Luci, musica, coding!
Jo Whittemore
Luci, musica, coding! di Jo Wittemore Traduzione di Chiara Codecà © 2018 Editrice Il Castoro Srl viale Andrea Doria 7, 20124 Milano www.castoro-on-line.it info@castoro-on-line.it Pubblicato per la prima volta nel 2018 con il titolo: Lights, Music, Code! da Penguin Workshop, Penguin Young Readers Group, an imprint of Penguin Random House LLC, 345 Hudson Street, New York 10014 Testo e illustrazione di copertina © 2018 Penguin Random House LLC e Girls Who Code Inc. All rights reserved including the right of reproduction in whole or in part in any form. This edition published by arrangement with Penguin Workshop, an imprint of Penguin Young Readers Group, a division of Penguin Random House LLC. Emoji © denisgorelkin/Thinkstock. ISBN 978-88-6966-385-7
Luci, musica, coding! di Jo Whittemore
Capitolo Uno «M
aya, sei davvero uno schianto», ho detto puntando un dito verso la mia immagine allo specchio. Lei ha sorriso. O era contenta del complimento, o sperava che mi decidessi a scegliere qualcosa dopo aver provato dieci indumenti diversi. Nel fine settimana avevo comprato un top fantastico a cui mancava solo l’abbinamento perfetto con scarpe e gonna. Ma ci stavo mettendo un’eternità per trovarlo. Non ero esigente per pura superficialità, avevo ottime ragioni per preoccuparmi del mio aspetto: 1. Scrivevo di moda per il giornale della scuola, dovevo presentarmi in modo adatto. 2. Era lunedì, e i lunedì sono già abbastanza brutti senza bisogno di aggiungere i pantaloni della tuta.
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3. Io e le mie amiche eravamo comparse tra le notizie locali del giornale della nostra città, e questo significava che per qualche giorno saremmo state al centro dell’attenzione di tutti. E il cerchio si chiude tornando in loop al punto 1. Ho deciso per l’ultima combinazione che avevo provato: leggings grigi e una gonna color prugna abbinata al mio top giallo limone. Per coordinare il tutto, ho aggiunto un paio di stivali da pioggia dello stesso giallo. I colori erano un po’ forti, e le mie unghie avrebbero avuto un aspetto migliore con uno smalto viola, invece che rosa, ma nella moda bisogna rischiare. E poi, avevo appena trascorso dieci minuti davanti allo specchio della mia camera e stavo per perdere l’autobus. Ho buttato nell’armadio la mia selezione-non-ideale di vestiario. Nel farlo ho colto moltissimi altri miei riflessi nei minuscoli specchi che avevo cucito su un vestito. Sabato sera la mia scuola avrebbe organizzato un ballo, e il tema – pensato dalla sottoscritta – era Il Futuro è… Così ho comprato un sacchetto di piccoli specchi e li ho incollati, con un lavoro attento e delicato, su un vecchio prendisole bianco. L’idea mi è venuta vedendo un vestito ricoperto di specchi al centro commerciale. Sarebbe stato più facile acquistare la versione del negozio, ma i miei genitori non mi avrebbero mai dato i soldi. Perché? Perché amavano ancora ricordarmi l’ultima volta
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che hanno pagato qualcosa per conto mio: si era creata una situazione appiccicosa, e non solo per modo di dire. Era anche la ragione per cui non metto più smalto viola. Vedi, ho un grande segreto che non ho condiviso neppure con le mie migliori amiche, perché se lo sapessero non mi guarderebbero più nello stesso modo. Nessuno mi guarderebbe nello stesso modo, se si sapesse. Il fatto è che io, Maya Chung, sono una ex borseggiatrice. O meglio, sono una ladra che ha rubato una volta, e senza successo. Pazzesco, vero? A guardarmi non lo diresti, ma è così. Ed è stata tutta colpa di Nicole Davis, una ragazza con cui avevo fatto amicizia durante l’estate. Era venuta a trovare le sue zie, che abitano nella nostra stessa strada e, visto che abbiamo circa la stessa età, una delle zie di Nicole ci ha suggerito di passare un po’ di tempo insieme. All’inizio le cose sono andate alla grande. Ogni volta che vedevo Nicole, lei aveva un nuovo paio di orecchini o un bel top da sfoggiare. Mi lasciava anche prendere in prestito le sue cose per giorni interi. Ma poi ho scoperto come aveva ottenuto questi tesori: li aveva rubati. E sai perché me li “prestava”? Per tenerli fuori di casa, in modo che le sue zie non li notassero. Subdola, vero? Peggio ancora, mi ha fatto anche provare a rubare qualcosa! Tenete presente che ho detto provare.
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Ho rovesciato un espositore di smalti per le unghie mentre provavo a infilare di nascosto nella borsa uno smalto viola. Mia madre e il mio patrigno, Oliver, erano furiosi. Ho dovuto pagare tutti gli smalti che avevo rotto. Inutile dire che prima di poter chiedere loro dei soldi avrei dovuto arrivare a ottant’anni. «Maya, sento arrivare l’autobus!», ha urlato Oliver dal piano di sotto. Ho lanciato un’ultima occhiata al mio riflesso, ho preso lo zaino e sono corsa giù. «Addio, unità genitoriali. Vi voglio bene e vi imploro di non salutarmi con la mano dal portico.» Mi sono fermata per dare un bacio sulla guancia alla mamma, e lei mi ha guardato con espressione accigliata. «Girati, tesoro.» «Cosa?» Ho girato su me stessa. «Cosa c’è che non va?» La mamma ha allungato un braccio alle mie spalle, dando una tiratina al top che indossavo. Poi mi mi ha mostrato il cartellino del prezzo che aveva rimosso. «È nuovo?» Ho riconosciuto quel tono. In realtà stava chiedendo: «L’hai pagato?». Cerchi di rubare un misero smalto, e finisci in mezzo a discussioni senza fine. «L’ho comprato con i soldi del mio compleanno», ho risposto con un tono che in realtà diceva: «Sì, Madre». Lei ha sorriso, dandomi una piccola pacca sulla schiena. «È molto carino.»
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«Lo pensavo anch’io», ho detto, «quando l’ho comprato». Enfasi sulle ultime parole, per farle capire il punto. Lei ha ridacchiato, alzando le mani in segno di resa. «Ok, ok.» Mamma ha lanciato un’occhiata a Oliver, che ci guardava con espressione vuota. Oliver e mia madre stanno insieme da che riesco a ricordare (mio papà è morto quando avevo quattro anni), ma ancora cerca di restare fuori dalle discussioni madre-figlia. Una scelta intelligente, secondo me. «Sai cosa non è ok?» Oliver ha indicato la porta d’ingresso. Al di là è risuonato il rombo di un motore, seguito da un lungo e rumoroso colpo di clacson. L’autobus. Non ero mai stata così felice di andare a scuola. Sono corsa alla porta, ma una volta fuori ho rallentato il ritmo e ho camminato con sicurezza lungo il vialetto. Nessuno rispetta una giornalista di moda dall’aria affannata. L’autista dell’autobus mi ha fatto cenno di sbrigarmi, ma io ho lanciato i capelli oltre le spalle e ho mantenuto il mio passo. Oliver, che fa il capo cuoco in un ristorante di lusso, dice che se agisci come se fossi sicuro di te, lo sarai davvero. Un buon consiglio, considerato che viene da un uomo che porta calze nere con scarpe da ginnastica bianche. «Felice che si sia unita a noi, signorina Chung», ha detto il conducente mentre salivo sul bus. Gli ho sorriso e mi sono seduta accanto a Erin, che nel vedermi si è illuminata, e mi ha sorriso a sua volta.
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«Buon-giorno-Maya», ha detto lei con voce da robot, muovendo braccia e testa in modo meccanico. Il mio sorriso si è allargato. «Ciao-Erin!» Ho risposto con voce altrettanto robotica. «Hai-un-po’-di-olio?» Siamo scoppiate a ridere, mentre tutti quelli abbastanza vicini da sentirci ci guardavano in modo strano. Ma era comprensibile: loro non avevano imparato a parlare come robot preparandosi per l’hackathon del club di coding. Era il club di cui facevamo parte Erin e io, insieme alle nostre amiche Lucy, Sophia e Leila. Sono loro le migliori amiche di cui parlavo, quelle a cui non posso raccontare il mio segreto. Insieme siamo finite sulle news locali a causa dell’hackathon; si tratta di una specie di maratona dove non si corre ma si fa programmazione, in cui tutti devono scrivere codice al meglio delle loro possibilità. In questo caso dovevamo scrivere un programma per un robot e noi abbiamo programmato il nostro perché danzasse. Quasi per sbaglio, però. Alla maratona c’era anche l’insegnante responsabile del club di coding, la signora Clark. Abbiamo perso la gara, ma lei ha continuato lo stesso a ripeterci quanto era orgogliosa di noi. Quando è stato annunciato che il nostro gruppo avrebbe ricevuto in premio una visita guidata a un’azienda informatica locale, lei ha iniziato a saltare su e giù. Non avevo mai visto un’insegnante fare una cosa del genere – a parte il signor Robard, il supervisore del
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giornale scolastico, ma in quel caso aveva visto un topo. Ci aveva messo un attimo a saltare sulla scrivania, ma scendere aveva richiesto un po’ più tempo. Erin ha spostato la sua borsa. «Carino il top! È nuovo?» Mi sono ripromessa di non usare lo stesso tono infastidito che avevo usato con mia madre. Erin non sapeva della mia carriera criminale, durata quindici secondi. «Sì! L’ho comprato con i soldi ricevuti per il mio compleanno», ho risposto. «Vorrei poter spendere i soldi che mi manda mio padre per quello che voglio io», ha detto Erin con una smorfia. I suoi genitori avevano divorziato da poco, e lei viveva con sua mamma. «Tua madre non ti lascia spendere i tuoi soldi come preferisci?», ho chiesto. «No, sceglie qualcosa da poco e mette il resto in banca», ha risposto Erin alzando gli occhi al cielo, dietro gli occhiali blu. «È chiaro che non considera quanto sarò ricca quando Hollywood chiamerà.» A quel punto ha imitato la suoneria di un telefono e si è portata il cellulare all’orecchio. «Pronto? Avete bisogno di me per un altro film multimilionario?» Ha coperto il microfono del telefono con una mano, sussurrandomi: «Scusa, ci devo parlare un momento». Ho riso, scuotendo la testa. Lei ci scherza sopra, ma Erin merita di arrivare davvero a Hollywood: sa cantare,
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è un’attrice fantastica ed è bravissima a fare imitazioni; sembra di parlare con venti persone invece che con una sola. «Mi spiace che tua mamma sia difficile sui soldi», le ho detto. «Oh, non solo su quelli, su tutta la mia vita!» Ha alzato ancora gli occhi. «Vuole venire ad accompagnarci al ballo scolastico per poi restare a controllare.» «Davvero?» L’organizzatrice incaricata del ballo ero io, e finora nessuno dei genitori delle mie amiche aveva deciso di iscriversi come osservatore adulto alla festa. Mia mamma non poteva perché aveva già un impegno di lavoro (è responsabile marketing per un’agenzia pubblicitaria), e avevo convinto Oliver a non venire promettendo che gli avrei lavato la macchina ogni settimana per un mese intero. «È un modo per tenerti d’occhio?» All’improvviso sono stata colpita da un pensiero e ho trattenuto il fiato, afferrando Erin per un braccio. «Qualcuno ti ha invitata al ballo?» Lei ha scrollato la testa. «Non ancora, ma chi lo sa. Magari l’invito lo farò io. È un’idea che mi balla per la testa da quando Sophia ha invitato Sammy.» Mi ha dato una piccola gomitata, sogghignando. «Uh, sei così sdolcinata da farmi odiare lo zucchero», ho risposto storcendo il naso. Erin ha riso. «È stata un’uscita sopraffina. Capito? Come lo zucchero!»
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Mi sono data una manata in fronte. «Ho creato un mostro!» Abbiamo continuato a scambiarci battute a sfondo zuccherino finché l’autobus non è arrivato a scuola. «Aspetta, ne ho un’altra», ha detto Erin, ridacchiando mentre scendeva dal bus. «Come…» «Finalmente!» Lucy ci è corsa immediatamente incontro, le trecce svolazzanti al vento. «Ma dove siete state?» «Uhm…» Voltandomi, le ho indicato l’autobus alle mie spalle. Faccio sempre fatica a tenere traccia del tempo che passa, ma Lucy è l’opposto. Lei è sempre pronta in ogni momento e vuole risultati subito. Il primo giorno del club di coding pensava di programmare un’app, anche se a volte ci vogliono anni per perfezionarne una. La sua impazienza può essere un po’ frustrante, a volte, ma non riesco a restare arrabbiata quando è così preziosa per tenere in riga il nostro gruppo. «Che fretta c’è?», ho chiesto. «Sì, è solo lunedì mattina», ha aggiunto Erin. «Non può essere accaduto nulla che riguardi la scuola, negli ultimi due giorni.» «Ricordate che la signora Clark voleva vederci prima dell’ora di aula studio?», ha risposto Lucy. «Per fare una foto di gruppo per il giornale?» Erin e io ci siamo lanciate uno sguardo di panico. «L’avevo completamente dimenticato!»
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«Anch’io!» «Beh, muoviamoci!» Lucy ci ha preso per mano, iniziando a trascinarci con sé. «Sophia e Leila stanno già aspettando.» E così tutte e tre siamo corse dentro la scuola – per la cronaca, non è affatto facile correre con gli stivali da pioggia ai piedi – abbiamo attraversato l’atrio e raggiunto il laboratorio di informatica. «Ci siamo!», ha gridato Erin, lasciandosi cadere e sdraiandosi a terra. «Sentitevi pure libere di mettervi in posa attorno a me.» «Oh, cielo», ha commentato la signora Clark. Il fotografo del giornale ha scattato una foto di Erin. Sophia ha sollevato un sopracciglio. «Da dove arrivate, dall’Alaska?» «Dallo… scuola… bus», ho risposto io, cercando di riprendere fiato. Sophia ha fatto un fischio. «Dobbiamo veramente rimettervi in forma.» Sophia è la più atletica delle mie amiche. Gioca a softball e fa l’assistente alla squadra maschile di football. «Grazie per essere arrivate così in fretta, ragazze», ha detto la signora Clark. «Il giornale vorrebbe fare un piccolo articolo da aggiungere alla foto, se per voi va bene.» Per me non era una notizia così eccitante, visto che lavoro al giornale scolastico, ma le ragazze erano emozionate e felici.
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«Assolutamente sì!», ha squittito Lucy. Melanie Eastwick, reporter del nostro giornale locale, si è alzata dalla sedia su cui sedeva. Indossava un cappello dalla cui fascia spuntava un bigliettino con scritto STAMPA. Era chiaro che prendeva il suo lavoro molto sul serio. Per prima ha avvicinato Leila, tenendo la penna sospesa sul suo taccuino per appunti, mentre il fotografo restava in attesa lì accanto. Leila ha dato una sistemata veloce al velo che indossava e ha cercato di sembrare a proprio agio. «Prima di tutto», ha esordito Melanie, «credo che quello che voi cinque state facendo per il “genere ragazze” di tutto il mondo sia fantastico». Leila ha aggrottato la fronte. «“Genere ragazze”? È una definizione che esiste davvero?» «Esisterà quando passerà la mia petizione», ha ammiccato Melanie. «Ora: lo state facendo per dimostrare che le ragazze hanno una marcia in più dei ragazzi?» La signora Clark si è schiarita la voce. «Melanie, non competiamo per dimostrare che le ragazze sono più in gamba dei ragazzi, o viceversa: lo facciamo per dimostrare che chiunque può eccellere nelle materie STEAM, a prescindere dal genere, dall’educazione o dall’origine.» Era vero. Prima di quest’anno Sophia, Lucy e io non sapevamo nulla di coding. Erin e Leila invece avevano già
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qualche base. Ed eravamo un gruppo eterogeneo anche su altri fronti: Lucy è afroamericana, Erin è bianca, la famiglia di Sophia arriva dal Sud America, la mia è di origine cinese e quella di Leila è pakistana. «Le materie STEAM sono davvero per tutti», ho concordato. Melanie intanto prendeva appunti. «E STEAM significa…?» «È un acronimo», ha risposto Erin, «indica gli ambiti di studio di scienza, tecnologia, ingegneria, arte e matematica». «Perfetto», ha risposto Melanie. «Chi di voi ha avuto l’idea del robot danzante? Era fantastico!» Per l’entusiasmo agitava la penna in aria. Noi ci siamo scambiate uno sguardo collettivo. «Beh, ci abbiamo pensato più o meno tutte», ha detto Lucy. «Sì», ha aggiunto Sophia. «Ognuna di noi ha pensato a una parte, ma è stato fondamentale lavorare insieme perché funzionasse.» «Ok, chiaro», ha detto Melanie. «Una squadra non è fatta di persone sole.» Leila ha aggrottato la fronte. «Beh… In realtà una squadra è fatta da tante persone diverse. Forse intendi dire che non accetta prime donne.» Melanie ha fatto un’espressione corrucciata. «No, voi siete tutte giovani donne.»
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«Ma…» L’espressione di Leila si è fatta ancora più perplessa. Le ho toccato una spalla. «Lascia stare», le ho sussurrato. Erin ha ridacchiato dalla sua posizione sul pavimento, vicino a me. Erin, Lucy, Sophia e io avevamo incontrato Leila quando il suo gruppo di lavoro aveva deciso di abbandonare il coding, lasciandola tutta sola. L’avevamo invitata a unirsi a noi – sapevamo che era davvero in gamba nella programmazione – e si era rivelata anche un’ottima amica. Melanie ci ha fatto qualche altra domanda, poi ha fatto cenno al fotografo. «E adesso le foto!» Ci siamo raggruppate accanto alla signora Clark. Melanie e il fotografo ci hanno accecato per bene con il flash della macchina fotografica e poi se ne sono andati. «Ragazze, lasciatemi dire ancora una volta quanto sono orgogliosa di voi», ha detto la signora Clark mentre raccoglievamo le nostre cose. «È stata una competizione difficile, e guadagnarsi una visita guidata a TechTown è un grosso riconoscimento.» Io e le mie amiche ci siamo scambiate un sorriso. «Magari oggi potremmo approfittare del club di coding per migliorare il nostro lavoro sulla robotica», ha detto Leila con voce speranzosa. La signora Clark le ha messo una mano su una spalla. «Lavorare per migliorarsi mi trova sempre d’accordo,
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ma per oggi pomeriggio ho in mente altro. E cioè…», si è guardata attorno, abbassando la voce, aggiungendo: «Una sorpresa!». Io e Sophia abbiamo lanciato un uuuh!; Lucy ha trattenuto il fiato, battendo le mani; Leila ed Erin hanno cercato di indovinare. «È una sorpresa che si può mangiare?» «Lavoreremo a un videogame?» La signora Clark è scoppiata a ridere. «No a entrambe le cose. Aspettate e vedrete!» La campanella della scuola è suonata proprio in quel momento. La professoressa ci ha spinto fuori in corridoio. «Ci vediamo oggi!», ha detto. «Di che sorpresa pensate si tratti?», ci ha chiesto Lucy, fuori dal laboratorio di informatica. «Qualunque cosa sia sarà abbastanza grande da bastare per tutti, altrimenti avrebbe detto una sorpresa per uno di voi», ha commentato Leila. «Giusto. Ma che cosa potrebbe sorprenderci tutti?», ha domandato Erin. «Sarei sorpresa se alla mensa usassero vera carne di manzo», ha detto Sophia. Abbiamo riso tutte. Anch’io ho detto la mia: «La signora Clark ha senso dell’umorismo, quindi sappiamo almeno che sarà divertente».
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Non mancava molto all’inizio delle lezioni, così Lucy, Sophia e Leila sono corse verso le rispettive classi. La mia era giusto dall’altra parte dell’atrio, così mi sono attardata un attimo con Erin, che stava prendendo un po’ d’acqua. «Spero che la sorpresa siano soldi», ho detto, appoggiandomi alla parete. «Sarebbe carino», ha risposto lei. «Potrei comprare qualcosa che piace a me, invece di dover sempre mettere vestiti scelti da mia madre.» Ha fatto un gesto verso di me. «Tua mamma ha buon gusto, sei fortunata.» Ho riso. «Questi li ho scelti io, non mia mamma.» Erin ha spalancato la bocca. «Nel senso che ti compra tutto quello che vuoi?» «No!» A quel punto ridevo di cuore. «Li ho comprati io, per la maggior parte.» «Come puoi permetterteli?» Erin ha stretto gli occhi. «Li rubi? Maya Chung, sei forse una ladra di moda?» Sapevo che scherzava, ma non ho potuto evitare di irrigidirmi, aggrottando la fronte. «No, non lo sono.» Erin ha spalancato gli occhi, poi mi ha messo la mano sulla spalla. «Maya, stavo scherzando, davvero.» Mi sono rilassata. «Ok. Perché tutto quello che indosso è stato comprato e pagato.» Erin ha annuito con tanta forza che gli occhiali le sono scivolati lungo il naso. «Certo!»
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«Ehi, Maya?» Ho sentito un assistente chiamarmi, avvicinandosi. «La preside vuole vederti.» Mi sono irrigidita di nuovo, questa volta per paura. «La preside? È sicuro che volesse me?» Lui ha ridacchiato. «C’è un’altra Maya Chung a scuola?» Ho guardato Erin, che ha fatto spallucce. «Magari vuole premiarti come Meglio Vestita della scuola.» «Sì, forse.» Non ero convinta. «Ci vediamo dopo.» Ho seguito l’assistente, e il cuore mi batteva così forte da sembrare assordante quasi quanto la campanella. La preside Stephens ha risposto con voce allegra, quando ho bussato alla porta del suo ufficio. L’ho preso come un buon segno. «Avanti», ha detto. Ho socchiuso la porta, mettendo dentro la testa. «Voleva vedermi?» «Sì!» Mi ha fatto cenno di entrare. «Oggi è il primo giorno di una nuova studentessa, e speravo che potessi mostrarle un po’ la scuola. Ho sentito che siete vecchie amiche.» Ho aperto la porta e ho visto chi era seduto sulla sedia di fronte alla scrivania della preside. Era Nicole Davis, la ladra.
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Capitolo Due S
ono rimasta a fissare Nicole a bocca aperta, consapevole che il mio unico saluto fino a quel momento era stato: «Uhhh». «Ciao Maya! È bellissimo vederti!» Nicole si è fatta avanti e mi ha abbracciato. Doveva aver dimenticato com’era scappata via quando ero stata beccata nel corso della nostra Grande Rapina al Centro Commerciale. «Uhhh», ho ripetuto, ma questa volta sono riuscita ad aggiungere: «Perché sei qui?». (Non ho detto: «Perché sei qui, vipera?». Cordiale, no?) Nicole si è fatta indietro, sorridendo ancora. «Per frequentare la scuola, sciocca! I miei genitori hanno appena comprato una casa vicino alle mie zie.» «Oh.» Ho annuito. «Grande.» Nicole ha finalmente colto la mia mancanza di entusiasmo e ha corrugato le sopracciglia. «Io pensavo che lo fosse, sì.»
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Il club di coding ha un nuovo entusiasmante progetto: programmare le luci e la musica per il ballo d’inverno! Nel frattempo, però, in città arriva Nicole, una vecchia amica di Maya. Nicole è ribelle, si caccia spesso nei guai e cerca continuamente l’attenzione di Maya, la sua unica amica nella nuova scuola, provando ad allontanarla dal club. Ma per il progetto del ballo d’inverno serve unire tutte le forze, e Maya capirà che il coding, come l’amicizia, significa esserci per gli amici quando hanno più bisogno di te!
ISBN 978-88-6966-385-7
€ 12,00
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Illustrazione di copertina di Andrea Fernandez
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