porta. Era solo un profilo, una fessura. Non c’erano cardini, cerniere né maniglia, ma lui sapeva di cosa si trattava, perché Charlie lo sapeva a sua volta quando – mentre fuggivano di corsa – si era fermata di colpo, aveva premuto la guancia contro la superficie levigata e aveva chiamato qualcuno, o qualcosa, che si trovava là dentro. «… John…» La ragazza bisbigliò di nuovo il suo nome e il suono parve provenire da tutt’intorno contemporaneamente, rimbalzando da una parete all’altra della stanza. John si rimise in 2
piedi e si avvicinò alla porta, appoggiandovi le mani. Era fresca al tatto. Vi premette contro la guancia, come aveva fatto Charlie, e la sentì diventare più fredda, come se stesse assorbendo il calore dalla sua pelle. John si tirò indietro di scatto e si strofinò la zona fredda che gli era rimasta sul viso, gli occhi fissi sulla porta, e vide il metallo lucido diventare opaco sotto il suo sguardo. Il colore impallidì, poi la porta stessa cominciò ad assottigliarsi, la sua solidità svanì lentamente fino a sembrare vetro smerigliato, e allora John si accorse che c’era un’ombra dietro quel vetro, la sagoma di una persona. La figura si fece più vicina e la porta diventò ancora più trasparente, finché il ragazzo poté quasi vederci attraverso. Si avvicinò anche lui, imitando la figura dall’altra parte del vetro. Aveva un volto levigato e lucido, occhi come quelli di una statua, scolpiti ma ciechi. John guardò oltre la porta, oltre quegli occhi, il respiro che appannava la barriera quasi trasparente, e di colpo gli occhi si aprirono. La sagoma rimase placida di fronte a lui, gli occhi fissi nel vuoto. Erano offuscati, e immobili… occhi morti. Qualcuno rise, e il suono di quella risata – convulso, angosciato, senza una parvenza di gioia – riecheggiò nella stanzetta sigillata, e John si guardò freneticamente intorno in cerca della sua origine. La risata salì di tono, facendosi sempre più folle, sempre più convulsa. John si coprì le orecchie con le mani, perché quel rumore penetrante era diventato insopportabile. «CHARLIE!», gridò ancora una volta. John si svegliò di colpo, con il cuore che batteva all’impazzata: la risata continuò, seguendolo anche fuori dal sogno. Era disorientato e i suoi occhi dardeggiarono nella stanza, per poi focalizzarsi sul televisore, dove la faccia dipinta di un clown riempiva lo schermo, in preda a un attacco convulso di risa. 3
Il ragazzo si sedette, strofinandosi la guancia nel punto in cui l’orologio aveva lasciato la sua impronta. Controllò l’ora e fece un sospiro di sollievo: aveva il tempo necessario per prepararsi e andare al lavoro. Si lasciò cadere all’indietro, doveva riprendere fiato un attimo. Alla televisione, un giornalista del notiziario locale teneva un microfono davanti a un uomo vestito come un clown da circo, con tanto di faccia dipinta, naso rosso e parrucca con i colori dell’arcobaleno. Intorno al collo aveva un colletto pieghettato che lo faceva sembrare il personaggio di un quadro rinascimentale. Indossava un costume da pagliaccio tutto giallo, con alcuni pompon rossi al posto dei bottoni. «Allora, mi dica, sono curioso» esordì in tono brillante il giornalista. «Aveva già questo costume o l’ha realizzato appositamente per la cerimonia di apertura?» John spense il televisore e andò dritto sotto la doccia. Era tutto il giorno che lo sentiva, ma il rumore era ancora insopportabile: un frastuono continuo fastidiosamente sferragliante, scandito da urla ricorrenti e dal fragore intermittente dei martelli pneumatici. John chiuse gli occhi, cercando di cancellarlo: le vibrazioni, però, gli invadevano il petto, e in mezzo a tutto quel ridondante baccano, il suono della risata disperata gli echeggiò all’improvviso nelle orecchie. L’impressionante sagoma che aveva sognato gli riempì la mente. Non la vedeva, ma aveva l’inquietante sensazione che gli sarebbe bastato girare la testa dalla parte giusta per ritrovare quella faccia dietro la porta… 4
«John!» Il ragazzo si voltò. Luis lo guardava allibito. «È la terza volta che ti chiamo», gli disse. John si strinse nelle spalle, indicando con un gesto il caos che li circondava. «Comunque, dopo il lavoro, con i ragazzi pensavamo di uscire a divertirci un po’. Vieni anche tu?», gli chiese Luis. John esitò. «Dai, che ti fa bene! Non fai che lavorare e dormire!», insistette l’altro, con una risata genuina, e diede a John una pacca sulla spalla. «Giusto, mi farà bene.» John ricambiò il sorriso, poi abbassò lo sguardo, e il sorriso svanì. «È solo che ho sempre un sacco da fare, in questo periodo.» Cercò di sembrare convincente. «Certo, c’è molto da fare, sì. Avvertimi se per caso cambi idea.» Luis batté di nuovo la mano sulla spalla di John e tornò al suo muletto manuale. John lo seguì con lo sguardo mentre si allontanava a grandi passi. Non era la prima volta che rifiutava un invito a uscire. E nemmeno la seconda, né la terza. E pensò che magari prima o poi avrebbero smesso di insistere. Doveva pur arrivare il momento in cui si sarebbero rassegnati. E sarebbe andato tutto per il meglio, forse. «John!», lo chiamò un’altra voce. Cosa c’è ancora? Era il caposquadra, che gridava il suo nome dalla porta del suo ufficio mobile, ovvero una roulotte che era stata portata nel cantiere per la durata dei lavori e sistemata – anche in modo un po’ precario – in un piccolo spiazzo di terra battuta. John si trascinò attraverso tutto il cantiere e superò la soglia 5
della roulotte scostando la tenda di vinile che proteggeva l’ingresso. Un attimo dopo era in piedi di fronte al capo, davanti al tavolo pieghevole che fungeva da scrivania. Tutt’intorno, il rivestimento in plastica effetto legno si scollava dalle pareti quasi ovunque. «Un paio di ragazzi, là fuori, mi dicono che sei piuttosto distratto.» «Sono solo concentrato sul mio lavoro, tutto qui», ribatté John, con un sorriso forzato, tentando di impedire a tutta la sua frustrazione di venire a galla e scatenarsi. Oliver fece un sorrisetto poco convinto. «Concentrato», lo scimmiottò poi, e John, colto di sorpresa, smise di sorridere. Oliver sospirò. «Senti, ti ho dato una possibilità perché tuo cugino mi ha detto che sei uno che lavora sodo. Ho chiuso un occhio sul fatto che avessi mollato senza preavviso il tuo ultimo lavoro, senza farti più vedere. Ho scommesso su di te, lo capisci o no?» John deglutì a fatica. «Sì, signore, lo capisco.» «E piantala con questo “signore”! Vedi di ascoltarmi, invece!» «Faccio quello che mi dicono di fare. E sinceramente non capisco il problema.» «Hai i riflessi di una lumaca. Sembri sempre perso nei tuoi pensieri… Non fai gioco di squadra!» «In che senso?» «Questo è un cantiere pericoloso. Se te ne stai nel mondo dei sogni o non pensi alla sicurezza degli altri uomini che lavorano con te, qualcuno potrebbe farsi male, e addirittura morire. 6
Non sto dicendo che dovete raccontarvi i vostri segreti e farvi le trecce a vicenda, sto dicendo che tu devi far parte della squadra. Gli altri devono potersi fidare, devono sapere che non li mollerai quando saranno in difficoltà.» John annuì per indicare che aveva capito. «Questo è un buon impiego, John. E io sono convinto che sono tutti bravi ragazzi, quelli là fuori. Non è facile trovare lavoro, di questi tempi, ed è importante che tu ci metta la testa, in questa partita. Perché la prossima volta che ti becco con la testa fra le nuvole, io… be’, diciamo solo che ti prego di non mettermi in quella situazione. Sono stato chiaro?» «Chiarissimo», disse John, inebetito. Rimase immobile sul ruvido tappeto dell’ufficio mobile, come se stesse aspettando di essere congedato dal preside dopo una ramanzina. «Okay. Fuori di qui.» John uscì. La strigliata del capo aveva esaurito gli ultimi minuti della sua giornata lavorativa. Aiutò Sergei a mettere via gli attrezzi, poi si diresse verso la macchina bofonchiando un “ciao” generale. «Ehi!», lo richiamò Sergei. John si fermò. «Ultima chiamata!» «Io…» John si interruppe, vedendo Oliver con la coda dell’occhio. «Magari la prossima volta», disse. Sergei insistette. «Dai, è l’unica scusa che ho per evitare quel nuovo locale per bambini… È una settimana che mia figlia chiede di andarci. Lucy ce la porta, ma a me i robot fanno una paura…» John si fermò di colpo, e sul mondo intorno a lui calò il silenzio. «Quale locale, scusa?» «Allora, vieni o no?», chiese di nuovo Sergei. 7
John indietreggiò di qualche passo, come se si fosse spinto troppo vicino all’orlo di un baratro. «Magari un’altra volta», rispose, e si riavviò deciso verso la macchina. Era una vecchia carcassa rosso mattone, che sarebbe stata considerata figa alle superiori, ma alla sua età non era che un promemoria del fatto che era soltanto un ragazzo e non si era fatto ancora strada nella vita, uno status symbol diventato un marchio d’infamia nel giro di un solo anno. Si lasciò cadere pesantemente sul sedile, sollevando una nube di polvere. Gli tremavano le mani. «Controllati.» Chiuse gli occhi e strinse forte il volante, riprendendosi un po’. «È la vita, questa, e tu ce la puoi fare», sussurrò, poi aprì gli occhi e sospirò. «Sembra una di quelle frasi cretine che avrebbe detto mio padre.» E girò la chiave nel quadro. Avrebbe potuto impiegare una decina di minuti per tornare a casa, ma ci mise quasi mezz’ora, perché la strada che prese non passava dal centro città. Se non andava in città, non correva il rischio di incontrare persone con cui non voleva parlare. Ma, soprattutto, non correva il rischio di incontrare persone con cui voleva parlare. Fai squadra. Non riusciva ad arrabbiarsi davvero con Oliver. John non era uno che faceva gioco di squadra, non più. Da quasi sei mesi faceva avanti e indietro, casa-lavoro, lavoro-casa, come un treno sul suo binario, fermandosi ogni tanto a comprare qualcosa da mangiare, ma niente di più. Parlava solo quando era strettamente necessario. Evitava il contatto visivo. Trasaliva ogni volta che qualcuno gli rivolgeva la parola, che si trattasse di un collega che lo salutava o di un estraneo che gli chiedeva l’ora. Rispondeva, conversava, ma stava diventando sempre più bravo a liquidare i suoi 8
interlocutori. Era sempre educato, ma faceva chiaramente capire che stava correndo da qualche parte, rendendo il concetto ancora più evidente, se necessario, con un brusco cambio di direzione. A volte gli sembrava di essere quasi riuscito a svanire, ed era fastidioso – una vera delusione – scoprire di essere ancora visibile. Entrò nel parcheggio del residence in cui abitava, un edificio a due piani che non era esattamente pensato per lunghe permanenze. La finestra dell’ufficio dell’amministrazione era illuminata. John aveva cercato di capire quale fosse l’orario di apertura al pubblico per più di un mese, poi ci aveva rinunciato, giungendo alla conclusione che un orario fisso non c’era. Prese una busta dal vano del cruscotto e andò dritto alla porta dell’ufficio. Bussò, ma non ricevette risposta, anche se dall’interno si sentivano dei movimenti. Bussò di nuovo e stavolta la porta fu socchiusa: una vecchia signora con la tipica pelle da fumatrice di lungo corso si affacciò allo spiraglio. «Salve, Delia.» John le sorrise. Lei non ricambiò. «L’assegno dell’affitto.» Il ragazzo le porse la busta. «Lo so che è tardi. Ma sono passato ieri e non c’era nessuno.» «Era orario d’ufficio?» Delia sbirciò nella busta, guardinga, come se non si fidasse di ciò che avrebbe potuto trovarci. «Le luci erano tutte spente, quindi…» «Quindi non era orario d’ufficio.» Delia scoprì i denti, ma il suo non fu un vero e proprio sorriso. «Ti ho visto appendere una pianta», disse brusca. «Oh, sì.» John diede una rapida occhiata dietro di sé, verso il suo appartamento, come se lo potesse vedere dal punto in 9
cui erano. «È carino prendersi cura di qualcosa, no?» Cercò di sorridere di nuovo, ma rinunciò subito, travolto da un’improvvisa atmosfera da giudizio universale che non consentiva la minima leggerezza. «È permesso, vero? Tenere una pianta, intendo.» «Sì, puoi tenere una pianta.» Delia fece un passo indietro e parve intenzionata a chiudere la porta. «È solo che di solito la gente non ci mette radici, in questo posto, tutto qui. Di solito prima c’è una casa, poi una moglie e infine la pianta.» «Giusto.» John si guardò le scarpe. «In effetti è stato un anno…», esordì, ma la porta si richiuse con uno scatto deciso. «… tosto.» John rimase per un attimo a fissare il battente, poi raggiunse l’appartamentino al pianterreno che si trovava nella parte anteriore del complesso e che era suo per un altro mese. Era un bilocale con bagno e cucinino. Il ragazzo lasciava le tapparelle sempre alzate quando era fuori, per comunicare che non aveva niente da temere: i furti erano frequenti, in zona, e gli sembrava più sicuro far sapere agli interessati che lì non c’era niente da rubare. Una volta entrato, John si chiuse piano la porta alle spalle. L’appartamento era fresco, buio e silenzioso. Il ragazzo sospirò, massaggiandosi le tempie. Il mal di testa c’era ancora, ma lui stava cominciando ad abituarsi. La stanza era ammobiliata alla buona – John l’aveva affittata già così – e l’unico tocco personale che aveva aggiunto al soggiorno erano quattro scatoloni di libri impilati contro la parete sotto la finestra. Li guardò con aria di amareggiata fa10
miliarità. Andò in camera e si sedette sul materasso. Le molle, rigide, cigolarono sotto il suo peso. Non accese nemmeno la luce. Ne filtrava a sufficienza dal vetro sporco della finestrella sopra il suo letto. John guardò verso il comò, da dove una faccia familiare ricambiò il suo sguardo: sul piano era appoggiata la testa senza corpo di un coniglio giocattolo. «Cos’hai fatto oggi?», chiese John, incrociando gli occhi circondati di peluche del coniglio, come se quello potesse mostrare un lampo di vita, come se potesse in qualche modo riconoscerlo. Theodore però restituì uno sguardo vacuo, gli occhi scuri e immobili. «Hai una faccia tremenda, e sei messo peggio di me.» John si alzò e si avvicinò alla testa del coniglio. Non poteva ignorare l’odore di naftalina e di tessuto vecchio e sporco. Il sorriso di John svanì mentre afferrava il coniglio per le orecchie e lo teneva sospeso. È ora di buttarti via. Prendeva in considerazione quell’idea praticamente ogni giorno. Strinse i denti, poi rimise con cura la testa sul comò e si girò. Non voleva più vederlo, quel coniglio. Chiuse gli occhi. Non si aspettava che il sonno giungesse a dargli sollievo, ma ci sperava. Non aveva dormito bene la notte prima, né quella precedente. Ormai aveva il terrore del sonno. Lo rimandava il più possibile, camminando per chilometri fino a tarda notte, e poi, quando tornava a casa, cercando di leggere, o limitandosi a fissare il muro. Era frustrante. Prese il cuscino e tornò in soggiorno. Si sdraiò sul divano, con le gam11
be ciondoloni sopra il bracciolo, per poterci stare. Il silenzio che aleggiava nel piccolo appartamento stava cominciando a risuonargli nelle orecchie, perciò il ragazzo raccolse il telecomando dal pavimento e accese la televisione. Era un vecchio cassone, e la ricezione era pessima: riusciva a malapena a distinguere le facce nel continuo crepitio delle interferenze, ma il chiacchiericcio di quello che pareva un talk show era vivace e allegro. Abbassò il volume e si rimise giù, a fissare il soffitto, ascoltando le voci del programma finché, lentamente, scivolò nel sonno. Il braccio era floscio, inerte, ed era l’unica parte di lei che riusciva a vedere. Penzolava fuori dai resti contorti del costume metallico. Il sangue scorreva in sottili rivoli rossi sulla pelle, gocciolando sul terreno. Charlie era sola. Riusciva ancora a sentire la sua voce, se si sforzava: «Non lasciarmi andare! John!». Mi ha chiamato. Ha chiamato me. E poi quella cosa… Il ragazzo rabbrividì, risentendo il suono del costume animatronico che scattava e scricchiolava. Guardò il braccio senza vita di Charlie come se il mondo intorno a loro fosse scomparso, e mentre la voce gli riecheggiava in testa, la sua mente cominciò a rievocare pensieri non graditi: il rumore che sentiva era quello delle ossa di Charlie che si rompevano. La lacerazione era tutto il resto. John aprì gli occhi di colpo. A due metri da lui, il pubblico in studio rideva e il ragazzo guardò lo schermo televisivo. Il crepitio e il chiacchiericcio lo riportarono in vita. John si mise seduto e mosse il collo per sciogliere la contrattura che gli faceva male. Il divano era troppo piccolo e il ragazzo aveva la schiena rattrappita. Aveva mal di testa ed era 12
esausto ma inquieto, l’adrenalina che ancora gli scorreva nelle vene. Uscì, chiudendosi con forza la porta alle spalle, e inspirò l’aria della notte. Si avviò lungo la strada, in direzione della città e di qualsiasi attività potesse essere ancora aperta. I lampioni erano molto distanti l’uno dall’altro e non c’era marciapiede, soltanto uno stretto gradino in terra battuta. Passarono poche macchine, ma quelle poche sbucarono tutte all’improvviso da dietro una curva o da un dosso, accecandolo con i fanali e sfrecciandogli accanto a una tale velocità da rischiare di investirlo. John si scoprì a deviare sempre più vicino alla strada, mentre camminava; quando però si ritrovava troppo fuori, troppo in pericolo, si spostava di qualche passo verso il gradino, e lo faceva ogni volta con una sorta di segreta delusione nei confronti di se stesso. Mentre si avvicinava alla città, due fanali trafissero di nuovo il buio, e lui si schermò gli occhi e fece un passo di lato, togliendosi dalla strada. Ma stavolta la macchina rallentò passandogli accanto, poi si fermò di colpo. John si voltò e fece qualche passo per raggiungerla, mentre il finestrino dalla parte del guidatore si abbassava. «John?», chiamò qualcuno. L’auto si mosse in retromarcia e accostò senza troppa cura, salendo con due ruote sul gradino in terra battuta. John si spostò con un balzo dalla traiettoria. Una donna scese dalla macchina e fece qualche passo veloce verso di lui, come se volesse andare ad abbracciarlo, mentre John rimase piantato dov’era, le braccia rigide lungo i fianchi, e lei si fermò a mezzo metro di distanza. «John, sono io!», gli disse Jessica con 13
un sorriso che svanì in fretta. «Ma cosa ci fai qui a quest’ora?», gli chiese. Aveva una maglietta a maniche corte e si strofinò le braccia con le mani, infreddolita dall’aria notturna, guardando da una parte all’altra della strada semideserta. «Be’, potrei chiederti la stessa cosa», ribatté il ragazzo, come se lei l’avesse accusato di qualcosa. Jessica indicò un punto alle spalle di John. «Benzina.» Gli fece un sorriso allegro e lui non poté trattenersi dall’imitarla, per quanto a fatica. Si era quasi dimenticato di quella capacità di Jessica, che, come un rubinetto, sapeva distribuire un getto di serena cordialità su tutti quelli che le stavano intorno. «Come stai? Cosa fai?», gli chiese la ragazza, cauta. «Bene. Lavoro, più che altro.» Indicò i vestiti del cantiere, tutti impolverati, che non si era ancora tolto. «Tu? Novità?», chiese brusco, improvvisamente conscio dell’assurdità di quella conversazione, mentre alcune macchine percorrevano rapide la strada. «Adesso devo proprio andare. Buona serata.» Girò sui tacchi e si allontanò senza darle il tempo di dire niente. «Mi manchi», gli gridò dietro Jessica. «E anche a lei.» John si fermò, e con un piede si mise a scavare la terra. «Senti…» Jessica lo raggiunse, rapida. «Carlton sarà in città per le vacanze di primavera. E pensavamo di trovarci tutti, di stare un po’ insieme.» Attese, speranzosa, ma John non batté ciglio. «Muore dalla voglia di farci vedere il nuovo Carlton cosmopolita», aggiunse Jessica in tono vivace. «Quando ci siamo sentiti, la settimana scorsa, imitava l’accento di Brooklyn per vedere se me ne accorgevo.» Fece una risatina un po’ forzata. John si lasciò sfuggire un fugace sorriso. 14
«Chi ci sarà?», chiese, guardandola negli occhi per la prima volta da quando la ragazza era scesa dall’auto. Jessica gli rifilò un’occhiataccia. «John, dovrai pur parlarle, prima o poi.» «E chi lo dice?», scattò, brusco, riprendendo a camminare. «John, aspetta!» Il ragazzo la sentì correre alle proprie spalle. Lo raggiunse in un attimo e rallentò per mettersi al passo con lui. «Guarda che ho tempo, posso andare avanti quanto voglio», lo avvertì, ma John non rispose. «Devi parlare con lei», gli ripeté Jessica, guadagnandosi un’occhiata tagliente come sola risposta. «Charlie è morta», scattò lui, duro, sentendo le parole che gli grattavano la gola. Era passato tanto tempo dall’ultima volta che le aveva pronunciate a voce alta. Jessica si fermò. Lui continuò a camminare. «John, almeno parla con me.» Nessuna risposta. «Così le fai male», aggiunse Jessica. Lui si fermò. «Non capisci cosa le stai facendo? Dopo tutto quello che ha passato? È una follia, John. Non lo so cosa ti ha fatto quella notte, ma so cos’ha fatto a Charlie. E sai che c’è? Credo che non ci sia niente che le faccia più male di questa tua ostinazione nel non parlare più con lei. E nel dire che è morta.» «Io l’ho vista morire.» John aveva lo sguardo fisso, perso fra le luci della città. «No, non è vero», ribatté Jessica, poi esitò. «John, io sono preoccupata per te.» «Sono solo un po’ confuso.» John si voltò verso di lei. «E 15
dopo quello che ho passato, dopo quello che abbiamo passato, non è una reazione così assurda.» Attese per un attimo la risposta di Jessica, poi distolse lo sguardo. «Lo capisco. Sul serio. Anch’io la pensavo morta.» John aprì la bocca per parlare, ma lei proseguì. «Pensavo che fosse morta, fino a quando non è riapparsa, viva.» Jessica posò una mano sulla spalla di John, finché non tornò a incrociare il suo sguardo. «Io l’ho vista», disse Jessica, con voce rotta. «Ho parlato con lei. Perché è lei. E questo…» Gli tolse la mano dalla spalla e fece un gesto circolare intorno a lui come se stesse lanciando un incantesimo. «Questa cosa che le stai facendo… è questo che la uccide.» «Non è lei», mormorò John. «Okay», sbottò Jessica, e girò sui tacchi. Tornò decisa alla macchina e dopo pochi attimi si immise sulla carreggiata e fece un’inversione a U. John rimase dov’era. Jessica gli passò accanto rombando, poi inchiodò, facendo stridere i freni, ingranò la retromarcia e tornò da John. «Ci troviamo a casa di Clay, domani sera», lo informò, stanca di insistere. «Ti prego.» Lui la guardò. Jessica non piangeva, ma aveva gli occhi lucidi e il viso arrossato. John annuì. «Forse.» «Be’, mi basta. Ci vediamo là!», concluse la ragazza, e ripartì senza aggiungere una parola, il motore che rombava nel silenzio della notte. «Ho detto forse», bofonchiò John nel buio.
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Capitolo Due
l
a matita strideva sul foglio mentre l’uomo al bancone compilava con cura il modulo di fronte a sé. Si interruppe all’improvviso, travolto da un’ondata di vertigini. Le lettere sul foglio si erano fatte confuse e lui si aggiustò gli occhiali da lettura sul naso, con la testa che gli vorticava. Gli occhiali non aiutavano, perciò se li tolse e si strofinò gli occhi. Poi, di colpo com’era arrivata, la sensazione di vertigine sparì: la stanza tornò quella di prima e le parole sulla pagina furono di nuovo perfettamente chiare. Lui si grattò la barba, ancora sconcertato, e riprese a scrivere con decisione. Suonò un campanello e la porta si aprì. «Sì? Dica, signore», berciò l’uomo senza nemmeno alzare gli occhi. «Volevo dare un’occhiata al cortile», disse una gentile voce femminile. «Oh, scusi tanto, signora.» L’uomo alzò la testa e fece un rapido sorriso, poi tornò a concentrarsi sul modulo, continuan17
Dal creatore di uno dei videogame horror più giocati al mondo, l'attesa conclusione della trilogia best seller!
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