L'arte di essere normale

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- Per Isla

Lisa Williamson L’arte di essere normale Traduzione di Valentina Daniele Hotspot è un marchio di Editrice Il Castoro www.hotspotlibri.it © 2017 Editrice Il Castoro Srl viale Andrea Doria 7, 20124 Milano Pubblicato per la prima volta con il titolo The Art of Being Normal da David Flicking Books, Oxford Copyright © 2015 Lisa Wiliamson ISBN 978-88-6966-181-5


Lisa Williamson

L’arte di essere

Normale Traduzione di Valentina Daniele

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Un pomeriggio, quando avevo otto anni, tutti i bambini della mia classe hanno dovuto scrivere cosa volevano fare da grandi. Dopo, la signorina Box girava per l’aula facendoci alzare uno alla volta per leggere agli altri quello che avevamo scritto. Zachary Olsen voleva giocare in Premier League. Lexi Taylor voleva fare l’attrice. Harry Beaumont aveva in mente di diventare primo ministro. Simon Allen voleva essere Harry Potter, al punto che il trimestre prima si era fatto una saetta sulla fronte con un paio di forbici. Ma io non volevo essere nessuna di quelle cose. Ecco ciò che ho scritto: Io voglio essere una femmina.

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Gli invitati alla mia festa stanno cantando Tanti auguri a te. Non è un bel sentire. Livvy, mia sorella, quasi non canta. Ha undici anni e ha già deciso che le feste di compleanno in famiglia sono tragicamente imbarazzanti, quindi lascia che siano mamma e papà a strombazzare il resto della canzone, con la voce stridula da soprano di lei che fa a cazzotti con il basso continuo di lui. Il risultato è così brutto che Phil, il nostro cane, si alza dalla cesta e se ne va a metà, vagamente disgustato. Non posso dargli torto: tutta la festa è decisamente deprimente. Perfino i palloncini azzurri che mio padre ha gonfiato per tutta la mattina hanno un’aria pallida e triste, specie quelli con su scritto “sono quattordici!” con il pennarello nero. Non so nemmeno se il quadro deludente che ho davanti possa definirsi una festa. «Esprimi un desiderio!», dice mamma. Tiene la torta un po’ inclinata, in modo che io non veda che traballa. Sopra c’è scritto “Buon compleanno David!” con una glassa rosso sangue; le lettere di “anno” sono tutte appiccicate perché era finito lo spazio. Quattordici candeline azzurre sono disposte lungo il bordo e sgocciolano cera nella crema al burro. 2


«Sbrigati!», mi incalza Livvy. Ma non mi farò mettere fretta. Voglio fare le cose per bene. Mi chino in avanti, mi metto i capelli dietro le orecchie e chiudo gli occhi. Ignoro le lagne di Livvy, le lusinghe di mia madre e mio padre che pasticcia con le impostazioni della macchina fotografica, e all’improvviso i rumori sono lontani e attutiti, un po’ come quando metti la testa sott’acqua nella vasca. Aspetto qualche secondo prima di aprire gli occhi e spegnere tutte le candeline, in un colpo solo. Tutti applaudono. Mio padre cerca di far partire uno spara coriandoli ma non funziona, e quando ne trova un altro mia madre ha già aperto le tende e sta cominciando a togliere le candeline dalla torta. Il momento è passato. «Qual era il desiderio? Scommetto che era una cosa stupida», dice Livvy in tono accusatorio, rigirandosi una ciocca di capelli castano-dorati attorno al dito medio. «Non lo può dire, sciocchina, altrimenti non si avvera», replica mamma, portando la torta in cucina per tagliarla. «Esatto», dico a Livvy facendole la linguaccia. Che lei ricambia. «Mi ripeti dove sono i tuoi due amici?», chiede lei, calcando l’accento sul “due”. «Te l’ho detto, Felix è in Florida ed Essie è alle terme di Leamington.» «Che peccato», risponde senza la minima partecipazione. «Papà, quante persone sono venute quando ho fatto undici anni?» «Quarantacinque. Tutte sui pattini. Un massacro», mormora cupo papà, sfilando la memory card dalla macchina fotografica e mettendola nel portatile. La prima foto che appare sullo schermo è di me seduto a capotavola, con un enorme distintivo con su scritto “festeggia3


to” e un cappellino di cartone a punta. Ho gli occhi semichiusi e la fronte lucida. «Papà», gemo. «Devi farlo proprio adesso?» «Tolgo un po’ di occhi rossi prima di mandarle a tua nonna», ribatte lui, cliccando in giro. «Le è dispiaciuto tanto non poter venire.» Non è vero. Mia nonna il mercoledì sera ha il bridge e non lo salta per nessuno, figuriamoci per il nipote che le piace di meno. La sua preferita è Livvy. D’altra parte, Livvy è la preferita di tutti. Mamma aveva invitato anche zia Jane, zio Trevor e i miei cugini Keira e Alfie. Ma Alfie stamattina si è svegliato pieno di puntini sul petto, che forse sono varicella o forse no, perciò hanno dovuto declinare l’invito, lasciandoci a “festeggiare” in quattro. Mamma torna in soggiorno con la torta a fette e la posa sul tavolo. «Guarda quanti avanzi», dice esaminando contrariata i mucchi di stuzzichini appena intaccati. «Abbiamo rustici e pasticcini fino a Natale. Spero solo di avere abbastanza pellicola per metterli via.» Fantastico. Un frigo pieno che mi ricordi la piena misura in cui non mi si fila nessuno. Dopo la torta e una tornata intensiva di pellicola, tocca ai regali. Da mamma e papà arrivano uno zaino nuovo per la scuola, il cofanetto dei Dvd di Gossip Girl e un assegno da cento sterline. Livvy mi dà una scatola di Cadbury Heroes e una custodia rossa e lucida per l’iPhone. Poi ci sediamo tutti sul divano a guardare un film intitolato Quel pazzo venerdì. Parla di una madre e di una figlia che mangiano un biscotto della fortuna stregato che per magia le fa scambiare di corpo. Tutte e due imparano una preziosa lezione prima dell’inevitabile lieto fine, e per la centesima vol4


ta quest’estate constato con tristezza che la mia vita non è la trama di un frizzante film per ragazzini. Papà si addormenta a metà e comincia a russare sonoramente. Quella notte non riesco a dormire. Rimango sveglio così a lungo che gli occhi si abituano al buio e riesco a distinguere i poster alle pareti e l’ombra minuscola di una zanzara che sfreccia sul soffitto. Ho quattordici anni e il tempo sta per scadere.

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È l’ultimo venerdì delle vacanze estive. Lunedì torno a scuola. Ho quattordici anni da nove giorni esatti. Sono sul divano, con le tende chiuse. I miei sono al lavoro e Livvy è dalla sua migliore amica, Cressy. Sto guardando un vecchio episodio di America’s Next Top Model con un pacco di biscotti Maryland al doppio cioccolato in equilibrio sulla pancia. Tyra Banks ha appena detto ad Ashley che non sarà lei la prossima top model d’America. Ashley piange a dirotto e le altre ragazze l’abbracciano, anche se hanno passato quasi tutta la puntata a dire quanto la odiavano e quanto volevano che se ne andasse. La casa di America’s Next Top Model è a dir poco brutale. Le lacrime di Ashley sono interrotte dal rumore della chiave nella porta d’ingresso. Mi alzo a sedere e appoggio con cura il pacchetto di biscotti sul tavolino. «David, sono a casa», dice mia madre. È tornata presto dalla riunione. La sento togliersi le scarpe e posare la chiave nel piatto accanto alla porta. Prendo in fretta la coperta fatta all’uncinetto in fondo al divano, mi copro fino al mento e mi rimetto in posizione prima che entri in salotto. 6


Fa subito una delle sue facce. «Che c’è?», chiedo pulendomi la bocca dalle briciole di biscotto. «Magari sarebbe meglio aprire le tende, David», mi risponde lei con le mani sui fianchi. «Ma così non vedo bene lo schermo.» Mi ignora e va alla finestra per aprire le tende. Il sole del tardo pomeriggio invade la stanza e illumina l’aria polverosa. Mi contorco sul divano, coprendomi gli occhi. «Ma santo cielo, David», dice mia madre. «Non sei un vampiro, che cavolo.» «E tu che ne sai», mormoro. Lei scuote la testa. «Senti», dice indicando la finestra. «Fuori è una bella giornata. Mi stai dicendo sul serio che preferisci stare sdraiato su un divano al buio tutto il giorno?» «Esatto.» Lei stringe gli occhi e poi si siede sullo strapuntino del divano ai miei piedi. «Per forza sei così pallido», dice passando il dito sul lato del mio piede nudo. La scalcio via. «Preferiresti che stessi tutto il giorno al sole a farmi venire un melanoma?» «No, David», risponde mamma con un sospiro. «Quello che preferirei è vederti concludere qualcosa nelle vacanze estive, a parte stare in casa a guardare cretinate tutto il giorno. Se non stai guardando la Tv sei rintanato nella tua stanza, davanti al computer.» Il telefono squilla. Salvato dalla campanella. Quando mia madre si alza l’anello le si impiglia nella coperta. Mi lancio in avanti per prenderla ma è troppo tardi: lei già mi guarda con aria interrogativa. 7


«David, quella è la mia camicia da notte?» È quella che ha portato in ospedale quando è nata Livvy. Non credo che da allora l’abbia più messa; lei e papà di solito dormono nudi. Lo so perché le volte in cui li ho incontrati sul pianerottolo nel cuore della notte sono state sufficienti a segnarmi a vita. «Ho pensato che sarei stato più fresco», mi affretto a rispondere. «Tipo quei vestiti lunghi bianchi che portano gli arabi, hai presente?» «Mmmmh», fa mamma. «Non rispondi?», dico indicando il telefono. Mi tengo la camicia da notte anche a cena, pensando di destare meno sospetti. «Certo che sei proprio strambo, tu», commenta Livvy, stringendo gli occhi con leggero disgusto. «Livvy, basta», dice mamma. «Ma è vero!», protesta lei. I miei si scambiano un’occhiata. Io mi concentro con tutte le mie forze nel mantenere in equilibrio i piselli sulla forchetta. Dopo cena vado di sopra. Tiro fuori la lista che ho fatto all’inizio dell’estate e mi siedo a gambe incrociate con il foglio davanti. Obiettivi di David Piper per l’estate: 1. Farmi crescere i capelli tanto da farmi la coda 2. Guardare tutte le stagioni di Project Runway in ordine cronologico 3. Battere papà a tennis con la Wii 4. Insegnare a Phil a ballare così andiamo a Britain’s Got 8


Talent l’anno prossimo e vinciamo 250.000 sterline 5. Finire i compiti di geografia 6. Dirlo a mamma e papà Ho avuto un’intera settimana di gloria in cui sono riuscito a legarmi i capelli in una minuscola coda. Ma il regolamento della scuola dice che i ragazzi non possono avere i capelli che superano il colletto, perciò la settimana scorsa mamma mi ha portato dal parrucchiere per farmi tagliare tutto. I punti due e tre li avevo raggiunti senza sforzo nelle prime due settimane di vacanza. Mi ero reso conto quasi subito che il punto quattro era una causa persa: Phil non è un talento naturale. I punti cinque e sei li avevo posticipati, a turno. Il sei l’ho provato e riprovato. Ho tutto un discorso pronto. Lo recito fra me sotto la doccia e lo ripeto a bassa voce al buio quando sono a letto. L’altro giorno ho messo a sedere sul cuscino i miei vecchi giocattoli, Big Ted e Barbie Sirena, e gliel’ho recitato tutto. Sono stati molto comprensivi. Ho anche provato a scriverlo. Se i miei genitori avessero cercato bene avrebbero trovato una gran quantità di bozze non finite ammucchiate nei cassetti della mia scrivania. La settimana scorsa, però, sono arrivato in fondo a una lettera. Non solo: l’ho quasi infilata sotto la porta della stanza dei miei. Ero lì davanti, chino sulla lama sottile di luce, e li ascoltavo mentre si preparavano per andare a letto. Mi sarebbe bastato dare una spintarella, ed era fatta; il mio segreto sarebbe stato lì sulla moquette, pronto per essere scoperto. Ma in quel momento la mia mano era come paralizzata. Alla fine non ce l’ho fatta, e dopo un secondo ero di nuovo in camera mia, con la lettera ancora in mano e il cuore che mi batteva all’impazzata. Ai miei genitori piace pensare di essere molto aperti e in 9


gamba, perché una volta hanno visto i Red Hot Chili Peppers dal vivo al festival di Glastonbury e alle ultime elezioni hanno votato per i Verdi, ma io non ne sono tanto sicuro. Quando ero più piccolo li sentivo spesso parlare di me, quando pensavano che non li ascoltassi. Parlavano a voce bassa e dicevano che era solo una “fase”, che crescendo mi sarebbe “passata”; proprio come si dice di un bambino che fa la pipì a letto. Essie e Felix lo sanno, ovviamente. Noi tre ci diciamo tutto. Ecco perché quest’estate è stata così difficile. Senza poter parlare con loro mi sembrava di essere sul punto di esplodere. Ma il fatto che lo sappiano Essie e Felix non basta. Perché possa cambiare qualcosa, devo dirlo a mamma e papà. Domani. Glielo dirò domani. Dopo aver finito i compiti di geografia. Scendo dal letto, apro la porta di qualche centimetro e resto in ascolto. Mamma, papà e Livvy sono di sotto a guardare la Tv. Il suono attutito delle risate registrate arriva su per le scale. Anche se sono sicuro che non si muoveranno fino alla fine del programma, spingo la scrivania sotto la maniglia della porta. Non mi disturberanno. Soddisfatto, tiro fuori il taccuino viola e il metro a nastro che tengo chiusi a chiave nella scatola di metallo in fondo al cassetto dei calzini. Mi piazzo davanti allo specchio dietro la porta di camera mia, mi tolgo la maglietta, poi i jeans e le mutande. Urge un’ispezione. Come al solito inizio premendomi le mani sul petto. Vorrei che fosse morbido ed elastico, ma il muscolo sotto la pelle sembra fatto di pietra. Prendo il metro a nastro e me lo avvolgo intorno ai fianchi. Nessun cambiamento. Sono come un righello umano. Il contrario di mamma, che è tutta curve carnose, fianchi, sedere e tette. 10


Poi mi metto accanto alla porta e mi misuro in altezza. Centosessantotto centimetri. Nessun cambiamento, nemmeno qui. Mi concedo un minuscolo sospiro di sollievo. Mi sposto in basso, verso il pene, che odio con tutto il cuore. Odio tutto di lui: le dimensioni, il colore, la sensazione di sentirlo appeso lì, il fatto che viva di vita propria. Scopro che è cresciuto di ben due millimetri, dalla settimana scorsa. Lo misuro due volte, ma il metro non mente. Prendo nota, contrariato. Mi avvicino allo specchio, arrivo con il naso a un paio di centimetri dal vetro e devo resistere all’impulso di incrociare gli occhi. Prima mi passo le dita su mento e guance. Certi giorni giuro che riesco a sentire la barba che preme per uscire dalla pelle, dura e ispida, ma per ora almeno la superficie rimane liscia e intatta. Spingo le labbra in avanti e vorrei tanto che fossero più piene e più rosa. Ho le labbra di mio padre: sottili, con l’arco di cupido appuntito. Purtroppo, a quanto pare, ho ereditato più o meno tutto da papà. Sorvolo sui capelli (color fango e ingovernabili, per quanto gel ci metta), sugli occhi (grigi, noiosi), sul naso (più o meno a punta) e le orecchie (in fuori), e invece mi volto lentamente di tre quarti per ammirare gli zigomi. Sono alti e sporgenti, l’unica parte della mia faccia che mi piace. Da ultimo, esamino mani e piedi. A volte penso di odiarli più di tutto il resto, forse ancora più delle mie parti intime, perché sono sempre lì in mostra. Sono goffi, pelosi e così pallidi da essere quasi trasparenti, come se la pelle fosse uno strato di pasta sottile tesa sulle vene blu e sulle dita ossute. E la cosa peggiore è che sono enormi, e diventano sempre più enormi. Le scarpe nuove per la scuola sono due numeri più grandi di quelle dell’anno scorso. Quando le ho provate da Clarks, all’inizio delle vacanze, sembravo un pagliaccio del circo. 11


Do un’ultima occhiata allo sconosciuto nello specchio, che ricambia lo sguardo. Rabbrividisco. L’ispezione di questa settimana è finita.

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«Leo!» Tia, la mia sorellina, mi chiama da sotto. Chiudo gli occhi e cerco di ignorarla. Fa caldo. Fa caldo da giorni ormai. Il termometro appeso in cucina segna trentatré gradi. Ho tutte le finestre e le porte aperte e sto ancora morendo. Sono sul letto di Amber, la mia gemella, e succhio un ghiacciolo al lampone. Mi ha fatto diventare la lingua di un blu acceso. Non lo so perché. L’ultima volta che li ho visti, i lamponi erano rossi. Di notte dormo nel letto di sotto perché Amber dice che le viene la claustrofobia, ma quando lei non c’è mi piace stare nel suo letto. Se ti metti con la testa verso la finestra non vedi le altre case con i bidoni della spazzatura o la vecchia matta di fronte che urla per ore nel giardino. Vedi solo il cielo e le cime degli alberi, e se ti concentri abbastanza riesci quasi a convincerti di non essere a Cloverdale. «Leo!», grida di nuovo Tia. Sospiro e mi siedo. Tia ha sette anni ed è una rompiscatole assoluta. Per il compleanno mamma le ha regalato un paio di scarpe con i tacchi e quando non guarda la televisione se le mette e gira per casa, parlando con l’accento americano. Il padre di Tia si chiama Tony. È in carcere per aver venduto roba rubata.

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Mio padre si chiama Jimmy e mi manca. «Leo, ho fame!», urla Tia. «Mangia qualcosa!» «Ma non c’è niente!» «Arrangiati!» Tia comincia a piangere. Da spaccare i timpani. Io sospiro e mi tiro su dal letto. La trovo in fondo alle scale, con i lacrimoni che le scorrono sulla faccia. È bassa, per avere sette anni, e magra come un chiodo. Appena mi vede smette di piangere e mi fa un sorrisone ebete. Mi segue in cucina, che è un casino; il lavello è pieno di piatti. Cerco in tutti i pensili e in frigo. Tia ha ragione, la cucina è vuota e Dio sa a che ora torna mamma. È uscita poco prima di pranzo dicendo che andava al bingo con zia Kerry. Nel barattolo non ci sono soldi, così tolgo i cuscini dal divano e cerco nell’oblò della lavatrice e nelle tasche di tutte le giacche appese all’ingresso. Mettiamo insieme le monete sul tavolino. Non male: quattro sterline e ottantadue. «Stai qui e non aprire a nessuno», dico a Tia. Se la portassi con me mi rallenterebbe e basta. Infilo la felpa con il cappuccio e cammino veloce, a testa bassa, con il sudore che mi cola lungo la schiena e sui fianchi. Fuori dal negozio c’è un gruppo di ragazzi della mia vecchia scuola. Per fortuna sono distratti ad armeggiare con le bici, così mi tiro su il cappuccio e mi chiudo tutta la lampo, in modo che si vedano solo gli occhi. Compro delle focaccine, una bibita gassata, detersivo per piatti e un rotolo al cioccolato scaduto. Quando torno a casa metto su il Dvd di Rapunzel per Tia, le do la bibita e una fetta di rotolo al cioccolato mentre lavo le pentole e metto un paio di focaccine nel tostapane. Quando mi siedo sul

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divano Tia viene da me e mi stampa un bacio umido sulla guancia. Ha la bocca tutta cioccolatosa. «Va’ viaaa», le dico, ma lei mi rimane aggrappata addosso come una scimmia e io sono troppo stanco per resistere. Odora di sale e aceto, cioè delle patatine che ha mangiato a colazione. Più tardi, la sera, la metto a letto. Mamma non è ancora tornata e Amber rimane da Carl, il suo ragazzo. Carl ha sedici anni, uno più di noi. Amber l’ha conosciuto l’anno scorso alla pista di pattinaggio su ghiaccio al coperto, in città. Lei stava cazzeggiando, voleva pattinare all’indietro e ha sbattuto la testa sul ghiaccio. Carl l’ha soccorsa e le ha comprato uno Slush Puppy alla ciliegia. Amber dice che è stata come la scena di un film. A volte riesce a essere davvero melensa. Ma quando non è melensa, è dura come una pietra. Sto guardando un film d’azione cretino alla Tv, con armi ed esplosioni. È quasi finito quando vedo accendersi la luce fuori dalla porta. Mi tiro su. Vedo ombre dietro il vetro smerigliato. Mamma ride e non riesce a infilare la chiave nella toppa. Sento una seconda risata… maschile. Fantastico. Armeggiano ancora un po’ con la serratura. La porta finalmente si apre e loro si siedono sui gradini, ridacchiando. Mamma alza la testa e si accorge che li sto guardando. Appoggia una mano malferma sullo stipite della porta e mi rifila un’occhiataccia. «Che ci fai in piedi?», chiede chiudendosi la porta alle spalle con una pedata. Mi stringo nelle spalle. Anche il tizio si alza, pulendosi le mani sui jeans. Non lo riconosco. «Tutto bene?», mi fa tendendo la destra. «Spike, piacere.» Spike ha i capelli nerissimi e una giacca di pelle consumata. Ha un accento strano. Quando dice che viene da “qui, lì e dappertutto” mamma attacca a ridere come se avesse fatto una battuta molto di-

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vertente. Va in cucina a prendergli da bere. Spike si siede sul divano, si toglie le scarpe e appoggia i piedi sul tavolino. Ha i calzini spaiati. «E tu chi sei?», chiede agitando le dita dei piedi e intrecciando le mani dietro la testa. «Non sono affari tuoi», rispondo. Mamma ritorna con una lattina di Strongbow in ciascuna mano. «Non essere maleducato», dice porgendone una a Spike. «Di’ a Spike come ti chiami.» «Leo», rispondo alzando gli occhi al cielo. «Ti ho visto, sai!», abbaia mamma. Beve un sorso di sidro e si rivolge a Spike. «Ah, questo qui ha un caratterino che non ti dico. Non so da chi ha preso. Da suo padre, mi sa.» «Non parlare così di mio padre», ribatto. «Io parlo di lui come mi pare, grazie tante», replica mamma rovistando nella borsa. «È un bastardo buono a nulla.» «Non. È. Vero.», ringhio scandendo le parole. «Ah sì?», continua lei accendendosi una sigaretta e aspirando avidamente una boccata. «Allora dov’è? Se è tanto favoloso dove cazzo sta eh, Leo?» Non so risponderle. «Appunto», conclude lei bevendo trionfante un sorso di sidro. Sento arrivare il familiare nodo allo stomaco, la tensione in tutto il corpo, la pelle che diventa calda e appiccicosa, la vista che si annebbia. Cerco di usare le tecniche che mi ha insegnato Jenny: sciogliere le spalle, contare fino a dieci, chiudere gli occhi, immaginarmi su una spiaggia deserta, eccetera. Quando li riapro mamma e Spike sono passati sul divano e ridacchiano come se non fossi nemmeno nella stanza. Spike le ha infilato la mano sotto la camicetta e lei gli bisbiglia qualcosa all’orecchio. Si accorge che li sto guardando e si ferma.

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«E tu che hai da guardare?», chiede. «Niente», mormoro. «Allora sparisci.» Non è una richiesta. Sbatto la porta del soggiorno così forte che trema tutta la casa.

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La leggenda di famiglia racconta che a mamma si sono rotte le acque mentre aspettava di ritirare un ordine di pollo bhuna, riso pilau e peshawari naan al Taj Mahal Curry House in Spring Street. La stessa leggenda dice che aveva ancora in mano il naan quando è nata Amber, un’ora più tardi. Per me ci è voluta un’altra mezz’ora. Zia Kerry dice che mi hanno dovuto tirare fuori con il forcipe. Secondo me già sapevo era meglio restare dov’ero. Il primo ricordo che ho è di mio padre che mi cambia il pannolino. Amber dice che non è possibile ricordarsi cose così lontane nel tempo, ma si sbaglia. Nel mio ricordo sono sul pavimento del soggiorno e la Tv è accesa dietro le spalle di papà. Lui sta cantando. Non una canzone vera, solo una sciocchezza inventata. Ha una bella voce. È un ricordo breve, appena qualche secondo, ma è reale. Dopo, il primo ricordo risale a quando ho fatto cadere dal tavolo la tazza di tè di mamma e mi sono scottato il petto. Ho ancora la cicatrice. Ha la forma di un’aquila con mezza ala in meno. Avevo poco più di due anni allora, e papà se n’era andato già da un pezzo. Vorrei ricordare più cose di lui ma non ci riesco: ho in mente solo quella scena. Ovviamente ho provato a cercarlo su internet, ma ci

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sono centinaia di James Denton in giro, e finora non ho trovato quello giusto. Chissà cosa direbbe se mi vedesse ora, davanti allo specchio del bagno, con la giacca dell’uniforme della Eden Park School sopra la maglietta. È la sera dopo, l’ultimo giorno delle vacanze estive. Mamma ha chiamato la lavanderia dove lavora per darsi malata e ha passato tutto il giorno a letto con “l’emicrania”. Adesso però mi sa che sta meglio, perché dieci minuti fa l’ho vista uscire e salire su una macchina bianca arrugginita, con Spike al volante. Non che me ne freghi qualcosa. Guardo la persona estranea ed elegante nello specchio. È la prima volta che mi provo la giacca da quando sono iniziate le vacanze estive, ed è strano quanto sembri diverso. Alla Cloverdale School non si portano giacche, solo felpe gialle e blu che si smollano tutte al primo lavaggio. Quando ho fatto vedere la giacca a mamma lei è scoppiata a ridere. «Porco mondo, sembri un pappone!», ha detto, poi ha acceso la Tv. Raddrizzo i baveri e rilasso le spalle. Ho ordinato una misura più grande, mi va un po’ larga. Ma va bene così, sotto ci posso mettere una felpa. Ha un odore diverso dagli altri miei vestiti, sa di nuovo e di costoso. È bordeaux, con righine blu scuro e uno stemma sul taschino destro, con il motto della scuola ricamato sotto: “aequitatem et inceptum”. L’altro giorno sono andato in biblioteca a cercare su internet cosa significa. A quanto pare è latino e vuol dire “lealtà e iniziativa”. Vedremo. Io e mamma ci siamo andati per una riunione, in primavera. Eden Park era proprio come lo immaginavo, tutto verde e curato, con viali alberati e piccoli caffè che vendevano roba bio e fatta in casa. È una scuola statale, proprio come Cloverdale, ma le somiglianze finiscono lì. Non solo era diverso l’aspetto, con gli edifici

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eleganti e i prati ben tenuti, ma anche l’aria che si respirava: tutto era pulito e ordinato. Anni luce lontano da Cloverdale. Con noi è venuta anche Jenny, la mia terapeuta. Mamma si è messa a parlare con quella voce strana, che secondo lei la fa sembrare raffinata. La usa con medici e insegnanti, quando cerca di darsi un tono. Abbiamo parlato con il signor Toolan, il preside, con la signora Hannah, capo del sostegno pastorale, e con la signora Sherwin, l’insegnante di riferimento per l’undicesimo anno. Hanno fatto un sacco di domande, poi io e mamma abbiamo aspettato fuori mentre loro parlavano con Jenny. Qualche alunno è passato e ci ha guardato strano. Avevano l’aria di gente ricca. Si capiva dalle uniformi ben stirate, dai capelli lucidi e dagli zaini Hollister. Io e mamma dovevamo saltare all’occhio come una mosca sulla panna. Dopo molte altre chiacchiere e domande, mi hanno offerto un posto per l’undicesimo anno. Jenny era molto emozionata per me. A quanto pareva la gente cambiava casa, pur di poter iscrivere i figli alla Eden Park. Jenny dice che sarà un “nuovo inizio” e “l’occasione di fare amicizie”. È un’ossessione, per lei. Parla del mio “isolamento sociale” come se fosse una malattia contagiosa. Dopo tanti anni non ha ancora capito che l’isolamento sociale è proprio quello che cerco. «Leo?» Esco in corridoio. La porta della stanza di Tia è socchiusa come al solito, così riesce a vedere la luce sul pianerottolo. «Leo?», ripete, stavolta più forte. Sospiro ed entro. La stanza di Tia è minuscola ed è un caos totale, con vestiti e peluche sparsi ovunque e scarabocchi sui muri fatti con le matite colorate. Lei è seduta a gambe incrociate sotto il piumone ereditato da Amber. Una volta c’erano stampate sopra delle fatine dei fiori, ma ora è talmente sbiadito e consumato che ad alcune

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manca la faccia, o qualche arto, e al loro posto è rimasto un alone bianco e spettrale. «Che vuoi?», le chiedo svogliato. «Mi rimbocchi le coperte?» Sospiro e mi inginocchio accanto al letto. Tia, raggiante, si sdraia. Ha il moccio nel nasino. Le tiro su il piumone fino al mento e faccio per andarmene. «Così non va bene», si lagna lei. Sbuffo. «Ti prego, Leo.» «Che strazio, Tia.» Mi chino di nuovo e le rimbocco il piumone tutto intorno al corpicino scheletrico, finché non sembra una mummia. «Così va bene?», le chiedo. «Perfetto.» «Me ne posso andare adesso?» Lei fa su e giù con la testa. Mi alzo. «Leo?» «Che c’è?» «È bella, la giacca.» Mi guardo. Ce l’ho ancora addosso. «Ti piace?» «Sì, mi piace. Sei proprio bello, sembri il principe Eric della Sirenetta.» Scuoto la testa. «Grazie, Tia.» Lei sorride tranquilla e chiude gli occhi. «Prego.»

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Voglio che questo momento duri qualche secondo in più. Solo io e lo specchio. E finalmente quello che vedo nello specchio mi piace.


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